La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 21.01.2010, particolarmente succosa
Le aperture
Corriere della Sera: “Sì al processo breve tra le accuse”, “Berlusconi: nei tribunali contro di me plotoni di esecuzione”. A centro pagina una foto da Haiti sul salvataggio dalle macerie di alcune persone a distanza di otto giorni dal terremoto. E poi un titolo su un emendamento approvato dalla commissione Lavoro della Camera: “La scuola dell’obbligo può durare meno: al lavoro a 15 anni”. Spazio in prima anche per il prsidente Usa: “Obama va al tappeto e teme per le riforme” (dopo la perdita del seggio democratico senatoriale un tempo occupato da Ted Kennedy).
La Repubblica apre sintetizzando le parole del premier: “Il processo breve non mi basta”, “Berlusconi: ‘Contro di me plotoni d’esecuzione’. Sì del Senato alla legge”. Il provvedimento “approvato tra le proteste dell’opposizione. I magistrati: ‘E’ un’amnistia di fatto’. Di Pietro: ‘Spero in Napolitano’”. Un intervento in prima pagina dello scrittore Roberto Saviano: “Cittadini senza giustizia”.A centro pagina la foto del senatore che Usa che ha sfilato il seggio ai democratici, Scotto Brown, e il titolo: “Obama dopo la sconfitta: ‘Pronto a trattare sulla sanità”.
Il Giornale: “Sciopero vietato ai negri”, “Gli stranieri che lavorano in Italia vorrebbero incrociare le braccia il primo marzo per far vedere quanto contano. Ma Cgil, Cisl e Uil dicono no: temono di perdere i lloro potere”. Il sindacato spiega che l’idea di una protesta ‘etnica’ non piace ai sindacati, secondo cui servono contenuti più precisi.
La foto in prima pagina è per Eugenio Scalfari, perché si spiega che da parlamentare apprezzò l’istituto dell’immunità (si parla del 1968, inchiesta Sifar-De Lorenzo).
In basso: “Il Pdl lancia Brunetta: sindaco a Venezia”.
Libero: “Il caso Emma Bonino”, “Abortista e presidente”. E si spiega: “La candidata del Pd nel Lazio praticava aborti e se ne vantava. Per questo fu arrestata. Si fece pure riprendere mentre aspirava un feto”. Il quotidiano promette “la foto e la storia che nessuno vuol ricordare”.
La Stampa: “Processo breve, sì con rissa”, “Via libera al Senato. Nuovo attacco di Berlusconi ai giudici: sono plotoni di esecuzione. E candida Brunetta sindaco di Venezia. Regionali: intesa Pdl-Udc solo a livello locale”. A centro pagina il senatore repubblicano Scott Brown in felpa e jeans. Analisi di Alberto Bisin: “Il ceto medio avvisa Barack”.
Il Sole 24 Ore: “Italia Paese forte del G-20”. Si parla di una ricerca Aspen-Fondazione Edison sull’economia mondiale secondo cui la Cina sarà il Paese più forte nel 2041.
Un titolo anche sulla perdita del seggio democrat: “Obama battuto. Ritorna in forse la riforma della Sanità”. E Alberto Alesina spiega “perché i repubblicani hanno vinto”: “La rivolta degli yankees, ‘Non vogliamo tasse più alte’”.
Anche Il Foglio spiega “come hanno fatto i democratici a perdere giocando in casa”: “le forze del cambiamento -ha scritto Politico.com- adesso hanno preso di mira Obama perché c’è lui in carica”.
Sulla politica interna iil quotidiano scrive che “Il Cav. dà di opportunista a Casini ma (forse) non farà saltare gli accordi”.
Obama
Secondo Simon Shama, che sul Sole 24 Ore firma una analisi della sconfitta democratica in Massachusetts, “Obama inciampa sul populismo. L’amministrazione americana paga il politicamente corretto del primo anno di attività”, ma, anche se la presidenza è in difficoltà, “la storia è tutt’altro che finita”. Schama ricorda che altri presidenti cominciarono con delle sconfitte (la Baia dei porci per Kennedy, lo stop alla riforma sanitaria per Clinton), e l’eccezione fu quella di Roosevelt, ma in un contesto in cui poteva contare su maggioranze parlamentari larghissime. Obama dovrebbe – secondo Schama – tornare a “sporcarsi le mani con la demagogia”, perché “la politica americana si nutre di rabbia e rumore”, e compito di Obama “è dargli un significato”. Il rischio altrimenti è che il suo governo “perirà per effetto della propria stessa nobile schizzinosità”.
Della situazione economica Usa e di Obama si occupa in prima pagina l’editoriale di Massimo Gaggi: “La battaglia del tè”.Il riferimento è alla nuova destra del Tea Party, il nuovo movimento che prende il nome dalla ribellione anti-inglese del 1773.
Sulla Repubblica si parla della “irresistibile ascesa” del Tea Party, alla radicale e movimentista, populista, antitasse e antistato che ha trionfato nel Massachusetts. Sottovalutato dai liberal, è diventato protagonista della riscossa repubblicana. Per un crudele scherzo del destino è proprio nella Boston ex progressista che ha trovato riferimento storico per brevettare la propria etichetta.
Sul Corriere della Sera si scrive che Obama è pronto al compromesso sulla sanità e intende trovare un accordo con i Repubblicani. Nelle foto delle proteste del Tea Party a New York i manifestanti inalberano un ritratto di George Washington e un cartello in cui la O di Obama è rimpiazzata da una falce e martello.
Processo breve
Sulla ragionevole durata dei processi, dopo il voto del Senato alla legge sul processo breve, Il Sole 24 Ore sente i pareri di tre ex presidenti della Corte Costituzionale. Annibale Marini (“Perché sì) dice che si tratta di una legge “non solo opportuna ma anche necessaria”, e nega che ci siano rischi di incostituzionalità. “Se c’era un discorso di incostituzionalità era nel sistema attuale. Cito ad esempio il caso del processo all’onorevole Mannino, che ha avuto una durata scandalosa che violava non solo la Costituzione ma anche la Convenzione europea”. Cesare Mirabelli invece dice che se la Costituzione prevede una ragionevole durata del processo, è pur vero che, con il ddl licenziato ieri, “nasce una sorta di prescrizione processuale”. Secondo Valerio Onida infine per il tempo eccessivo bastava la prescrizione, ed è per certi versi un’amnistia, “visto che si arriva ad una estinzione del processo”. Una analisi di Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera evidenzia che mai prima d’ora in Parlamento “una norma retroattiva si appresta ad avere l’immediato effetto di far evaporare non due figure di reato o due prove di accusa, ma addirittura due interi processi del premier, già a metà del loro percorso verso la sentenza di primo grado: quelli nei quali il Presidente del Consiglio è imputato di frode fiscale sui diritti tv Mediaset, e di corruzione in atti giudiziari del testimone David Mills”. E manca una coerente e sistematica riforma della giustizia.
Secondo lo stesso quotidiano il Presidente Napolitano sta aspettando i pareri del suo ufficio giuridico, impegnato a valutare in particolare l’impatto che la norma transitoria che azzera i processi per i reati commessi prima del 2006, già coperti dal vecchio indulto. Si tratterebbe infatti di una amnistia di fatto non votata però, questa volta, dai due terzi del Parlamento, che avrebbe l’effetto di cancellare migliaia di procedimenti, negando giustizia a migliaia di italiana.
Regionali
Per La Repubblica, “Ruini vuole un patto Casini – Cavaliere, ma Silvio teme il modello Polverini”, perché la candidata Pdl è più indietro rispetto alla sua coalizione: avrebbe il 48 per cento, mentre il Pdl che la sostiene sarebbe al 53. Si tratta della situazione opposta rispetto alla Bonino, che ha un gruzzolo del 46 per cento, laddove il centrosinistra ha un 42 per cento. Il titolo si riferisce all’incontro a pranzo tra il premier e il cardinale Camillo Ruini, che per 15 anni ha guidato la Cei.
Il Pdl sarà alleato dell’Udc nel Lazio, in Campania e in Calabria. In Puglia pare verrà candidato il giornalista Rai Attilio Romita, mentre in Basilicata Magdi Allam (ma si parla ancora di altre candidature, come quella di Stefano Dambruoso).
Sul Corriere della Sera un titolo secondo cui le scelte di Casini non piacciono in Vaticano. Dall’analisi emerge che la linea dura di Berlusconi contro i centristi “per la prima volta” non sarebbe prevalsa nel Pdl: lui puntava a logorare il “doppiofornista” Casini per erodere il voto di “utilità marginale dell’udc”, pari al 2 per cento.
E poi
Alle pagine della cultura del Corriere della Sera un intervento di Giuliano Amato: “Dove si incontrano fede e politica. La secolarizzazione non annulla il sacro, anzi può indurre a riscoprirlo. Amato discute le tesi del filosofo Fred Dallmayr sul dialogo tra le culture. E l’intervento è la sua prefazione, pubblicata dalla rivista Reset.
“Addio notizie gratis online. La svolta del NyTimes”. La novità verrà introdotta a partire dal prossimo anno. Ne parlano La Repubblica e La Stampa.
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A 15 anni al lavoro, invece che in classe
Monica Maro, 20.01.2010
L’ultimo anno di scuola dell’obbligo si potrà fare anche con l’apprendistato. A prevederlo è un emendamento del relatore del ddl lavoro, Giuliano Cazzola, approvato oggi dalla commissione Lavoro della Camera. Il testo, che è ora al parere delle altre commissioni, prevede che “l’obbligo di istruzione” si possa assolvere “anche nei percorsi di apprendistato per l’espletamento del diritto dovere di istruzione e formazione”
L’obbligo di istruzione (innalzato a 16 anni dalla Finanziaria del 2006) “si assolve anche nei percorsi di apprendistato”. Recita così l’emendamento della discordia, quello votato oggi in commissione Lavoro alla Camera come modifica al ddl sui lavori usuranti collegato alla Finanziaria. Autore dell’emendamento, che contiene uno dei cavalli di battaglia del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, è il relatore del ddl Giuliano Cazzola (Pdl).
Se il testo passerà (il ddl arriva in aula alla Camera lunedì e contiene molte altre norme, dall’innalzamento dell’età pensionabile per i dirigenti sanitari all’allungamento dei tempi della riforma degli ammortizzatori sociali il cui varo è possibile fino a 2 anni dopo l’approvazione del Ddl ) si potrà andare a lavorare a 15 anni e utilizzare l’apprendistato per coprire l’ultimo anno obbligatorio di scuola.
Per Cazzola, chi fa l’apprendistato a 15 anni “non è obbligato a rinunciare alla sua istruzione, è solo una possibilità che viene offerta. Anche perché l’innalzamento a 16 anni dell’obbligo scolastico non ha alcuna espressione di carattere curricolare. Allo studente non resta in mano nulla dopo quei due anni di scuola dai 14 ai 16 anni. Al massimo può fare una formazione di base che non da’ nulla. Tanto vale andare a lavorare”.
L’assolvimento dell’obbligo scolastico con l’apprendistato era già stato previsto nel maxiemendamento alla Finanziaria, ma poi era stato eliminato per estraneità alla materia della legge di Bilancio. Il governo (vedi alla voce Sacconi) ha dunque chiesto di recuperarlo e inserirlo nel ddl sui lavori usuranti.
Disco verde dal ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, la quale ha dichiarato che “secondo una condivisa linea governativa”, il ministero dell’Istruzione “è favorevole a ogni iniziativa, anche legislativa, che favorisca la transizione tra scuola e lavoro, consentendo così ai giovani di disporre delle competenze necessarie per trovare un’occupazione”.
Oggi, inoltre, si è insediato il Comitato per l’alternanza scuola-lavoro, a cinque anni dal decreto legislativo che l’aveva istituito. Il Comitato dovrà definire i criteri generali per l’organizzazione e la fruizione di percorsi formativi in ambito scolastico e lavorativo. Dunque, per il ministro Gelmini, l’assolvimento dell’obbligo di istruzione attraverso un vero contratto di lavoro, retribuito secondo i contratti collettivi di lavoro, rappresenterebbe “una possibilità ulteriore di contrasto al fenomeno della dispersione scolastica”.
Ma il provvedimento approvato in Commissione, come è ovvio che sia, allarma e non poco gli attori sociali. “Non è con l’abbassamento dei diritti o con la propaganda che si affrontano temi centrali come il lavoro dei giovani e la lotta al sommerso”, tuona il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni. “L’abbassamento dell’obbligo scolastico a quindici anni attraverso l’apprendistato è – secondo Fammoni – sbagliato dal versante formativo, e per questo non deve essere approvato, ma è altrettanto grave che si tenti in questo modo di superare surrettiziamente attraverso questa via anche l’età minima per lavorare, fissata per legge a 16 anni”.
“La maggioranza e il ministro Sacconi hanno deciso di fare carta straccia dell’obbligo scolastico”. Ad affermarlo Giuseppe Fioroni, responsabile area Welfare del Pd.
“E’ inaccettabile – dice Fioroni – che invece di intensificare gli sforzi per collegare la fase educativa alla formazione e mettere in grado i ragazzi italiani di poter competere ad armi pari con i loro colleghi nel resto del mondo, qui si decida di fare un salto all’indietro così macroscopico”.
“Ricordo a questa lungimirante maggioranza – prosegue Fioroni – che, fino a prova contraria, le leggi vigenti prevedono l’obbligo di andare a scuola fino a 16 anni e il buon senso dovrebbe suggerire, proprio nei momenti di crisi economiche violente come quella che ancora attraversiamo, di intensificare la preparazione anche come misura di contenimento degli effetti sociali della crisi, non di giocare al ribasso”.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13977
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Processo breve, primo sì
Francesco Scommi, 20.01.2010
L’Aula di Palazzo Madama dà il primo via libera al provvedimento che, stabilendo un limite fisso per per i procedimenti, avrebbe l’effetto immediato di salvare Berlusconi dai processi Mills e Mediaset. Compatta l’opposizione nell’attaccare il testo, la maggioranza lo rivendica. Il premier: “Non è incostituzionale”
“Non lo so, non credo”. Lo ha detto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, rispondendo a chi gli chiede se il ddl sul processo breve sia incostituzionale. “C’e’ l’Europa che ci chiede tempi certi nei processi e c’e’ la Costituzione che ci dice che devono avere tempi ragionevoli” ha aggiunto il premier. In mattinata Il Senato aveva dato il via libera al ddl, che è passa così all’esame della Camera. Si è riacceso lo scontro tra i poli sul tema caldo della giustizia. Il ddl, che ha ottenuto 163 voti favorevoli, 130 contrari e due astenuti, divide in maniera netta maggioranza e opposizione.
Il provvedimento approvato da Palazzo Madama stabilisce che il processo dovrà considerarsi estinto se il giudizio di primo grado non sarà concluso entro tre anni (dall’esercizio dell’azione penale da parte del Pm); entro due per l’appello ed entro un anno e sei mesi per il giudizio in Cassazione. Ma questo riguarderà solo i processi relativi a reati con pene inferiori nel massimo a 10 anni. In caso di annullamento con rinvio disposto dalla Cassazione, ogni grado di giudizio che dovrà celebrarsi di nuovo non dovrà durare più di un anno. I termini si allungano in presenza di reati più gravi: 4 anni per il primo grado; due per l’Appello; un anno e sei mesi per il giudizio di merito. Fino ad arrivare ai reati di mafia e terrorismo per i quali il primo grado dovrà durare cinque anni: tre per l’appello e due per la Cassazione. Il giudice può poi aumentare tali termini fino ad un terzo se il processo è particolarmente complesso o se ci sono molti imputati. Il Pm deve esercitare l’azione penale entro tre mesi dalla fine delle indagini preliminari.
A destare le proteste più dure dall’opposizione è la norma transitoria che applica l’estinzione processuale ai processi in corso, ma solo se sono relativi a reati indultati o indultabili, commessi cioè prima del maggio 2006, e se hanno pene inferiori a 10 anni. Ma sarà più breve di quella per i processi futuri: la ‘tagliola’ scatterà dopo due anni e non dopo tre. In questo modo, accusa l’opposizione, salteranno i processi Mediaset e Mills in cui e’ imputato il premier. Il tetto dei due anni varrà anche per i processi in corso davanti alla magistratura contabile purché siano ancora in primo grado e questo non si sia concluso in cinque anni. Non varrà invece se il giudizio contabile è già in appello (norma modificata ieri da un nuovo emendamento del relatore Giuseppe Valentino).
Il ddl “serve poco o nulla a fissare la ragionevole durata dei processi e approfitta di un sacrosanto principio costituzionale per fare un’amnistia”, ha sottolineato Giampiero D’Alia, capogruppo dell’Udc. “Nessuno di noi è così stolto da non capire che questo provvedimento tenta di risolvere i problemi giudiziari del Presidente del Consiglio e che la soluzione che avete individuato è quella di estendere l’indulto votato nella passata legislatura ai processi in corso che riguardano l’onorevole Berlusconi – ha aggiunto -, ma per l’ennesima volta avete prodotto una norma incostituzionale dal fiato corto che non servirà al premier e che comprometterà seriamente il regolare svolgimento di tanti, tantissimi processi”.
Per D’Alia “Berlusconi non ha tutti i torti e vi è un accanimento giudiziario nei suoi confronti, anche se in misura minore rispetto a quanto da lui denunciato”, ma “non e’ con la ragionevole durata dei processi che si garantisce al Presidente del Consiglio di esercitare appieno il mandato elettorale”. Ha attaccato senza mezzi termini il ddl il Gruppo di Italia dei Valori, che prima del voto ha anche mostrato dei cartelli in Aula contro il provvedimento (alcuni con la scritta ‘Muore il processo diritti TV Mediaset’), ed è stato richiamato all’ordine dal presidente del Senato Renato Schifani.
“Decine di migliaia di vittime vengono beffate dallo Stato – ha sottolineato Luigi Li Gotti di Idv rivolgendosi alla maggioranza -. Dopo aver cercato giustizia per anni, le vittime avranno dallo Stato la porta sbattuta in faccia. Aiuterete invece i delinquenti, aiuterete coloro che rendono insicuro il nostro Paese, aiuterete coloro che hanno commesso torti a tante vittime. Basta con la patetica ipocrisia. Per far durare meno i processi ci vogliono norme per aggiustare la macchina del processo. Voi volete la morte di 100.000 processi per salvare Silvio Berlusconi dai suoi processi”.
Pieno appoggio al ddl da parte della Lega Nord. “Ci aspettavamo ostilità da parte di molti settori della casta dei magistrati responsabile spesso del malfunzionamento della giustizia – ha detto il capogruppo Federico Bricolo -. Ciò che non ci aspettavamo è invece il cambio di linea delle opposizioni visto che questa legge ricalca diverse proposte già presentate dai responsabili giustizia del Pd”.
“Fino a pochi mesi fa eravate favorevoli a questa riforma – ha proseguito Bricolo rivolgendosi al Pd – poi quando vi siete accorti che interessava anche il presidente del Consiglio allora avete di colpo cambiato idea, avete rinnegato le vostre proposte. Di questo vi dovreste vergognare. Ieri in più voti segreti diversi senatori delle opposizioni hanno votato contro emendamenti presentati dai propri gruppi. Senatori del Pd o dell’Italia dei Valori, hanno votato con noi dando ragione alle nostre proposte dando così uno schiaffo morale a Bersani e Di Pietro che proprio ieri annunciavano sui giornali opposizione dura a questo provvedimento. Evidentemente il voto segreto è servito a qualcuno per rivendicare la propria coerenza”.
La risposta del Pd è arrivata dalla capogruppo Anna Finocchiaro. “Non vi siete fermati al processo penale – ha detto alla maggioranza -. Avete rivolto la vostra puntuta attenzione anche al processo contabile. A fronte dei continui richiami, in particolare da parte della Lega, al principio di responsabilità di funzionari ed amministratori pubblici, avete così giubilato molte centinaia di processi contabili, con il risultato di danneggiare irrimediabilmente le casse dello Stato ed introdurre principi di responsabilità per chi dissipa risorse pubbliche”.
“Tutto questo avviene nel momento in cui tornano fragilmente a mostrarsi le condizioni per una riforma costituzionale condivisa a larga maggioranza – ha aggiunto -. Potremmo trarne une osservazioni: da una parte dite di essere interessati al processo riformatore, dall’altra mostrate atteggiamenti disarmanti, continuando ad avvelenare i pozzi. Eppure su di voi, Governo e maggioranza, grava la responsabilità del clima politico: da una parte vi mostrate interessati al processo riformatore, dall’altra tentate di spacciare questa come riforma della giustizia”.
“Noi siamo orgogliosi di fare questa legge; siete voi gli incoerenti – ha ribattuto il capogruppo del Pdl Maurizio Gasparri -. Le vostre proposte più avanzate le avete messo in un cassetto, ma sono stampate. La vostra ipocrisia è palese, anche nei confronti della Corte costituzionale, svillaneggiata da chi a Milano non ha tenuto conto di una sua sentenza. Quindi, una legge per tutti cittadini. Noi vorremmo arrivare al giorno in cui ogni cittadino, indipendentemente dal suo cognome e dal suo ruolo in queste istituzioni, venga giudicato con imparzialità dalla magistratura italiana. Temiamo che questo oggi ancora non accada. La legge è contro la irragionevole durata dei processi, perché tempi da 10 a 15 anni sfido chiunque a dimostrare che siano brevi. Forse l’Europa ci dirà che è ancora troppo lungo il termine della giustizia che prevede questa legge”.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13976
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Carie dentale, diamo l’addio al trapano? 20.01.2010
Per quanti soffrono di carie dentale e ogni volta che vanno dal dentista scoprono con orrore qualche buchetto in più questa è la più piacevole delle notizie. Basta ancora aspettare un tre quattro anni per potersi curare la carie dentale con un soffio di gas. Avete capito bene. In pratica dell’aria al posto del trapano.
Il gas che permetterebbe di curare la carie dentale senza più dolore per il paziente sarebbe un plasma freddo che, come per magia, se spruzzato sul dente marcio e bucherellato permette di ripulirlo all’istante da tutti i batteri patogeni, eliminando persino il tessuto infetto senza danneggiare il dente.
Troppo bello per essere vero, eh? Togliere una carie dentale con un getto d’aria fredda, senza più il fastidio dei ferri del mestiere del dentista. E invece a quanto pare la geniale scoperta esiste e dobbiamo ringraziare l’equipe del dottor Stefan Rupf dell’università Saarland di Amburgo, che ha pubblicato la sua invenzione per la carie dentale sul Journal of Medical Microbiology.
I flussi di gas al plasma, detti lampi al plasma, nel giro di pochi secondi sono in grado di ridurre di 10 mila volte la concentrazione di batteri dentali. Immaginate tutte le possibili implicazioni, tenendo conto che esistono persone che vanno dal dentista una volta ogni quattro anni e tranne la pulizia non devono far nulla. Quelle rappresentano il dieci per cento degli italiani.
E invece ci sono quelli che letteralmente si riempiono di carie dentali: quest’ultima categoria, a onor del vero, sta aumentando, tanto da toccare i picchi dell’ottanta per cento della popolazione, con tanti rischi non solo per il dente in sé, che viene danneggiato fino a presentare il cosiddetto buco, ma anche per il benessere delle gengive, che subiscono l’azione batterica e tendono a infiammarsi.
Questi lampi di plasma in pochi secondi eliminerebbero quello che accade nella nostra bocca in un anno di pasti (e a volte anche meno). Insomma, un futuro senza carie dentale sarà presto possibile. “La ricerca in questo campo ha fatto già enormi progressi – ha detto il dottor Rupf – e da qui a 3-5 anni il trattamento clinico delle carie dentale col plasma sarà realtà”.
Sulla stessa scia un’altra scoperta dello scorso anno, che prevede una speciale proteina capace di riparare i buchi sulla superficie smaltata dei denti in maniera naturale.
Lampi di plasma? Più che altro lampi di genio.
Link utili:
Carie dentale, basta trapanare
Carie e malattie dei denti e delle gengive
Carie dentale, guarda il video
http://www.medicina-benessere.com/Utilita/carie_dentale_cura.html
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Ricomparsa della rabbia in Italia
Nell’ottobre del 2008 la rabbia è ricomparsa in Italia; il primo focolaio è apparso nel territorio del Comune di Resia (UD), a seguito dell’evolversi dell’epidemia che interessa i paesi dell’est limitrofi (Slovenia e Croazia).
Nel corso del 2009 l’epidemia si è diffusa in direzione Sud- Ovest, comprendendo la province di Udine, Pordenone e Trieste, fino ai casi più recenti riscontrati nella provincia di Belluno lungo l’arco alpino.
La prevalenza dei casi ha interessato gli animali selvatici, per lo più le volpi, che rappresentano il principale serbatoio della malattia, ed alcuni tassi. Ad oggi, sono stati riscontrati positivi anche tre cani di proprietà e un asino (aggiornato al 14.12.2009).
Le autorità veterinarie nazionali e locali hanno messo in atto tutte le misure sanitarie necessarie al controllo della diffusione della malattia.
Nell’Ordinanza Ministeriale del 26 novembre 2009, sono stati disposti i seguenti provvedimenti:
obbligo di vaccinazione antirabbica dei cani e altri animali da compagnia sensibili al seguito di persone che si recano nelle zone interessate
obbligo di vaccinazione dei cani di proprietà e degli animali domestici sensibili condotti al pascolo nelle zone interessate
limitazione della circolazione dei cani ivi inclusi quelli utilizzati nella pratica venatoria
campagne di vaccinazione orale delle volpi, mediante vaccino addizionato a specifiche esche distribuite sul territorio interessato dalla malattia e in un’ampia zona di protezione circostante
intensificazione del monitoraggio degli animali selvatici nel territori
http://www.ministerosalute.it/dettaglio/dettaglioNews.jsp?id=1145 15.12.2009
Consulta l’evoluzione della situazione epidemiologica
http://www.ministerosalute.it/dettaglio/principaleFocusNuovo.jsp?id=17&area=ministero&colore=2
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di Benedetto Vecchi
MEETING
Rompere i recinti dell ordine neoliberale 19.01.2010
Dimensione filosofica e giuridica dei beni comuni
Alain Badiou, Slavoj Zizek, Etienne Balibar, Jacques Rancière, Toni Negri e Michael Hardt. Solo solo alcuni dei filosofi e studiosi che da alcuni anni hanno avviato una riflessione attorno al concetto di «comune», dopo che i termini «beni comuni» e common hanno indicato pratiche sociali e politiche di alterità, opposizione o antagonismo rispetto ai «dispositivi» neoliberali di governo delle società capitalistiche. Studiosi che hanno espresso una visione del tema alimentata da quanto in «campo» postcoloniale è stato prodotto nel corso del tempo. Anzi, si potrebbe dire che common e «beni comuni» sono diventati espressioni e termini così diffusi che quando il premio Nobel per l’economia è stato assegnato a Elinor Olstrom, studiosa nota per le sue riflessione su una gestione «non mercantile» dei beni comuni, i commenti si sono a lungo dilungati sul fatto che anche in una istituzione tradizionalmente conservatrice come quella che assegna i nobel per l’economia il «comune» aveva fatto breccia.
Un Nobel ambivalente
Non è questo il luogo per un’analisi delle ambivalenze attorno al concetto di comune presenti nell’opera di Elinor Omstron, ma è indubbio che la questione del «comune» è lì analizzato prevalentemente come un insieme di regole di accesso alla terra, all’acqua prima del fenomeno delle enclosures e che tali regole possano essere rese nuovamente attuali anche per la conoscenza, la salute, la tutela dell’ambiente. Questa lettura «riduttiva» del concetto non appartiene certo né a Alain Badiou (l’Hypothèse communiste, Nouvelles Éditions Lignes) e Slavoj Zizek (In difesa delle cause perse, Ponte delle Grazie). Diverso è invece l’articolazione che ne dà Etienne Balibar, il quale usa il concetto di transindividuale per indicare quella produzione di linguaggio, emozioni e sentimenti che avviene nella relazione tra uomini, dimensione che apre la porta a una trasformazione della società.
È questo il background da cui l’esperienza di Uninomade (un gruppo di studiosi, attivisti e giornalisti, compreso chi scrive) è partita per cercare di superare le ambivalenze e di chiarire il concetto di comune. Sono infatti da almeno due anni che periodicamente organizza incontri e seminari attorno al tema, legandole tuttavia a un altro nodo – quello delle istituzioni – in base al quale pensare a un’organizzazione sociale incardinata sul concetto di comune. Tra sabato e domenica studiosi e attivisti si sono confrontati a Napoli per cercare di delineare il profilo filosofico e giuridico del comune alla luce anche di come in altre parti del mondo è stato elaborato il «comune» (i materiali sono presenti nel sito internet: http://www.globalproject.info). Erano infatti presenti due giovani ricercatori brasiliani che hanno illustrato come il rapporto tra movimenti sociali e la presidenza Lula possa essere illustrato proprio come la difesa dei beni comuni non si sia tradotta in una richiesta della loro semplice trasformazione in beni pubblici, ma nel porre il problema di un accesso generalizzato e in un loro autogoverno.
Tra naturale e artificiale
Tutti gli interventi hanno teso a sottolineare che è sempre più problematica la classica distinzione tra i beni naturali e quelli artificiali. Una distinzione che ha ancora un suo valore nel rendere evidenti la diversa gestione nel corso della storia moderna. L’acqua, la terra in particolare modo sono state dei beni comuni gestiti secondo il criterio della loro scarsità e quindi, oltre che il loro valore d’uso, anche in base al loro valore di scambio. Lo stesso non si può dire della conoscenza, della salute, della tutela ambientale, ritenuti sì beni comuni ma «artificiali», cioè prodotti dall’agire umano. E tuttavia, anche nella loro diversità, con il capitalismo contemporaneo emerge il fatto che anche i beni comuni «artificiali» sono gestiti in base al regime di una scarsità, questa sì artificialmente costruita. Ad esempio, il regime della proprietà intellettuale serve appunto a rendere la conoscenza en general un bene scarso. Di questo convergenza occorre dunque tener presente il valore teorico e politico laddove si cerca di qualificare il comune storicamente e non come una «essenza» della natura umana, come spesso tende a fare, ad esempio, un filosofo come Jacques Rancière.
E se non c’è grande distinzione tra beni comuni naturali e quelli artificiali, va detto che il concetto di comune si pone in un rapporto di tensione, se non di contraddizione con quello di universale (su questo hanno molto insistito Judith Revel, Sandro Chignola, Gianfranco Borrelli, Augusto Illuminati, Toni Negri). Su questo crinale ha molto insistito Ugo Mattei quando ha ricostruito la genesi giuridica del concetto di comune, argomento molto «sottoteorizzato». La polarizzazione tra universale e il comune nasce quindi da una operazione politica che vuol rendere un residuo del passato il «comune» in nome di un universale che punta a stabilire unità di misura e di commensurabilità quegli stessi beni che il nascente capitalismo vuol rendere commodity o, nel caso delle recinzioni delle terre comuni, espressione della proprietà privata intesa nel senso moderno (le pagine di Marx sulle enclosures andrebbero rilette proprio alla luce della tematica del comune).
Ma come tradurre politicamente un accumulo teorico attorno al comune? È questa la domanda che non trova risposta, se non – su questo aspetto non ci sono tate grandi diversità – solo nelle pratiche sociali e nei movimenti attorno alla difesa dei beni comuni. Risposta «minimale» che non può certo dati per risolti tutti i problemi – filosofici, giuridico e politici – che nascono dal mettere il comune come asse privilegiato per una critica politica dell’economia politica dopo che i beni comuni sono stati trasformati in merci (l’acqua, la salute, la conoscenza) e in mezzi di produzione (la conoscenza). L’incontro di Napoli va quindi inteso come una tappa di work in progress di una prassi teorica che ha come punto di arrivo il suo punto di partenza, cioè quelle pratiche sociali e politiche che si pongono il problema del superamento dell’ordine costituito neoliberale.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20100119/pagina/12/pezzo/269346/
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Notizie da Israele: la Route 443 sarà aperta al traffico palestinese
Scritto da Associazione Tuesday 19 January 2010
Tamardressler WordPress
31.12.2009
http://tamardressler.wordpress.com/2009/12/31/israels-supreme-court-rules-against-apartheid-road/
“La Corte Suprema di Israele decreta contro la strada dell’Apartheid”
di Tamardressler
Al tribunale, oggi è stata una bella giornata, dopo più di nove anni i palestinesi possono cominciare a utilizzare la Route 443 – fra cinque mesi e si è provveduto a che le IDF (Israeli Defence Forces) si attengano alla decisione del tribunale.
La Corte Suprema di Israele (Bagatz) ha accolto l’appello di 25 villaggi palestinesi situati lungo la Route 443 per Gerusalemme ed ha deciso che ad essi sarà concesso l’utilizzo della stessa sul lato israeliano.
Fin dall’ottobre del 2000 ai palestinesi era stato precluso l’uso di questa importante via per quelle che Israele aveva definito “ragioni di sicurezza”.
La Route 443 collega Gerusalemme con l’area più estesa di Tel Aviv, correndo in parte attraverso la West Bank.
Per metà della sua lunghezza, il tratto di 14 km dal “check point Atarot”, a nord di Gerusalemme, fino al “check point Maccabim”, vicino a Maccabim-Reut, nel passato era l’arteria principale del traffico palestinese nel Distretto meridionale di Ramallah, attraversava i centri dei villaggi che erano situati sul versante sud-occidentale della città e serviva a decine di migliaia di palestinesi come via di collegamento tra Ramallah e i villaggi.
Secondo il giudizio di Bagatz, l’effetto sulla vita degli abitanti dei villaggi è stato rilevante e le IDF devono trovare una soluzione a questa situazione entro 5 mesi.
L’utilizzo della 443 è cruciale per gli abitanti dei villaggi. Per molti di loro, questa è la strada principale che li porta ai loro terreni agricoli, che si trovano su entrambi i lati della via, ed è la strada principale di accesso a Ramallah, il centro commerciale sul quale contano gli abitanti dei villaggi per il loro sostentamento, i servizi di emergenza, i servizi sociali, gli ospedali e le scuole.
Come effetto del divieto, più di 100 piccoli negozi dei villaggi lungo la via hanno chiuso, fra di loro aziende di mattonelle, negozi di fiori, depositi di mobili e ristoranti, ulteriore conseguenza dello sforzo per sopravvivere degli abitanti dei villaggi.
(tradotto da mariano mingarelli)
Ultimo aggiornamento ( Tuesday 19 January 2010 )
http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1697&Itemid=76
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Transculturalità e transculturalismo: i nuovi orizzonti dell’identità culturale
Abstract I: This paper argues that the concepts of multiculturalism and interculturalism, both as patterns of cultural interaction and as ideologies, should be overcome in favour of an analytical and operative model based on a new conceptualization of culture which is emerging from different interdisciplinary debates on transnationalization and has been elaborated by Wolfgang Welsch as “transculturality”. This concept offers a new paradigm of cultural identity formation and, together with its complementary term “transculturalism”, indicating a new ideology of cultural interaction, opens up new perspectives for the study of literatures marked by migration, hybridization and cross-cultural creolization.
Abstract II: In questo articolo si argomenta che i concetti di multiculturalismo e interculturalismo, sia come modelli di interazione culturale che come ideologie, dovrebbero essere superati in favore di un modello analitico ed operativo basato su una nuova concettualizzazione della cultura. Tale concettualizzazione, che emerge dai diversi dibattiti interdisciplinari sulla transnazionalizzazione, è stata elaborata da Wolfgang Welsch come “transculturalità”. Questo concetto offre un nuovo paradigma della formazione dell’identità culturale e, insieme al termine complementare “transculturalismo”, che indica una nuova ideologia di interazione culturale, apre nuove prospettive per lo studio delle letterature emergenti dalla migrazione, ibridazione e creolizzazione cross-culturale.
Transculturalità e transculturalismo:
i nuovi orizzonti dell’identità culturale*
Le società occidentali, e in particolar modo le loro metropoli, sono in maniera sempre più evidente punto d’incontro di influenze provenienti da diversi ambiti culturali, etnici e religiosi. L’ideologia progressista dell’Occidente illuminato ha individuato nel concetto di multiculturalismo la sua moderna utopia. La società multiculturale è – o dovrebbe idealmente essere – una società ospitale, tesa ad accogliere e nel migliore dei casi abbracciare la differenza. Il multiculturalismo (inteso come convivenza di diverse culture) e il suo diretto sviluppo, l’interculturalismo (dove la mera convivenza si estende all’accettazione e alla comprensione, se non necessariamente allo scambio) hanno però presto rivelato i loro limiti, poiché radicati in una concezione della cultura che si trova oggi sotto accusa: “[T]he culture concept seems perhaps more contested, or contestable than ever” (Hannerz 1996: 30).
Il concetto tradizionale di cultura, caratterizzato dall’omogeneizzazione sociale, dalla consolidazione etnica e dalla delimitazione interculturale (Welsch 1999: 194) risulta inadeguato di fronte alla molteplicità di interconnesioni culturali sempre più fitte e complesse del processo di globalizzazione e transnazionalizzazione. Frutto di una teoria culturale che frammenta il mondo (Hannerz 1996: 32), l’ideologia multiculturale e interculturale non fa altro che creare e mantenere polarità. Senza voler screditare i meriti di questa ideologia, che ha operato contro la discriminazione, rigettando l’etnocentrismo e incoraggiando un’etica di riconoscimento e rispetto della differenza, ed è servita, nella sua applicazione politica, ad ottenere diritti fondamentali in favore delle minoranze, bisogna comunque riconoscerne anche i limiti e gli sviluppi negativi. Anche nelle sue più recenti concettualizzazioni, questa ideologia mantiene un’accentuata insistenza sulla differenza, sul senso di alterità e straniamento nel contatto tra le culture: “[M]ulticulturalism, as a principle to be acted upon, requires from us all a receptivity to difference, an openness to change, a passion for equality, and an ability to recognize our familiar selves in the strangeness of others” (Watson 2000: 110). Orbene, là dove si pone enfasi sulle differenze tra i gruppi, si corre il rischio di creare tra questi ancor più distanza e si può addirittura, pur senza volerlo, avviare processi segregativi e ghettizzanti. Si mantengono dunque le barriere culturali e si può incorrere nella riaffermazione e nel rafforzamento degli stereotipi. Inoltre, il processo di riconoscimento e valorizzazione dell’alterità può portare a vani e spesso dannosi essenzialismi e ad un’idealizzazione esasperata, da parte delle minoranze, della cultura o del paese di origine (l’idea di autenticità, prodotta dalla nostalgia di “origini pure”, è anch’essa una conseguenza di questo fenomeno che va rivista e superata). Dunque, nonostante i buoni propositi, il sogno multi/interculturale può risultare controproducente e può, invece che tendere alla risoluzione dei conflitti culturali, sfociare nel loro esacerbamento.
Attualmente, in risposta alla sua evidenziata inadeguatezza a spiegare la complessità dei fenomeni odierni, la nozione tradizionale di cultura è in processo di revisione. Soprattutto nell’ambito socio-antropologico e filosofico – e più recentemente in quello letterario – si sente ormai sempre più spesso parlare di transculturalità e transculturalismo. Questi nuovi concetti pongono enfasi sul carattere dialogico delle influenze culturali, tendendo ad una concettualizzazione dell’interazione in cui niente è mai completamente “altro” (straniero ed estraneo), e servono dunque a comprendere i processi di formazione dell’identità culturale in tutta la loro complessità.
L’associazione della nozione di cultura alla particella “trans”, che suggerisce idee tanto diverse eppur complementari come transito, trasferimento, traslazione, trasgressione, trasformazione, non è comunque del tutto nuova. Negli anni quaranta venne introdotto il concetto di transculturazione (Ortiz 1940) nel contesto di uno studio sulla cultura afro-cubana, per rimpiazzare i concetti di acculturazione e deculturazione. Da allora il termine è stato usato in ambito antropologico per descrivere il processo di assimilazione, attraverso un processo di selezione e rielaborazione inventiva, di una cultura dominante da parte di un gruppo subordinato o marginale (non necessariamente minoritario). Tale concetto dunque implica, da una parte, una notevole differenza in termini di potere tra i due gruppi in contatto e, dall’altra, un’ingegnosa creatività che permette al gruppo marginale di trasformare il materiale acquisito, per farne una cultura qualitativamente nuova. Il concetto venne in seguito applicato in letteratura ed elaborato ulteriormente. L’idea della transculturazione narrativa (Rama 1982) serviva a spiegare i molteplici fenomeni di trasferimento culturale nell’ambito letterario dell’America Latina, con riferimento all’interazione di elementi nazionali, transnazionali, regionali e subculturali (locali).
Anche se l’odierno dibattito sulla nuova terminologia e concettualizzazione dell’interazione culturale non fa riferimento alla transculturazione, non è difficile individuare i punti di contatto e continuità. Basti pensare all’applicazione del termine negli studi culturali, in particolare nell’ambito coloniale e postcoloniale, in cui il concetto di transculturazione ha superato l’unidirezionalità originaria per arrivare a costituire un modello di interazione reciproca, sfaccettata e molteplice nelle zone di contatto (Pratt 1992). È opportuno dunque vedere nella transculturazione, come modello di scambio culturale pluridirezionale, un antesignano degli odierni concetti di transculturalità e transculturalismo.
Oggi la necessità di rivedere la nozione di cultura, i modelli di interazione e i processi di formazione dell’identità culturale è una conseguenza diretta della realtà moderna, segnata in maniera sempre più evidente dalla transnazionalizzazione (gli antropologi preferiscono spesso questo termine a quello più ambiguo di globalizzazione), un fenomeno tanto economico quanto politico, tecnologico e culturale, influenzato soprattutto dagli sviluppi nei sistemi di comunicazione a partire dai tardi anni sessanta (Giddens 2002: 10). La comunicazione elettronica immediata altera enormemente le nostre vite e stabilisce interconnessioni prima impensabili: “When the image of Nelson Mandela may be more familiar to us than the face of our nextdoor neighbour, something has changed in the nature of our everyday experience” (Giddens 2002: 11-12). È dunque anche in questo senso, non solo in senso politico, che il mondo odierno vede la caduta delle barriere nazionali e si fa ogni giorno più flessibile. La flessibilità viene identificata come modus operandi del tardo capitalismo (Harvey 1990). Soprattutto al livello economico, si è affermata l’idea di accumulazione flessibile, che, in relazione con i processi lavorativi, i mercati, i prodotti e i modelli di consumo, cambia rapidamente e radicalmente il paesaggio contemporaneo: “It is characterized by the emergence of entirely new sectors of production, new ways of providing financial services, new markets, and, above all, greatly intensified rates of commercial, technological, and organizational innovation” (Harvey 1990: 147). La flessibilità del capitale trova una risposta immediata nei comportamenti individuali e nelle strategie di adattamento e riposizionamento rispetto ai mercati, ai governi e ai regimi culturali, per esempio nella pratica sempre più diffusa della cittadinanza flessibile: “[I]n the era of globalization, individuals as well as governments develop a flexible notion of citizenship and sovereignty as strategies to accumulate capital and power. ‘Flexible citizenship’ refers to the cultural logics of capitalist accumulation, travel, and displacement that induce subjects to respond fluidly and opportunistically to changing political-economic conditions” (Ong 1999: 6). Anche la figura dell’immigrante sradicato viene rivista in base alla flessibilità delle odierne pratiche transnazionali che ne fanno un “transmigrante”: “Transmigrants are immigrants whose daily lives depend on multiple and constant interconnections across international borders and whose public identities are configured in relationship to more than one nation-state” (Glick Schiller / Basch / Szanton Blanc 1997). Al livello culturale questa flessibilità si traduce in mobilità e alterazione continua dei significati e delle identità culturali. Infatti, lungi dal produrre un’omogeneizzazione della cultura, come era stato in un primo momento previsto e temuto, la transnazionalizzazione, con la varietà dei fenomeni che la accompagnano (migrazione, mobilità, circolazione di prodotti, idee, immagini, sapere, ecc.), si sta manifestando in un evidente aumento della diversità culturale, diversità che prende comunque una forma nuova rispetto al passato poiché le fitte interconnessioni e la crescente deterritorializzazione rendono sempre più difficile, se non impossibile, incasellare diverse culture come unità discrete: “There is now a world culture, but we had better make sure we understand what this means: not a replication of uniformity but an organization of diversity, an increasing interconnectdness of varied local cultures, as well as a development of cultures without a clear anchorage in any one territory” (Hannerz 1996: 102).
Particolari articolazioni del globale e del locale nelle società odierne danno luogo a nuove forme culturali, moderne e plurali. Per spiegare i processi di formazione di queste modernità multiple (Pred and Watts 1992), delle modernità migranti (Schulze-Engler 2001) e delle identità comunitarie virtuali, espressioni culturali localizzanti prodotte dalla globalizzazione (Appadurai 1996), si rendono dunque necessarie nuove concettualizzazioni e modelli di interazione culturale. Il concetto di transculturalità elaborato da Wolfgang Welsch (1999), concetto operativo oltre che descrittivo, risponde esattamente a questo bisogno. Riconsoscendo in Nietsche un precursore della transculturalità per la sua formula del “soggetto come moltitudine”, Welsch pone l’enfasi nella fertilizzazione culturale a più livelli, dal macrolivello delle società – le cui forme culturali sono caratterizzate oggi sempre più da differenziazione interna, complessità e ibridazione – al microlivello dell’esperienza individuale, dove l’identità personale e culturale non corrisponde ormai quasi mai o quasi più a quella civica e nazionale ed è invece in maniera sempre più evidente marcata da connessioni culturali multiple. Al livello pragmatico Welsch contrappone il concetto di transculturalità al concetto tradizionale di culture come unità discrete, sviluppato da Herder nel diciottesimo secolo, che, ponendo l’enfasi su ciò che è proprio di un popolo e sull’esclusione di tutto ciò che è diverso ed estraneo, tende irrimediabilmente a una sorta di razzismo culturale, là dove la transculturalità mira ad una visione intersecata e inclusiva della cultura: “It intends a culture and society whose pragmatic feats exist not only in delimitation, but in the ability to link and undergo transition” (ibid:200). Transculturalità è da intendersi dunque non solo come modello di analisi della realtà moderna, ma anche come ideale a cui tendere nella prassi quotidiana di interazione culturale: “It is a matter of readjusting our inner compass: away from the concentration on the polarity of the own and the foreign to an attentiveness for what might be common and connective wherever we encounter things foreign” (ibid:201). Sarebbe opportuno a questo punto operare una differenziazione terminologica per distinguere il livello descrittivo da quello operativo e ideologico. Là dove transculturalità viene ad essere il modello analitico per la lettura della realtà culturale odierna, transculturalismo (i due termini sono spesso usati come sinonimi) potrebbe essere un termine più adatto a designare l’ideologia che ne scaturisce, una volontà di interagire a partire dalle intersezioni piuttosto che dalle differenze e dalle polarità, una consapevolezza del transculturale che c’è in noi per meglio comprendere e accogliere ciò che è fuori di noi, una visione che privilegia la flessibilità, il movimento e lo scambio continuo (Brancato 2004), la rinegoziazione continua dell’identità.
Per noi studiosi delle forme culturali emergenti dai movimenti migratori, dalle diaspore e dai fenomeni di creolizzazione cross-culturale il dibattito sulla deterritorializzazione delle culture e sulla flessibilità dell’interazione culturale è di centrale importanza. Lo sventramento della nozione tradizionale di cultura, non più da intendersi come entità omogenea, e l’idea di fitta interconnessione e continua trasformazione generata dai concetti di transculturalità e transculturalismo aprono nuovi orizzonti teorici e nuovi percorsi di ricerca, facilitando il nostro sforzo di superare i limiti delle letterature viste in termini nazionali o regionali e allo stesso tempo offrendo un’alternativa al paradigma dicotomico del postcolonialismo (che peraltro, pur restando una validissima chiave di lettura, copre solo una parte del nostro campo di ricerca). Come sottolinea Frank Schulze-Engler (2002), il fenomeno della transnazionalizzazione delle culture costituisce una ingente sfida per gli studi letterari, che sono chiamati a sviluppare, a partire da un dialogo interdisciplinare, nuovi approcci teoretici e metodologici per esplorare “l’immaginario transculturale” (79) della letteratura contemporanea. Una nuova cornice teorica basata sulla transculturalità ci permette di meglio inquadrare fenomeni come quello delle letterature di migrazione o quello delle letterature ibride (ma quale letteratura non lo è?) e di meglio comprendere le identità culturali in esse contenute senza correre il rischio di trasformare questo campo di ricerca in un nuovo canone ghettizzante in cui solo pochi eletti vengono ammessi. Che fare, per esempio, di uno scrittore migrante che si occupa di tutt’altro tema nella sua produzione letteraria? Per quanto tempo ancora possiamo distinguere le letterature sulla base dell’etnicità o della generazione di appartenenza dell’immigrante (prassi molto diffusa soprattutto nel campo anglofono)? Che fare di quegli scrittori che utilizzano più lingue? Gli studenti delle nuove letterature sanno bene che queste domande, sempre pressanti quando si tratta di tracciare i confini di un argomento di ricerca, spesso portano ad escludere opere di grande qualità letteraria per il solo fatto di non rientrare pienamente nella categoria analitica selezionata. Ciò, comunque, va oltre lo scopo del presente articolo e sarebbe argomento di una nuova riflessione sulla maniera in cui la terminologia usata in ambito accademico delinea, e limita, i campi di ricerca.
Per concludere, la transculturalità deve essere intesa, in ambito letterario, come cornice teorica che comprende diversi fenomeni di interazione culturale (dall’intertestualità postcoloniale all’ibridazione e creolizzazione cross-culturale fino alle modernità multiple del mondo globale) e permette di estrarre le nuove letterature dagli stretti confini del nazionale e del regionale e di rivedere il locale e il diasporico da un punto di vista globale. A un livello più generale, il transculturalismo è l’altra faccia della globalizzazione, una risposta ideologica alla minaccia dell’omogeneizzazione culturale da una parte e a quella degli essenzialismi fondamentalisti dall’altra, una porta che si apre su percorsi molteplici, i nuovi orizzonti dell’identità culturale.
di Sabrina Brancato
(Università di Francoforte sul Meno)
Riferimenti bibliografici
Appadurai, Arjun. 1996. Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization. Minneapolis: University of Minnesota Press.
Brancato, Sabrina. 2004. “Transcultural Perspectives in Caribbean Poetry” (paper presented at ASNEL/GNEL Conference, Frankfurt am Main, Germany).
Giddens, Anthony. 2002. Runaway World: How Globalisation is Reshaping Our Lives. London: Profile Books (first edition 1999).
Glick Schiller, Nina, Linda Basch, Cristina Szanton Blanc. 1997. “From immigrant to Transmigrant: Theorizing Transnational Migration”, in Transnationale Migration, ed. by Ludger Pries, Baden-Baden: Nomos, 121-140.
Hannerz, Ulf. 1996. Transnational Connections. London: Routledge.
Harvey, David. 1990. The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural Change. Cambridge, MA: Blackwell.
Ong, Aihwa. 1999. Flexible Citizenship: The Cultural Logics of Transnationality. Durham: Duke University Press.
Ortiz, Fernando. 1940. Contrapunteo Cubano del Tabaco y el Azúcar. Habana: J. Montero.
Pratt, Mary Louise. 1992. Imperial Eyes: Travel Writing and transculturation. London: Routledge.
Pred, Alan and Michael Watts. 1992. Reworking Modernity: Capitalisms and Symbolic Discontent. New Brunswick, N.J.: Rutgers University Press.
Rama, Angel. 1982. Transculturación Narrativa en América Latina. México, D.F.: Siglo Veintiuno Editores.
Schulze-Engler, Frank. 2002. “Transnationale Kultur als Herausforderung für die Literaturwissenschaft”, ZAA: Zeitschrift für Anglistik und Amerikanistik, A Quarterly of Language, Literature and Culture, 50.1: 65-79.
Schulze-Engler, Frank. 2001. “Migrant Modernities: Literary Renegotiations of Cultural Identity in Twentieth-Century London”, in Anglistentag 2000 Berlin: Proceedings, ed. by Peter Lucko and Jürgen Schlaeger, Trier: Wissenschaftlicher Verlag.
Watson, C.W.. 2000. Multiculturalism. Buckingham, Philadelphia: Open University Press.
Welsch, Wolfgang. 1999. “Transculturality: The Puzzling Form of Cultures Today”, in Spaces of Culture: City, Nation, World, ed. by Mike Featherstone and Scott Lash, London: Sage, 194-213.
SABRINA BRANCATO studied Modern Languages at the Istituto Universitario Orientale di Napoli in Italy (1995) and earned her PhD form the Universitat de Barcelona in Spain (2001), specializing in literature and cultural pluralism. She has given courses on women’s literary history, postcolonial and migration literatures, contemporary poetry, and Black British fiction. She is currently teaching at the Johann Wolfgang Goethe Universität in Frankfurt am Main. Her main research interests and publications are focussed on Black Studies, migration, and gender perspectives.
http://all.uniud.it/all/simp/num2/articoli/art4.html
Reperito il 21.01.2010
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Internet deve restare libero 22.01.2010
HILLARY CLINTON
La diffusione delle reti d’informazione sta formando il nuovo sistema nervoso del nostro pianeta. Quando qualcosa accade ad Haiti o nell’Hunan lo veniamo a sapere in tempo reale, e da persone reali, e possiamo reagire subito. Il team di soccorritori Usa e la ragazza sepolta sotto le rovine di un supermarket hanno comunicato in un modo che era impossibile solo una generazione prima.
È stata salvata grazie a un sms. Mentre siamo qui chiunque di voi, o dei vostri figli, può trasmettere la nostra discussione a miliardi di persone in tutto il mondo utilizzando gli strumenti che ci portiamo dietro ogni giorno.
Sotto molti aspetti, l’informazione non è mai stata così libera. Perfino nei Paesi autoritari le reti d’informazione aiutano la gente a scoprire cosa sta accadendo e costringono i governi a tener conto dell’opinione pubblica. Ma in questa esplosione senza precedenti di connettività, dobbiamo anche riconoscere che le tecnologie non sono soltanto una benedizione. Sono strumenti che possono venire utilizzati contro il progresso e i diritti politici. Come l’acciaio può venire usato per costruire ospedali o mitragliatrici, e l’energia nucleare può riscaldare le città piuttosto che distruggerle. Le stesse reti che aiutano a organizzare movimenti per la libertà permettono ad Al Qaeda di diffondere l’odio e incitare alla violenza contro gli innocenti. E le tecnologie che possono rendere i governi più accessibili e trasparenti vengono utilizzate per reprimere il dissenso e negare i diritti umani.
Per loro natura, le nuove tecnologie non si schierano nella lotta per la libertà e il progresso. Gli Stati Uniti invece sì. Noi vogliamo un solo Internet al quale tutta l’umanità ha accesso eguale per attingere conoscenze e idee. La sfida potrebbe essere nuova, ma la nostra responsabilità nell’aiutare il libero scambio di idee risale agli albori della nostra repubblica, e oggi riteniamo cruciale garantire agli utenti di Internet alcune libertà fondamentali.
La prima è la libertà di espressione. Che non si limita più alla possibilità per i cittadini di scendere in piazza. I blog, le e-mail, i network sociali e i messaggi hanno inaugurato nuovi luoghi di scambio di idee, e sono diventati i nuovi bersagli della censura. In questo momento censori governativi stanno lavorando furiosamente per cancellare dalla storia le parole che sto pronunciando. Muri virtuali vengono eretti al posto di quelli di pietra. Alcuni Paesi hanno costruito barriere elettroniche per impedire l’accesso a parte della rete globale. Cancellano parole, nomi e frasi chiave dai motori di ricerca. Violano la privacy dei cittadini. Una nuova cortina d’informazione sta scendendo su parte del mondo, dove i video e i blog sono ormai il samizdat dei giorni nostri.
Tutte le società riconoscono limiti alla libertà di espressione. Non tolleriamo coloro che incitano alla violenza, come gli agenti di Al Qaeda. Ma queste sfide non devono diventare una scusa per i governi per violare sistematicamente i diritti e la privacy di coloro che usano Internet per fini politici pacifici.
È necessaria anche la libertà di religione, Internet può costruire un ponte tra credenti di diverse confessioni. Ma alcune nazioni usano Internet per ridurre al silenzio i credenti di diverse religioni. È necessaria la libertà dal bisogno. Nel nostro mondo il talento è distribuito universalmente, a differenza delle opportunità. Oggi nel mondo ci sono 4 miliardi di cellulari, molti dei quali sono in mano ad ambulanti, guidatori di risciò e altre persone che storicamente non avevano accesso all’istruzione e alle maggiori opportunità. Le reti d’informazione sono un grande livellatore e dobbiamo usarle per aiutare la gente a uscire dalla povertà.
Bisogna anche essere liberi dalla paura. Qualcuno userà le reti globali per scopi oscuri: estremisti violenti, cartelli criminali, predatori sessuali e governi autoritari. Gli Stati, i terroristi e coloro che agiranno per loro mandato devono sapere che gli Usa difenderanno le nostre reti. Chi cercherà di interrompere il libero flusso dell’informazione mette a rischio la nostra economia, il governo e la società civile. Paesi o individui che lanciano cyberattacchi devono pagarne le conseguenze. In un mondo interconnesso, l’attacco alle reti di una nazione può significare un attacco a tutti.
Infine vorrei invocare la libertà di connettersi. Che oggi equivale alla libertà di assemblea nel cyberspazio. In Iran, Moldova e altri Paesi l’organizzazione online è stata cruciale per promuovere la democrazia. E perfino in democrazie consolidate come gli Usa abbiamo visto la potenza di questi strumenti che hanno cambiato la storia. Vi ricorderete ancora le presidenziali del 2008.
Perseguire queste libertà è giusto. Ma è anche intelligente. Così possiamo allineare i nostri principi, i nostri obiettivi economici e le nostre priorità strategiche. Nessuno stato, gruppo o individuo deve rimanere schiacciato dalle macerie dell’oppressione. Non tollereremo che qualcuno venga separato dalla comune famiglia dell’umanità dai muri della censura. E non possiamo più rimanere in silenzio solo perché non sentiamo le loro grida.
* Segretario di Stato Usa
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2010, Anno Internazionale della Biodiversità
11/1/2010 – Si è aperto ufficialmente l’Anno Internazionale della Biodiversità: il WWF scrive alle massime cariche istituzionali, chiedendo una strategia nazionale per difendere flora e fauna
Nel giorno del lancio mondiale, a Berlino da parte dell’ONU del “2010: Anno internazionale della biodiversità” il WWF Italia ha inviato una lettera alle maggiori cariche istituzionali italiane, al Presidente del Consiglio e ai ministri competenti in cui chiede uno scatto d’orgoglio al nostro Paese, quale conferma e rilancio di quel primato internazionale che ha fatto dell’Italia il primo Stato membro dell’Unione Europea che ha sottoscritto il “Countdown 2010”, deciso a Malahide (Irlanda) nel 2004, e promosso la Carta di Siracusa nell’aprile 2009, nell’ambito del G8 Ambiente.
Con 57.468 specie animali di cui l’8,6% endemiche, e 12.000 specie di flora, delle quali il 13,5% specie endemiche, l’Italia è il paese Europeo più ricco di biodiversità ma molta della ricchezza si sta perdendo: attualmente sono a rischio di estinzione il 68% dei vertebrati terrestri, il 66% degli uccelli, il 64% dei mammiferi, il 76% degli anfibi e addirittura l’88% dei pesci d’acqua dolce. Tra le minacce principali la modifica degli habitat e il consumo del suolo. Non ultime ancora oggi il bracconaggio ai danni si specie sempre più rare e la caccia eccessiva. Rischiamo di perdere, nei prossimi anni, specie come l’orso bruno, la lontra, il capovaccaio, l’aquila del Bonelli, la pernice bianca, la gallina prataiola.
E’ dunque il richiamo alle istituzioni il primo passo che il WWF compie in ambito nazionale per l’Anno della Biodiversità, un 2010 nel quale l’associazione sarà impegnata con iniziative speciali, progetti sul campo e ulteriori interventi istituzionali. Nelle lettere inviate al Presidente della Repubblica, ai Presidenti della Camera e del Senato, al Presidente del Consiglio, ai ministri dell’Ambiente, degli Esteri e delle Politiche Agricole il WWF Italia indica come obiettivo prioritario per il 2010 la definizione in un’apposita Conferenza nazionale, aperta al contributo scientifico delle associazioni ambientaliste e dei maggiori esperti italiani, per definire la Strategia nazionale della Biodiversità e un conseguente Piano d’azione, sostenuto da adeguate risorse economiche, ricordando che ad oggi l’Italia non è tra quei 167 Paesi del mondo (l’87% delle parti che hanno sottoscritto la Convenzione internazionale sulla Biodiversità, CBD) che hanno già adottato proprie Strategie e Piani d’azione a tutela della biodiversità.
L’azione del WWF Italia, nell’ambito della più ampia azione di pressione sulle istituzioni intrapresa dal WWF internazionale su scala globale chiede che l’Italia contribuisca a raggiungere quegli obiettivi significativi utili a contrastare l’attuale ritmo di impoverimento della biodiversità che sono scanditi dal Countdown 2010, lanciato nel 2002 in occasione del Summit mondiale per lo sviluppo sostenibile di Johannesburg in Sudafrica, alla luce del fatto che drammatici sono i dati relativi alla perdita di biodiversità agli habitat e alle specie più minacciate sul nostro Pianeta: insostenibili processi di deforestazione fanno sì che ogni 3-4 anni sparisca per sempre una superficie di foresta pluviale equivalente a tutta la Francia, mentre le specie si estinguono ad una velocità 100 volte superiore a quella dell’era preistorica.
Il WWF Italia, nella lettera inviata in questi giorni alle istituzioni italiane, descrive i cinque pilastri su cui si deve basare la Strategia nazionale della biodiversità, sostenuta dalla creazione di un apposito Fondo per la biodiversità:
1. l’adozione di strumenti legislativi quali una legge per la tutela della biodiversità
2. l’inseririmento nella contabilità nazionale parametri che consentano di “tenere in conto la natura”
3. la definizione di obiettivi strategici non solo su scala nazionale ma anche regionale
4. il coordinamento tra il Piano d’azione nazionale e quelli regionali
5. un piano nazionale di sostegno alla conservazione delle ultime foreste tropicali che sia promossa con politiche rivolte a quei paesi in via di sviluppo che hanno stretti rapporti commerciali con il nostro Paese, che è una delle nazioni al mondo maggiori consumatrici di risorse forestali.
In ambito internazionale, il WWF è da sempre impegnato a tutela della biodiversità, di habitat e specie minacciati dalle attività umane con propri progetti di conservazione, appoggiati dalle autorità e dalle popolazioni locali in difesa: dell’Amazzonia, che rappresenta il 30% della superficie delle foreste tropicali nel mondo, e dove ogni minuto si perde un’area pari a 36 campi di calcio; delle foreste del Centro Africa dove vivono alcune delle più carismatiche specie di scimmie antropomorfe come gorilla e scimpanzé, del Cuore del Borneo e a Sumatra in Asia, dove sopravvivono le ultime popolazioni importanti di Orango, Rinoceronte e Tigre di Sumatra; dell’Himalaya dove è sempre più rara, anche a causa dei cambiamenti climatici, la presenza del leopardo delle nevi; di quello scrigno di biodiversità endemica che è il Madagascar.
In ambito nazionale il WWF è l’organizzazione non governativa che più contribuisce alla tutela della biodiversità in Italia attraverso la gestione diretta di 100 Oasi che hanno contribuito a salvare 30.000 ettari di natura del nostro Paese (foreste, laghi, coste e tratti di mare), consentendo di tutelare camosci, fenicotteri, faggete e stelle alpine di assicurare attraverso i Centri di Recupero per Animali Selvatici – CRAS, costituiti nelle oasi, un Pronto Soccorso per 8.000-10.000 animali l’anno (lupi, aquile, ricci, ghiandaie, caprioli, tassi, poiane civette), feriti da impatti con automobili o da colpi di fucile o avvelenati, che, dopo le cure, vengono reintrodotti in natura.
Il WWF per la biodiversità in Italia: verso la Strategia nazionale per la biodiversità >>
Effetto biodiversità: i servizi offerti dagli ecosistemi, dossier WWF >>
Difendi la biodiversità con il WWF, questo pianeta è l’unico che abbiamo >>
http://www.wwf.it/client/ricerca.aspx?root=23070&content=1
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21.01.2010 Repubblica ha intervistato Saviano che ha desiderato lasciare un messaggio ai lettori, in merito alle nuove norme sull’introduzione del processo breve approvate dal Senato:
Il videomessaggio a questo link:
http://tv.repubblica.it/copertina/saviano-non-c-e-piu-garanzia-del-diritto/41540?video
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Gli impianti offshore possono favorire la rinascita della barriera corallina 19.01.2010
Di Paola Pagliaro
La barriera corallina sta sparendo? Nessun problema: la soluzione la trova ancora una volta il mondo dell’ecologia. Gli impianti per l’energia eolica offshore e quelli per creare energia dalle onde possono aumentare l’abbondanza locale di pesci, granchi, e della barriera corallina, la quale a sua volta favorisce il proliferare di mitili e balani. Ma c’è di più: è possibile aumentare o diminuire l’abbondanza delle varie specie alterando la loro progettazione strutturale.
Questo è stato dimostrato da Dan Wilhelmsson del Dipartimento di Zoologia, Università di Stoccolma, in una tesi di recente pubblicazione.
Le superfici dure sono spesso difficili da gestire nel mare, e le strutture possono funzionare come barriere artificiali. Le rocce sono spesso disposte intorno alle strutture per prevenire la loro erosione, e questo rafforza la funzione di barriera.
Una maggiore espansione dei parchi eolici offshore è in corso lungo le coste europee, e l’interesse sta crescendo in paesi come gli Stati Uniti, Cina, Giappone e India. Inoltre, anche le tecnologie che riguardano l’energia delle onde si stanno sviluppando molto rapidamente. Molte migliaia di impianti eolici di grandi dimensioni oggi coprono diversi chilometri quadrati di oceani e mari. Se la vita marina si ribelli a questo non è chiaro, ma diversi progetti di ricerca stanno indagando sull’impatto del rumore, le ombre, i campi elettromagnetici, e i cambiamenti nell’idrologia.
Dan Wilhelmsson ha studiato come le turbine eoliche offshore costituiscono habitat per i pesci, granchi, aragoste, crostacei e piante. Egli mostra che le turbine a vento, anche in assenza di protezioni, funzionano come barriere artificiali per i pesci che abitano sul fondo. I fondali in prossimità delle turbine a vento hanno una più elevata densità di pesci rispetto alle aree di riferimento più lontane. Ciò è avvenuto nonostante il fondo naturale sia ricco di massi e alghe.
Gli impianti che producono energia del moto ondoso, costituiti da massicci blocchi di cemento, si sono rivelati utili per attrarre i pesci e granchi di grandi dimensioni. I mitili cadono dalla superficie e il cibo diventa disponibile per gli animali sui fondali. Anche le aragoste possono trovare un habitat in cui svilupparsi. In un grande esperimento, alcuni fori sono stati effettuati nelle fondamenta, e questo ha aumentato enormemente il numero dei granchi.
Tuttavia, le aggregazioni di alcune specie possono avere un impatto negativo su altre specie. Il numero di animali predatori sulle scogliere artificiali a volte può diventare così grande che gli organismi-preda, come le penne di mare, stelle marine, e crostacei, sono decimati nei dintorni, e alcune specie possono sparire del tutto.
Con le centrali che prendono energia dal vento e dalle onde, dovrebbe essere possibile creare aree di grandi dimensioni con strutture di scogliere biologicamente produttive, le quali dovrebbero essere protette dalla pesca a strascico. Progettare con attenzione le basi potrebbe favorire e proteggere le specie importanti o, al contrario, ridurre gli effetti della barriera, al fine di minimizzare l’impatto su un territorio
conclude Dan Wilhelmsson.
Fonte: [Sciencedaily]
http://www.ecologiae.com/impianti-offshore-favorire-barriera-corallina/12283/
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Striscia di Gaza, Israele apre la diga di Wadi Gaza e allaga case e campi. Centinaia gli sfollati. 19.01.2010
Gaza – Infopal. Un nuovo crimine israeliano si è compiuto oggi nel centro della Striscia di Gaza: le forze di occupazione hanno allagato le cittadine di al-Mighraqa e Hajar ad-Dik, nelle aree centrali e orientali della Striscia sotto assedio, e, dopo aver aperto la diga di Wadi Gaza, senza preavviso, hanno provocato un’inondazione.
Il nostro corrispondente ha raccontato che decine di case sono state allagate, causando lo sfollamento di centinaia di persone e gravi danni alle abitazioni stesse e ai campi coltivati.
La protezione civile è riuscita a mettere in salvo 60 cittadini rimasti bloccati a al-Mighraqa.
In un collegamento telefonico con il nostro corrispondente, il direttore della Protezione civile, Yussef al-Zahar, ha parlato delle operazioni di salvataggio e dell’evacuazione di numerose abitazioni. Ha tuttavia sottolineato che il livello dell’acqua è in aumento e che ciò rappresenta una minaccia per la sicurezza dei cittadini.
Il ministero degli Affari sociali, in collaborazione con le amministrazioni comunali, hanno deciso di utilizzare le scuole per accogliere gli sfollati e si sono impegnati a fornire cibo, coperte e vestiti.
Al-Zahar ha spiegato che le forze di occupazione israeliane hanno annunciato di voler aprire un’altra diga che dà sulla stessa valle.
La diga di Wadi (valle, ndr) Gaza è stata costruita dalle forze di occupazione decenni fa, allo scopo di privare la Striscia dell’acqua che riempiva la vallata durante l’inverno.
Ieri, l’hanno aperta senza preavviso, a seguito di inondazioni avvenute nel sud di Israele.
“Così – affermano a Gaza – gli occupanti ottengono due risultati: proteggere se stessi dalle inondazioni, allagare la Striscia di Gaza e aumentare la sofferenza della popolazione palestinese assediata”. Veramente una grande dimostrazione di civilità
http://infopal.it/leggi.php?id=13356
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Il punto di vista di Lyndon LaRouche, dalla newsletter di http://www.movisol.org/ del 21.01.2010
La voce grossa dell’UE contro la Grecia nasconde il destino segnato dell’Euro
Il modo in cui l’Unione Europea sta gestendo la crisi finanziaria greca ricorda la dinamica di un’automobile che finisce sul ghiaccio. Una volta iniziato a slittare, qualsiasi cosa faccia il guidatore, col volante, l’acceleratore o il freno, accelererà o aggraverà l’unico esito possibile del testacoda: uno schianto. E così l’UE, minacciando la Grecia di multe, negando gli aiuti finanziari ed esigendo un’austerità feroce, peggiora la crisi e incoraggia l’esito che teme maggiormente: un’insolvenza sovrana che porterà allo sfascio del sistema dell’Euro.
Quando Fitch ha declassato il debito greco a BBB+, segnalando la possibilità di un’insolvenza sovrana, gli investitori internazionali hanno iniziato a vendere titoli greci, scatenando le scommesse al ribasso degli hedge funds. Poi, il presidente della BCE Jean-Claude Trichet ha fatto la voce grossa, dichiarando che la Grecia non deve attendersi alcun trattamento speciale, così provocando un’altra caduta dei titoli greci. Il tutto si risolve in un aumento dei costi di rifinanziamento, aumentando la difficoltà di ridurre il deficit. Mentre Trichet chiede tagli brutali della spesa sociale e la Commissione UE accusa il governo greco di ostacolare una verifica dei conti pubblici, un team del governo tedesco è alacremente alla ricerca di una scappatoia giuridica che permetta un salvataggio della Grecia.
Come ha dichiarato Marco Annunziata di Unicredit, l’UE sta giocando al rialzo, esercitando enormi pressioni sulla Grecia per operare i tagli al bilancio, mentre allo stesso tempo sta preparando un salvataggio in caso di emergenza.
Il Presidente del Movimento Solidarietà tedesco (BüSo), Helga Zepp LaRouche, ha descritto il dilemma dell’UE il 16 gennaio: “Se l’UE non concede aiuti alla Grecia, questa potrebbe dichiarare insolvenza e uscire dall’UME”. Reintroducendo una moneta nazionale, la Grecia guadagnerebbe spazio di manovra, perlomeno a breve termine. Ma un’uscita della Grecia dall’Eurozona avrebbe conseguenze devastanti per l’Euro, aumentando drammaticamente i costi di finanziamento degli altri paesi ad alto debito, come la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda e l’Italia. Prima o poi altri seguirebbero la Grecia, segnando la fine della moneta unica.
D’altro canto, “se l’UE o il governo tedesco trovano un modo per dare aiuti finanziari alla Grecia, ciò segnerà un precedente e gli altri paesi ad alto debito chiederanno lo stesso trattamento. Non è dato sapere quanto il contribuente tedesco sia disposto a sopportare”.
Il pericolo di uno sgretolamento dell’Euro ha spinto la Banca Centrale Europea a commissionare uno studio sulle conseguenze legali della decisione di un membro singolo dell’UE di uscire dall’Euro. Questo studio, visionato dal Telegraph, è un esempio magistrale di come funzioni il sistema giuridico neofeudale dell’UE. Esso sostiene che se uno stato abbandona l’Euro sarà automaticamente espulso dall’UE.
“L’autore”, scrive il Telegraph del 18 gennaio, “fa una serie di affermazioni contorte, gesuitiche e maligne, come fanno spesso i legali dell’UE”. Mezzo secolo di unione sempre più stretta avrebbe creato un “nuovo ordine giuridico” che trascende un “concetto di sovranità largamente obsoleto” e impone una “limitazione permanente” sui diritti degli stati. L’autore sostiene che l’uscita dall’eurozona comporta l’espulsione dall’Unione Europea. Tutti i membri dell’UE devono far parte dell’Unione Monetaria, tranne la Gran Bretagna e la Danimarca che hanno ottenuto i cosiddetti “opt-out”.
Sono argomenti ovviamente mirati all’opinione pubblica greca, per convincerla ad accettare sacrifici incredibili per restare nell’UE, dove la Grecia è ricevitore netto. Però la loro efficacia è dubbia, specialmente alla luce del fatto che i sacrifici richiesti peggioreranno le cose.
“Se la Grecia e altri paesi ad alto debito”, scrive Helga Zepp LaRouche, “sono costretti a fare i tagli e allo stesso tempo a onorare i debiti, ciò accelererà il loro declino. Dal punto di vista della Tripla Curva di Lyndon LaRouche, ciò condurrebbe ad un’ulteriore, drammatica caduta dei valori che hanno a che fare con la produzione fisica, con l’occupazione e le capacità industriali e agricole. Allo stesso tempo, la curva che descrive la crescita dei titoli monetari si impennerebbe ulteriormente verso l’alto, accelerando un’esplosione di iperinflazione come nella Germania del 1923”.
Helga Zepp LaRouche ricorda che ella fu tra coloro che fin dall’inizio si opposero all’abbandono della sovranità monetaria e al ricatto imposto sulla Germania per la riunificazione nel 1989. Tra le conseguenze di quell’accordo, non solo la Germania è stata costretta a finanziare “obliquamente” tutti gli altri membri dell’UE, tramite la moneta unica, ma anche ad adottare l’ideologia verde anti-scientifica imposta dall’Unione Europea. “Se l’attuale politica UE non viene sostituita con una politica industriale ragionevole, orientata alla scienza”, ad esempio abbandonando la fobia anti-nucleare, le nazioni atlantiche “saranno popolate da cavernicoli”, mentre le nazioni del Pacifico, che oggi applicano “quelli che una volta erano i valori delle nazioni industriali europee”, si svilupperanno e plasmeranno il XXI secolo.
La presidentessa del BueSo chiede di “tornare all’Europa pre-Maastricht, o meglio ancora, all’Europa delle Patrie, delle repubbliche sovrane”, e di “reintrodurre un sistema di cambi stabili, che è comunque necessario”. “Solo se l’attuale sistema in bancarotta irreversibile verrà sostituito da un sistema di credito e se verrà ricostruita l’economia fisica, le nazioni europee avranno la possibilità di riprendere il destino nelle proprie mani. Si ascoltino, ora, le soluzioni offerte da coloro che hanno avuto ragione con i loro avvertimenti”.
Esperti americani chiedono di seguire la guida dell’Asia sull’energia nucleare
Mentre i paesi asiatici, inclusa la Russia, sono fermamente avviati sulla strada del nucleare civile e dello sviluppo infrastrutturale, Europa e Nord America continuano a seguire una politica suicida di deindustrializzazione. Attualmente sono in costruzione 58 nuovi impianti nucleari in 14 paesi, 41 dei quali in Asia e Russia.
Sia la Russia che la Corea del Sud hanno concluso recentemente accordi spettacolari sul nucleare: quattro settimane fa i coreani hanno firmato un accordo da 20 miliardi di dollari con gli Emirati Arabi Uniti per la costruzione di quattro reattori nucleari, mentre i russi hanno appena firmato un accordo simile con la Turchia per un’unità formata da quattro reattori. Inoltre, il governo sud coreano ha annunciato che intende esportare 80 reattori entro l’anno 2030, per un fatturato previsto di 400 miliardi di dollari.
Tuttavia, anche negli Stati Uniti ed in Europa viene messa in dubbio la politica della stagnazione. L’11 gennaio, 224 scienziati ed ingegneri nucleari, medici, docenti universitari, imprenditori, specialisti agricoli americani ed internazionali hanno pubblicato una lettera al consigliere scientifico del Presidente Obama John Holdren, chiedendo al governo di riportare gli Stati Uniti sulla via dell’energia nucleare.
La lettera afferma che gli USA sono “in ritardo rispetto al resto del mondo” nello sviluppo ed anche nella realizzazione dell’energia nucleare. Dei 58 nuovi impianti nucleari in costruzione in tutto il mondo, specifica, solo uno è in Nord America, ed è un impianto da tempo sotto naftalina che la TVA si è finalmente decisa a completare. “La nostra nazione ha bisogno di procedere rapidamente – e non tra venti o cinquant’anni – fintanto che coloro che sono stati i pionieri di questa scienza e ingegneristica possono ancora fungere da guida per una nuova generazione di scienziati ed ingegneri. Non c’è alcuna giustificazione politica, economica o tecnica per rinviare i benefici che l’energia nucleare porterà agli Stati Uniti, mentre il resto del mondo va avanti”.
I firmatari fanno due “raccomandazioni urgenti”. La prima è di “accelerare le licenze e la costruzione” dei reattori nucleari di generazione attuale. La seconda è di sviluppare i reattori di quarta generazione. Si chiede specificamente il ritorno al programma per sviluppare e dimostrare la tecnologia per il riciclaggio del combustibile usato (di riprocessamento) abolito dall’amministrazione Obama. La lettera sottolinea che Russia, Cina, India, Giappone e Corea del Sud hanno espresso interesse nel contribuire ad un reattore veloce dimostrativo.
I firmatari della lettera sono quasi tutti americani, ma ci sono anche firmatari da altre 10 nazioni. Tra loro l’accademico E.P. Velikhov, direttore dell’Istituto Kurchatov e il dott. Baldev Raj, direttore del Centro Indira Gandhi per la Ricerca Atomica in India. Ha firmato anche Harrison Schmitt, astronauta dell’Apollo e geologo. La lettera è stata spedita a tutti i membri del Congresso USA.
La Casa Bianca di Obama nel panico per la riforma sanitaria
Quando costrinse il Congresso ad approvare il pacchetto di salvataggio delle banche di oltre 700 miliardi di dollari nell’autunno 2008, l’amministrazione Bush fece ricorso a qualsiasi trucchetto, inclusa la minaccia di imporre la legge marziale, per ottenere un voto favorevole. Le tattiche usate dall’amministrazione Obama per far passare una riforma sanitaria sul modello britannico sono state simili.
Dopo aver rinunciato alla speranza di ottenere i voti repubblicani, l’amministrazione e la leadership democratica alla Camera ed al Senato hanno dato vita a estenuanti sedute di negoziati per “persuadere” i parlamentari a sottomettersi al più reazionario del due disegni di legge, quello approvato al Senato. Tra le sue disposizioni chiave, non presenti nel testo presentato alla Camera, c’è l’istituzione di un Comitato Indipendente Medicare (o Comitato Indipendente sui Pagamenti, IPAB) che ignorando il volere del Congresso deciderà come ridurre la spesa medica per gli anziani (il Medicare) – ed è diventato noto come una “giuria della morte” che deciderà chi vive e chi muore, relativamente libera da alcuna interferenza da parte del Congresso.
Benché l’amministrazione Obama sostenga che il disegno di legge si propone di estendere l’assicurazione sanitaria a più americani, il vero obiettivo, dichiarato nero su bianco, è di ridurre la spesa sanitaria di almeno 500 miliardi di dollari. E’ inevitabile che un taglio di questa portata significherà la riduzione dell’assistenza sanitaria agli anziani. Dall’estate scorsa la Casa Bianca insiste sull’inclusione nella legge di questa disposizione sul “taglio alla spesa”.
Si tratta tuttavia di una disposizione molto controversa. Continua ad aumentare l’opposizione alla creazione di tale commissione indipendente. Una lettera alla Presidente della Camera Nancy Pelosi, promossa dall’on. Richard Neal per opporsi all’IPAB, è stata sottoscritta da 99 membri del Congresso di entrambi i partiti. Un’altra lettera ai leader del Congresso che si oppone con forza all’IPAB è stata pubblicata da 74 gruppi di medici e pazienti in rappresentanza di 9 milioni di pazienti di Medicare, compresi l’Associazione Ospedaliera Americana, la Medical Group Management Association, l’Association of American Medical Colleges e l’American College of Surgeons.
Inoltre, numerosi sindacati hanno deciso di dare battaglia, nonostante le pressioni della Casa Bianca, e non hanno accettato l’idea che i contributi pagati dai datori di lavoro per la copertura sanitaria dei propri dipendenti verranno tassati dallo stato, se verrà approvato il ddl al Senato. Un’ovvia conseguenza di questo sarà quella di ridurre i contributi alla previdenza sociale per pagare meno tasse. I sindacati che non sono stati “comprati” duranti i negoziati alla Casa Bianca includono quello dei macchinisti e dei lavoratori aerospaziali, uno dei più importanti nel paese, e quello dei vigili del fuoco.
Ora si tenta di far approvare il ddl al Senato prima dei risultati di un’elezione suppletiva nel Massachusetts il 19 gennaio, per assegnare il seggio lasciato vuoto da Ted Kennedy al Senato, o almeno prima che venga insediato il nuovo senatore. La Casa Bianca si sta facendo in quattro per assicurare la vittoria della democratica Martha Coakley da quando, contro ogni aspettativa, il suo antagonista repubblicano Scott Brown è risalito nei sondaggi arrivando a superarla il 14 gennaio. Questo in uno stato che è solidamente democratico dal 1972. Brown dice giustamente che questa elezione equivale di fatto ad un referendum sulla riforma sanitaria di Obama, generalmente odiata.
Presi dal panico, i leader democratici hanno invitato la Coakley a Washington il 12 gennaio per una raccolta fondi sponsorizzata dalle principali ditte farmaceutiche e mutue private (HMO), le stesse che hanno contribuito a scrivere la riforma di Obama! La mossa si è rivelata controproducente e subito dopo la candidata democratica è crollata nei sondaggi.
Se i democratici perdono questa elezione, perderanno il loro 60esimo voto al Senato, quello di cui hanno bisogno per sconfiggere l’ostruzionismo repubblicano. L’on. Barney Frank ha avuto ragione per una volta quando ha detto che se vinceranno i repubblicani “questo metterà la parola fine alla riforma sanitaria”. Anzi, sarà finita politicamente anche l’amministrazione. Ci si attendono dunque sporchi trucchi anche nel Massachusetts.
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Pervenuto da Bruna Rumelaj Botta via Facebook il 21.01.2010
Di Carl Lindskoog, su Haiti
Nelle ore seguenti il devastante terremoto di Haiti la CNN, il New York Times ed altri media importanti hanno adottato un’interpretazione comune circa le cause di una distruzione così grave: il terremoto di magnitudo 7.0 è stato tanto devastante perché ha colpito una zona urbana estremamente sovrappopolata ed estremamente povera. Case “costruite una sull’altra”, edificate dagli stessi poveri abitanti, ne hanno fatta una città fragile. Ed i molti anni di sottosviluppo e di sconvolgimenti politici avrebbero reso il governo haitiano impreparato ad un tale disastro.
Questo è piuttosto vero. Ma la storia non è tutta qui. Quello che manca è una spiegazione del perché così tanti haitiani vivono a Port Au Prince e nei suoi sobborghi e perché tanti di loro sono costretti a sopravvivere con così poche risorse. Infatti, anche se una qualche spiegazione è stata azzardata, si tratta spesso di spiegazioni false in maniera vergognosa, come la testimonianza di un ex diplomatico statunitense alla CNN secondo la quale la sovrappopolazione di Port Au Prince sarebbe dovuta al fatto che gli haitiani, come la maggior parte dei popoli del Terzo Mondo, non sanno nulla di controllo delle nascite.
Gli americani avidi di notizie potrebbero anche spaventarsi apprendendo che le condizioni cui i media americani attribuiscono l’amplificazione dell’impatto di questo tremendo disastro sono state in gran parte il prodotto di politiche americane e di un modello di sviluppo a guida americana.
Dal 1957 al 1971 gli haitiani hanno vissuto sotto l’ombra oscura di “Papa Doc” Duvalier, un dittatore brutale che ha goduto del sostegno degli Stati Uniti, perché è stato considerato dagli americani come un affidabile anticomunista. Dopo la sua morte il figlio di Duvalier, Jean-Claude soprannominato “Baby Doc”, è diventato presidente a vita all’età di diciannove anni ed ha regnato su Haiti fino a quando non è stato rovesciato nel 1986. E’ stato nel corso degli anni ’70 ed ’80 che Baby Doc, il governo degli Stati Uniti e la comunità degli uomini d’affari hanno lavorato di concerto per mettere Haiti e la sua capitale sulla buona strada per diventare quello che erano il 12 gennaio 2010.
Dopo l’incoronazione di Baby Doc, pianificatori americani dentro e fuori il governo statunitense hanno avviato un loro piano per trasformare Haiti in una “Taiwan dei Caraibi”. Questo piccolo e povero paese situato convenientemente vicino agli Stati Uniti è stato messo in condizioni di abbandonare il suo passato agricolo e di sviluppare un robusto settore manifatturiero esclusivamente orientato all’esportazione. A Duvalier e ai suoi alleati fu detto che questo era il modo di modernizzare e di sviluppare economicamente il paese.
Dal punto di vista della Banca Mondiale e dell’Agenzia Statunitense per lo Sviluppo Internazionale (USAID) Haiti ha rappresentato il candidato ideale per questo lifting neoliberista. La povertà radicata delle masse haitiane poteva essere utilizzata per costringerle ad accettare lavori a bassa remunerazione, come il cucire palle da baseball o l’assemblare altri prodotti di consumo.
USAID però aveva piani precisi anche per l’agricoltura. Non soltanto le città haitiane dovevano diventare punti di produzione di articoli da esportare: anche la campagna doveva seguirne le sorti, e l’agricoltura haitiana fu riorganizzata per servire alla produzione di articoli da esportare e sulla base di una produzione orientata al mercato estero. Per raggiungere questo scopo USAID, insieme con gli industriali cittadini e con i latifondisti, si è data da fare per impiantare industrie di trasformazione dei prodotti agricoli, al tempo stesso incoraggiando la pratica, già in uso, di rovesciare molte eccedenze agricole di produzione statunitense sul popolo haitiano.
Era prevedibile che questi “aiuti” da parte degli americani, innescando cambiamenti strutturali nell’agricoltura, avrebbero costretto i contadini di Haiti che non erano più in grado di sopravvivere a migrare verso le città, soprattutto verso Port Au Prince, dove si pensava si sarebbro concentrate le maggiori opportunità di occupazione nel nuovo settore manifatturiero. Tuttavia, quanti arrivarono in città scoprirono che i posti a disposizione nel settore manifatturiero non erano neppure lontanamente abbastanza. La città divenne sempre più affollata e si svilupparono grandi insediamenti fatti di baracche. Per rispondere alle necessità abitative dei contadini sfollati si mise all’opera un modo di costruire economico e rapido, a volte edificando le abitazioni letteralmente “l’una sull’altra”.
Prima che passasse molto tempo, tuttavia, i pianificatori americani e le élite haitiane hanno deciso che forse il loro modello di sviluppo non aveva funzionato così bene ad Haiti, e l’hanno abbandonato. Le conseguenze degli stravolgimenti introdotti dagli americani, ovviamente, sono rimaste.
Quando il pomeriggio e la sera del 12 gennaio 2010 Haiti ha subìto quel terrificante terremoto, e via via tutte le scosse di assestamento, le distruzioni sono state, senza dubbio, notevolmente peggiorate dal concreto sovraffollamento e dalla povertà di Port-au-Prince e delle aree circostanti. Ma gli americani, pur scioccati, possono fare di più che scuotere la testa ed elargire qualche caritatevole donazione. Essi possono mettersi davanti alle responsabilità che il loro paese ha per quelle condizioni che hanno contribuito ad amplificare l’effetto del terrremoto sulla città di Port Au Prince, e possono prendere cognizione del ruolo che l’America ha avuto nell’impedire ad Haiti il raggiungimento di un grado di sviluppo significativo.
Accettare la storia monca di Haiti offerta dalla CNN e dal New York Times significa addossare agli haitiani la colpa di essere stati le vittime di una situazione che non era frutto del loro operato. Come scrisse John Milton, “coloro che accusano gli altri di essere ciechi, sono gli stessi che hanno cavato loro gli occhi.”
http://www.commondreams.org/view/2010/01/14-2
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D’America, di rivoluzioni e d’altro 22.01.2010
Il compagno che la redazione de IL BUIO mi ha incaricato di contattare per un’intervista in esclusiva sulla situazione in Latino-America vive attualmente a Bogotà, la capitale della Colombia, un Paese al centro delle cronache più infami di quest’angolo di mondo dimenticato dal dio della Giustizia e della Verità.
Un mondo infelice e sciagurato, quello in cui Manuel (così chiameremo il nostro interlocutore, convinto, come lo siamo noi, che i nomi, in sé, non contano nulla, essendo il processo rivoluzionario del tutto impersonale ed anonimo) attualmente vive, perché oggetto delle politiche genocide ed espansionistiche del Nemico dell’Umanità per eccellenza: l’imperialismo Usraeliano.
Bogotà, a sentire Manuel e altri che conoscono di persona l’evoluzione recente della città, pare abbia compiuto un grande sforzo, negli ultimi cinque anni, per rendersi più presentabile: ha riasfaltato le strade piene di buche, ha costruito ponti e strade a scorrimento veloce; ha inaugurato la linea di trasporto veloce Transmilenio. E si è occupata anche dei tanti barboni, venditori ambulanti e mendicanti che popolavano le sue strade.
Ma tutto ciò l’ha fatto solo dal punto di vista estetico, un po’ com’è successo qualche mese fa a Napoli con una spazzatura di altro tipo. La cricca mafiosa e fascista di Uribe ha “ripulito” la metropoli dagli ambulanti, affidando nello stesso tempo la soluzione del problema dei gamines, vale a dire dei bambini di strada, alla polizia.
C’erano bande di gamines che dormivano nei parchi, facendo quello che fanno le bande di bambini senza casa in tutto il mondo: rubavano, picchiavano, uccidevano, violentavano, si prostituivano, sniffavano la coca e fumavano il basuco, la pasta di coca grezza più micidiale del crack.
La polizia si è presa cura di loro: ha preso a perseguitarli, a seviziarli, a sequestrarli, a torturarli, a minacciarli con la pistola in bocca.
A Bogotà, però, ci sono anche quartieri in cui gli sbirri del narcotrafficante al soldo degli yankee non hanno il coraggio di entrare: Cartucho è uno di questi; e proprio a Cartucho, in uno bar “più malfamati” (per dirla con una pubblicità di successo), abbiamo raggiunto Manuel, un compagno internazionalista che, a differenza delle canaglie piciste, ama la libertà, le donne e la Rivoluzione, non necessariamente in questo ordine.
IL BUIO: ¡Hola!, Manuel! Che ne dici se salto i preliminari ed entro subito nel merito della nostra intervista?
MANUEL: Certo, va benissimo!
IL BUIO: La nostra chiacchierata, già lo sai, verterà sull’America Latina. Un continente che, poco più di trent’anni fa, fu percorso dalle guerriglie che lottavano per il potere. Oggi, alle guerriglie, sembrano essersi sostituiti i “governi di Sinistra”, una sorta di alternativa riformistica alla politica rivoluzionaria delle guerriglie, piuttosto che l’evoluzione naturale delle seconde. Insomma, muovendo da Santucho, il leggendario leader dell’ERP argentino, e dal Che siamo arrivati a Chavez e a Morales: un’evoluzione o, piuttosto, un’involuzione della Rivoluzione latino-americana? Tu che ne pensi, compa?ero?
MANUEL: Io partirei dalla constatazione, peraltro abbastanza ovvia e scontata, che sono venute meno le condizioni che hanno determinato la nascita delle guerriglie. Ne elenco solo alcune, e non lo faccio rispettando l’ordine di importanza. Innanzitutto, ricordo l’esempio della rivoluzione cubana, un esempio rivoluzionario che ha finito per rappresentare un modello a cui tutti i rivoluzionari del continente dovevano necessariamente far riferimento. Non va poi dimenticata l’esistenza di dittature al servizio dell’imperialismo yankee: ed anche voi, in Italia, sapete benissimo, per esperienza storica, che la scelta della tattica rivoluzionaria muta, se dalla democrazia si passa alla dittatura, e viceversa.
Oggi, anche per una precisa scelta dell’imperialismo a stelle e strisce, le democrazie vengono ritenute più funzionali al mantenimento della pace sociale. I motivi sono più d’uno: mi limiterò comunque a ricordarvi che, a voi, in Italia, sono stati sufficienti più o meno vent’anni per liberarvi dal regime dittatoriale fascista. Mentre ne sono passati più di sessanta ed ancora non siete venuti a capo della democrazia borghese, un regime che, non a caso e giustamente, i compagni rivoluzionari cileni hanno ribattezzato democradura!
IL BUIO: Questo significa, a tuo modo di vedere, che le guerriglie, come ha sostenuto di recente Chavez, “hanno perso senso”?
MANUEL: Non proprio. Secondo me, la guerriglia ha conservato intatto il proprio “senso storico” (che poi significa: la propria legittimità) in alcuni Paesi come il Perù di Sendero Luminoso ed il Messico (su cui spero mi porrai qualche domanda specifica più avanti): va però detto che, nelle aree geopolitiche in cui è attiva la guerriglia non è all’ordine del giorno la presa del potere. Per una serie di motivi che non ho il tempo di approfondire in una conversazione telefonica.
Prendi comunque il caso delle FARC, visto che siamo, in un certo senso, “a casa loro”.
Fino alla morte di Marulanda, il loro leggendario dirigente, un marxista-leninista forgiato nell’acciaio della lotta, non nella ricotta di certi pseudorivoluzionari delle parti vostre, le FARC si ponevano concretamente il problema della presa del potere. Nel senso che si trattava di una possibilità concreta, all’ordine del giorno, dal punto di vista dei rapporti di forza concreti fra Rivoluzione e Controrivoluzione. Oggi la situazione si è modificata: le FARC, fino alla morte di Marulanda (uso la data dell’episodio come punto di riferimento convenzionale) all’offensiva, in séguito ad una serie di sconfitte si trovano ora sulla difensiva: in pratica, in Colombia la presa del potere non è più all’ordine del giorno.
Per quanto riguarda invece i cosiddetti “Governi di sinistra”, credo vada subito chiarito che nessuno di essi, neppure quello più “avanzato”, rappresenta una reale alternativa di potere. In primo luogo perché “ottenere la maggioranza parlamentare ed andare al governo” non significa affatto “prendere il potere”: il governo non è lo Stato, i gruppi parlamentari non sono l’Esercito e le leggi non sono né le prigioni né le forze di polizia né le banche né le fabbriche.
Alcuni dei limiti dei “governi di sinistra” sono peraltro alla fonte della legittimità, e dunque della sopravvivenza, di certe guerriglie: prendiamo il caso recente dell’Honduras.
IL BUIO: A proposito di Honduras: qual è il tuo parere? Si tratta di una sorta di anacronistico “ritorno del passato”, oppure no?
MANUEL: La risposta dovrebbe essere scontata, se ripensi a quello che ti dicevo due bottiglie di birra fa (o un certo numero di scatti del telefono, per te che immagino ti domandassi a che cosa erano dovute le mie pause).
Gli yankee e le loro bestie da cortile di casa non hanno mai rinunciato definitivamente all’opzione armata, all’arma del golpe: non dovete dimenticare il tentato “golpe” in venezuela del 2002, la tentata eliminazione fisica di Chavez ed i ripetuti complotti orditi contro il popolo venezuelano; le manovre sediziose e secessioniste (altro che Bossi e la Lega in Italia!) in Bolivia; la situazione del Guatemala, le voci ricorrenti di imminente colpo di stato in Paraguay e via elencando crimini e progetti che, con la (falsa) immagine di una nuova Amministrazione yankee “tutta amore e pace” (all’italica maniera), non ha proprio nessun tratto in comune. Anche se, in Honduras, gli USsraeliani non sono, almeno in apparenza, intervenuti direttamente, è indubbio che non è affatto difficile scorgere il loro mefitico e criminale zampino. Ti faccio solo notare un particolare, su cui ti invito a riflettere, compa?ero: in passato, il pretesto per il golpe era fornito dall’ingovernabilità provocata dalla forza dei movimenti di massa; oggi, significativamente, da una presunta crisi istituzionale (senza entrare nel merito delle ragioni che l’hanno resa tale). Tutto ciò per dire anche – sottolineo anche – che l’argomentazione secondo cui le guerriglie hanno sempre e soltanto fornito il pretesto per una “sterzata repressiva” è assolutamente falsa: lo dimostra, fra l’altro, proprio il caso dell’Honduras!
Un’intero articolo, poi, andrebbe dedicato all’intervento israeliano in America Latina, più silenzioso e meno roboante di quello statunitense, ma presente in queste aree da tempo.
Dove per gli statunitensi è stato oramai impresentabile presentarsi come alleati di governi dittatoriali o autoritari (per esempio, il Guatemala della “guerra sucia” di Rios Montt), gli israeliani, assieme a Taiwan, hanno dimostrato di non avere alcun problema a fare il “lavoro sporco”.
E, sorpresa, anche nel golpe in Honduras, secondo voi chi è riapparso a “consigliare” l’operato degli squadroni della morte che mantengono sotto pressione (è un eufemismo…) l’eterogeneo fronte della resistenza?
Sai, sono ben allenati in questo…
IL BUIO: Non fa una piega… E a proposito di guerriglie, di sfuggita abbiamo letto di un ritorno di fiamma del PCP (o Sendero Luminoso) in Perù. Hai notizie più particolareggiate?
MANUEL: Bisogna, innanzi tutto, specificare che esistono vari gruppi che, sostanzialmente, si dividono sul riconoscimento del proprio leader storico Gonzalo, catturato nel 1992.
Attualmente chi riconosce Gonzalo come leader ed ispiratore è la corrente in stato di non belligeranza detta “Accordista”, che punterebbe solamente a organizzare iniziative di solidarietà con i militanti incarcerati e ad integrare il rimanente del gruppo nella lotta politica legalizzata, mentre coloro che hanno deciso di proseguire la lotta armata (la parte del PCP autodefinitosi dopo la scissione “Linea Roja”) è tuttora attivo ed è, appunto, l’organizzazione che oggi si è denominata “Proseguir” ed è tornata prepotentemente sulla scena con un attacco a una colonna militare che ha causato 19 morti e vari altri atti di sabotaggio.
Devo dire che il PCP è stato sconfitto militarmente, ma non è mai stata distrutta la sua base sociale. Ad oggi, infatti, sono molto attivi nella zona andina del Perù e hanno ripreso le azioni contro lo stato anche se l’organizzazione è confinata nella zona della selva
IL BUIO: Abbiamo accennato in più di un’occasione al Venezuela. La domanda, allora, è scontata e prevedibile: cosa ci dici del Venezuela?
MANUEL: Per chi, come me e come voi, ha a cuore le sorti della rivoluzione in Latino-America, il Venezuela chavista, bolivariano, è importante. Per la stessa Bolivia in cui mi trovo attualmente e per l’economia più generale dei movimenti progressivi latino-americani. C’è da dire che il chavismo, all’inizio movimento prevalentemente nazionalista, con fumosi ed incerti connotati di classe, ha subìto progressivamente un processo di radicalizzazione. La sua forza riposa anche sul fatto di poter contare sui proventi del petrolio. Il mio giudizio su Chavez? Tutto sommato positivo. Anche se non sono convinto che i passi che il suo Movimento sta compiendo vadano nella direzione del socialismo: semmai, verso una sorta di “capitalismo dal volto umano”, fondato su carattere pubblico (di Stato) dell’industria di base e dei principali servizi. I programmi bolivariani mi suonano bene, favorevolmente: perché mettono al centro problemi importanti come quello della Sanità e della scuola, dell’alfabetizzazione. Ciò non vuol dire che si stiano risolvendo tutti i problemi: prendete quello, tuttora aperto, dei barrios. E poi c’è la sfida della burocrazia, un cancro che rischia di compromettere il cammino e la stessa destinazione finale della Rivoluzione.
Comunque, il movimento che fa riferimento alla presidenza-Chavez è un movimento composito, articolato, sia politicamente che socialmente. Al suo interno, convivono in un equilibrio tutto sommato precario, tendenze opportunistiche che esaltano acriticamente Chavez e tendenze “di destra” – personificate da Diosdado Cabello e Chacon – che poco hanno in comune con le correnti popolari e “di sinistra” con cui di fatto convivono.
La situazione, in ogni caso, è migliore rispetto a qualche anno fa, dato che la sopraccitata “destra chavista”, la cosiddetta “borghesia rossa”, dopo aver influito negativamente su una serie di processi (come ad esempio il tentativo di dare più poteri ai Consigli Comunali che in Venezuela dovevano diventare, nella prospettiva di Chavez, una sorta di soviet, con le debite proporzioni e contestualizzazione), oggi sono sotto attacco a causa della corruzione dilagante.
Senza considerare l’importanza che riveste il Venezuela nell’ambito dei rapporti internazionali sia all’interno del continente che nel resto del mondo, cosa che basterebbe per esprimere un giudizio positivo su Chavez.
Spero di aver soddisfatto la tua curiosità, anche se, come saprai già benissimo, è difficile condensare in poche parole analisi e giudizi che richiederebbero ore ed ore di conversazione…
BUIO: Ci interessava, infine, conoscere l’attuale situazione del Messico, ritenendolo importante (sia storicamente che geopoliticamente) nel contesto dell’America Latina.
MANUEL: Vi posso dire che la situazione odierna, per quanto concerne le situazione delle realtà rivoluzionarie, non ha, a mio avviso, sbocchi immediati. Le organizzazioni presenti sul territorio urbano e contadino (Fuerzas Armadas Revolucionarias del Pueblo (FARP), Ejército Revolucionario del Pueblo Insurgente (ERPI), … che sono generalmente gruppi nati da scissioni del più famoso E.R.P., Ejército Revolucionario del Pueblo) non si scontrano con lo stato se non in occasioni contingenti come successe nel 2007, quando, in risposta al rapimento di due dirigenti dell’E.R.P., attaccarono una serie di oleodotti). Concentrano il lavoro sull’”attività di massa”.
Per quanto riguarda la situazione dell’E.Z.L.N. (Ejército Zapatista de Liberación Nacional), invece,esiste una situazione di stallo dove viene gestita la quotidianità nell’area.
Infine, a livello sociale, esistono piccole situazioni di lotta come quella dello scontro tra gli elettricisti e la società dell’energia elettrica che ha dato vita a manifestazioni di massa partecipate da milioni di persone e a scontri con la polizia.
A mio parere, la situazione, seppur in un contesto di crisi che ha generato un aumento di vari milioni di disoccupati e della conflittualità, non presenta per il potere particolari criticità.
Il problema attuale in Messico è la rottura del patto di non belligeranza tra lo stato e alcuni cartelli del narcotraffico che ha generato una serie di conflitti di cui è giunto eco anche in Europa con un saldo di circa 16.000 morti in tre anni, che danno la dimensione di un conflitto. L’attacco frontale al narcotraffico è stato esplicitamente richiesto dagli USA, ma lo stato messicano, che deve gestirlo, incontra serie difficoltà.
Parliamo di un cancro che oramai ritengo difficile da estirpare così facilmente visto che si è consolidato in anni e anni di rapporto simbiotico con lo stato e i governi sia del “democristiano” PRI che del “berlusconiano” PAN, e che per le impressionanti moli di denaro che muove costituisce una porzione significativa dell’economia messicana, e che, probabilmente, provocherà una forte scossa sociale e potrebbe avere effetti importanti sulla stabilità del paese.
BUIO: Ma come definisci il rapporto politico-economico tra USA e Messico? Siamo a livello della Colombia dove le decisioni strategiche sono appannaggio degli yankees?
MANUEL: No, assolutamente. Il Messico per tradizione e storia non accetterebbe mai di essere eterodiretto, anche se, logicamente, i rapporti tra il P.AN. (Partido Acción Nacional, il partito attualmente al governo, di destra e smaccatamente filoamericano, che ha sostituito dopo settanta anni il P.R.I., Partido Revolucionario Institucional) e gli USA è assolutamente migliorato, data la tendenza occidentalista del partito.
Teniamo presente che Uribe in Colombia è un vero e proprio fantoccio degli statunitensi, mentre Usa e Messico firmano accordi bilaterali. Ovviamente la dipendenza economica del Messico è evidente, tanto che in alcune zona di confine esistono zone dove la legislazione del lavoro messicana è sospesa a favore della produzione a basso costo di aziende che sono formalmente messicane, ma a controllo statunitense, oltre chiaramente a tutti gli accordi commerciali che legano i due paesi in maniera strettissima, ma fare un paragone con la Colombia mi sembra improprio…
Anche se attualmente, in funzione antidroga, è in vigore un piano di cooperazione militare chiamato “plan Merida”, simile in alcuni aspetti al “plan Colombia”, la presenza militare statunitense sul suolo messicano è un tabù che non è ancora stato intaccato, a differenza della Colombia. Verso gli Stati Uniti esiste ancora in Messico una certa ostilità condivisa sia da settori di sinistra che di destra.
BUIO: grazie Manuel e… hasta l’huego! Speriamo di risentirci presto perché vorrà dire che è accaduto qualche cosa di interessante alle tue latitudini!
MANUEL: Grazie a voi! Se ci risentiamo l’importante è che qualcosa si sia mosso. Qui o là conta poco. Conta che questo sistema de mierda perda più pezzi possibili… Speriamo di raccontarci molte grandi vittorie; delle sconfitte, seppur onorevoli, mi sono stufato…
http://www.ilbuio.org/index.php?articolo=9_172.txt
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nel 2005 era stato condannato a 7 mesi di carcere, poi prosciolto
Csm: rimosso il giudice anti-crocifisso 22.01.2010
Durissima sanzione a Tosti per il suo rifiuto di tenere udienze in aule giudiziarie con il simbolo cristiano
MILANO – Rimozione dall’ordine giudiziario. È la durissima sanzione inflitta dalla sezione disciplinare del Csm al giudice di Camerino Luigi Tosti, divenuto famoso per il rifiuto di tenere udienze in aule dove è esposto il crocifisso. A Palazzo dei Marescialli Tosti non ha fatto ricorso a un avvocato, come pure avrebbe potuto, e nemmeno all’assistenza di un collega magistrato, difendendosi da solo. Mentre si teneva il procedimento a suo carico, davanti alla sede del Csm alcuni radicali hanno manifestato in suo sostegno.
«PAGINA NERA» – «Oggi si è scritta una pagina nera per la laicità dello Stato italiano» ha detto Tosti al termine dell’udienza, annunciando che impugnerà il verdetto «prima davanti alle sezioni unite civili della Cassazione, poi, se sarà confermata una sentenza negativa, alla Corte europea». Secondo il giudice «la sentenza avrà ripercussioni anche sul ricorso che l’Italia vuole inoltrare alla Grande Camera (della Corte europea dei diritti dell’uomo, ndr)», in merito al crocifisso nelle scuole. «Nessuno può essere obbligato a subire una violazione di diritti inviolabili né a violare quelli degli altri – conclude -, e nemmeno il principio costituzionale supremo di laicità».
LA VICENDA – Il caso Tosti risale al maggio 2005, quando il giudice annunciò che non avrebbe più tenuto udienze se dall’aula del tribunale non fosse stato tolto il crocifisso. Un comportamento che ha mantenuto fino a gennaio 2006. Di conseguenza il Csm, che aveva già proceduto con la sospensione tre anni fa, ha optato per il più drastico provvedimento, configurando il rifiuto di compiere atti connessi all’attività giudiziaria. In sede penale Tosti era stato assolto per questa stessa vicenda dall’accusa di omissione di atti d’ufficio (dopo che, a novembre 2005, era stato condannato a 7 mesi di reclusione), ma solo perché era stato sostituito e dunque le udienze erano state regolarmente celebrate.
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