Raffreddamento solare in Nord Africa 05.2010
Due progetti pilota per il raffreddamento solare. Che non è un ossimoro ma una tecnica in fase di sperimentazione presso un caseificio marocchino e una cantina tunisina. Si chiama, infatti, solar cooling, raffreddamento solare, appunto, la tecnologia che produce raffrescamento a partire dal calore accumulato tramite collettori termici solari. Procedimento di cui ora beneficiano i processi di produzione e di conservazione delle due aziende agroalimentari magrebine, grazie al progetto Medisco, condotto dall’Istituto Fraunhofer per l’Energia Solare ISE di Friburgo (Germania), dal Politecnico di Milano e da altri centri di ricerca europei e nordafricani.
Il progetto Medisco (Mediterranean food and agro Industry applications of Solar Cooling technologies) è partito nel 2006 grazie ai finanziamenti dell’Unione Europea: 1,4 milioni di euro nell’ambito della linea di bilancio “Cooperazione internazionale” del VI programma quadro destinati a individuare ciò che il raffrescamento solare può fare per i bisogni energetici dell’industria alimentare nei paesi del Mediterraneo.
Il sistema messo a punto si basa sull’impiego di collettori solari a concentrazione che dirigono la luce su un assorbitore per mezzo di un riflettore. In questo modo è possibile convertire la radiazione solare in acqua calda a una temperatura di 200 gradi che alimenta la macchina refrigerante ad assorbimento. Questo calore, attraverso uno scambiatore di calore, viene utilizzato per generare freddo, portando il fluido che scorre all’interno della macchina (una miscela di acqua e glicole), a una temperatura di 0° C.
“Praticamente con questo sistema otteniamo il freddo utilizzando il calore invece che energia elettrica – spiega Tomas Núñez, ricercatore dell’ISE –. Un metodo che offre notevoli vantaggi ambientali, riducendo al minimo il consumo di elettricità per i frigoriferi convenzionali, oltre a garantire la piena disponibilità di refrigerazione quando splende il sole, e quindi proprio quando è più necessaria”. “Il nostro metodo è ideale per quei paesi che hanno molte giornate di sole e in aree remote dove non ci sono mezzi di refrigerazione tradizionali a causa di mancanza d´acqua e di fonti di energia inesistenti o inaffidabili – sottolinea Núñez– è ecologico e riduce al minimo l´uso di costosa energia elettrica per i frigoriferi tradizionali. La refrigerazione è sempre disponibile quando splende il sole, il che significa che viene prodotta proprio nei momenti in cui c´è una maggior richiesta”.
Se sistemi come quelli sviluppati dal progetto Medisco diverranno commercializzabili sono diversi i vantaggi per le industrie e i sistemi energetici dei paesi mediterranei. Come detto il solar cooling fa risparmiare più energia proprio in momenti di picco della domanda, durante le assolate giornate estive in cui c’è grande richiesta a causa degli impianti di condizionamento, alleggerendo così il sistema elettrico. Dal punto di vista di chi installa l’impianto restano i benefici in termini di energia ed emissioni evitate; infine, specie per industrie che necessitano di molta acqua calda per la pulizia come quelle agroalimentari, il vantaggio di questi sistemi di raffrescamento basati sul solare termico è che oltre al freddo possono produrre anche acqua calda e riscaldamento, soddisfacendo così una larga parte del fabbisogno energetico dell’azienda.
Fonte: Cordis News
http://www.scienzaegoverno.org/n/082/082_01.htm
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L’autobus a idrogeno si ricarica in corsa 05.2010
La mobilità pubblica diventa sempre più verde. In alcune città già sono diffusi i bus a trazione elettrica alimentati a batterie, siano esse al piombo, al litio o ai sali. E ora è nato H-Bus, il veicolo a zero emissioni. Si tratta di un “powertrain” elettrico ibrido a batterie e celle a combustibile, integrato con un sistema di accumulo e alimentazione a idrogeno.
H-Bus è stato realizzato dall’Istituto di Tecnologie Avanzate per l’Energia (Itae) “Nicola Giordano” del CNR, che per il progetto svolge attività di ricerca e sperimentazione a banco di due prototipi ibridi, dall’azienda Sol (che cura la parte realizzativa del sistema di stoccaggio e alimentazione dell’idrogeno on board nonché la progettazione della stazione di rifornimento di idrogeno e della colonnina di distribuzione del gas) e l’azienda STMicroelectronics (che lavora sugli inverter con power switches e sul dimostratore prototipale di nuova concezione).
Uno dei problemi principali che hanno quasi tutti i veicoli elettrici è l’autonomia molto limitata dovuta alla ricarica delle batterie, che necessita di un tempo piuttosto lungo (diverse ore), ma con H-Bus la cella a combustibile si ricarica in modo assai più rapido e, soprattutto, utilizzando sistemi di start and stop , già nel momento in cui il veicolo è operativo ma fermo.
Così, al momento dell’avvio, durante la guida normale e nelle fasi di accelerazioni, la potenza del motore elettrico del mezzo viene garantita dalla batteria e dalle celle a combustibile. A basso carico, invece, le celle svolgono due importanti funzioni: da una parte contribuiscono alla propulsione del veicolo, dall’altra ricaricano velocemente le batterie. In fase di decelerazione e frenata, poi, il mezzo recupera l’energia cinetica.
Oltre ai tempi tecnici necessari per la validazione sul terreno, H-Bus è già pronto per affrontare il mercato: l’Itae ha già analizzato gli aspetti economici e di marketing, riscontrando un interesse molto alto presso i produttori di autobus a batterie, quindi il prototipo potrebbe trasformarsi in veicolo in tempi piuttosto brevi.
Fonte: Mondoecoblog
http://www.scienzaegoverno.org/n/082/082_02.htm
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Tempo di “falchi” a Palazzo Koch
Emiliano Brancaccio – 01.06.2010
«Macelleria sociale è una espressione rozza ma efficace: io credo che gli evasori fiscali siano i primi responsabili della macelleria sociale». Di queste parole non vi è traccia nel testo ufficiale delle considerazioni del governatore della Banca d’Italia presentate ieri all’assemblea annuale dell’istituto. Draghi infatti le ha pronunciate a braccio, smarcandosi per un attimo dall’abituale, morigerato linguaggio di Palazzo Koch. C’è da scommettere che i commentatori dedicheranno grande attenzione a questo colpo di teatro del governatore. A ben guardare tuttavia la dichiarazione si rivela politicamente vaga, dal momento che Draghi evita di citare gli interventi che anziché ridurre gli evasori ne hanno favorito in questi anni la proliferazione. Basti pensare che egli conferisce al governo Berlusconi il merito di aver adottato «misure di contrasto all’evasione fiscale» e non accenna invece agli effetti d’incentivo all’evasione che sono scaturiti da numerosi provvedimenti dell’esecutivo, tra i quali spicca il condono di fatto sui capitali rimpatriati.
Il principale punto critico delle considerazioni del governatore non risiede però nella paludata valutazione dell’operato del governo italiano. Il vero problema verte sulla scelta di assolvere completamente la Germania riguardo alle cause della gravissima crisi della zona euro. A questo riguardo il governatore riconosce che l’attuale instabilità della Unione monetaria europea è alimentata dai marcati squilibri nei rapporti di credito e debito tra i suoi paesi membri. Draghi tuttavia si guarda bene dal chiarire che questi squilibri sono in larga misura dovuti alla politica iper-competitiva e ultra-restrittiva della Germania, da tempo orientata a schiacciare i salari e la spesa interna in modo da reprimere le importazioni di merci dall’estero, e a favorire invece la penetrazione delle merci tedesche nei mercati dell’eurozona. Attraverso questo sistematico eccesso di vendite sugli acquisti la Germania accumula crediti verso l’estero. Essa quindi non contribuisce allo sviluppo economico europeo, ma anzi paradossalmente si fa trainare dai paesi più deboli dell’unione monetaria, tra i quali spiccano la Grecia, la Spagna, il Portogallo, la stessa Francia. Persino l’Italia, nonostante una crescita modestissima del reddito nazionale, si ritrova ad acquistare dai tedeschi più di quanto vende, accumulando per questa via debiti crescenti verso la Germania.
E’ significativo che Draghi non accenni a questo enorme problema, che da tempo mina alle fondamenta l’intero progetto di unificazione europea. Quando si tratta di analizzare la crisi a livello globale, egli dichiara senza mezzi termini che per uscirne sarebbe necessaria «una forte espansione della domanda interna da parte dei paesi che hanno accumulato ampi avanzi esterni», e cioè soprattutto da parte della Cina[1]. Tuttavia, quando passa ad esaminare il quadro europeo, il governatore preferisce ripetere diligentemente il verbo delle autorità tedesche, affermando che tocca solo ai paesi debitori farsi carico del riequilibrio, attraverso strette alla spesa pubblica, contenimenti dei salari, aumenti della età pensionabile e ulteriori riduzioni delle tutele dei lavoratori. Il governatore arriva persino a sostenere che «l’impegno a raggiungere un saldo di bilancio strutturale in pareggio o in avanzo va reso cogente, introducendo sanzioni, anche politiche, in caso di inadempienze». In altre parole, chi non si adegua alla linea indicata dai tedeschi dovrà perdere il diritto di voto in Europa. Al pari di Padoa Schioppa e di Bini Smaghi, anche Draghi sembra dunque improvvisamente desideroso di concorrere al titolo di banchiere più “falco” dell’Unione. A voler esser tendenziosi, potremmo avanzare il sospetto che tutto questo sgomitare a favore della politica restrittiva si spieghi con la scadenza del mandato di Trichet, e con la volontà di ingraziarsi i tedeschi in vista della prossima nomina del nuovo governatore della Banca centrale europea. Ma se anche non si volesse cedere alla tentazione di pensar male, resterebbe da capire in che modo un simile orientamento possa ritenersi compatibile con i fondamentali interessi economici dell’Italia, degli altri paesi periferici e in fin dei conti della intera Unione europea. A questo riguardo lo stesso Draghi riconosce che nel 2009 si è verificato un boom dei fallimenti tra le imprese italiane, pari a un quarto in più rispetto all’anno precedente. Si tratta di un dato allarmante, che accomuna l’Italia agli altri paesi deboli dell’Unione. Esso sta ad indicare che la crisi non solo colpisce i lavoratori ma mette anche fuori mercato moltissime imprese situate nelle aree periferiche del continente. Di certo la notizia verrà accolta con favore dagli imprenditori tedeschi che contano di uscire vincenti dalla crisi, con meno sindacato e meno concorrenza estera a intralciarli. Le rappresentanze politiche del capitale tedesco sembrano in sostanza disposte a concepire l’Europa solo nei termini di una Germania allargata, che basi la sua strategia di sviluppo esclusivamente sulla competitività e sulle esportazioni nel resto del mondo. In base a questa visione, i paesi periferici dell’Unione dovrebbero progressivamente ridursi al rango di fornitori di manodopera a basso costo, o al limite di azionisti di minoranza in uno scacchiere capitalistico a stretto controllo tedesco. In effetti, fino a quando c’erano i boom speculativi della finanza statunitense a trainare l’economia mondiale l’idea di una “grande Germania” votata all’export poteva avere una sua pur feroce logica. Adesso però che la locomotiva americana si è inceppata tale progetto risulta estremamente azzardato. Esso infatti crea le condizioni per un avvitamento generale della crisi, che potrebbe scatenare una deflazione da debiti paragonabile a quella degli anni Trenta. Se ciò avvenisse l’intero progetto dell’unità europea crollerebbe. E la principale responsabilità di un simile fallimento sarebbe da imputare non tanto alle spese eccessive di Grecia e Spagna, quanto piuttosto alla politica economica tedesca e ai suoi sostenitori, tra cui purtroppo diversi italiani.
Quasi a volersi difendere da una simile accusa, Draghi prova a chiudere le sue considerazioni con una nota di ottimismo sui presunti benefici dell’austerità: «Nel 1992 affrontammo una crisi di bilancio ben più seria di quella che hanno oggi davanti alcuni paesi europei. Il Governo dell’epoca presentò un piano di rientro che, condiviso dal Paese, fu creduto dai mercati. Fu una lotta lunga […] ma fu vinta, perché i governi che seguirono mantennero la disciplina di bilancio: la stabilità era entrata nella cultura del Paese». Un piano creduto dai mercati? Il governatore non la racconta giusta. In realtà le tremende strette ai salari, alle pensioni e al bilancio pubblico di quell’anno accentuarono la depressione del reddito nazionale e quindi sollevarono dubbi crescenti sulla capacità di rimborso dei debiti. Esse dunque non frenarono la speculazione ma anzi la alimentarono, favorendo in tal modo l’uscita dell’Italia dal Sistema monetario europeo e la conseguente svalutazione della lira. I lavoratori pagarono così due volte: prima a causa della politica di austerità e poi a causa della perdita di potere d’acquisto della lira. A quanto pare si sta facendo di tutto affinché la storia si ripeta, in termini forse ancor più violenti che in passato. Una resistenza consapevole a questo andazzo si pratica in primo luogo acquisendo coscienza del fatto che l’austerità non costituisce un antidoto sicuro contro la deflazione da debiti e la speculazione, ma anzi potrebbe a date condizioni favorirle.
[1] In effetti Draghi non è l’unico a sostenere questa tesi. Tuttavia, per quanto diffusa, l’idea secondo cui la Cina dovrebbe farsi promotrice della ripresa mondiale attraverso una espansione della domanda interna non sembra molto convincente. In assenza di una profonda riforma del sistema monetario internazionale è difficile che un paese che non emetta dollari accetti di espandere la domanda e di collocarsi in posizione di disavanzo commerciale. Più probabile è l’eventualità di un parziale “sganciamento” dal regime di accumulazione mondiale, tramite combinazioni di politica espansiva interna e protezionismo verso l’esterno. Per un approfondimento, rinviamo a “Finché dollaro non vi separi” (in Emiliano Brancaccio, La crisi del pensiero unico, 2° ed., Franco Angeli, Milano 2010). Sul rapporto tra la crisi globale e la crisi del sistema monetario internazionale, si veda Lilia Costabile, “The international circuit of key currencies and the global crisis. Is there scope for reform?”, in Emiliano Brancaccio e Giuseppe Fontana, The global economic crisis: new perspectives on the critique of economic theory and policy, Routledge, London (di prossima pubblicazione).
http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/tempo-di-falchi-a-palazzo-koch/
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“Le Monde” la fine di un’utopia 04.06.2010
VITTORIO SABADIN
«Le Monde», uno dei più prestigiosi giornali del mondo, sta per perdere dopo 60 anni la sua indipendenza. Lo ha annunciato ieri il presidente della società, Eric Fottorino, in un dolente editoriale in prima pagina: i debiti sono troppo alti, dobbiamo vendere a qualcuno che vorrà in cambio il controllo della maggioranza delle azioni. Mi spiace, ma è finita per sempre un’epoca, ha detto ai lettori l’uomo che dal 2008 cerca senza troppo successo di risollevare le sorti del giornale.
Più che un’epoca, a «Le Monde» è finita una utopia, coltivata per mezzo secolo con testardaggine e senso di superiorità tipicamente francesi. Fondato nel 1944 da Hubert Beuve-Méry e dall’addetto stampa di De Gaulle, Christian Funck-Brentano, il giornale ha dimenticato presto la missione che gli aveva affidato il generale, quella di rappresentare la grandeur del Paese all’estero. Nel 1951 è stata creata la «Società dei redattori», integrata nel 1968 da quella degli impiegati: da quel momento la nomina del direttore, la linea politica, le strategie della società sono state decise dai dipendenti.
L’indipendenza assoluta dei propri giornalisti è un ottimo obiettivo da raggiungere per qualunque impresa editoriale, ma quando sono i giornalisti a comandare le spese tendono sempre a salire in modo incontrollato ed è spesso molto difficile convincerli che devono cambiare il loro modo di lavorare perché sono cambiati i gusti dei lettori.
Da questo punto di vista, la storia di Le Monde è esemplare. Mentre tutti i quotidiani della sera chiudevano perché nel frattempo erano stati inventati i telegiornali, Le Monde continuava (e continua, nell’era di Internet) a uscire al pomeriggio assumendosi pesantissimi costi di distribuzione delle copie che non può, come fanno tutti i quotidiani del mattino, dividere con altri. La pubblicazione di fotografie nelle pagine venne inizialmente accettata controvoglia, come uno sfregio alla sacralità della parola scritta. Politicamente, il giornale virò a sinistra, condendo l’attenzione al cristianesimo sociale e al socialismo riformista con forti iniezioni di antiamericanismo e terzomondismo. Indimenticabile resta il titolo «Phnom Penh liberata», che annunciava nell’aprile del 1975 l’entrata nella capitale cambogiana dei Khmer Rossi.
Negli Anni 80, 90 e nell’ultimo decennio i dirigenti che illustravano all’assemblea il penoso andamento dei conti venivano invitati a trovare una soluzione amministrativa o qualche nuovo socio di minoranza, ma di cambiare il prodotto si parlava raramente. Anzi: nel discusso libro «La faccia nascosta di Le Monde» si accusa lo storico direttore Jean-Marie Colombani* (costretto a lasciare nel 2007) di violazione delle regole deontologiche per avere cercato di introdurre nell’editrice qualche sano principio economico.
Tutti gli esperti di editoria hanno sempre pensato che i giornalisti di «Le Monde» sarebbero morti piuttosto che cambiare le loro idee, e il momento del martirio sembra arrivato. Hanno fatto per decenni il giornale che volevano, uno dei più acuti e interessanti del mondo, ma non si può ignorare così a lungo il mercato. Ci sono già stati 130 licenziamenti (molti dei quali «volontari») e ora si attendono le offerte di chi vorrà pagare i debiti per controllare la maggioranza. Nel suo editoriale, Eric Fottorino ha annunciato che i dipendenti valuteranno con attenzione i candidati, i quali dovranno impegnarsi a non interferire con le scelte editoriali. E’ l’ultima battaglia, molto difficile da vincere.
*Jean-Marie Colombani è consigliere di amministrazione dell’Editrice «La Stampa», che possiede una quota di minoranza di «Le Monde»
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Ora Detroit è salita tutta sull’auto di Marchionne 04.06.2010
di Paolo Bricco
Una città lunare, perché chi poteva se ne è già andato da tempo. Case diroccate. Capannoni vuoti. Detroit, Michigan. Il simbolo estremo della crisi del manifatturiero americano, minato alla radice dai mercati aperti e dalla finanziarizzazione dell’economia. Ma anche il punto da cui l’industria statunitense non può non ripartire. Dieci giorni fa, qui un poliziotto ha ucciso per errore una bimba nera di sette anni. Quasi nelle stesse ore General Motors, Ford e Chrysler hanno presentato trimestrali con numeri che hanno sorpreso gli analisti. Sul fondale di uno scenario in cui l’America cerca una nuova identità, fra la rinascita della manifattura e la ricomposizione delle sue lacerazioni più intime, si muove Sergio Marchionne, che dopo avere risanato la Fiat lavora alla ristrutturazione della Chrysler.
«La cura Marchionne – dice Ron Gettelfinger, presidente del sindacato Uaw (United auto workers)- ci convince: siamo i primi a sostenere il travaso di tecnologie Fiat e di metodi organizzativi italiani a Auburn Hills». Anche perché Marchionne, manager di cultura nordamericana e di atteggiamento cosmopolita, ha scelto di non imporre alcuna egemonia italiana. «Gli italiani sono pochi – spiega Anthony Fioritto, che si occupa dell’inventario dei componenti in Europa – e sono molto impegnati a spiegarci la filosofia del World Class Manufacturing. Che sta funzionando». Il tentativo del manager italo-canadese è una parte del discorso più generale. «Dobbiamo diversificare la nostra economia – afferma il sindaco Dave Bing, ex campione di basket dei Detroit Pistons – ma l’auto avrà sempre un ruolo fondamentale. La nostra America non può smettere di produrre beni tangibili». Anche se, dentro alla più complessa rigenerazione del tessuto produttivo di Detroit, Marchionne una sua specificità la sta portando. Come già successo a Torino, cambia con una rapidità quasi violenta il management che non funziona e fa salire i più giovani e i più svelti. Non è poco, nella roccaforte della manifattura americana che, prima del collasso, era afflitta da una burocrazia e da una gerontocrazia che, adesso, non si può più permettere.
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Perchè cancellare lo Statuto dei lavoratori?
Guglielmo Forges Davanzati – 04.06.2010
Il recente tentativo di approvazione del disegno di legge sull’arbitrato per la risoluzione dei conflitti sul lavoro – come è noto, rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica e al momento oggetto di rielaborazione – costituisce un passo ulteriore verso il definitivo superamento dello Statuto dei lavoratori e, dunque, nella direzione di un’ulteriore compressione dei diritti dei lavoratori. Obiettivo dichiarato del Ministro Sacconi è il passaggio dallo Statuto dei lavoratori allo Statuto dei lavori, che renda più “leggera” la normativa sul lavoro[1].
Il provvedimento non desta sorpresa dal momento che si inserisce lungo la direzione delle politiche finalizzate all’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori; politiche che i Governi che si sono succeduti negli ultimi decenni hanno tenacemente perseguito. La logica economica – quella propagandata – che sta alla base di queste scelte risiede nella convinzione che la maggiore libertà di licenziamento fornisca alle imprese anche maggiore incentivo all’assunzione e che, dunque, la ‘flessibilità’ del lavoro vada a vantaggio dei lavoratori. Nel caso in esame, viene fatta valere la tesi di Giuliano Cazzola, relatore del disegno di legge alla Camera, secondo il quale “bisogna smetterla di considerare i lavoratori come dei minus habens, incapaci di scegliere responsabilmente e consapevolmente un percorso giudiziale o uno stragiudiziale, per dirimere le loro controversie di lavoro”. Merita di essere rilevato che questa tesi rinvia alla convinzione che lavoratori e datori di lavoro hanno il medesimo potere contrattuale e che, dunque, il lavoratore dispone della massima libertà sostanziale nel decidere se ricorrere alla magistratura o all’arbitrato. Una tesi, questa, che, nella migliore delle ipotesi, può essere valida solo in condizioni di pieno impiego, dal quale, con un tasso di disoccupazione stimato dall’ISTAT all’8.8% e in continua crescita, siamo ben lontani[2].
E’ ampiamente dimostrato, sul piano teorico ed empirico, che le politiche di ‘flessibilità’ del lavoro non accrescono l’occupazione e tendono ad associarsi a una riduzione della quota dei salari sul PIL[3]. E’ poi documentato, su basi empiriche e con riferimento all’economia europea e italiana, che le politiche di ‘flessibilità’ hanno spinto le imprese a rimanere o spostarsi verso settori produttivi ad alta intensità di lavoro, e che a ciò ha fatto seguito una significativa riduzione della produttività del lavoro[4]. E’ anche noto che una distribuzione del reddito, e dei diritti, sfavorevole ai lavoratori non induce di per sé un aumento degli investimenti: sia sufficiente qui richiamare il fatto che, come certificato dall’ultima rilevazione ISTAT, gli investimenti fissi lordi in valori correnti delle imprese non finanziarie hanno registrato, tra il quarto trimestre 2009 e lo stesso periodo dell’anno precedente, una flessione del 15,3%, a fronte del fatto che l’Italia si colloca al ventitreesimo posto in ambito OCSE per livello medio delle retribuzioni ed è il Paese che ha dato maggiore impulso alle politiche di precarizzazione del lavoro[5].
Per dar conto della reiterazione di provvedimenti anti-sindacali, quando questi si sono rivelati del tutto controproducenti per gli obiettivi che si dichiara di voler perseguire, e della loro accelerazione negli ultimi anni in Italia, si può partire dalla constatazione stando alla quale il principale problema strutturale dell’economia italiana consiste nella modesta crescita della produttività. L’OCSE registra che i differenziali di produttività fra l’Italia e gli altri principali Paesi membri sono aumentati nel corso dell’ultimo biennio, attestandosi al 25%. E’ opportuno considerare che la produttività cresce soprattutto a seguito dell’avanzamento tecnico. Ma, con ogni evidenza, non è questa la strada che si intenda percorrere, se solo si considerano i rilevanti tagli alla ricerca scientifica voluti da questo Governo.
Questi provvedimenti trovano la propria motivazione in obiettivi diversi dal perseguimento del pieno impiego, e sostanzialmente riconducibili a due.
1) Per un dato assetto tecnico, la produttività del lavoro aumenta se la minaccia di licenziamento diventa più efficace e credibile. In tal senso, il superamento dello Statuto dei lavoratori non serve ad accrescere l’occupazione, ma semmai ad accrescere l’intensità del lavoro, il che – è necessario rimarcarlo – si rende possibile solo a condizione che esista un ampio bacino di disoccupati che renda efficace e credibile la minaccia di licenziamento (o di non rinnovo del contratto di lavoro). In tal senso, è solo se esiste disoccupazione che le nuove disposizioni diventano pienamente efficaci[6]. A riguardo, l’evidenza empirica disponibile segnala che, nel caso europeo e italiano in particolare, nelle fasi nelle quali l’occupazione è aumentata la produttività del lavoro si è ridotta[7].
2) L’accelerazione che si intende dare al superamento dello Statuto dei lavoratori risponde a un meccanismo che diventa pienamente funzionante soprattutto nei periodi di crisi. Si tratta del fatto che la caduta dei profitti, in queste fasi, accresce il grado di concorrenza fra imprese e, in un’economia come quella italiana nella quale la concorrenza non si esercita sotto forma di incrementi di produttività del lavoro derivanti da innovazioni, la crisi determina un’ulteriore spinta a politiche di ridistribuzione del reddito a vantaggio delle imprese, e a recuperi di produttività derivanti dall’intensificazione del lavoro, connessa, come si è visto, alla riduzione dei diritti dei lavoratori.
Il che dà luogo a una spirale perversa. La caduta dei salari e il contestuale aumento della produzione potenziale, in assenza di politiche fiscali espansive (interne e su scala internazionale), rende sempre più difficile la realizzazione monetaria dei profitti, dal momento che gli sbocchi della produzione diventano progressivamente più esigui. E poiché la domanda di lavoro espressa dalle imprese dipende dalle aspettative sulla domanda aggregata, ciò non può che generare ulteriori licenziamenti o comunque non assunzioni. Evidentemente, non si esclude che alcune imprese possano trarre vantaggio da queste strategie, in primis le imprese di più grandi dimensioni, collocate nelle aree più sviluppate del Paese: vi è, dunque, motivo di ritenere che – anche per questa strada – si accelerino i processi, già in atto, di crescente concentrazione industriale, a danno in primis delle regioni più povere del Paese.
Resta il fatto che dal superamento dello Statuto dei lavoratori vi è da attendersi un aumento, non una riduzione, del tasso di disoccupazione. Michael Kalecki scriveva a riguardo: “la ‘disciplina nelle fabbriche’ e la ‘stabilità politica’ sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è ‘sana’ dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale”[8]. Non sembrano riflessioni da archiviare o, al più, da relegare a chi ama le ‘visite in soffitta’.
[1] Per un inquadramento generale del problema, si rinvia all’articolo di Luigi Cavallaro in questa rivista.
[2] Ma, anche in condizioni di pieno impiego, il datore di lavoro ha un potere contrattuale di gran lunga superiore al lavoratore, se non altro per il fatto che, disponendo di maggiori risorse, può attendere più tempo per la stipula del contratto di lavoro. Si tratta di un argomento ben noto almeno fin dai tempi di Adam Smith.
[3] Su questi aspetti, si rinvia, fra gli altri, al mio La precarietà come freno alla crescita, in questa rivista.
[4] V. E.Saltari e G.Travaglini, Il rallentamento della produttività del lavoro e la crescita dell’occupazione. Il ruolo del progresso tecnologico e della flessibilità del lavoro, “Rivista italiana degli economisti”, XIII, n.1, 2008, pp.3-38.
[5] Neppure si può ritenere che la compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori eserciti effetti benefici sull’attrazione degli investimenti. Stando all’ultimo rapporto SVIMEZ, e con riferimento al Mezzogiorno, il tasso di crescita degli investimenti si è ridotto, nell’ultimo biennio, dal 2.4% allo 0.5%. Ovviamente la riduzione degli investimenti è in larga misura imputabile alla crisi, ma ciò che qui conta è il fatto che – rispetto alla media OCSE – a fronte di bassi salari l’Italia ha fatto registrare uno dei peggiori risultati a riguardo.
[6] Diversamente, in un assetto prossimo al pieno impiego, la minaccia di licenziamento diventa meno credibile. Sul tema si rinvia a G.Forges Davanzati and A. Pacella, Minimum wage, credit rationing and unemployment in a monetary economy, “European Journal of Economic and Social Systems”, vol.XXII, n.1, pp.179-194. Alcuni autori fanno rilevare, per contro, che le politiche di flessibilità contrattuale potrebbero produrre riduzioni dell’intensità del lavoro per l’effetto negativo che genererebbero sul ‘morale’ dei lavoratori. V. A. Reinstaller, The division of labour in the firm: agency, near-decomposability and the Babbage principle, “Journal of Institutional Economics”, Vol. 3, No. 3, 2007, p. 293-322.
[7] E.Saltari e G. Travaglino, cit.
[8] M.Kalecki, Aspetti politici del pieno impiego, 1970.
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La Freedom Flotilla dentro la trappola (doppia?) di un Grande Gioco
Nicolò Migheli, 08.06.2010
Gli occhi della opinione pubblica internazionale sono rivolti a Gaza e Tel Aviv, dovrebbero spostarsi più a nord ad Ankara, Washington e Bruxelles per capire cosa sta avvenendo. L’abbordaggio in acque internazionali delle navi che portavano aiuti umanitari a Gaza nasconde un cambiamento di equilibri che non riguarda solo il Medio Oriente, ma che delinea, probabilmente nuovi assetti geopolitici dell’area, dove l’irrisolto problema palestinese è solo uno dei catalizzatori del conflitto
Con la dissoluzione dell’URSS gli equilibri della regione sono mutati. Il confronto Occidente Unione Sovietica aveva stabilito zone di egemonia che nonostante i conflitti continui tendevano a restare bloccate. Dopo cambia tutto. Per la prima volta dopo la caduta dell’impero Ottomano la Turchia riscopre la sua area di influenza verso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, alcune delle quali turcofone. Un richiamo verso le origini che contrasta con la volontà, più volte espressa di aderire alla Ue. La Turchia, è bene ricordarlo, presentò domanda di adesione al allora MEC già nel 1964, non ricevendone espresso rifiuto ma un programma di adeguamento che incideva fortemente nella sua organizzazione statuale. Questi, per virtù delle riforme volute da Kemal Ataturk, è l’unico paese della NATO dove la Costituzione prevede le Forze Armate come garanti e quindi legittimate ad intervenire quando forze politiche volessero mettere in dubbio il carattere laico dello stato. La Ue, dietro lo schermo delle riforme (ruolo dei militari, magistratura, rispetto delle minoranze, normalizzazione a Cipro, ecc.) ha prolungato le trattative dell’adesione facendo in modo che la stessa idea d’Europa non sia molto popolare tra i cittadini di quel paese. L’avvento al potere del partito islamico moderato AKP che attualmente esprime il premier Erdogan e il presidente della Repubblica Gul, ha accresciuto le diffidenze reciproche per cui l’adesione alla Ue sembra sempre più lontana.
Nei primi anni ’90, su spinta degli Americani, ma anche per combattere i separatisti curdi del PKK di Ocalan, i turchi rafforzarono gli accordi militari con Israele, in funzione anti Saddam e anti siriana. Gli israeliani vendettero o diedero in leasing droni, sistemi elettronici e d’arma per combattere la guerriglia curda nell’est dell’Anatolia. Lo scambio di informazioni e di addestramento per le rispettive aereonautiche divenne un fatto costante, tanto che molti analisti prevedevano che i corridoi turchi, con l’assistenza USA, sarebbero stati utilizzati dall’aereonautica israeliana per colpire gli impianti atomici iraniani.
Ma la collaborazione tra le due potenze non si limitava a questo. E’ provato che istruttori militari israeliani abbiano operato in Georgia contro la Russia, che insieme ai turchi siano intervenuti nel Kurdistan iracheno. Una alleanza a tutto tondo e la Turchia, con gli USA e l’India, erano la triade strategica, poco nota ma efficace, che garantiva lo stato di Israele. Una alleanza quella con la Turchia dove Tel Aviv, ancora nel 2009, ha fornito tecnologia militare ai Turchi per un valore di 2,5 miliardi di dollari. Recentemente però Israele ha frenato le esportazioni militari verso quel paese. D’ora in poi si procederà per autorizzazioni specifiche concesse di caso in caso. La richiesta turca relativa a sistemi di guerra elettronica, i missili contro carro Spike, gli antiaerei con capacità antimissile Barack e persino il mezzo da combattimento pesante per la fanteria Namer resta, per il momento, congelata. Dei rapporti con l’India poco si sa, anche perché in gran parte soggetti a protocolli segreti. Si può però ipotizzare che vi sia assistenza nei sistemi antiaerei- antimissile, nell’avionica e forse anche nel nucleare bellico in funzione anti Pakistan.
Con l’arrivo al potere del partito islamico AKP i rapporti con Israele cominciano a raffreddarsi. Il primo dei motivi fu Piombo Fuso, l’operazione contro Hamas. Poi nell’ottobre scorso le proteste israeliane per la trasmissione di un film su Gaza dalla televisione di stato turca. Fatto che comportò uno scontro diplomatico, con l’umiliazione dell’ambasciatore turco a Tel Aviv. Furono solo le ultime cause. Con l’attuale partito al governo, l’influenza dei militari è andata scemando. Mentre i quadri anziani sono laici filo occidentali ed amici di Israele, i giovani sono, in gran parte, mussulmani osservanti e più legati all’AKP che sentono più vicino alle istanze popolari. Erdogan ne ha approfittato facendo arrestare il 22 febbraio 2010, 40 appartenenti alle Forze Armate, molti dei quali in pensione. Tra questi l’ex comandante della marina Ozden Onek incolpandoli del piano Ergenekon, con il quale avrebbero tentato un colpo di stato. Con questi arresti l’AKP si è liberato dei suoi più potenti oppositori.
La Turchia sotto la spinta dell’attuale maggioranza di governo sta riscoprendo il vecchio impero e il Medio Oriente. Vuole diventare la potenza egemone dell’area. Quindi l’avvicinamento all’Arabia Saudita, l’Egitto e il nuovo interesse per la causa palestinese con le inevitabili frizioni con Israele. E’ noto che chiunque in Medio Oriente aspiri ad essere il paese leader deve mostrare di essere il difensore dei Palestinesi. Lo ha fatto l’egiziano Nasser, il siriano Hassad, Gheddafi, Saddam Hussein. Lo sta facendo l’Iran ed ora la Turchia. L’altro motivo che sta comportando l’allontanamento turco dai suoi alleati tradizionali dell’occidente è la crisi economica. L’Europa non esercita più il fascino di un tempo, l’Euro è in difficoltà.
L’asse dello sviluppo economico si sta spostando verso oriente. Lo stesso paese anatolico esce da anni di crescita ed ha rafforzato i suoi legami, non solo economici, con i paesi del BRIC (Brasile, India, Cina) e l’iniziativa diplomatica sul nucleare iraniano, è solo l’atto più evidente. Questa diplomazia autonoma sta provocando notevole irritazione con gli alleati tradizionali come USA, Germania e in ambito NATO. In questo quadro generale si inserisce la vicenda della Freedom Flotilla e dell’assalto sanguinoso al traghetto Mavi Marmara.
L’ONG IHH, che ha avuto i morti sulla nave turca, è una fondazione caritatevole islamica vicina sia all’AKP che alla palestinese Hamas, perché tutte queste organizzazioni discendono dal movimento di rinnovamento islamico dei Fratelli Mussulmani. Pur essendo la Turchia un paese democratico, i cittadini risentono del controllo discreto dei militari e dello stato, quindi la prima domanda è: solo due anni fa l’IHH avrebbe potuto organizzare una spedizione per forzare il blocco navale israeliano? Di sicuro avrebbe trovato molte difficoltà se non un diniego. Perché oggi sì? Perché oggi anche in Turchia si ascolta il malumore delle piazze islamiche per la situazione palestinese mentre prima non lo si faceva? Peraltro il trattamento che i turchi riservano ai curdi non è che sia migliore.
La risposta, secondo quanto ipotizzano molti osservatori, è che qualsiasi fosse il risultato: sbarco a Gaza o l’opzione tragica, come è poi avvenuta, la Turchia poteva annettersi l’iniziativa, come peraltro sta facendo. Il passato di potenza coloniale, di paese integrato nella Nato, di amico di Israele, sarebbe stato sbiadito.
Gli arabi non amano i turchi da cui sono stati dominati per secoli. La difesa della causa palestinese è un buon motivo per riaccreditarsi senza esporsi direttamente ma con una ONG dentro una composizione internazionale. Un altro motivo, questa volta di politica interna è che i fatti avvenuti al largo di Gaza altro non siano che un ulteriore motivo nello scontro sotterraneo che oppone le Forze Armate all’AKP. Una trappola per Freedom Flotilla e per Israele che ormai sembrerebbe avere reazioni prevedibili da pugile suonato. Questa la prima tesi, ne esiste anche una seconda.
Non è possibile che il governo israeliano si sia dimenticato dei classici della strategia, che i loro servizi non conoscessero l’IHH e il suo carattere islamico e abbiano pianificato lo scontro con gli esiti che poi ha avuto. Il risultato: mettere in difficoltà la Turchia per l’appoggio ad una ONG che loro considerano contigua al terrorismo, mettere ulteriormente in difficoltà Obama per costringerlo a schierarsi con Israele, rinunciando alla soluzione del problema palestinese. La Turchia inoltre, in questo disegno, raffredderebbe i rapporti con gli USA e non sarebbe più l’interlocutrice per una mediazione con l’Iran rafforzando l’opzione della distruzione degli impianti nucleari di quel paese.
Il Grande Gioco che si svolge su quella parte di mondo che va dall’Egeo all’Afghanistan, vede sempre più attori perché le poste sul tavolo sono ormai molte. Sono soprattutto di approvvigionamento energetico, controllo delle fonti idriche, proiezioni di potenza. In questo quadro due le vittime: I pacifisti e il vaso di coccio dei palestinesi, la cui soluzione del problema non interessa ai paesi arabi e all’Iran. Per sessant’anni la situazione dei palestinesi è stata la valvola di sfogo per le masse arabe che potrebbero rivoltarsi contro i loro governi e invece indirizzano la loro rabbia su Israele. Gli unici a cui dovrebbe importare, gli israeliani, non fanno nulla e peggiorano la situazione di giorno in giorno, fidandosi della loro supremazia militare. Come dice lo scrittore Amos Oz: “A chi ha in mano un martello ogni problema sembra un chiodo”.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=15071
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Bce, crisi, Europa di Sergio Bruno
Il ruolo della Bce e la crisi di maggio 08.06.2010
Il potere assoluto della Banca centrale europea ha creato i presupposti dell’odierna crisi del debito, e allo stesso tempo ne ostacola la possibile soluzione
In un articolo precedente ho indicato alcune “zone opache” della teoria economica a monte della crisi finanziaria dell’ultimo biennio. Esistono altre opacità concettuali, a valle delle prime, che incidono sugli assetti e sulle azioni dei policy maker europei. Esse finiscono per essere funzionali alle ambiguità delle quali questi attori sono inclini a servirsi per fingere di conciliare filosofie e interessi non conciliabili. La più recente crisi nella crisi che ha colpito l’Europa (la crisi di maggio) si presta a chiarire alcune di queste opacità e anche a far emergere qualche elemento grottesco.
Le agenzie di rating, ad esempio, sembrano aver avuto un qualche ruolo perverso nella speculazione contro l’euro, di cui il declassamento dei titoli del debito greco non è stato che il preambolo e il pretesto (si parla ora di una autorità europea di sorveglianza sulle agenzie). Prescindendo da eventuali illeciti, sono forse in gioco anche altre responsabilità. Le agenzie hanno potuto innescare le manovre speculative nella misura in cui vengono considerate credibili. Nate per valutare aziende, esse valutano oggi le performance dei sistemi economici. Ma si tratta del punto di arrivo di una metamorfosi, iniziata con il valutare economie marginali, con una successiva estensione ai paesi economicamente avanzati, favorita dalle istituzioni finanziarie internazionali e dalle banche centrali. Alle agenzie, che sono aziende profit making, è stato un dito ed esse si sono prese un braccio, ma con il consenso generale. Eppure avrebbe dovuto essere evidente fin dall’inizio che non avesse senso una credibilità delle agenzie in un campo in cui si cimentano, con pluralità di posizioni diversificate e spesso contrapposte, la comunità degli economisti accademici e i migliori uffici studi.
Non è l’unico aspetto grottesco emerso nelle vicende di maggio. Le agenzie, infatti, avevano una qualche ragione nel valutare il debito dei paesi europei come se si fosse trattato di debiti privati. Con la costituzione della Banca Centrale Europea (Bce) e dell’euro, infatti, l’accensione e l’accumulazione di debiti da parte degli stati membri hanno perduto molte delle caratteristiche che li rendevano qualcosa di profondamente diverso dai debiti privati. Oggi l’indebitamento degli stati assomiglia a quello degli enti locali, senza tuttavia che vi sia come contrappunto un autonomo bilancio nazionale, la capacità dello stato (centrale) di disciplinare efficacemente i comportamenti locali e/o di operare compensativamente, la possibilità da parte dello stato di usare la leva della moral suasion nei confronti della sua banca centrale ovvero di intervenire normativamente sugli obblighi di questa nei confronti dell’autorità statale. Risultato: l’Eurozona è l’unico sistema economico in cui alla moneta comune non fa da contrappunto un bilancio e una autorità federale. Tale peculiarità è stata aggravata dalla totale indipendenza politica della Bce e dalle scelte di forma (una sorta di costituzionalizzazione) e di contenuto (adozione di target fissi sia per i bilanci sia per la creazione di base monetaria) in merito alle politiche fiscali (patto di stabilità) e monetarie (il primo “pilastro” al quale la Bce afferma di attenersi fin dall’inizio del suo operare, corrispondente ad un aumento della base monetaria M3 del 4,5% annuo, non è stato mai cambiato nel decennio, almeno formalmente). Ad una tale rigidità senza pari, vero sogno monetarista fatto realtà, ai associa il fatto a questo punto non sorprendente che l’Europa è l’unico polo competitivo mondiale a non disporre di un’autorità, di rango almeno corrispondente a quello della sua banca centrale, capace di gestire politiche industriali e commerciali –più in generale politiche di parte reale- dialogando con le autorità monetarie (piuttosto che obbedendo ai suoi precetti).
I risultati sono abbastanza evidenti, non solo in termini di perdita di competitività relativa nel corso di un decennio abbondante. Se infatti due terzi dei paesi membri trovano difficoltà a rispettare il patto di stabilità, ciò avrebbe dovuto far squillare qualche allarme, non necessariamente per allentare i vincoli, bensì per capire che è l’architettura complessiva cui mancano alcune chiavi di volta. La crisi di maggio ha invece prodotto il peggiore dei risultati possibili: nessuna modifica di architettura, creazione di una situazione di fatto che obbligava gli stati membri a politiche fiscali restrittive senza che la Bce dovesse usare la usuale arma dei pericoli di inflazione (che in questo caso non sarebbero stati credibili, data la congiuntura), ennesimo rinvio di politiche per lo sviluppo, delegate ancora una volta a generiche ed indirette “riforme strutturali”, cioè a politiche da oltre un ventennio prive di successo e tutte miranti alla flessibilizzazione del lavoro e alla diminuzione degli associati costi.
Confusione e ambiguità, oggi evidenti, sono cominciate con i numeri cabalistici di una decina di anni fa: massimo deficit annuo di bilancio il 3%, “pilastro monetario” al 4,5%. Per quest’ultimo un principio di spiegazione è stato dato: una previsione di crescita intorno al 2,5-3%, un tasso massimo di inflazione considerata accettabile del 2%, stime econometriche asserite essere robuste e stabili che correlano il tasso di inflazione nel lungo periodo alle variazioni di M3 diminuite del tasso di crescita dei flussi reali. E’ buffo però che, nel decennio di attività della Bce, M3 sia aumentata ben al di sopra (intorno al 7%) di quanto annunciato (non ostante il tasso di crescita reale sia stato più basso del previsto), il tasso di inflazione sia rimasto stabile intorno al 2,1% e che tutto questo venga presentato come un successo culturale oltre che politico della Bce. (La lettura diretta dei Bollettini Bce fa pensare più ad una onesta e artigianale navigazione a vista, mentre le argomentazioni di sapore scientifico, ad una attenta lettura, fanno pensare più alla componente retorica della teoria economica messa in luce da Deirdre McCloskey, quando non addirittura alle “derivazioni” di Pareto, che alle proposizioni falsificabili di Popper). Ma perché il deficit, che tutti sembrano considerare un male, è stato fissato al 3 e non allo 0%? Per un compromesso politico ovvero per un dubbio concettuale, non ostante tutto mai sopito, che un po’ di deficit pubblico (come del resto un po’ di inflazione) possa far bene allo sviluppo? Ho ricordato, in questa rivista, come le operazioni sul mercato aperto della banca centrale non costituiscano una spiegazione accettabile della creazione di moneta nel lungo periodo in una economia che cresce (come nascono i titoli? Quando nascono non sottraggono forse moneta?). E allora non è che la previsione di un deficit pubblico serva per consentire alla Bce di monetizzare a sua discrezione i deficit pubblici, sia pure indirettamente? (L’art.101 del Trattato, assurdamente, erige un bastione difensivo per la Bce nei confronti di pressioni politiche in tal senso, stabilendo un divieto per la Bce alla diretta sottoscrizione dei titoli del debito dei paesi membri; quando vuole essa può aggirare il vincolo favorendo variamente l’acquisto dei titoli stessi da parte delle istituzioni bancarie, con corrispondente creazione di liquidità).
Per disinnescare la recente manovra speculativa contro l’euro sarebbe probabilmente bastato un messaggio forte della Bce: l’annuncio che avrebbe comprato sempre, quali che fossero le vendite. Ciò evidentemente nell’ipotesi che l’entità delle riserve, proprie e/o potenziate da interventi internazionali, fosse sufficiente. La Bce ha invece costretto i Paesi membri a trovare un difficile accordo fiscale, stanziando una disponibilità a comprare i titoli dei Paesi considerati a rischio. Ad accordo strappato, la Bce è andata avanti –sembra- senza bisogno al momento di attivare gli impegni di bilancio dei paesi membri. Ciò induce ad ipotizzare che vi fosse altro in gioco: indurre i paesi a cambiare priorità, ponendo i “risanamenti dei bilanci” al primo posto.
La linea guida così affermatasi -risanamento prima, sviluppo dopo- ha un qualche senso alla luce di segni palesi di una domanda complessiva insufficiente, indotta dall’ impoverimento dei ceti medio bassi e alle preoccupazioni delle famiglie? Per chiarire questo punto bisogna riandare a un interrogativo di fondo: il disavanzo pubblico può indurre risposte produttive? Credo si possa dare una risposta affermativa, ma solo a patto di riuscire ad agire sugli investimenti, fornendo segnali affidabili sullo sviluppo e la sua continuità. Si pensi a questo esempio limite. Si immagini di stipulare contratti pluriennali con pool di imprese in cui siano specificati tempi di consegna, tempi di pagamento, eventuali meccanismi di indicizzazione ben studiati. In tali circostanze le imprese coinvolte non avrebbero nessuna remora ad effettuare gli investimenti che servono per far fronte agli impegni contrattuali; e sarebbero tali investimenti ad indurre sia maggiore domanda che la maggiore capacità necessaria ad alimentarla (sia pure superando non banali problemi di coordinamento intertemporale). A tali imprese non interesserebbe comunque se i soldi che ricevono provengono da debito, da moneta stampata per l’occasione o dalla tassazione.
L’esempio, che potrebbe giustamente sollevare perplessità dal punto di vista delle regole concorrenziali, serve solo ad indicare quanto il problema sia quello di fornire al mercato segnali affidabili che giustifichino il rischio di avviarsi in una sequenza virtuosa di investimenti produttivi. Se un segnale del genere potesse essere inviato al mercato, la crescita riprenderebbe e il peso relativo di deficit e debito potrebbero diminuire. L’esempio chiarisce tuttavia anche che non dovrebbe trattarsi del classico deficit spending keynesiano, anticiclico, bensì di una politica fiscale legata a programmi stabili e di lunga durata, gli unici in grado di mettere in moto sequenze di investimenti reiterati nel tempo (una domanda che va e viene non darebbe abbastanza affidamento).
D’altra parte va preso atto seriamente che i debiti pubblici (stock e flussi) domestici dei paesi dell’euro hanno acquisito una natura simile a quella dei debiti dei privati. Le vicende politiche della crisi di maggio hanno ben chiarito questo punto, con stravaganti assonanze tra il punto di vista tedesco e gli atteggiamenti leghisti. Sicché mi sembra possibile asserire con tutta tranquillità che il problema della disciplina dei debiti sia oggi in Europa un problema esclusivamente distributivo; e come tale – aggiungo – conflittuale e scottante. Esso deve essere risolto, ma non va confuso con la diversa questione costituita dalla possibilità di usare politiche di bilancio e deficit, ovviamente solo a livello federale, per promuovere ripresa e sviluppo. Anzi, ripresa e sviluppo sono una condizione per risolverlo alleggerendo le connesse tensioni. La strategia corretta è dunque quella della costruzione graduale di un bilancio federale di dimensioni rilevanti, parzialmente affrancato dalla contribuzione degli stati membri ma capace di crescere e di essere gestito, con le necessarie cautele, facendo ricorso a deficit collegati a programmi funzionali alla accelerazione della crescita e alla promozione di innovazioni, da associare per un verso ad una progressiva riduzione (fino al pareggio) dei deficit degli stati membri e, per l’altro, ad un bilanciamento dell’attuale egemonia assoluta della Banca centrale, analogamente a quanto avviene sull’altra sponda dell’ Atlantico del Nord.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Il-ruolo-della-Bce-e-la-crisi-di-maggio-4638
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Il mondo finisce a Debrecen 09.06.2010
BRUNO VENTAVOLI
Allora è vero che un battito d’ali di farfalla scompiglia il mondo. Lo ha dimostrato giovedì Lajos Kósa, brillante deputato del Fidesz e sindaco di Debrecen. I più hanno bisogno di Google maps per situare esattamente questa città ungherese.
E’ partita da laggiù, da Debrecen, 200 mila abitanti, capitale morale del calvinismo, austera, contadina, raccontata con nostalgia dalla scrittrice Magda Szabó, e finita nel calcio della Champions, la tempesta perfetta che ha messo in ginocchio i mercati finanziari, già moribondi. Al mattino, Kósa, sempre elegante, sempre carismatico e gioviale, ha sostenuto in una conferenza locale, con aria furbesca, che l’Ungheria è come la Grecia, i conti pubblici stanno malissimo perché la sinistra prima al governo ha truccato le cifre. Nella Borsa di Budapest è subito serpeggiato il panico. Ma roba da poco per il mondo, i fiorini erano ancora farfalle.
Kósa non è l’ultimo arrivato. Vicepresidente del partito che ha vinto le elezioni, da tre mandati viene eletto al Parlamento e al vertice della città, e sul sito web di Debrecen saluta in inglese i visitatori. E’ il simbolo della nuova destra magiara. Nato nel ’64, giocava a biglie quando c’erano i comunisti al potere e immense caserme di russi a controllare la situazione, ed è entrato nell’età della ragione quando il patto di Varsavia scricchiolava con le aperture di Gorbaciov. Si è laureato in economia nell’università che si chiamava ancora «Karl Marx», ma voleva finalmente vedere i negozi ungheresi pieni d’abbondanza occidentale, guardava al mercato, al capitalismo, alla «microeconomia». Prima del crollo del Muro, universitario, è stato tra i fondatori del Fidesz, giovani liberali impetuosi come sempre ce ne sono stati nella storia magiara. Solo che non avevano i capelli lunghi alla Petöfi, ma un taglio yuppesco e giacca e cravatta, non declamavano versi, ma cifre di Pil. E non ne potevano più di Mosca.
Parlare male del comunismo è nella loro lingua, nel loro inconscio, nella loro foga. Anche comprensibile, visto che le sfilate del primo maggio, da piccolini, se le sono dovute sorbire tutte. Parlare male del comunismo è la loro arma politica più affilata, anche se il comunismo non esiste più. I neosocialisti, che hanno appena umiliato alle ultime elezioni, avevano per leader Gyurcsány, uno degli uomini più ricchi del Paese, «un socialista in limousine». Kósa, come i suoi colleghi di partito, appena vede un microfono attacca gli avversari. Serve, propagandisticamente, a pararsi le spalle: ora che sono al governo, è difficile mantenere le promesse elettorali di risolvere la crisi senza tagliare e mettere tasse.
Venerdì la Borsa di Budapest apre tremebonda. I giornalisti finanziari vogliono capire se, a Debrecen, Kósa era solo in vena di boutade. No, niente affatto, ripete con tono grave Péter Szijjártó, portavoce del governo. E’ un altro giovane Fidesz ambizioso, ha solo 32 anni, celibe (e di comunismo vero ha visto quasi niente), elegante, un po’ nerd, professionista della comunicazione. Anche lui ha fatto studi economici, e anche lui, appena vinte le elezioni, aveva detto in un’intervista che le sinistre avevano truccato i conti. E così non gli par vero di confermare il collega. Anzi, da «voce» del governo, ci mette un puntiglio di gravità in più, pronunciando la parolaccia «default». Ma non riesce a godersi l’affondo retorico, perché ormai, nel mercato globale, tutto il mondo è Debrecen. Dopo il primo lancio di agenzie la Borsa ungherese è precipitata dell’8%. Le Borse mondiali, che già annaspavano per i dati sull’occupazione americana, la seguono con l’euforia dei naufraghi nel baratro. Il golia Wall Street vacilla colpito dal davide magiaro che scaglia polpette avvelenate alla paprika. Nel bagno di sangue è una gara a vendere qualsiasi titolo collegato all’Ungheria, soprattutto le banche europee.
Quando i mercati finanziari son pieni di cadaveri il governo ungherese fa marcia indietro. E tutti, in poche ore, da Draghi alla Ue, s’affrettano a gettare acqua sul fuoco in ogni angolo del pianeta. Moody’s spiega che l’Ungheria non è la Grecia, Szijjártó e Kósa «hanno straparlato, tipico di un nuovo governo». Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fmi, dal G20 in Corea, si dice «stupito», perché i conti ungheresi sembrano in linea con le previsioni. Lunedì scorso, l’allarme rientra. Il mercato globale non ha problemi a trovare spunti di pessimismo, l’Ungheria torna ad essere solo Ungheria. Chissà, invece, che cosa torneranno ad essere i ruggenti Szijjártó e Kósa? Il segretario di Stato Mihály Varga ha preso ufficialmente le distanze dalle «sfortunate» esternazioni sull’insolvenza nazionale, anche se dieci giorni fa aveva detto la stessa cosa, «c’è un allarmante numero di scheletri nell’armadio», ipotizzando un deficit del 7% (dovrebbe essere al 3,8%).
Intanto, gli ungheresi, abituati ai disastri, reagiscono con la secolare ironia. Budapest è invasa da giornalisti stranieri che cercano di capire. Mai si sono viste così tante troupe americane. Son fin orgogliosi, e ridacchiano. Per qualche giorno il mondo ha parlato d’Ungheria. Debrecen è stata come la pistolettata di Sarajevo. Meno male che stavolta le trincee sono fatte solo di future.
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Illustrissimo Presidente Napoletano 05.06.2010
Illustrissimo Presidente,
spesso i politici dicono e fanno cose con lo scopo di accattivarsi la simpatia dei cittadini elettori. Prestando molta attenzione a non urtare le sensibilità e le suscettibilità. Evitando scomodi argomenti che potrebbero far perdere qualche voto al loro partito.
L’esatto contrario, ci verrebbe da dire, di quanto fa quasi quotidianamente buona parte della politica nazionale. Quella stessa politica che per mano della Legge (e di un Prefetto costretto suo malgrado a farla rispettare) mette sotto accusa un sindaco perché troppo virtuoso, sobrio e concreto nella gestione di un servizio come la raccolta dei rifiuti.
Per affrontare la cosidetta emergenza rifiuti in Campania, infatti, il Governo ha emanato una Legge specifica per la Regione che, in buona sostanza, impone a tutti i comuni di cedere la gestione della raccolta e smaltimento dei rifiuti a consorzi provinciali. Questo senza nessuna distinzione tra comuni efficienti e non, tra chi spreca e chi risparmia, tra chi gestisce direttamente e in modo efficace e chi specula e sperpera denaro pubblico.
Il Comune in questione, proprio per uscire da una situazione paradossale, qualche anno fa ha deciso di gestisce direttamente la raccolta e il conferimento dei rifiuti nei siti preposti. Una scelta che il tempo ha rivelato giusta.
Il Sindaco si chiama Vincenzo Cenname, guida l’amministrazione del Comune di Camigliano (CE), comune virtuoso scelto dall’associazione dei Comuni Virtuosi nel novembre 2009 come sede per la cerimonia di premiazione della terza edizione del nostro Premio Comuni a 5 stelle.
E’ un comune con il 65% di raccolta differenziata, che fa il compostaggio domestico e ha abbassato la tariffa ai cittadini, che ha messo i pannolini lavabili al nido e raccoglie e recupera gli olii esausti.
E’ un comune che ha deciso di interrompere la cementificazione del territorio (e le odiose speculazioni edilizie conseguenti), che fa risparmio energetico montando le lampade a LED nel cimitero comunale.
E’ un comune che è stato in grado di bloccare una cava abusiva, dando un segnale inequivocabile e fermo di legalità e rispetto delle regole in un territorio da questo punto di vista dolorosamente compromesso.
E’ un comune virtuoso, insomma, dove il buon senso fa rima con accoglienza e partecipazione, condivisione e concretezza.
In una provincia, quella di Caserta, dove la cronaca quotidiana parla di possibili infiltrazioni camorristiche e dove il Prefetto e le istituzioni locali e nazionali avrebbero il DOVERE di intervenire con mano ferma e senso di responsabilità.
Un Comune (Cenname è sostenuto dalla sua maggioranza e dalla comunità nel suo insieme) il cui sindaco non ha intenzione di retrocedere di fronte alla minaccia di commissariamento ricevuta a mezzo raccomandata dalla Prefettura.
“Consapevoli delle conseguenze (scioglimento del consiglio comunale e nomina di un commissario prefettizio), e guidati da uno spirito politico di onesto ed autentico servizio nei confronti della cittadinanza, non abbiamo alcuna esitazione a rimettere il nostro mandato politico, se azione politica non ci è più consentito di svolgere”.
Forse è proprio questa la pietra dello scandalo della nostra esperienza di comuni virtuosi: abbiamo un’idea della politica come un servizio reso alla comunità, a tempo determinato e non come professione.
Riteniamo le istituzioni (in primis quelle locali) come un luogo in cui agire il nostro essere cittadini di una comunità, con le nostre idee e i nostri sogni, le nostre speranze e convinzioni, certi che dal confronto e dalla contaminazione con l’altro passi la giusta sintesi che porta ad una comunità più sobria e sostenibile, inclusiva e partecipata.
Il silenzio assordante della politica nazionale e dei media rispetto a questa vicenda paradossale e assurda, ci ferisce e ci sprona a chiedere l’intervento diretto della massima carica dello Stato, il Presidente della Repubblica, perché riteniamo che lo Stato non possa dare un segnale come questo, in un momento come questo e in una zona come la provincia casertana: punire un comune perché troppo efficiente e virtuoso, alla cui guida governa una classe dirigente onesta, trasparente ed efficace, sarebbe un segnale nefasto e una sconfitta per tutti.
Chiediamo quindi a Lei, Presidente Napolitano, di interessarsi al caso, e se condivide la nostra profonda preoccupazione e la nostra frustrazione, di verificare tutte le strade e gli strumenti percorribili nel rispetto delle Leggi per impedire quello che sarebbe, a tutti gli effetti, un enorme autogol per le istituzioni che Ella rappresenta a nome e per conto del popolo italiano.
Confidando in una cortese risposta, Le porgiamo cordiali saluti.
Il Comitato direttivo dell’Associazione Comuni Virtuosi
LUCA FIORETTI, Sindaco di Monsano (AN) e Presidente Associazione Comuni Virtuosi
MARCO BOSCHINI, Assessore di Colorno (PR) e Coordinatore Associazione Comuni Virtuosi
DOMENICO FINIGUERRA, Sindaco di Cassinetta di Lugagnano (MI) e membro del comitato direttivo
IVAN STOMEO, Sindaco di Melpignano (LE) e membro del comitato direttivo
EZIO ORZES, Assessore di Ponte nelle Alpi (BL) e membro del comitato direttivo
ALESSIO CIACCI, Assessore di Capannori (LU) e membro del comitato direttivo
Alle firme in calce si aggiungono i 27 comuni presenti all’ultima assemblea generale dell’Associazione, svoltasi lo scorso 28 maggio a Firenze, in cui all’unanimità è stata espressa piena solidarietà alla battaglia di principio che sta portando avanti in queste ore Vincenzo Cenname e l’amministrazione di Camigliano (CE).
http://www.marcoboschini.it/?p=1592
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Le nuove leadership
una sfida per l’Europa 10.06.2010
MIKHAIL GORBACIOV
Pochi mesi fa politici, economisti e mezzi di informazione hanno iniziato a discutere se fosse finita o meno la crisi globale scoppiata nell’autunno 2008. I più pensavano che il peggio fosse passato e che presto si sarebbe riavviata una crescita stabile.
Il nuovo giro di turbolenze finanziarie ed economiche che ha colpito l’Europa ha colto di sorpresa gli esperti, smentendo le previsioni frettolose di una fine della crisi. Ancora una volta, i leader politici e gli esperti hanno dovuto rivedere le loro ipotesi e i loro progetti.
In Europa questo processo è particolarmente doloroso. Come il tracollo di una diga i problemi che si sono accumulati per molti anni in un Paese, la Grecia, hanno causato una frana che minaccia l’euro, il futuro dell’Unione europea e la ripresa economica globale.
E’ un altro richiamo alla interconnessione del mondo globalizzato. Per gli europei, questo è un serio motivo in più per riflettere sulla natura e il ritmo di integrazione del continente.
Non voglio unirmi al coro del panico. Le voci sull’imminente scomparsa dell’euro gli sono chiaramente esagerate. Ma è stato colpito duramente, e questo dimostra che la moneta unica senza adeguati meccanismi di regolamentazione – politica ed economica e fiscale – è estremamente rischiosa. Nell’euforia per l’allargamento dell’Unione europea tali rischi erano stati sottovalutati. Ora, l’Ue si trova ad affrontare il compito immediato di arginare la crisi e prevenirne la diffusione ad altri Paesi.
La prossima sfida è quella di sviluppare meccanismi per il controllo dei bilanci degli Stati membri dell’Ue. Questo va al cuore del problema della sovranità. Non è affatto certo che gli Stati si adatteranno a una tale violazione della loro «Sancta santorum». E’ un problema politico importante, che porterà per certo a un dibattito difficile e alla lacerante ricerca di un compromesso.
Vedo in questa crisi il sintomo di una tendenza assai radicata e profonda che è pericolosa per l’Europa e per il mondo. Il rischio è che l’Europa perda il suo ruolo di motore economico, politico e culturale dello sviluppo globale – un ruolo che ha svolto per almeno gli ultimi tre secoli.
Questi timori e queste previsioni sul «declino dell’Europa» stanno diventando sempre più diffusi, per diverse ragioni.
Molti Paesi del Terzo Mondo, già assai indietro, stanno ora facendo enormi passi avanti nella crescita economica. Con ogni probabilità ben presto rivendicheranno posizioni chiave nell’economia mondiale, relegando sempre più l’Occidente a ruoli di supporto.
Negli ultimi tre o quattro decenni i prodotti occidentali hanno perso competitività nei confronti delle merci prodotte in Oriente e in altre regioni in via di sviluppo. Non si tratta solo più di tessile, abbigliamento e calzature; la concorrenza, con successi via via maggiori ora avviene in campi come l’industria meccanica e delle costruzioni navali, l’elettronica, la produzione di auto e di software – settori in cui l’Occidente, una volta godeva di un virtuale monopolio.
Questo ha portato alla fuga dei capitali e delle industrie dall’Occidente e a tassi di disoccupazione persistentemente elevati in Europa – tassi aggravati ora dalla crisi. Se continua così, l’Europa dovrà affrontare una crisi politica che potrebbe compromettere la sua maggiore e storica conquista: la stabilità democratica.
Aggiungete a questo l’incalzante invecchiamento della popolazione europea. La percentuale di cittadini in età lavorativa è in rapida diminuzione, presto potrebbero non essere più in grado di sostenere la popolazione a riposo e, più in generale, lo stile di vita a cui gli europei sono abituati.
Quindi, ci sono tendenze che agiscono in profondità dietro le turbolenze economiche e fiscali in Europa. Eppure i rimedi proposti fin qui riguardano per lo più la finanza pubblica e una quantità di prescrizioni per «tagli dolorosi» di pensioni, prestazioni sociali e altre spese di bilancio. E’ un percorso irto di pericoli.
Gli europei sono scesi in piazza per protestare contro i forti tagli della spesa sociale. La loro protesta è comprensibile. Sono convinti che la crisi non sia stata causata dalle pensioni o dagli assegni sociali e danno la colpa al fallimento delle politiche economiche e ai super-profitti e all’avidità di quelli che percepiscono ancora enormi bonus e dividendi mentre la gente comune tira la cinghia.
Né vi è una soluzione rapida per i problemi demografici dell’Europa. L’afflusso continuo di immigrati con mentalità, culture e religioni diverse coincide con l’aumento della xenofobia ed è percepito come una minaccia all’identità nazionale.
L’Europa è messa sotto pressione da tutti i tipi di problemi: quelli causati dal corso naturale degli eventi e quelli che avrebbero potuto essere evitati. E le conseguenze, politiche e non solo economiche, sono inevitabili. Una è la prospettiva che altri centri di potere prenderanno la leadership nella comunità mondiale, nazioni a cui molti europei guardano con rispetto ma anche con apprensione.
«Perdere l’Europa» dovrebbe essere inconcepibile. Questo, temo, sarebbe una vera e propria – non solo metaforica – fine della storia. Una storia a cui l’Europa, nonostante le sue mancanze e tragedie, ha contribuito così tanto con i valori universali di civiltà e cultura. Che tipo di Europa potrebbe riconquistare la leadership mondiale? È tempo di pensare a costruire una grande comunità intercontinentale da Vancouver a Vladivostok, con la piena partecipazione degli Stati Uniti e Russia. Questa è l’unica possibilità per l’Europa di tornare a esercitare la sua forza di stabilizzazione nel mondo.
Dopo la fine della guerra fredda, gli europei ha fatto un errore enorme rifiutandosi di proseguire sulla strada della piena integrazione con la Russia, che è e si considera parte inalienabile di una Grande Europa.
Anche noi siamo in parte da biasimare per aver «scollegato» la Russia e l’Europa. L’errore deve essere corretto. Il processo di modernizzazione che sta iniziando in Russia offre un’opportunità unica. La Russia sta avviando un vero e proprio cambio di direzione. Sta abbandonando il modello economico basato sulla risorse, riattrezzando le sue industrie e promuovendo i settori innovativi del business che fanno leva sull’enorme potenziale intellettuale della nazione.
Come ho spesso affermato, una modernizzazione tecnologica ed economica di successo richiede una revisione delle strutture politiche e una accelerazione dei processi di democrazia. Questo non indebolirà la Russia, come molti nel nostro Paese temono. Aprirà nuove opportunità per progredire e per costruire una forte comunità transnazionale che non cercherà il confronto con il resto del mondo. Cercherà invece di consolidare il potenziale di Russia, Europa e Stati Uniti per il bene di tutti.
Ora abbiamo bisogno di un segnale chiaro da parte dei leader di Russia, Stati Uniti e Unione europea che devono comprendere la necessità di un tale consolidamento. Se lo fanno, dovrebbero iniziare a lavorare sulle specifiche di questo grande progetto.
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Le centrali solari? Tante e meglio se ‘galleggianti’: “Non basta mettere pannelli sui tetti” 08.06.2010
Le centrali solari galleggianti potrebbero fornire quantità di energia maggiori rispetto a quelle sulla terraferma, e senza impatti ambientali.
Ne è convinta la società svizzera Nolaris, che sta sviluppando il progetto chiamato “isola solare”: un’isola artificiale rotonda galleggiante, ricoperta con specchi solari a concentrazione.
Concettualmente si tratta di una struttura costituita da un anello circolare cavo (del diametro di circa 20 metri e di lunghezza variabile fino a molti km). La superficie interna è formata da un enorme telo di speciale materiale plastico appoggiato su grandi cavi di acciaio in tensione, ma di fatto sostenuto dalla pressione dell’aria che resta intrappolata tra il telo e la superficie del mare e che viene messa in pressione. Sul telo sono appoggiati gli specchi solari e le strutture di impianto.
La Nolaris sta costruendo negli Emirati Arabi Uniti un prototipo su scala ridotta di 88 metri di diametro (circa 5.000 metri quadrati), per una potenza di picco di 1 MW (250 kW di potenza media) e una produzione di elettricità di circa 3.000 kWh al giorno. A regime, un’isola solare potrà coprire anche un’area di 20 chilometri quadrati (diametro di circa 5 km) per una capacità, nelle zone equatoriali, di 1.000 MW. Ma anche un’isola più piccola, di 6,4 chilometri quadrati, potrebbe produrre nelle condizioni più favorevoli 1,5 miliardi di kWh all’anno: “Una cifra paragonabile a una piccola centrale nucleare”, secondo il project manager Philippe Müller, ovvero ad un ottavo della generazione annuale di una grande centrale nucleare La tecnica dell’isola solare facilita di molto la possibilità di avere sempre un’inclinazione ideale rispetto ai raggi solari.
Infatti, invece di ruotare i singoli specchi in base al movimento del Sole, come nelle centrali solari tradizionali, in questo caso a ruotare è la piattaforma su cui sono fissati gli specchi.
Inoltre, secondo Müller, un’isola solare potrà anche spostarsi durante l’anno da una zona all’altra nei mari tropicali, in modo da ottimizzare sempre l’incidenza dei raggi solari.
Per il trasporto dell’energia, invece che alla connessione con la rete elettrica a terra, Nolaris pensa di sottoporre a elettrolisi il vapore, per produrre idrogeno che potrà essere trasportato a terra in appositi contenitori. La manutenzione invece sarà affidata a robot telecomandati, con il compito primario di tenere puliti gli specchi.
Secondo Thomas Hinderling, direttore esecutivo della Nolaris, “non basta mettere i pannelli fotovoltaici sui tetti: il mondo ha bisogno di energie pulite su vasta scala, ed è quello che fa l’isola solare”. Diversi Paesi hanno manifestato interesse per la tecnologia dell’isola solare, fra cui Cile, Malta e Qatar.
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Gli uomini d’oro del Vaticano
il finanziere nella cappella Sistina
Dopo Balducci, un altro Gentiluomo di sua Santità al centro di una rete di affari opachi: è Herbert Batliner, benefattore della Chiesa. Il club più esclusivo del mondo, quello dei gentiluomini di Sua Santità, nasconde molti misteri sui rapporti tra conti off-shore e Vaticano
di FERRUCCIO PINOTTI e UDO GÜMPEL
Gli uomini d’oro del Vaticano il finanziere nella cappella Sistina
NELLE SEGRETE stanze della finanza vaticana più “oscura” non c’è solo il caso di Angelo Balducci, figura chiave del sistema Anemone e degli affari sporchi con la politica: se si scava più a fondo si scopre che il club più esclusivo del mondo, quello dei Gentiluomini di sua Santità, nasconde altre inquietanti verità, che portano a chiedersi come mai Ratzinger, a distanza ormai di cinque anni dall’inizio del suo pontificato, non abbia fatto pulizia negli oscuri meandri della finanza off-shore che prospera all’ombra dello Ior, dell’Apsa (Amministrazione Patrimonio Sede Apostolica), di Propaganda Fide e di molte società partecipate dal Vaticano. Raztinger, infatti, ha portato alla guida dello Ior un banchiere dell’Opus Dei, Ettore Gotti Tedeschi, inquisito (e poi prosciolto) per il caso Parmalat e molto legato a Gianmario Roveraro, centrale nella quotazione di Parmalat e ucciso poi da strani killer, e il Vaticano sta coprendo una serie di situazioni ancora più strane, che hanno radici lontane ma che presentano analogie col caso Balducci.
Per parlarne bisogna illuminare una figura molto legata con San Pietro, il “re” della finanza off-shore in Liechtenstein, Herbert Batliner, un anziano professionista, classe 1928, a sua a volta figlio d’arte. Batliner è il massimo esperto di fiduciarie off-shore, ma anche l’uomo nell’ombra della finanza vaticana. Per avere una fotografia nitida da cui partire per raccontare questa strana storia bisogna fissare una data, il 9 settembre 2006.
Una giornata importante, per papa Ratzinger e per Herbert Batliner, presidente di una fondazione con sede in Liechtenstein, la Peter Kaiser Gedächtnisstiftung, che ha come scopo statutario la difesa dei valori cristiani in Europa. Quel giorno lo “gnomo degli gnomi” avrebbe incontrato papa Ratzinger, a Ratisbona, in Baviera, per regalargli un prezioso organo a canne del valore di 730mila euro destinato proprio alla chiesa di Ratisbona.
Era una giornata di gloria che l’avvocato di Vaduz attendeva da tempo, dopo gli anni difficili e le intricate vicende che ne avevano infangato il nome. Per decenni Herbert Batliner, nominato gentiluomo di Sua Santità già da Giovanni Paolo II, aveva operato dietro le quinte, silenziosamente, per il bene dell’Europa cristiana.
Ma poi era stato qualificato da un rapporto del Servizio segreto tedesco Bnd e da Der Spiegel come il “re dei fiduciari”, la “centrale del lavaggio di denaro sporco”, “l’amico di evasori e gangster”. Eppure Herbert Batliner – pochi lo sanno – era e resta un autentico uomo di fiducia del Vaticano da oltre 30 anni. E per questo, quel 9 settembre 2006, era venuto a Ratisbona, per donare quel prezioso organo a Benedetto XVI. Mentre Batliner compiva questa buona azione, tuttavia, qualcuno si stava interessando a lui. Era il Dipartimento 35 della Procura di Bochum, fiore all’occhiello dello stato tedesco nella lotta all’evasione fiscale. Lì, a Bochum, il nome di Batliner era scritto a caratteri cubitali su più di 400 fascicoli aperti a partire dal 2000, ovvero l’anno in cui un dipendente “infedele” del noto avvocato aveva consegnato al fisco tedesco un cd-rom pieno di dati segreti dello studio Batliner.
In quel momento si aprì un mondo fino a quel momento completamente sconosciuto, per gli 007 del fisco tedesco. Gli 007 arrivarono a definire il “sistema Batliner” come un meccanismo perfetto che per anni aveva sottratto al fisco tedesco almeno 250 milioni di euro di imponibile. Ed era certo una stima per difetto. Il ruolo di Batliner risultò subito centrale: creava di persona le società paravento, le Anstalt, le Stiftung; e poi le gestiva a nome di clienti di tutto il mondo che cercavano l’anonimato assoluto in Liechtenstein. Il 9 settembre 2006, chi osservò Batliner muoversi nella “Piccola Cappella” di Ratisbona potè notare in lui un certo nervosismo. Ogni tanto il notissimo professionista girava la testa, come per accertarsi se qualcuno lo aspettasse fuori, per capire se la polizia in divisa e gli agenti in borghese si trovavano lì per proteggere il Papa, e non per occuparsi di lui. Le sue paure non erano infondate. Era infatti un vero miracolo che Herbert Batliner potesse incontrare papa Ratzinger: in quel momento, pur risiedendo in Lichtenstein, era formalmente ricercato in Germania.
Com’era riuscito Batliner a ottenere di incontrare personalmente Papa Ratzinger? Dopo mesi di serrate trattative e grazie alla “moral suasion” degli ambienti vaticani, la Procura di Bochum aveva ceduto a forti pressioni, garantendo al gentiluomo del Papa un “salvacondotto” per quell’incontro e consentendogli un percorso dal confine austriaco-tedesco fino a Ratisbona e ritorno. La motivazione ufficiale, che poi si è rivelata risibile, era che Batliner era gravemente malato. Solo grazie a questo artificio fu evitato lo scandalo dell’arresto in chiesa di un gentiluomo del Papa: appena un anno dopo, nell’estate del 2007, Batliner ammetteva le sue colpe e scendeva a patti con lo Stato tedesco, accettando il pagamento di una sanzione di due milioni di euro.
Il salvacondotto concesso a Batliner per l’incontro con Benedetto XVI destò un vero scandalo in Germania. E ci fu chi ironizzò sulla vicenda accostandola alla storia del predicatore medioevale Tetzel che, durante il papato di Giulio II, vendeva lettere di indulgenza papale per la remissione dei peccati in cambio di denaro che serviva a finanziare la costruzione della basilica di San Pietro: una protesta che aveva segnato nel 1517 l’inizio della Riforma, guidata da Martin Lutero. La cattiva fama di Batliner superò in seguito i confini della Germania e del Liechtenstein. E nel 1999 il Presidente della repubblica austriaca Thomas Klestil rifiutò un assegno di beneficenza di 56 mila franchi perché proveniente proprio da Batliner. Tre anni dopo, la Suprema Corte del Liechtenstein confermò, in una sentenza, che Batliner già nel 1990 era il fiduciario dell’ecuadoriano Hugo Reyes Torres, indicato come boss della droga, nel frattempo condannato. Per conto del barone della droga, segnala The Independent, Batliner avrebbe riciclato 15 milioni di euro.
Il gentiluomo di sua santità, il “più noto e discusso fiduciario del Liechtenstein”, come lo definisce il settimanale svizzero Weltwoche, sponsor dell’Hockey Club di Davos, forte di un patrimonio stimato in 200 milioni di euro, era diventato noto per la prima volta in Germania all’inizio degli anni Novanta nell’ambito dello scandalo delle casse nere della Democrazia Cristiana tedesca, la Cdu. Un ammanco di oltre 8 milioni di euro. “Appropriazione indebita personale”, si giustificò il capo della Cdu dell’Assia Roland Koch, pesantemente coinvolto nella vicenda. Una vicenda che vide Batliner in un ruolo senz’altro centrale, ma di cui le reali implicazioni restano ancora nebulose dato che il Lichtenstein non collabora con le amministrazioni giudiziarie degli altri Paesi, tranne nei casi di omicidio o traffico di droga. Batliner era l’uomo giusto per queste operazioni. Chi cercava un rifugio sicuro per il proprio denaro si rivolgeva a lui, il decano dei fiduciari. Il commento che una volta l’avvocato rilasciò in merito alle pesanti accuse rivoltegli resta lapidario: “Non sono un padre confessore, che deve interrogare i suoi clienti per scoprire se questi rispettano o meno le leggi dei loro rispettivi Paesi d’origine”.
L’incontro a Ratisbona fu per Herbert Batliner senz’altro uno dei momenti più alti della sua vita. Le cronache dell’incontro ci restituiscono l’atmosfera. L’organo comincia a suonare. L’organista intona un brano di Bach. Herbert Batliner è raggiante e sembra abbia esclamato: “Se gli angeli suonano per Dio, scelgono Bach. Se suonano per se stessi, scelgono Mozart”. Ma quell’organo non era il primo che il benefattore del Liechtenstein avrebbe regalato alla Chiesa cattolica: il 14 dicembre 2002 il Cardinale Angelo Sodano, Segretario di Stato e Vice Decano del Collegio Cardinalizio, presiedeva il rito di benedizione del nuovo organo della Cappella Sistina, regalato anche in questo caso dallo stesso Batliner. Il maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Piero Marini, si rivolgeva direttamente al benefattore affermando solennemente: “Il nostro ringraziamento va al Prof. Dott. Herbert Batliner, Presidente della Fondazione Gedächnisstiftung Peter Kaiser e Gentiluomo di Sua Santità”.
L’avvocato di Vaduz, questo è certo, godeva della massima fiducia dei Papi: già nel 1998 Giovanni Paolo II lo aveva nominato Gentiluomo di Sua Santità, il più alto rango che un laico può raggiungere in Vaticano. La prima onorificenza papale, la croce “Komturkreuz des Päpstlichen Silberordens mit Stern”, gli però era stata conferita già nel lontano 1970. Nel 1993 seguì il “segno d’oro” della diocesi di Innsbruck, per meriti speciali. Alla nomina di Gentiluomo di Sua Santità si aggiungeva, nel 2001, anche la Gran Croce dell’Ordine Papale di San Gregorio: Herbert Batliner era ed è uno dei laici più decorati in Vaticano.
Dal 1994, inoltre, Batliner è Presidente del Consiglio della Fondazione della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. È curioso ciò che scriveva l’1 gennaio 1994 papa Giovanni Paolo II nel documento di nomina: “I membri dell’Accademia sono scelti dal Pontefice in base alla loro competenza e alla loro integrità morale”. A questo punto s’impongono alcune domande: in base a quale competenza “morale” è stato scelto il re dei fiduciari vaticani nel Lichtenstein? Dal 1990 era noto il coinvolgimento di Batliner nello scandalo delle casse nere dei democristiani tedeschi; dal 2000 in poi il suo nome era associato al più grande scandalo di evasione fiscale in Germania. È difficile decifrare i motivi di un comportamento “ad alto rischio di vergogna” come il rapporto strettissimo e inspiegabile del Vaticano con Herbert Batliner, di vago sapore nibelunghiano.
Tra l’altro, i suoi guai legali sono proseguiti anche in seguito. Nel gennaio 2009 il tribunale del Liechtenstein si è dovuto occupare del vecchio “tesoro” dei democristiani tedeschi dell’Assia nella fondazione Alma Mater, gestita da Batliner. Oltre ai sei milioni di marchi spariti dai conti, restano ancora aperte alcune domande degli inquirenti: quanti soldi neri giacevano ancora sui conti dell’Alma Mater e chi esattamente aveva versato i soldi? Ufficialmente, come intestataria della società, figurava una vedova di nome Christa Buwert. Ma nel processo davanti alla Corte del Lichtenstein si sono scoperti fatti sorprendenti: per esempio che Batliner, fiduciario della fondazione, nel 1998 avrebbe effettuato un versamento di 10 milioni di franchi svizzeri da questi fondi ai propri conti personali. Un anno dopo quel versamento Batliner riceveva dalla vedova (nel frattempo ammalatasi di demenza senile) 1,2 milioni di franchi per comperare un quadro. La Corte del Liechtenstein, su istanza dell’avvocato d’ufficio della vedova, ha però costretto Batliner a restituire quei soldi. Batliner si è lamentato di questa sentenza, perché il “quadro aveva un alto valore emozionale, fatto di ricordi”.
Batliner è l’uomo chiave anche in una strana, piccola banca italiana: la Banca Rasini, l’istituto di credito che finanziò gli inizi di Silvio Berlusconi e che era diretto dal padre Luigi. Batliner era infatti l’uomo che gestiva e rappresentava tre misteriose società che erano azioniste forti della Rasini: si tratta della Wootz Anstalt di Eschen, della Brittener Anstalt di Mauren e della Manlands Financiere S. A. di Schaan, tutte situate del Liechtenstein. Batliner ne era rappresentante legale insieme a un altro “gnomo” della finanza vaticana, Alex Wiederkehr. Wiederkehr è anch’egli membro dell’inner circle della finanza vaticana e fa parte di una nota famiglia di gnomi svizzeri. Insieme a Wiederkehr, Batliner era una figura chiave nella Banca Rasini, coinvolta nel blitz di San Valentino del 14 febbraio 1983 che portò all’arresto di molti mafiosi di stanza a Milano; una banca indicata dallo stesso Sindona come la banca della mafia a Milano. La riprova che Batliner fosse l’uomo della finanza vaticana nella Rasini viene anche dal fatto che altri importanti azionisti della Rasini, gli Azzaretto, erano fiduciari della finanza vaticana sin dai tempi di Papa Pacelli, come recentemente ammesso da Dario Azzaretto in una intervista a chi scrive.
Un “dettaglio” altrettanto interessante e inquietante è che Batliner, gentiluomo del Papa e longa manus del Vaticano nella Banca Rasini, è anche coinvolto nella vicenda del tesoro nascosto della Fiat. Batliner è infatti il fondatore della Prokuration Anstalt, che a sua volta controlla il First Advisory Group, il quale ha materialmente costituito il Trust Alkyone, la principale cassaforte offshore destinata a raccogliere il patrimonio estero dell’avvocato Agnelli. E nel consiglio di amministrazione di Alkyone compaiono la moglie dell’avvocato Batliner, Angelica Moosleithner, Ivan Ackermann e Norbert Maxer della Prokuration Anstalt. Nel 2001 venivano inoltre nominati, accanto ai consiglieri di amministrazione, i protettori del Trust: Gianluigi Gabetti, Franzo Grande Stevens e, naturalmente, Gianni Agnelli.
Oggi Herbert Batliner si divide tra la sua clientela “top” e i campi da hockey di Davos. Nonostante sia stato accusato di essere l’uomo del riciclaggio dei fondi neri della politica ed abbia riconosciuto di essere uno dei maggiori esperti di evasione fiscale, Ratzinger non fa nulla per rimuoverlo. Dopo l’esplosione del caso Balducci-Anemone, il Vaticano ha dichiarato formalmente che i gentiluomini di sua santità sono “professionisti di indubbia moralità e qualora si dimostri il contrario le dimissioni dall’incarico sono doverose”. Eppure, se si entra nella fornitissima libreria del Vaticano situata accanto a piazza San Pietro e si acquista il gigantesco Annuario Pontificio, si scopre, a pagina 1822, che Herbert Batliner è sempre lì, nel cuore dell’organigramma del potere vaticano, come presidente del Consiglio della Fondazione per la Promozione delle Scienze Sociali. I vecchi amici non si abbandonano mai.
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/06/10/news/vaticano_uomini_d_oro-4711209/
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La Grecia e il signoraggio al cubo 08.06.2010
di Giulietto Chiesa
L’hanno chiamata “operazione salvataggio” della Grecia. In realta’ il cosiddetto “aiuto” del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Centrale Europea e’ un’ulteriore bastonata collettiva inferta ai cittadini greci. Ulteriore, perche’ la Grecia non si troverebbe in questa situazione se non avesse gia’ perduto la sua sovranita’. L’hanno gia’ perduta, sotto i colpi del mercato finanziario mondiale, tutti gli altri Stati Europei. E la perdita della sovranita’ e’ racchiusa nella consegna, alla speculazione finanziaria internazionale, del suo debito.
Basti dire che, se l’operazione “funzionera’”, il debito della Grecia passera’ nei prossimi tre anni, dall’attuale 115% del prodotto interno lordo al 150. Cioe’ si puo’ gia’ prevedere, matematicamente, che nel 2013 la situazione in Grecia sara’ peggiore di quella di oggi, con un paese in recessione, disoccupazione crescente, consumi a terra.
Sempre che la ribellione popolare, nel frattempo, non sia sfociata nel sangue e non costringa un governo “socialista” a sparare sulla gente. E poi vedremo cosa succedera’ ad altri due governi “socialisti”, Spagna e Portogallo, che stanno anticipando le mosse per evitare di trovarsi nella stessa situazione della Grecia. Ma le anticipano obbedendo alle direttive della finanza internazionale, fatte proprie dall’Unione Europea. Il che significa che la loro situazione s’aggravera’ comunque, e il servizio sul debito, imposto dagli speculatori, diventera’ sempre piu’ grave. Perche’? Semplicemente perche’ non si puo’ trovare una soluzione all’interno della logica che ha prodotto il disastro della finanza mondiale, ai cui inizi (inizi, non fine) stiamo assistendo. Diranno, i giornali e le tv, che e’ colpa dei greci, degli spagnoli, dei portoghesi, poi degli italiani, che vivono “al di sopra delle loro possibilita’”. E i gonzi ci crederanno, aiutati in questo dagli economisti di regime (quasi tutti) che hanno magnificato la truffa, essendone ampiamente remunerati.
Naturalmente la storia vera e’ un’altra. E’ la storia dell’Impero di questi ultimi 20 anni. Che ha imposto al mondo intero la sua globalizzazione. E cos’e’ stata, in sostanza, la globalizzazione americana? Un trucco, inventato dall’e’lite finanziaria americana (protetta e fortificata dal dollaro come moneta mondiale, imposto con la forza) per costringere il mondo intero a pagare il suo debito, estero e di bilancio. Detto in termini piu’ brutali, ma anche piu’ esatti, un popolo, quello americano (e quello delle e’lites dei paesi ricchi e dei paesi meno ricchi) e’ divenuto a tal punto consumatore compulsivo da essere ormai incapace di risparmiare. Il miliardo d’oro e’ diventato un debitore cronico inguaribile. In primo luogo le classi medie americane.
Tutto e’ stato fatto per tenerle (per tenerci) al guinzaglio con uno smodato livello di consumi, cioe’ con un parossistico indebitamento. Il risparmio interno americano e’ da tempo con segno negativo (consumi che superano i redditi). Chi paga? Paghera’ il resto del mondo. Come? Attraverso la deregulation: la piu’ gigantesca e spregiudicata manovra di raggiro violento mai tentata nella storia umana, se si eccettuano, forse, le costruzioni delle piramidi.
In cosa e’ consistita la manovra? Nel consegnare ai mercati (a Wall Steet, che e’ il mercato numero uno) gli strumenti per determinare, dall’esterno, le politiche economiche dei singoli paesi. E come si fa? Prendendo possesso dei titoli di debito di quei paesi, mettendoli in vendita e determinando i tassi d’interesse per il loro servizio. E’ cosi’ che tutti gli Stati sono diventati debitori, chi piu’, chi meno. Non solo: debitori impossibilitati a pagare e costretti a indebitarsi ulteriormente presso gli stessi strozzini.
Per fare questo occorreva pero’ un trucco preliminare: rendere le Banche Centrali del tutto indipendenti dai rispettivi governi e privatizzarle. In tal modo le Banche Centrali hanno lavorato per costringere i governi sotto le forche caudine dei mercati finanziari. Cioe’ un pugno di qualche centinaio di persone, mai elette da nessuno, ha stretto una miriade di lacci attorno al collo dei popoli.
Quando i mercati finanziari sono crollati per conto proprio, ecco questa gang mondiale correre in soccorso alle banche truffatrici per salvarle. Con cosa? Con prestiti pubblici, pagati dai cittadini, a tassi quasi nulli. Ma le banche truffatrici, cosi’ salvate, non hanno allargato il cappio con cui tenevano e tengono impiccati gli Stati ex sovrani. Che ora vanno in bancarotta uno dietro l’altro. E, per non andare in bancarotta, impongono misure restrittive drammatiche sui redditi della gente comune e sui servizi vitali per la popolazione. Cioe’: per tenere in vita la speculazione selvaggia, che ha prodotto mondialmente, in questi ultimi decenni, un trasferimento netto di ricchezza dai poveri verso i ricchi attorno al 20% del Pil mondiale, si impoveriscono ancora gli strati piu’ poveri della popolazione. Il rigore viene imposto non agli speculatori, ma ai cittadini.
Si spezza un patto sociale creando le condizioni per una esplosione di conflitti, dal quale sperano, sempre loro, di uscirne con soluzioni autoritarie. Questo e’ il signoraggio elevato al cubo. C’e’ una sola soluzione (ma non la si sente proporre dai sindacati, dai partiti che dovrebbero essere di sinistra, dalle opposizioni). Nazionalizzare il debito degli Stati e sottrarlo ai mercati finanziari. Il Giappone l’ha fatto, l’Argentina anche: entrambi ne sono usciti benissimo. Rinazionalizzare le Banche Centrali e’ la seconda mossa indispensabile. Respingere la decisione europea di inasprire i controlli degli Stati da parte dei mercati finanziari.
E’ la fine dell’Europa, dell’euro? Niente affatto. E’ la fine della truffa. In ogni caso chi agita questi spauracchi dovrebbe sapere che questo meccanismo e’ gia’ al collasso, e non lo salvera’ neppure la somma di sacrifici che si richiedono ai popoli incolpevoli e raggirati. Hanno ragione i greci che dicono: “non pagheremo”. Questa e’ la risposta che deve risuonare in ogni piazza d’Europa.
Tratto da: lavocedellevoci.it
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DDL intercettazioni: il bavaglio (anche alla Rete) è servito. 10.06.2010
Il Senato ha votato la fiducia al DDL intercettazioni, scrivendo così una delle pagine più buie della storia di questo Paese, una pagina tanto buia da proiettare un cono d’ombra sugli anni che verranno, perché un Paese con meno libertà di informazione di quanta il nostro ne abbia avuta sin qui è destinato – direi quasi in applicazione di una funzione matematica – a divenire un Paese senza democrazia.
La stessa Corte Costituzionale – che c’è da augurarsi sarà presto chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del provvedimento normativo appena approvato al Senato – ha, infatti, già definito, in anni “meno sospetti” di questo, la libertà di informazione come “pietra angolare della democrazia”.
L’elenco dei senatori responsabili del sacco dell’informazione è qui (1–2) e, credo, vada consegnato alla storia con un semplice link: ciascuno di questi signori ha fatto una scelta, non sta a me dire quanto libera, preferendo difendere la propria poltrona e la propria appartenenza ad una squadra ed ad un Signore piuttosto che la libertà di informazione del proprio Paese.
Sin qui sono considerazioni “politiche” e personali, a caldo, delle quali mi scuso con quanti frequentano questo blog alla ricerca di informazioni, suggestioni ed opinioni sul diritto delle nuove tecnologie e la politica dell’innovazione.
Il titolo del post, invece, trae origine da un fatto e non da una mia opinione.
Approvando l’intero DDL intercettazioni, infatti, il Senato ha oggi approvato anche il famigerato comma 28 (ora divenuto 29) dell’art. 1 che mira ad imporre l’obbligo di rettifica previsto dalla vecchia legge sulla stampa all’intera blogosfera.
Questo è il testo della norma che sta per entrare in vigore:
29. All’articolo 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo il terzo comma è inserito il seguente:
«Per le trasmissioni radiofoniche o televisive, le dichiarazioni o le rettifiche sono effettuate ai sensi dell’articolo 32 del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177. Per i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono.»;
b) al quarto comma, dopo le parole: «devono essere pubblicate» sono inserite le seguenti: «, senza commento,»;
c) dopo il quarto comma è inserito il seguente:
«Per la stampa non periodica l’autore dello scritto, ovvero i soggetti di cui all’articolo 57 bis del codice penale, provvedono, su richiesta della persona offesa, alla pubblicazione, a proprie cura e spese su non più di due quotidiani a tiratura nazionale indicati dalla stessa, delle dichiarazioni o delle rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro reputazione o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto di rilievo penale. La pubblicazione in rettifica deve essere effettuata, entro sette giorni dalla richiesta, con idonea collocazione e caratteristica grafica e deve inoltre fare chiaro riferimento allo scritto che l’ha determinata.»;
d) al quinto comma, le parole: «trascorso il termine di cui al secondo e terzo comma» sono sostituite dalle seguenti: «trascorso il termine di cui al secondo, terzo, quarto, per quanto riguarda i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, e sesto comma» e le parole: «in violazione di quanto disposto dal secondo, terzo e quarto comma» sono sostituite dalle seguenti: «in violazione di quanto disposto dal secondo, terzo, quarto, per quanto riguarda i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, quinto e sesto comma»;
e) dopo il quinto comma è inserito il seguente:
«Della stessa procedura può avvalersi l’autore dell’offesa, qualora il direttore responsabile del giornale o del periodico, il responsabile della trasmissione radiofonica, televisiva, o delle trasmissioni informatiche o telematiche, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, non pubblichino la smentita o la rettifica richiesta.».
Il rischio che oggi diviene realtà è quello che ho già paventato decine di volte: all’indomani dell’entrata in vigore della nuova disciplina sulle intercettazioni, la Rete rischia di “chiudere per rettifica” (lo scrivevo, ironia della sorte, esattamente l’11 giugno del 2009!).
Che siate un blogger, il gestore di un “sito informatico” o piuttosto abbiate un canale su You Tube, in un momento qualsiasi, magari nel mezzo delle Vostre agognate vacanze, qualcuno potrebbe chiedervi di procedere alla rettifica di un’informazione pubblicata e Voi ritrovarvi costretti a scegliere se dar seguito alla richiesta senza chiedervi se sia o meno fondata, rivolgervi ad un avvocato per capire se la richiesta meriti accoglimento o, piuttosto, opporvi alla richiesta, difendendo il vostro diritto di parola ma, ad un tempo, facendovi carico di grosse responsabilità.
Ve la sentirete di rischiare in nome della libertà di parola attraverso un blog che non vi da da mangiare e vi porta via, invece, decine e decine di ore di sonno?
Temo che in molti risponderete (o magari risponderemo) di no!
E se vi distraesse un attimo dal vostro blog, magari, per lavorare e riceveste una richiesta di rettifica?
In forza della nuova disciplina andreste in contro ad una sanzione fino a 12 mila e 500 euro per non aver provveduto alla rettifica entro 48 ore…
Quando quasi un anno fa, la Rete scese in piazza con il primo sciopero dei blogger per rappresentare questo rischio, in molti ci diedero dei visionari o, piuttosto, degli agitatori, rilevando che la maggioranza si era già attivata, aveva compreso l’errore e vi avrebbe posto rimedio.
Nulla di ciò e poi accaduto: gli onorevoli del PDL ed i loro supporters in Rete non hanno mosso un dito e quella norma è divenuta legge – o si avvia a divenirlo – senza che nessuno si sia preoccupato di intervenire se non per peggiorarla.
Da domani, in Rete, si parlerà di più di moda, cucina, motori, spettacolo e gossip e molto meno di politica, economia e affari giudiziari…più o meno come accade già oggi in TV.
Credete sia un caso? Io no. Sono convinto che l’obiettivo scientificamente perseguito nel Palazzo resti sempre lo stesso: trasformare la Rete in una grande TV.
P.S.
Ricevo e volentieri diffondo questo comunicato stampa dei Senatori Vita e Vimercati attraverso il quale si annuncia la presentazione di un disegno di legge abrogativo del comma 29:
INTERCETTAZIONI, VITA E CASSON (PD), “BAVAGLIO SULLA RETE”
Dichiarazione dei senatori del Pd Vincenzo Vita e Felice Casson
“Tra i tanti passaggi liberticidi e censori del maxiemendamento sulle intercettazioni ce n’è anche uno devastante per la rete. Infatti, per ciò che attiene alla ‘rettifica’, si equiparano i siti informatici ai giornali. Ciò significa rendere la vita impossibile per le migliaia di siti e di blog, che rappresentano un’altra era geologica dei media. Un nostro emendamento al riguardo non ha potuto essere discusso perché la fiducia taglia tutto. Ma la destra televisiva o non lo sa o, probabilmente, ha voluto approfittare di simile occasione per mettere le mani dove ancora non era riuscita a farlo. Non finisce qui. Intendiamo presentare, d’intesa con i colleghi della Camera dei deputati, un disegno di legge seccamente abrogativo della seconda parte della lettera a del comma 29 che recita: “per i siti informatici sono pubblicate entro 48 ore dalla richiesta…”. Appunto, dimenticando che la rete è proprio un’altra cosa”.
Roma, 10 giugno 2010
http://www.guidoscorza.it/?p=1883
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di Benedetto Vecchi
Vite precarie oltre l’ordine costituito 11.06.2010
L’eclisse della modernità
In due libri dello studioso Zygmunt Bauman l’ambivalenza e il consumo diventano la chiave di accesso alla comprensione di società che sacrificano la libertà in nome della sicurezza. Una analisi che si ferma però sulla soglia di come pensare criticamente la trasformazione della realtà
Il Novecento è stato il secolo delle promesse non mantenute. Secolo tremendo, certo, ma che lascia un’eredità respinta da molti contemporanei: la convinzione, cioè, che fosse possibile abolire il regno della necessità dove vivono la maggioranza degli uomini e delle donne per instaurare quello basato della libertà. Una promessa che non va iscritta solo al socialismo, l’esperienza più congrua all’idea di progresso maturata agli albori della modernità, ma anche alle società capitaliste. Perché se a Est dell’Elba quell’orizzonte così vicino, ma al tempo stesso lontanissimo di libertà ha legittimato regimi politici autoritari, nell’Europa figlia della grande filosofia tedesca e francese il capitalismo ha invitato uomini e donne a marciare compatti verso un avvenire in cui la sicurezza economica era in armonia con i diritti civili, politici e sociali. Il socialismo e il capitalismo potevano inoltre fare leva su uno strumento davvero efficace nel trasformare in realtà la promessa di libertà, e di felicità. Lo stato-nazione, infatti, come un buon giardiniere era legittimato a estirpare tutte le erbacce che potevano infestare la nazione nel processo di costruzione di una società perfetta. Alla fine del Novecento di quella promessa si vedono solo le macerie. Ma sbaglierebbe chi pensasse solo ai detriti lasciti dalla caduta del Muro di Berlino, perché è il progetto moderno che ha subito uno smacco, una sconfitta, perché il giardiniere, cioè lo stato, ha fallito nel suo progetto di edificare la società perfetta. Il disordine, il ritorno di credenze che si pensavano definitivamente archiviate grazie all’uso della ragione occupano ormai la scena stabile sia nelle realtà nazionali postsocialiste che nell’opulento capitalismo.
La retorica postmoderna
A scrivere del fallimento della modernità non è un incallito decostruzionista folgorato dagli scritti di Jacques Derrida o un nichilista sui generis, ma l’appassionato studioso della modernità Zygmunt Bauman in un volume scritto nel 1991 e finalmente tradotto dalla casa editrice Bollati Boringhieri (Modernità e ambivalenza, pp. 347, euro 25). Scritto cioè negli anni segnati dalla caduta del Muro e dall’annuncio di una guerra, quella del Golfo: due eventi, per usare un’espressione che lo studioso polacco giustamente usa con molta parsimonia, che hanno davvero cambiato il panorama mondiale. Bauman, tuttavia, non è né un nostalgico delle democrazie popolari e ha ancora ben forte il ricordo della seconda guerra mondiale per rigettare culturalmente e politicamente il ricorso agli eserciti per dirimere i conflitti tra stati. Scrive il saggio mettendo i due eventi sullo sfondo, perché vuol fare i conti con la retorica, allora imperante, sulla fine delle grandi narrazioni e con quel minimalismo teorico che è stato chiamato postmoderno. Termine quest’ultimo che Bauman usa sempre con circospezione per alcuni anni, per poi abbandonarlo e sostituirlo con «modernità liquida», espressione diventata così di moda che in tempi recenti, come nel libro pubblicato una manciata di settimane prima di quello sull’ambivalenza (L’etica in un mondo di consumatori Laterza, pp. 235, euro 16), preferisce laasciarla cadere nell’oblio, perché corrosa nella sua capacità descrittiva dal rumore di fondo che caratterizza la discussione pubblica.
Nonostante siano separati da vent’anni, i due libri sono tuttavia complementari, perché nel primo sono definiti tutti i nodi teorici che nel secondo saggio trovano una parziale soluzione, laddove Bauman afferma che viviamo ancora in una modernità che continua a inseguire il sogno di una libertà tanto radicale quanto foriera di felicità. Ma lo strumento per trasformare quel sogno in realtà non attiene più allo stato-nazione, ma al consumo, dove il principio del piacere regna sovrano. Peccato, però, che il consumo non consente che una misera libertà, quella appunto di essere plasmati dalla merce che si acquista e si getta via dopo poco tempo, perché si rischia di essere «disconnessi» dalla società. In altri termini, per Bauman, il consumo è la forma attraverso il quale viene esercitato un impalpabile dominio. In questo caso, però, la categoria dell’ambivalenza torna utile. Da una parte il consumo è sì la forma socialmente definita per ratificare l’assoggettamento al regno della necessità, ma per chi vive precariamente sul confine tra inclusione e esclusione sociale è il modo per ottenere il riconoscimento di alcuni diritti civili e sociali.
Ma se nel libro Modernità e ambivalenza lo studioso di origine polacca voleva fare i conti i conti con le contraddizioni del progetto moderno, nel saggio dedicato al consumo preferisce svelare l’inganno che si cela dietro la centralità assegnata al principio del piacere, in base al quale ogni uomo o donna può recidere ogni legame e rapporto di reciproca responsabilità con i suoi simili. Insomma, due momenti di un movimento della prassi teorica di Bauman dove i fratelli gemelli della società contemporanea – il caos e l’ordine – sono ricondotti alla comune matrice racchiusa nel progetto di «buona società».
Il tratto saliente della modernità, afferma Bauman, è la continua battaglia contro l’ambivalenza, che non è, come sostengono alcuni filosofi, un limite del linguaggio nel nominare una realtà sfuggente, bensì il sentimento dominante di qualsiasi forma di vita sociale. Ogni azione, ogni scelta ha una sua ambivalenza, cioè sono azioni e scelte aperte a esiti tra loro sempre confliggenti. Per questo la modernità ha come pilastri l’attitudine a catalogare, classificare, definire, manipolare quei comportamenti tanto individuali che collettivi per impedire all’ambivalenza di manifestare il suo potere, alimentando così il caos. E così, mentre si appresta a realizzare un così ambizioso progetto, la modernità svela anche il suo lato oscuro, coercitivo, autoritario. Un lato oscuro che nel Novecento ha talvolta preso il sopravvento, mettendo in discussione e spesso all’angolo le aspirazioni alla libertà, all’eguaglianza e alla fraternità.
In difesa del flâner
Questa «dialettica dell’illuminismo» ha avuto, ma questo è noto, la sua massima manifestazione nelle baracche e nei forni allestiti a Auschwitz per sterminare gli ebrei. Nei lager, infatti, le arti della catalogazione, della pianificazione per cancellare ogni forma di ambivalenza sono state coltivata con un’attitudine moderna. Da questo punto di vista, l’ambivalenza strutturale delle figure dello straniero e dell’ebreo ha costituito la condizione mimetica di una resistenza al principio ordinatore della modernità. Lo straniero e l’ebreo, figure distinte, ma spesso coincidenti, sono infatti gli «indecidibili», cioè vivono in una società che non li vuol mai sentire parte integrante della nazione. E per quanti sforzi facciamo, gli stranieri e gli ebrei, per essere assimilati, rimangono sempre incarnazione di una estraneità. Meglio di un’ambivalenza considerata ostile per chi definisce le regole dell’ordine sociale.
La resistenza alla funzione ordinatrice della modernità mette così in discussione il suo lato oscuro, oppressivo, assieme al concetto stesso di società. Da questo punto di vista è del tutto condivisibile il richiamo a Georg Simmel, lo studioso tedesco che ha messo al centro della sua analisi sulle forme di vita metropolitane proprio il concetto di ambivalenza in quanto carattere immanente della socialità, cioè di quell’attitudine solo umana al vivere insieme per produrre le condizioni necessarie alla riproduzione della specie. Il flâner e il conseguente atteggiamento blasè studiati da Georg Simmel, e da Walter Benjamin, sono quindi da considerare come il rifiuto dell’imposizione di una verità che la modernità vuole universale. Ma la verità, come l’universalismo dei valori, hanno una funzione sociale, sono cioè i termini in cui si manifesta il rapporto asimmetrico di potere tra dominanti e dominati. E questo il secondo smacco che la modernità conosce, perché la critica al concetto di verità e dell’universalismo dei valori nasce proprio nel cuore della modernità, in quella Europa e in quegli Stati Uniti che si sono investiti del ruolo civilizzatore del mondo.
La forza dissacrante del postmoderno risiede dunque nell’aver usato tutti gli strumenti della modernità per criticarla. E proprio quando celebra la fine della modernità, il postmoderno ne riafferma una delle caratteristiche principali, l’esercizio della critica e la potenza della ragione rispetto alle credenze particolari. Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole. Non fine della modernità, ma l’eclissi di quella fiducia nel progresso che avrebbe avuto al capolinea della storia .la società perfetta tanto agognata. Più prosaicamente, annota amaramente Bauman, è ormai il consumo la linfa vitale delle società contemporanee. Attraverso il consumo uomini e donne inventano la loro identità, che si può cambiare allorquando arriva sul mercato un’altra linea di abbigliamento o telefono cellulare. Ed è attraverso il consumo che si combattono, infine, le battaglie per il riconoscimento, dopo che le appartenenze sociali hanno perso il potere ordinativo.
Identità prêt-à-porter
È in questa situazione che lo stato-nazione ha dismesso i panni del giardiniere e si è riconvertito al mestiere di guardiano affinché la santa trinità delle società tardomoderne – securitè, paritè, reseau, cioè sicurezza, parità e rete – sia al riparo dalla potere potenzialmente distruttivo dell’ambivalenza. L’ambivalenza va quindi addomesticata, facendola diventare la leva per alimentare la spinta a nuovi consumi che «l’essere malinconico» della tardomodernità viva la sua condizione di infelicità e di oppressione come tollerabile.
Lo stato garantisce quindi la sicurezza, aggiornando continuamente la tassonomia degli stranieri e degli indesiderabili in nome della sicurezza nazionale. Al mercato il compito di garantire la parità non delle condizioni sociali, ma di essere sulla stessa linea di partenza nella corsa all’acquisto, attraverso una merce griffata, di uno stile di vita e di una identità. Ai singoli spetta il compito di costruire la propria appartenenza, attraverso una effimera rete di legami che non vincola niente e nessuno.
Celebrato come uno dei massimi sociologi della contemporaneità, Bauman è uno studioso che ha sempre privilegiato l’ottimismo della ragione rispetto al pessimismo della volontà. Se critica va fatta ai suoi testi riguarda il rifiuto di considerare l’ambivalenza un fattore potenzialmente sovversivo della realtà. L’ambivalenza non come ambiguità, ma come condizione aperta alla possibilità di trasformare la realtà. Accanto alle figure dello straniero e dell’ebreo andrebbe infatti aggiunta anche quella del «precario». Il precario e la precarie sono infatti l’incarnazione dell’ambivalenza. Oscillanti tra lavoro e non lavoro, sono costretti nella camicia di forza di un lavoro salariato spogliato però di quei diritti sociali che lo avevano reso condizione sopportabile. Non vincolato a nessuna stabile e duratura gerarchia, ma tuttavia costretti a inventaris il suo reseau sociale. Ma questa condizione ambivalente è aperta alle possibilità della trasformazione sociale. Di questo programma di lavoro teorico e politico Bauman sorriderebbe. Ha attraversato il Novecento e ha sperimentato nella Polonia il vecchio adagio che le strade dell’inferno sono lastricate sempre da buone intenzione. In questo caso non ci sono però buone intenzione, ne la ricerca della strada per il paradiso. Semmai c’è l’urgenza teorica e dunque politica di riprendere il cammino verso il regno della libertà.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20100611/pagina/11/pezzo/280218/
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Tratto da La “normalizzazione” del Giappone: reazione degli Usa verso i Paesi “emergenti” 08.11.2010
di Matteo Pistilli
“un controverso incidente avvenuto nella notte del 26 marzo davanti alle acque territoriali della Corea del Nord: le agenzie occidentali hanno riportato l’affondamento di una corvetta sud-coreana ad opera di un sottomarino di Pyongyang: il problema però è che quella stessa notte era in corso una esercitazione militare navale congiunta Usa-Corea del Sud, e sembra dubbio – anche ad una firma del Washington Post (3) – che durante un simile dispiegamento di forze (quasi una provocazione allo stato nord-coreano, vista la vicinanza al suo spazio), un sottomarino possa essersi avvicinato senza essere notato dagli avanzati radar ed abbia potuto abbattere una corvetta fra l’altro utilizzando un missile tedesco (La Corea del Nord non utilizza quel tipo di armamenti). Comunque sia è evidente come il ventilato pericolo nord-coreano risponda alla logica dall’amministrazione statunitense e venga utilizzato come spauracchio nelle relazioni con il Giappone (e nell’area), non essendoci più “l’impero del male” sovietico con cui giustificare il dispiegamento delle proprie basi militari.”
L’articolo continua sul ruolo della Turchia che vorrebbe acquisire nell’area, di cui ho già postato precedentemente.
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Angela Merkel e la scure sul welfare
Federico Bianchi, 12.06.2010
La manovra affonda un significativo colpo di forbici a quello che costituisce uno dei sistemi di stato sociale più corposi dei paesi europei, toccando soprattutto le categorie più marginali: i disoccupati – che nelle regioni orientali costituiscono percentuali significative – vedranno i loro sussidi e la loro assistenza pensionistica diminuire considerevolmente; ma così accadrà anche alle varie forme di assistenza economica con cui lo stato tedesco favoriva la natalità, finanziando congedi parentali per i lavoratori
Che possa servire da esempio per gli altri paesi: questo l’auspicio della cancelliera tedesca Angela Merkel nel presentare, lunedì scorso, la più imponente manovra economica della storia tedesca. Con un «atto di forza straordinario», il governo ha progettato un piano di tagli al bilancio statale che dovrebbero permettere al paese più importante della zona-Euro di risparmiare ben 86,3 miliardi di euro in soli quattro anni: dall’anno prossimo fino al 2014.
Quello che il parlamento dovrà approvare è un piano di risparmi crescenti, volti a risanare il debito pubblico tedesco, riportando il rapporto deficit-PIL (oggi al 5% circa) alla soglia del 3% consentita dal patto di stabilità europeo: se nel 2011 i risparmi saranno di circa 11,1 miliardi di euro, nel solo 2014 la Germania dovrebbe arrivare a risparmiare ben 32,4 miliardi di euro sul bilancio.
La manovra affonda un significativo colpo di forbici a quello che costituisce uno dei sistemi di stato sociale più corposi dei paesi europei, toccando soprattutto le categorie più marginali: i disoccupati – che nelle regioni orientali costituiscono percentuali significative – vedranno i loro sussidi e la loro assistenza pensionistica diminuire considerevolmente; ma così accadrà anche alle varie forme di assistenza economica con cui lo stato tedesco favoriva la natalità, finanziando congedi parentali per i lavoratori. Se dai tagli al welfare la Germania dovrebbe risparmiare fino a poco meno di 30 miliardi di euro sulla spesa pubblica, altri 15 miliardi dovrebbero derivare dal risparmio sugli stipendi di circa 15.000 dipendenti pubblici, che non saranno sostituiti una volta giunti alla pensione. Infine la riforma delle forze armate, dai contorni però ancora oscuri: ai tagli di spesa e di organico, potrebbe in futuro aggiungersi l’eliminazione del servizio di leva militare, ancora obbligatorio. Non solo tagli, però, prevede il pacchetto: in controtendenza rispetto a molti altri paesi europei, anche un piano di investimenti, fino a 15 miliardi di euro, nei settori strategicamente fondamentali per lo sviluppo dell’istruzione e ricerca scientifica.
La decisione arriva dopo settimane di fuoco per la coalizione al governo, composta dai democristiani (Cdu) di Angela Merkel, dai conservatori bavaresi della Csu e dai liberaldemocratici (Fdp) del vicecancelliere Guido Westerwelle: la crisi greca e l’attacco all’euro, avevano spinto l’esecutivo a discutere una soluzione per la riduzione di un debito da anni sopra la soglia concessa dal trattato di Maastricht. Discussione che si è aggiunta alle tensioni già esistenti fuori e dentro la maggioranza di governo, in seguito agli eventi delle ultime settimane, che hanno reso sempre più insicura la tenuta della coalizione guidata dalla Merkel: alle incertezze economiche si sono aggiunti la sconfitta elettorale della maggioranza nelle elezioni regionali in Nordreno-Vestfalia, il calo di popolarità di una leader – tutto sommato – piuttosto amata e, infine, le dimissioni del presidente della Repubblica Horst Köhler, del partito della cancelliera.
Per la coalizione giallo-nera di governo, la vittoria strategicamente più importante, è stato l’essere riusciti a licenziare un imponente piano di risanamento del debito pubblico, senza aver dovuto alzare le tasse sui redditi o sui consumi. Costretti all’intervento anche da una norma costituzionale che impone allo stato uno stretto controllo periodico sulle finanze pubbliche, i ministri della Merkel sono riusciti a trovare un compromesso tra una fazione più incline all’aumento delle tasse e un’altra, quella liberale, non solo fermamente contraria all’innalzamento delle imposte, ma addirittura decisa, in futuro, a procedere al taglio delle tasse, come contenuto nel programma di coalizione. Il dibattito è tutt’altro che chiuso.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=15118
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Il sito ha già imbarazzato la Difesa con il video di una strage in Iraq
Pentagono a caccia dell’uomo degli scoop 13.06.2010
Il fondatore di Wikileaks potrebbe mettere online migliaia di file top secret
Il sito ha già imbarazzato la Difesa con il video di una strage in Iraq
Pentagono a caccia dell’uomo degli scoop
Il fondatore di Wikileaks potrebbe mettere online migliaia di file top secret
Julian Assange
WASHINGTON — Migliaia di documenti segreti della diplomazia americana potrebbero entro breve fare la loro apparizione sulla rete e mettere in serio pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. I servizi del Pentagono stanno freneticamente cercando di rintracciare l’australiano Julian Assange, fondatore del sito Internet Wikileaks, specializzato nella pubblicazione di carte top secret, in un disperato tentativo di convincerlo a non far uscire il materiale apparentemente in suo possesso, la cui pubblicazione metterebbe in grave imbarazzo Washington, rivelando analisi, giudizi riservati e orientamenti strategici degli Usa sull’intera regione mediorientale.
Secondo il Daily Beast, il quotidiano online diretto da Tina Brown, le autorità americane sono convinte che Assange abbia ricevuto in tutto o in parte i 260 mila fascicoli riservati del Dipartimento di Stato, che un analista dello spionaggio militare, Bradley Manning, ha scaricato dai computer governativi e trasmesso al fondatore di Wikileaks per farli pubblicare. Manning, 22 anni, era di stanza in Iraq ed è ora agli arresti in Kuwait, in attesa che un’indagine chiarisca l’entità dell’infrazione. «E’ una cosa che prendiamo molto sul serio. Il danno potenziale ai nostri interessi è molto alto», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri, P. J. Crowley.
Manning avrebbe avuto accesso ai cable, anche vecchi di alcuni anni, preparati dai diplomatici americani in tutto il Medio Oriente, riguardanti il lavoro dei governi arabi e dei loro leader. Le memorie fisse dei computer da cui ha scaricato i file sono attualmente all’esame degli specialisti del Pentagono. «A Hillary Clinton e ai suoi ambasciatori verrà un infarto, quando una mattina scopriranno che un intero archivio riservato di politica estera è a disposizione del pubblico» avrebbe detto Manning a Adrian Lamo, l’ex hacker che lo ha denunciato al Pentagono, dopo una serie di conversazioni online, durante le quali l’analista si era vantato delle sue imprese. Fra le altre cose, Manning avrebbe anche ammesso di essere stato lui a fornire a Wikileaks il video del 2007, mandato in rete da Assange nello scorso marzo, dove si vede l’attacco di un elicottero americano a Bagdad nel quale vennero uccisi 12 civili, compresi due dipendenti dell’agenzia Reuters.
L’uscita del video mandò in bestia i comandi militari Usa. Ma anche se coronata da successo, la caccia del Pentagono ad Assange potrebbe non servire a nulla. Gli stessi inquirenti coinvolti nella ricerca dell’australiano ammettono che non sia affatto chiaro cosa potrebbero legalmente fare per bloccare la pubblicazione dei documenti sul suo sito. Cerchiamo la sua cooperazione», ha detto al Daily Beast uno dei funzionari coinvolti nell’inchiesta. Assange non ha una dimora fissa. In marzo ha trascorso alcune settimane a Reykjavik, in Islanda, dove aveva organizzato il lancio del video dell’elicottero, titolato «Collateral Murder », assassinio collaterale.
In aprile era stato negli Usa, dove aveva rilasciato alcune interviste. Ma la scorsa settimana, atteso a New York al Personal Democracy Forum, si era collegato via Skype dall’Australia, dicendo che i suoi avvocati gli avevano raccomandato di non tornare in America. Venerdì mattina infine Assange doveva parlare a una conferenza internazionale di giornalisti investigativi a Las Vegas, ma all’ultimo momento ha cancellato per email l’impegno, invocando «problemi di sicurezza». Nel frattempo, Wikileaks mantiene un atteggiamento di ambiguità sulle sue intenzioni. Dapprima ha definito «non corrette », ma non le ha smentite del tutto, le informazioni secondo cui il sito avrebbe ricevuto i 260 mila cable di Manning. Poi, ieri mattina, ha messo le mani avanti, annunciando via Twitter che «ogni segno di comportamento inaccettabile da parte del Pentagono o dei suoi agenti verso di noi sarà condannato». Secondo gli inquirenti federali, il sito fa dei «giochetti semantici », mentre si prepara alla pubblicazione del materiale top-secret: «Forse non hanno tutti i 260 cablogrammi, ma ne hanno abbastanza per combinare guai», ha commentato un analista della Difesa.
Paolo Valentino
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La rassegna stampa di http://www.caffeeuropa.it/ del 15.06.2010
Le aperture
Corriere della Sera: “Fiom dice no, Fiat va avanti. Niente firma su Pomigliano. L’ azienda convoca i sindacati”. “Tute blu Cgilcontro l’accordo sullo stabilimento: è sciopero. Appello del governo a Epifani. Di Angelo Panebianco l’editoriale “Quella libertà che non piace. Il fascino retrò dei vincoli”. Raffaella Polato firma l’articolo “La fabbrica senza qualità”. A centro pagina “Fini frena, tensione nel Pdl. Berlusconi: niente ricatti. Intercettazioni. Il presidente della Camera: prima la manovra”. In prima “Il caso De Santis. L’umiliazione dell’imputato in manette”.
Sulla prima pagina de Il Corriere della Sera, un richiamo alla lunga intervista che il quotidiano ha realizzato con l’ex-presidente del Senato, ex-Ppi, Franco Marini: “Il Pd è quasi un monocolore”, dice Marini. E invita gli ex-popolari a “fare fronte”: si appella quindi a Letta, Franceschini, Bindi e Fioroni. Eppure Marini dice di non vedere il rischio di scissione, poiché la scelta di un partito riformista ha ragioni storiche.
La Repubblica titola in apertura: “Fiat Pomigliano, è rottura, la Fiom boccia l’accordo. I metalmeccanici della Cgil:’Impossibile firmare quel testo’. Sciopero di 8 ore il 25 giugno”. In prima l’intervista a Guglielmo Epifani “Marchionne ci ripensi, la fabbrica non è una caserma. Il protocollo va riscritto su malattia e scioperi”. A centro pagina “legge-bavaglio, Fini frena. Berlusconi: ora basta ricatti” “Intercettazioni di Fassino, i pm chiedono la testimonianza coatta di Ghedini”. In fondo “Il Caso” firmato da Michele Serra “Appalti, favori e amici, lo scandalo di Lunardi”.
La Stampa: “Pomigliano, la Fiom dice no” “’Non discutiamo di norme illegittime’. Epifani: ma non si può far saltare tutto” “Il sindacato dele tute blu conferma il sì ai 18 turni. Respinto il referendum. Attesa per oggi la firma delle altrre sigle con Fiat”. Firmato da Luca Ricolfi “La manovra che punisce i virtuosi”. Di spalla Oliviero Toscani scrive: “Diamo lavoro alle Province”. In prima: “Fini: non c’è fretta. Berlusconi: un ricatto. Nuovo scontro sulle intercettazioni. Il presidente della Camera. Prima ci sono i ‘conti’”. L’analisi di Carlo Federico Grosso “Il vero obiettivo è il controllo dei pm”.
Il Giornale apre con l’immagine del calciatore De Rossi. Col Parguay 1-1 d’incoraggiamento. A centro pagina “Soldi del Pd, non avete indagato. Giudice di Milano contro i pm. Il gup Panasiti scrive in uan sentenza che la Procura sottovalutò i dosier sui fondi esteri della Quercia. E dopo sei mesi il governo Prodi seppellì tutto con una legge ad hoc”. Due gli editoriali su “Il congedo (forzato) di paternità”, l’uno firmato da Giordano Bruno Guerri “Con il bebè per legge? Sacrosanto” e l’altro di Vittorio Feltri “Macchè: imposizione senza senso”.
Il Foglio “L’allarme spagnolo accelera l’adozione della ‘Merkel rule’ in Europa. La cancelliera impone le regole di ‘governo economico’, Sarkozy si adegua. Voci sul collasso di Madrid”. In prima su intercettazioni e manovra “Tra sospetti e minacce riprendono i negoziati di pace del Cav. con Fini. Riunione degli ambasciatori di Alfano e Ghedini con Bocchino e Augello, uno scambio di lettere d’intenti”.
Il Sole 24 ore:“su Pomigliano il no della Fiom. Pressing sul segretario Epifani per la firma – Marcegaglia: un sì per il Paese. Il piano Fiat. Per i metalmeccanici Cgil è impossibile sottoscrivere i testo dell’accordo perchè in violazione a contrattti e Costituzione” L’editoriale di Alberto Orioni “E’ per tutti il tempo di ragionare”. A centro pagina “Tesoro in Afghanistan. Scoperti giacimenti per 850 miliardi di euro”. In prima “Allarme liquidità in Spagna. Moody’s declassa la Grecia. Frattini: pronti al veto sul patto Ue – Bankitalia: debito record”. Sempre in prima “Confindustria: per favorire gli investimenti va prorogata a fine anno la Tremonti ter. Intesa unitaria (102 euro) per i calzaturieri”.
Fiat e Fiom
Corriere della Sera “Il comitato centrale della Fiom, sindacato dei metalmeccanici, ha respinto all’unanimità, ieri pomeriggio, la proposta ultimativa della Fiat di utilizzo e riorganizzazione dell’impianto di Pomigliano per la produzione della Panda, gia accettata da Fim-Cisl, Uilm, Fismic e Ugl”. La segreteria della Cgil dice sì all’accordo ma devono essere tolti dal tavolo della trattativa temi riguardanti i diritti individuali che non possono essere contrapposti al lavoro. I temi che riportano profili di illegittimità sono su sciopero e malattia. Sempre sul quotidiano milanese il ministro del lavoro Sacconi interviene sul caso Fiat “l’obiettivo è un federalismo normativo che risponda alle esigenze produttive”, ossia “arrivare a deroghe sostanziali allo Statuto dei lavoratori in base ad accordi sul territorio”. Il Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia sostiene ci siano decine di aziende che, prendendo ad esempio la Fiat di Pomigliano, sono pronte a fare investimenti in cambio di flessibilità in deroga allo Statuto. In primo piano anche l’intervista al vicesegretario del Pd, Enrico Letta. Alla domanda sulla Fiom che ieri non ha sottoscritto l’accordo su Pomigliano egli spiega come “La Fiom si assume una grave responsabilità. Se l’accordo saltasse sarebbe una pessima notizia per l’Italia , per il Sud perchè Pomigliano in Campania non è sostituibile e 5 mila lavoratori non sono sostituibili”.
Il Riformista intervista il segretario nazionale della Fiom Giorgio Cremaschi, che accusa la Fiat di stravolgere il contratto nazionale sul caso di Pomigliano D’Arco. Quali diritti verranno intaccati? “Innanzitutto quelli che riguardano l’orario di lavoro. Il contratto nazionale prevede che i lavoratori siano sottoposti ad un massimo di quaranta ore di straordinario obbligatorio. Invece con l’accordo proposto dalla Fiat si arriva fino a centoventi ore di straordinario che viene imposto anche in sostituzione della mensa”. Cremaschi accusa anche la Fiat di voler declassare i lavoratori: si tratta precisamente di “demansionamento”, perché “in pratica un operaio addetto ad un certo servizio può essere spostato ad un altro lavoro senza il suo consenso”. Sulle sanzioni all’assenteismo: “La Fiat vuole abolire un diritto storico. La legge prevede che in caso di assenteismo per malattia di un lavoratore, i primi tre giorni sono a carico dell’azienda, i successivi vengono integrati con un indennizzo dell’Inps. Oggi la Fiat vuole abolire i tre giorni a carico se si riscontra un alto tasso medio di assenteismo aziendale. Eppure ci sono strumenti contrattuali per colpire gli assenteisti: l’assenteista può essere licenziato se non si reca a lavoro senza un motivo valido”.
La Repubblica intervista il segretario Cgil Epifani, che dice: “I 18 turni non sono una novità. in molte fabbriche si lavora 24 ore su 24 per sette giorni”. Sull’assentesimo “la Cgil è assolutamente disponibile a trovare soluzioni per un assenteismo che a Pomigliano a tratti ha assunto caratteristiche intollerabili”. Ma su malattia e sciopero la proposta Fiat non convince Epifani, che ricorda il parere negativo di giuristi consultati dal sindacato (“ci dicono che, senza chiarimenti e correzioni, quelle clausole appaiono illegittime o addirittura incostituzionali”).
Su La Stampa il retroscena firmato da Roberto Giovannini evidenzia la posizione del leader della Cgil Gugliemo Epifani che sostiene sarebbe un disastro se l’accordo non andasse a buon fine. Epifani prende posizione e al segretario della Fiom Maurizio Landini, in carica dal primo giugno di quest’anno, dice chiaramente di essersi spinto troppo in là “Non potete permettervi di far saltare l’accordo. Voi della Fiom avete sempre detto che il voto dei lavoratori è sacro. Se vince il sì che cosa fate?”.Ancora “L’accordo tra la Fiat e gli altri ci sarà -dice Epifani- l’investimento si farà”.
Manette
“Ma è davvero necessario che un imputato in attesa di giudizio venga condotto in Tribunale ammanettato?”: se lo chiede, sulla prima pagina de La Repubblica, Miriam Mafai, in riferimento al caso dell’ex-provveditore alle Opere pubbliche della Toscana, Fabio De Santis. E continua: “C’è, in questa esibizione qualcosa che turba anche noi, che non possiamo certo essere accusati di simpatia o di indulgenza verso gli uomini del ‘sistema’ di cui anche De Santis faceva parte”. La Mafai ricorda peraltro che, quali che siano i reati da lui commessi, è certo che non li può reiterare ed è altrettanto certo che non può fuggire. Pone quindi il problema delle conidiozni richieste dalla legge per la custodia cautelare. Se ne occupa, sulla prima del Corriere, anche Pierluigi Battista, con un commento dal titolo “L’umiliazione dell’imputato in manette”. Va detto che ieri il Garante della privacy, sollecitato dall’avvocato difensore di De Santis, ha invitato i media a non pubblicare e non mandare in onda le immagini: “I media si astengano dal diffondere riprese e fotografie di persone in manette”, ha ricordato. La Repubblica ricorda che esiste già dal 1999 una norma del codice di procedura penale che vieta la pubblicazione di immagini di persone ammanettate. Il Foglio, in un editoriale, scrive: “Fabio De Santis sarebbe uno della ‘cricca’. L’espressione giornalistica, di sapore infamante, è l’elemento d’accusa più rilevante, se possiamo dir così, che fino ad ora lo riguardi (nonostante due anni di intercettazioni senza limiti e 21 mila pagine di tri trascritti)”.
Il Fatto, rubrica Telecomando: “però oggettivamente queste stesse manette ai polsi di ‘presunti’ camorristi, di ragazzini accusati di spaccio (spesso con salite forzose in auto, mani di poliziotti sulla testa), se ne vedono ogni minuto: ci sono manette di serie A e manette di serie B?”.
Disastri ecologici
Il presidente Usa Obama è tornato per la quarta volta nel Golfo del Messico, e ha fatto dichiarazioni che fanno discutere: “La marea nera come l’11 settembre”. Ne parla La Repubblica riferendo delle polemiche dei parenti delle vittime delle Torri Gemelle.
Se ne occupa anche Il Foglio, ricordando che oggi Obama terrà in orario prime time un discorso in cui farà il punto sulla crisi della Marea Nera: “con l’aggravarsi del disastro naturale, economico e politico, i toni di Obama si sono fatti via via più drammatici” e il paragone con l’11 settembre “dà l’idea di quanto Obama stia alzando la posta in gioco, operazione politicamente rischiosa con la quale il Presidente cerca in un colpo solo di additare i responsabili del disastro e mettere ordine negli schieramenti politici che sono in preda a una sindrome da cortocircuito tipica delle crisi più gravi”.
Dei disastri naturali ed ecologici, considerati “l’imprevedibile che mette a dura prova la politica” si occupa Nadia Urbinati su La Repubblica. Ma si chiede: “è proprio corretto parlare di imponderabile e imprevedibile?”. E cita gli interventi del teorico della Terza via Anthony Giddens, che propone esplicitamente di “assicurare i poveri o i disastrati del mutamento climatico come si assicura la vecchiaia o la malattia. Questa sarebbe la nuova frontiera dell’utopia pragmatica: inserire l’ambiente e l’ecologia tra gli obiettivi dell’equità, come la salute o l’educazione. Fare dell’ecologia ad un tempo un progetto di giustizia sociale e un progetto di innovazione tecnologica la servizio del benessere generale”.
Vertice franco-tedesco
Il vertice franco-tedesco tenutosi ieri a Berlino sembrava volesse “ostentare unità d’intenti strategica tra Berlino e Parigi, sempre più simili a una coppia in crisi” ma si è scatenata anche una tensione tra Spagna e la Repubblica Federale Tedesca. La Repubblica evidenzia i tre punti del vertice. “Primo: rafforzare il patto di stabilità europeo. Secondo (concessione francese ai tedeschi) introdurre il dirritto di voto nel Consiglio europeo ai paesi lassisti. Terzo ma non ultimo chiedere al prossimo G20 (il vertice dei venti paesi più ricchi) il varo di una tassa mondiale sulle transazioni finanziarie e gli introiti delle banche”. Spiega il quotidiano romano che la polemica con la Spagna nasce da una ‘gaffe’ della cancelliera tedesca Angela Merkel che dichiara come anche la Spagna possa usufruire dei fondi salva-euro, come a dire che sarà la prossima Grecia. Da giorni infatti Financial Times Deutschland, Frankfurter Allgemeine Zeitung e altri media dipingono la penisola iberica come la prossima Grecia. Immediata la smentita dal governo spagnolo “non abbiamo chiesto nessun aiuto e non ci pensiamo nemmeno”. La Commissione europea interviene sostenendo come queste siano “Pure speculazioni, il rischio non esiste”.
Dal Corriere della Sera, secondo il quotidiano tedesco il presidente della Commisione Josè Manuel Barroso e il presidente della Bce Trichet sono preoccupati per le difficoltà delle banche spagnole che “dallo scoppio della bolla immobiliare le banche spagnole hanno perso 43 miliardi ma dovrebbero effettuare altre svalutazioni per circa 120 miliardi”.
E poi
La Repubblica intervista il leader socialista belga Elio Di Rupo, probabile primo ministro, che dice: “Il Paese non si dissolverà, ma ora facciamo le riforme”.
Il Riformista torna sull’incontro Berlusconi-Gheddafi in occasione della ‘mediazione’ del Cavaliere per la liberazione dell’imprenditore svizzero Goeldi e scrive che nelle due ore di incontro il nostro presidente del Consiglio ha dovuto anche “rabbonire” il Colonnello libico: da mesi, infatti, le autorità libiche sostengono che alle generose promesse non corrisponde un grande entusiamso degli imprenditori invitati ad investire in Libia, che considerano ancora un Paese a rischio. L’accordo siglato dai due Paesi prevede un indennizzo per il nostro passato colonialista: 5 miliardi di dollari in 20 anni per costruire infrastrutture come l’autostrata Egitto-Tunisia che attraverserà la Libia. Ma la cifra venne ottenuta con una legge ad hoc che metteva sulle spalle dell’Eni un’addizionale Ires da 250 milioni l’anno. Ma la società petrolifera ha presentato ricorso. L’autostrada per ora non si fa.
Il Fatto dedica una pagina al desiderio di Berlusconi di acquistare un Caravaggio: pare si tratti delle “Conversione di Saulo”, di proprietà della famiglia Odescalchi di Roma. Il pezzo “è particolarmente prezioso -scrive il quotidiano- perché svela la rivoluzione strutturale e iconografica che marcherà a fuoco anche l’interpretazione della religione di Caravaggio, con un taglio centrifugo che ritrae su un unico piano una serie di azioni riprese in simultanea e toccate dalla luce solo nei punti più strategici”.
“Un voucher dalle pensioni rosa”: così è intitolato il commento di Emma Bonino pubblicato da Il Sole 24 Ore e dedicato all’equiparazione uomo-donna dell’età pensionabile. I risparmi derivanti dall’innalzamento dell’età del ritiro delle donne potrebbero tradursi in bonus per i servizi, alleviando il lavoro di cura
La Repubblica, Nelle pagine dedicate alla Cultura: “La Nazione senza. Com’è difficile celebrare l’unità d’Italia”.“La tesi pessimista del nuovo saggio dello storico Gentile sull’anniversario dei 150 anni. Nel tempo il senso dello Stato e quello dell’identità del Paese sono stati smarriti”.
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Sotto l’Afghanistan metalli preziosi per 850 miliardi 15.06.2010
Il governo degli Stati Uniti ha messo il cartellino del prezzo sui depositi minerari che si trovano sulle montagne dell’Afghanistan. Mille miliardi di dollari (850 miliardi di euro). Una cifra enorme, soprattutto per un paese che decenni di guerre hanno impoverito al punto da ridurre il prodotto interno lordo ad appena 12 miliardi di dollari (di cui il 90% frutto di aiuti internazionali) e la cui economia si regge quasi esclusivamente sulla coltivazione di oppio. A stimare le ricchezze del sottosuolo afghano è stato un team di geologi americani coordinati dal Pentagono, che ha integrato e rielaborato i risultati di una serie di indagini condotte a più riprese nel passato, le prime delle quali vennero realizzate negli anni 80, ad opera delle truppe di occupazione sovietiche.
I risultati, anticipati dal New York Times, sono entusiasmanti. Secondo stime di Citigroup solo altri quattro paesi possiedono riserve minerarie non energetiche di un valore paragonabile: il Sudafrica, la Russia, l’Australia e il Canada. L’Afghanistan, secondo i geologi Usa, è particolarmente ricco di rame e minerale di ferro, tanto da poter aspirare a diventare un giorno uno tra i maggiori produttori del mondo. Non solo. Nel suo territorio vi sono anche significativi depositi di oro, cobalto, terre rare come il niobio (apprezzato per le sue qualità di superconduttore) e tanto, tantissimo litio: un metallo sempre più ricercato, perché utilizzato nelle batterie di computer e cellulari, nei motori delle auto elettriche e nelle turbine eoliche. L’Afghanistan, scrivono gli esperti del Pentagono, potrebbe rivelarsi «l’Arabia Saudita del litio», grazie a risorse superiori a quelle della Bolivia, finora al primo posto in classifica con 5,4 milioni di tonnellate stimate. «Qui c’è un potenziale sbalorditivo. Ci sono un sacco di “se”, è ovvio, ma credo che si tratti di un fatto estremamente significativo», ha commentato il generale David H. Petreus, comandante delle forze statunitensi in Afghanistan. La prudenza del generale Petreus è d’obbligo, oltre che ampiamente condivisa dagli analisti. L’Afghanistan è ben lontano dall’assomigliare a un Eldorado: se mai il paese riuscirà a trasformarsi in una potenza mineraria, questo avverrà tra molti anni e al costo di enormi investimenti. Nel frattempo, il miraggio delle ricchezze nascoste nel sottosuolo potrebbe addirittura esacerbare il clima di violenza nel paese.
La presenza in Afghanistan di metalli, minerali e anche idrocarburi (rilevati nel nord del paese da una ricerca condotta nel 2004 dallo Us Geological Survey) non è una sorpresa. Finora però soltanto i cinesi hanno avuto abbastanza coraggio – o fame di risorse – per investire in attività estrattive nel paese. Tre anni fa un consorzio guidato dal China Metallurgical Group si è aggiudicato i diritti di sfruttamento della miniera di rame di Aynak, a una trentina di chilometri da Kabul. Nonostante la forte instabilità dell’area, l’investimento da 4,4 miliardi di dollari procede secondo i piani e conta di entrare in attività già nel 2011, producendo a regime almeno 200mila tonnellate l’anno di metallo. Imprese cinesi e indiane hanno espresso interesse anche per Hajigak, un deposito di minerale di ferro di ottima qualità, con riserve stimate di 1,8 miliardi di tonnellate, che il governo di Kabul vanta come il più ricco dell’Asia, tra quelli ancora da sviluppare. La licenza doveva essere assegnata lo scorso febbraio, ma la gara è stata poi rinviata a data da definirsi. I grandi gruppi minerari e petroliferi internazionali dall’Afghanistan, almeno per il momento, si tengono lontani. A spaventare non sono soltanto la guerra, il rischio di attentati, la posizione geografica (ai confini ci sono altri paesi instabili, come l’Iran e il Pakistan). L’Afghanistan è anche uno dei paesi più corrotti del mondo (nel settembre scorso è stato arrestato anche il ministro delle Miniere, per una presunta tangente da 30 milioni di dollari presa proprio in relazione alla miniera di Aynak). Infine, è quasi del tutto privo di infrastrutture, con un’unica linea ferroviaria, che attraversa il paese da nord a sud.
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Nicaragua: Prosegue con successo consegna dei titoli di proprietà delle terre indigene
Governo del Nicaragua ha già consegnato titoli per 15 dei 22 territori ancestrali
06.06.2010 – Giorgio Trucchi
Rispettando una delle promesse della campagna elettorale del 2006, il governo del Nicaragua ha consegnato 6 nuovi titoli territoriali alle comunità originarie nicaraguensi. Un totale di 15 dei 22 territori reclamati dalle popolazioni della Costa Caribe del Nicaragua sono già stati legalizzati e per il 2011 si prevede di completare la titolazione.
Durante una cerimonia realizzata lo scorso 5 maggio nella Casa de los Pueblos, il presidente Daniel Ortega ha consegnato 6 nuovi titoli territoriali ai rappresentanti e alle autorità delle differenti etnie delle Regioni Autonome dell’Atlantico Nord e Sud, Raan e Raas, del Nicaragua.
A partire dal 2007, l’attuale governo sandinista ha consegnato 15 titoli territoriali, per un totale di 22.479 Km², che rappresenta più del 18 per cento del territorio nazionale ed una superficie superiore a quella del Salvador.
In virtù dell’applicazione della Legge 445 “Legge di Regolazione della Proprietà Comunale delle popolazioni indigeni e comunità etniche delle Regioni Autonome e dei fiumi Bocay, Coco, Indio e Mais”, questa misura beneficerà 214 comunità indigene e afrodiscendenti, per un totale di 103.790 abitanti,
“Oggi è il giorno più importante degli ultimi 116 anni per le popolazioni della Costa Caribe”, ha detto il Segretario per la Costa Caribe nicaraguense, Lumberto Campbell.
Secondo Campbell, nel 1894 la Mosquitia venne annessa al resto del paese, misura che rappresentò una vera e propria espropriazione del territorio indigeno.
“Quello di oggi è un atto di giustizia all’interno di un processo rivoluzionario, perché solo con una rivoluzione è possibile raggiungere questo risultato. Un’autonomia senza proprietà delle terre non è autonomia”, ha detto.
Campbell ha ricordato il processo di autonomia iniziato dal governo sandinista durante gli anni 80, gli sforzi fatti per andare avanti su questa strada, ma anche la paralisi del processo a causa dell’arrivo al potere di governi neoliberisti, “che storicamente hanno saccheggiato le risorse naturali delle popolazioni originarie”.
L’approvazione nel 2003 della Legge 445, che assicura la possibilità di estendere titoli di proprietà territoriali, non è però servita a molto. “Tra il 2003 e il 2006, il governo in carica non ha fatto nulla ed è stato solo a partire dal 2007, con il nuovo governo del Fsln, che abbiamo iniziato un processo con il quale abbiamo demarcato i territori ancestrali ed abbiamo già consegnato titoli di proprietà per 15 dei 22 territori”, ha aggiunto Campbell.
Per il 2011 si prevede di completare la titolazione. Un totale di 36 mila km² compresi tra il Río Coco (frontiera con l’Honduras) e il Río San Juan (frontiera con il Costa Rica), 3 mila in più dell’antica Mosquitia.
In quell’epoca, le potenze straniere che facevano il bello e cattivo tempo in Nicaragua avevano strappato alle popolazioni indigene la zona del Río San Juan, nel sud del Nicaragua, dove si studiava la possibilità di aprire un canale interoceanico. “Ora stiamo facendo loro giustizia”, ha concluso.
Il leader indigena e deputato Brooklyn Rivera ha spiegato invece che con questa nuova consegna di titoli, il governo ha completato la legalizzazione dei territori delle popolazioni Sumo, Mayagna e Rama, mentre ha fatto nuovi passi in avanti nei confronti delle altre etnie Miskito e Garifuna.
Ha anche ricordato l’importanza delle decisione presa il mese scorso dal Parlamento di ratificare l’Accordo 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, Oil, sui diritti delle popolazioni indigene e tribali.
Riconoscere il diritto ancestrale
Minuti prima di consegnare i titoli territoriali ai rappresentanti delle comunità originarie presenti all’evento, il presidente Daniel Ortega ha detto che in non si trattava di “dare” queste terre, bensì di “riconoscere il diritto storico delle popolazioni indigene su questi territori, che gli sono sempre appartenuti e che sono stati strappati loro nel 1894″.
Il prossimo anno – ha continuato Ortega – faremo tutto il possibile per portare a termine la titolazione del cento per cento dei territori liberi delle comunità indigene e per compiere questo atto di giustizia”, ha concluso.
http://www.peacelink.it/latina/a/31921.html
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Festival Cinemambiente: Menzione Speciale al film “Il suolo minacciato” 14.06.2010
Dal festival Cineambiente di Torino le ragioni del riconoscimento meritato da un film che, oltre che utilissimo, è anche molto bello
Il film documentario “Il suolo minacciato” diretto da Nicola Dall’Olio e prodotto da Wwf e Legambiente di Parma, in collaborazione con Il Borgo, Lipu e Città invisibili, ha ottenuto una Menzione speciale al 13esimo Festival Cineambiente di Torino con la seguente motivazione: “Per la capacità di spiegare in modo chiaro ed efficace un problema quanto mai attuale come quello del consumo di suolo. Gli interessanti interventi hanno la capacità di coinvolgere lo spettatore grazie anche all’originalità della regia”.
Per il regista Dall’Olio “si tratta di un riconoscimento inaspettato, se consideriamo che in concorso erano presenti molti documentari di alto livello tecnico. Credo si sia voluto premiare anche l’importanza di un tema, il consumo dei suoli agricoli, troppo a lungo sottovalutato nel nostro Paese”.
Con oltre sessanta film presentati e 20.000 spettatori alle proiezioni, il Festival organizzato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino costituisce in Italia il principale appuntamento per il mondo della documentaristica ambientale, in costante crescita sia in termini di numeri, che di qualità. Il suolo minacciato era in concorso nella sezione Documentari italiani, che è stata vinta dal film Le White di Simona Risi, che narra la storia degli abitanti delle case popolari “White Houses” di Rogoredo (Milano) rivestite di amianto.
Le associazioni che hanno prodotto il film, interpellate sull’esito della manifestazione, non nascondono la loro soddisfazione. “La situazione della Food Valley è allarmante ma nello stesso tempo rivela la possibilità di uno scenario alternativo, perché, a differenza di altre aree padane, preserva paesaggi ancora non compromessi e ha testimoni consapevoli di quanto sta accadendo”, afferma Daniela Monteverdi, presidente WWF.
“Cominciamo ad avvertire una sensibilità nuova da parte delle Amministrazioni Pubbliche e delle imprese verso la preservazione del territorio. Ma non mancano i tentativi di mistificazione dove nuove pesanti cementificazioni sono imbellettate di verde al fine di renderle presentabili, come è il caso di recenti progetti urbanistici a Parma” dice Francesco Dradi, presidente Legambiente
Con Il suolo minacciato la pianura parmense sembra quindi destinata a diventare il caso nazionale di riferimento per i gruppi e le associazioni, sempre più numerosi, impegnati a difendere il suolo ed il paesaggio.
http://www.eddyburg.it/article/articleview/15310/0/29/
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