Matteo Pasquinelli
da: http://www.carmillaonline.com/archives/2009/04/003027.html
Sbancor – Non smettiamo di ricordare e di portarti nel mondo
di Redazione
E’ l’anniversario del ritrovamento del corpo di Sbancor, uno dei
collaboratori più amati di Carmilla, uno dei maestri che sentiamo
mancarci maggiormente. Il 30 aprile dell’anno scorso, in mattinata,
apprendevamo attoniti della morte fisica di una delle menti più
potenti del Web e della carta italiani per profondità di analisi,
generosità politica e, in primis, spessore umano.
La perdita è risultata di non poco conto. Mancano le anticipazioni –
quasi profetiche – in termini di economia globale, geopolitica, futuro
che si realizza. Mancano gli interventi di autentica critica
letteraria. Manca il sarcasmo ridanciano e l’ironia finissima sulla
drammatica pochezza, immediatamente convertita in tragedia sociale,
della politica nazionale. Mancano i romanzi e i saggi. Manca proprio
lui, Sbancor. Non è rimpiazzabile.
Col tempo, tuttavia, si misura la durata di un’attività culturale:
l’anima che si è mossa, se si è mossa davvero, ha mosso, e
irreversibilmente. E così ciò che Sbancor ha pubblicato continua a
parlare – sociologicamente, ma non soltanto. Poiché c’è da chiedersi
se, nella sua analisi assoluta, non ci sia letteratura autentica: un
nucleo che preserva il discorso dal trascorrere del tempo, poiché quel
discorso implica una continua apertura. Pare che come Sbancor si è
impegnato puntigliosamente a vedere la storia fattasi e quella che si
sarebbe fatta, così la storia del nostro tempo si sia adoperata con il
medesimo puntiglio a verificare le visuali e le visioni di questo che,
incontrovertibilmente, si configura come uno degli scrittori dei
nostri anni – tale non per motivi stilistici, ma per ragioni più
profonde.
Se rilette a posteriori, le sue indagini, effettuate come
anatomopatologie sul corpo di una società non morente, bensì già
morta, e con tanto di consegna precisa della diagnosi (decesso per
virus occidentale), sono più attuali che mai. Questo le configura come
emblemi significativi, punti di condensazione del senso, canali di
fuoriuscita dallo storico in vista sempre di una possibilità
alternativa. Uno strano anatomopatologo, quello che seziona per
affermare che esiste vita al di là della patologia che ha decretato lo
sfaldarsi di un organismo.
Altrettanto emblematicamente, e per non scadere nell’enfasi (uno dei
vizi più fustigati dal moralista Sbancor – ma anche qui: un moralista
amorale), riteniamo opportuno proporre un suo intervento che Carmilla
pubblicò 21 giorni prima che la sua presenza fisica si sottraesse
definitivamente. Si legga attentamente non soltanto la fenomenologia
che Sbancor allestisce e che immediatamente ridicolizza tutti i
ricettari economici che con spettacolare rassicurazioni vengono
propinati da figuri e organi preposti a combattere la crisi oggi. Si
legga anche l’implicito: cioè il versus dell’analisi, ovvero
l’apparentemente occultata proposta costruttiva, che è ben
percepibile, così come in poesia le parole permettono di percepire il
silenzio.
Prima di riascoltare la voce e la mente di Sbancor, una segnalazione
per noi importante. A Roma,lunedì 4 maggio alle ore 19.30, presso il
Nuovo Teatro Colosseo (via Capo D’Africa 29/A -qui la mappa), verrà
recitato, danzato e musicato un testo di Sbancor (che appare con il
suo nome proprio: Franco Lattanzi): Coreografia di inizio millennio
(con Alberto Di Stasio, Raffaella Mattioli, Marta De Ioanna,
Elisabetta Minatoli, Aurora Pica, Daniela Persichini ; coreografia e
danze di Gloria Pomardi; disegno luci di Jan Lukas; musiche di G.
Verdi, H. Wessel, Hijos del Pueblo, P. Seeger, B. Dylan, G. Bregovic,
A. Celletti – ingresso con contributo volontario per coprire le spese
dell’evento).
Invitiamo di cuore tutti gli amici di Carmilla e i lettori di Sbancor
a recarsi allo spettacolo.
[…]
—
Franco Berardi
L’influenza suina eil potere dell’industria alimentare nel capitalismo globalizzato
Mike Davis
Mike Davis, il cui libro intitolato “Il mostro alla nostra porta”
(trans. Maria Julia Bertomeu, Ediciones El Viejo Topo, Barcellona,
2006) ha avvertito in modo brillante e con grande lucidità del
pericolo di una pandemia di influenza aviaria in tutto il mondo, ora
spiega come la grande industria globale del bestiame ha gettato le
basi per una più preoccupante focolaio di influenza suina in Messico
Fonte TelesurTv: 28/04/2009:
http://www.telesurtv.net/noticias/entrev-reportajes/index.php?ckl=248
La traduzione e l’adattamento sono a cura di Carlo Romagnoli, Camera
del Comune di Via della Sposa, Perugia).
L’influenza suina messicana, una chimera genetica probabilmente
concepita nel limo fecale di una porcilaia industriale minaccia con
una nuova pandemia influenzale tutto il mondo. Focolai in America del
Nord rivelano un’infezione che ora viaggia ancora più velocemente di
quanto abbia fatto l’ultimo ceppo che ha causato una pandemia,
l’influenza di Hong Kong nel 1968.
Rubando il ruolo di protagonista all’ultimo assassino ufficialmente
riconosciuto, il virus H5N1, il virus dell’influenza suina rappresenta
una minaccia di grandezza sconosciuta. Sembra meno letale della
epidemia di SARS [sindrome respiratoria acuta, per la sua sigla in
inglese], che scoppiò nel 2003 ma, come l’influenza, potrebbe
rivelarsi più durevole della SARS. Poiché l’addomesticato virus di
tipo A della influenza stagionale uccide circa un milione di persone
l’anno, anche un modesto aumento della virulenza, specialmente se
combinata con una alta incidenza, potrebbe produrre l’equivalente
della carneficina prodotta da una guerra importante.
La sua prima vittima è stata la fede predicata negli anni del
neoliberismo dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) circa la
possibilità di contenere le pandemie, con risposte immediate per la
salute da parte di piccole burocrazie sanitarie indipendentemente
dalla qualità della sanità pubblica locale. Dopo i primi decessi da
H5N1 nel 1997 a Hong Kong, l’OMS, con il sostegno della maggior parte
delle autorità sanitarie nazionali, ha promosso una strategia
focalizzata sulla identificazione e l’isolamento di un ceppo pandemico
all’interno del raggio del focolaio iniziale di azione, puntando sulla
successiva somministrazione di massa di farmaci antivirali e vaccini,
per avere la meglio sulla nuova infezione.
Una legione di scettici ha criticato l’efficacia di questo approccio
per contrastare le nuove malattie di origine virale, dato che, con la
globalizzazione i microbi possono volare in tutto il mondo (quasi
letteralmente in caso di influenza aviaria) con una velocità superiore
a quella con cui l’OMS o funzionari locali possono arrivare a reagire
al focolaio originale. I critici hanno anche rilevato la primitiva e
spesso inesistente rete di vigilanza necessaria per monitorare
l’interfaccia tra malattie umane e animali, sacrificata, come la
vigilanza sui derivati e quella sull’ambiente, sull’altare del
“laissez faire”, tanto il mercato si regola da solo.
Ma il mito di un coraggioso intervento, preventivo (ed economico)
contro l’influenza aviaria si è rivelato prezioso per la causa dei
paesi ricchi, come Stati Uniti e Regno Unito, che hanno preferito
investire nelle proprie linee Maginot con nuovi farmaci e vaccini
brevettati, piuttosto che aumentare adeguatamente gli aiuti a favore
dei paesi che dovevano fronteggiare le nuove epidemie. Così come
questo mito ha sorretto le grandi imprese transnazionali di farmaci
nella guerra senza quartiere contro le richieste dei paesi in via di
sviluppo di promuovere la pubblica produzione di farmaci antivirali
generici, mettendo a disposizione di tutti, farmaci come il Tamiflu,
elaborato dalla società statunitense di cui è azionista Donald Rumfeld
ed ora brevettato da Roche, cosi che ambedue le società stanno ora
facendo affari d’oro.
La strategia fornita dalla OMS e da altri autorevoli Centri per il
controllo delle malattie, che si propone di far fronte alla sempre più
probabile pandemia, senza ulteriore necessità di massicci investimenti
in nuove strutture per la sorveglianza e nuove norme che consolidino
le infrastrutture, della sanità pubblica di base e senza garantire
accesso globale ai farmaci vitali ora viene decisamente messa alla
prova dalla influenza suina, e forse permetterà di scoprire che
appartiene allo stesso livello di gestione “ponzificada” del rischio
già dato dalle garanzie e dagli obblighi offerti dai molti Madoff .
Non è così difficile prevedere che questa strategia non funzionerà ,
dato che il sistema semplicemente non esiste: e lo si può vedere fin
da ora: almeno centinaia di morti in Messico, con scorte ridicole di
farmaci al contrario che negli USA e in Europa.
.Se non sorprende che il Messico sia privo di volontà politica e
capacità di gestire le malattie del bestiame e del pollame, cosa dire
di quanto si verifica a nord del confine, dove la sorveglianza è
sminuzzata in un penoso mosaico di competenze e grandi imprese
capitalistiche di allevamento affrontano le normative sanitarie con lo
stesso disprezzo con cui tendono a trattare i lavoratori e gli
animali. Allo stesso modo, i tanti avvertimenti che nel decennio
passato si sono avuti sul piano scientifico non sono serviti a
garantire il trasferimento della tecnologia sofisticata ma necessaria
a mettere all’altezza i paesi che si trovano, con maggiore probabilità
sulle rotte della nuova pandemia.
Il Messico ha esperti in materia di sanità pubblica, stimati in tutto
il mondo, ma è costretto ad inviare i campioni ad un laboratorio a
Winnipeg per la decodifica del genoma del ceppo, perdendo in tal modo
una preziosa settimana di tempo prima di identificare il nuovo virus.
Il paradosso in tutto quello che sta accadendo è che tutto quello che
ora è avvenuto è stato previsto con grande precisione, già sei anni
fa, quando la rivista Science pubblicò un importante articolo per
dimostrare che “dopo anni di stabilità, il virus dell’influenza suina
del Nord America ha avuto un drammatico salto evolutivo”, infatti, dal
momento della sua identificazione nella Grande Depressione, questo
virus ha avuto solo una leggera deriva dal suo originale genoma. Poi,
nel 1998, una ceppo ad alta patogenicità cominciò a decimare un
allevamento nel North Carolina e da allora hanno iniziato ad emergere
nuove e più virulente varianti, anno dopo anno, tra cui una di H1N1
che conteneva all’interno geni H3N2, un virus influenzale che si
diffonde tra gli esseri umani).
In quell’articolo su Science i ricercatori esprimevano la loro
preoccupazione circa la possibilità che un tale ibrido potesse
diventare un virus influenzale umano e sollecitavano la creazione di
un sistema formale per monitorare l’influenza suina: ammonimento
purtroppo, inascoltato da troppi, tra cui i politici che a Washington
hanno buttato miliardi di dollari in una lotta contro stati canaglia
supposti produttori di armi biologiche di distruzione di massa.
Per anni si è sostenuto che il sistema di agricoltura intensiva nel
sud della Cina fosse il principale vettore di mutazione dei virus
dell’influenza. Ma la industrializzazione della produzione di bestiame
ha rotto il monopolio della Cina nel settore zootecnico, trasformato
nel corso degli ultimi decenni in qualcosa che assomiglia di più
all’industria petrolchimica e capace di produrre armi biologiche di
distruzione di massa piuttosto efficienti.
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Biocarburanti dai rifiuti umani
Arriva dalla Norvegia il progetto di un nuovo tipo di biocombustibile, potenzialmente inesauribile e reperibile in tutto il mondo. La città di Oslo sta, infatti, convertendo 80 dei suoi mezzi municipali in autobus alimentati a biometano catturato dai rifiuti umani.
I due impianti di trattamento delle acque nere della capitale norvegese inizieranno, entro il 2010, a raccogliere biometano prodotto dal processo microbico di trattamento dei rifiuti e a pomparlo negli autobus della città.
E’ un’autentica rivoluzione nel mondo dei biocarburanti, quella ideata da Ole Jakob Johansen, che ha messo a punto il procedimento: il bio-metano, infatti, viene prodotto con un processo a quattro fasi chiamato digestione anaerobica, che usa dei microorganismi per processare tutto: dai rifiuti umani agli avanzi di cibo all’erba tagliata, dai prati fino agli avanzi dei mattatoi.
Continua qui: http://www.scienzaegoverno.org/n/060/060_01.htm
Fonte: http://www.focus.it/
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La rivoluzione energetica francese
Turbine eoliche sui tetti di Parigi, in punti particolarmente esposti al vento. Uno studio dell’Agenzia regionale dell’energia e dell’ambiente ha rilevato forti correnti di vento in quattro luoghi della Ville Lumière: Montmartre, il parco Buttes-Chaumont, il quartiere Belleville nel nord e l’avenue de France nel XIII arrondissement nel sud.
Londra lo ha già fatto da qualche tempo, e ora anche la Ville Lumière – la Francia è il secondo paese dopo l’Inghilterra a disporre del più grande potenziale di vento – si doterà di impianti eolici e di installazioni idroeoliche per la produzione di energia elettrica.
La proposta di questi nuovi impianti viene dall’assessore allo sviluppo sostenibile del Comune di Parigi, Denis Baupin, che promette che le installazioni non altereranno il panorama della città, poiché non si tratterà certo di pale eoliche di grandi dimensioni, come quelle che si vedono in campagna, ma di generatori più piccoli da montare su tetti piatti. E specifica anche che nella modifica del piano urbanistico cittadino in corso verranno aggiunte disposizioni proprio per l’istallazione di questo tipo di impianti.
Gli impianti, che saranno testati nel 2011 o nel 2012, serviranno per produrre energia elettrica pulita da vendere a EDF, l’azienda che è la prima produttrice di elettricità in Francia, o da utilizzare sul posto, per alimentare gli immobili su cui saranno installati.
A Londra il minieolico da città ha avuto un grande successo e continua a raccogliere consensi: 8 turbine montate sul tetto di un palazzo stanno regolarmente fornendo un quantitativo tale di energia elettrica in grado di alimentare un ufficio di 200 persone
Inoltre è in cantiere il progetto di installare impianti idroeolici ai piedi di alcuni ponti: di fatto delle turbine eoliche che funzioneranno grazie alla corrente della Senna.
Continua qui: http://www.scienzaegoverno.org/n/060/060_02.htm
Fonte: www.lanuovaecologia.it
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Idra -09
Si tratta di un’auto a idrogeno, messa a punto da 28 studenti del Politecnico di Torino.
E’ in grado di percorrere la bellezza di 940 chilometri con un litro di “benzina equivalente”.
Idra-09 verra’ testata durante la Shell Marathon e se sara’ un successo finira’ nella black-list delle compagnie petrolifere.
Qui: http://www.polito.it/php/news/index.php?idn=2441&lang=it
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La più lontana esplosione mai osservata
Assistere in diretta alla morte di una stella è già di per sé un evento eccezionale. Se poi questa stella è la più lontana mai osservata e sprigiona più energia di quanto il Sole abbia fatto in nove miliardi di anni, lo spettacolo è più unico che raro. Ne sono stati primi spettatori, il 23 aprile scorso, i ricercatori del Telescopio Nazionale Galileo dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), presso l’Osservatorio del Roque de los Muchachos, nell’arcipelago delle Canarie.Sono le dieci di mattina, ora italiana. Improvvisamente il satellite Swift (il nome completo è Swift Gamma Ray Burst Explorer) della Nasa coglie un intenso lampo di raggi gamma. Il lampo oltre a essere intenso è anche lungo – dura almeno una decina di secondi – indicando un evento eccezionale. Il satellite punta immediatamente tutti i telescopi di bordo nella direzione da cui è arrivato il lampo gamma e dopo aver localizzato la giusta zona del cosmo (per farlo impiega circa 70 secondi), “avverte” i telescopi terrestri, che fissano i loro occhi verso quel punto lontanissimo dell’Universo.
APPELLO
Per un reddito garantito in Europa
Premesso che:
Primi firmatari: |
http://www.bin-italia.org/PETITION/index.php
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Firma l’appello contro la condanna di Leyla Zana ad altri 10 anni di carcere. Non permettiamo che il suo cammino si fermi!
L’8 dicembre 1994 Leyla Zana, parlamentare turca di etnia kurda, perseguitata per aver auspicato in Parlamento la fratellanza tra il popolo kurdo ed il popolo turco, con affermazione proferita sia in turco che in kurdo, fu condannata in Turchia a 15 anni di carcere da una sentenza che per ben due volte e’ stata dichiarata contraria alla convenzione europea per i diritti dell’uomo dalla Corte Europea di Strasburgo.
La Corte Europea ritenne infatti che la condanna inflitta fosse conseguenza di processo non giusto, condotto da un organo giudiziario non imparziale per la presenza di giudici militari e nel quale il diritto di difesa era stato del tutto negato (gli imputati non poterono neppure presentare testi a discarico).
Qui: http://www.unponteper.it/informati/article.php?sid=1730
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Le Regioni OGM Free… scoprono le carte false
La coesistenza con gli OGM è una contraddizione in termini e semplicemente non esiste.
Biosicurezza significa garantire una moratoria Nazionale/Regionale/ Europea sulla produzione ed importazione di OGM ed attuare tutte le misure necessarie per evitare qualsiasi contaminazione ed inquinamento ambientale ed agroalimentare.
In Agosto in Norvegia a Tromso si terrà un convegno internazionale della Scienza contro la Manipolazione della Vita (www.genok.org)
Cordiali saluti
Giuseppe Altieri
Accademia Mediterranea per l’Agroecologia e la Vita (AMA la Vita)
(fonte greenplanet.net… il sito del “BIOLOGICOGM”?)
del Dr. Giuseppe Altieri
ogm. Le Regioni Ue per ‘coesistenza sostenibile’
MERCOLEDÌ 29 APRILE 2009
La Rete delle regioni europee ‘Gmo-free’ ha lanciato un appello, oggi a Bruxelles, a favore di una ‘coesistenza sostenibile’ (Ecco un altro neologismo targato Monsanto. Come può essere sostenibile ciò che è impossibile… dal momento che se entrassero gli ogm non ci sarebbero più filiere ogm free?) nell’Ue fra le colture tradizionali o biologiche e quelle geneticamente modificate. Una coesistenza che non può essere basata su scelte fatte a livello di aziende, spiegano, ma deve essere governata invece dalle decisioni adottate da ciascuna Regione su cosa coltivare nel proprio territorio. L’appello è giunto alla fine di un ‘workshop’ a Bruxelles, in cui sono stati giudicati “esagerati” i costi economici e sociali di una coesistenza articolata a livello aziendale. Si tratterebbe di “costi non giustificati dalle piccole dimensioni aziendali e dal danno alle produzioni biologiche e alle aree protette”. La coesistenza basata sulle scelte individuali di ciascuna azienda è stata teorizzata dalla Commissione europea come l’unico sistema che rispetterebbe la libertà economica degli imprenditori agricoli. Bruxelles non ha voluto armonizzare, a livello comunitario, le diverse norme nazionali sulla coesistenza che gli Stati membri stanno adottando (NON HA DIRITTO DI FARLO IN QUANTO SUGLI OGM VIGE LA SOVRANITA’ NAZIONALE CON LA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA E nessuno può imporre ad uno stato membro di coltivare o importare ogm).
Secondo l’Esecutivo comunitario, basterebbero alcuni accorgimenti (agronomici e di separazione durante il trasporto e lo stoccaggio) per evitare contaminazioni (Peccato che questa non è la posizione degli Scienziati e della Royal Society, che dimostrano contaminazioni a centinaia di km dai luoghi di coltivazione). La Commissione, che non ha ritenuto necessario proporre un regime di responsabilità civile per danni in caso di contaminazione (Ma in Europa è già in vigore, come in ogni stato membro, il principio di “chi inquina paga”, in quanto stabilito dal diritto), ha invece assunto una posizione nettamente contraria alla possibilità che una Regione possa dichiararsi ‘Gmo-free’ (Trattasi di posizione personale e non legittima). Una posizione considerata ideologicamente pro-ogm dalle organizzazioni ambientaliste e delle stesse Regioni, e criticata anche da una buona parte degli Stati membri, e in particolare dalla Francia durante il suo semestre di presidenza dell’Ue, l’anno scorso.
Nel corso del workshop, al quale sono intervenuti esperti europei di alto livello, sono stati messi a confronto i casi di quattro Regioni italiane (Toscana, Marche, Piemonte, Abruzzo) con quelli di altre regioni europee. Ciascuna regione ha presentato un primo rapporto sulle condizioni necessarie a mettere in atto la coesistenza nel proprio territorio, e ne è scaturito un quadro di forte preoccupazione. (Come può esistere coesistenza in presenza di contaminazioni inevitabili ed irreversibili…ma di cosa discutono, del sesso degli angeli?) La Toscana ha prodotto una simulazione, secondo la quale una coesistenza tra aziende appare difficilmente realizzabile, a differenza di quanto potrebbe accadere prendendo a riferimento aree vaste, nelle quali sarebbe possibile produrre una valutazione socio-economica degli effetti della coesistenza sul territorio. Le Marche hanno illustrato un progetto Life, co-finanziato dalla Commissione europea, basato sulla simulazione della contaminazione del mais, che sottolinea come i veri punti critici risiedano, più che nella produzione (Secondo il redattore di questo articolo il punto critico non starebbe tanto nella coltivazione? E pensare che tale progetto delle Marche è stato gestito dall’Associazione Biologica Terre dell’Adriatico… e se lo avesse gestito la Monsanto?), nelle fasi del trasporto e dello stoccaggio dei prodotti. Il Piemonte, sulla base dei risultati di una ricerca dell’Università di Torino, ha messo in rilievo i danni che un regime di coesistenza a livello di singole aziende potrebbe provocare sulle filiere produttive, oltre ai costi enormi per gli operatori e per la pubblica amministrazione. L’Abruzzo, infine, si è soffermato sul ruolo dell’agricoltura come presidio ambientale e sulla necessità di salvaguardarne la biodiversità, escludendo tutte le aree protette, compresa la rete Natura 2000, dalla possibilità di coesistenza con le colture transgeniche (IN perfetta sintonia con lo Stile WWF _ Pratesi… sulla logica delle OASI protette …e, ovviamente, contaminate dagli OGM).
da APcom
Germania. Autorizzata cultura sperimentale ogm
LUNEDÌ 27 APRILE 2009
Il ministro tedesco dell’Agricoltura, Ilse Aigner, ha autorizzato la coltivazione in Germania per scopi sperimentali di una patata geneticamente modificata prodotta da Basf.
Da tale coltivazione sperimentale “non deriva nessun rischio per la salute dell’uomo o per l’ambiente”, ha spiegato il ministro, che ha chiarito di aver preso la sua decisione “dopo un’attenta verifica delle informazioni disponibili e dopo aver parlato con esperti del mondo scientifico ed economico”. La Basf, da parte sua, deve garantire che il raccolto non finisca nella catena alimentare o nell’ambiente. La patata ogm dell’industria tedesca della chimica, chiamata “Amflora”, non è adatta a scopi alimentari bensì industriali: il tubero è stato infatti geneticamente modificato in modo tale da generare una qualità particolare di amido, utile per la produzione, ad esempio, di carta o adesivi.
Secondo Aigner “non c’è nessun motivo” per negare l’autorizzazione, visto che Basf si è impegnata a rispettare ulteriori standard di sicurezza: la società potrà coltivare Amflora in un unico sito nel nord-est della Germania e soltanto su una superficie di 20 ettari, ben poca cosa rispetto i 150 inizialmente richiesti. Nei giorni scorsi i vertici della Csu avevano fatto pressione sulla Aigner affinché vietasse la coltivazione di Amflora; non a caso il via libera di oggi è stato accolto con diverse critiche dal partito bavarese. La patata ogm non ha ancora ottenuto l’autorizzazione alla coltivazione da parte dell’Unione europea. Per questo lo scorso anno Basf ha citato in giudizio la Commissione europea, colpevole a suo modo di vedere di ritardare eccessivamente una decisione in materia. Due settimane fa Berlino aveva bloccato il mais transgenico “Mon 810” della Monsanto. L’azienda statunitense aveva reagito presentando un ricorso.
—
La sinistra invertebrata
di Perry Anderson *
su Internazionale del 05/05/2009
* storico britannico. È stato tra i fondatori della New Left Review. Insegna storia e sociologia all’università della California di Los Angeles (Ucla). Quest’articolo è un estratto del saggio pubblicato sulla London Review of Books e farà parte del nuovo libro di Anderson, “The new-old world”, in uscita a settembre per Verso Books. Troppo deboli, moderati, pronti a scendere a compromessi. Il Pci e i suoi eredi hanno perso contatto con la società. E hanno dilapidato un’eredità politica straordinaria, scrive lo storico inglese Perry Anderson
La sinistra italiana era una volta il più grande e impressionante movimento popolare per il cambiamento sociale in Europa occidentale. Comprendeva due partiti di massa, il Pci e il Psi, ognuno con la propria storia e cultura, impegnati non a migliorare, ma a rovesciare il capitalismo.
L’alleanza del dopoguerra tra socialisti e comunisti, però, non sopravvisse al boom degli anni cinquanta. Nel 1963 Pietro Nenni portò per la prima volta il Psi al governo, come alleato della Democrazia cristiana, imboccando la strada che avrebbe condotto a Bettino Craxi e lasciando ai comunisti la guida dell’opposizione al regime democristiano.
Fin dall’inizio il Pci era stato il più forte dei due partiti, sia dal punto di vista organizzativo sia da quello ideologico. Prima di tutto aveva una base più ampia: a metà degli anni cinquanta contava più di due milioni di iscritti, che andavano dai contadini del sud agli operai delle industrie del nord passando per gli artigiani e gli insegnanti del centro Italia.
Il suo punto di riferimento teorico erano i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, pubblicati per la prima volta tra il 1948 e il 1951. All’apice della sua potenza, il Pci era in grado di attingere a una straordinaria gamma di energie morali e sociali: poteva contare sia sulle sue profonde radici popolari sia sull’appoggio degli intellettuali, più di qualsiasi altra forza politica del paese.
La grande influenza che il Pci esercitava nel mondo del pensiero e dell’arte dipendeva anche dalla sua capacità di assimilare e riproporre il filone dominante della cultura italiana: l’idealismo. Questa corrente aveva trovato la sua espressione più alta, anche se non l’unica, nella filosofia di Benedetto Croce, che nella vita culturale italiana aveva assunto un ruolo simile a quello avuto da Goethe in Germania.
Lo storicismo di Croce, anche grazie all’attenzione che gli aveva riservato Gramsci negli anni della prigionia, diventò il nutrimento naturale di gran parte della cultura italiana del dopoguerra. Dietro a quella corrente di pensiero, però, si nascondevano tradizioni filosofiche molto più antiche, secondo cui in politica il primato spettava al regno delle idee, concepito come volontà o intelletto.
La lotta per l’egemonia
Tra la caduta dell’impero romano e la fine del risorgimento, l’Italia non aveva mai conosciuto un governo o un’aristocrazia nazionale, ed era stata quasi sempre in balìa di potenze straniere in conflitto tra loro.
A lungo le sue élite avevano avvertito il peso schiacciante del divario tra il passato glorioso del paese e il suo triste presente. A partire da Dante, gli intellettuali si erano sentiti in dovere di riscoprire e trasmettere la cultura dell’antichità classica, convinti che l’Italia potesse risorgere solo grazie alle idee mutuate dalla sua storia e dalla sua tradizione. La cultura non era distinta dalla politica: era il passaporto per arrivare al potere.
Il comunismo italiano aveva ereditato questo atteggiamento mentale e lo aveva rimodellato secondo gli insegnamenti di Gramsci. Nella sua dottrina “l’egemonia” era una supremazia culturale e morale da conquistare con il consenso della società civile.
Vero cardine della società, l’egemonia avrebbe garantito la pacifica conquista del controllo dello stato. Secondo questa interpretazione, l’autorevolezza che il partito aveva conquistato nell’arena intellettuale era il primo passo verso la vittoria politica finale. In realtà questa non era affatto la visione di Gramsci.
Da rivoluzionario e membro della Terza internazionale, il filosofo sardo riteneva essenziale ottenere il massimo consenso popolare per rovesciare l’ordine costituito, ma non aveva mai pensato che il capitalismo potesse essere abbattuto senza la forza delle armi.
Il punto era che l’idea del primato dell’egemonia si adattava molto bene alla cultura di stampo idealista. Gli intellettuali legati al Pci, inoltre, conservavano i pregiudizi delle élite tradizionali, i cui campi di ricerca preferiti erano tutti umanistici: la filosofia, la storia e la letteratura.
Le discipline più moderne come l’economia e la sociologia, e i loro metodi presi in prestito dalle scienze naturali, erano estranei agli interessi del partito. Il Pci aveva una straordinaria influenza sui vertici delle gerarchie culturali, ma ai livelli più bassi mostrava una debolezza preoccupante, che in futuro avrebbe avuto gravi conseguenze.
Masse ed élite
Il partito fu colto di sorpresa dai due grandi cambiamenti del dopoguerra in Italia. Il primo fu la diffusione della cultura di massa, un fenomeno inimmaginabile nel mondo in cui erano cresciuti Togliatti o Gramsci.
Anche nel momento della sua massima espansione, il tentativo del Pci – e più in generale della sinistra – di allargare la propria influenza culturale ha sempre incontrato diversi ostacoli. La religione, infatti, aveva ancora un ruolo chiave nell’immaginario e nelle convinzioni degli italiani.
Nelle università, nelle case editrici, negli studi degli artisti e nelle redazioni delle riviste l’influenza del partito era molto diffusa, e ben distinta da quella dell’establishment borghese liberale sulla stampa quotidiana. Ma in Italia è sempre esistito un gran numero di giornali e programmi televisivi confezionati in base ai gusti degli elettori della Democrazia cristiana di cultura medio-bassa.
Dall’alto della sua cultura elitaria, il Pci guardava a questo universo con condiscendenza, considerandolo l’eredità di un passato clericale sulla cui importanza Gramsci si era soffermato a lungo. Non si rendeva conto, però, che tutto questo era una minaccia per il suo potere.
Il fatto che la cultura di massa fosse completamente laica e americanizzata era un altro discorso. L’apparato del partito e l’intellighenzia che gli si era formata intorno furono colti di sorpresa e rimasero spiazzati.
Anche se la critica italiana si era già occupata della letteratura popolare (Umberto Eco era stato uno dei pionieri in materia), il Pci non riuscì a inserirsi in questo filone. Non ci fu nessuna dialettica creativa in grado di resistere all’offensiva del nuovo e di modificare i rapporti tra cultura alta e cultura bassa.
Il caso del cinema, un campo in cui nel dopoguerra l’Italia aveva dato prova di eccellenza, è emblematico. I grandi registi come Roberto Rossellini, Luchino Visconti o Michelangelo Antonioni avevano debuttato tra la fine degli anni quaranta e i primi cinquanta e le loro ultime opere importanti risalgono all’inizio degli anni sessanta.
Ma quella generazione non ebbe eredi alla sua altezza. Negli anni sessanta in Italia mancò quell’esplosivo incrocio tra avanguardia e forme popolari che in Francia e in Germania produsse le opere di Jean-Luc Godard e Reiner Werner Fassbinder. Più tardi ci sarebbe stato solo il debole contributo di Nanni Moretti.
E così il profondo divario di sensibilità che si era creato tra le classi colte e quelle popolari ha reso il paese indifeso di fronte alla controrivoluzione dell’impero televisivo di Berlusconi. La sua tv ha nutrito l’immaginario popolare con un mucchio di idiozie e invenzioni volgari. Non sapendo come affrontare questi cambiamenti, per una decina d’anni il Pci ha cercato di resistergli.
L’ultimo vero leader del partito, Enrico Berlinguer, ha incarnato l’austerità e il disprezzo per l’autoindulgenza e l’infantilismo del nuovo mondo dei consumi materiali e culturali. Dopo la sua morte, il passaggio dal rifiuto intransigente di quei valori all’entusiastica capitolazione politica e culturale è stato brevissimo.
E Walter Veltroni ha finito con il somigliare sempre di più alle figurine sorridenti degli album che aveva distribuito con l’Unità quando era direttore del giornale.
Giovani e operaisti
Se l’idealismo non aveva permesso al Pci di cogliere la spinta al materialismo che aveva trasformato il modo di divertirsi degli italiani, la stessa scarsa lungimiranza dal punto di vista economico e sociologico gli impedì di accorgersi dei cambiamenti in corso nel mondo del lavoro.
Già alla fine degli anni sessanta il partito prestava meno attenzione a questi fenomeni di quanto stava facendo una nuova leva di giovani radicali, che avrebbero prodotto quel fenomeno tutto italiano che è stato l’operaismo, una delle più singolari avventure intellettuali della sinistra europea di quegli anni.
A differenza del Pci, nel dopoguerra il Partito socialista aveva esplorato con una figura di spicco come Rodolfo Morandi un marxismo poco idealistico e più attento invece alle strutture dell’industria italiana.
Morandi trovò un valido successore in Raniero Panzieri, un militante socialista che dopo essersi trasferito a Torino aveva cominciato a indagare sulle condizioni di lavoro degli operai della Fiat, raccogliendo intorno a sé un gruppo di giovani intellettuali, che spesso (come Antonio Negri) provenivano dalle organizzazioni giovanili socialiste.
Negli anni sessanta l’operaismo diventò un movimento multiforme e diede vita a una serie di riviste importanti, anche se dalla vita breve, come Quaderni rossi, Classe operaia, Gatto selvaggio e Contropiano, che esploravano le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro e del capitalismo industriale italiano.
Il Pci non aveva iniziative paragonabili e prestava poca attenzione a questo fermento, anche se il più influente dei nuovi teorici era un giovane comunista romano, Mario Tronti. L’operaismo era una corrente estranea al partito, e per di più dichiaratamente ostile a Gramsci, accusato di spiritualismo e populismo.
Il forte impatto che ebbe l’operaismo non fu dovuto solo alle inchieste e alle idee dei suoi teorici, ma anche alla loro capacità di cogliere l’irrequietezza della nuova classe operaia. I giovani immigrati del sud si ribellavano ai bassi salari e alle condizioni opprimenti delle fabbriche del nord ricorrendo a insolite forme di lotta, che lasciavano sconcertati i sindacati tradizionali.
Aver saputo anticipare queste nuove mobilitazioni diede all’operaismo una grande forza intellettuale, ma allo stesso tempo lo fece rimanere immobile sulle sue intuizioni originarie. Il risultato fu l’idealizzazione della rivolta proletaria.
Dopo essersi resi conto che l’industria italiana stava di nuovo cambiando e che nelle fabbriche la militanza era in crisi, alla metà degli anni settanta Negri e molti altri tornarono a vedere nella figura del “lavoratore sociale” – in pratica chiunque fosse occupato, o sottoccupato, dal capitale – il protagonista della rivoluzione immanente.
L’astrattezza di questo concetto era un segnale della disperazione e della visione apocalittica che alla fine degli anni settanta avrebbero portato quest’ala dell’operaismo in un vicolo cieco.
Oltre a non aver capito la portata dei mutamenti degli anni sessanta, il Pci non aveva imparato nulla dai suoi errori e non fu capace di produrre nulla di interessante in termini di sociologia industriale. Fu così che negli anni ottanta, mentre l’economia italiana attraversava altri cambiamenti cruciali, con la nascita delle piccole imprese e del sommerso (il secondo “miracolo italiano”, come fu ottimisticamente definito all’epoca) il Pci si ritrovò di nuovo impreparato.
E questa volta il colpo fu fatale: il partito perse infatti il suo ruolo di rappresentante politico della classe operaia. Negli anni novanta la sinistra ha subìto altre due pesanti sconfitte: il trionfo di Forza Italia ha sottolineato l’incapacità di reagire alla massificazione della cultura popolare, e il successo della Lega nord ha rivelato l’incapacità di rispondere tempestivamente alla frammentazione del mondo del lavoro postmoderno.
Questi errori sono stati causati da una mentalità che aveva radici più profonde del marxismo e una visione tradizionale dei valori culturali, a suo modo apprezzabile nonostante i suoi limiti. Questo idealismo, però, aveva anche un aspetto negativo che era tipico del comunismo italiano: una sorta di riflesso strategico che non era mai cambiato dai tempi della liberazione, un’eredità le cui conseguenze si avvertono ancora oggi.
La svolta di Salerno
Nel 1944, di ritorno da Mosca, Togliatti fece subito capire che un’insurrezione non era nei piani del partito. Dopo vent’anni di esilio e repressione, il compito del Pci era costruire un partito di massa e guadagnarsi un ruolo centrale nelle nuove istituzione democratiche del paese.
Togliatti, però, si spinse ancora più in là. Nell’estate del 1943, quando gli alleati sbarcarono in Sicilia, la monarchia italiana chiese le dimissioni di Mussolini, che il 25 luglio fu sfiduciato dal Gran consiglio del fascismo. Poco dopo il re fuggì al sud con il maresciallo Badoglio, che fu messo a capo del governo dagli Alleati.
Il nord era invece sotto il controllo del regime di Salò, guidato da Mussolini. Quando la guerra finì l’Italia non fu trattata come una potenza sconfitta, alla stregua della Germania, ma come una nazione “cobelligerante” .
Una volta partite le truppe alleate, il governo di coalizione (che comprendeva il Partito d’azione, i socialisti, i comunisti e i democristiani) si trovò ad affrontare l’eredità del fascismo e della monarchia, che aveva collaborato a lungo con Mussolini. I democristiani sapevano che i loro potenziali elettori erano ancora fedeli alla monarchia, ed erano perciò decisi a impedire che in Italia si verificasse un fenomeno simile alla “denazificazione” tedesca. Ma erano in minoranza rispetto ai partiti di sinistra.
A questo punto il Pci decise di non mettere alle corde la Dc. Non chiese l’epurazione, che avrebbe significato la rimozione di tutti i funzionari vicini al fascismo nella burocrazia, nella magistratura, nell’esercito e nella polizia, e lasciò alla Dc la guida del governo, senza fare nulla per smantellare l’apparato di potere creato da Mussolini.
Fu così che il Partito fascista, rinato con il nome di Movimento sociale italiano, tornò presto in parlamento. E quarant’anni dopo la vedova di Togliatti partecipò ai funerali del leader dell’Msi Giorgio Almirante. Oggi Gianfranco Fini, erede di Almirante, è il presidente della camera dei deputati ed è il probabile successore di Berlusconi alla presidenza del consiglio.
L’eredità sovietica
Al di là degli evidenti errori di questa traiettoria politica, quello che si può rimproverare al Pci è la sua inerzia autodistruttiva. Il partito aveva già edulcorato il concetto gramsciano di egemonia, riducendolo alla ricerca del consenso e confinandolo alla società civile.
Allo stesso modo, sotto la guida di Togliatti aveva ridotto la sua strategia politica a una semplice guerra di posizione. I comunisti italiani cercarono per anni di influenzare la società civile, come se ormai in occidente non fosse più necessaria una guerra di manovra, con le sue imboscate, le sue cariche improvvise, i suoi rapidi attacchi e i tentativi di cogliere di sorpresa i nemici di classe o lo stato. Tra il 1946 e il 1947 De Gasperi e i suoi colleghi non fecero lo stesso errore.
Nel 1948 lo slancio popolare innescato dalla Liberazione si era già esaurito. L’inizio della guerra fredda portò alla sconfitta elettorale della sinistra, e ci vollero vent’anni prima che in Italia ci fosse una nuova ondata di mobilitazioni politiche. La rivolta generazionale della fine degli anni sessanta, che coinvolgeva studenti e lavoratori, fu più profonda e durò più a lungo che nel resto d’Europa.
Sotto la guida del successore di Togliatti, Luigi Longo, più agguerrito e meno diplomatico, il Pci non reagì negativamente alla rivolta giovanile come fece invece il Partito comunista francese. Ma non fu nemmeno capace di rispondere in modo creativo, non riuscendo né a entrare in contatto con una cultura in cui i classici del passato bolscevico e gli slogan scritti sui muri si integravano in modo dinamico, né a rinnovare il suo bagaglio ideologico e teorico.
Quando all’interno del Pci emerse un gruppo brillante e critico verso l’inerzia del partito, i dirigenti non esitarono a espellerlo. Nel 1969 questo gruppo di militanti, che aveva una visione genuinamente gramsciana e una maggiore intelligenza politica rispetto agli operaisti, fondò Il manifesto.
La scomunica avvenne dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che Il manifesto condannò senza riserve. Oltre che nel suo innato idealismo, proprio in questa decisione va cercato il secondo motivo della paralisi strategica del comunismo italiano.
Flessibile sotto certi aspetti, il Pci è sempre rimasto stalinista sia nella sua struttura interna sia nel legame con il regime sovietico. Convinta che la Dc non fosse capace di esercitare un’egemonia assoluta, la destra del Pci ha spesso lodato la moderazione del partito in politica interna, criticando invece i legami con l’Unione Sovietica e la rigidità organizzativa. In realtà le due cose erano strutturalmente collegate.
A partire dalla svolta di Salerno del 1944, la moderazione servì al partito come contrappeso ai suoi rapporti con Mosca. Esposto alle accuse di avere troppe affinità con l’Unione Sovietica, il Pci doveva dimostrare che non aveva nessuna tentazione di emulare il modello bolscevico.
Il peso di queste accuse alimentava la ricerca di una rispettabilità politica che compensasse le colpe presunte. Il rappresentante più in vista della destra del partito, Giorgio Amendola, incarnava perfettamente questo dualismo: denunciava il rischio di un’eccessiva tolleranza nei confronti delle rivolte giovanili ma andava regolarmente in vacanza in Bulgaria con la famiglia.
Durante la crisi provocata dal sequestro di Aldo Moro, il Pci dimostrò di non avere né umanità né buon senso. Fu contrario a ogni ipotesi di negoziato, con una veemenza perfino maggiore rispetto alla Democrazia cristiana, che sulla questione era molto divisa.
La Dc non mostrò nessuna gratitudine verso i comunisti. Dopo averli usati, Giulio Andreotti gli inflisse una sconfitta bruciante alle elezioni. Nel 1979 il Pci perse un milione e mezzo di voti.
Napolitano e l’immunità
Cinque anni fa, in un’amara riflessione sul suo paese, il politologo Giovanni Sartori ha osservato che Gramsci aveva ragione quando distingueva tra guerra di posizione e guerra di manovra.
I grandi leader europei come Winston Churchill e Charles de Gaulle avevano compreso la necessità di impegnarsi in guerre di manovra, mentre i politici italiani conoscevano solo la guerra di posizione. Nel suo articolo Sartori sosteneva che il titolo del famoso saggio di José Ortega y Gasset, Spagna invertebrata, si adattava benissimo all’Italia.
Nella penisola, infatti, la controriforma aveva creato una profonda assuefazione al conformismo, e le continue conquiste e invasioni straniere avevano reso gli italiani specialisti nell’arte del piegarsi per sopravvivere. Senza élite coraggiose, l’Italia era un paese privo di spina dorsale.
Sartori non parlava a caso. Si rivolgeva alla classe politica che conosceva. Quando il suo articolo è stato pubblicato, nel 2004, il Pci non esisteva più. Al potere c’era Berlusconi e il suo obiettivo era chiaro: difendere se stesso e il suo impero dalla magistratura.
Le leggi ad personam per realizzare quest’obiettivo erano già state approvate dal parlamento ed erano arrivate sulla scrivania del presidente. La presidenza della repubblica italiana non è una carica puramente onorifica. Il Quirinale non solo procede alla nomina del presidente del consiglio, che deve poi essere ratificata dal parlamento, ma può anche non approvare la nomina dei ministri e rifiutarsi di firmare le leggi.
Nel 2004 il presidente in carica era l’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, un fiore all’occhiello del centrosinistra: aveva guidato l’ultimo governo della prima repubblica ed era stato ministro dell’economia con Romano Prodi.
Imperturbabile, Ciampi ha firmato delle leggi che non solo consolidavano il controllo di Berlusconi sulla televisione, ma gli garantivano l’immunità da qualsiasi procedimento giudiziario. La sua decisione è stata contestata da centinaia di persone che si sono raccolte davanti al Quirinale.
Ma gli eredi del Partito comunista non hanno sollevato nessuna obiezione. Anzi, la prima bozza della proposta di legge sull’immunità era uscita proprio dai ranghi del centrosinistra.
Neanche la stampa ha osato mettere in discussione il presidente, che per tradizione è considerato super partes ed è trattato con la dovuta riverenza. Solo una voce si è levata contro Ciampi: quella di Sartori, un conservatore liberale, che con una buona dose di sarcasmo ha criticato il presidente per la sua mancanza di coraggio.
Oggi al Quirinale c’è l’ex comunista Giorgio Napolitano, successore di Amendola alla guida della destra del Pci, la cosiddetta ala migliorista. Quando ha assunto la carica, nel 2006, la prima legge sull’immunità era già stata dichiarata incostituzionale dalla consulta.
Presentati sotto una nuova forma, i princìpi contenuti in quel provvedimento sono stati approvati di nuovo dal parlamento. Il capogruppo postcomunista al senato ha preferito non fare opposizione, spiegando che in linea di principio il Partito democratico non aveva obiezioni, anche se riteneva che la legge sarebbe dovuta entrare in vigore nella legislatura successiva.
Napolitano non aveva tempo da perdere con simili questioni di principio e ha firmato il provvedimento il giorno stesso in cui è arrivato sul suo tavolo. Ancora una volta, le uniche voci che si sono levate a denunciare questa vergogna sono state quelle di intellettuali liberali o apolitici, come Sartori e un gruppetto di altri spiriti liberi, immediatamente rimproverati non solo dalla stampa vicina al Pd ma anche da Rifondazione comunista per aver mancato di rispetto al capo dello stato. Questa è la sinistra invertebrata dell’Italia di oggi.
Verso destra
La fine dell’esperienza sovietica, la disintegrazione della classe operaia tradizionale, l’indebolimento dello stato sociale, il potere sempre maggiore della televisione, il declino dei partiti: gli eventi che negli ultimi anni hanno colpito la sinistra europea sono stati molti e di grande portata.
E pochi partiti li hanno attraversati indenni. Se considerata in questa prospettiva, la fine del comunismo italiano rientra in un quadro storico più ampio, che va al di là di ogni critica. Ma nessun altro paese ha dilapidato del tutto un patrimonio così imponente.
Il partito che era stato superato in astuzia politica da De Gasperi e Andreotti, che non aveva avuto il coraggio di epurare i fascisti e di spaccare il fronte clericale, era comunque una forza con una grande vitalità. Eppure i suoi eredi sono scesi a patti con Berlusconi senza un vero motivo politico, ben sapendo chi avevano di fronte e quello che stava facendo.
Sul premier italiano esiste una ricca letteratura di denuncia, sia in Italia sia all’estero, tra cui almeno tre saggi di alto livello in inglese. Le critiche, però, non toccano mai le responsabilità del centrosinistra. La complicità dei suoi leader con il progetto berlusconiano non è un’anomalia, ma rientra in una strategia coerente.
Gli eredi del comunismo italiano hanno permesso al capo di Forza Italia di mantenere e ampliare il suo impero mediatico a dispetto della legge, non hanno fatto nulla per risolvere il conflitto d’interessi, hanno rifiutato di far arrestare il suo braccio destro e hanno cercato più volte di fare, per puro calcolo politico, una riforma elettorale con il suo partito. Alla fine, però, sono rimasti non solo a mani vuote, ma senza idee e perfino senza coscienza.
Nel frattempo le fondamenta della cattedrale della cultura di sinistra avevano già cominciato a sgretolarsi, indebolite dalla natura stessa del Pci come partito di massa.
Come in Germania, lo spostamento verso destra è cominciato con la rivalutazione della dittatura che aveva governato il paese tra le due guerre. Uno dei protagonisti di questo fenomeno è stato lo storico Renzo De Felice. Pur non avendo l’apparato concettuale e l’ampiezza di interessi di Ernst Nolte, De Felice ha scritto libri che hanno avuto un impatto assai più profondo di quelli del suo collega tedesco.
Il suo successo non si deve alla sua erudizione o al fatto che in Italia il fascismo non era mai stato screditato in modo netto, come invece era successo in Germania. La vera ragione della popolarità delle tesi di De Felice dipende dalla debolezza della cultura ufficiale a cui la sua storiografia si contrapponeva. È significativo che le critiche più radicali all’edificio costruito da De Felice sono arrivate dall’inglese Denis Mack Smith invece che da studiosi italiani di sinistra.
Religioni e politica
Il principale erede di De Felice è stato Emilio Gentile, uno storico che ha interpretato i movimenti politici di massa del novecento come versioni secolarizzate di una fede soprannaturale, dividendole in due filoni: quello totalitario, in cui ci sono fascismo, comunismo e nazionalismo, e quello democratico delle religioni civili, come il patriottismo statunitense. Questa teoria ha avuto più successo nel mondo anglosassone che in Italia.
Paradossalmente, lo stesso si può dire degli ultimi frutti dell’operaismo. In Italia lo spirito dell’inchiesta operaia era scomparso con la morte prematura di Panzieri a metà degli anni sessanta, e la sua eredità si era modificata sotto i colpi di Mario Tronti e del giovane critico letterario Alberto Asor Rosa.
Tronti era convinto che fosse la classe operaia, e non il capitale, il vero demiurgo delle trasformazioni economiche: la forza che imponeva ai datori di lavoro e allo stato i cambiamenti strutturali di ogni fase dell’accumulazione.
Secondo la sua visione, il motore dello sviluppo non era nelle esigenze economiche impersonali del profitto che agiscono dall’alto, ma nella lotta di classe che preme dal basso. Asor Rosa, invece, sosteneva che la “letteratura impegnata” era un’illusione populista, perché la classe operaia non poteva ricavare nessun vantaggio dalle arti e dalle lettere di un mondo in cui la cultura era borghese per definizione.
A completare l’opera di Asor Rosa e Tronti è stato Massimo Cacciari, più giovane e intellettualmente più ambizioso dei suoi colleghi. Cacciari non solo ha separato la cultura e l’economia dalla politica rivoluzionaria, ma ha proposto una sistematica dissociazione tra tutte le sfere della vita e del pensiero moderni, in quanto domini tecnici intraducibili l’uno nell’altro.
La fisica, l’economia neoclassica, l’epistemologia canonica, la politica liberale, la divisione del lavoro, il funzionamento del mercato e l’organizzazione dello stato avevano una sola cosa in comune: erano tutti in crisi. E solo il “pensiero negativo” era in grado di cogliere la profondità di questa crisi. Prima di diventare sindaco di Venezia Cacciari è stato deputato del Pci; anche Tronti e Asor Rosa sono stati eletti in parlamento.
Il prezzo dell’integrazione in un partito che non era riuscito a prendere il potere è stata la graduale scomparsa dell’operaismo. Vent’anni dopo il suo tramonto, con il Pci ormai cancellato, Asor Rosa ha tracciato un malinconico bilancio del percorso della sinistra italiana, a cui lui e Tronti erano rimasti a loro modo fedeli.
Cacciari, invece, è oggi uno dei protagonisti della destra del Partito democratico, capace di fondere – come ben si addice a un ammiratore di Wittgenstein – misticismo e tecnicismo in una politica per certi versi molto simile a quella del New labour britannico. Nei suoi successori l’eredità intellettuale del pensiero negativo si è trasformata in un’arida cultura della specializzazione, ormai depoliticizzata.
Alla fine degli anni sessanta Toni Negri aveva preso la direzione opposta, propugnando non un patto per la modernità tra capitale e lavoro sotto l’egida del Pci, ma un’escalation del conflitto tra i lavoratori non organizzati e lo stato verso la lotta armata e la guerra civile.
Dopo l’annientamento di Autonomia operaia, il movimento di cui era stato il teorico, Negri finì in prigione con l’accusa infondata di essere stato il mandante dell’omicidio di Aldo Moro. Nel suo esilio francese ha scritto testi che hanno avuto più successo all’estero che in Italia, come Impero. Al centro delle sue riflessioni non c’è più il lavoratore sociale, ma il concetto di moltitudine.
Il recupero del fascismo a destra e la fine dell’operaismo a sinistra hanno modificato lo spazio politico del centro, in cui la versione laica e quella clericale del “giusto mezzo” avevano sempre convissuto.
La disgregazione della Democrazia cristiana non ha ridotto l’influenza della religione nella vita pubblica, ma l’ha ridistribuita su tutto l’arco politico. Gli elettori cattolici non solo si sono divisi tra centrodestra e centrosinistra, ma hanno anche dimostrato di essere il settore più volubile dell’elettorato, il vero ago della bilancia conteso dai due blocchi. Per andare a caccia del voto cattolico, gli ex leader del Pci hanno mostrato una sensibilità religiosa sconosciuta fino a poco tempo fa.
Quello che la chiesa ha perso con la fine di un partito di massa obbediente ai suoi ordini, lo ha guadagnato conquistandosi un’influenza più pervasiva, anche se meno evidente, sull’intera società. Il risultato è stato il ritorno della superstizione religiosa.
Durante il papato di Karol Woityla sono stati nominati più beati (798) e più santi (280) che nei cinque secoli precedenti messi insieme, il numero di miracoli necessari per la santificazione è stato dimezzato, e il grottesco culto di padre Pio è arrivato al punto che sulla stampa si discute con la massima serietà del suo trionfo sulle leggi della natura.
È improbabile che una cultura laica così ossequiosa verso la fede sia più combattiva nei confronti del potere. Durante la seconda repubblica le opinioni espresse sui principali mezzi d’informazione italiani non si sono allontanate quasi mai dalla via maestra neoliberale.
La maggior parte dei giornali somiglia ai nuovi tabloid popolari spagnoli, francesi, tedeschi, inglesi. Secondo tutti gli editorialisti l’unico rimedio per i mali del paese è una maggiore competitività nei servizi e nell’istruzione, un mercato più libero e uno stato più efficiente e snello. Opinioni del genere sono il frutto di un conformismo intellettuale universale, a cui non è sfuggita nemmeno l’Italia.
L’opposizione assente
L’atteggiamento della stampa nei confronti della legalità è un’altra questione. Dopo aver appoggiato l’offensiva della magistratura contro la corruzione nella prima repubblica, da quando Berlusconi è al potere i mezzi d’informazione si sono sempre mostrati poco coraggiosi, limitandosi a critiche perlopiù formali, senza scatenare quell’offensiva che avrebbe potuto metterlo davvero in difficoltà.
Per raggiungere quest’obiettivo la stampa avrebbe dovuto rivolgere le sue critiche non solo al premier, ma anche ai giudici che regolarmente lo assolvevano, ai capi di stato che gli avevano garantito l’immunità, e ai partiti di sinistra che l’avevano trasformato in un interlocutore accettabile, se non addirittura stimato. Ma non l’ha fatto.
In questo scenario spiccano poche eccezione. La principale è quella di Marco Travaglio. Le sue denunce del berlusconismo e del sistema di connivenze che lo ha protetto sono un caso unico nel panorama del docile giornalismo europeo di questi anni.
Come era prevedibile, Travaglio – i cui libri vendono centinaia di migliaia di copie – è un liberale di destra che si esprime con una ferocia e una libertà del tutto sconosciute alla sinistra.
A differenza che negli Stati Uniti, i mezzi di comunicazione in Europa tendono a riflettere, e non a creare, l’universo culturale, che dipende molto di più dalla situazione delle sue università. Come è noto in Italia le università sono antiquate e sottofinanziate, dominate da intrighi burocratici e dal clientelismo dei baroni. Il risultato è che i migliori cervelli del paese vanno a studiare all’estero.
Questo fenomeno riguarda tutte le discipline, come dimostra la lunga lista di studiosi italiani che hanno vissuto o lavorato a lungo negli Stati Uniti: Luca Cavalli-Sforza per la genetica, Giovanni Sartori per le scienze politiche, Franco Modigliani per l’economia, Carlo Ginzburg per la storia, Giovanni Arrighi per la sociologia, Franco Moretti per la letteratura, oltre a molti ricercatori più giovani.
Non è una diaspora nel vero senso della parola, dato che tutti hanno mantenuto contatti con l’Italia, ma è un’assenza che ha indebolito la cultura del paese.
È presto per dire se una nuova leva di studiosi di questo livello potrà nascere in Italia. A prima vista sembra poco probabile.
Tuttavia sarebbe comunque un errore sottovalutare le riserve a cui il paese può attingere. Il caso della Spagna, la cui modernizzazione è spesso considerata un modello dagli italiani che fanno autocritica, è eloquente.
Anche se con un’economia più in salute, istituzioni politiche più efficienti, meno criminalità organizzata e uno sviluppo regionale più omogeneo, la Spagna ha ancora una vita culturale provinciale e poco autonoma. Il contributo italiano alla letteratura contemporanea è molto più importante, nonostante la confusione in cui si trova il paese.
Negli ultimi anni nessun paese europeo ha prodotto un esempio di erudizione paragonabile ai cinque volumi sulla storia e la morfologia del romanzo mondiale curati da Franco Moretti per Einaudi: un’opera di una magnificenza tipicamente italiana. L’Italia, inoltre, ha ancora la grande capacità di mettere in discussione i paradigmi consolidati che arrivano dall’estero.
È il caso, per esempio, di Miti, emblemi e spie. Morfologia e storia di Carlo Ginzburg, o del saggio in cui lo storico italiano ricostruisce Georges Dumézil, cosa che nessuno studioso francese aveva mai osato fare. Altri esempi potrebbero essere l’ultimo libro del grecista Luciano Canfora, dedicato alla democrazia e censurato da un editore tedesco, o il saggio del politologo Danilo Zolo, che demolisce il concetto di “giustizia internazionale”. Una ricchezza simile non si esaurisce facilmente.
La spinta dei girotondi
Ma che fine ha fatto l’opposizione? Nell’Italia di oggi sopravvive ancora un nucleo di comunisti, né tradizionalisti né operaisti, rimasto più autenticamente gramsciano di quanto la sua leadership avesse il coraggio di essere o potesse sopportare.
Riunito intorno a Lucio Magri, Rossana Rossanda e Luciana Castellina, questo gruppo è stato espulso dal Pci nel 1969 e subito dopo ha fondato Il manifesto, l’unico quotidiano veramente radicale d’Europa. Nel corso degli anni le analisi strategiche più coerenti e incisive dei problemi della sinistra e del paese nel suo complesso sono arrivate proprio da questa corrente.
Oggi i protagonisti di quella stagione hanno cominciato a fare i conti con il passato. La ragazza del secolo scorso, il libro autobiografico di Rossana Rossanda, ha avuto un grande successo. Nel 2005, però, la Rivista del manifesto è stata costretta a chiudere, e con la crisi attuale anche il quotidiano rischia di scomparire.
Lo stesso rischio non sembra correrlo Micromega, il bimestrale curato da Paolo Flores d’Arcais, parte del gruppo editoriale l’Espresso. Con la nascita della seconda repubblica la rivista è diventata il fulcro dell’opposizione più intransigente a Berlusconi, assumendo un ruolo unico per una pubblicazione non certo di massa.
Un anno dopo la vittoria del centrodestra del 2001, è stata proprio Micromega a lanciare l’imponente ondata di proteste contro Berlusconi e la passività del centrosinistra: la cosiddetta stagione dei girotondi.
I protagonisti di quelle mobilitazioni sono stati due: Nanni Moretti e lo storico britannico Paul Ginsborg. Con i suoi film il regista romano denunciava da almeno dieci anni, anche se in modo ironico e leggero, lo sfascio del Pci e le sue conseguenze sulla società.
Ginsborg, invece, insegna all’università di Firenze ed è autore di due delle più importanti storie dell’Italia del dopoguerra. Nel volume che copre il periodo tra il 1980 e il 1996, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato, Ginsborg sostiene che, accanto all’egoismo dei ceti rampanti, cresciuti durante gli anni del craxismo, in Italia esiste ancora una parte della borghesia dotata di senso civico e altruismo.
Lo storico inglese chiama questo gruppo sociale “ceto medio riflessivo” e lo considera essenziale per il rinnovamento della democrazia italiana. Accolta con un certo scetticismo, questa intuizione ha trovato conferma nel 2002, quando sono stati proprio i professionisti, i professori e i dipendenti pubblici a scendere in piazza contro Berlusconi.
La forza di quella mobilitazione era però anche il suo limite. I manifestanti organizzavano cortei davanti ai palazzi del potere. Camminavano intorno agli edifici tenendosi per mano: per questo sono stati subito ribattezzati dalla stampa “girotondini”.
In questo modo i dimostranti volevano sottolineare le loro intenzioni pacifiche, ma a qualcuno quelle mobilitazioni sono sembrate un gioco da ragazzi. I partiti di centrosinistra non gradivano le critiche, ma soprattutto temevano la concorrenza politica del nuovo movimento, e hanno fatto ben poco per nascondere la loro ostilità.
I girotondini hanno mantenuto la calma. Hanno deciso di evitare azioni violente come quelle che si erano viste al G8 di Genova, e nella vana speranza di trovare alleati tra i leader sindacali hanno rinunciato a lanciare un’offensiva più dura contro il governo e i suoi complici dell’opposizione. Logorato dalla stessa immagine che si era costruito, il movimento ha finito presto per disperdersi.
Quando l’estate scorsa, facendo infuriare Veltroni, Micromega ha lanciato l’invito per una nuova manifestazione a piazza Navona contro il ritorno al potere di Berlusconi, le contraddizioni dei girotondini sono esplose.
Moretti e altri presenti sul palco si sono dissociati dagli interventi più radicali, che questa volta non risparmiavano critiche neanche a Napolitano, al Pd e a Rifondazione comunista.
Proprio come l’incomprensibile linguaggio politico della prima repubblica aveva prodotto per reazione la calcolata volgarità della Lega nord, questa volta la bonaria retorica dei girotondini ha innescato il suo opposto: un’esibizione eccessiva e roboante di alcuni comici notoriamente critici verso l’intera classe politica, che ha imbarazzato molti manifestanti, ma che a giudicare dai sondaggi non è dispiaciuta alla maggioranza degli elettori di centrosinistra.
Dal punto di vista politico, questo episodio potrebbe essere visto come l’ennesimo riflesso del conflitto vissuto dalla sinistra negli anni settanta, in cui la moderazione della leadership provocava esplosioni di rabbia dal basso.
Nell’autunno del 2008 queste tensioni sono sfociate nelle proteste studentesche contro i tagli di bilancio per l’istruzione e la riduzione delle ore di insegnamento decisi dal governo di centrodestra, e nelle mobilitazioni dei sindacati, molto più modeste, contro la risposta di palazzo Chigi alla crisi globale.
La concessioni ottenute sono state meno importanti rispetto all’ampiezza della mobilitazione stessa. Ma lo schema secondo cui a una ritirata strategica di Berlusconi corrispondono temporanei scoppi di rabbia popolare contro il suo governo non è nuovo. Con l’economia in crisi, però, oggi non è facile prevedere come andranno le cose.
Dopo essersi lasciata alle spalle il minaccioso simbolo della falce e martello, la sinistra italiana ha adottato una serie di altri simboli presi in prestito dal regno vegetale e da quello celeste: la rosa, la quercia, l’ulivo, la margherita, l’arcobaleno. Ma senza più il vecchio bagliore del metallo, difficilmente riuscirà a fare molta strada.
Da sapere
1921 Nasce il Partito comunista italiano
1924 Antonio Gramsci viene eletto segretario
1930 Palmiro Togliatti segretario
1964 Luigi Longo segretario
1972 Enrico Berlinguer segretario
1976 Alle elezioni il Pci ha il 34 per cento dei voti. È il suo massimo storico
1984 Morte di Berlinguer
1988 Elezione di Achille Occhetto alla segreteria
1989 Caduta del Muro di Berlino
1991 Scioglimento del Pci e nascita del Partito democratico di sinistra
1994 Massimo D’Alema diventa segretario del Pds
1996 Alle elezioni il Pds è il primo partito italiano. Primo governo Prodi
1998 Nascita dei Democratici di sinistra. Walter Veltroni segretario. Primo governo D’Alema
1999 Secondo governo D’Alema
2000 Governo Amato
2001 Piero Fassino è segretario dei Ds
2006 Secondo governo Prodi
2007 Nasce il Partito democratico. Veltroni segretario
2009 Enrico Franceschini segretario
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Dal bipolarismo coatto al bipartitismo coatto
05.05.09 – Boicottiamo il referendum
Pare che molti nel centrosinistra siano orientati a votare Sì nel referendum Guzzetta. Spero che cambino idea.
Non c’è una sola ragione al mondo per votare in quel senso. Il quesito del referendum è stato rappresentato come un tentativo di eliminare gli effetti negativi della legge Calderoli. Non è affatto vero. Se accolto produrrebbe un secco peggioramento della legge: il passaggio automatico da un bipolarismo coatto a un bipartitismo coatto. E non solo: la lista di partito che prende più voti ottiene la maggioranza assoluta dei seggi.
C’è chi ripete che una riforma non deve essere giudicata in base alla contingenza ma per i suoi effetti di sistema. L’assunto può avere senso in una democrazia normale, ma in Italia non c’è una democrazia normale. Non si capisce perché si dovrebbe giudicare la soluzione Guzzetta trascurando le sue conseguenze nei prossimi dieci o venti anni. Dopo ciò che accadrà in questo periodo gli effetti di sistema della legge uscita dal referendum avrebbero l’efficacia di una medicina sul corpo del morto. Perché?
Perché nelle condizioni date oggi in Italia, il successo del Sì ha un solo significato: la vittoria definitiva di Berlusconi. Se passa il Sì potrà sostenere che si deve andare a elezioni anticipate con la nuova legge elettorale. Il PdL vincerà e otterrà una maggioranza schiacciante che gli permetterà di fare ciò che vuole. D’Alema e molti altri sostengono che se vince il Sì sarà necessario scrivere una nuova legge elettorale. L’ipotesi è già stata smentita dal PdL: la legge cambiata dal Sì sarà immediatamente applicabile e applicata.
La Lega ha capito benissimo che così perderà ogni potere di condizionamento sul centrodestra e che il PdL potrà governare da solo. Perciò si oppone con decisione. E se davvero Berlusconi fosse intenzionato a far votare Sì, la Lega non avrebbe forse altra scelta che far cadere il governo prima del referendum. Che lo faccia o no dipenderà dalla sua volontà. Ma in ogni caso nelle sue file l’allarme è suonato.
Non si capisce invece perché i partiti del centrosinistra dovrebbero scegliere un voto che li avvia a un sereno suicidio. Il PD può accampare il motivo di aver da tempo sostenuto la validità di una soluzione molto bipolare. Ma a questo punto dovrebbe essersi reso conto che la scelta “coraggiosa” di andare da solo lo fa passare solo da una sconfitta all’altra. Da parte sua IdV può giustificare la scelta del Sì solo perché aveva raccolto le firme per il referendum. Ma oggi è assai più chiaro di allora che la soluzione Guzzetta è un netto peggioramento della legge Calderoli. Dunque perché insistere? E poi la coerenza verso una scelta infelice e ormai superata vale molto di meno della coerenza dovuta alla propria vocazione: sì alla democrazia pluralistica, no al potere unico.
In ogni caso PD e IdV devono confrontarsi con un futuro già segnato. Se vincerà il Sì, dopo elezioni anticipate Berlusconi avrà da solo il pieno possesso del Parlamento. Cambierà la Costituzione e la Corte Costituzionale. Diventerà presidente della repubblica con accresciuti poteri. Le assemblee elettive, che già oggi contano ben poco, diventeranno l’arredo di contorno del presidenzialismo. La democrazia italiana sarà sfigurata per sempre.
Di fronte a questa prospettiva non si può nemmeno propagandare il No. Lo schieramento a favore del Sì, anche senza l’inclinazione al suicidio del centrosinistra, è già abbastanza temibile. Si deve sperare che il 21 giugno sia una data che di per sé scoraggi la partecipazione popolare e occorre mobilitarsi con tutte le nostre forze per far mancare il quorum. Non si tratta di dire: andate al mare. Si deve spiegare con cura estrema: la soluzione Guzzetta dà tutto il potere in mano a chi ha già il pieno dominio sui mezzi di comunicazione. Questa non è democrazia. E’ instaurazione di un potere plebiscitario assoluto.
Far mancare il quorum non è manifestazione di indifferenza. E’ difesa attiva della democrazia.
Pancho Pardi
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