E’ morta Rina Gagliardi 28.06.2010
Uccisa da una implacabile malattia è morta domenica mattina Rina Gagliardi. Già senatrice del Prc, co-direttrice di “Liberazione” insieme a Sandro Curzi, negli ultimi tempi era collaboratrice de “Gli Altri”, la testata di Piero Sansonetti. Noi la ricordiamo soprattutto per i venticinque anni e più che ha trascorso nella redazione del “manifesto” di via Tomacelli, per un periodo anche in veste di direttrice (all’epoca, insieme a Mauro Paissan). Rina, classe 1947, era nata a Pisa dove poi si era laureata alla Normale; si era trasferita a Roma proprio per dar vita alla sua passione per la politica e il giornalismo e fin dal 1971 aveva fatto parte del gruppo di giovani brillanti ed entusiasti che insieme a Castellina, Rossanda, Parlato, Pintor e altri fuorusciti dalle file del Pci fondarono “il manifesto”. Redattrice della sezione politica, brava editorialista, era una protagonista imprescindibile in tutte le riunioni e le assemblee del nostro collettivo, fino al giorno in cui scelse di allontanarsene, polemicamente, per inseguire quello che sosteneva essere un impegno politico più diretto, nel partito e nel giornale di Rifondazione comunista. Più tardi, nel 2006, sarebbe stata eletta in Senato nelle liste del Prc, diventando poi membro della Commissione per la biblioteca e per l’archivio storico nonché della Commissione istruzione pubblica e beni culturali di Palazzo Madama.
Di Rina vogliamo anche ricordare le passioni che andavano al di là e al di sopra della politica: il suo compagno Dado Morandi in primo luogo e poi la lirica, le canzoni di Mina, il calcio, gli elenchi interminabili, maniacali (tutti i deputati col cognome di sei lettere, o tutti i calciatori della Fiorentina che cominciano per G, e cose del genere), che scriveva su fogli e foglietti per concentrarsi durante le riunioni. E le sigarette, ahimè, che probabilmente l’hanno alla fine uccisa.
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/06/articolo/2973/
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Dall’Italia innovativo prototipo anti-mine
Scritto da Pasquale La Torre 28.06.2010
I ricercatori dell’Università di Firenze hanno messo a punto un radar olografico a microonde in grado di intercettare le mine antiuomo nascoste nel suolo. Il nuovo prototipo (Rascan) è stato l’unico strumento selezionato tra i progetti innovativi ad alta utilità sociale che verranno presentati a Londra nel corso della Summer Scienze Exhibition 2010. Questo radar riesce ad ottenere immagini ad alta definizione di oggetti posti fino a 15 centimetri sotto la superficie. Permette quindi l’intercettazione delle mine anti uomo di ultima generazione, che hanno un involucro in plastica e possono sfuggire ai tradizionali metal detector.
Secondo quanto dichiarato a mezzo stampa da Lorenzo Capineri, docente di Elettronica all’Università di Firenze, il nuovo dispositivo potrà migliorare la prevenzione infortuni degli operatori addetti allo sminamento. In media si verifica un decesso ogni mille mine recuperate. Altri possibili impieghi sono previsti nel campo dell’edilizia, del legno e delle indagini sui beni culturali.
Dai dati del Landines Monitor Report emerge un quadro preoccupante: nel mondo 100 milioni di mine ancora sotterrate, che provocano ogni anno circa 6000 incidenti. Solo nel 2006, mine e residui bellici hanno ferito e ucciso 5761 persone (il 34% bambini). Le aree dove si registra ancora un massiccio utilizzo delle mine antiuomo sono la Somalia, la Birmania, il Pakistan.
Nonostante la reticenza di alcuni Paesi nel ratificare il Trattato di Ottawa che vieta la produzione, l’uso e il commercio di mine antiuomo, i programmi di sminamento sono operativi nei Paesi usciti da recenti conflitti (Angola, Mozambico, Ex Jugoslavia) e nel 2006 i finanziamenti per le opere di bonifica hanno raggiunto il record di 475 milioni di dollari.
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Golpe Monetario
Nel silenzio completo della politica italiana, oggi a Bruxelles si darà vita ad una nuova puntata di quel colpo di stato monetario attuato dalla classi dirigenti ai danni dei popoli europei. Mentre in Italia si discute di altro, in Europa stanno preparando una nuova stangata che se dovesse passare cambierebbe drasticamente la vita a milioni di persone.
Si tratta delle prime prove, strettamente informali, di modifica in senso peggiorativo del Patto di stabilità. Oggi infatti, il portavoce della cosiddetta Task Force, creata ad hoc lo scorso marzo per il Presidente dell’Unione Europea Van Rompuy, presenterà ai soli Coordinatori dei gruppi politici della commissione economica del Parlamento Europeo, le linee guida su come tenere sotto controllo i bilanci dei singoli Stati europei. La linea su cui sta lavorando questa task force è quella fissata dalla Commissione Europea lo scorso 17 giugno e possiamo così riassumerla: non fanno nulla per rimuovere le cause della crisi. Non tassano le transazioni speculative, non impediscono la vendita in borsa dei titoli allo scoperto, non bloccano i rapporti con i paradisi fiscali. In compenso usano lo spauracchio della speculazione per perseguire in modo accelerato l’obiettivo che da sempre hanno avuto le politiche neoliberiste e cioè il taglio della spesa sociale attraverso la riduzione dei deficit di bilancio.
La Commissione europea – formata da esponenti di centro destra e di centro sinistra – ha infatti deciso di peggiorare il Patto di stabilità al fine di obbligare tutti gli stati ad una politica di bilancio più restrittiva che veda il taglio del welfare, delle pensioni e della spesa sociale in generale. Queste misure, che si andranno a sommare ai 300 miliardi di tagli della spesa già decisi a livello europeo, avranno come unico effetto l’aggravamento della crisi. Infatti, se si continua a tagliare la spesa sociale continuerà a diminuire la quantità di denaro nelle tasche dei lavoratori e con essi la domanda. La crisi si avviterà su se stessa.
La fine dei lavori di questa task force è prevista per l’autunno ed è quindi necessario che da subito si accendano i riflettori sugli orientamenti della stessa. Nell’intendimento della Commissione europea, la modifica del Patto di stabilità dovrebbe dar luogo ad un sistema in cui i Paesi che si troveranno ad avere un deficit superiore al 3% in rapporto al Pil, e un debito superiore al 60% del Pil saranno obbligati ad un taglio drastico del deficit.
Per “stimolare” i Paesi a tenere i conti in ordine sarà messo in campo un sistema basato su sanzioni e incentivi che, per essere credibile, sarà agganciato all’uso dei fondi europei e dovrà entrare in funzione con una procedura semi-automatica. Procedura semi-automatica vuol dire che nessun organo legislativo potrà intervenire al riguardo e che scomparirà ogni forma di sovranità popolare nel poter determinare la politica di bilancio del proprio paese. In pratica se non si rispetterà il dictat ci sarà una multa, anche questa “semiautomatica”.
Ma non è finita, perché tutto questo si accompagnerà, nei disegni della Commissione europea, ad azioni di “stangata preventiva”. I governi non soltanto dovranno mettere in piedi politiche di rigore, ma saranno sottoposti ad una sorveglianza speciale da Bruxelles che indicherà eventuali squilibri da correggere. Ad esempio, il sistema sanitario nazionale del nostro paese potrebbe essere considerato come uno squilibrio macroeconomico non congruo con il resto del mercato europeo, come lo potrebbe essere il contratto nazionale del lavoro, che difende troppo i diritti dei lavoratori e non permette la giusta competitività.
Non solo i nostri governi futuri avranno una ulteriore limitazione della sovranità in campo economico, ma dovranno sottostare alle scelte neoliberiste che verranno imposte dall’Europa, appunto automaticamente, senza possibilità di opporsi o di modificarle.
Come abbiamo detto, dopo la tappa di mercoledì, la parola passerà al Consiglio dei ministri delle Finanze Ue, convocato per il 12 e 13 luglio prossimi con l’obiettivo di arrivare al varo delle nuove regole al vertice Ue di ottobre. Occorre svegliarsi prima che sia troppo tardi. Per questo parteciperemo nei prossimi giorni al Forum Sociale europeo di Istambul. Per questo proponiamo a tutte le forze della sinistra di organizzare insieme una mobilitazione contro la politica del governo ma anche contro le politiche europee che prevedono una distruzione strutturale del welfare e un peggioramento epocale delle condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone. Invece di baloccarsi con discorsi astrusi sul governo occorre costruire qui ed ora una opposizione di popolo alle manovre dei tecnocrati di Bruxelles perché altrimenti, nei prossimi anni, chiunque sarà chiamato a governare dovrà applicare i dictat brutalmente antisociali della Commissione Europea.
La necessaria cacciata di Berlusconi non può farci diventare così provinciali da lasciare in ombra il contrasto alle disastrose politiche europee costruite in modo bipartisan da centro destra e centro sinistra. Perché la destra la si batte solo se all’Europa dei capitali saremo in grado di contrapporre un movimento di massa per una Europa sociale, democratica ed egualitaria.
Paolo Ferrero
30/06/2010
http://www.liberazione.it/news-file/Golpe-Monetario—LIBERAZIONE-IT.htm
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Per due volte è mancata la maggioranza assoluta dei parlamentari
Germania, Christian Wulff è il nuovo presidente. Eletto solo al terzo voto
Berlino – (Adnkronos/Dpa) – Con 625 favorevoli ma solo al terzo scrutinio il candidato del centrodestra appoggiato dalla cancelliera Angela Merkel supera il rivale Gauck
Berlino, 30 giu. – (Adnkronos/Dpa) – Il candidato di Angela Merkel, Christian Wulff, è stato eletto presidente della Germania, ma solo al terzo voto, dopo che per due volte non era riuscito a ottenere la maggioranza assoluta dei voti dei parlamentari. Wulff è stato eletto con 625 favorevoli e 494 contrari
Vero è anche che i partiti della coalizione di governo in Germania stanno invece vivendo un forte calo di popolarità, un dato che molti analisti hanno messo in relazione con il movimento di opinione a favore di Gauck, politico indipendente, slegato dai partiti, con una storia personale che ne rafforza l’autorità morale: Gauck è stato un dissidente della Germania orientale, incaricato nel 1990 della supervisione sull’archivio della Stasi, la polizia segreta della DDR che lo aveva peraltro tenuto sotto controllo negli anni precedenti la caduta del Muro.
Diversi rappresentanti della maggioranza – 644 in tutto gli esponenti di Cdu/Csu e Fdp che fanno parte dell’Assemblea – hanno dunque scelto di non votare per Wulff, che ha ottenuto 600 voti al primo turno, 615 al secondo, sempre meno dei 623 richiesti.
Per Angela Merkel si è trattato di un vero e proprio schiaffo (“Una debacle, un colpo”, “Un fiasco per il cancelliere ed il suo governo”, scrive ‘Der Spiegel’ online, ‘Una lezione’ secondo la FAZ), un risultato comunque destinato a pesare nel dibattito sulla popolarità del governo e sulla coesione dei partiti della coalizione.
Tanto che dalla Fdp, il cui segretario generale Christian Lindner invitava dopo la seconda votazione a non ‘iperdrammatizzare” l’elezione per il presidente federale (“Tra un anno nessuno più parlerà di questa giornata”) lo stesso Lindner ammetteva che pur non essendo la coalizione “instabile” tuttavia “vi sono incertezze”.
Sul versante opposto si tratta di un successo: fin dopo la seconda votazione – prima ancora che la Linke (124 voti a disposizione), dopo essersi rifiutata di appoggiare ai primi due turni il candidato dell’opposizione considerato troppo distante dalle sue posizioni ritirasse la sua candidata e lasciasse di fatto i suoi liberi di scegliere tra Wulff e Gauck al terzo voto – Gauck veniva indicato come il “vero vincitore”: per ‘Der Spiegel’, un uomo carismatico diventato “un esempio di un altro modo di fare politica”.
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I falsi miti del social-liberismo
Francesco Macheda* – 30.06.2010
Il recente rapporto della Banca d’Italia sulle tendenze nel sistema produttivo del nostro paese e la manovra finanziaria con la quale la maggioranza di governo si accinge a scaricare i costi della crisi sui lavoratori mettono a dura prova il nocciolo della proposta social-liberale – la ‘terza via’ tra keynesismo e ultra-liberismo – secondo cui la crescita economica passerebbe attraverso l’eliminazione delle rigidità dell’offerta di lavoro, inserita tuttavia all’interno di una cornice regolatoria che non pregiudichi la coesione sociale (Bachet et al. 2001: 144). Più nello specifico, la selezione meritocratica, coniugata a comportamenti socialmente responsabili delle imprese volti a stimolare il ‘lavoratore ad una più alta qualità e partecipazione’ (Bellofiore 2004a) – innalzando così la produttività – eleverebbe la profittabilità aziendale. La ricchezza così creata verrebbe infine redistribuita ai lavoratori mediante l’intervento della politica economica[1].
Tralasciando le implicazioni politiche di tale teoria[2] – che comunque ‘non contrastano affatto le tendenze del capitalismo contemporaneo’ (Bellofiore e Halevi 2007: 13) – ciò che qui interessa è analizzare come a) la scarsità di pratiche meritocratiche sia un tratto necessario alla riproduzione egemonica della classe capitalista italiana, data l’arretratezza della struttura produttiva del paese, e b) le crisi facciano cadere nel dimenticatoio ogni velleità di responsabilità sociale non appena le imprese si trovano a dover scegliere tra la dura legge dei libri contabili e il benessere dei lavoratori.
1. I particolari criteri meritocratici dell’imprenditoria italiana.
Secondo la dottrina social-liberale, l’adozione di criteri meritocratici nella scelta dei lavoratori avrebbe il vantaggio di coniugare equità sociale a crescita economica poiché, oltre a premiare coloro dotati di abilità di partenza più elevate – potenziate dall’impegno quotidiano – impedirebbe a monte che gli individui meno produttivi possano mischiarsi a quelli più produttivi. Tuttavia, se la ragion d’essere della meritocrazia risiede nell’impiego più efficiente del lavoro, con ricadute positive sulla profittabilità, cosa impedisce la sua diffusione nel nostro paese?
Per quanto concerne le posizioni direttive e manageriali, stando al rapporto della Banca d’Italia ciò è imputabile al ruolo svolto dall’imprenditoria italiana che, non favorendo l’accumulazione del capitale e non adempiendo pertanto al ruolo di classe dirigente, ha nondimeno perpetrato la funzione di classe dominante attraverso il suo impianto familistico che le ha garantito ‘elevati benefici privati, espropriativi e non’(Banca d’Italia 2009: 70), riducendo al contempo la ‘disponibilità dei controllanti a cedere il controllo anche quando divenuti “inadeguati” nella gestione dell’impresa’ (Ibid.). Ciò è avvenuto e avviene tuttora sia nelle piccole che nelle grandi imprese, la cui struttura societaria è volta alla non contendibilità del controllo, blindato attraverso piramidi societarie, partecipazioni incrociate, ecc. [3]
La preferenza degli imprenditori italiani della certezza del controllo alla dotazione di una solida base finanziaria[4], non solo ha dato vita ad una struttura industriale orientata verso prodotti tradizionali oramai incapaci di reggere la concorrenza internazionale[5], ma ha fatto sì che il dirigente d’impresa coincida spesso con il proprietario e con i suoi discendenti[6], che sono premiati della ‘“vicinanza” ai proprietari e [del]la “fedeltà”’ (Ibid.: 74). Tuttavia, se l’imperativo è il mantenimento del controllo familiare, allora le cariche direttive non possono essere affidate secondo criteri volti al riconoscimento di doti imprenditoriali che, sebbene abbiano il vantaggio di favorire il processo di accumulazione, potrebbero tuttavia minacciare il ruolo preminente della famiglia nell’impresa.
La salvaguardia del controllo famigliare ha finito col condannare il capitalismo italiano al nanismo e a un’elevata frammentazione produttiva, che ha reso ‘difficile sfruttare le economie di scala insite nell’attività di ricerca e sviluppo. […] La specializzazione produttiva sbilanciata verso produzioni tradizionali a basso contenuto tecnologico’ (Ibid.: 9-10, 51) che ne emerge, ha determinato, quindi, anche la tipologia della domanda di lavoro ‘di linea’, orientata per di più verso posti poco qualificati[7]. Ecco perché si può affermare che, sebbene l’Italia presenti un numero di laureati inferiore a quello di molti paesi europei, essi sono nondimeno ‘troppi se devono confrontarsi con occasioni di lavoro prevalentemente poco qualificate’(Reyneri 2005: 183).
Intrecciando le preferenze per una specifica tipologia di forza-lavoro alla evoluzione della struttura produttiva, è possibile inquadrare storicamente la scarsa adozione di criteri meritocratici volti a premiare le competenze dei lavoratori. In primo luogo, il ridimensionamento delle imprese seguíto al decentramento produttivo, oltre a contribuire ‘ad elevare il tasso di irregolarità’ (Pugliese 2009: 8), ha ridefinito i criteri che stabilivano chi fosse ‘meritevole’ di possedere un lavoro. Poiché i piccoli imprenditori e i lavoratori provenivano dalla stessa comunità, le assunzioni venivano a dipendere dall’affinità culturale, da vincoli familistici e clientelari – tutti fattori che rafforzavano il ‘senso di appartenenza’ a scapito di una visione che poneva al centro il conflitto. Tutto ciò ben si conciliava alle esigenze della piccola impresa che basava, e basa tutt’ora, il proprio vantaggio competitivo sul massiccio sfruttamento della manodopera[8].
In secondo luogo, la triade piccola impresa-pace sociale-sfruttamento è stata completata dall’erosione prima e la demolizione poi della conquista della chiamata numerica – rettificata formalmente dallo Statuto dei Lavoratori – che aveva l’obiettivo di evitare discriminazioni in fase di costituzione del rapporto di lavoro. A partire dal 1977[9], in poco più di un decennio il legislatore riporrà la scelta dei lavoratori alla totale discrezione del singolo imprenditore che, oltre a rafforzare pratiche clientelari, favorirà l’assunzione di lavoratori ligi ai suoi voleri, discriminando coloro che si erano resi protagonisti delle lotte del decennio appena trascorso e i giovani refrattari al continuo incremento dei ritmi di lavoro e al contemporaneo abbassamento dei salari e delle tutele.
In altri termini, il rifiuto di pratiche meritocratiche non è un tratto insito agli imprenditori italiani, ma è il frutto di una precisa evoluzione storica tendente all’eliminazione della conflittualità sui posti di lavoro per meglio perpetrare il massiccio sfruttamento della forza-lavoro[10], da cui ricavare profitti in un contesto di stagnazione degli investimenti. La pesante flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro e la moderazione salariale – effetto di tale dinamica – ha finito così per indebolire il tessuto produttivo del paese, all’interno del quale i criteri meritocratici volti a premiare le competenze (destinate a rimanere frustrate se applicate a macchinari e metodi organizzativi obsoleti, con tutto quello che ciò comporterebbe in termini di stabilità sociale) passano in secondo piano rispetto alla necessità della completa subordinazione della manodopera[11].
2. Nulla è dovuto: la responsabilità sociale d’impresa.
L’altra formula in voga tra i social-liberisti è la responsabilità sociale d’impresa la quale, garantendo salari dignitosi, vincoli alla nocività e comportamenti etici, favorirebbe la flessibilità e quindi la produttività del lavoro – quest’ultima necessaria al conseguimento di un vantaggio competitivo sul lungo periodo dell’impresa – i cui benefici si riverserebbero a cascata sui lavoratori.
Senza addentrarci nei risvolti teorici del problema, è sufficiente un breve excursus storico per comprendere perché i buoni propositi di ‘comportamenti etici’ vengano abbandonati non appena il sistema economico si trovi a fronteggiare le prime avvisaglie di crisi.
Sarebbe troppo semplice soffermarci esclusivamente sull’ultimo trentennio, in cui l’offensiva liberista ha eroso buona parte delle conquiste del lavoro. Volgiamo lo sguardo, allora, a una particolare fase storica – il periodo che va dalla fine della I guerra mondiale alla crisi del 1929 negli Stati Uniti – conosciuta come ‘welfare capitalism’ e analizzata magistralmente da Michael Perelman in un libro di qualche anno fa. Consapevoli degli effetti nefasti del laissez-faire (era ancora fresco il ricordo della Grande Depressione) e dell’importanza del controllo del movimento sindacale – allora in forte ascesa – gli imprenditori statunitensi sorretti ‘ideologicamente’ dalla presidenza Hoover, adottarono comportamenti socialmente responsabili che, aumentando l’efficienza produttiva, avrebbero dovuto confermare la superiorità del sistema di mercato rispetto a quello socialista nel garantire sia alti standard di vita ai lavoratori, sia una crescita più equa ed equilibrata. Tuttavia, una volta scoppiata la Grande Crisi, anche i grandi industriali illuminati – che inizialmente tentarono di non intaccare gli standard lavorativi – dovettero gettare la spugna: tra la dura legge dei libri contabili e i diritti dei lavoratori, scelsero la prima opzione.
La crisi del 2007 e il periodo di turbolenze precedente non sembrano riservare un destino diverso alle velleità di ‘responsabilità sociale d’impresa’. Una volta svanite le illusioni di un mondo unipolare all’indomani dello sgretolamento del blocco sovietico, lo scontro economico tra paesi e imprese in competizione per l’accaparramento di mercati di sbocco, materie prime e aree abitate da manodopera a basso costo, ha subíto un brusco inasprimento, concedendo al contempo ‘un enorme vantaggio in termini di potere contrattuale agli imprenditori di molti paesi sviluppati’ (Glyn 2007), dal momento che i lavoratori occidentali – non solo quelli meno qualificati – hanno iniziato a risentire negativamente della competizione dei lavoratori dei paesi dell’Europa dell’est, dotati anch’essi di elevati livelli d’istruzione[12]. Di conseguenza, sono andati assottigliandosi i margini per l’adozione di comportamenti etici i quali, ponendo ‘lacci e lacciuoli’ alla libera iniziativa, hanno lo “spiacevole inconveniente” di frenare la profittablità almeno nel breve periodo, col rischio che l’impresa sia travolta da una competizione sempre più agguerrita. D’altra parte, sperare che siano i governi – che da più di un trentennio stanno supportando la gigantesca redistribuzione da L a K[13] – a porre vincoli alla libertà d’impresa pare quantomeno illusorio quando non addirittura paradossale, se è vero che dallo scoppio della crisi odierna gli stati e gli organismi transazionali non hanno esitato minimamente a scaricare i costi dei risanamenti bancari sulle spalle dei lavoratori[14].
3. Conclusione
Condurre la battaglia teorica per la promozione di comportamenti responsabili da parte delle imprese, così come contro le pratiche clientelari, è sacrosanto. Tuttavia, altrettanto importante è la prospettiva entro la quale s’inquadra il problema. Piuttosto che dal disegno regolativo dei policy makers, quando non addirittura dalla sensibilità delle singole aziende, sia la responsabilità sociale che l’eliminazione di perniciose discriminazioni da parte delle imprese sono storicamente scaturite dalle spinte conflittuali provenienti dal mondo del lavoro contro le organizzazioni più apertamente conservatrici, che gli imprenditori e i governi hanno poi dovuto rettificare formalmente.
* Università Politecnica delle Marche, Ancona.
[1] Sulla continuità tra neoliberismo e social-liberismo si veda: Bellofiore (2004b), pp. 93-94.[2] Su questo punto è illuminante l’esposizione di Brancaccio (2009), pp. 41-42.[3] Se ‘le società non quotate [sono] in grandissima parte tuttora di natura familiare’, ancora a metà degli anni ’90 ‘tra le imprese quotate il principale azionista possedeva la maggioranza assoluta.’ Tuttavia, ‘negli ultimi anni non vi è stata una significativa evoluzione nella struttura proprietaria e del controllo delle società quotate italiane.’ ‘Le imprese familiari continuano a rappresentare la vasta maggioranza; la concentrazione della proprietà resta alta: nel 2007 la quota di azioni detenuta dall’azionista principale era ancora pari al 67.7 per cento’ (Banca d’Italia 2009: 69-72). La trattazione di Amatori e Brioschi (2001: 148-149) sul congelamento degli assetti di controllo rimane estremamente attuale.[4] Il capitalismo italiano è caratterizzato da una sottocapitalizzazione e al contempo da una forte concentrazione della stessa. Si veda, Banca d’Italia (2010), pp. 187-199.[5] Banca d’Italia (2009), pp. 30-32,73.[6] Nell’ultimo decennio il 3% delle imprese manifatturiere ha cambiato controllo ogni anno. La metà di questi trasferimenti avviene all’interno della famiglia proprietaria, tipicamente tra generazioni (Banca d’Italia 2009: 72).[7] L’inchiesta dell’ISAE sui comportamenti di assunzione delle imprese nel settore manifatturiero ha rilevato che nel corso del 2008 il 94.8 percento delle imprese che hanno assunto almeno un lavoratore nel corso dell’anno ha selezionato esclusivamente personale in possesso di titoli di studio inferiori alla laurea.[8] Il fatto che il lavoratore della piccola impresa riceva un salario inferiore del 26.2 % di quello del dipendente standard non è imputabile alle limitate capacità di pagare dovute alla scarsa produttività bensì, come rilevato da Vianello (2007) ‘alla elevata capacità di non pagare’ delle piccole imprese.[9] Per la ricostruzione dell’iter legislativo sfociato nell’eliminazione della chiamata nominativa, si veda: Liso (2002)[10] Tra il 1993 e il 2008 su una crescita complessiva di 14.3 punti percentuali della produttività reale dell’intera economia da redistribuire, solamente 3.8 punti sono andati al lavoro.[11] L’indagine ISFOL (2008) ha rilevato che le competenze maggiormente richieste sul posto di lavoro dai manager operanti nel settore manifatturiero sono l’affidabilità nell’esecuzione del proprio lavoro, le abilità manuali e la resistenza psicofisica – qualità che non necessitano di particolari investimenti in formazione.[12] Nel 2007, la media dei giovani tra i 25 e i 34 anni dei nuovi paesi membri in possesso di un’istruzione universitaria era del 27.1 percento. In Italia, solo 19 giovani su 100 erano laureati.[13] Tralasciando la caduta dei redditi da lavoro dell’ultimo biennio, dal 1980 al 2008 il monte retribuzioni sul PIL nei maggiori industrializzati ha subíto una discesa verticale. In Italia si è passati dal 73.8 al 65.1%, in Francia dal 75.6 al 65.8%, in Germania dal 72.9 al 63%, in Spagna dal 65.4 al 58.6% e in U.K dal 75.9 al 65.2%.[14] Nel 2009, il numero di disoccupati nei paesi sviluppati è aumento di 13.7 milioni di unità, mentre il tasso di occupazione è crollato del 2.5 percento. Solo in Europa, la riduzione del numero di occupati ha abbondantemente superato i quattro milioni. Nel primo trimestre 2010 sono stati distrutti 50 mila posti di lavoro in seguito a 160 processi di ristrutturazione aziendale. Nel nostro paese, l’occupazione nel corso del 2009 si è ridotta di 380 unità, colpendo fortemente i giovani e il lavoro temporaneo.
Bibliografia
Amatori F., Brioschi F. (2001), “Le grandi imprese private: famiglie e coalizioni”, in Barca F. (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Roma: Donzelli.Bachet, D., et al. (2001), Social-Liberalism in France, Capital & Class, Vol. 25, n. 3.Banca d’Italia (2009), “Rapporto sulle Tendenze nel Sistema Produttivo Italiano”, Questioni di Economia e Finanza, n.45, Roma.Banca d’Italia (2010), Relazione Annuale sul 2009, Roma.Bellofiore, R. (2004a), “Il bivio dopo Maastricht”, La Rivista del Manifesto, n. 51.Bellofiore, R. (2004b), “Contemporary Capitalism, European Policies, and Working-Class Conditions”, International Journal of Political Economy, Vol. 34 n. 2.Bellofiore, R., Halevi, J. (2007), Deconstructing Labor: What Is ‘New’ in Contemporary Capitalism and Economic Policies: a Marxian-Kaleckian Perspective, Paper presentato al Congrès Marx International V, Paris-Sorbonne et Nanterre.Brancaccio, E. (2009), Anti-Blanchard. Una critica al modello macroeconomico dominante, dispense per il corso di Macroeconomia della Facoltà SEA – Università del Sannio, quinta versione.CNEL (2009), Rapporto sul mercato del lavoro 2008 – 2009.Conference Board Total Economy Database, January 2010.European Commission (2010), Quarterly EU labour market review – Winter, p. 5.European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (2010), European restructuring monitor quarterly, Issue 1-Spring.EUROSTAT (2009), News release 58/2009.Glyn, A. (2007), “Explaining Labor’s Declining Share of National Income”, G-24 Policy Brief, n. 4.ILO (2010), Global employment trends: January 2010, Geneva: ILO, p. 38.�ISAE (2009), Le assunzioni nel 2008 nel settore manifatturiero: tipologie contrattuali, contrattazione integrativa, skills, pp. 7-8.ISTAT (2010), Rapporto annuale La situazione del Paese nel 2009, p. 103.Liso, F. (2002), Collocamento e agenzie private, Giornale del diritto del lavoro e relazioni industriali,Vol. 96.Megale A., et al. (2009), Salari in crisi. Salari, produttività e distribuzione del reddito, IV Rapporto Ires CGIL.Perelman, M. (1996), The End of Economics, London and New York: Routledge, pp. 112-130.Pugliese, E. (2009), “Indagine su “il lavoro nero””, in CNEL, Il Lavoro che cambia.Reyneri, E. (2005), Sociologia del Mercato del Lavoro, Vol.I, Bologna: Il Mulino.Vianello, F. (2007), Salari: la straordinaria capacità tutta italiama di non pagare, Il Manifesto, 7 novembre.
http://www.economiaepolitica.it/index.php/lavoro-e-sindacato/i-falsi-miti-del-social-liberismo/
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Finlandia, la Rete è diritto fondamentale 01.07.2010
È il primo paese al mondo a riconoscere legalmente un ruolo fondamentale alla banda larga. Ci si augura sia solo la prima tappa
Roma – Dal primo luglio ogni cittadino finlandese avrà garantita per diritto una connessione a banda larga ad almeno 1 Mbps, in quanto servizio universale.
L’obiettivo istituzionale per la verità è ancora più largo: fornire a tutta la popolazione una connessione a 100 Mbps entro il 2015. Per far questo il governo finlandese ha quindi innanzitutto sancito come diritto quello della connettività: così le compagnie dovranno – dal primo luglio – fornire a tutti i residenti la banda larga minima garantita. Secondo i dati ufficiali, per la verità, il 96 per cento della popolazione sarebbe già online, escluse sarebbero attualmente solo 4mila case.
La stessa idea della connessione come diritto era stata avanza in un sondaggio condotto dalla BBC, e quattro persone su cinque si erano dichiarate d’accordo.
Il Ministro delle comunicazioni finlandese Suvi Linden ha spiegato: “Il servizio Internet non ha più esclusivamente un ruolo di intrattenimento, ma è importante per la vita di tutti i giorni dei finlandesi”. La Finlandia, oltretutto, si pone in antagonismo con le politiche adottate da altri paesi come la Francia, che ammettono la possibilità di disconnettere l’utente in caso di perdurate attività di file sharing di materiale protetto da copyright, tanto che le etichette discografiche avrebbero già etichettato il paese scandinavo come “estremista radicale”.
Claudio Tamburrino
http://punto-informatico.it/2931274/PI/News/finlandia-rete-diritto-fondamentale.aspx
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Un nanoElettrodo d’oro nella cellula
Bioelettricità «verde» prodotta dall’alga 15-18.06.2010
Una quantità infinitesima, ma è stato messo a punto un metodo che potrebbe avere interessanti sviluppi
Immaginate che un giorno le foglie possano produrre energia elettrica per le nostre necessità. Immaginate che gli elettroni che circolano nelle loro cellule, attivati dalla luce solare, non servano solo a produrre zucchero, come di fatto accade, ma che una parte di essi venga dirottata e incanalata in un filo per accendere ad esempio una lampadina. Siamo ancora lontanissimi da tutto questo. Però gli scienziati dell’Università di Stanford (Usa), per la prima volta sono riusciti a «rubare» corrente da un’alga. Una quantità infinitesima, e vero, ma hanno messo a punto un metodo che potrebbe avere interessanti sviluppi. Può essere il primo passo verso la produzione di bioelettricità ad alto rendimento.
PRIMI PASSI – «Siamo i primi a estrarre elettroni dalle cellule vegetali viventi», dice Won Hyoung Ryu, a capo della ricerca pubblicata sulla rivista Nano Letters. Gli scienziati hanno costruito un piccolissimo e appuntito nano elettrodo d’oro, appositamente progettato per essere introdotto all’interno delle cellule. Quindi lo hanno delicatamente spinto attraverso la membrana di una cellula algale di Chlamydomonas. È questo piccolo elettrodo lo strumento per catturare gli elettroni che la luce ha stimolato. Le piante infatti, attraverso organuli specifici contenuti nelle cellule, i cloroplasti, con la fotosintesi convertono l’energia luminosa in energia chimica immagazzinandola negli zuccheri. La luce penetra negli organuli e fa «saltare» gli elettroni a un livello energetico più elevato. Gli scienziati di Stanford hanno «intercettato» questi elettroni proprio dopo che sono stati eccitati dalla luce, quindi nel momento in cui possedevano la loro massima energia. E attraverso il piccolissimo elettrodo d’oro infilato nel cloroplasto li hanno dirottati fuori dalla cellula per generare una minuscola corrente elettrica.
RISULTATO – «Il risultato è la produzione di energia senza rilascio di carbonio in atmosfera. Questa è una delle fonti più pulite per produrla», afferma Ryu. Ora la domanda è se questa metodologia sia economicamente conveniente. «Siamo in grado di estrarre da ogni cellula un solo picoampere», continua, «una quantità così piccola che servirebbe un trilione di cellule che funzionassero per un’ora per produrre una quantità di energia pari a quella immagazzinata in una batteria alcalina. Inoltre le cellule muoiono dopo un’ora. I prossimi passi potrebbero essere quelli di ottimizzare il design dell’elettrodo per allungare la vita delle cellule e di utilizzare piante con cloroplasti più grandi per poter catturare più elettroni».
Massimo Spampani
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Trentino: al via la produzione di idrogeno dal sole d’alta quota
22 giugno 2010 – Vita nuova all’insegna delle fonti pulite per il rifugio “Ai caduti dell’Adamello”, in Trentino. Nato dopo la prima Guerra mondiale sui resti sui resti della Casermetta “Generale Giordana”, il rifugio sciistico affacciato sul ghiacciaio della Lobbia Alta, che annovera tra i suoi ospiti illustri Papa Giovanni Paolo II e il presidente della Repubblica Sandro Pertini, farà da apripista a una serie di progetti per la produzione di idrogeno dal sole d’alta quota.
“Ai caduti dell’Adamello” produrrà infatti idrogeno dal sole e dall’acqua, sfruttando le capacità del suo impianto fotovoltaico: il tutto a oltre 3mila metri di altezza, cioè in condizioni ottimali per lo sfruttamento dell’energia solare. Il progetto, nato nel 2008 e ormai arrivato alle battute finali, è stato presentato oggi al Consiglio di amministrazione della Fondazione “Ai caduti dell’Adamello”. I lavori per la realizzazione dell’impianto sono quasi ultimati: rimangono da eseguire alcuni test sulle perforamance e sulla sua resistenza delle basse temperature.
“Ai caduti dell’Adamello”, restituito a nuova vita qualche anno fa grazie agli sforzi congiunti delle province di Trento e di Brescia (con i comprensori e i comuni interessati, il Cai, l’Ana, il Parco nazionale Adamello-Brenta), entra così nel terzo millennio diventando autosufficiente dal punto di vista energetico e ponendosi come modello anche per altri rifugi di alta montagna. Qui è ancora più vantaggioso sfruttare la luce solare dal momento che in alta quota l’intensità di irraggiamento aumenta. Si stima ad esempio che a 3mila metri sia infatti superiore del 30 per cento rispetto al livello del mare.
http://www.zeroemission.tv/Objects/Pagina.asp?ID=9251
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In Papua Nuova Guinea gli indigeni perdono i diritti sulle loro terre 02.07.2010
In Papua Nuova Guinea ciclicamente vengono scoperte nuove specie animali e vegetali e le sue popolazioni indigene sono state le prime a vedersi costituzionalmente risconosciuto il diritto alla protezione della propria terra. Eppure le multinazionali a caccia di olio di palma, legname, spazi per le più varie piantagioni … hanno avuto sempre modo di offendere questo territorio, la sua gente e le sue foreste trovando nelle autorità governative dei validi alleati. E ora più di prima, a seguito dell’avvenuta modifica dell’Environment and Conservation Act del 2000.
Per anni gli indigeni hanno avuto la possibilità di preservare giuridicamente le proprie riserve e di ottenere risarcimenti a seguito di un danno ambientale riconosciuto ma ora lo scenario è destinato a cambiare. Completamente. Così come anche quello naturale, almeno nell’ipotesi in cui non verranno attuate adeguate modalità di tutela e di conservazione delle foreste. Con le nuove norme, infatti, la gestione delle risorse del Paese spetta interamente al Direttorato Ambiente e Conservazione che avrà, così, la possibilità di autorizzare ogni tipologia di progetto, anche all’interno delle Riserve e ogni sua decisione risulterà essere inappellabile. Una sorta di dittatura, insomma. A danni delle centinaia di gruppi etnici, ora compromessi, e della multiforme varietà di specie animali e vegetali che affollano una delle zone più intatte e affascinanti del mondo. Un colpo mortale inferto all’ambiente. E ai diritti umani. Nel segno del “progresso” (?) economico e all’insegna del solito, scoraggiante, silenzio…
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La Grecia non ha voluto, ma l’Italia sì: Berlusconi si vende le isole
Articolo di Economia salute e ambiente, pubblicato martedì 6 luglio 2010 in Portogallo.
[I online]
Isole, spiagge, palazzi: l’Italia fa valere quello che possiede di più bello per combattere il debito pubblico
Ci sono più di 9.000 beni a disposizione di chi sia in grado di sborsare alcuni milioni di euro per impossessarsi di un pezzo d’Italia. L’idea è partita dal partito separatista italiano Lega Nord ed è piaciuta al governo Berlusconi, alle prese con il maggior debito pubblico della sua storia, più di 1,8 miliardi di euro (dati del gennaio 2010).
Piccoli e grandi tesori nazionali passeranno dalle mani dell’agenzia del demanio alle autorità locali e regionali, che poi li metteranno in vendita sul mercato internazionale. Il 75% del ricavato sarà utilizzato per pagare i debiti a livello locale e il restante servirà per ridurre il deficit nazionale. La lista provvisoria include importanti edifici storici come l’antico palazzo reale di Palermo, che ha più di 900 anni, o Villa Giulia, costruita nel XVI secolo a Roma, città dove sarà possibile comprare anche parte di un mercato e un cinema.
Per completare la lista, che tocca i 3.000 milioni di euro, ci sono luoghi e paesaggi emblematici del Paese e sue isole costiere. Nella laguna di Venezia verrà messa in vendita l’isola di Sant’Angelo della Polvere, di 0,53 ettari, e parte di altre isole, come un campo da golf sull’isola di Albarella, i ruderi di un forte nell’isola di Sant’Erasmo e il faro di Spignon che controllava l’entrata delle imbarcazioni nella laguna.
Chi ha sempre sognato di possedere un’isola deserta, puo’ acquistare l’isola di Santo Stefano nel Tirreno. Se si preferisce compagnia c’è la possibilità di comprare una spiaggia sul lago di Como, dove hanno casa star del calibro di Madonna e George Clooney. A questa vendita in grande scala non sfugge la regione Sardegna, dove la paradisiaca spiaggia di Caprera ha anche lei un suo prezzo.
Molti di questi luoghi sono importanti riserve naturali dove per legge è impossibile costruire. Gli ambientalisti si preoccupano del fatto che questa legge potrebbe venire scavalcata in nome della valorizzazione dei terreni. “Quando una persona paga più di un milione di euro per una isola, ci vuole costruire una casa” ha detto al “The Sunday Times” Farhad Vladi, un agente immobiliare specializzato in isole private.
L’iniziativa del governo italiano sembra avere avuto origine dalle voci che si sono succedute sulla Grecia. Il governo greco aveva smentito immediatamente la notizia data a giugno dal “The Guardian” sull’ipotesi che il paese vendesse alcune isole per far fronte al debito pubblico.
La possibilità di cui aveva parlato la stampa aveva suscitato l’indignazione dei greci e il portavoce del governo ellenico l’aveva considerata “un insulto”. In ballo c’era il patrimonio naturalistico protetto, come quello che ora è messo in vendita da Berlusconi. Il giornalista greco e opinionista di “I online” Jorge Messias ha sottolineato le questioni legali che la situazione solleva. “Non si puo’ vendere quello che è protetto dalla legge”. Quando questo accade, è importante chiarire che lo Stato continua a mantenere la sovranità, contrattacca il giornalista. “Una cosa è la proprietà e un’altra la sovranità nazionale”, e i territori venduti sono territori nazionali “con tutte le costrizioni giuridiche che ciò implica”.
Nel 2002 Antonio Martino, allora ministro italiano della Difesa, parlò del patrimonio culturale e naturalistico come del “petrolio dell’Italia” da dove sarebbe potuta venire la soluzione dell’allora già alto debito pubblico. Ma garantiva: “Non si tratta di vendere il Colosseo o la Fontana di Trevi, ma di rendere produttivo l’immenso patrimonio immobiliare attualmente improduttivo.” Otto anni dopo il governo porta a termine la maggiore operazione di questo genere nella storia italiana.
http://italiadallestero.info/archives/9737
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L’asino e l’alta finanza 05.07.2010
Vi proponiamo questa storiella, che poi tanto storiella non é. E che spiega, dell’ economia attuale, di vicende economiche note a tutti, molto più di un articolo dei soliti “specialisti” (di tutto, fuorché della loro specialità).
La Red/azione
L’asino e l’alta finanza
Qualche tempo fa Billy comprò da un contadino un asino per 100 dollari.
Il contadino gli assicurò che gli avrebbe consegnato l’asino il giorno seguente.
Il giorno dopo il contadino si recò da Billy e gli disse: “Mi dispiace ma ho cattive notizie: l’asino è morto.”
Billy rispose: “Allora dammi indietro i miei 100 dollari”
E il contadino: “Non posso, li ho già spesi”.
A quel punto Billy si fece pensieroso, poi disse al contadino: “Va bene, allora dammi l’asino morto.”
– “E che te ne fai di un asino morto, Billy?”
– “Organizzo una lotteria e lo metto come premio”
Il contadino gli disse ironico: “Non puoi vendere biglietti con un asino morto in palio”.
Allorché Billy rispose: “Certo che posso, semplicemente non dirò a nessuno che è morto”.
Un mese dopo il contadino incontrò di nuovo Billy, così gli chiese: “Come è andata a finire con l’asino morto?”
– “L’ho messo come premio ad una lotteria, ho venduto 500 biglietti a due dollari l’uno e così ho guadagnato 998 dollari”
– “E non si è lamentato nessuno?”
– “Solo il tipo che ha vinto la lotteria, e per farlo smettere di lagnarsi gli ho restituito i suoi due dollari”
Billy attualmente lavora per la Goldman Sach.
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Nessuna Scusa. Israele e Turchia interrompono le relazioni diplomatiche
Paola Di Fraia 05.07.2010
Si inasprisce la crisi tra Israele e Turchia per il raid contro la flottiglia che trasportava aiuti umanitari a Gaza, che il 31 maggio causò la morte di nove attivisti. Giorni fa il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva ribadito che il suo governo non presenterà scuse formali ad Ankara. Oggi è arrivata una ferma risposta dal governo turco: il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu ha annunciato che Ankara romperà le relazioni in caso di mancate scuse e ha annunciato la chiusura degli spazi aerei turchi ai voli militari israeliani
In prima pagina del Jerusalem Post campeggia la foto del ministro degli esteri israeliano, il nazionalista Avdigor Lieberman che proclama: “Niente scuse alla Turchia” per quanto accaduto alla fine di maggio 2010 in acque internazionali al largo della Striscia di Gaza, quando una nave di attivisti ha cercato di forzare il blocco e durante l’intervento dell’esercito israeliano sono stati uccisi 9 cittadini turchi a bordo della Flotilla.
L’annuncio della chiusura dello spazio aereo turco ai velivoli militari israeliani è arrivato questa mattina dopo che il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu ha chiesto le scuse ufficiali del governo israeliano per l’assalto alla Flottilla del 31 maggio scorso. Lo stesso ministro aveva in realtà incontrato il ministro dell’industria e del lavoro israeliano, Binyamin Ben- Eliezer , in Svizzera, la scorsa settimana, suscitando la reazione indignata di Lieberman che aveva dichiarato di non essere stato informato e di essere profondamente contrario all’incontro. Dal gabinetto del premier Bibi Netanyahu era stata smentita la segretezza dell’incontro, diffondendo una nota che specificava che il ministero degli esteri sapeva delle richieste turche in tal senso. Ma oggi davanti alla richiesta di scuse ufficiali, Lieberman ha avuto l’opportunità di dare seguito alla propria chiusura nei confronti della Turchia, le sue dichiarazioni sono state rilanciate mentre si trova in visita ufficiale in Lituania.
Fondatore del partito Israel Beiteinu, la cui base elettorale è costituita di immigrati russi, è stato l’ago della bilancia alle scorse elezioni politiche israeliane, che rischiavano di essere le più noiose della storia, vinte in un sistema elettorale proporzionale in realtà dal partito di Kadima per un solo seggio. Il premier conservatore Bibi Netanyahu ha ottenuto il mandato di formare il nuovo governo che, senza Kadima, guidato dall’ex ministro degli esteri del governo Olmert Tzipi Livni, ha avuto il sostegno della destra ultraconservatrice e ortodossa, nominando Lieberman al ministero degli esteri. Lieberman, in realtà, si era proclamato vincitore ben prima di conoscere il risultato delle urne andando provocatoriamente a passeggiare sulla spianata delle moschee in segno di vittoria.
Oggi però l’opinione pubblica israeliana sembra congelata sulle posizioni del governo conservatore del premier Netanyahu. I rapporti con il tradizionale alleato americano sono ai minimi storici, dopo la decisione della ripresa degli insediamenti dei coloni di cui il segretario di Stato americano Hillary Clinton aveva chiesto il congelamento. Più volte il presidente Obama ha fatto capire, anche attraverso le dichiarazioni del suo staff, la sua contrarietà alla politica fin qui seguita da Netanyahu e contrariamente a quanto avvenuto nel suo ultimo viaggio, dalla Casa Bianca avevano fatto sapere che Obama avrebbe incontrato Netanyahu nello studio ovale con tanto di conferenza stampa congiunta. Questo dopo un incontro annullato ed un altro svoltosi a porte chiuse in altra sede, solo per citare gli ultimi incontri tra i due.
Il peggioramento delle relazioni con la Turchia così evidente oggi è in realtà frutto di una situazione che già dallo scorso autunno ha portato a chiari segnali di rottura. Israele ha fatto capire già dall’ottobre 2009 che non sarebbe stato soddisfatto da un accordo sul nucleare iraniano mediato dall’occidente che prevedesse l’arricchimento dell’uranio iraniano all’estero per scopi medici e civili. Israele è convinto che si tratti di un’inutile dilazione da non concedere ad Ahmadinejad. E proprio in autunno c’è stata la cancellazione dell’ormai tradizionale operazione militare congiunta di Israele con la Turchia, per cui la chiusura dello spazio aereo di oggi è il completamento di quella tensione, creatasi durante la mediazione di Ankara a beneficio della Siria volta alla restituzione delle alture del Golan. Mentre Israele è sempre più isolato nella regione, la Turchia sta rafforzando sempre di più la sua vocazione orientale ed i rapporti di buon vicinato con il mondo arabo. A seguito del boicottaggio di Israele con l’interruzione delle relazioni diplomatiche e la cancellazione delle prenotazioni turistiche, un danno calcolato in 400 milioni di dollari, i paesi arabi hanno iniziato una campagna per incoraggiare il turismo in Turchia: un appello partito da Doha in Qatar, per iniziativa lo scorso 17 giugno di Yusuf al-Qaradawi, presidente dell’International Union for Muslim Scholars e altri letterati islamici, chiede a tutti i mussulmani che stanno progettando un viaggio in Europa, negli Stati Uniti o in qualsiasi altra parte del mondo di preferire la Turchia.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15308
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“Mission impossible” per il supergenerale
Stefano Rizzo, 02.07. 2010
Nei giorni scorsi il generale David Petraeus, il nuovo comandante delle truppe USA e Isaf in Afghanistan, si è presentato davanti al Congresso per illustrare il suo punto di vista su come risolvere una guerra che dura da nove anni e che sta andando sempre peggio
Non ci si aspettavano notizie eclatanti. La sua nomina, avvenuta dopo la rimozione del precedente comandante, il generale McChrystal, per le sue offensive esternazioni nei confronti dell’amministrazione Obama, è stata praticamente obbligata. Petraeus era il diretto superiore di McChrystal e con lui aveva elaborato la strategia della “surge” (l’aumento di truppe), facendola poi approvare lungo tutta la catena di comando. Petraus è anche il maggiore esperto di controinsurrezione e autore del manuale dell’esercito sull’argomento, mentre McChrystal, in quanto comandante delle forze speciali, ne è stato il principale esecutore. Si è trattata quindi di una nomina di continuità.
Petraeus, considerato da tutti, repubblicani e democratici, un eroe della patria, un supergenerale di indiscussa capacità capace di risolvere qualunque problema, è stato confermato dal Congresso senza contrasti. A lui si attribuisce il merito di avere creato le premesse per la fine della guerra irachena. Una guerra che per la verità non è ancora finita, dal momento che ogni giorno si hanno notizie di stragi, di attentati e di scontri armati, ma nella quale il numero dei caduti americani è drasticamente diminuito ed è per questo che il governo americano la considera finita. Nonostante l’Iraq sia ancora molto instabile e la situazione politica incerta (a distanza di quattro mesi dalle elezioni non è stato nominato un nuovo governo), le truppe americane si sono ritirate dalle città affidando i compiti di sicurezza alle forze armate irachene e entro la metà del 2011 tutte le forze di combattimento dovrebbero lasciare il paese.
Come è arrivato Petraeus a questo risultato? Anche lì con una surge, che ha potenziato le azioni mirate condotte dai corpi speciali, senza cercare di controllare direttamente l’intero territorio. Ma soprattutto armando gruppi di insorti sunniti e facendo volgere loro le armi contro gli esponenti di al Qaeda in Mesopotamia, dando vita cioè al cosiddetto “risveglio iracheno”. Comprare i nemici quando non puoi batterli è una strategia adottata in tutti i conflitti e nel breve periodo può funzionare, se c’è qualcuno da comprare.
Nel caso dell’Iraq ha funzionato sul piano militare, ma è molto più difficile ora da concludere sul piano politico, dal momento che il governo e l’esercito iracheni, a larga maggioranza sciita, vedono con ostilità la presenza di bande armate di sunniti e stanno cercando di disarmarle. Contemporaneamente sono in corso regolamenti di conti contro gli esponenti del “risveglio iracheno”, vendette e uccisioni che dureranno ancora a lungo. Con tutto ciò non si può negare che la situazione sia molto migliore rispetto a due anni fa, se non altro perché offre agli americani un’ottima opportunità per ritirarsi.
Potrà Petraeus replicare in Afghanistan il “successo” iracheno? E’ molto difficile e, nonostante la conclamata abilità del supergenerale, anche improbabile. La situazione afgana è completamente diversa. In Iraq gli insorti provengono dalla minoranza sunnita; il contrasto con la maggioranza sciita non è di natura etnica (sono tutti arabi), ma religiosa; mentre etnico e non religioso è il conflitto con la componente curda a nord. In Afghanistan la situazione è rovesciata: tutta la popolazione è di osservanza sunnita, mentre le differenze significative sono di natura etnica e linguistica tra la maggioranza pashtun e le molte minoranze etniche (kirghisi, azeri, tajiki, ecc.) e linguistiche (dari) presenti soprattutto nel nord e nell’ovest del paese. I talebani sono pashtun, al pari delle forze governative che combattono e come le tribù pakistane del confine sudoccidentale loro alleate. Il conflitto è quindi eminentemente politico e si svolge in larga misura all’interno del gruppo etnico di maggioranza.
Questo rende estremamente improbabile la riproposizione della formula irachena. Esistono solo due possibilità per raggiungere la pace: una, assai remota considerata la forza sul campo dei talebani, è la loro sconfitta militare; l’altra è il loro inserimento nel governo del paese attraverso un accordo di riconciliazione. Per il momento gli Stati Uniti si stanno concentrando sul primo aspetto, sperando di indebolire militarmente i talebani in modo da portarli al tavolo delle trattative da posizioni di vantaggio. (E’ la stessa strategia che fu usata per districarsi dal Vietnam: bombardamenti feroci del Nord per potere trattare più vantaggiosamente il ritiro dal Sud.)
Sconfiggere i talebani militarmente, anche dopo la surge della primavera-estate, si è dimostrato molto più difficile del previsto: l’offensiva contro Marja, di cui tanto si è parlato, è stata un insuccesso e, dopo mesi di preparativi, sembra che i comandi abbiano rinunciato ad attaccare Kandahar, la principale città del sud, per le evidenti difficoltà dell’impresa. Ma senza sconfitta militare non sarà possibile piegare i talebani alla trattativa, tanto più che con la fine dell’anno alcuni contingenti Isaf (quello olandese e quello canadese) lasceranno l’Afghanistan e entro lo stesso periodo anche il Regno Unito probabilmente deciderà una forte riduzione dei suoi soldati. D’altro canto, anche il presidente Obama ha annunciato “l’inizio del ritiro” americano a partire dal luglio 2011 e, sebbene si tratti di un impegno abbastanza sfumato tale da fare prevedere un ritiro puramente simbolico, i talebani ritengono che non valga la pena trattare ora da posizioni di debolezza per un ingresso nel governo quando potrebbero riprendersi tutto il paese nel giro di poco più di un anno.
A complicare la situazione ci sono le minoranze etniche afgane che vedono con terrore l’uscita di scena degli americani e il ritorno al potere dei talebani. Temono, giustamente, una pulizia etnica come quella condotta nei loro confronti dai pashtun dopo il ritiro dell’esercito sovietico, e hanno già dichiarato che sono pronti a riprendere la guerra civile nel caso i talebani andassero al potere.
Questo lo scenario per nulla confortante che renderà estremamente complicato il compito del generale Petraeus e ancora di più quello del suo presidente che, per quanto comandante in capo dell’esercito, un militare non è, ma, tra le altre cose, il premio Nobel per la pace del 2009.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15287
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ISLAM. E’ morto il filosofo Nasr Hamid Abu Zayd 05.07.2010
E’ stato un paladino della libertà di culto e dell’interpretazione umanistica dell’Islam
E’ mancato oggi in un ospedale del Cairo il filosofo musulmano Nasr Hamid Abu Zayd, uno dei più liberali e controversi intellettuali del pensiero islamico moderno. Secondo il network Al-Arabiya, Abu Zayd soffriva di una malattia causata da un raro viurs.
L’intellettuale egiziano era docente universitario di ermeneutica coranica in Olanda nelle università di Leiden poi a Utrecht .
La vicenda personale di Nasr Abu Zayd risale al 1993, quando viene accusato di apostasia dagli scolarsi islamisti per aver tentato di aprire lo studio del Corano alle scienze moderne. L’accusa fu formalizzata in concomitanza della sua promozione a titolare della cattedra, nella Facoltà di Lettere arabe, nel corso di Scienze del Corano. La corte lo giudicò colpevole e annullò il suo matrimonio sulla base del fatto che una donna musulmana non può rimanere sposata con un “apostata”.
In base all’ortodossia predicata dagli islamisti, il Corano è stato “fatto scendere” sul Profeta direttamente da Dio e quindi una critica e una lettura e interpretazione non letterale applicata al libro sacro per l’Islam è un atto profanatorio. Nasr Abu Zayd ha invece basato le sue teorie e ricerche sull’ interpretazione umanistica del Corano.
Abu Zayd, era anche un difensore della libertà di culto. «La libertà individuale» sosteneva il professore egiziano «è un requisito essenziale della fede. Al diritto basilare di ogni essere umano di abbracciare una religione, deve essere anche garantito il diritto di convertirsi ad un’altra fede».
Quando il professor Abu Zayd venne Milano nel 2008 per un convegno sull’ermeneutica del Corano, alcune redattrici di Yalla Italia ebbero il piacere di incontrarlo. Nella chiacchierata tra il professore e le redattrici del nostro inserto sulle seconde generazioni furono affrontate questioni molto delicate, tra cui il ripensare la tradizione islamica, lo sforzo di sviluppare il pensiero in base alle circostanze e il cambiamento delle domande a seconda del tempo in cui viviamo che va di pari passo con quello della vita.
http://www.vita.it/news/view/105279
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Il Comune di Torino riconosce le coppie gay 01.07.2010
di Stefano Caselli
Simbolico sì, ma fino a un certo punto. È il certificato che gli impiegati dell’anagrafe di Torino potranno rilasciare, a partire dai prossimi giorni, a chi richieda un attestato di famiglia anagrafica basata sul vincolo affettivo; in pratica, un riconoscimento comunale delle coppie di fatto, etero o gay che siano, frutto di una delibera d’iniziativa popolare approvata in Sala Rossa, dopo mesi di discussione, nelle stesse ore in cui poco lontano le truppe leghiste marciavano contro i ricorsi al Tar che rischiano di azzerare le ultime elezioni regionali.
In attesa di una reazione della Curia, che non tarderà ad arrivare, ci pensa l’opposizione di centrodestra a bollare il provvedimento come una “pagliacciata” o – nella migliore delle ipotesi – come una “indebita invasione di campo in materia riservata al Parlamento nazionale”. In realtà, a ben vedere, tutto rientra nella legislazione vigente; e ben lo spiega Vincenzo Cucco, radicale, tra i primi firmatari della petizione che nel settembre 2009 ha raccolto quasi tremila firme: “La nostra – racconta Cucco – era una richiesta politica al Comune affinché rimuovesse, nelle materie di sua competenza, le discriminazioni a danno delle unioni civili e delle coppie di fatto. E allora ci siamo chiesti: come definire giuridicamente le unioni civili? La risposta è nell’ordinamento, precisamente nella legge anagrafica, la 1288 del 1954 che, all’articolo 4 del regolamento di attuazione del 1989, definisce agli effetti anagrafici la famiglia come ‘insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune’. Dunque una definizione molto ampia, che arriva fino ai vincoli affettivi. Per cui noi chiediamo alla città di Torino di adeguare le sue politiche e garantire pari dignità alle coppie riconosciute da questa legge. Perché già oggi, per l’erogazione di sussidi a vario titolo, l’ente verifica lo stato di necessità delle persone proprio sulla base della definizione di famiglia data dalla 1288; insomma, fino ad ora si sono pretesi i doveri –
conclude – è ora di elargire anche i diritti”.
Adesso che il consiglio comunale ha recepito la delibera d’iniziativa popolare, i telefoni dell’anagrafe di corso Regina Margherita cominciano a squillare. Decine di persone hanno già chiesto informazioni su come ottenere un certificato per ora simbolico, ma che in futuro potrà essere utilizzato per il riconoscimento di diritti e benefici previsti da atti e regolamenti della città di Torino: dalla casa alla sanità, dai servizi sociali alla scuola, fino all’assistenza gli anziani. Ora la palla passa ai singoli assessorati che dovranno adeguare i propri regolamenti e – particolare non trascurabile – trovare i soldi per garantire i servizi. Il sindaco Sergio Chiamparino, che lo scorso febbraio si era attirato gli strali della Curia per aver partecipato, con tanto di fascia tricolore, al matrimonio simbolico di una coppia lesbica, vede nel provvedimento un respiro nazionale: “Con questa delibera – dichiara – si sono resi espliciti tutti i servizi che il Comune può elargire alle coppie di fatto, anche omosessuali; perché è inutile nascondersi, quando si parla di questi temi il problema vero sono le coppie gay, una realtà che la politica non può ignorare. A Torino si è trovata a quella mediazione cui in Parlamento non si è mai arrivati”. E a chi rimprovera di aver invaso proprio un campo riservato al Parlamento, Chiamparino risponde: “Il Comune ha la delega del governo per anagrafe e stato civile, dunque siamo nel seminato”.
Unico rammarico per i promotori, l’eliminazione dal testo dell’espressione “pari opportunità”, cassata – per evitare mal di pancia a chi teme equiparazioni con la famiglia tradizionale, da un emendamento del
Pd: “Peccato – ancora Cucco – era un punto decisivo. Ma va bene così, prendiamo il buono che c’è”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/01/il-comune-di-torino-riconosce-le-coppie-gay/34899/
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Un Master Europeo su Alcol e le Droghe (EMDAS)
L’uso di alcol, droghe e tabacco è diventato una delle principali preoccupazioni per la maggior parte dei governi di tutto il mondo. Per questo motivo è cresciuto anche il livello di collaborazione internazionale al fine di elaborare politiche e strategie adatte ad affrontare le cause e i problemi connessi all’uso di sostanze psicoattive.
Parallelamente c’è stato un aumento di ricerche e pubblicazioni volte a fornire delle basi di evidenza scientifica a supporto degli interventi.
Ma qual è il problema che tutte queste misure intendono risolvere o migliorare? Tutti concordano sul fatto che ci sia un problema? C’è una visione unanime della natura dei problemi da affrontare e su come farlo da parte di medici, antropologi, economisti, consumatori di droghe e alcol, politologi, ricercatori, produttori e commercianti? A fronte di tanti accordi internazionali, organizzazioni e movimenti internazionali, piani d’azione ed evidenze scientifiche, come mai esistono ancora notevoli differenze tra i modi in cui i diversi paesi pensano e rispondono all’uso delle varie sostanze?
Perchè un master Europeo? Si parla molto di differenze tra le culture del bere dei paesi del Nord e del Sud Europa, ma l’Europa – come la stessa Italia – contiene una vasta gamma di culture, credenze e comportamenti relativi al consumo di bevande alcoliche.
Quanto sono utili i risultati degli studi condotti prevalentemente negli Stati Uniti o in Australia al fine di comprendere la situazione italiana o in altri paesi europei? Quanto sarebbe opportuno in Italia aumentare l’età consentita per l’acquisto di alcol a 18 o a 21 anni o incoraggiare i genitori a ritardare il permesso di bere ai figli fino a 15 anni? E come sarebbe accolto questo suggerimento in Gran Bretagna, Danimarca o Slovenia?
Anche a causa delle difficoltà linguistiche, si tende a fare riferimento alle ricerche effettuate dai principali produttori di evidenze scientifiche – Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e Gran Bretagna – e alle politiche e ai piani d’azione internazionali ed europei che sono fortemente influenzati da queste ricerche.
Ci sono però molte questioni aperte sulle evidenze dei dati, sulla loro produzione e sul loro effetto sulle politiche e sulle pratiche europee. Gli studenti saranno quindi coinvolti in un esame critico delle evidenze scientifiche – su come vengono prodotte, diffuse e recepite – e della loro rilevanza nei diversi contesti politici, sociali, economici e culturali.
Questi sono solo alcuni dei quesiti sui quali verterà il programma del master, proponendo agli studenti di riflettere in una prospettiva multidisciplinare e internazionale.
Focalizzare l’attenzione sull’Europa non significa negare la rilevanza delle influenze internazionali globali ed escluderle, ma rivolgere una maggiore attenzione a conoscere e comprendere la storia, le tradizioni, le culture legate all’uso di sostanze stupefacenti, e la varietà di risposte formali e informali, nell’ambito dell’Europa stessa. Gli studenti del master si avvarranno quindi di docenti europei e avranno l’opportunità di condividere risultati di ricerca, esperienze e conoscenze personali relative ai propri paesi. Avranno inoltre la possibilità – e auspicabilmente il desiderio – di studiare nelle Università partner o di effettuare tirocini in Europa.
reperito il 12.08.2010
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distribuzione, lavoro, reddito di Guido Ortona
Come sottrarre il lavoro ai ricatti 06.07.2010
l caso Pomigliano insegna che vanno riequilibrati i rapporti di forza a vantaggio del lavoro. Usando anche il fisco e il reddito di cittadinanza
Una delle clausole del cosidetto “accordo” di Pomigliano prevede che i lavoratori lavorino dieci minuti in più al giorno. A parità di produzione circa 100 lavoratori perderanno il posto a causa di ciò. Il costo di 100 lavoratori è circa tre milioni di euro all’anno, cioè meno di un terzo di quanto hanno ricevuto nel 2009 Marchionne e Montezemolo messi insieme. Se Montezemolo si accontentasse di 10.000 euro al giorno, e Marchionne di 9100, si potrebbe dare lavoro a 100 operai in più. Mi pare che coloro che sostengono che i lavoratori sono vittime dell’ideologia, mentre il management attua buone scelte economiche, non abbiano le idee chiare su cosa sono l’ideologia e l’economia.
Esiste in effetti una forte ideologia padronale, che si caratterizza in primo luogo per una preoccupante indifferenza non solo per la redistribuzione, ma anche per la semplice distribuzione del reddito. Questa indifferenza è molto pericolosa. L’attuale classe padronale non ha alcuno scrupolo, e può portare l’Italia alla rovina. Se gli italiani accetteranno di lavorare in condizioni da terzo mondo, buon per loro; e se no peggio per loro.
Questi padroni irresponsabili sono oggi la parte forte sul mercato del lavoro. Possono davvero attuare lo “sciopero degli investimenti” e portare la produzione all’estero; e in effetti lo stanno già facendo, e continueranno a farlo quale che sia il livello di resa (nei due sensi) cui arriveranno i lavoratori. Ci sono anche altri fattori che si sommano a questo e ne rafforzano i risultati. La maggior parte della produzione odierna, per sua natura, non consente l’accumulo di scorte; il mutamento tecnologico è molto rapido, e ostacola oggettivamente la stipula di contratti di lavoro di lunga durata; l’incertezza sull’andamento della domanda e il cambiamento tecnologico aumentano il rischio per i padroni, sopratutto per i più piccoli: “ci manca solo che gli operai vogliano più soldi, quando è già difficile non chiudere”. In queste condizioni le lotte sul luogo di lavoro sono assolutamente necessarie, ma ben difficilmente potranno essere vincenti.
D’altra parte, soluzioni socialdemocratiche avanzate (nazionalizzazioni, uso delle imprese pubbliche, controllo sociale sulle condizioni di lavoro) non sono proponibili. O meglio lo sono nel lungo periodo, e richiedono trasformazioni molto profonde a tutti i livelli, non solo nel campo dell’istruzione, della politica industriale e della fornitura di beni pubblici, ma anche della rappresentanza politica e della formazione della classe politica. E’ necessario battersi fin d’ora per tutto ciò, ma bisogna fare qualcosa intanto, non solo per la necessità di arginare la povertà e lo sfruttamento, ma anche per evitare (se siamo ancora in tempo) che l’irresponsabile strapotere dei padroni e dei politici attuali portino la povertà, la miseria culturale e l’anomia a livelli tali da rendere impossibili riforme che richiedono invece cultura, impegno e partecipazione. Il problema per la sinistra è insomma quello di avanzare proposte che siano valide e realistiche date queste condizioni, cioè in una situazione in cui un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (e a fortiori dei disoccupati) non può essere ottenuto attraverso miglioramenti del rapporto di lavoro. Si deve cambiare terreno di lotta. Più in dettaglio, ciò significa che le proposte che si devono fare devono essere immuni dal ricatto padronale “o così o ti licenzio”.
Qui di seguito suggerisco un “pacchetto” in tre punti che mi pare abbia queste caratteristiche.
a) Lotta finale all’evasione fiscale dell’Irpef. Per “finale” intendo dire che esistono i mezzi tecnici per ridurla a dimensioni assai poco rilevanti. Ci sono parecchi validi motivi per intervenire sopratutto sull’Irpef. Sull’Irpef ci sono meno complicità che sull’Iva: gli operai della piccola – o grande – ditta che evade l’Iva sono ostili all’accertamento Iva assai più che a quello Irpef del loro padrone. L’accertamento Irpef, se lo si vuole fare, è assai più semplice e rapido (si tratta di imporre pagamenti elettronici e di incrociare i dati degli acquisti, dei movimenti bancari e delle dichiarazioni dei redditi) e meno esposto a contenzioso. La sanzione Irpef può includere anche quella Iva (gli importi sottratti all’Iva alla fine diventano redditi di qualcuno). Gli effetti dannosi di aumento dell’inflazione e riduzione della produzione sono molto minori per l’Irpef che per l’Iva. Infine, l’evasione Irpef è assai più consistente di quella Iva. Il che ovviamente non implica che non si debba ridurre drasticamente anche l’evasione Iva (e dei contributi previdenziali).
b) Al di là dei proventi derivanti dalla riduzione dell’evasione, bisogna rivendicare una decisa redistribuzione del reddito da operarsi con strumenti fiscali. Una tassazione dei redditi alti e dei patrimoni altissimi potrebbe agevolmente portare a entrate aggiuntive dell’ordine almeno dell’1 o 2% del Pil, cioè 15-30 miliardi di euro, da usare a fini sociali. Si tratta di somme assolutamente sopportabili (in effetti è sensato pensare anche a cifre più alte), e ampiamente inferiori, come percentuale sul Pil, al trasferimento in senso opposto che si è avuto negli ultimi decenni.
c) Infine e sopratutto, bisogna introdurre il salario di cittadinanza. Non si tratta solo di porre rimedio alle condizioni di povertà e di unificare una rete di sussidi che si presta a troppa discrezionalità. Si tratta anche dell’unico modo per potere mantenere condizioni di vita dignitose per i lavoratori (e perché no, migliorarle) senza dare ai padroni possibilità di ricatto. Un padrone che sposta lo stabilimento in Romania perché lì il lavoro non dà problemi difficilmente trasferirebbe la residenza perché le sue tasse sul reddito sono aumentate, per di più di poco. In effetti un salario di cittadinanza accettabile potrebbe essere interamente finanziato con i proventi dei punti a) e b). Come ha dimostrato in modo convincente Ugo Colombino (si veda il suo intervento su “La Voce”, e la letteratura scientifica ivi citata), un sussidio di 400 euro mensili medio per famiglia richiede un aumento delle aliquote irpef di 1-2 punti percentuali, purché la base imponibile sia sostanzialmente esente da evasione. Questa cifra è troppo bassa, ma consente di stimare, sia pure in modo un po’ approssimativo, che un aumento medio del 10% dell’Irpef consentirebbe ampiamente di pagare un salario di cittadinanza sufficiente, sopratutto se si considera che si potrebbe intervenire anche con altri strumenti. Si dovrebbe spostare l’1.5% circa del prodotto interno lordo: per fare un confronto, il “liberista” governo inglese ha appena adottato una manovra che sposta (perlopiù in direzione opposta a quella qui auspicata, a quanto è dato sapere) circa il 4% del Pil.
Naturalmente il provvedimento dovrebbe essere accompagnato da alcune norme di contorno (riduzione di pari importo della retribuzione dei non-poveri, trattamento delle persone a carico, ecc.;). Sopratutto, occorrono norme che impediscano ai padroni di diminuire il costo del lavoro di un importo pari al salario di cittadinanza. Si dovrebbe cioè imporre anche un salario minimo. Ma questo potrebbe essere bene accetto dai padroni per quanto riguarda i costi aziendali: se il costo di una data unità di lavoro è, poniamo 2.000 euro, il salario di cittadinanza è di 500, e il costo minimo del lavoro viene fissato a 1.600, le condizioni del lavoratore migliorano, ma il costo del lavoro si riduce del 20%.
Mentre i punti a) e b) sono piuttosto ovvi, il punto c) richiede un minimo di argomentazioni in più. Ci sono quattro ottime ragioni, due economiche e due politiche, che in aggiunta a quanto già scritto suffragano la validità della proposta. In primo luogo, risulta da numerose ricerche empiriche che la certezza di un reddito minimo propizia una maggiore partecipazione, una maggiore assunzione di rischi, un maggiore investimento in formazione e una minore anomia, e che questi effetti prevalgono o sono perlomeno equivalenti a quelli di segno opposto della “trappola del sussidio” – non lavorare perché ci si accontenta del sussidio. In secondo luogo, come abbiamo visto, il salario di cittadinanza consentirebbe riduzioni assai significative del costo del lavoro, con effetti positivi sulla competitività. Terzo, la proposta del reddito di cittadinanza ridarebbe ai lavoratori il “moral high standing”, di cui sono stati privati agli occhi di buona parte dell’opinione pubblica sulla base dell’accusa di sabotare la competitività. “Se si vuole aumentare la competitività, noi abbiamo fatto la nostra parte: fra i grandi paesi europei abbiamo i salari più bassi e gli orari di lavoro più lunghi. Adesso è sufficiente che voi padroni facciate la vostra pagando un po’ di più di tasse sul reddito (e sulla ricchezza)”. Infine, e forse più importante, sul salario di cittadinanza si può creare una vasta alleanza. Non sono solo i lavoratori poveri e i disoccupati a essere interessati, ma anche i giovani senza lavoro e i loro genitori e gli anziani che rischiano di perdere il posto. Se la richiesta del salario di cittadinanza non viene avanzata è a causa della diffusa convinzione (che abbiamo visto essere sbagliata) che i soldi non ci sono; ma sopratutto a causa del pudore del centro sinistra in tema di tassazione dei redditi elevati, che sembra però attenuarsi, sotto i colpi della realtà. Non ci sono valide ragioni materiali perché la maggioranza del popolo italiano debba essere contraria.
In conclusione: se si vuole impedire che gran parte dei lavoratori e dei disoccupati italiani arrivino a condizioni di impoverimento insostenibili, si deve separare una parte del reddito dalla prestazione lavorativa. In questo intervento ho cercato di argomentare che ciò è possibile.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Come-sottrarre-il-lavoro-ai-ricatti-5525
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Oltre il “momento Kindleberger”, contro l’austerity globale
Gerald Epstein* – Articolo in sostegno della Lettera degli economisti italiani contro l’austerity distruttiva nella zona euro – 07.07.2010
[cliccare per l’originale inglese]
L’espressione “momento Minsky” è entrata nel linguaggio comune quando, all’apice della “fase 1” della crisi finanziaria, nella metà del 2008, alcuni giornalisti e persino gli economisti mainstream scoprirono che in realtà esisteva una convincente teoria che ci avrebbe aiutato a comprendere il disastro finanziario che minacciava di portare al crollo l’economia mondiale. Da allora entrammo nel “momento Keynes”: i politici e gli economisti, negli Stati Uniti, in Europa, in Asia e anche nei “templi ” del neoliberismo – come il Fondo Monetario Internazionale – riscoprirono l’assoluta necessità di politiche fiscali espansive per contenere le forze deflazionistiche che stavano conducendo l’economia mondiale in una “stretta mortale”. Per un breve periodo, i governi adottarono politiche fiscali keynesiane senza precedenti, per cercare di interrompere la spirale economica deflazionistica e, per certi versi, ebbero un temporaneamente successo. Ma ora le forze ortodosse, in Europa e negli Stati Uniti, stanno cercando di seppellire Keynes ancora una volta e resuscitare politiche liberiste reazionarie – rispolverando le teorie e il lessico del passato – invocando brutali misure di austerità per ristabilire la “fiducia” nei mercati finanziari. E ciò, essi dicono, condurrà alla ripresa dell’economia globale attraverso tassi d’interesse più bassi, maggiori investimenti e più elevata occupazione. Questi politici e gli economisti che li sostengono fanno queste affermazioni impassibili, a dispetto del fatto che furono questi mercati finanziari e queste politiche economiche a condurci alla più grande calamità economica globale dopo la Grande Depressione. Ed essi ripetono queste tesi a dispetto del fatto che non esiste una teoria economica empiricamente difendibile che possa dimostrare che, nelle condizioni economiche deflazionistiche in cui ci troviamo, gli imponenti tagli delle politiche fiscali a livello globale condurranno ad una maggiore crescita economica e a una maggiore occupazione. Hanno già dimenticato che la fiducia nei mercati finanziari ha condotto essenzialmente alle bolle speculative e a consistenti profitti dei banchieri, piuttosto che a investimenti e impieghi sostenibili e produttivi? Ed ora che una seria regolamentazione finanziaria è praticamente morta negli Stati Uniti e si sta spegnendo lentamente in Europa sono proprio convinti che ripristinare la fiducia nei mercati finanziari europei possa produrre un qualche effetto differente?
In quale “momento” ci troviamo ora? Io credo che abbiamo raggiunto il pericoloso e infido “momento Kindleberger”. Nel suo importante libro, The World in Depression (1929-1939), lo storico economico Charles Kindleberger affermò che la mancata adozione di un’adeguata politica fiscale espansiva capace di contrastare le spinte deflazionistiche dell’economia globale aveva condotto fatalmente alla disgregazione delle coalizioni politiche e delle istituzioni in grado di trovare soluzioni reali alla crisi economica[1]. Kindleberger sosteneva che questo fallimento era dovuto non solo alla mancata comprensione dell’importanza di una politica fiscale espansiva, ma anche alle forze della speculazione finanziaria e dei mercati finanziari in generale, che avevano reso quelle politiche estremamente difficili da attuare[2]. Il venir meno della spinta verso le necessarie politiche economiche e la mancata volontà nel tenere sotto controllo le forze della reazione (inclusa la finanza), in fin dei conti bloccarono la possibilità di porre fine alla Grande Depressione attraverso mezzi di pace.
Ci troviamo nel “momento Kindleberger” anche in un altro senso. Nel suo importante libro Manias, Panics and Crashes, Kindleberger sviluppa i temi finanziari minskyani e mostra, tra le altre cose, che in tempi di crisi i governi e le banche centrali si allontanano dalla cosiddetta regola di Bagehot del “prestatore di ultima istanza” (“prestare solo a istituzioni solventi, sulla base di buone garanzie e ad un tasso di interesse più alto”) e soccorrono i padroni della finanza, facendo tutto ciò che serve a questo scopo. Come Kindelberger correttamente afferma, in queste situazioni, in pratica, “l’unica regola è che non ci sono regole”. Così, i governi e le banche negli USA e in Europa hanno salvato i capitalisti della finanza, sostenendo, naturalmente, di avere con ciò protetto i cittadini. Con una cinica operazione di marketing, essi definiscono “salvataggio della Grecia” ciò che in realtà è il salvataggio delle banche europee.
Queste banche, salvate e ripotenziate, con i loro alleati in affari, i politici e l’accademia hanno ora impedito con successo un’importante riforma finanziaria negli USA e stanno ritardando e probabilmente, alla fine, impedendo una seria riforma anche in Europa. Con il venir meno degli sforzi per una riforma finanziaria, e ora con il tentativo di reintrodurre i tagli e l’austerità fiscale, gli stessi poteri che provocarono la crisi stanno cercando di premere il bottone di “riavvio” nella speranza di poter tornare indietro per battere moneta per sé stessi e a spese di tutti gli altri, come avevano fatto negli ultimi decenni.Ma, data la gravità della crisi, come compreso da Kindleberger, premere il bottone di “riavvio” non funzionerà. La crisi si sta accentuando e l’adozione di una maggiore austerità, da un lato, e salvataggi per riportare la fiducia nei mercati finanziari, dall’altro, non sono una vera soluzione. Tutto ciò accelererà la disgregazione delle forze politiche ed economiche, come si sta verificando negli Stati Uniti e in molti paesi europei.
E allora cosa si dovrebbe fare? L’antidoto a questo “momento Kindleberger” è unificare le forze politiche e intellettuali che stanno premendo per soluzioni reali: politiche keynesiane espansive e una regolamentazione incisiva della finanza; un maggior controllo democratico sulla politica della banca centrale, inclusa la sempre più potente BCE; un rovesciamento delle screditate dottrine economiche del mainstream che legittimano le erronee politiche che si stanno imponendo ancora una volta in Europa e, sempre più, negli Stati Uniti.
In questo contesto la Lettera firmata da più di 200 economisti italiani è importante. Essa alza una forte voce contro le disastrose politiche e contro il sostegno intellettuale nei confronti dell’austerity e del neoliberismo che si stanno imponendo nuovamente. Come un numero crescente di studiosi impegnati politicamente in altre parti d’Europa, nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in ogni dove, questi economisti italiani, con la loro Lettera, stanno dimostrando che capaci, rispettati e appassionati studiosi non rimarranno inerti a guardare gli economisti neoliberisti scambiare l’economia reale con una “messa in scena”, dopo che le loro tesi sono state così ampiamente screditate dagli eventi degli ultimi anni. Seguendo l’esempio di questi economisti italiani, altri economisti e intellettuali devono accantonare le irrisorie differenze teoriche tra di loro e i futili diverbi, e unirsi per contrastare le disastrose politiche economiche sostenute dai neoliberisti e da politici opportunisti.
Dopo tutto, questo è quello che gli stessi capitalisti della finanza hanno fatto. Nella battaglia sulla riforma finanziaria negli USA, ad esempio, banche piccole e grandi, istituzioni finanziarie e non finanziarie, hanno risolto le loro differenze per essere uniti contro una rigorosa regolamentazione dei mercati finanziari. Ed hanno vinto dimostrando che la classe capitalistica è sempre più unita sotto la finanza. La Lettera degli economisti italiani mostra in modo chiaro che abbiamo bisogno di essere almeno altrettanto efficaci e uniti nel combattere l’austerity, nel difendere le tutele sociali e nel promuovere politiche macroeconomiche che creino occupazione sostenibile.
Solo allora usciremo dalla disastrosa trappola di questo “momento Kindleberger”.
* Professore di Economia Politica e condirettore del Political Economy Research Institute, University of Massachussets (USA)
[1] The World in Depression, 1929 – 1939. Berekley: University of California Press, 1973[2] Il volume di Kindleberger è soprattutto famoso per la sua affermazione che la depressione fu esacerbata dal fallimento della leadership globale. Egli sostenne che il Regno Unito non fu più in grado di esercitare la leadership e gli Stati Uniti non furono disposti a farlo. Ma ugualmente importante fu il processo mediante il quale questo fallimento si manifestò: l’incapacità di attuare un’adeguata espansione fiscale e combattere le forze della finanza e della speculazione che alla fine condussero alla disgregazione politica al punto che queste politiche non furono più realizzabili.
(Traduzione a cura della redazione di Economia e Politica)
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DA DUBAI A RIAD
Se il mondo arabo e Israele si alleano contro Ahmadinejad 08.07.2010
C’ è un evento che sta passando inosservato: è uno di quegli eventi, enormi, colossali, che possono ridisegnare la carta del pianeta. Si tratta della decisione, presa dagli Emirati Arabi Uniti, di controllare le navi che giungono nelle loro acque territoriali e legate, più o meno direttamente, all’ Iran o al commercio con l’ Iran; di chiudere 41 conti bancari appartenenti a entità iraniane e che possono servire da schermo a operazioni di contrabbando a vantaggio del programma nucleare di Teheran; di schierarsi, in altre parole, nel campo di coloro che applicano alla lettera la nuova risoluzione delle Nazioni Unite del 9 giugno, che prevede di intensificare ancora le sanzioni contro l’ Iran. Tale evento si verifica pochi giorni dopo le dichiarazioni fatte ad Abu Dhabi, a conclusione dell’ assemblea annuale della «Global Iniziative to Combat Nuclear Terrorism», da Hamad al-Kaabi, rappresentante permanente degli Emirati presso l’ Agenzia internazionale dell’ energia atomica: sono parecchie decine le navi contenenti materiali sensibili che la polizia degli Emirati avrebbe, nelle ultime settimane, già ispezionato. Tutto questo accade dopo l’ articolo di Georges Malbrunot, pubblicato sul Figaro del 26 giugno, in cui viene mostrato come le circostanze rocambolesche che hanno portato all’ assassinio a Dubai di Mahmud al-Mabhuh, in gennaio, da parte del Mossad, siano state forse una messinscena: gli Emirati, nel frattempo, lavoravano in stretto contatto con Israele per rendere più sicure le loro frontiere, per proteggere i pozzi di petrolio e far fronte a eventuali operazioni iraniane di destabilizzazione. E questo succede dopo un’ altra informazione, pubblicata stavolta sul Times di Londra del 13 giugno e poi smentita, ma fiaccamente, da Riad: l’ Arabia Saudita – non si sa nulla di più, ma non si può non pensare all’ ipotesi di un attacco sorpresa dell’ esercito Tsahal contro i siti nucleari di Ahmadinejad – avrebbe deciso di aprire il proprio spazio aereo ai velivoli israeliani. Si tratta quindi di un evento di rilievo per almeno tre ragioni. In primo luogo, perché ricorda, a coloro che si ostinano a non vederlo, che l’ Islam non è un blocco: ma c’ è un Islam di pace contro un Islam di guerra; Islam moderato contro Islam fanatico; e, in questa occasione, Islam sunnita contro quello sciita o, più esattamente, contro l’ eresia dello scisma che è l’ Islam apocalittico dei folli e dei gangster che, un anno fa, rubarono il voto agli iraniani. In secondo luogo, perché dimostra come il fronte del rifiuto contro il regime iraniano e i suoi progetti di guerra totale si stia allargando e stia prendendo forma e consistenza. Che non ci sia molto in comune fra democrazia israeliana e autocrazia saudita, è evidente; nulla, nessun gesto politico né geopolitico, nessun grande riavvicinamento con chiunque, può far dimenticare, per esempio, le gravi violazioni dei diritti dell’ uomo, e della donna, è innegabile. Ciò non toglie che la prospettiva di veder l’ Iran dotarsi di armi di distruzione di massa rappresenta una minaccia non paragonabile a una qualsiasi violazione dei diritti dell’ uomo, e il fatto che un numero sempre maggiore di Paesi nella regione cominci a esserne consapevole è, in sé, una grande notizia. In terzo luogo, per tornare ai 41 conti bancari indicati dalla risoluzione delle Nazioni Unite e congelati, occorre sapere: 1) che il porto di Dubai, come confessato dallo stesso ambasciatore al-Kaabi, sta diventando il centro nevralgico dei peggiori traffici nucleari; 2) che gli Emirati, al di là del nucleare, sono la terza destinazione, dopo Cina e Iraq, delle esportazioni iraniane, che da quattro anni si sono triplicate; 3) che sui 41 conti presi di mira, circa la metà appartenevano alla Repubblica islamica stessa e al corpo dei Guardiani della Rivoluzione. Questo per dire che la decisione degli Emirati costituisce un vero colpo contro il regime. Meglio ancora: è un’ operazione-verità destinata alle anime semplici che credevano all’ alleanza contro natura – con il pretesto di «unione sacra» contro il «nemico sionista» – di tutti i musulmani della regione. E il fatto che un Paese arabo abbia per la prima volta osato dire di no al tentativo di hold-up iraniano, sventando così la manovra di cui Hamas e Hezbollah erano gli avamposti, ma il cui fine ultimo era l’ incendio della regione, è un gesto di sopravvivenza e al tempo stesso una dimostrazione di maturità, il segno di un opportuno chiarimento. Se la decisione sarà mantenuta, nulla sarà più come prima. E per Ahmadinejad il conto alla rovescia sarà cominciato. traduzione di Daniela Maggioni
Levy Bernard Henri
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Tagli all’energia verde ma senza risparmio
da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org il 06.07.2010
Questa storia ha dell’ncredibile. In sostanza l’università si finanzierebbe con un articolo che spiana la strada al nucleare.
L’articolo 45 resta e la bolletta elettrica potrebbe finanziare l’università
http://www.e-gazette.it/index.asp?npu=268
Tagli all’energia verde ma senza risparmio
La strada per il nucleare si spiana anche così: assestando un colpo mortale ai produttori di energia rinnovabile con un articolo (il 45) piazzato nel bel mezzo della manovra finanziaria. E che peraltro non farà risparmiare allo Stato nemmeno un euro, e ancora meno agli italiani che, seppure risparmieranno qualche decina di euro l’anno sulla luce, si ritroverannno a sborzare sempre più per il gas metano e le altre fonti energetiche fossili. Incurante delle proteste bipartisan, provenienti da più parti del mondo produttivo e perfino dalla presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, la maggioranza ha bocciato in commissione Bilancio del Senato tutti gli emendamenti presentati dall’opposizione per cancellare la norma.
L’articolo 45 voluto dal governo abolisce, infatti, l’obbligo per il Gse (il Gestore statale dei servizi energetici) di acquistare dalle imprese produttrici di energia rinnovabile (eolico e idroelettrico, soprattutto, ma anche geotermico) i Certificati Verdi (accumulati in proporzione ai megawatt/ora prodotti) invenduti a quelle società – come l’Enel – che utilizzano invece fonti convenzionali e che quindi sono costrette, nel rispetto degli obiettivi europei, a barattare la loro emissione di Co2 con l’acquisto di Certificati Verdi pari ad almeno il 5,5% della loro produzione energetica. Una sorta di finanziamento indiretto della green energy che si completa con l’acquisto da parte dello Stato dei Certificati verdi non piazzati sul mercato (che sono molti, anche perché la quota stabilita per legge, spiegano gli addetti ai lavori, è troppo bassa rispetto agli altri paesi europei).
Ora il governo, cancellando quest’obbligo da parte del Gse, sostanzialmente taglia le gambe all’industria delle rinnovabili che non potranno più contare sulla vendita totale del suo prodotto. Il fatto curioso è che questo investimento sull’energia pulita non costa un euro alle casse statali perché viene finanziato dai consumatori attraverso una voce ad hoc riportata sulla bolletta dell’energia elettrica. «Bollette della luce meno care dello 0,5%», strillavano qualche giorno fa i media di massa riferendosi a quest’ultima “trovata” del governo, aggiungendo poi che invece il prezzo del gas metano sarebbe cresciuto del 3,2%.
Il capolavoro del centrodestra però lo si è sfiorato ieri, con un emendamento presentato dal relatore di maggioranza Antonio Azzollini che proponeva di non abolire quella voce dalle bollette (che farebbe risparmiare agli italiani circa 500 milioni di euro: una bazzecola, in fondo, se divisi per famiglia e considerando il risparmio energetico di lungo periodo) ma di dirottare invece i due terzi del prelievo (320 milioni circa) al finanziamento dell’università e della ricerca.
Un’ottima giustificazione ideologica al taglio sull’energia alternativa. «Ricerca? Probabilmente quella sul nucleare», azzarda ma non troppo il senatore Francesco Ferrante, responsabile delle politiche per i cambiamenti climatici del Pd, che ha presentato numerosi emendamenti.
Per fortuna, dopo che anche il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo ha definito l’escamotage Azzolini come «una scelta antistorica», l’emendamento è stato ieri accantonato. E probabilmente messo in un cassetto per essere dimenticato.
«In Germania – spiega Ferrante – quella voce sulla bolletta della luce che da noi vale 500 milioni di euro, è 10 volte maggiore. E i consumatori sono ben lieti di pagarla, anche perché il risparmio complessivo sull’energia è garantito, e con quei 5 miliardi l’anno i tedeschi hanno potuto sviluppare un settore industriale che dà lavoro a 300 mila persone e più».
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In Toscana arriva il microcredito etico 08.07.2010
Un fondo dedicato a sostenere i progetti dei giovani che vogliono avviare un’attività. Ma con un impegno “etico” in più per i beneficiari: l’obbligo di costruire una rete di finanziamenti in cui chi riceve un aiuto oggi dovrà essere pronto a sostenere altri domani. È la proposta lanciata da Riccardo Nencini – assessore al Bilancio e alle finanze della Regione Toscana – e diretta alle associazioni di categoria, alle fondazioni bancarie e alle società che lavorano sul fronte del microcredito e contro l’usura.
Il progetto prevede di costituire un fondo di garanzia dedicato ai giovani tra i venti e i trentacinque anni o a chi ha difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro una volta persa la precedente occupazione. Si tratta di piccoli prestiti (quindicimila euro) restituibili in cinque anni, assegnati dalla Regione Toscana a chi non ha risorse economiche e non ha molte possibilità di accedere a un mutuo, con tassi e condizioni favorevoli per i beneficiari e garanzie gratuite per le imprese.
“Ai giovani e ai nuovi imprenditori che riceveranno i contributi potremo chiedere un impegno etico, uno sforzo per rimanere parte attiva di questo nuovo sistema”, ha spiegato Nencini: “Una volta che la loro nuova attività sarà avviata, e che avranno restituito il prestito, domanderemo loro di contribuire ad alimentare il fondo o semplicemente impegnarsi nel guidare e accompagnare chi cerca sostegno finanziario per un’idea da realizzare”.
In Toscana già esiste, dal 2006, il Sistema per il Microcredito Orientato Assistito Toscano (Smoat), che finora ha fornito finanziamenti per oltre 500 mila euro a 240 piccoli imprenditori. Al nuovo progetto etico della Regione lavoreranno, tra gli altri, la Fidi Toscana, le Camere di Commercio, i Confidi (tra cui Artigiancredito), gli enti previdenziali e alcune banche. (a.l.b.)
http://www.galileonet.it/articles/4c3585485fc52b27d2000001
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Se anche Sartori parla di Decrescita
di Alessio Mannino – 06.07.2010
Fonte: il ribelle
L’altro giorno quasi ci veniva un colpo, a veder comparire sul fondo di prima pagina del Corriere della Sera, organo ufficiale dell’establishment finanziario italiano, la parola “decrescita” declinata in senso, udite udite, positivo. Lo ha fatto quel politologo ormai anziano e irriducibilmente antiberlusconiano, di penna sciolta e arguzia toscana, spesso saggio ma non di rado rifilatore di crasse panzane (anche nell’articolo in questione, come vedremo), il barboso teorico di leggi elettorali ma pregevolissimo autore di Homo videns, Giovanni Sartori.
Sentiamo che dice: «L’ ultima stima di qualche anno fa che ho sott’occhio contabilizza il Pil, il Prodotto interno lordo, del mondo in 54 trilioni di dollari, mentre gli attivi finanziari globali risultano quattro volte tanto, di addirittura 240 trilioni di dollari. Oggi, con i derivati e altre furbate del genere, questa sproporzione è ancora cresciuta di chissà quanto. (…) Semplificando al massimo, da un lato abbiamo una economia produttiva che produce beni, che crea “cose”, e i servizi richiesti da questo produrre, e dall’altro lato abbiamo una economia finanziaria essenzialmente cartacea fondata su vorticose compravendite di pezzi di carta».
Dopo aver delineato il quadro, l’editorialista (che grosso modo potremmo definire un liberale di tipo montanelliano) cede la parola al capo-scuola mondiale del pensiero della decrescita, il francese Serge Latouche, che col liberalismo (e il liberismo suo gemello in economia) non ha niente a che fare: «Latouche ha calcolato che lo spazio “bioproduttivo” (utile, utilizzabile) del pianeta terra è di 12 miliardi di ettari. Divisa per la popolazione mondiale attuale questa superficie assegna 1,8 ettari a persona. Invece lo spazio bioproduttivo attualmente consumato pro capite è già, in media, di 2,2 ettari. E questa media nasconde disparità enormi. Se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero tre pianeti; e se tutti vivessero come gli americani ce ne vorrebbero sei». Folgorante conclusione: «La morale di questa storia è che già da troppo tempo siamo infognati in uno sviluppo non-sostenibile, e che dobbiamo perciò fare marcia indietro. Latouche la chiama “decrescita serena”. Serena o no, il punto è che la crescita continua, infinita, non è obbligatoria. Oramai è soltanto suicida» (Corsera, 25 giugno 2010).
Hai capito, la firma del Cocchiere della Sera. Ha accolto la tesi fondamentale del più eretico degli economisti contemporanei, anzi di uno che sostiene che l’economia è un’invenzione sostanzialmente anti-umana (il suo ultimo libro uscito in Italia si intitola appunto “L’invenzione dell’economia”). E ha osato sottoscrivere l’idea-tabù per eccellenza: se continuiamo su questa china, a rincorrere una crescita economica senza fine e senza scopo, il sistema in cui viviamo è destinato al suicidio. Per carità, un editoriale non fa primavera e non smuove le montagne.
Tanto più che Sartori persiste nel tenersi stretto ai limiti intellettuali di uno che è pur sempre affezionato al sistema («Questa economia cartacea non è da condannare perché tale, e nessuno nega che debba esistere») e alle sue personali fisse (come quella per cui se il miraggio del nostro modello di iperproduzione e iperconsumo ha fatto lievitare la prolificità del Terzo Mondo, devono essere quei miserabili negri a fare meno figli, non noi a cambiare modello: «La dissennata esplosione demografica degli ultimi decenni mette a nudo che la terra è troppo piccola per una popolazione che è troppo grande»).
Ma la notizia che è che ormai la necessità reale, urgente, oggettiva, inoppugnabile di rivedere i presupposti della nostra economia fondata sul nulla è arrivata ad un punto tale da saltar fuori l’alternativa obbligata della decrescita persino sulle colonne di una voce allineatissima com’è il primo giornale italiano. Riprendendo un pensatore, uno dei pochi rimasti in giro, che sul Manifesto del giorno dopo spiegava come meglio non si potrebbe il pantano in cui, per dirla con Sartori, ci siamo infognati: «C’è una spada di Damocle sul sistema: si tratta della creazione di averi finanziari attraverso i prodotti derivati. Sono i dati della Bri (Banca dei regolamenti internazionali) di Basilea: 600mila miliardi di dollari di prodotti derivati, una cifra che rappresenta più o meno 15 volte il pil mondiale, che va messa a confronto con i 5mila miliardi stanziati per salvare le banche o i 750 miliardi di euro messi dall’Europa per far fronte alla crisi della Grecia e di altri stati. Siamo in un sistema di fiction, di speculazione fantastica, che può crollare, soprattutto con le politiche deflazionistiche messe in atto oggi. In Occidente, abbiamo vissuto una parentesi storica, grazie all’economia del petrolio. In Europa è come se ogni cittadino avesse avuto a disposizione 50 schiavi, 150 negli Usa. L’industrializzazione in Europa è stata terribile tra il 1750 e il 1850, poi è andata meglio dal 1850 in poi, con lo sfruttamento del carbone e del petrolio, ma a scapito degli altri, del terzo mondo e della natura. Quando facciamo il pieno mettiamo nel serbatoio un’energia equivalente a 5 anni di lavoro di un operaio. I ricchi sono diventati più ricchi e i poveri meno poveri e hanno persino avuto l’illusione di diventare ricchi. Ma adesso la festa è finita. Non sarà mai più cosi, neppure nei paesi emergenti, come la Cina, dove i contadini sono cacciati dalla terra come lo erano in Gran Bretagna nel XIX secolo».
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Enel: Centrale di Fusina, è la prima ad idrogeno nel mondo 12.07.2010
E’ entrata oggi in funzione, dopo taglio nastro dell’ad Conti
(ANSA) – VENEZIA, 12 LUG – E’ il primo al mondo e non sara’ l’unico: l’impianto industriale Enel di Fusina (Venezia) alimentato a idrogeno e’ entrato oggi in funzione con il taglio del nastro da parte dell’Ad di Enel Fulvio Conti e di Luca Zaia,governatore del Veneto. Il sogno cullato nel 2003 e’ diventato una realta’, grazie ad una cooperazione tra Enel, Regione Veneto, Ministero dell’Ambiente e Associazione industriali di Venezia. La scelta di Fusina come sede della sperimentazione e’ dovuta alla presenza della centrale termoelettrica a carbone e del vicino polo petrolchimico di Marghera che ha fornito le materie prime. L’impianto, con una potenza di 16 Mw, si basa su un ciclo combinato in cui un turbogas viene alimentato con idrogeno per produrre energia elettrica e calore. Il turbogas e’ equipaggiato con un a camera di combustione sviluppata per essere alimentata con idrogeno, senza emissione di CO2 e con bassissime emissioni di ossidi di azoto. L’energia termica liberata dalla combustione viene convertita in energia elettrica nella turbina a gas, sviluppando una potenza di circa 12 Mw, mentre i fumi di scarico sono costruiti esclusivamente da aria calda e vapore acqueo. Il rendimento del ciclo viene aumentando sfruttando il calore presente nei fumi di scarico per produrre vapore ad alta temperatura che, inviato alla centrale a carbone esistente, produce ulteriore energia per una capacita’ aggiuntiva di circa 4Mw, con un rendimento elettrico complessivo pari al 41,6%. L’ impianto e’ in grado di produrre 60 mln di kilowattora all’anno e puo’ soddisfare l’esigenza di 20 mila famiglie, evitando l’emissione di 17 mila tonnellate di C02.
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Umberto Veronesi presidente dell’Agenzia per la Sicurezza nucleare? 13.07.2010
A me sembra un ossimoro: Umberto Veronesi potrebbe essere a breve nominato presidente della neo Agenzia per la sicurezza Nucleare. Veronesi è uno scienziato impegnato nella lotta contro il cancro, nonché Senatore del Pd, nonché fan degli OGM e degli inceneritori. Che messaggio si vorrebbe sdoganare nel nominarlo presidente dell’ASN? Che il nucleare è sicuro?
Ma far passare un messaggio del genere è da irresponsabili: anche se si è a favore di questo tipo di approvvigionamento energetico non si dovrebbe comunque mai sottovalutare che in una centrale nucleare si maneggia materiale estremamente pericoloso anche se protetto nel migliore dei modi e alla presenza di personale altamente qualificato.
Comunque ha dichiarato Stefano Saglia, sottosegretario con delega all’Energia presso Il Ministero per lo sviluppo economico:
Le voci che danno Veronesi, senatore del Pd, alla presidenza sono più che fondate. Sarebbe un elemento di grande garanzia. La nomina del presidente spetta al presidente del consiglio, mentre degli altri quattro componenti, due sono nominati dal ministro dell’Ambiente e due dal ministro allo Sviluppo Economico. Il fatto che non ci sia ancora un sostituto dell’ex ministro Scajola non dovrebbe ritardare i tempi.
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In Romania si lavora alla centrale eolica più grande del mondo: le prime torri già attive 14.07.2010
In Romania stanno costruendo la centrale eolica on shore più grande del mondo: 240 turbine da 2,5 MW ciascuna per un totale di 600 MW. Il record attuale, la centrale scozzese di Whitelee, ha una potenza di 322 MW.
A costruire la centrale romena, nelle località di Fontanele e Cogealac, è la società ceca Cez. La fine dei lavori, vista la mole del progetto, non è vicinissima (anche se Cez giura di finire tutto entro l’anno) ma le prime 100 torri eoliche sono già state costruite e 21 sono entrate in funzione. La vera sfida è il collegamento alla rete elettrica, che deve essere decisamente robusta ed efficiente per gestire i picchi produttivi di questo mega impianto eolico.
I costi del progetto sono da record come la potenza: 1,1 miliardi di euro. Verranno ripagati dai generosi incentivi statali previsti dalla legislazione romena in materia di rinnovabili.
Via | Enel Green Power, Cez
Foto | Cez
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Il pensiero danzante di Lord Keynes
di Toni Negri
Il Manifesto 24.10.2009
Salvare il capitalismo riconoscendo il potere degli operai. Questo l’obiettivo dell’economista inglese. Ma il conflitto di classe ha mandato in frantumi quel fragile equilibrio
Keynes fu un galantuomo.
Significa: un borghese onesto, non un borghesuccio alla Proudhon, non un ideologo, ma piuttosto un «uomo di mano», come sapevano esserlo gli economisti classici, quando l’economia politica nasceva ancora dall’ordinare politicamente il mercato e la società.
Per Keynes il sapere funziona fattualmente, il che vuol dire – nella cultura del pragmatismo – che un dispositivo teleologico (nella fattispecie la sicurezza della riproduzione del sistema capitalistico) va introdotto nell’analisi delle sequenze dei fenomeni e nel loro assemblaggio – così, organizzando l’ordine dei fatti, si può costituire, con prudenza ed efficacia, l’ordine della ragione.
La scienza economica, ai tempi di Keynes, non era ancora divenuta quell’orrida macchinetta matematizzata, che oggi è disponibile a tutte le varianti dell’avventurismo finanziario e a tutte le derivazioni della rendita. Una volta messa – questa matematica – nelle mani dell’individualismo imbroglione, abbiamo visto che effetti abbia prodotto. Questo non significa tuttavia che la matematica non abbia nulla a che fare con l’economia o con altre discipline.
Al contrario, essa può essere utile e produttiva nell’economia politica, ma su tutt’altro terreno: quello, ad esempio, sul quale il neo-keynesismo nascerà, dall’incontro fra i programmatori socialisti della pianificazione sovietica (o quelli liberal del New Deal) ed i teorici matematizzanti della razionalizzazione del mercato, inventata da Walras.
Al suo tempo, tuttavia, in Keynes il rapporto fra ragione e realtà è ancora del tutto politico: il capitale vuole ancora chiarezza per se stesso.
Keynes si presenta sul terreno della scienza economica (e sul terreno politico della critica dell’economia politica ) alla fine della prima guerra mondiale.
Fa parte della rappresentanza inglese alla conferenza di Versailles.
È sbalordito dalla stupidità dei politici che, dopo la sconfitta, vogliono schiacciare la Germania impoverendola ulteriormente. «Oso predire che la vendetta non tarderà».
È Keynes che già nel 1919, di fronte alla follia di quelle élite che cercano, costruendo l’assetto post-bellico di applicare i metodi dell’imperialismo classico (e nello stesso tempo tremano davanti al potente richiamo dell’Ottobre rosso) all’interno stesso dell’Europa, mette in guardia contro «quella guerra civile finale tra le forze della reazione e le disperate convulsioni della rivoluzione, di fronte alla quale gli orrori della recente guerra tedesca sembreranno un nonnulla, e che distruggerà, qualunque sia il vincitore, la civiltà e il progresso della nostra nazione».
Il fatto è che Keynes aveva capito già allora che la rivoluzione russa aveva cambiato completamente l’economia politica del capitalismo, che la rottura del mercato era definitiva, che l’«uno si è diviso in due» (come dirà più tardi un leader comunista). E cioè che bisognava riconoscere che lo sviluppo capitalistico era esso stesso percorso e prefigurato dalla lotta di classe e dai suoi movimenti. È qui che vediamo Keynes esprimere una prima definitiva consapevolezza: «si dice che Lenin abbia dichiarato che il miglior modo di distruggere il sistema capitalistico sia quello di rovinarne la moneta. Lenin aveva certamente ragione.
Non vi è mezzo più sottile e più sicuro di scalzare le basi della società esistente». Ed ecco allora Keynes occuparsi scientificamente di questo problema politico: come usare la moneta, la finanza, per battere il comunismo. Sulla traccia keynesiana, il problema centrale dell’economia politica, resterà questo, sempre, nel secolo ventesimo.
Keynes credeva nella virtù della finanza (ebbe anche un rapporto equivoco con la Borsa, che durò finché non gli capitò di prendere una botta sui denti. È quello che sovente succede in Borsa anche ai più abili… non credo, come sembra credere invece il suo biografo Harrod, che Keynes avesse la speculazione borsista nel suo cuore!). La virtù della finanza, dunque. La finanza costituisce il cuore pulsante del capitalismo: questo è il realistico punto di vista di Keynes.
Egli così rovescia da principio le vecchie concezioni moralistiche che, dal medioevo a Hilferding, hanno squalificato l’egemonia del denaro nella produzione di ricchezza e nella riproduzione dell’ordine sociale. Di contro, per Keynes, i mercati finanziari svolgono un ruolo di moltiplicatori della ricchezza.
Può, quest’assunzione teorica, esser valida anche in periodo di crisi economica? Certo, risponde Keynes, dal centro di quella crisi che nasce negli anni Venti per ingigantirsi alla fine del decennio. Lo Stato dovrà allora intervenire sulla società, e riorganizzarla produttivamente, attraverso un’azione sul tasso di interesse, «verso quel punto, relativamente alla tabella dell’efficienza marginale, al quale vi è piena occupazione». In questo modo si costruisce un intero ricettario terapeutico del keynesismo di fronte alla crisi che scuote continuamente lo sviluppo.
Qui, nel momento stesso in cui costruisce un nuovo modello di equilibrio, tenendo presente pragmaticamente le finalità dell’ordine capitalistico, Keynes propone di determinare uno squilibrio continuo, nel deficit spending, dell’iniziativa dello Stato. Ma questo deficit apre nuovi margini per la domanda effettiva e sviluppa la dinamica capitalistica, pur accettando la rigidità verso il basso dei salari dei lavoratori. È così che la lotta di classe viene assorbita nel sistema del capitale. La proposta di Keynes è del tutto progressista.
Se ne accorgerà presto, Keynes stesso, quando trattando a Bretton Woods dei rapporti monetari internazionali, si sentirà opporre dai rappresentanti conservatori di Washington che la moneta di referenza non poteva dimenticare uno standard reale, che questo standard era il dollaro, e cioè uno strumento di organizzazione e di divisione internazionale del lavoro, basato sull’accumulazione dell’oro nella banca di America.
Di conseguenza: il deficit spending che i singoli governi capitalisti e nazionali avrebbero potuto avanzare per contenere progressivamente i movimenti delle singole classi operaie nazionali (che vogliono trasformare la società e rompere il giogo capitalista), doveva essere controllato dal centro capitalistico, dal Komintern di Wall Street. Addio all’illusione del bancor, allora, grande invenzione keynesiana di una moneta ideale basata sul libero scambio, che avrebbe permesso equilibri diversi in riferimento ai desideri delle popolazioni ed all’intensità delle lotte della classe operaia organizzata. Era dunque un capitalista serio, John Maynard Keynes. Aveva compreso che, davanti alla reazione ed alla rivoluzione, in presenza di un potere socialista già affermato, non una terza via, ma solo una sintesi politica più avanzata, poteva difendere gli interessi capitalistici. Ridendosela dell’«egemonia della produzione reale»,
Keynes pensa infatti che la finanza possa rappresentare, confrontandosi alla produzione (quando per società produttiva si intendesse «società civile»), la mediazione degli interessi contrapposti delle classi, e quindi la costruzione di un nuovo modello di capitalismo. Contrario al bolscevismo, Keynes non accettava lo slogan «il potere a chi lavora», e neppure la sua legittimazione: «chi non lavora non mangia». Comprendeva tuttavia che il socialismo ed il comunismo andavano al di là, di fatto, nella loro ipotesi di costruzione di un nuovo ordine del lavoro, di queste primitive parole d’ordine e di questi banali obiettivi politici. Il comunismo – secondo Keynes – poteva rappresentare la totalità del lavoro astratto, estratto da tutti i lavoratori della società, quindi da tutti i cittadini, quindi dall’uomo stesso socializzato.
Oggi, accettando queste paradossali esclamazioni, potremmo dire che il comunismo è la forma del «biopolitico», quando per «biopolitico» si intenda che, non solo la società, ma la vita è stata messa al lavoro per produrre merci; e che non solo le relazioni sociali, ma il rapporto fra menti e corpi è ormai produttivo. Keynes sembra aver compreso, in una straordinaria anticipazione, l’avvento di quel che oggi chiamiamo il «comunismo del capitale». Voleva trattenere la lotta di classe dentro le regole di una società dove lo sfruttamento del lavoro fosse non semplicemente finalizzato alla costruzione del profitto,ma anche alla progressione nel soddisfacimento dei bisogni. Non sarà allora difficile comprendere quanto forte fosse l’odio di Keynes per il rentier! Se vogliamo muoverci per la salvezza del sistema capitalista, dobbiamo, afferma Keynes, auspicare (ed è moralmente legittimo oltre che politicamente urgente) «l’eutanasia del redditiero». Perché il rentier è un anarchico, è un egoista, che sfrutta, insieme al possesso di terre e degli immobili, degli spazi metropolitani, il lavoro che circonda queste terre e questi spazi e che li valorizza continuamente. Il rentier non spende nulla in questo gioco, guadagna senza lavorare e vince senza combattere. Questo squallido sfruttatore va eliminato. Siamo al punto più alto di quell’intelligenza capitalistica che, cercando di comprendere l’avversario, all’interno della lotta di classe, attraversò il ventesimo secolo.
Lasciatemi sorridere: fin qui Keynes ci appare un genio sovversivo. Tanto più se si pensa che oggi la rendita è ridiventata centrale nel sistema post-industriale dell’organizzazione del capitale! Ma oggi non c’è leader politico, né pensatore economico che abbia il coraggio di attaccare la rendita: si fa moralizzazione contro i ladri palesi, i corruttori del credito bancario, ma i ladri consueti e sorrettizi, i rentiers che, son peggio degli usurai, chi li attacca? Chi potrà mai mettere in causa questo sacro fondamento, reale e simbolico, di ogni forma di proprietà? Keynes ha provato, non fu gran cosa, ma ci fu. Quello, però, dell’attacco alla rendita, è solo il punto più alto, fuor di ogni dubbio, del discorso politico di Keynes. Ma è qui che si rivela il carattere illusorio dei ragionamenti di Keynes. In effetti già nello sviluppare il suo discorso progressista, Keynes dimentica troppo spesso le condizioni nelle quali il suo punto di vista (inteso alla salvezza del capitalismo) si colloca. Keynes muove infatti da due condizioni che considera insuperabili e
che non ha mai messo in dubbio: il consolidamento finale, attuale e tendenziale del potere coloniale, in primo luogo; in secondo luogo, la figura definitiva raggiunta in Europa dall’organizzazione dei rapporti di classe (organizzazione sindacale ed strutturazione sociale del Welfare). È qui, a fronte delle enormi trasformazioni del lavoro e della composizione delle classi, della trasformazione, inoltre, delle dimensioni geopolitiche della lotta di classe – è qui dunque che comincia per il keynesismo la difficoltà di presentarsi come teoria dominante all’interno delle dinamiche dello sviluppo, nella seconda metà del ventesimo secolo e all’aprirsi del ventunesimo.
Guardandolo da questo punto di vista, su questo snodo secolare, Keynes resta un evento, una folgorazione intellettuale –ma del ventesimo secolo, in conclusione della lunga crisi capitalistica dell’occidente. La sua è stata una risposta adeguata alla rivoluzione sovietica, ha rappresentato l’urgenza egemonica di portare la lotta di classe nello sviluppo e nel controllo del capitale. Non è null’altro che questo. Gli manca la possibilità di considerare l’estensione globale della lotta di classe, la fine del colonialismo, e soprattutto l’esaurirsi della capacità capitalistica di trasformare imetodi dello sfruttamento e dell’accumulazione proprio qui da noi, nel primo mondo.
Guardate quello che è successo dopo Keynes. La rivoluzione è proceduta attraversando il mondo del sottosviluppo e togliendo al capitale la possibilità di governarlo nelle forme coloniali classiche. Alla dipendenza si è sostituita l’interdipendenza. Globalizzandosi ed unificandosi il capitale ha in certo qual modo vinto, ma nel medesimo tempo ha in certo qual modo perso: perché, di sicuro, il vecchio ordine è stato distrutto ed un nuovo ordine è davvero molto difficile da costruire. Keynes è andato a male su questo terreno. Per questo Keynes è oggi irrecuperabile. Non è difficile spiegare perché. Il New Deal keynesiano era stato l’esito di un assemblaggio istituzionale basato sull’esistenza di tre presupposti: uno Stato-nazione capace di sviluppare in maniera indipendente politiche economiche nazionali; la capacità di misurare profitti e salari dentro un rapporto di ridistribuzione democraticamente accettato; relazioni industriali che permettevano una dialettica legalmente accettata fra interesse imprenditoriale e movimenti (rivendicazioni) della classe operaia.
Nessuno di questi tre presupposti è oggi presente nella condizione economico-politica attuale.
L’esistenza dello Stato-nazione è stata messa in crisi dai processi di internazionalizzazione produttiva e di globalizzazione finanziaria, che rappresentano le basi di definizione di un potere imperiale sopranazionale. In secondo luogo la dinamica della produttività tende sempre di più a dipendere da produzioni immateriali e dal coinvolgimento di facoltà umane e cognitive, difficilmente misurabili con criteri tradizionali, sicché la produttività sociale non consente una regolazione salariale basata sul rapporto tra salario e produttività. La crisi dei sindacati è, da questo punto di vista, un elemento esemplare (anche se non definitivo) nello sviluppo del sistema capitalistico di oggi. Così tocchiamo la crisi dei rapporti contrattuali: mancano i soggetti di ogni accordo keynesiano. In più, l‘unico elemento che accomuna gli interessi capitalistici, è in primo luogo il perseguimento di un profitto a breve termine, in secondo luogo lo sfruttamento radicale delle possibilità di godimento delle rendite fondiarie, immobiliari e di servizio. Sicché tutto questo rende praticamente impossibile la formulazione di riforme progressive.
Il risultato complessivo è che nel capitalismo attuale non vi è spazio per una politica istituzionale di riforme. L’instabilità strutturale del capitalismo di oggi è definitiva, nessun New Deal è possibile. Se proprio volessimo fare uno sforzo per resuscitare Keynes, potremmo spostare il suo deficit spending, il suo concetto di socializzazione degli investimenti, verso delle istituzioni del basic income, e cioè verso delle politiche che anticipino le forme dello sviluppo ed organizzino la struttura fiscale dello Stato in riferimento alla produttività globale del sistema, quindi alla capacità produttiva di tutti i cittadini.
Ma facendo questo, con tutta probabilità, saremmo ben al di là delle misure e dei presupposti antropologici di una società capitalistica e soprattutto delle ideologie dell’individualismo (proprietario e/o patrimoniale) e di tutte le conseguenze politiche che ne coronano lo sviluppo. Battendoci su un basic income che non sia semplicemente un elemento salariale, ma il riconoscimento di uno sfruttamento che tocca, non solo i lavoratori ma tutti quelli che sono a disposizione dell’organizzazione capitalistica nella società – ammettendo e battendoci per questo siamo già al di là di ogni immagine del capitalismo proprietario.
L’uno si è diviso in due: mentre Keynes aveva lavorato incessantemente per chiudere questa divisione e per ricondurre hobbesianamente le lotte sociale all’Uno, oggi la divisione e le lotte si sono riaperte. Probabilmente una stagione di lotta di classe sta fiorendo. Keynes amava la danza (aveva sposato una ballerina), ma non amava i fiori (ne era allergico).
http://rlangone4.blogspot.com/2010/06/il-pensiero-danzante-di-lord-keynes.html
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In Cina ora salgono i salari 13.07.2010
di Federica Bianchi
Nel cuore industrale del Paese le buste-paga sono diventate di colpo più pesanti. Il piano del governo per far crescere i consumi ed evitare tensioni sociali
Era l’inizio del 2007 quando i ricercatori dell’Accademia cinese delle scienze sociali nel loro libricino verde l’avevano previsto. A cavallo tra il 2009 e il 2010 i salari degli operai sarebbero rapidamente cresciuti. Normale meccanismo della domanda e dell’offerta. Di giovani e bravi ragazzi disposti a passare i giorni migliori della loro vita legati a un macchinario lontano migliaia di chilometri da casa per poche centinaia di yuan al mese se ne sarebbero trovati sempre di meno.
Così è successo o, meglio, sta succedendo, proprio a Zhongshang, nel cuore manufatturiero della Cina. I milioni di ragazzi (gli imprenditori difficilmente assumono gli over 35) della “fabbrica del mondo” hanno cominciato a chiedere, e stanno ottenendo. Tra la sorpresa dei governi di mezzo mondo e la consapevolezza di quello cinese.
Certo ci sono voluti suicidi e scioperi duri (da quelli alla Foxconn, il fornitore taiwanese degli i-phone della Apple, a quelli che hanno rallentato la produzione della Honda) perché il mondo si rendesse conto che la Cina come l’abbiamo conosciuta negli ultimi vent’anni non sarebbe durata per sempre. La manodopera dal costo irrisorio. Gli abiti usa e getta esportati in ogni angolo del globo.
L’irrefrenabile produzione di foreste di grattacieli e ragnatele di autostrade. Le banconote dal valore troppo simile a quelle del Monopoli. Un livello di sviluppo economico da paese emergente, accompagnato da un tasso d’inflazione da paese del G8.
Adesso la Cina si sta trasformando in un’economia avanzata, dove la crescita delle esportazioni cederà lentamente il passo a quella scalpitante dei consumi. Dove non ci si potrà più affidare a un ponte o a una ferrovia in più per risolvere il problema della disoccupazione o quello della crescita, tranne a volere scavare buche per poi richiuderle. Dove l’acquisto di una casa sarà (ne siamo ancora lontani) non più la dimostrazione del raggiunto successo economico (ci sono imprenditori che collezionano appartamenti con la stessa frequenza con cui le loro mogli acquistano scarpe), ma il gesto costitutivo di una nuova famiglia. E dove il tasso di crescita del Pil passerà dal 9-10 per cento a un più normale 6-7 per cento, come sostiene Riuchir Sharma, il responsabile dei mercati emergenti di Morgan Stanley.
È la Cina 2.0: un Paese più ricco, ma anche più lento e più complesso da gestire di quello in crescita spasmodica del dopo Tiananmen. Un Paese che magari non ha ancora chiara la destinazione finale, ma è ben consapevole di dovere offrire condizioni di vita migliori alla maggioranza dei suoi giovani, che, a differenza dei padri, lavorano sempre meno per aiutare la famiglia di origine e sempre più per conquistarsi un futuro tutto loro.
“Il termine scarsità di manodopera è un ossimoro”, spiega Andy Xie, uno dei maggiori osservatori dell’economia cinese: “Se di un prodotto c’è scarsità vuol dire semplicemente che non è prezzato bene”. Dunque i salari dei colletti blu specializzati dovranno crescere. E nostante in Guangdong il salario minimo sfiori ormai i mille yuan mensili, come a Pechino e Shanghai, lo spazio per gli aumenti è ancora ampio. Il monte-salari rappresenta soltanto il 15 per cento del prodotto interno lordo cinese, rispetto ad una media europea che supera il 40 per cento. Se anche una parte delle produzioni ad alta intensità di manodopera dovesse migrare in Bangladesh, Vietnam o Indonesia alla ricerca di mani meno care, è probabile che la maggior parte rimanga dov’è, visto che nessun altro vicino può competere con l’efficienza delle infrastrutture cinesi e che – a livello di singole aziende – la crescita dei salari sarà ampiamente controbilanciata dall’aumento delle vendite interne sospinte da un maggiore potere di acquisto dei cittadini. Almeno per quelle aziende straniere che producono e vendono in Cina. “Lo spostamento degli aumenti del costo del lavoro sul settore delle esportazioni ha un ruolo critico nella transizione della Cina verso un’economia orientata al consumo”, spiega Xie: “In futuro una maggiore fetta dei lavoratori sarà impiegata nel settore dei servizi e le esportazioni non cresceranno come in passato, ma l’aumento del loro valore compenserà i maggiori livelli di importazione, anch’essi parte di questa transizione”.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/in-cina-ora-salgono-i-salari/2130693
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Marea nera: un possibile aiuto dal Cnr 14.07.2010
Ha un potere assorbente pari a 30 volte il proprio peso, il Polsolver realizzato da Gta Srl, una società del gruppo Arcobaleno.A che da alcuni anni opera in collaborazione con l’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria (Igag) del Consiglio nazionale delle ricerche nella preparazione di materiali per bonifiche ambientali e per lo studio e l’applicazione di nuovi materiali e tecnologie di processo ambientali.
Una speranza per far sparire la ‘marea nera’? “Sì, se sin dall’inizio si fosse tentato di assorbire il petrolio fuoriuscito dalla piattaforma della British Petroleum colata a picco nelle acque del Golfo del Messico”, afferma Paolo Plescia dell’ Igag-Cnr. “Ora dopo tanti giorni di spillamento, durante i quali sono state usate grandi quantità di disperdenti e di sostanze chimiche, la situazione è molto più complicata. Le sostanze utilizzate tendono a sciogliere o diminuire la viscosità dell’olio versato, inducendo, in questo modo, la formazione di sottoprodotti ancora più complessi da trattare”.
Ci sono voluti due anni per mettere a punto Polysolver, un materiale che proviene essenzialmente dal recupero di polimeri di rifiuti elettronici. “Polimeri inerti”, aggiunge il ricercatore, “che normalmente vengono mandati in discarica e che noi invece recuperiamo e trattiamo modificandoli sulla superficie, fino a farli diventare porosi e fortemente assorbenti, adatti per gli idrocarburi. Il prodotto finito è inerte dal punto di vista chimico, non reagisce con acidi o basi e non viene dissolto da solventi forti, ma lavora molto bene con gli idrocarburi: quando assorbe si forma una specie di pasta che diventa solida e quindi può essere recuperata dagli operatori con una semplice rete. E il mare ritorna pulito”. Con una tonnellata di questo materiale, secondo Plescia, si possono assorbire 30 tonnellate di idrocarburi o di olio sversati in mare.
Polysolver, sottoposto a test di certificazioni, è stato messo a disposizione delle aziende interessate e proposto all’Epa (Environmental Protection Agency), l’agenzia ambientale americana, con la quale i ricercatori italiani stanno collaborando per una serie di prove. Viste le sue caratteristiche, l’articolo potrebbe essere ancora utile, se non altro per creare zone di raccolta dell’olio che sta migrando verso le coste della Florida.
Il danno della cosiddetta ‘marea nera’ sull’ambiente, ha purtroppo altri risvolti inquietanti che si proiettano nel medio e lungo termine, creati dalle condizioni ambientali proprie di quelle latitudini. Secondo Plescia si potrebbe determinare una situazione della quale si è parlato poco: “A quelle latitudini il sole svolge una funzione catalitica importante e tutto ciò che è in superficie nel mare viene bombardato dai raggi ultravioletti e tende a ossidare le emulsioni di olio, formando policiclici ossidati, estremamente pericolosi per l’ambiente, che sono peraltro molto più solubili dei composti chimici del petrolio”.
Rita Lena
Fonte: Paolo Plescia, Istituto di geologia ambientale e geoingegneria, Roma, tel. 06/90672508, email paolo.plescia@mlib.ismn.cnr.it
http://www.almanacco.cnr.it/reader/cw_usr_view_articolo.html?id_articolo=899&giornale=895
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Texas Italia 14.07.2010
Pochi lo sanno. Anche in Italia però c’è la corsa all’oro nero. Ad oggi nel nostro paese sono stati rilasciati 95 permessi di ricerca di idrocarburi, di cui 24 a mare, interessando un’area di circa 11.000 kmq., e 71 a terra, per oltre 25.000 kmq. A queste si devono aggiungere le 65 istanze presentate solo negli ultimi due anni, di cui ben 41 a mare per una superficie di 23.000 kmq. Non sono risparmiate nemmeno le aree marine protette.
L’estrazione di petrolio in Italia viene analizzata nel dossier della Legambiente “Texas Italia”.
In un comunicato si può leggere, tra l’altro:
“…Rilanciata in nome di una presunta indipendenza energetica, la corsa all’oro nero italiano, stando alla localizzazione delle riserve disponibili, riguarda in particolare il mare e non risparmia neanche le Aree Marine Protette. Sono interessati il mar Adriatico centro-meridionale, lo Ionio e il Canale di Sicilia.
Tra le ultime istanze presentate c’è la richiesta della Petroceltic Italia di permessi di ricerca nell’intero specchio di mare compreso tra la costa Teramana e le isole Tremiti. Queste ultime in particolare sono minacciate anche da un’altra richiesta per un’area di mare di 730 kmq a ridosso delle isole. Sotto assedio anche mare e coste sarde, sulle quali pendono due recenti istanze della Saras e due più vecchie della Puma Petroleum, per un totale di 1.838 kmq nel golfo di Oristano e di Cagliari; la stessa società detiene una richiesta anche nello splendido specchio di mare tra l’isola d’Elba e quella di Montecristo, 643 kmq in pieno Santuario dei Cetacei all’interno del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano.
È delle scorse settimane, infine, la notizia della partenza di una nave commissionata dalla Shell, che ha il compito di eseguire studi e prospezioni per individuare quello che viene considerato, usando le parole della stessa Shell Italia ‘un autentico tesoro’ che porterebbe l’Italia a confermarsi ‘il Paese con più idrocarburi dell’Europa continentale’. Peccato che anche in questo caso le attività estrattive mal si combinerebbero con l’Area Marina Protetta delle isole Egadi e con un’economia basata prevalentemente su turismo e pesca.
Nei nostri mari oggi operano 9 piattaforme per un totale di 76 pozzi, da cui si estrae olio greggio. Due sono localizzate di fronte la costa marchigiana (Civitanova Marche), tre di fronte quella abruzzese (Vasto) e le altre quattro nel canale di Sicilia di fronte il tratto di costa tra Gela e Ragusa.
Passando dal mare alla terra, le aree del Paese interessate dall’estrazione di idrocarburi sono la Basilicata, storicamente sede dei più grandi pozzi e dove si estrae oltre il 70% del petrolio nazionale proveniente dai giacimenti della Val d’Agri (Eni e Shell), l’Emilia Romagna, il Lazio, la Lombardia, il Molise, il Piemonte e la Sicilia.
Complessivamente lo scorso anno in Italia sono state estratte 4,5 milioni di tonnellate di petrolio, circa il 6% dei consumi totali nazionali di greggio. Ma la quantità rischia di aumentare, perché stanno aumentando sempre di più le istanze e i permessi di ricerca di greggio nel mare e sul territorio italiano.
Una ricerca forsennata per individuare ed estrarre le 129 milioni di tonnellate che, secondo le stime del Ministero dello sviluppo economico, sono ancora recuperabili da mare e terra italiani. Ma il gioco non vale la candela. Infatti, visto che il Paese consuma 80 milioni di tonnellate di petrolio l`anno, le riserve di oro nero made in Italy agli attuali ritmi di consumo consentirebbero all’Italia di tagliare le importazioni per soli 20 mesi. Ma estrarre il greggio nostrano fino all’ultimo barile sarebbe un’ipoteca sul nostro futuro.
Nonostante ciò è già partita una ‘lottizzazione’ senza scrupoli del mare italiano, che per ironia della sorte avanza inesorabilmente proprio quando l’attenzione internazionale è concentrata sul disastro ambientale nel Golfo del Messico causato dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della BP (British Petroleum)…
Le attività di ricerca ed estrazione di petrolio (con un nuovo provvedimento ipotizzato dal governo: n.a.) verrebbero vietate nella fascia marina di 5 miglia lungo l’intero perimetro costiero nazionale, limite che sale a 12 miglia per le Aree Marine Protette. Al di fuori di queste aree, le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi verrebbero sottoposte a valutazione di impatto ambientale (Via). La norma si applicherebbe anche ai procedimenti autorizzativi in corso.
‘Si tratta di un provvedimento dall’efficacia davvero relativa – prosegue Stefano Ciafani di Legambiente-. La norma non si applica infatti a pozzi e piattaforme esistenti. E poi cosa cambierebbe se un incidente avvenisse in un pozzo o una piattaforma localizzata al di là di 5 o 12 miglia dalle coste? In caso di incidente sarebbe comunque un dramma per i nostri mari e per il Mediterraneo. Se spostassimo, infatti, la marea nera che sta inquinando il Golfo del Messico nell`Adriatico la sua estensione si spingerebbe da Trieste al Gargano’…
Proprio la facilità delle procedure e il mancato coinvolgimento delle comunità locali sono, insieme ad un costo del barile che è tornato a livelli importanti (tra 75 e 80 dollari per barile), tra le cause principali della proliferazione delle istanze per i permessi di ricerca in mare. Richieste avanzate nella maggior parte dei casi, da imprese straniere come la Northern Petroleum (UK) e la Petroceltic Elsa, che da sole rappresentano circa il 50% delle istanze presentate negli ultimi due anni per un totale di 11.000 kmq, che rischiano di essere ceduti in nome del petrolio e di una fantomatica indipendenza energetica, che di certo non si ottiene attraverso un rilancio dell’estrazione petrolifera in Italia, sa maggior ragione se a farla sono le imprese straniere.
Il gioco non vale la candela neanche dal punto di vista occupazionale. Le ultime stime di Assomineraria quantificano la rilevanza economica e occupazionale del settore estrattivo in Italia come segue: un risparmio di 100 miliardi di euro nelle importazioni di greggio dall’estero nei prossimi 25 anni e la creazione di 34.000 posti di lavoro.
Numeri che non reggono se confrontati con un investimento nel settore della green economy e delle rinnovabili. Anziché investire nella folle corsa all’oro nero e all’atomo si dovrebbe puntare con decisione sullo sviluppo di efficienza energetica e fonti pulite, un settore capace di creare solo in Italia dai 150 ai 200.000 posti di lavoro entro il 2020 e capace di traghettare il paese verso un’economia a basso tenore di carbonio, una trasformazione necessaria, visti gli obiettivi vincolanti degli accordi internazionali sui cambiamenti climatici, a partire da quello Europeo fissato per il 2020 (20% risparmio energetico, 20% produzione da fonti rinnovabili, 20% riduzione emissioni di CO2).
Ecco il link del dossier
http://risorse.legambiente.it/docs/Dossier_Legambiente_-_Texas_Italia.0000001368.pdf
Generalmente si pensa che l’estrazione del petrolio in Italia rappresenti un fenomeno scarsamente significativo. Certo il nostro paese non è diventato come i paesi arabi, ma il dossier della Legambiente evidenzia che comunque, zitte zitte, le compagnie interessate all’estrazione del petrolio si stanno sempre più interessando alle acque e ai terreni italiani. Non si devono creare allarmismi fuori luogo ma, quanto meno, far conoscere diffusamente quanto sta avvenendo, i pericoli anche solo potenziali cui ci si trova di fronte, è doveroso ed inoltre è quanto mai opportuno verificare con attenzione se sarebbero più convenienti e più sicuri investimenti energetici alternativi. Non credo che ciò stia avvenendo.
http://paoloborrello.ilcannocchiale.it/2010/07/14/texas_italia.html
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Alla scoperta del moro 15.07.2010
di Enzo Modugno (il Manifesto del 15 luglio 2010)
La crisi economica ha riportato al centro della scena Karl Marx. Tanto che in alcuni recenti volumi la sua analisi è usata per capire il perché la privatizzazione del sapere e il cambiamento delle università in agenzie di formazione dei lavoratori della conoscenza siano una necessità del capitalismo mondiale
Uno stile di discussione «a un tempo spietato e di reciproca stima» caratterizza dal 1991 gli incontri annuali degli economisti e dei filosofi dell’International Symposium on Marxian Theory. Una decina dei loro interventi sono ora pubblicati dalla Città del Sole (Marx in questione, a cura di Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi). Sono molti gli aspetti del capitalismo che l’opera di Marx, un secolo e mezzo dopo, riesce ad interpretare con insuperato rigore: perfino la grande stampa, a proposito della crisi, ha dovuto riconoscerlo. E questo volume ne è un’ulteriore conferma. La logica capitalistica della «produzione snella» per esempio, era già analizzata nel secondo volume del Capitale, come ha mostrato nel suo intervento Tony Smith. E l’inseparabilità della teoria marxiana del valore dal suo versante monetario, esposta da Riccardo Bellofiore, può interpretare i più intimi meccanismi dell’attuale modo di produzione. Questo volume insomma mostra quanto la teoria marxiana sia rilevante anche per l’analisi delle più recenti trasformazioni del modo di produrre.
Il feticismo della scienza
Nel libro infatti si affronta anche la questione dei «lavoratori della conoscenza», decisiva per la comprensione di queste trasformazioni. Tony Smith ne espone due versioni. Da un lato l’interpretazione mainstream: molti teorici dell’impresa e molti scienziati sociali – si cita Womack e Tapscott-Caston – sostengono che il potenziamento delle capacità (empowerment) della forza-lavoro e la creazione di «lavoratori della conoscenza» pluriqualificati, trascendano le caratteristiche alienanti delle precedenti attività lavorative. Dall’altro lato invece lo stesso Tony Smith sostiene che anche i «lavoratori della conoscenza» possano essere considerati nei termini del primo volume del Capitale: ritiene cioè che la coercizione strutturale, lo sfruttamento e la sussunzione reale del lavoro sotto la forza aliena del capitale continuino a caratterizzare le relazioni tra capitale e lavoro. Qui di seguito si vorrebbe sostenere e argomentare questo secondo punto di vista, anche a proposito di due interventi di Franco Berardi Bifo e di Marcello Cini e Sergio Bellucci apparsi di recente su questo giornale (il manifesto 27 marzo e 18 aprile).
Per fondare materialisticamente un’analisi della produzione oggi è essenziale la critica del pensiero reificato e matematizzato condotta dalla filosofia del Novecento. La prima critica dell’economia della conoscenza infatti può essere considerata quella di György Lukács che nel 1923, in Storia e coscienza di classe, scrive che «la scienza è un istituto del mondo borghese»: sostiene cioè che la reificazione prodotta dalla scienza coincide con la reificazione prodotta dal capitalismo. In quest’opera, per la prima volta, sono legate insieme due linee di pensiero assai diverse: da un lato la critica dell’intelletto e della scienza, fino ad allora considerata soltanto irrazionalismo spiritualistico; dall’altro l’analisi della reificazione o feticismo condotta da Marx nel Capitale, fino ad allora totalmente ignorata anche dagli interpreti marxisti. Dunque questo libro che avrebbe poi dato l’avvio al «marxismo occidentale» e influenzato lo stesso Martin Heidegger, utilizza per la prima volta l’opera di Marx per l’analisi delle trasformazioni produttive che si stavano preparando. Anche secondo Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, che scrivono nel 1942 prima del primo calcolatore, il pensiero matematizzato si reifica in un processo automatico che si svolge per conto proprio, gareggiando con la macchina che esso stesso produce per farsi finalmente sostituire. Questo pensiero, che si è ora definitivamente cristallizzato in un apparato materiale, ha quindi una lunga storia. Le tecnologie realizzate nella Silicon Valley infatti non vanno considerate come un inizio, à la Manuel Castells, ma come l’ultimo atto, l’entelechia della razionalità occidentale: la cui critica era dunque ben altro che una «reazione idealistica», come affermarono i custodi del sapere scientifico. Perché è diventato oggi praticamente vero che il pensiero messo a punto dalla critica kantiana come dispositivo contro il dogmatismo, invece di elevare alla maggiorità i suoi addetti (come aveva annunciato e come i kantiani del «popolo della rete» ancora si aspettano), si è reificato, matematizzato, «motorizzato» e con l’«organizzazione cibernetico-tecnica della scienza» li ha condannati alla minorità, li ha costretti al dogmatismo. Perché il lavoratore mentale trova ora un sapere già formato, il suo contenuto è sottratto alla sua esperienza, non può più indagare il modo in cui si forma.
Gli algoritmi del dogmatismo
Il procedimento matematico, che trasforma la cosa in pensiero e il pensiero in cosa, gli si contrappone ormai irrimediabilmente come utensile universale per la fabbricazione di conoscenze, come condizione oggettiva materiale della produzione, come una macchina capitalistica che ha reso obsoleto e inaffidabile il cervello umano. La sua esperienza non può più in nessun modo né guidare né controllare questi algoritmi che trascendono il suo mondo sensibile, che vengono «non si sa da dove, e sul credito di principi di cui non conosce l’origine»: per questo il pensiero reificato condanna il lavoro mentale alla minorità, al dogmatismo che non è più come prima solo un’affezione dello spirito ma è diventato una condizione materiale alla quale non è possibile sottrarsi. (A questo proposito si veda l’intervento di Tonino Perna sulla «dittatura dell’ignoranza», Carta del 4 giugno).
Questa condizione materiale è stata variamente interpretata. C’è una definizione lapidaria del processo storico che ha portato alle trasformazioni del modo di produrre: secondo Heidegger «l’uomo che pensa ha perso il centro». In realtà ha perso valore d’uso, e quindi valore di scambio, perché il passaggio dal non sapere al sapere non è più un problema critico. Con l’«organizzazione cibernetico-tecnica della scienza» infatti il sapere è diventato un algoritmo, si è reificato, si è autonomizzato, si è separato dall’«uomo che pensa», gli si è contrapposto come «ratio estraniata», come mezzo di produzione e prodotto di un nuovo capitale che lo ha ridotto a lavoro mentale salariato (sarà questo l’argomento di Das Cyberkapital, una raccolta di saggi in preparazione).
Un cybercapitale dunque che ha fatto delle conoscenze i nuovi valori d’uso, depositari come prima dei valori di scambio, che ne ha fatto la merce più diffusa – dalle informazioni minute alla ratio calcolante – il settore con più investimenti (dal 1992 negli Usa). Un cybercapitale che è passato dalla «macchina per filare senza dita» alla macchina per pensare senza cervello, che dunque possiede la macchina dalla quale ha preso l’avvio la produzione capitalistica di conoscenze, che sono diventate la nuova ricchezza sociale, la nuova comunità che i knowledge workers cercano di far propria e dalla quale invece «vengono ingoiati». Per questo, come sostiene Tony Smith, i «lavoratori della conoscenza» possono essere considerati nei termini del primo volume del Capitale.
Il calcolo cibernetico
Chi vede solo le cose prodotte non si accorge che questo capitale, a parte qualche supercreativo addestrato dalle corporation per produrre «nuove» conoscenze, ha invece prodotto la gran massa dei lavoratori mentali addetti alle macchine informatiche che «ri-producono» infinite volte conoscenze di cui non sanno e non debbono sapere nulla, ne rovinerebbero l’operatività, sarebbero un «fattore di disturbo nel calcolo cibernetico». Per loro è più che sufficiente un diploma al quale il sistema d’istruzione si è già da tempo adeguato con la riduzione di ogni ordine e grado a un’enorme scuola di avviamento al lavoro.
La privatizzazione del sapere non è stato l’esito di un errore dei ministri ma un tentativo di razionalizzazione capitalistica. È infatti antieconomico produrre nelle università statali «nuove» conoscenze che le corporation vendono sul mercato mondiale. Un cybercapitale dunque che oggettiva nelle macchine ogni competenza dei lavoratori mentali, che ne assorbe ogni virtuosità con un processo ininterrotto e con una rapidità senza precedenti, riducendoli alla precarietà, alla delocalizzazione, alla concorrenza mondiale tra lavoratori.
Non sono però di questo avviso da un lato quei marxisti «ortodossi» che considerano la produzione di conoscenze un’attività parassitaria dei paesi imperialisti; d’altro lato quegli autori nei quali sembra riaffiorare l’interpretazione mainstream riferita da Tony Smith, perché pensano che i knowledge workers posseggano qualità e competenze non oggettivabili nelle macchine e non misurabili col tempo di lavoro. Come ad esempio (ma si invoca «reciproca stima») negli interventi di Berardi Bifo e di Cini-Bellucci, ma anche nelle tesi dei teorici della moltitudine e in quanti nel «popolo della rete» considerano il cervello umano, cioè la facoltà di pensare e di parlare, come la vera macchina che produce conoscenze, segni. Questo significa che considerano «l’organizzazione cibernetico-tecnica della scienza» come uno strumento a disposizione di intellettuali ancora autonomi proprietari del proprio lavoro, cioè come un mezzo di libera condivisione di informazioni, come uno spazio di cooperazione produttiva extraeconomica, insomma come possibilità di liberazione. Dunque non come una macchina che dequalifica i suoi addetti, ma come uno strumento che ne richiede la virtuosità. Quindi ritengono che il capitale, rimasto senza macchine, perciò senza più alcuna funzione nella produzione, senza più legge del valore per regolare il mercato del lavoro, sia ridotto a puro dominio, un parassita che sopravvive con la sopraffazione e la violenza.
La proprietà dell’intelletto
La situazione però potrebbe essere anche peggiore se «l’organizzazione cibernetico-tecnica della scienza» non fosse lo strumento di liberazione da contrapporre al capitale dimezzato descritto da Bifo e Cini, ma al contrario fosse, come qui si sostiene, un mezzo di produzione irrecuperabile, saldamente in mano a una nuova forma di capitale. Ha scritto Dan Schiller – Capitalismo digitale (Egea), How to Think About Information (University of Illinois Press) -, documentando la lunga alleanza tra governi e corporation, che Internet è stato fin dall’inizio il mezzo principale a disposizione del capitalismo per far penetrare dappertutto la legge del mercato. I mezzi di comunicazione, scriveva Marx nel 1848, se facilitano l’unione dei lavoratori, sono però creati dai capitalisti per i loro scopi, riducono le differenze del lavoro e deprimono il salario quasi ovunque a uno stesso basso livello.
Questo sapere estraneo, altro, reificato, è diventato proprietà altrui, la proprietà del capitalista, il suo mezzo di produzione. Non sarà facile espropriarlo: messo a punto per estorcere plusvalore, questo sapere non è più riappropriabile con la riforma Gentile, come invece ancora vorrebbe qualche marxista «ortodosso», e nemmeno con Internet, come ha sperato il «popolo della rete» (sulla «retorica» del Web 2.0, «un impasto di determinismo tecnologico e libertarismo velleitario», il rinvio è a Cybersoviet di Carlo Formenti, Raffaello Cortina Editore, e al testo di Jaron Lanier You are not a gadget, Random House).
Questo sapere insomma è «un istituto del mondo borghese» e riprodurrebbe, come è già successo, «coazione e gerarchia». Proprio questo però potrebbe essere un indizio per il superamento dell’attuale forma dei rapporti di produzione, un’indicazione per il «che fare».
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JFK, i Frati Neri e Vespa
di Ugo Gaudenzi – 28.03.2008
Fonte: Rinascita [scheda fonte]
Il 4 giugno 1963, il presidente nordamericano John Fitzgerald Kennedy firmò l’ordine esecutivo numero 11.110 che dava allo Stato il potere di emettere moneta senza doverla “chiedere in prestito” alla Federal Reserve. Kennedy scelse come riserva monetaria l’argento. La moneta nel progetto di Kennedy aveva costo zero per lo Stato (invece che indebitarsi verso la Fed) in quanto i certificati d’argento erano dollari Usa, non le attuali obbligazioni sulle quali lo Stato paga e pagava gli interessi. Infatti la moneta della Fed era prestata al governo applicando un tasso di interesse (il signoraggio) usuraio. Diversamente dalla moneta della Fed, era poi una moneta convertibile. Con il provvedimento, il Tesoro statunitense, tornava ad emettere moneta come era avvenuto dalla fine della guerra di secessione fino agli anni ‘30 (nonostante l’avvenuta costituzione, già nel 1913, della “privata istituzione” Federal Reserve, fondata dalle banche Rothschild “europee”, dalla Lazard Brothers, dalla Israel Moses Sieff bank, della Warburg, dalla Kuhn Loeb, dalla Goldman Sachs e dalla Chase Manhattan bank della famiglia Rockefeller).
Questo voleva dire che per ogni oncia di argento presente nelle riserve Usa, lo Stato poteva mettere in circolazione nuova moneta. In tutto, Kennedy mise in circolazione banconote per 4,3 miliardi di dollari. Le conseguenze furono enormi. Kennedy stava per mettere fuori gioco la Federal Reserve Bank di New York. Se fosse entrata in circolazione una quantità sufficiente di questi certificati basati sull’argento, questa avrebbe eliminato la domanda di banconote della Federal Reserve. L’ordine esecutivo 11.110 avrebbe probabilmente impedito il lievitare del debito pubblico che ha raggiunto i record attuali, poiché avrebbe dato al governo di Washington la possibilità di ripagare il debito pubblico senza essere gravato dall’interesse richiesto da questa banca privata, la Fed, per la creazione di nuova moneta (tasso di sconto).
Come si sa, infatti, il debito cresce in quanto gli Stati chiedono nuovi prestiti di moneta non solo per le necessità correnti, ma per ripagare gli interessi (il tasso di sconto). Kennedy fu assassinato a Dallas dopo appena cinque mesi dall’emanazione dell’ordine esecutivo 11.110 (come per Calvi, come per Schleyer, anche in quel caso “non si sa da chi”… forse dai Frati Neri) e non vennero più emessi certificati garantiti da argento od oro. Poi venne Nixon e la definitiva fuoriuscita del dollaro dal sistema delle parità fisse convertibili nei metalli preziosi.
Dedichiamo quanto sopra, come fonte di informazione, all’esimio direttore della Rai nonché Arbiter Politicorum per eccellenza, Bruno Vespa. Che , nel suo “Porta a Porta” dell’altro ieri, mercoledì 26, oltre a sottolineare – di fatto e “democraticamente” – l’inutilità delle presenze delle liste di altri candidati premier rispetto ai quattro maggiori da lui da sempre coccolati (tra l’altro almeno alcune di quelle liste erano in possesso di un passato storico imprescrittibile), ha trattato da deficienti i navigatori di internet e dei blog e da ignorante il rappresentante di “No euro” che cercava di dimostrare che il signoraggio usuraio – il “tasso di sconto” – applicato dalle banche centrali (“private”) era ed è la fonte primaria dell’indebitamento dello Stato e quindi della grande rapina in atto ai danni di tutti i cittadini e dei loro redditi.
Se sui ludi elettorali in corso nel BelPaese la nostra posizione è più che chiara, e cioè il boicottaggio, riteniamo ancora più gravi le sortite di disinformazione – ignoranti o coscienti – dei giornalisti embedded che ci propinano la loro scienza – si fa per dire – per omologare tutti alla servitù di massa.
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=18113
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Priolo: la centrale solare termodinamica a concentrazione Archimede vede la luce, anche se in versione ridotta 15.07.2010
Alla fine, dopo dieci anni di diatribe, la centrale solare Archimede di Priolo è stata inaugurata, in pompa magna. E’ una buona notizia per l’ambiente, perché la tecnologia del solare termodinamico a concentrazione è molto interessante, pur non essendo perfetta. Di sicuro è stato scelto il periodo migliore per l’inaugurazione: col caldo torrido che fa in questi giorni in Sicilia, la nuova centrale farà subito il boom di MW.
Ma anche no. Nel senso che l’impianto inaugurato ha una potenza di 4,96 MW: quanto due pale eoliche neanche troppo grosse. Si tratta, infatti, della versione ridotta (al Minambiente la chiamano sperimentale) del progetto originario che prevedeva 50 MW di potenza. Ma, si sa, in tempi di crisi economica bisogna accontentarsi ed è già grasso che cola che un’azienda semipubblica come Enel alla fine sia riuscita a far partire l’impianto.
E, dopo anni di attesa, poco importa se sia partito con sei mesi di ritardo rispetto a quanto promesso dal commissario dell’Enea (che ha fatto il progetto ai tempi della presidenza Rubbia), Giovanni Lelli, a fine novembre: l’anno scorso Lelli promise di inaugurare l’impianto a gennaio 2010, specificando i fini sperimentali
L’entrata a regime consentira’ di acquisire esperienza operativa nell’utilizzo di questo tipo di impianti
Oggi l’impianto è attivo, con i suoi 17280 pannelli riflettenti che concentrano il calore del sole su un lunghissimo tubo all’interno del quale scorre sale fuso (60% nitrato di sodio, 40% nitrato di potassio) che non è infiammabile e se cade a terra non fa altro che bruciacchiare il terreno per poi solidificarsi. La cosa buona (soprattutto in confronto all’eolico e al fotovoltaico) è che l’impianto, avendo un range di temperature dei sali che va dai 290 ai 550 gradi, può funzionare anche quando il sole non c’è. Enel ed Enea parlano di otto ore massime di funzionamento al buio.
I 4,6 MW elettrici, infatti, verranno dall’integrazione di Archimede con la vicina centrale a ciclo combinato gas-vapore: i sali riscaldati fanno bollire l’acqua della caldaia e producono vapore che si aggiunge a quello prodotto dal gas e fa girare la turbina per produrre l’energia elettrica. Ed è questa la buona notizia.
Nel senso che in teoria potremmo sperare che la sperimentazione sia portata a termine e che, in un futuro magari non biblico, ogni centrale di questo tipo abbia la sua parte termodinamica. Ma questo vorrebbe dire riconoscere il termodinamico come “Bat”, cioè come best avaible technique, cioè come migliore tecnica-tecnologia possibile da adottare quando si progetta un un impianto termoelettrico tradizionale per avere l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) e la Valutazione di impatto ambientale (Via).
No, fermi tutti, non può essere. E’ assolutamente uno stupido delirio eco-logista, eco-tonto e non eco-nomico perchè il termodinamico a concentrazione costa troppo, l’energia prodotta ha un costo per Kwh troppo alto, consuma troppo territorio, al buio funziona solo per otto ore e poi è una tecnologia italiana. E degli italiani, si sa, non ci si può fidare…
Via | Enel
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Ue: doppio gioco su autorizzazioni OGM 13.07.2010
Bruxelles, International — La nuova proposta della Commissione europea promette agli Stati membri il diritto di vietare le coltivazioni transgeniche sul proprio territorio, a patto che chiudano un occhio sulle preoccupazioni per salute e sicurezza, durante il processo di autorizzazione di nuovi OGM.
La Commissione – in base a un documento trapelato – spera con questa proposta di interrompere una situazione di stallo decennale delle autorizzazioni. Promette di formalizzare in legge ciò che già esiste nella pratica: una mezza dozzina di paesi hanno già vietato le colture geneticamente modificate.
Questa proposta è il contrario rispetto a quanto chiesto all’unanimità dai ministri dell’Ambiente dell’Unione europea nel 2008, cioè un rafforzamento della procedura di autorizzazione, in particolare della valutazione dei rischi per nuove colture.
Nel tentativo di cavarsela con la sua agenda pro-OGM, il presidente della commissione Ue, Barroso, offre agli Stati membri dei divieti nazionali, ma solo aa patto che riducano la loro opposizione durante il processo di autorizzazione a livello europeo. Ma i divieti nazionali non possono sostituire una procedura di sicurezza scientificamente valida a livello europeo. La contaminazione da OGM non si ferma ai confini nazionali.
La proposta della Commissione consentirebbe agli Stati membri di vietare le coltivazioni OGM per cause legate alle contaminazioni. Si tratta di un miglioramento rispetto alle prime bozze di proposta, ma non concede il diritto di adottare divieti per motivi legati alla salvaguardia della salute pubblica e dell’ambiente.
La valutazione d’impatto della Commissione stessa ha concluso che questa proposta causerebbe un “impatto negativo per gli agricoltori NON-Ogm”.Non riesce, infatti, a far fronte ai problemi di contaminazione che scaturirebbero negli Stati membri che decidessero di avviare coltivazioni transgeniche.
Invitiamo il Governo italiano e gli altri Stati membri a respingere l’attuale proposta. Fino a quando la procedura di valutazione dei rischi delle colture geneticamente modificate non sarà adeguatamente implementata, nessun nuovo Ogm dovrebbe essere autorizzato.
http://www.greenpeace.org/italy/news/ue-proposta-ogm
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excellent points and the details are more precise than elsewhere, thanks.
– Norman