Dai cianobatteri gli acidi grassi per il biodiesel 07.2010
Arriva da una delle forme di vita più antiche in natura un nuovo aiuto per lo sviluppo di biomateriali e biocarburanti. Lo segnala un team di ricercatori dell’Istituto di Biodesign dell’Arizona State University con uno studio pubblicato sulla rivista Proceedings della National Academy of Sciences (PNAS). Gli scienziati, riuniti in una sorta di inusuale equipe multidisciplinare di ricerca sull’energia che comprende biologi e ricercatori nel campo delle malattie infettive, hanno lavorato alla coltura dei cianobatteri, conosciuti volgarmente come “alghe azzurre”, ritenuti fonte potenzialmente ricca per lo sviluppo di biomateriali e di biocarburanti. Hanno, così, sviluppato un ceppo di cianobatteri di colore blu che ha la capacità di svolgere la fotosintesi, la Synechocystis spp, per la produzione di acidi grassi, che sono la principale materia prima per il biodiesel.
I ricercatori sono stati in grado di rimuovere questi acidi senza distruggere i batteri con l’introduzione di geni nel DNA di questi microrganismi per la produzione di un enzima chiamato thioesterase, che favorisce la secrezione di acido da parte del batterio attraverso la membrana cellulare.
Il programma di Woo Hyun Kim e Raveender Vannela, che hanno condotto la ricerca dell’istituto americano, ha previsto anche l’ottimizzazione dei fotobioreattori, i dispositivi usati per “coltivare” questi microorganismi foto sintetici, che sono in grado di produrre circa 100 volte la quantità di biocarburante per acro rispetto alle altre colture energetiche. Capacità che deriva tanto dalle loro semplici esigenze di sopravvivenza – luce del Sole, acqua, CO2 e poche sostanze nutritive – quanto dal non necessitare di terreni coltivabili che devono essere sottratti alla produzione agricola per scopi alimentari.
La ricerca punta, quindi, a migliorare i bioreattori al fine di aumentare la produzione di cianobatteri e renderne possibile l’utilizzo su vasta scala.
“I cianobatteri sono molto più facili da riprogettare geneticamente – ha sottolineato Kim – perché abbiamo molte conoscenze su di loro. Siamo in grado di controllare la loro crescita in modo da poter produrre grandi quantità di biocarburanti o di biomateriali”. La nuova ricerca indica che l’ottimizzazione della crescita microbica richiede un bilanciamento molto delicato tra CO2, fosforo e una sufficiente irradiazione di luce, all’interno della vasca del bioreattore. “In questo studio – continua Kim – abbiamo scoperto che il fosforo è veramente importante. Infatti, i cianobatteri non hanno potuto fare un uso efficiente della CO2 nel loro ciclo di crescita fino a che il terreno di coltura non è stato integrato con il fosforo, e ogni suo aumento corrispondeva a un aumento della produttività del bioreattore”.
Fonte: Arizona State University, Biodesign Institute
http://www.scienzaegoverno.org/n/085/085_01.htm
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La prima centrale a idrogeno al mondo 07.2010
Cinquanta milioni di investimento, 16 megawatt di potenza totale e 60 milioni di chilowattora l’anno, per un rendimento complessivo del 41,6%. Il tutto utilizzando 1,3 tonnellate di idrogeno all’ora per soddisfare il fabbisogno di circa 20 mila famiglie, risparmiando annualmente 17 mila tonnellate di CO2. Sono questi “i numeri”, cui si aggiunge lo “zero” delle emissioni prodotte, della centrale elettrica Enel alimentata a idrogeno entrata da poco in funzione, prima nel mondo, a Fusina (Venezia), nei pressi del polo petrolchimico di Marghera. L’idrogeno utilizzato dalla centrale è un “rifiuto” del petrolchimico: si tratta di un sottoprodotto (che arriva con un tubo lungo quattro chilometri) delle lavorazioni di Polimeri Europa dell’Eni a Porto Marghera.
L’impianto Enel è sorto grazie alla collaborazione con Hydrogen Park (nato nel 2003 dalla cooperazione tra Regione Veneto, Ministero dell’Ambiente e Associazione industriali di Venezia), consorzio che sta promuovendo nell’area di Porto Marghera lo sviluppo e le applicazioni delle tecnologie dell’idrogeno nel settore del trasporto e della generazione.
Il funzionamento della centrale si basa su un ciclo combinato in cui un turbogas è alimentato con idrogeno per produrre energia elettrica e calore. Il turbogas è equipaggiato con una camera di combustione sviluppata per essere alimentata con idrogeno, senza emissione di CO2 e con bassissime emissioni di ossidi di azoto. L’energia termica liberata dalla combustione è convertita in energia elettrica nella turbina a gas, sviluppando una potenza di circa 12 Mw, mentre i fumi di scarico sono costituiti esclusivamente da aria calda e vapore acqueo. Il rendimento del ciclo viene aumentato sfruttando il calore presente nei fumi di scarico per produrre vapore ad alta temperatura che, inviato alla centrale a carbone esistente, produce ulteriore energia per una capacità aggiuntiva di circa 4Mw.
Alla cerimonia d’inaugurazione, Fulvio Conti, amministratore delegato Enel ha presentato la nuova centrale a idrogeno, definendola ”una perla ingegneristica”, pur non nascondendo le perplessità legate ancora a questa tecnologia: “Per produrre idrogeno in maniera competitiva non esiste ancora una tecnologia. Oggi, infatti, produrre energia con idrogeno costa 5-6 volte in più rispetto alle tecnologie tradizionali”. Pertanto la centrale, ora, non è assolutamente competitiva e i tempi in cui l’idrogeno potrà essere materia prima davvero conveniente e alternativa sono ancora lontani, tanto che nella brochure di presentazione l’impianto è definito “sperimentale” o “dimostrativo”. L’impianto riveste attualmente un maggior ruolo di salvaguardia ambientale in attesa che le adeguate tecnologie siano anche economicamente competitive.
La scelta della centrale di Fusina di ospitare questo primato mondiale non è stata casuale, essendo da sempre teatro di sperimentazione e innovazione attenta all’ambiente, non ultimo quello sulle biomasse e lo smaltimento dei rifiuti compresi i discussi CDR (combustibile derivante dalla raccolta differenziata), utilizzati al posto del carbone per alimentare le caldaie della centrale.
Fonte Enel
http://www.scienzaegoverno.org/n/085/085_02.htm
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3/7/2010 – UNA NUOVA DISCARICA?
La plastica colonizza anche l’Oceano Antartico
La scoperta: tracce di reti da pesca, tazzine e altro oggetti alla deriva
Anche il luogo che sembrava più inaccessibile e incontaminato, difficile da raggiungere anche per l’uomo, inizia ad essere colonizzato dai rifiuti di plastica. Anche se non sono ancora un’isola di immondizià come quelle nell’oceano Pacifico e nell’Atlantico, i 51 oggetti trovati da una spedizione nell’oceano Antartico sono preoccupanti per i ricercatori, perchè potrebbero essere solo l’avanguardia di qualcosa di più grande.
Lo studio, pubblicato dalla rivista Marine Environmental Research e condotto da Greenpeace e il British Antarctic Survey nell’estate 2008 (come riporta l’Ansa), ha trovato tracce di reti da pesca e una tazza di plastica al largo della costa est del continente, e altri oggetti alla deriva vicino al mare di Amundsen, nella parte ovest. In tutto sono stati trovati 51 pezzi di plastica galleggianti, tra cui due sacchetti abbandonati, mentre i fondali sono apparsi ancora non contaminati da oggetti. Tutti i ritrovamenti, specificano gli autori, sono stati fatti in zone lontane da stazionid i ricerca, e quindi gli oggetti dovrebbero essere arrivati da lontano, via mare.
Anche se per il momento la quantità di rifiuti può essere considerata bassa, i ricercatori sono preoccupati: “Questa potrebbe essere l’avanguardia di un’ondata che solo adesso sta iniziando la sua strada verso l’Antartico – spiega David Barnes, uno degli autori – per ora i fondali non sembrano essere stati contaminati, ma non si può sapere cosa succederà in futuro. La plastica si degrada in piccoli pezzetti che possono essere scambiati per cibo da pesci e piccoli animali, inoltre c’è il pericolo che questi oggetti portino con sè delle specie animali nuove che potrebbero alterare l’ecosistema”.
La prima discarica oceanica fu trovata da Charles Moore, tra le coste della California e quelle delle Hawaii nel 1997. Oltre a questa, ormai ben conosciuta e grande due volte il Texas, lo scorso inverno una spedizione scientifica ne ha scoperta un’altra, formata da piccolissimi pezzi di plastica, nella parte nord-ovest dell’Atlantico. Le isole di spazzatura potrebbero comunque non essere finite qui: questa seconda area era stata prevista con modelli matematici applicati alle correnti marine da Nikolei Maximenko, un oceanografo dell’università delle Hawaii, e con gli stessi calcoli ne ha ipotizzate altre tre, nell’oceano Indiano, nel Pacifico del Sud e nell’Atlantico del sud.
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Droga, lo zar russo che pretende di guidare il mondo
L’articolo di Tom Blickman (TNI) per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 16 luglio 2010.
il Manifesto, di Tom Blickman 14.07.2010
Il diplomatico russo Yuri Fedotov è stato nominato nuovo direttore esecutivo dell’ufficio Onu per le droghe e il crimine (Unodc). Quali saranno le implicazioni? La Russia ha i peggiori precedenti per la politica della droga e i diritti umani: ignora le evidenze scientifiche sulla prevenzione dello Hiv e la sua legislazione punitiva spinge i consumatori di droghe ai margini della società. Anche i contadini afgani che coltivano il papavero da oppio potrebbero risentire di questa nomina. I russi sono responsabili dei trentamila decessi per droga che avvengono in Russia ogni anno.
Un direttore esecutivo dovrebbe essere indipendente e non al servizio di un qualsiasi paese. Ma Fedotov è un diplomatico con 40 anni di carriera alle spalle, perciò con ogni probabilità non si dovrebbero nutrire illusioni sulla sua indipendenza. Stante la recente offensiva diplomatica della Russia a favore della fumigazione dei campi di papavero in Afghanistan, questa nomina è da considerarsi una vittoria della spinta russa verso una “linea dura” nella regione.
Negli anni passati, per non alienarsi le simpatie dei contadini locali, le truppe Nato non hanno distrutto i campi di papavero nei territori sottratti ai Talebani, ma hanno pagato i coltivatori perché lo facessero da sé. Secondo Viktor Ivanov, capo del Servizio federale russo per il controllo della droga (Fskn), la non volontà della Nato e delle potenze europee di distruggere le coltivazioni di oppio “va contro la risoluzione dell’Onu che obbliga tutti i paesi di distruggere le piantagioni che contengono narcotici”.
Alcuni alti ufficiali russi hanno descritto la situazione in Afghanistan come una “narco-aggressione” contro la Russia e una nuova “guerra dell’oppio”. La Russia imputa la morte di trentamila consumatori ogni anno– età media ventotto anni- ai coltivatori afgani e alla politica dell’Onu, invece che alla sua pessima politica della droga.
Un articolo del Lancet pubblicato la scorsa settimana (“L’uso iniettivo di droga in Russia lievita di fronte all’inerzia politica”) offre un’utile sintesi della disastrosa politica russa: “Secondo la Oms e
l’Unaids, la Russia ha una delle più serie epidemie nel mondo da uso di droga per via iniettiva, che a sua volta alimenta un’esplosione dell’incidenza di Hiv e Aids. Si stima che i consumatori per via iniettiva assommino a due milioni, il 60-70% dei quali hanno malattie correlate allo Hiv. Più di due terzi dei nuovi casi di Hiv in Russia sono legati all’uso per via iniettiva, e secondo l’Unaids ci sono nel paese un milione di persone con Hiv. Dal 2001 la prevalenza dello Hiv è raddoppiata. Le autorità russe hanno incontrato severe critiche internazionali per la politica dei trattamenti della tossicodipendenza, che poggia quasi esclusivamente sulla promozione dell’astinenza. In Russia la terapia sostitutiva con oppiacei, come metadone e bufrenorfina – pratica standard nel resto del mondo – è proibita per legge, e la promozione dell’uso di questi farmaci è punibile col carcere. Alcuni medici russi che hanno patrocinato l’uso del metadone nei programmi di riduzione del danno affermano di avere in seguito subito vessazioni”. Questo è il paese che pretende di avere la guida del mondo nel controllo della droga.
Non sembra probabile che all’interno dell’Unodc Fedotov possa davvero promuovere un approccio alla russa sulla riduzione della domanda, tuttavia il nuovo direttore potrebbe bloccare i lenti progressi raggiunti negli ultimi anni. E le cose potrebbero peggiorare nel campo della riduzione dell’offerta, specie per i contadini afgani. La Russia sembra determinata a reprimere la coltivazione di oppio con qualsiasi mezzo. Uno di questi mezzi è il signor Fedotov. Un altro potrebbe essere un agente ottenuto dal fungo patogeno Dendryphion papaveraceae. Il fungo è stato prodotto dall’istituto di genetica di Tashkent in Uzbekistan, con l’aiuto dell’Undcp – l’agenzia poi sostituita dall’Unodc. Sotto la pressione internazionale, l’Unodc non ha dato corso al suo utilizzo. Adesso non è chiaro chi deciderà sul fungo.
Ora che l’amministrazione Obama sta abbandonando la war on drugs e sta superando le resistenze alla riduzione del danno, sembra che la Federazione Russa voglia rimpiazzare gli Stati Uniti quale “guerriero” mondiale della droga. Con un diplomatico russo di carriera a capo dell’apparato “indipendente” dell’Onu per la droga.
*Transnational Institute (Tni)
http://www.fuoriluogo.it/sito/home/8939
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Il dollaro e il dragone 20.07.2010
JOSEPH S. NYE
Per molti anni, i funzionari americani hanno fatto pressione affinché la Cina rivalutasse la sua valuta. Denunciando che il renminbi sottovalutato rappresenta una concorrenza sleale, poiché distrugge posti di lavoro americani e contribuisce al deficit commerciale degli Stati Uniti. Come dovrebbero ora rispondere i funzionari degli Stati Uniti?
Poco prima della recente riunione del G-20 a Toronto la Cina ha annunciato una formula che permetterebbe un modesto apprezzamento del renminbi, ma alcuni congressisti americani restano scettici e minacciano di aumentare le tariffe sui prodotti cinesi.
L’America assorbe le importazioni cinesi e paga in dollari, la Cina li incassa e ha così accumulato 2.500 miliardi di dollari in riserve valutarie, in gran parte titoli del Tesoro Usa. Secondo alcuni osservatori, questo rappresenta un cambiamento fondamentale nell’equilibrio globale del potere, perché la Cina potrebbe mettere in ginocchio gli Stati Uniti con la minaccia di vendere i suoi dollari.
Ma, se la Cina dovesse mettere in ginocchio gli Stati Uniti questa operazione potrebbe atterrarla. La Cina non solo ridurrebbe il valore delle sue riserve con la caduta del valore del dollaro ma metterebbe in pericolo la costante volontà dell’America di importare prodotti cinesi a buon mercato, il che significherebbe perdita di posti di lavoro e instabilità nel Paese.
Giudicare se l’interdipendenza economica genera potere richiede una valutazione dell’equilibrio delle asimmetrie, non solo di una parte dell’equazione. In questo caso, l’interdipendenza ha creato un «equilibrio del terrore finanziario», analogo alla Guerra Fredda, quando gli Stati Uniti e l’Unione sovietica non usarono mai il loro potenziale per distruggersi a vicenda in una guerra nucleare.
Nel febbraio del 2010, arrabbiati per una vendita di armi americane a Taiwan, un gruppo di alti ufficiali delle forze armate ha chiesto al governo cinese di vendere titoli di Stato Usa per rappresaglia. La loro proposta non è stata ascoltata. Invece, Yi Gang, direttore in Cina dell’amministrazione statale della valuta estera, ha spiegato che «gli investimenti cinesi in titoli del tesoro statunitense seguono le regole del mercato e non vogliamo politicizzarli». Altrimenti il dolore sarebbe reciproco.
Tuttavia, questo equilibrio non garantisce la stabilità. C’è sempre il pericolo di azioni con conseguenze impreviste, tanto più che da entrambi i Paesi ci si possono aspettare manovre per modificare il contesto e ridurre la propria vulnerabilità. Ad esempio, dopo la crisi finanziaria del 2008, mentre gli Stati Uniti facevano pressioni sulla Cina perché lasciasse apprezzare la sua moneta, i funzionari della banca centrale cinese hanno iniziato a dire che l’America aveva bisogno di aumentare i suoi risparmi, ridurre il deficit, e agire per supportare il ruolo del dollaro come valuta di riserva con diritti speciali di prelievo garantiti dal Fmi.
Ma la Cina abbaia più di quanto non morda. La accresciuta potenza finanziaria della Cina potrebbe avere aumentato la sua capacità di resistere alle pressioni americane, ma nonostante le fosche previsioni, il suo ruolo di creditore non è stato sufficiente per costringere gli Stati Uniti a cambiare le sue politiche.
Mentre la Cina ha adottato misure minori per rallentare l’aumento delle sue partecipazioni in dollari, non è stata disposta a rischiare una moneta pienamente convertibile per motivi politici interni. Così, è improbabile che il renminbi sfidi il ruolo del dollaro come principale componente delle riserve mondiali (oltre 60%) nel prossimo decennio.
Tuttavia, a mano a mano che la Cina aumenta gradualmente il consumo interno, piuttosto che affidarsi alle esportazioni come motore della crescita economica, i suoi leader possono cominciare a sentirsi meno dipendenti di quanto lo siano dall’accesso al mercato statunitense come fonte di creazione di posti di lavoro, cosa che è cruciale per la stabilità politica interna. In tal caso, il mantenimento di un renminbi debole proteggerebbe la bilancia commerciale da un diluvio di importazioni.
Le asimmetrie nei mercati valutari sono un aspetto particolarmente importante del potere economico, dal momento che sono alla base del commercio mondiale e dei mercati finanziari. Limitando la convertibilità della propria valuta la Cina sta evitando la capacità dei mercati valutari di disciplinare le decisioni economiche interne.
Si confronti, ad esempio, la disciplina che le banche internazionali e il Fondo monetario internazionale sono stati in grado di imporre ad Indonesia e Corea del Sud nel 1998, con la relativa libertà degli Stati Uniti – agevolata dalla denominazione del debito in dollari americani – nell’aumentare la spesa pubblica in risposta alla crisi finanziaria del 2008. Infatti, anziché indebolirsi, il dollaro si è apprezzato in quanto gli investitori guardano alla forza alla base degli Stati Uniti come a un rifugio sicuro.
Ovviamente, un Paese la cui moneta rappresenta una parte significativa delle riserve mondiali può guadagnare potere internazionale da questa posizione, grazie a termini più agevoli per l’adeguamento economico e la capacità di influenzare gli altri Paesi. Come ebbe occasione di dire una volta il presidente francese Charles De Gaulle, «poiché il dollaro è la moneta di riferimento in tutto il mondo, può costringere altri a subire gli effetti della sua cattiva gestione. Questo non è accettabile. Questo non può durare».
Ma lo ha fatto. La forza militare ed economica americana rafforza la fiducia nel dollaro come un rifugio sicuro. Per citare un analista canadese, «l’effetto combinato di un mercato avanzato di capitali e di una potente macchina militare per difendere quel mercato, e altre misure di sicurezza, come ad esempio una forte tradizione di tutela dei diritti di proprietà e una reputazione di diritti onorati, hanno reso possibile attrarre capitali con grande facilità».
Il G-20 è incentrato sulla necessità di «riequilibrare» i flussi finanziari, modificando il vecchio modello dei deficit degli Stati Uniti che incontrano le corrispondenti eccedenze cinesi. Ciò richiederebbe cambiamenti politicamente difficili in consumi e investimenti, con l’America che accresce i suoi risparmi e la Cina che aumenta il consumo interno.
Tali cambiamenti non avvengono velocemente. Nessuna delle due parti ha fretta di rompere la simmetria delle vulnerabilità interdipendenti, ma entrambe continuano a tentare di modellare la struttura e il quadro istituzionale dei loro rapporti di mercato. Per il bene dell’economia globale, speriamo che nessuna delle due parti faccia male i propri conti.
*Docente alla Harvard University e autore del libro di prossima uscita «Il potere nel 21° secolo».
Copyright: Project Syndicate, 2010.
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di Jacopo Fo 21.07.2010
Caro Epifani
Caro Epifani, puoi far guadagnare uno stipendio in più all’anno ai lavoratori!
Non vengo certo io a dirti che molte famiglie italiane sono in grandi difficoltà economiche.
Lo sai benissimo. E sappiamo benissimo che in un momento di crisi come questo la forza contrattuale dei lavoratori è ridotta dai ricatti padronali.
Mi chiedo se si possa realizzare un’azione che sia capace di migliorare veramente le condizioni dei lavoratori.
Vorrei domandarti di considerare l’esperienza di 300 famiglie padovane di operai e impiegati che da più di dieci anni si sono date un compito notevole: redigere il loro bilancio economico famigliare.
Questo gruppo si chiama: “Bilanci di Giustizia” (http://www.bilancidigiustizia.it/). E collabora con alcuni parroci molto strani.
Quei preti si rimboccano le maniche e cercano di vedere se riescono ad affrontare i problemi uno per volta, partendo dalle cose semplici. Così, dopo aver studiato come si spendevano i soldi guadagnati a fatica, hanno iniziato a sperimentare correttivi nel loro modo di utilizzare il denaro guadagnato. Hanno costituito un gruppo di acquisto per i prodotti primari, dai cibi ai quaderni per la scuola. Hanno attivato momenti di baratto dell’usato e di scambio reciproco di aiuti, tipo banca del tempo. Hanno iniziato ad andare a comprare la verdura e il latte direttamente dai contadini e anche a organizzare pic-nic nelle aziende agricole. Quello che è venuto fuori, certificato da anni di contabilità tenuta in modo preciso, è che questo modo di comprare e di consumare permette di ottenere un notevole aumento della qualità dei prodotti e un risparmio dell’equivalente di un intero stipendio mensile.
Si sono raddoppiati la tredicesima da soli.
Ma il loro guadagno non è stato solo economico. Acquistare insieme li ha portati a organizzare momenti conviviali, feste, ha fatto nascere amicizie e amori, ha allargato il panorama delle conoscenze, ha creato altre occasioni di collaborazione, ha fatto fiorire idee.
Comprare assieme non è solo un’esperienza conveniente economicamente, è anche un modo per sviluppare la socialità. E la socialità è un elemento essenziale nella società. Laddove si perdono i vincoli di appartenenza a un collettività si fa strada la disgregazione, l’emarginazione e la criminalità.
Ora credo che converrai che difficilmente una lotta salariale in questo momento è in grado di raddoppiare le tredicesime.
Non c’è lo spazio economico. Ovviamente credo che la lotta sul fronte della trattativa per migliori condizioni di lavoro e di salario sia essenziale. Ma penso che in questo momento sarebbe anche foriero di notevoli risultati se il Sindacato decidesse di lanciare una campagna per replicare l’esperienza dei Bilanci di Giustizia e di tanti altri gruppi che in questo momento stanno sperimentando forme di consociazione dei consumi.
Ci sono centinaia di lavoratori che oggi hanno una casa di loro proprietà grazie al sistema delle cooperative di autocostruzione. In molte fabbriche ci sono cral aziendali che permettono ai lavoratori di comprare prodotti migliori a prezzi più bassi. Ci sono anche migliaia di gruppi di acquisto spontanei per generi di prima necessità, banche del tempo, mercatini autogestiti dell’usato e del baratto, sparsi su tutto il territorio nazionale.
E gruppi d’acquisto per prodotti “complessi”. Noi ad esempio abbiamo realizzato più di 200 impianti fotovoltaici.
E moltissimi degli animatori di questi gruppi sono iscritti alla CGIL.
Credo che in questo momento difficile potremmo trarre forse consiglio dalla storia stessa del Movimento Operaio che tu conosci meglio di me.
L’idea di incidere non solo sulla paga ma anche sul modo di spendere i soldi è stato nei momenti tragici del dopoguerra uno degli strumenti principali con i quali i lavoratori hanno rivalutato il loro potere d’acquisto.
I Mulini Popolari, le Coop, l’Unipol, le Banche di Credito Cooperativo, il movimento delle cooperative di lavoro, hanno avuto una funzione storica nel garantire consumi a prezzi equi per i lavoratori e occupazione. Hanno creato ricchezza, hanno creato qualità e risparmio.
Credo che l’impatto di questa esperienza sia stato da alcuni sottovalutato. Le forme di consociazione degli acquisti di beni e servizi hanno dato un grande contributo all’aumento del benessere e della cultura della collaborazione solidale in Italia. Questo grande risultato ha visto la CGIL come essenziale motore ideale. Se non ci fosse stato lo sforzo, che senza retorica possiamo definire eroico, di migliaia di lavoratori sindacalizzati sarebbe stato impossibile costruire dal nulla, in un’Italia devastata dalla guerra, quelle che oggi sono tra le maggiori reti di distribuzione e produzione di beni e servizi. Questo fatto indiscutibile viene raramente riconosciuto nella sua reale importanza per la qualità della vita quotidiana dei lavoratori.
Coi soldi risparmiati grazie alla consociazione degli acquisti si è comprato il cappotto e i libri di scuola per i figli, non bazzecole.
E possiamo ben vedere l’impronta storica di questo movimento. Possiamo sovrapporre la mappa delle aree dove le esperienze cooperative sono più frequenti e radicalizzate e scoprire che corrisponde perfettamente alla mappa delle regioni con i migliori servizi pubblici, il minor tasso di corruzione e criminalità, il maggior tasso di occupazione e di reddito procapite.
E vorrei osservare che dagli anni ’50 molte cose sono cambiate in Italia e molte sono anche le similitudini. Anche oggi si tratta di ricostruire sulle macerie di un’economia devastata della rapina degli eserciti della speculazione finanziaria.
Vivo da 31 anni in Umbria, e quando arrivai a Casa del Diavolo, paesino con un nome assurdo che esiste veramente e che è vicino ad Alcatraz, c’era ancora il Mulino Popolare. E i compagni mi raccontavano della rivoluzione nella vita delle famiglie, quando arrivò il Mulino Popolare. Erano tutti braccianti e mezzadri, in una delle aree più povere d’Italia, e venivano pagati una miseria per lavorare dall’alba al tramonto. E poi subivano la beffa di dover comprare quel che gli serviva nell’unico negozio disponibile, dove il latifondista vendeva a prezzo maggiorato l’indispensabile. Facendosi il loro negozio autogestito tagliarono di netto i prezzi di un terzo almeno.
Certo, quella situazione non è paragonabile a quella attuale, ma oggi ci troviamo di fronte a problemi che hanno una certa somiglianza. Quanti lavoratori e pensionati hanno investito i loro risparmi sudati in prodotti offerti da banchieri pescecani? Quante casalinghe sono cadute nella trappola dei fondi argentini, della Parmalat, trovandosi depredate?
In Germania i sindacati hanno patrocinato sistemi di risparmio supercontrollati che investono in pale eoliche. Molte delle distese sterminate di mulini a vento da 1.000 chilowatt ciascuno, che si vedono attraversando le pianure tedesche, sono di proprietà di gruppi di risparmiatori.
Quali enormi vantaggi avrebbero le famiglie italiane se anche da noi esistessero strumenti finanziari simili, garantiti dall’autorità morale e dall’esperienza della CGIL?
In Bangladesh, il premio Nobel Muhammad Yunus, che ha scritto “Il banchiere dei poveri”, aveva un grosso problema: dar da vivere a migliaia di donne invalide. Ha avuto l’idea di creare una compagnia di telefonia cellulare, con 36 mila donne dotate di un cellulare e di un pannellino solare, che di mestiere hanno iniziato a vendere telefonate in villaggi dove non esisteva questa possibilità. Anche i poveri traggono vantaggio dal potere di fare una telefonata. A volte ti può salvare da un disastro, a volte ti può evitare di fare 20 chilometri a piedi con la pancia vuota, perché chi cammina non può anche lavorare.
Ma sai che colpo se la CGIL lanciasse una compagnia di telefonia cellulare? I margini ci sono ampiamente. In realtà basterebbe fare un accordo con la Coop, che la compagnia cellulare ce l’ha già. Coop e CGIL insieme potrebbero unite fare un gran numero di abbonati e quindi ridurre drasticamente i prezzi.
Lo stesso tipo di discorso si potrebbe condurre su parecchi servizi.
Ad esempio c’è l’esperienza della Cesare Pozzo, la mutua dei ferrovieri che è una creazione del sindacato. E’ talmente conveniente e funziona talmente bene che è stata fatta una legge apposta per ostacolarne la diffusione impedendo il pagamento di cospicue percentuali agli agenti. E’ un’ottima realtà che resta circoscritta all’ambiente dei ferrovieri perché le viene strutturalmente impedito di farsi conoscere con una rete di agenti.
Che succede se la CGIL decide di diventare megafono di questa realtà?
Ma visto che ci siamo, e non costa niente, potremmo anche immaginare iniziative che sfruttino la particolare situazione di crisi industriale.
Immagino ad esempio cosa succederebbe se centomila iscritti alla CGIL mandassero un loro rappresentante in giro per le case automobilistiche a chiedere un preventivo per la consegna di 10 mila auto ecologiche all’anno per 10 anni. Dei bei ibridi gas-elettrico. Per adesso… poi se viene fuori una nuova tecnologia più ecologica ancora cambiamo.
Le grandi multinazionali dell’auto farebbero a pugni per cuccarsi un’ordinazione del genere. E sicuramente nella FIOM c’è gente in grado di dirti esattamente come la vogliono l’auto ecologica, compresa la sezione dei bulloni dello spinterogeno.
L’auto modello “Ecologia Operaia” farebbe furore. Chi non vorrebbe l’auto dei lavoratori con le specifiche tecniche dettate dalle squadre di Mirafiori?
Lo slogan potrebbe essere: “E’ l’auto degli operai. Come fai a non fidarti?”
E che dire di tutti i caricabatteria che siamo costretti a comprare? Alcune aziende finalmente si sono decise a firmare un accordo per unificare i caricabatteria. Ma l’adozione dei nuovi standard va a rilento. Si potrebbe dare loro una mano. Facciamo convenzioni solo con le aziende che rispettano il Protocollo Sindacale sulle prese, le spine e i jack. E basta con i frullatori che per aprirli hai bisogno di un set di cacciaviti speciali che non si vendono da nessuna parte. Usano delle viti assurde per rendere più difficile aggiustarli. E’ una cattiveria!
Basta imporre un po’ di buon senso da padre di famiglia e si riesce a far ragionare anche i maniaci dello spreco per il profitto.
Il potere d’acquisto dei lavoratori e dei pensionati è una cosa che può terrorizzare le multinazionali più di qualunque sciopero selvaggio.
Non devo certo dirtelo io che i capitalisti temono solo di perdere soldi. Tu li conosci, per un dollaro sono disposti a fare a pezzi un bambino, non li ferma niente, sarebbero disposti perfino a vendere prodotti di migliore qualità a prezzi ribassati e a produrti ananas pagando i contadini dell’Uganda salari da esseri umani.
E perché non ci sono gli alberghi che offrono il pacchetto CGIL? Forse che non abbiamo a cuore le vacanze operaie? E si potrebbe sottoscrivere anche una convenzione con Slow Food per avere il pranzo operaio calmierato nei migliori ristoranti recensiti dalle guide per golosi della Banda Petrini. Ogni iscritto alla CGIL una volta tanto può pagare quanto una pizza una cena completa in un ristorante classificato con 7 forchette e mezza. In un momento di crisi come questa credo che accetterebbero un accordo per un milione di pasti last minute.
E già che ci siamo perché non fare un accordo con le pizzerie? Pizze operaie, solo con vera mozzarella e olio extravergine di oliva spremuto a freddo e senza solventi, pomodoro al naturale, tutto biologico. Ne compriamo 5 milioni a 3 euro l’una.
Si potrebbe fare una guida spessa come le Pagine Gialle con tutti i prodotti offerti dal gruppo d’acquisto sindacale nazionale, dagli slip commestibili (indispensabili per l’operaio moderno) ai computer a manovella, ai pannelli fotovoltaici (Beghelli Energia Proletaria).
Poi potremmo esagerare e realizzare servizi di teleriscaldamento finanziati dai fondi di investimento di Banca Etica, taglieremmo del 30% le spese di riscaldamento già il primo anno. Ripagato l’investimento iniziale, in 6 anni, otterremo un risparmio del 50% almeno.
Caldaie a trigenerazione alimentate con un mix di biogas (denaro dalla cacca) biomasse (gas dalla spazzatura organica secca) geotermia (calore della terra), solare, eolico, idrico e decine di palestre proletarie dove si fa fitness e contemporaneamente si produce energia elettrica grazie a dinamo collegate alle cyclette. E anche le piste da ballo dei festival dell’Unità potrebbero dare una mano, basta far ballare le persone sopra a pedane rivoluzionarie che contengono microstantuffi che trasformano il saltellare dei ballerini in megawatt.
E potremmo fare qualche cosa anche per risolvere il dramma di milioni di giovani che non possono neppure sperare di comprarsi una casa. Con Enrico Martini (manager con grande esperienza costruttiva e innovativa) e Banca Etica, stiamo da alcuni mesi studiando un progetto di autocostruzione di una casa di 80 metri quadrati che costi meno di 60 mila euro. Si monta senza palchi, senza gru, basta una carrucola, una corda, un avvitatore, un trapano e una sega a disco. Se la CGIL ne ordina 10mila credo che il prezzo scenderebbe a 40mila euro. E parliamo di case ad altissima efficienza energetica, dotate di pannelli solari termici e fotovoltaici. Magia dei grandi numeri. Esiste una legge, costata dure lotte, che permette ai comuni di cambiare la destinazione d’uso di un terreno, rendendolo edificabile, se viene utilizzato per l’autocostruzione gestita in cooperativa da persone appartenenti a specifiche fasce di reddito.
In alcuni casi la legge prevede anche l’abbattimento delle spese fiscali e degli oneri di urbanizzazione.
E che dire del patrimonio enorme di costruzioni esistenti, inutilizzate, che le cooperative di autocostruzione potrebbero recuperare?
Io credo che se mettiamo in fila tutte le economie che si potrebbero realizzare razionalizzando e consociando la spesa delle famiglie dei lavoratori, potremmo ottenere un risparmio ben più alto di uno stipendio all’anno. Potremmo realisticamente arrivare a due stipendi all’anno, dando più potere d’acquisto ai salari in quasi tutti i campi.
E maggiori occasioni di socializzazione, che fa bene.
E visto che mi piace sognare mi perdonerai se mi sono immaginato anche un grande manifesto, più grande di quelli di B., attaccato davanti all’ingresso di della Fiat di Pomigliano che dice:
“Miliardi di euro in più nelle tasche dei lavoratori. E pizze migliori per tutti! (Chi compra da solo è perduto)”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/21/caro-epifani/42499/
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Montagne
Questa torrida estate ci invita a sognare lunghi soggiorni in montagna e stimola una domanda: le montagne sono un semplice corrugamento della crosta terrestre, una barriera all’orizzonte degli uomini, un mero dato geografico? No, per fortuna. L’universo delle montagne rappresenta un insieme di valori, un sistema di riferimenti che caratterizza la vita quotidiana di milioni di uomini e donne.
Roberto Bombarda – 18.07.2010
Le montagne sono state e per molti sono ancora qualcosa di diverso, di utile, di attuale. Potremmo partire, di nuovo, proprio dalla geografia per ricordarci che le montagne sono lo scrigno delle acque e della biodiversità, patrimoni collettivi ed invendibili.
Le montagne, con il loro apparente “immobilismo”, con l’irridente grandezza di fronte alla dimensione minuscola della specie umana riportano gli uomini alla loro dimensione di finitezza temporale. Le montagne ripropongono dunque il principio del limite, la cui valenza è di estrema attualità. Stiamo esaurendo le risorse del Pianeta senza tenere in debito conto che tante e tante generazioni verranno dopo di noi. Dobbiamo sentire su di noi i loro occhi, le loro aspettative, le loro esigenze di poter contare su risorse disponibili e non compromesse. Questo sarà possibile solo se sapremo riappropriarci proprio del principio del limite e lo sapremo fare nostro, praticandolo nel quotidiano.
Ma le montagne educano anche alla solidarietà, poiché in ambienti difficili è l’unione delle forze la soluzione dei problemi. Le secolari carte di regola che hanno governato per un lungo periodo le comunità della montagna alpina sono una straordinaria testimonianza di come l’utilizzo dei beni ambientali, beni collettivi per antonomasia, dovesse essere regolato in maniera concertata.
Oggi possiamo distinguere nitidamente montagne da montagne, per livelli di ricchezza, per stili di vita, per conservazione della natura e della cultura. Ci sono, come scrive Mauro Corona, “montagne dove nevica firmato” ed altre dove regnano ancora la solitudine, l’abbandono, il degrado fisico e sociale.
Ma le montagne possono dare nuovo valore al futuro, ai modelli di sviluppo. Ed in questo processo anche dalle “nostre” regioni di montagna, dalle Alpi nuovamente al centro di iniziative per una loro visione come “regione autonoma” nel cuore dell’Europa (si legga ad esempio l’ultimo contributo di Morandini e Reolon), possono iniziare discorsi concreti.
Io credo che prima o poi le Alpi diverranno “regione autonoma” d’Europa e, da Grenoble a Vienna, Patrimonio dell’Umanità. Circa 14 milioni di abitanti in poco meno di duecentomila chilometri quadrati, divisi da molti confini per fortuna sempre meno rigidi, ma uniti da una natura comune – l’area di biodiversità più grande d’Europa – da tradizioni e stili di vita incredibilmente vicini e da una civiltà che, come scriveva Paul Guichonnet nell’opera “Storia e civiltà delle Alpi”, “è fondata sulla libera determinazione delle collettività locali, autonome e responsabili”. Così l’arco alpino (le “Alpi-aperte”) – concludeva il grande studioso – “non sarà più uno spazio alienato, colonizzato, assistito, ne’ una merce: montagna, neve e parchi naturali, la cui promozione avviene sul mercato del consumismo turistico. Le Alpi, terra di grandezza e di fatica, riunendo fra loro tradizione e rinnovamento, saranno anche la terra di una libertà riconquistata, nella fiducia in un destino originale”. Un altro studioso delle Alpi, Werner Baetzing, scrive nel suo lavoro “Le Alpi: una regione unica al centro dell’Europa” che le nostre montagne possono diventare – con l’acqua e le biomasse, con la natura e la cultura – il “battistrada” per l’intero continente. “Perché in passato, proprio prendendo a modello le Alpi, l’Europa ha sviluppato la propria concezione della natura e dell’ambiente… sempre facendo riferimento alle Alpi si potrebbero discutere con particolare vigore anche le questioni di fondo dello sviluppo sostenibile, affinché una tematica così importante non venga codificata solo in base a considerazioni astratte, ma contenga in sé la chiarezza materiale e il fascino emozionale propri delle Alpi”.
“La lezione più alta che viene dai popoli montanari – ha scritto infine lo storico Luigi Zanzi nell’opera “Le Alpi nella storia d’Europa” – è quella di una cultura in cui le priorità della “qualità della vita” coincidano con scelte di un’etica consapevole della propria radice ambientale e della propria storia”. La civiltà delle Alpi è cresciuta sul valore dell’intesa e della pace con la natura. Le popolazioni delle Alpi sono oggi la vera “minoranza d’Europa”; una minoranza non etnica, storica o nazionale, ma una minoranza ambientale, multiculturale e multi linguistica. Un tesoro di diversità che può diventare il riferimento per le politiche del futuro e fare delle Alpi, come proposto dalla Cipra, la prima regione con uno sviluppo rispettoso del futuro e del clima. Oggi ci sono gli strumenti, anche politici: la Convenzione delle Alpi, tristemente inattuata in Italia con i suoi protocolli e le dichiarazioni ci indica la strada. Porta la data del 14 ottobre 1999 la legge di recepimento della Convenzione, accordo firmato addirittura nel 1991. Poco, troppo poco è stato fatto finora per dare seguito a quegli impegni. Non solo da Roma, ma anche da Trento, Bolzano ed Innsbruck. Questa sì che sarebbe una politica a favore delle Alpi. E delle montagne del Pianeta. “Il futuro appartiene a chi vuole partecipare attivamente alla sua costruzione”, ha scritto il presidente della Cipra, Dominik Siegrist nell’introduzione del terzo, interessantissimo, Rapporto sullo stato delle Alpi. Un invito per tutti i montanari di nascita o di adozione a farsi portatori, ogni giorno, di un modo di vedere e di “gestire” il mondo più responsabile, più rispettoso dell’ambiente e delle persone che vivono qui ed ora, ma anche nei millenni a venire! Questo insegnano le montagne, a tutte le latitudini e con tutti i climi possibili.
http://www.politicaresponsabile.it/temi/16/montagne.html
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La rinuncia al carbone un bivio per l’Europa 22.07.2010
MARIO DEAGLIO
Dopo tante prove di inconsistenza, in due giorni dall’Unione Europea sono arrivati altrettanti segnali di vitalità. Il primo è rappresentato dalla controversa e sicuramente sofferta decisione di martedì su Sky Italia, che potrà partecipare, a determinate condizioni, alla gara autunnale per le nuove frequenze della tv digitale terrestre. Ieri è venuto il secondo segnale, che risulterà forse ancora più controverso, che riguarda le miniere di carbone, uno dei settori più antichi dell’economia industriale, quasi un’icona della prima industrializzazione.
Il carbone è, per così dire, la «madre» dell’Europa moderna e questo non solo perché la prima guerra mondiale si combatté attorno alle miniere di carbone e di ferro dell’Alsazia e della Lorena ma anche perché, proprio per superare lo storico contrasto che opponeva duramente Francia e Germania, venne costituita nel 1951 la Ceca (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), primo mattone di quella costruzione economico-politica che oggi si chiama Unione Europea. E i primi treni a traversare le frontiere comunitarie senza pagare dazi furono i lunghi, grigi convogli che spostavano carbone e ferro tra i sei Paesi dell’originaria intesa europea.
La Commissione europea – per bocca di Joaquín Almúnia, commissario alla concorrenza, uno dei più esperti membri del «governo» europeo – propone quindi una sorta di matricidio. Almúnia vuole eliminare i sussidi alle miniere entro quattro anni e in questo periodo ritiene che vadano erogati solo alle miniere che hanno già deciso di chiudere, «accompagnandole» così al momento terminale della loro attività. Questo significa dire di fatto addio all’estrazione del carbone, storica pietra angolare dell’intesa originaria franco-tedesca perché quasi tutte le miniere europee stanno in piedi con soldi pubblici. Certo, l’Europa non farà automaticamente a meno del carbone per i suoi fabbisogni energetici ma riceverà un forte segnale politico per l’impostazione di una nuova politica energetica. Il carbone che si continuerà a importare costerà comunque meno di quello che non si produrrà più e si deve sperare che le risorse così risparmiate siano destinate al risparmio energetico e alla ricollocazione dei minatori.
Se la proposta avrà davvero un seguito, alle prossime conferenze mondiali per la riduzione dell’inquinamento l’Europa si troverà posizione decisamente più forte che in passato. Per anni, con grande ipocrisia, l’Unione Europea con una mano ha cercato di costruire, con l’altra ha disfatto: ha preteso che le imprese riducessero l’inquinamento (con l’introduzione, tra l’altro della carbon tax) e con l’altra ha finanziato, mediante i sussidi, le peggiori sorgenti di inquinamento energetico, ossia proprio le miniere di carbone. In questo, l’Europa non è stata certo sola: forme varie di protezione sono presenti in quasi tutti i Paesi ricchi e il «basta!» di Almúnia permetterebbe all’Europa di puntare il dito sull’ipocrisia degli altri.
Sempre che la misura venga effettivamente varata. La fine dei sussidi colpirebbe infatti duramente le economie di Polonia e Romania per le quali le esportazioni di carbone e acciaio hanno rappresentato una sorta di «polmone» con cui finanziare la propria trasformazione industriale. Le prime reazioni negative sono però venute da due Paesi in cui il carbone pesa molto meno ma le organizzazioni sindacali dei minatori molto di più, ossia Spagna e Germania. La Germania, in particolare, vedrà messo alla prova il suo «perbenismo di mercato» per cui guarda plaude alla libera concorrenza e guarda con orrore ai sussidi degli altri. Ora che i suoi interessi sono direttamente toccati, si vedrà che cosa saprà veramente fare il governo di Berlino sulla via «virtuosa» della concorrenza.
Nata con il libero commercio del carbone, l’Unione Europea darà un forte segnale di vitalità se saprà abbandonare gradualmente il carbone. Nella generale corsa degli europei a rifugiarsi nel localismo, una delle poche eccezioni è rappresentata dall’interesse unificante per la difesa dell’ambiente. Al «partito del carbone» che nei prossimi mesi cercherà di bloccare la mossa della Commissione si oppone il «partito dell’ambiente»: l’esito di questo scontro sarà assai rilevante per il nostro futuro.
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Foucault 24.04.2009
Prolegomeni a una genealogia della soggettività rivoluzionaria
di Andrea Russo
Durante uno dei suoi ultimi corsi al Collège de France – L’ermeneutica del soggetto -, Foucault affronta il tema delle tecniche di soggettivazione praticate nell’antichità e in epoca moderna. Durante lo svolgimento del corso, il filosofo francese arriva a proporre, come possibile pista di ricerca, una genealogia della soggettività rivoluzionaria, ossia una storia analitica e comparativa delle tecnologie relative a quella forma altra di soggettivazione che ha scandito fin dal suo inizio la modernità. Il progetto di una genealogia della soggettività rivoluzionaria è un compito che in qualche modo Foucault ci ha affidato anche se in pochi se ne sono finora fatti carico L’archivio che da un po’ di tempo sto cercando di costruire va in questa direzione. Si tratta di exempla storici che racchiudono le modalità attraverso cui i molti si ribellano alla molteplicità dei dispositivi di assoggettamento. L’unica regola che mi sono imposto di seguire è un’indicazione metodologica che ho estrapolato dalla Cura di
sé: «[…] intorno alla cura di sé si è sviluppata tutta un’attività […] in cui sono strettamente legati il lavoro che uno fa su se stesso e la comunicazione con gli altri. […] Essa costituisce non già un esercizio della solitudine ma una vera e propria pratica sociale […]. La cura di sé – o il farsi carico della cura che gli altri devono avere di se stessi – appare allora come una intensificazione dei rapporti sociali» . Foucault non cessa di sottoporre l’interiorità a una critica
radicale: la cura di sé, in quanto lavoro di sé su sé stessi, è qualcosa che si fa in solitudine, ma, divergendo dal solipsismo, è un’esperienza che gli altri possono incrociare o riattraversare. Non c’è soggettivazione singolare che non incontri altre soggettività, altre lotte, altre moltitudini con le quali comporsi. In questi exempla, la cura di sé, come possibilità di diventare altro da ciò che si è, procede di pari passo con la creazione di nuove comunità resistenti e forme di vita non remissive e irriconciliate. Nelle mie intenzioni l’archivio dovrebbe servire a fornire una base di significatività storica per attualizzare/problematizzare il tema della spiritualità politica.
Nella prima lezione dell’Ermeneutica del soggetto – corso del 6 gennaio 1982 -, Foucault opera una divisione fondamentale tra filosofia e spiritualità, tra conoscenza di sé e cura di sé. A suo avviso questa grande divisione – concernente la storia della verità – si attiva dentro quello che lui chiama il momento cartesiano, cioè attraverso quel periodo e quegli autori che fin dall’inizio dell’età moderna introducono nelle pratiche di pensiero ciò che ha permesso una sorta di oblio della cura di sé a favore dell’egemonia filosofica della conoscenza di sé. Foucault introduce quindi una distinzione inedita ed originalissima: se per filosofia bisogna intendere quella forma di pensiero che si interroga su quello che permette al soggetto in quanto tale di avere accesso alla verità tramite la conoscenza, per spiritualità intenderemo una pratica, una ricerca e un’esperienza attraverso la quale il soggetto opera su di sé la trasformazione per aver accesso alla verità. Appare chiaro, fin dalle prime battute del corso, che la spiritualità a cui fa riferimento Foucault è tutt’altra cosa da ciò che siamo abituati a pensare come tale.
La spiritualità possiede tre caratteristiche che la distinguono dalla filosofia. Per prima cosa con essa si postula che la verità non è data di diritto al soggetto, ovvero che questo non vi arriva attraverso un atto di conoscenza, ma è necessario che il soggetto si trasformi in altro da sé per avere accesso alla verità. In sostanza significa che senza conversione, senza trasformazione, senza esperienza, il soggetto non può avere accesso alla verità, cosa che ci porta a riconoscere il secondo aspetto della spiritualità, ovvero che essa si compie attraverso diverse pratiche e attraverso un momento ascensionale o discendente della verità che Foucault chiama il movimento dell’eros.
La spiritualità è dunque un lavoro, un lavoro di sé su di sé, che progressivamente trasforma il soggetto. Terza caratteristica è il fatto che lo stesso accesso alla verità produce degli effetti di retour della verità sul soggetto. Abbiamo dunque due momenti di trasformazione del soggetto: il primo è dovuto allo sforzo del soggetto per accedere alla verità, nel secondo momento è la verità stessa che investe il soggetto e lo pone dentro una possibilità radicale di trasformazione. Il momento cartesiano, secondo Foucault, ha occultato tutto questo tipo di lavoro su di sé mettendo la conoscenza al posto del comando, ciò comporta che il soggetto non debba operare alcuna modificazione per accedere alla verità. Per tutta una modernità, secondo il filosofo francese, la filosofia è stata caratterizzata dall’aver trattato la spiritualità all’interno della conoscenza e non in maniera autonoma. In fondo, la filosofia ha assoggettato la pratica della spiritualità alle vertigini delle leggi della conoscenza e la soggettività concreta al soggetto trascendentale.
Gli scienziati moderni – dice Foucault – ritengono che si possa riconoscere una falsa scienza da un preciso indizio: se essa richiede una trasformazione del soggetto per accedere a dei risultati è una contro-scienza. Le contro-scienze di cui il filosofo francese si occupa nel Corso sono la psicanalisi e il marxismo che, egli sostiene sarebbe sbagliato assimilare tout court a dei sistemi religiosi; esse invece presentano esattamente il problema dell’essere del soggetto, del retour della verità sul soggetto e della sua trasformazione radicale. Il problema di quelle contro-scienze consisteva, secondo lui, nel fatto che nessuna delle due, nel proprio specifico sviluppo storico, ha saputo affrontare con chiarezza e determinazione questa problematizzazione della spiritualità. Anzi l’hanno spesso mascherata: il marxismo con l’appartenenza alla classe e al partito, la psicanalisi con l’appartenenza a una scuola. Secondo Foucault, il prezzo pagato per questa trasposizione del problema verità e soggetto nel partito o nella scuola di pensiero è, appunto, l’oblio del rapporto di immanenza che esiste tra la verità e il soggetto e dei modi per autosoggettivarsi. Il problema allora sarà di vedere come questa antica questione della spiritualità, come tecnologia del sé, sia riemersa e si sia legata alla scelta e alla pratica rivoluzionaria. Ma bisognerà anche vedere, d’altro lato, innanzitutto in che modo la nozione di spiritualità è stata, a poco a poco, prima legittimata, e poi progressivamente sussunta e infine annullata, proprio dall’esistenza di un partito rivoluzionario.
Con il rischio di apparire un po’ pedanti, va ricordato che, di qualcosa di simile a una spiritualità politica, Foucault si è già ampiamente occupato nelle lezioni tenute al Collège de France nei primi mesi del 1978 (Sicurezza, territorio, popolazione). In queste lezioni, il filosofo francese concatena l’analisi del potere pastorale come modello di governo delle condotte degli uomini con la riflessione sulle controcondotte che oppongono una resistenza spirituale a questo genere di potere. Egli dice che il Medioevo ha elaborato controcondotte che contestano, in modo più o meno radicale, il potere pastorale riguardo alle questioni della salvezza, dell’obbedienza e della verità, attraverso le esperienze dell’ascetismo, delle comunità, della mistica, dell’interpretazione autonoma della Scrittura, delle credenze escatologiche. Ma, oltre la specificità religiosa delle controcondotte, Foucault evidenzia il fatto che esse non sono mai estranee alle lotte immediatamente politiche, ossia ai conflitti della borghesia contro il potere feudale, alla contrapposizione fra economia urbana ed economia rurale, ai tentativi di emancipazione delle donne nell’ambito della società religiosa o civile. Anche per via di questa non separatezza dalla dimensione politica, le resistenze spirituali ad un potere che interviene direttamente sui comportamenti degli uomini, si riprodurranno in forme nuove tra il XVII e il XVIII secolo, quando, con la secolarizzazione, la sovranità dello Stato si darà essa stessa dei compiti pastorali nell’esercizio della propria governamentalità .
Per questo, in un certo senso, l’entusiasmo etico-spirituale delle resistenze antipastorali si ripresenterà in fenomeni come quelli della diserzione militare, della contestazione delle istituzioni mediche, ma in seguito anche nel ritorno, attraverso le rivoluzioni politiche, delle visioni escatologiche, del rifiuto dei rapporti di obbedienza, della ricerca di una verità alternativa della società. Sarà proprio l’insieme dei temi potere pastorale, governo, nesso spiritualità-rivolta a spingere Foucault ad avventurarsi in Iran.
Nell’Ermeneutica del soggetto, Foucault dispiega tutto lo spessore filosofico della sua idea di spiritualità, presentandola nella forma di sapere etopoietico corrispondente alla cura di sé. L’etopoiesi è quel sapere che gli consente di porre in relazione l’uno con l’altro i temi del potere, della verità e del soggetto, che nelle sue ricerche precedenti, invece, aveva trattato indipendentemente l’uno dall’altro.
Uno dei meriti maggiori della produzione foucaultiana degli anni Ottanta è proprio quello di avere, da un lato, decostruito la nozione di soggetto trascendentale e di verità ad esso connesso; dall’altro, di aver introdotto una metodologia di indagine storica, in grado di legare l’analisi della genealogia delle forme della soggettività ad una storia degli effetti politici del dire il vero, che prende effetto, a sua volta, in un contesto di relazioni di forza e di potere. Una tale interpretazione sfocia in una politica (provare a liberare gli individui da certe discipline e da certi tipi di
individualità) e in un’etica (inventare delle pratiche di libertà e dei nuovi rapporti di potere). La lotta per una soggettività inedita passa attraverso la resistenza alle forme di assoggettamento che fissano ogni individuo a un’identità determinata una volta per tutte; essa si manifesta come diritto alla differenza, e come diritto alla variazione, alla metamorfosi. In seguito, «ci potrà essere un momento in cui la popolazione, rompendo tutti i legami di obbedienza, avrà effettivamente il diritto, non in termini giuridici, ma in forma di diritti essenziali e fondamentali, di rompere tutti i legami di obbedienza che ha potuto avere con lo stato ed ergendosi contro di esso potrà dirgli: è la mia legge, (…) è la legge dei miei bisogni fondamentali che deve sostituirsi alle regole dell’obbedienza.
Escatologia, quindi che assume la forma del diritto assoluto alla rivolta, alla sedizione, alla rottura di tutti i legami dell’obbedienza – il diritto alla rivoluzione» .
Le tematiche che ho fin qui ricapitolato costituiscono l’apriori metodologico dell’archivio a cui sto lavorando. In sostanza, si tratta di fornire una base di significatività storica all’ipotesi che la cura di sé, in quanto tecnica di soggettivazione singolare, è nello stesso tempo un processo di soggettivazione collettivo, e che è questo doppio binario, che diventa uno, a produrre una mutazione antropologica. Nei miei intendimenti, la genealogia della soggettività rivoluzionaria è innanzitutto e per lo più storia sempre rinnovata di un’etopoiesi dal basso. Questo tipo di sapere che si articola piegando costantemente una sull’altra le dimensioni del sapere, del potere e del sé, implica anche sempre la centralità dell’esperienza del corpo nelle lotte politiche. Soggettivarsi liberamente passando attraverso una desoggettivazione, cioè distaccandosi da sé stessi, è anche una forma di conversione nella misura in cui essa sorge da un vasto movimento di sottrazione del corpo alle strutture dell’identità, dell’assoggettamento e dello sfruttamento. Rispetto alle teorie del potere di stampo marxista, l’etopoiesi produce uno scarto: la soggettività non cambia perché la lotta di classe ha trasformato complessivamente i processi economici; semmai è vero proprio il contrario: senza controcondotte, senza produzione dal basso di forme di soggettività meno assoggettate, non è probabilmente possibile nemmeno incidere sul piano molare, cioè non è strategicamente possibile mettere in moto una trasformazione economica e politica della società. Certamente i meccanismi di assoggettamento non possono essere studiati al di fuori del rapporto con i meccanismi di sfruttamento e di dominio. Tuttavia, essi non costituiscono semplicemente il terminale della classica dicotomia struttura economica/sovrastruttura ideologica.
In prima approssimazione, per ciò che attiene il passaggio dal Medioevo all’età moderna, la genealogia del soggetto rivoluzionario si fa a mezzo di una ricerca storica sull’insurrezione delle condotte tipiche delle rivolte pastorali di prima e seconda Riforma, dei movimenti di resistenza all’enclosure (la recinzione delle terre che in precedenza erano di uso comune), della Rivoluzione inglese degli anni 1640-1650, delle rivolte delle motley crews che costellano l’organizzazione commerciale e finanziaria del capitalismo e dell’imperialismo atlantico, della presenza di queste ultime nella Rivoluzione americana. Si tratta di confrontarsi con la lunga durata della trasmissione circolare del sapere etopoietico dall’Europa all’Africa alle Americhe e ritorno. In seguito bisognerà proseguire nella modernità e postmodernità.
Secondo Foucault, l’idea che possa esistere un governo degli uomini, sarebbe estranea alla tradizione greco-romana e avrebbe avuto origine piuttosto in un Oriente precristiano. Se questo tipo di potere nelle sue rappresentazioni più antiche resta per lo più a un livello di raffigurazione metaforica del potere regale o divino, troverà una propria istituzionalizzazione effettiva soltanto con il Cristianesimo.
Il processo grazie al quale una comunità religiosa si costituisce come Chiesa, cioè come un’istituzione che aspira al governo degli uomini nella loro vita quotidiana al fine di condurli alla vita eterna in un altro mondo, non limitandosi a una città o a uno stato, ma rivolgendosi all’umanità intera -, è un evento senza precedenti nella storia delle società. A partire dal II, III secolo d.C. fino al XVIII, il potere pastorale, strettamente collegato all’organizzazione di una religione come Chiesa, non ha mai smesso di svilupparsi. Con ciò non si vuole affermare che il potere pastorale sia rimasta una struttura invariata e stabile per quindici secoli della storia cristiana. Anzi, per Foucault, si potrebbe persino sostenere che «l’importanza del potere pastorale, la sua forza, la profondità stessa del suo radicamento si potrebbe misurare dall’intensità e dal numero di agitazioni, rivolte, malcontenti, lotte, battaglie, guerre sanguinose che sono state condotte attorno a esso, per esso e contro di esso» .
Dal XIII al XVIII secolo in Occidente si è svolta la grande battaglia intorno al problema pastorale, senza che il pastorato sia stato abolito nei fatti. Da questo punto di vista, anche la Riforma luterana e anglicana, nonostante abbiano elaborato un pastorato cristiano alternativo a quello romano, non hanno rinunciato al pastorato, ma bensì hanno contribuito ad un suo prodigioso consolidamento. In definitiva, Foucault dice che il potere politico feudale è andato incontro a rivoluzioni, o comunque si è scontrato con processi che l’hanno eliminato ed estromesso dalla storia occidentale, mentre il pastorato non ha ancora conosciuto il processo di rivoluzione profonda che lo avrebbe definitivamente congedato dalla storia.
Dal Medioevo all’inizio della modernità, il potere pastorale ha controllato ogni aspetto della vita individuale e comunitaria. Dal battesimo al funerale, esso guidava l’intera vita terrena dell’uomo, garantendone la salvezza. La chiesa aveva il monopolio dell’educazione dei bambini; nelle parrocchie dei villaggi, dove la massa dei contadini era analfabeta, il sermone del parroco costituiva la fonte più importante di informazione sui fatti e sui problemi del momento, e la guida per la condotta economica. La stessa parrocchia era un importante organo locale di governo che accentrava e provvedeva all’assistenza dei poveri. Il potere ecclesiastico controllava i sentimenti degli uomini, indicava loro ciò che dovevano credere e organizzava per loro divertimenti e spettacoli. La chiesa svolgeva le funzioni dei moderni servizi di informazione e di propaganda. Ecco perché la gente prendeva appunti durante i sermoni, ecco perché i vertici della chiesa indicavano minuziosamente ai predicatori quanto dovevano dire. Il pulpito era il mezzo più efficace per influenzare le masse: nelle campagne di tutta Europa poi la chiesa era l’unico centro di vita sociale per la popolazione, l’unico luogo d’incontro; e come se ciò non bastasse era obbligatorio frequentare i servizi religiosi, pena ammende pecuniarie. I vertici della chiesa avevano così ben compreso l’importanza della posta in gioco, che cercarono sempre di controllare i pulpiti con estremo rigore. Si redigevano raccolte ufficiali di prediche, con l’obbligo che fossero lette in tutte le parrocchie dei regni, e il sermone finale, non casualmente, era una lunga orazione contro la disobbedienza e la ribellione. Per il potere pastorale, il monopolio del pulpito costituiva uno snodo strategico fondamentale per il mantenimento dell’ordine sociale.
Nella misura in cui il potere pastorale si pone come oggetto la condotta degli uomini, correlativamente sorgeranno dei movimenti specifici di rivolta della condotta, che avranno per obbiettivo il semplice fatto di voler essere condotti diversamente, da altri pastori, con altre procedure, altri metodi. Si sviluppano una serie di movimenti che cercano nuovi modi di conduzione, e che riusciranno a sottrarre il monopolio del pulpito al pastorato cristiano romano, ottenendo sempre più consensi fra la popolazione. In questa prospettiva, ho raccolto una serie di testi che riguardano le tecniche di predicazione e gli stili di vita dei movimenti ereticali. La mia impressione è che queste tecniche presentano una strana somiglianza con la pratica paressiastica della predica critica, a cui Foucault fa riferimento in Discorso e verità nella Grecia antica.
È nell’ambito delle riflessioni sulle tecniche pastorali, che dal lavoro di Foucault emerge la tematica delle controcondotte, mediante la quale egli definisce le espressioni di resistenza al pastorato ecclesiastico. Dal XIII al XVIII secolo si è prodotta una straordinaria proliferazione di controcondotte che ha attraversato le stratificazioni sociali e le unità individuali. In generale, la Riforma protestante ha codificato questi punti di resistenza in un pastorato alternativo a quello romano. Senza però dimenticare che questa profonda riorganizzazione del potere pastorale è avvenuta reprimendo l’ingovernabile, cioè l’ampia galassia del non conformismo radicale. Questi movimenti vanno compresi come movimenti autonomi nel quadro del paradigma riformato. Si ha qui a che fare con movimenti laicali d’ispirazione anticlericale che, costruendosi dal basso, si scagliano anche contro i nuovi poteri statali rivoluzionari. Lutero temeva che la sua Riforma venisse compromessa agli occhi dei principi dalle richieste economico-sociali dei contadini, così come il parlamento di Cromwell rischiava la crisi per le avanzate richieste di Livellers e Diggers.
A conclusione di questa breve introduzione metodologica, mi preme sottolineare che, con la genealogia della soggettività rivoluzionaria, non s’intende istituire una storia monumentale della tradizione rivoluzionaria, quanto piuttosto un breviario del sapere delle lotte che ci indichi come praticare la produzione di sé al di fuori della forma-Partito.
http://materialiresistenti.blog.dada.net/post/1207081512/Foucault
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Tumori, da proteina HIV aiuto contro angiogenesi 19.07.2010
Moderni “cavalli di Troia” molecolari per insidiare il cancro da dentro, e combattere l’angiogenesi sferrando l’attacco all’interno delle mura delle cellule endoteliali.
Gli scienziati italiani del Gruppo MultiMedica guidati da Adriana Albini, hanno introdotto nelle cellule dei vasi sanguigni un interruttore proteico capace di spegnere uno dei recettori più subdoli per lo sviluppo delle neoplasie, il recettore MET.
La ricerca, sostenuta da AIRC e dalla Compagnia di San Paolo di Torino è stata pubblicata sulla rivista scientifica internazionale Oncogene del gruppo Nature Press.
“La strategia – spiega Adriana Albini, Direttore Scientifico MultiMedica Castellanza e Responsabile Ricerca Oncologica dell’IRCCS MultiMedica – sfrutta la capacità che hanno alcune sequenze virali di penetrare attraverso la membrana cellulare all’interno delle cellule bersaglio“.
La sperimentazione è stata condotta dalle giovani ricercatrici Anna Rita Cantelmo e Rosaria Cammarota, che hanno osservato come sia stato possibile bloccare le principali risposte biologiche indotte dal recettore MET nelle cellule endoteliali sfruttando le capacità di ingresso della proteina TAT del virus HIV.
Hanno collaborato alla scoperta vari studiosi, tra cui Maria Prat dell’Università di Novara, Douglas Noonan dell’Università di Varese, il CBA di Genova, e il Direttore dell’Istituto Oncologico IRCC di Candiolo (Torino), Paolo Maria Comoglio.
“Nella ricerca per la salute spesso si sfruttano paradossalmente proprietà dei patogeni – prosegue Adriana Albini – così la nostra esperienza sulla proteina necessaria alla replicazione del virus dell’AIDS ci ha permesso di imitare un percorso vizioso virale e trasformarlo in virtuoso, anticancro. Sfruttando una piccola porzione della proteina del recettore MET coinvolta nella trasduzione del segnale siamo riusciti a bloccare la capacità delle cellule endoteliali di moltiplicarsi e formare nuovi vasi sanguigni“.
MET, il recettore ad attività tirosin-chinasica per il fattore di crescita degli epatociti (HGF), è un protagonista essenziale dell’angiogenesi associata a diverse condizioni patologiche, quali tumori, malattie reumatiche e degenerazione maculare, pertanto rappresenta un bersaglio importante di terapia.
La proteina “cavallo di Troia” ha esercitato la sua azione inibitoria in cellule e in modelli preclinici, senza manifestare effetti tossici e spegnendo MET ad una concentrazione più bassa rispetto agli inibitori già in commercio.
L’effetto è stato confermato anche quando viene guidata nelle cellule endoteliali da un altro “conducente“, una sequenza della proteina Antennapedia.
Per approfondire:
Nuovi orizzonti della terapia dei tumori
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America latina, la crisi non abita qui 22.07.2010
di Gennaro Carotenuto
Il continente intero nel 2010 crescerà del 5.2%. Se un tempo un battito d’ali a Wall Street provocava un uragano a Brasilia o a Buenos Aires, l’accelerata integrazione latinoamericana, voluta dai popoli e alla quale in questo decennio hanno dato impulso grandi dirigenti come Nestor Kirchner, Lula da Silva o Hugo Chávez, è stato solo un venticello (-1.9% nel 2009) nel Sud che continua a tessere la tela del proprio futuro da quando ha smesso di prendere ordini dalla Casa Bianca e dal Fondo Monetario Internazionale. Luci e qualche ombra dalla Patria Grande economica. I dati della Comisión Económica para América Latina y el Caribe (Cepal) delle Nazioni Unite sono contundenti nella loro complessità.
Da una parte il dato preoccupante è che la crisi non permette di creare posti di lavoro per settori a basso reddito e bassa educazione, e quindi i poveri nel 2010 sono ancora quasi 190 milioni, un terzo della popolazione totale, nonostante la disoccupazione sia diminuita dall’8.2% del 2009 al 7.8% di quest’anno. Inoltre i settori economici che più sono in crescita sono quelli che meno occupano (e più negativo impatto ambientale hanno), come l’agroindustria esportatrice (addirittura entusiasmante l’export argentino e brasiliano oltre che verso la Cina verso la sempre più presente India). Due soli paesi registreranno un PIL negativo. Haiti non ha alcuno strumento per fronteggiare la crisi e il terremoto di gennaio comporterà una diminuzione dell’8.5% del PIL e solo nel 2011 le commesse della ricostruzione riporteranno il segno positivo. L’altro paese che decrescerà, del 3%, è il Venezuela. Una decrescita tutta o quasi dovuta ad un solo dato, la catastrofica contrazione dell’export petrolifero del 30.4% dovuta alla crisi internazionale. Emerge in questo dato quanto chi scrive segnala da dieci anni. Se il governo bolivariano non punta tutto sull’uscita dalla (ricca) monocoltura petrolifera non riuscirà a mettere le basi per un Venezuela moderno e dall’economia diversificata e per sostenere le conquiste sociali di questi anni pagate essenzialmente con la bonanza petrolifera. Il paradosso è dunque che il paese e il governo che più hanno fatto per l’integrazione del continente oggi è ancora uno dei più sensibili agli alti e bassi internazionali del prezzo e del consumo di greggio. Integrazione, commercio regionale, politiche pubbliche, sono le chiavi. Non è un caso che ai vertici della crescita ci sia la coesione dei quattro paesi del Mercosur: il Brasile cresce del 7.6%, Uruguay, Paraguay e Argentina del 7%. Poco più in basso c’è il Perù e intorno al 5% troviamo Repubblica Dominicana, Panama e Bolivia. Più indietro, ma sempre con un recupero tra il 2 e il 4% gli altri, i centroamericani, il Messico, il Cile, la Colombia, l’Ecuador. Per Alicia Barcena, segretario generale del CEPAL, le ragioni della resistenza alla crisi dell’America latina vanno ricercate nella persistenza di politiche e investimenti pubblici, alla centralità del mercato interno e alla grande diversificazione dei partner commerciali, soprattutto l’Asia, il Medio Oriente, l’Africa.
http://www.giannimina-latinoamerica.it/archivio-notizie/591-america-latina-la-crisi-non-abita-qui
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manovra, Tremonti, welfare di Maurizio Benetti
Pensioni, i ladri entrano dalle finestre 21.07.2010
Ecco come, attraverso modifiche tecniche alle “finestre” di pensionamento, nella manovra si consuma il furto ai danni dei futuri pensionati
Per un governo che per bocca del suo ministro del Tesoro aveva affermato solo qualche mese fa che mai avrebbe messo mano alle pensioni il decreto legge 78 in corso di approvazione rappresenta una solenne smentita. Gli interventi sul sistema pensionistico sono pesanti e alcuni hanno il carattere di un vero e proprio furto a danno dei lavoratori.
L’intervento iniziale del governo si limitava ad una modifica delle cosiddette finestre di uscita, ossia del periodo intercorrente tra la maturazione del diritto a pensione e la decorrenza (il pagamento) della pensione stessa.
Le finestre sono state introdotte con la legge 335/95 e hanno rappresentato un espediente per risparmiare sulla spesa pensionistica, Il diritto si matura ad una certa età, ma la pensione si percepisce alcuni mesi dopo con un risparmio per lo stato. Inizialmente erano previste solo per le pensioni di anzianità ed erano 4 all’anno con un intervallo massimo, quindi, di 3 mesi tra acquisizione del diritto e decorrenza della pensione. Le finestre sono state poi ridotte a 2 ed estese alla vecchiaia e alla pensione con 40 anni di contribuzione (legge 247/2007). Si è esteso quindi l’intervallo tra diritto e decorrenza a 3/6 mesi per la vecchiaia e i 40 anni e a 6/9 mesi per l’anzianità. Nel caso dei 40 anni questo produceva un evidente danno ai lavoratori che avendo raggiunto il massimo per il calcolo della pensione non potevano avere in contropartita della ulteriore permanenza al lavoro un miglioramento della pensione stessa.
Con il decreto il governo porta tutte le finestre ad una misura unica di 12 mesi. Dopo il raggiungimento dei requisiti pensionistici di vecchiaia, di anzianità o dei 40 anni la decorrenza della pensione avverrà dopo 12 mesi.
In pratica la pensione di vecchiaia non sarà più a 65/60 anni, ma a 66/61, i 40 anni di contribuzione diventano 41 e i requisiti di età/contribuzione e le quote per le pensioni di anzianità si innalzano di 12 mesi. Certo l’aumento rispetto ad oggi non è di 12 mesi, dato che le finestre erano già presenti, ma l’innalzamento dell’età effettiva di pensionamento è di circa 6 mesi e produce un sensibile risparmio che la Relazione Tecnica quantifica in 0, 36 miliardi di euro nel 2011, 2,6 miliardi nel 2012 e 3,5 miliardi nel 2013.
Per l’ennesima volte l’intervento sulle pensioni serve a fare cassa con buona pace di tutti coloro che hanno sempre giustificato o richiesto un intervento sulle pensioni al fine di riequilibrare la spesa sociale.
L’estensione della finestra per i 40 anni aggrava il problema prima indicato. I lavoratori che al momento della maturazione del diritto hanno raggiunto nel sistema retributivo il massimo della contribuzione lavoreranno senza che i mesi aggiuntivi servano a migliorare la pensione.
Il problema si pone anche nel sistema contributivo e nel misto. Chi va in pensione con questi sistemi a 65 anni si vede applicato un coefficiente di trasformazione calcolato in base alla speranza di vita a 65 anni. La sua pensione però inizierà a decorrere 12 mesi dopo a 66 anni. Subisce quindi una decurtazione del montante pensionistico pari ad un anno rispetto a quello a cui avrebbe diritto.
Questa “sottrazione” di montante pensionistico è poi accentuata dall’emendamento approvato in commissione bilancio del senato.
L’emendamento traduce in norma operativa, con qualche cambiamento, quanto già deciso lo scorso anno con la legge 102/2009 in merito all’adeguamento dell’età di pensionamento in base alla speranza di vita. La cadenza di modifica dell’età di pensionamento non è più quinquennale ma triennale e si specifica, fatto positivo, che la speranza di vita da prendere in considerazione è quella a 65 anni. Dal 2015 l’età di pensionamento di vecchiaia e di anzianità sarà elevata in base alla speranza di vita a 65 anni rilevata dall’Istat nel triennio precedente. E’ rientrata invece l’applicazione di questa norma ai 40 anni di età come inizialmente previsto. Non si trattava di un refuso, tantomeno di un refuso della Rgs, dato che la norma, per quel che si dice, è stata partorita dal presidente dell’Inps e da uno stretto collaboratore del ministro del lavoro.
L’emendamento affronta il problema dei coefficienti nel contributivo. Aumentando l’età di pensionamento sopra i 65 anni, infatti, si pone il problema dei coefficienti per età superiori ai 65 oggi non calcolati. L’emendamento prevede che quando gli incrementi dell’età pensionabile di vecchiaia superano di almeno una unità (12 mesi) i 65 anni debba essere calcolato il coefficiente corrispondente ai 66 anni e così via.
Tenendo conto delle finestre e del ritardo nel calcolo del nuovo coefficiente ci avranno dei lavoratori che percepiranno la pensione con più di 66 anni di età (fino a 66 anni e 11 mesi) con un coefficiente di trasformazione calcolato con la speranza di vita a 65 anni. Viene meno per questi lavoratori la corrispondenza tra montante contributivo e montante pensionistico con la sottrazione di più di 1 anno di ratei pensionistici.
Oggi per evitare questo i coefficienti non sono calcolati solo per gli anni interi, ma anche per i 12 mesi di ogni anno. Chi va in pensione a 64 anni e 11 mesi non ha il coefficiente di 64 anni, ma quello di 64 e 11 mesi. Per coloro che da oggi avranno la decorrenza della pensione a 66 anni e x mesi il coefficiente sarà invece quello di 65 anni.
Considerando la revisione dei coefficienti e l’innalzamento dell’età di pensionamento di vecchiaia la perdita sull’importo della rata di pensione derivante dalla mancanza dei coefficienti sopra i 65 anni varierà tra il 2015 e il 2020 tra il 3% e il 6% a seconda del ritardo nella decorrenza.
Gli interventi sull’età si possono accettare od hanno comunque una loro logica. Il mancato aggiornamento dei coefficienti è invece un intervento sull’importo di pensione e produce quello che possiamo qualificare come un furto a danno dei lavoratori.
L’emendamento è intervenuto anche sulla possibilità di ricongiunzione all’Inps delle posizioni pensionistiche. Oggi tutti i lavoratori dipendenti che hanno posizioni in Inpdap o nei fondi speciali possono ricongiungere o portare la loro posizione pensionistica in Inps (nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti) senza costi. L’emendamento elimina la gratuità dell’operazione imponendo pesanti oneri a carico degli interessati ossia di tutti quei lavoratori che si trovano ad avere periodi di contribuzione parte in Inps e parte in Inpdad o nei fondi speciali. Oggi questi lavoratori possono ricongiungere tutto nel Fpld senza oneri, in futuro saranno costretti a subire un pesante onere o a optare per la totalizzazione che, tuttavia, comporta il passaggio al calcolo contributivo con penalizzazione sull’importo.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Pensioni-i-ladri-entrano-dalle-finestre-5849
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Cannone laser antiaereo come in Guerre Stellari 21.07.2010
Presentato a Farnborough, in Inghilterra, un raggio invisibile capace di abbattere droni
WASHINGTON – Come nel celebre “Guerre Stellari” si combatte a colpi di luce, così l’America si attrezza per affrontare le guerre del futuro a colpi di laser: la Marina Usa ha messo a punto cannoni antiaerei che sparano fasci di luce invisibili all’occhio umano, ma in grado di abbattere un aereo in volo.
La nuova tecnologia è stata presentata al Farnborough International Air Show in Inghilterra. In un video sono state mostrate le immagini di un aereo senza pilota che improvvisamente prende fuoco. Ma non si tratta di un incidente: quell’aereo è appena stato colpito da un raggio invisibile. Il nuovo sistema di difesa – che non sarà disponibile fino al 2016 – si chiama Laser Close-In Weapon System (CIWS) ed è stato messo a punto dalla US Navy in collaborazione con la Raytheon Missilés Systems, una azienda specializzata in armi ad alta tecnologia.
Per ‘produrre’ quel raggio laser è stata utilizzato del materiale solido (vetro, ceramica) capace di lanciare un ‘lampo’ di luce da 50 kilowatt, tanto potente da abbattere un aereo in volo. Il test a cui si riferisce il video mostrato all’Air Show risale al febbraio scorso ed è stato effettuato in California. Il cannone-laser è stato montato su una nave da guerra e, come si vede dalle immagini, ha ‘sparato’ un raggio invisibile che ha colpito e abbattuto un aereo ad oltre 3 chilometri di distanza. Il drone stava transitando ad una velocità di circa 500 km/h. Il presidente del Directed Energy Weapons di Raytheon, Mike Booen, si è detto soddisfattissimo delle prestazione del nuovo sistema-laser: “E’ più reale di Star Wars. Ora stiamo lavorando per renderlo disponibile anche sulle armi terrestri”. I fucili e le pistole che, come in Guerre Stellari, sparano lampi di luce sono ormai a un passo dal diventare realtà.
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2010/07/21/visualizza_new.html_1874231786.html
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SIAE, inefficienza milionaria 22.07.2010
Questa la stima dell’Istituto Bruno Leoni. Che confronta la SIAE con i suoi corrispettivi e traccia il quadro degli anacronismi nel mercato del diritto d’autore europeo
Roma – Una macchina elefantiaca e sbuffante, sostenuta dal quadro normativo italiano che si rinnova per confermarsi uguale a se stesso: l’Istituto Bruno Leoni, in un documento pubblicato di recente, traccia il ritratto del monopolista italiano per la raccolta dei proventi dei diritti d’autore. La SIAE con le sue inefficienze, spiega l’autore dello studio Diego Menegon, “costa agli autori, ai discografici e ai fruitori di opere musicali protette (quindi ai consumatori) 13,5 milioni di euro all’anno”.
Se esistono realtà come quella francese e quella degli States, in cui è la concorrenza a determinare la sopravvivenza degli intermediari riscossori dei proventi del diritto d’autore, la SIAE, si ricorda nell’analisi, non è l’unico caso di collecting society che operi in regime di monopolio. Esistono paesi in cui un solo attore si occupa di smistare tutti i flussi di cassa del mercato dei diritti: una posizione che può essere determinata a livello legale oppure da dinamiche di mercato che hanno eletto un solo operatore a monopolista di fatto. La sola ombra della concorrenza, si mostra nello studio, sembrerebbe essere sufficiente per oliare i meccanismi della collecting society che opera in posizione dominante, sembrerebbe scongiurare l’adagiarsi della burocrazia in schemi consolidati e non sempre efficienti.
L’Istituto Bruno Leoni prende in esame il settore della musica, in cui questo tipo di meccanismi emergere con nitidezza. Il confronto è tra la SIAE e PRS for Music, il corrispettivo di SIAE che opera nel Regno Unito, l’anno di riferimento il 2008. Se SIAE, con più di 80mila iscritti, ha fatto registrare incassi per 474,7 milioni di euro, a cui aggiungere 9,64 milioni afferenti all’area Lirica, PRS, con circa 60mila iscritti, ha accumulato incassi per 620,6 milioni di euro. Per mettere a confronto le prestazioni delle due società di raccolta del diritti nello studio si prende in esame la relazione tra i ricavi e i costi operativi, che dovrebbe mostrare l’efficienza dei due attori: PRS totalizza un 12%, SIAE, con costi operativi pari a 71,76 milioni di euro, un 14,8%. Se il rapporto tra costi ricavi e costi operativi della SIAE fosse stato in linea con quello del corrispettivo britannico, si calcola nello studio, avrebbe potuto contare nel 2008 su un risparmio pari a 13,5 milioni di euro.
La prestazione della SIAE sarebbe resa ancor meno soddisfacente dal fatto che PRS for Music non possa contare sugli introiti derivati dall’equo compenso per copia privata, che a SIAE nel 2008 sono valsi 59 milioni di euro sul totale di 474,7 milioni di euro. Denari che, si spiega nello studio, vengono raccolti da SIAE “con un’imposizione che può dirsi parafiscale”, senza che ci sia necessità di investire denari e risorse per sguinzagliare ispettori né per vigilare su alcunché.
Altro punto a favore di PRS, il fatto che al totale della torta afferiscano delle quote di iscrizione minime, pari a poco più di 10 euro l’anno. La quote da corrispondere a SIAE per conferirle il mandato per gestire i diritti sfiora i 150 euro per gli autori, quote molto più cospicue per gli editori. Elementi che, si osserva nello studio, fanno rilevare “una vischiosità nell’accesso al mercato italiano dei diritti d’autore”, soprattutto per il segmento di coloro, spesso giovani, che fanno della creatività la propria attività.
Le licenze SIAE, di contro, sono spesso più costose di quelle rilasciate nel Regno Unito. Costi che possono costituire un ostacolo per chi intenda acquisirle, anche in vista della concorrenza con i costi delle licenze che si devono corrispondere a SCF.
Se la SIAE può contare su maggiori opportunità sul fronte delle entrate, i dispendi per i costi operativi della Società restano superiori rispetto a quelli del corrispettivo britannico che opera in un regime di monopolio de facto seppure spronato dal potenziale emergere di una concorrenza vivace. PRS, inoltre, è in grado di dividere fra i propri iscritti quote più elevate del totale raggranellato.
La SIAE non appare in buona salute: fin dagli anni scorsi i bilanci non si mostravano rosei, con un buco di 15 milioni di euro. Il bilancio preventivo per il 2010 stima incassi per 671 milioni di euro, che insieme a un contenimento dei costi, a partire dal personale e dalla gestione degli organi sociali, potrebbero colmare il deficit. A dare respiro alle casse della SIAE, la nuova disciplina dell’equo compenso che, secondo lo studio dell’Istituto Bruno Leoni, dovrebbe garantire incassi per 145 milioni di euro e nuovi ricavi per oltre 7 milioni di euro. Ma, si ammonisce nel documento, “se agli alti incassi registrati non corrisponde una gestione efficiente dell’attività di intermediazione, non è con un ulteriore aumento degli stessi che si migliora il funzionamento del sistema”.
Se il regime di concorrenza capace di stimolare gli attori del mercato della raccolta dei diritti ad un’efficienza maggiore e ad una migliore offerta nei confronti dei propri utenti non sembra per ora potersi configurare nel quadro nazionale, nonostante le proposte avanzate in questo senso non manchino, il quadro potrebbe cambiare ampliando lo sguardo. L’autore dello studio, Menegon, così come molti altri in numerose occasioni, intravede una soluzione nel concepimento di un mercato competitivo su scala europea.
Gaia Bottà
http://punto-informatico.it/2952043/PI/News/siae-inefficienza-milionaria.aspx
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Ombra nei pannelli fotovoltaici? Un nuovo sistema potrebbe risolvere le perdite energetiche 22.07.2010
Simone Muscas
Leggevo con una certa curiosità di un nuovo sistema capace di limitare sensibilmente le perdite dei pannelli fotovoltaici ed aumentarne pertanto il loro rendimento. Si tratta di un’innovazione che, qualora dovesse trovare applicazione, potrebbe ridurre sensibilmente uno dei peggiori rischi in fase di progettazione ovvero quello di incappare nell’errore di dimensionamento degli impianti dovuto alla presenza di ostacoli, quali case ed alberi, nell’area circostante al sistema fotovoltaico
La STMicroelectronics ha infatti sviluppato un nuovo sistema che consente di ridurre i cali di energia dei sistemi fotovoltaici costituiti da un insieme di pannelli. La trovata sarebbe applicabile sia ai piccoli sistemi domestici che agli impianti di maggiori dimensioni. Di norma i pannelli solari possono perdere fino al 20% dell’energia prodotta se anche solo una loro piccola parte viene a trovarsi in ombra, ripercuotendo in modo non proporzionale la perdita sull’intero sistema.
Tale inconveniente influisce spesso sulla scelta del sito per l’impianto o addirittura mettere in dubbio la fattibilità del progetto. La tecnica sviluppata dalla STMicroelectronics si basa sostanzialmente su un nuovo chip, denominato SPV1020, che si applica ad ogni singolo pannello regolandone i circuiti di uscita e compensandone automaticamente le oscillazioni dovute alle variazioni di luminosità e temperatura o a difetti strutturali.
Le tecniche di correzione utilizzate finora regolano i circuiti di uscita dei pannelli sulla base dei valori medi di energia prodotta dai pannelli dell’intero impianto. L’innovazione della STMicroelectronics consente in sostanza di adottare la stessa tecnica non all’intero impianto, bensì su ogni singolo pannello, massimizzandone così l’energia prodotta, che non viene più influenzata da eventuali cali o anomalie in un pannello vicino.
Non è la prima volta che su Ecoblog trattiamo di sistemi capaci di aumentare l’efficienza dei sistemi fotovoltaici, tuttavia, come spesso accade, l’uscita dai laboratori di questi e il loro ingresso nel mercato è spesso limitato dai costi maggiorati che spesso le nuove applicazioni impongono.
Il sistema della STMicroelectronics sembra però non apportare grossi problemi economici in quanto non modifica radicalmente i sistemi esistenti ed anzi ha il grosso vantaggio di permettere di sfruttare aree che mal si prestano all’installazione di impianti fotovoltaici. Stiamo a vedere se la nuova tecnologia avrà successo.
Via | Enelgreenpower.com
Foto | Flickr
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Un paese senza politica industriale 23.07.2010
LUIGI LA SPINA
L’esercizio è semplice, ma l’effetto è impressionante. Basta accostare due notizie, registrate da tutti i giornali negli ultimi giorni. La prima, in ordine di tempo, si riferisce al rapporto Svimez 2010 sull’economia del nostro Mezzogiorno, dove si segnala addirittura il rischio di «una estinzione» dell’industria nel Sud. La seconda, di ieri, riporta le dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, nelle quali si annunciano, da Detroit, il passo decisivo e obbligato dell’azienda sulla via dell’internazionalizzazione e la scelta di spostare in Serbia la costruzione della nuova monovolume, in un primo momento prevista a Mirafiori.
Il drammatico allarme del più importante istituto di analisi economico-sociale sulla condizione delle nostre regioni meridionali e la cruda chiarezza con cui Marchionne esprime scetticismo sulle garanzie che negli stabilimenti italiani si possano ottenere per attuare progetti di investimento così impegnativi hanno suscitato nella classe politica e in quella sindacale del nostro Paese reazioni sconcertanti. Da una parte, deprecazioni generiche all’insegna di un meridionalismo sempre più vecchio e senza idee.
Dall’altra, minacce, barricadiere nei toni e vane nella sostanza, contro le regole della competitività e dei mercati internazionali e proposte di liturgici tavoli di discussione.
La debolezza di queste risposte al significato complessivo delle due notizie è sconfortante, per almeno due ragioni. La sproporzione rispetto al pericolo di un forte declino dell’industrializzazione italiana e, quindi, di una sostanziale emarginazione di quella che figura ancora come settima potenza dell’economia mondiale dal futuro vertice dei Paesi più sviluppati del ventunesimo secolo. La sorpresa per due annunci che non sono affatto «due fulmini a ciel sereno», ma sono gli esiti, purtroppo largamenti previsti, di fenomeni che, in Italia, si manifestano non da anni, ma da decenni.
E’ da decenni, infatti, che i governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi non hanno avvertito la gravità della crisi e che, perciò, non hanno lanciato un vero piano straordinario di politica industriale. L’unico progetto con il quale, concentrando tutte le risorse del Paese, si possa sperare di restare a far parte dell’élite economica del mondo. L’unico modo, al di là di astratti, confusi e velleitari piani di riconversione delle vocazioni fondamentali dell’Italia, con il quale si possa assicurare il futuro ai nostri giovani.
Nel recente e non solo recente passato i governi hanno diviso la questione industriale in Italia, separando, di fatto, l’attenzione e le terapie tra la condizione del Nord e quella del Sud. Nel Settentrione, si è pensato di compensare le difficoltà delle grandi aziende per competere sui mercati internazionali con il modello della piccola manifattura che si è sviluppato nel Nord-Est. Un sistema fondato su presupposti economici, sociali, finanziari che non poteva reggere davanti alla crisi dei mercati esteri e alla concorrenza delle condizioni di lavoro nei Paesi meno evoluti.
Per il Mezzogiorno si è oscillato, invece, tra due convinzioni, in realtà senza applicare nessuna delle due con la minima coerenza. Alcuni hanno teorizzato che la migliore scelta fosse quella di non fare nulla. I risparmi ottenuti, rispetto alle onerose politiche di incentivi e di assistenza, avrebbero potuto consentire al Nord una più rapida crescita e, quindi, trainare anche il Sud verso un progresso economico più sano e più indipendente. Altri hanno invocato, invece, una specie di ritorno al passato, alla «gloriosa» epoca della Cassa del Mezzogiorno e dell’Iri, al massiccio intervento dello Stato. I risultati dell’intreccio casuale di queste due linee di politica economica sono evidenti: mentre in altre zone depresse d’Europa, come l’Irlanda, il Sud della Spagna, l’Est della Germania, le distanze con le regioni più sviluppate si sono accorciate o addirittura annullate, il nostro Mezzogiorno è nella condizione tragica denunciata, appunto, dall’ultimo rapporto Svimez. Un piano straordinario di politica industriale dovrebbe puntare sulle tre emergenze che impediscono all’Italia di essere un Paese attrattivo per gli investitori stranieri: una giustizia civile meno insopportabilmente lunga, una burocrazia meno asfissiante, una legislazione del lavoro più moderna. Il ministro Tremonti, a parte la balzana idea di modificare l’articolo 41 della Costituzione, ha avanzato, per la verità, alcune proposte interessanti in merito, individuando il vero motivo per cui sia le famose «lenzuolate» di Bersani, sia il tanto propagandato «piano casa» di Berlusconi si siano risolti in un sostanziale fallimento: «gli interessi di settori riescono a bloccare tutto», ha ammesso.
Ecco perché solo una eccezionale mobilitazione bipartisan, provocata dalla consapevolezza del rischio che corre l’Italia in questo momento, potrebbe sconfiggere le resistenze corporative. Non c’è bisogno di calcare i toni dell’allarme sul futuro dell’industria nel nostro Paese, perché la situazione è persino troppo evidente. Né di eccedere in pessimismo, perché il nostro futuro non è scontato. E neanche di esibire qualche gesto simbolico. Ma se, a quasi tre mesi di distanza dalle dimissioni di Scajola, si trovasse anche un ministro dell’Industria non sarebbe male.
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Per il Kosovo una sentenza che non decide 23.07.2010
GIUSEPPE ZACCARIA
L’indipendenza che Pristina ha proclamato il 17 febbraio di due anni fa non è illegittima in quanto «non espressamente preclusa» dalla risoluzione 1244 dell’Onu, che pure riconosce alla Serbia sovranità sulla sua provincia meridionale. E’ un po’ come dire che se ti appropri di una parte di casa mia te la puoi tenere perché questo «non è espressamente precluso» dal regolamento di condominio, però in attesa che il lungo e discutibile parere della Corte di Giustizia dell’Aja sia analizzato in ogni sua parte (e si tratta di un documento particolarmente lungo) da ieri il mondo civilizzato deve fare i conti con nuove e temibili opzioni.
Dopo il parere – per quanto «non vincolante» – del solo tribunale che sia riconosciuto da quasi tutti i Paesi del mondo, se adesso per ipotesi la Catalogna decidesse di autodefinirsi repubblica indipendente Madrid avrebbe un argomento in meno per opporsi alla scelta, e se la parte Nord di Cipro occupata dai turchi volesse riprovare a proclamarsi Stato oggi il resto d’Europa sarebbe costretto quanto meno a darle ascolto. Lo stesso potrebbe accadere ai moldavi e agli ungheresi di Romania, agli albanesi del Nord della Grecia, e in pura teoria perfino ai ceceni, anche se si può azzardare l’ipotesi che in quel caso Mosca sceglierebbe argomenti diversi. Insomma, da ieri le leggi internazionali non valgono più, o almeno non del tutto, in uno dei loro principi essenziali, quello che prevede l’integrità territoriale delle nazioni.
Per la Serbia il colpo è duro, e c’è da augurarsi che la democrazia nata a fatica da bombardamenti umanitari e crisi economiche riesca a sopravvivere all’urto, il ministro degli Esteri Vuk Jeremic annuncia «una dura lotta politica», l’omologo kosovaro Skender Hysani è pronto a sedersi al tavolo di una trattativa che, per come stanno le cose, potrebbe farsi attendere anni. Gli osservatori si aspettavano una decisione che dopo aver ribadito il principio giuridico dell’integrità territoriale, che tuttora rappresenta uno dei cardini dei rapporti internazionali, scivolasse poi attraverso una serie di qualora e purtuttavia verso una sostanziale accettazione dello «status quo». La Corte dell’Aja è andata ben oltre, con questo offrendo il fianco a una serie di critiche e sospetti, ma più che delle polemiche adesso interessa occuparsi delle conseguenze di questo «parere».
Per quanto riguarda Serbia e Kosovo le prospettive non mutano, anche se naturalmente oggi Pristina si sente più forte. L’idea di contatti che riuscissero a dirimere almeno qualche problema concreto (chi paga l’elettricità, chi gestisce le linee telefoniche, come amministrare una demarcazione amministrativa che si tende a far diventare frontiera) si era già fatta strada anche per via delle pressioni europee, e prima o poi troverà uno sbocco. Tutto da decifrare rimane invece il futuro istituzionale di una regione che proclamandosi indipendente finora ha ottenuto il riconoscimento di soli 69 Paesi (Stati Uniti d’America, certo, Germania, Gran Bretagna, Italia ma anche Swaziland e Isole Tonga), ossia circa un terzo di quanti compongono l’assemblea delle Nazioni Unite.
Le ipotesi che si continuano a fare sul Kosovo riguardano un «modello altoatesino» (ovvero quello di un’ampia autonomia, che però sembra già superato dalla decisione di ieri) oppure una «soluzione cipriota» che poi consisterebbe in una non-soluzione, nel fare nulla lasciando che la semplice accettazione dei fatti prevalga sul resto. Quindi un Kosovo ancora zoppo, Mitrovica sempre divisa in due con i serbi a Nord del fiume Ibar e gli albanesi al di là del ponte, ministri che partono da Pristina con un terzo del mondo che li accoglie con tutti gli onori e altri Paesi che li vogliono arrestare, e così via. Sempre di riuscire a fermare nel frattempo le aspirazioni indipendentiste degli albanesi del Presevo (valle ancora appartenente alla Serbia), dei musulmani del Sangiaccato (in parte vicini al «mufti» di Sarajevo) o quelle irredentiste della Republika Srpska di Bosnia, che aspira a riunirsi ai fratelli maggiori.
Nelle menti illuminate che popolano le cancellerie occidentali soltanto una prospettiva potrebbe limitare i danni del «non espressamente precluso», e questa sarebbe l’ingresso di nazioni, vallate e regioni nell’Unione Europea. Ma l’Unione è disposta a sopportarlo?
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Celiachia, scovate le tre proteine tossiche 22.07.2010
Un gruppo di scienziati britannici e australiani ha svelato un pezzetto del puzzle misterioso che è oggi la malattia celiaca.
Secondo quanto riportato dalla rivista ‘Science Translational Medicine‘, i ricercatori sono riusciti a individuare le proteine tossiche per chi è intollerante al glutine.
La celiachia fa sì che se si mangiano alimenti composti da glutine – presente nel frumento, nel segale, nell’orzo – il sistema immunitario attacca l’intestino.
Ora gli scienziati hanno scoperto il perchè di questa intolleranza.
Per farlo hanno dato a 200 pazienti pane, focacce di segale o orzo bollito, e hanno analizzato il sangue sei giorni dopo per vedere come il sistema immunitario ha risposto.
Ebbene, dai risultati è emerso che 90 dei 2.700 frammenti di proteina che compongono il glutine sono stati trattati dall’organismo come se fossero tossici.
In particolare tre di questi sono risultati maggiormente pericolosi.
“Queste tre componenti – ha detto il ricercatore di Melbourne, Bob Anderson – costituiscono la maggior parte della risposta immunitaria al glutine“.
Per Anderson questi risultati rappresentano il ‘Sacro Graal‘ nella ricerca della malattia celiaca.
La Nexpep, una società Biotech di Melbourne, ha creato un vaccino in grado di desensibilizzare le persone intolleranti al glutine.
Per approfondire:
La celiachia in medicina interna
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Il giornalismo che cambia la storia 27.07.2010
LUCIA ANNUNZIATA
Una meditazione sulla guerra e una meditazione sul giornalismo.Eforse una preghiera sulla tomba di quella che fu la nostra sensibilità di cittadini. Questo dobbiamo alle rivelazioni emerse ieri sulla guerra in Afghanistan, il cui impatto si profila già come capace di ridefinire il corso della storia attuale degli Stati Uniti, e dunque, in parte,anche della nostra.
Novantaduemila rapporti classificati del Pentagono che coprono sei anni di guerra in Afghanistan, dal gennaio 2004 al dicembre 2009, dunque sia durante l’amministrazione Bush che durante quella Obama, sono stati resi noti domenica da tre dei maggiori quotidiani internazionali, l’americano New York Times, l’ingleseTheGuardian e il tedesco Der Spiegel, che hanno lavorato su archivi segreti della guerra resi pubblici da Wikileaks, il portale Internet creato per diffondere documenti riservati. Il racconto che ne esce è quello di un conflitto combattuto con approssimazione, cattiva coscienza e, soprattutto, schermato da un altomuro di bugie di Stato.
Si tratta della maggiore fuga di notizie militari mai avvenuta. E, come si diceva, si presta a una lettura a tanti livelli da muovere interrogativi che vanno dalla capacità e trasparenza delle istituzioni mondiali alle nostre coscienze individuali, infilzando, nel passaggio, la credibilità dell’intera macchina informativa.
Cominciamo dal conflitto afghano. Dalle migliaia di pagine di racconti in prima persona, rapporti ufficiali e testimonianze – molte delle quali, siamo sicuri, saranno negate dalla amministrazione americana, come ha già iniziato a fare – prendono forma tre indiscusse verità. La prima, la più dolorosa, riguarda i numerosi morti civili di cui non è mai stata data notizia. La seconda, la più dannosa per Washington, è la confusione e la pochezza decisionale nella conduzione della guerra. Si apprende ad esempio che gli americani nell’epoca Obama hanno aumentato l’uso di droni, aerei senza pilota, nel tentativo di risparmiare il pericolo per i propri uomini, in realtà mettendo in moto un meccanismo più pericoloso di prima per i civili e per gli stessi militari, costretti spesso a pericolose operazioni di recupero degli aerei caduti, per evitare che i taleban ne catturino la tecnologia. Ma il maggior fallimento militare riguarda la natura stessa dell’alleanza intorno a cui si incardina il conflitto, quella fra forze Nato e Pakistan: i documenti rivelano infatti che sono gli stessi agenti segreti del Pakistan (Paese con l’atomica) a aiutare i taleban, in un doppio gioco, un vero e proprio tradimento consumato con continuità e convinzione da parte di un Paese che nelle stesse parole del Dipartimento di Stato questa guerra dovrebbe difendere da una presa del potere dei taleban. La considerazione finale che si trae dai documenti è che «dopo aver speso 300 miliardi di dollari in Afghanistan, gli studenti coranici sono più forti ora di quanto non lo fossero nel 2001». Ma, per dirla con l’editorialista Leslie Gelb, «non sono tutte cose che conoscevamo già?». In fondo i giornalisti in questi anni non sono stati esattamente con le mani in mano. Un’idea di come stessero le cose ce l’eravamo già fatta.
Le rivelazioni che stiamo leggendo in effetti hanno valore, più ancora che per quello che ci dicono, per tutto il resto che implicano. La differenza fatta da queste carte è proprio nella loro resa pubblica: come già accaduto in passato, la differenza non è fatta dalla notizia ma dalla volontà di farla apprendere. Non è la prima volta, infatti, che questa dinamica tra informazione e conflitti si materializza nella storia recente, e anche oggi, come nelle volte precedenti, è frutto di una lacerazione nella tela del consenso ancor prima che in quella della verità.
L’esempio del Vietnam è sempre quello da cui ripartire. In quel conflitto il giornalismo riuscì a intercettare e incanalare la rottura di consenso intorno a una guerra che pure era definitoria della identità stessa degli Usa. Sono nati in quell’epoca paradigmi giornalistici che hanno ispirato generazioni, dal lavoro di Peter Arnett, a quello di Philip Caputo, David Halberstam, a Neil Sheehan, Tom Wolfe e Sydney Schanberg. Anche allora, alla fine la notizia capovolse il consenso. Pensiamo alla storia della strage di My Lai a firma di Seymour Hersh, e alle parole con cui nel 1968 Walter Cronkite concluse un reportage della Cbs report: «Appare sempre più chiaro a questo giornalista che l’unica via razionale per uscirne è negoziare, non come vincitori, ma come uomini d’onore». Leggenda narra che furono quelle frasi a far dire al presidente Johnson «Se ho perso Cronkite, ho perso l’opinione pubblica americana». Anni dopo qualcosa del genere è accaduto in Usa sul fronte interno, con il caso del Watergate. E, più di recente ancora, è accaduto, nel 2004, con un reportage di 60 Minutes sulle torture agli iracheni da parte di soldati Usa nella prigione di Abu Ghraib.
In ognuno di questi casi la pubblicazione di una notizia ha segnalato la fine di un consenso, prima ancora che di una verità ufficiale. Così accade oggi, per l’amministrazione Obama.Ma non solo.
C’è qualcosa in più da segnalare in questa vicenda. Qualcosa che ci parla anche di giornalismo e cittadini. Da anni non vedevamo i media impegnati in operazioni come quella i cui risultati stiamo leggendo. Le sue dimensioni e complessità riportano a galla un modo di lavorare che appare da lungo tempo defunto nelle redazioni di tutto il mondo. Con in più un intreccio fra new media e grande comunicazione tradizionale, che seppellisce molte sciocchezze dette sulla fine del giornalismo nell’epoca di Internet. I new media, per la loro stessa facilità di uso, flessibilità e, non ultima, economicità, si rivelano in questa inchiesta il motore di un potenziale rinnovamento dello spirito stesso del giornalismo sempre più appannato negli intrighi commerciali e proprietari del nostro attuale sistema editoriale.
Operando così lo squarcio di un miracolo: i 92 mila documenti, peraltro consultabili da chi volesse, sono un trillo di sveglia anche per noi stessi, i lettori. Noi stessi forbiti interpreti di troppi cinismi, su tante guerre, vicine e lontane, signori del chissenefrega, contenti e accontentati da una informazione senza verifiche e senza fonti.
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Le due verità sulla guerra afgana
Stefano Rizzo , 27.07.2010
I documenti pubblicati da “Wikileaks” sulla situazione della guerra in Afghanistan non ci dicono, dal punto di vista giornalistico, niente di nuovo: parlano di corruzione, inefficienza, doppi giochi ed errori dell’esercito americano, tutto emerso dai fatti dei mesi scorsi. Deve far riflettere la Presidenza Usa, tuttavia, il fatto che si riferiscono a un periodo di tempo precedente al cambio di strategia e da allora le cose vanno persino peggio. Sono poi documenti di “prima mano”, che per arrivare ai vertici passano attraverso il filtro dei funzionari e dei centri di potere interessati a distorcerli. L’auspicio è che Obama, nelle prossime decisioni, tenga conto anche di queste informazioni che giungono da fonti primarie
I novanta e passa mila documenti pubblicati da Wikileaks sulla guerra in Afghanistan non contengono nulla di nuovo – almeno così si sostiene. E in effetti, a leggere le poche decine che sono state riprodotte e commentate sul “New York Times” sembrerebbe che sia così. Chi da anni segue le vicende afgane non ha trovato nulla di cui stupirsi, che non sapesse già da fonti pubbliche o che non fosse estrapolabile dai dati in circolazione: i ripetuti casi di uccisioni di civili ai posti di blocco e con missili sparati dai drones; la corruzione endemica dei funzionari del governo afgano; la finzione della ricostruzione che non ricostruisce nulla, degli aiuti umanitari che non aiutano nessuno e dell’addestramento che non finisce mai; il commercio di armi e di munizioni che dagli americani passano ai talebani per il tramite dei militari e dei funzionari civili afgani; l’infiltrazione dei talebani nell’esercito e nelle forze di polizia afgane; la crescente ostilità degli afgani nei confronti del loro presidente Hamid Karzai e, soprattutto, delle truppe straniere; la doppiezza dei servizi segreti pachistani che con una mano prendono i soldi della CIA e con l’altro cercano (nella migliore delle ipotesi) un modus vivendi con i talebani.
Tutto questo era noto, nel senso che giornalisti e osservatori professionali avevano riferito i numerosissimi episodi di corruzione, di uccisioni gratuite di innocenti, di enorme spreco di risorse. E’ da più di un anno che i commentatori e gli analisti di cose militari avevano emesso la loro sentenza: la guerra afgana, dopo nove anni e quasi 2000 caduti delle forze occidentali, è un fallimento totale, il paese è nel caos politico-amministrativo, i talebani controllano zone sempre più estese di territorio e ogni giorno intensificano i loro attacchi. La previsione degli specialisti è che in un lasso di tempo limitato (mesi più che anni) il governo Karzai cadrà e i talebani ritorneranno al potere. (E questo spiega abbondantemente i doppi e tripli giochi che sia Karzai che il governo pachistano stanno conducendo da tempo con i talebani per meglio sfruttare a proprio vantaggio gli scenari prevedibili, o almeno – nel caso di Karzai – per salvarsi la pelle.)
Del resto, è precisamente per impedire che si inverasse questa previsione che Obama aveva condotto nell’autunno del 2009 un meticoloso riesame della strategia americana, durato circa quattro mesi e conclusosi a dicembre con la decisione di mandare più soldati per vincere una guerra che, nelle parole del presidente americano, è stata definita una guerra “di necessità” e non “di scelta” (a differenza della guerra irachena).
I documenti pubblicati da Wikileak arrivano a dicembre 2009; si riferiscono quindi ad un periodo precedente alla formulazione della nuova “strategia” americana formulata da Obama e non registrano i cambiamenti intervenuti nel corso del 2010. Sfortunatamente però per chi minimizza il contributo di quei documenti, se cambiamenti ci sono stati, sono stati in peggio. Il quadro che emerge dai documenti trova conferma e anzi si aggrava nelle notizie che giungono dall’Afghanistan giorno dopo giorno. Non è un mistero che il recente viaggio del segretario di stato Clinton in Pakistan aveva lo scopo di chiarire, una volta per tutte, la doppiezza pachistana. Adesso il governo americano dice che si è avviata una nuova fase nei rapporti tra i due paesi, una fase di “maggiore fiducia e comprensione”, ma è ovvio che si tratta di fumisterie diplomatiche.
Gli eccidi di civili denunciati in numerosi documenti sono continuati: è di ieri la notizia di un altro massacro (52 morti) provocato dal lancio di un missile; il portavoce dell’ISAF ha smentito e ha promesso accertamenti e verifiche; Hamid Karzai ha protestato con la solita “inusuale” energia per non erodere ulteriormente il già bassissimo credito di cui gode tra la popolazione. Al contempo si sa che nel corso del 2010 gli attacchi condotti con velivoli telecomandati (drones) sono più che raddoppiati, almeno quanto a quelli di cui viene fornito un rendiconto; molti di più sono gli attacchi segreti condotti dalla CIA nelle zone di confine tra Pakistan e Afghanistan e dei quali non vengono forniti alla stampa né obbiettivi né vittime. Che la corruzione, e non solo quella del governo afgano, ma anche dei numerosi contractors privati americani, sia altissima, lo si sapeva. Né ci si può stupire dato l’enorme fiume di denaro che dagli Stati Uniti scorre verso l’Afghanistan per pagare la (finta) ricostruzione, il (finto) addestramento dei militari afgani, i (finti) aiuti umanitari, i molto reali “giocattoli” ipertecnologici e letali con cui viene combattuta questa strana guerra. I casi di dirigenti civili di imprese americane finiti sotto processo per corruzione negli Stati Uniti sono già numerosi e sono destinati ad aumentare nei prossimi anni via via che gli organi di controllo contabile passeranno al setaccio le decine di migliaia di decisioni di spesa del governo.
Infine, la principale misura di ogni guerra: i morti. I caduti tra i militari della coalizione sono aumentati esponenzialmente negli ultimi sei mesi proprio a causa della nuova strategia: non solo più uomini che combattono vuol dire più morti, ma cercare (come è stato fatto di recente) di limitare le vittime civili vuol dire esporre a maggiori rischi i propri soldati. Quanto ai caduti afgani, non esistono statistiche attendibili.
In conclusione, nonostante nei documenti di Wikileaks non ci sia niente che non si sapesse o che non si potesse desumere, la loro importanza è enorme e il governo americano farebbe bene a prestare attenzione, se non al loro contenuto, al fatto che esistono e non agitare lo spauracchio dell’alto tradimento (come ha fatto inizialmente il portavoce della Casa bianca Gibbs). Quello che si sapeva era il risultato dell’analisi di dati o di osservazioni dirette condotte dai giornalisti e dagli esperti. Quello che si sa adesso e che i documenti ci dicono è la cronaca dei protagonisti, vale a dire dei comandanti sul campo e dei funzionari di basso-medio livello delle varie agenzie americane. Sono resoconti di quello che succedeva poche ore o minuti dopo che era successo; resoconti ufficiali trasmessi per via gerarchica “a chi di dovere.”
E qui si arriva al nocciolo della questione: cosa succederà adesso? I novantamila documenti sono solo una piccolissima parte della enorme mole di documentazione prodotta ai vari livelli di segretezza sul campo, e che viene quotidianamente analizzata, archiviata e tradotta in nuova documentazione da parte di migliaia di analisti di secondo livello. E’sconcertante è quanto è stato affermato da alcuni di costoro: nessuno ai livelli superiori di comando militare o civile ha mai letto questi documenti prima che venissero pubblicati sul sito di Wikileaks. Non li ha letti semplicemente perché sono troppi e non ne avrebbe il tempo. Per prendere le decisioni che deve prendere, il generale o il responsabile civile, su su fino ad Obama, si basa sui rapporti sempre più sintetici che risalgono, attraverso decine di passaggi intermedi, la catena di comando provocando un numero crescente di distorsioni (se non di falsificazioni intenzionali) della realtà “sul campo”. I documenti sono importanti non perché dicano qualcosa di nuovo, ma perché nel dirlo penetrano attraverso lo spesso strato di filtri e interpretazioni di comodo che hanno reso la realtà afgana inconoscibile, o che hanno costituito un comodo alibi a chi voleva falsarla.
Obama ha promesso che entro la fine dell’anno fornirà una prima valutazione dei risultati della sua nuova strategia. Ci auguriamo che nel farlo non ascolti soltanto la verità fornita dal suo consigliere per la sicurezza nazionale, dal capo della CIA, dal generale Petraeus, dal ministro della difesa e da quant’altri ad altissimo livello hanno il compito di consigliarlo. Farebbe bene ad ascoltare anche un’altra verità, quella dei sergenti, dei soldati, dei funzionari civili, che da anni, inascoltati, scrivono rapporti ai loro superiori in cui dicono che la guerra afgana non può essere vinta. Non c’è bisogno di leggerli tutti: basteranno le poche migliaia prodotte in una giornata di ordinaria guerra.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15480
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Se un giorno esplodesse una nave di metano…
Agostino Spataro*, 27.07.2010
La storia del rigassificatore empedoclino è lunga e tortuosa. Si vuole costruire a poche centinaia di metri dalla casa-museo di Luigi Pirandello e dall’incantevole Valle dei Templi, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, e nel bel mezzo di un bacino demografico di circa 200 mila abitanti
Ad Agrigento accadono fatti strani e incomprensibili, alcuni perfino enigmatici. Come quello che vede protagonista il presidente della Provincia, Eugenio D’Orsi, un ex socialista folgorato sulla via dello pseudo autonomismo lombardiano, il quale, a pochi giorni dall’udienza, ha ritirato il mandato all’avvocato incaricato di rappresentare l’Ente nel giudizio pendente al Tar del Lazio per la revoca dell’autorizzazione a una società Enel per realizzare un rigassificatore a Porto Empedocle.
La costituzione in giudizio, per altro proposta unitamente a altri enti e associazioni locali, come denunciano alcuni consiglieri provinciali di destra e di sinistra e l’associazione “Free” la quale, addirittura, si è rivolta alla magistratura antimafia, era praticamente un atto dovuto in ragione del voto contrario al rigassificatore espresso, a larghissima maggioranza, dal Consiglio provinciale.
Evidentemente, le preoccupazioni della gente, i vincoli derivanti dal voto consiliare pesano meno di altri vincoli. O, forse, D’Orsi si è fatto influenzare dall’inattesa conversione del governatore sul versante dei rigassificatori?
Vedremo. A questo punto, speriamo che la magistratura faccia chiarezza su tali grovigli per ridare fiducia e tranquillità ai cittadini da tempo gravati dai silenzi omertosi e conniventi di un ceto politico a dir poco distratto.
Partiti e deputati non hanno nulla da dire?
Questo il fatto. Vediamo ora l’antefatto. La storia del rigassificatore empedoclino è lunga e tortuosa, ricordo soltanto che si vuole costruire a poche centinaia di metri dalla casa-museo di Luigi Pirandello e dall’incantevole Valle dei Templi, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, e- se permettete- nel bel mezzo di un bacino demografico di circa 200 mila abitanti.
Sui rischi per le popolazioni ci torneremo. Intanto vediamo come sono andate le cose.
Una volta decisa la costituzione in giudizio, il presidente a chi affida il mandato?
All’avvocato Aiello di Porto Empedocle notoriamente favorevole al rigassificatore.
Nonostante la sua personale opinione, il legale appronta una relazione nel senso richiesto dal committente che però non potrà presentare in dibattimento perché D’Orsi, due giorni prima, gli ha revocato il mandato. L’udienza, poi, è stata rinviata al 13 ottobre.
Il fatto è sconcertante. Eppure, a parte i tre consiglieri interroganti, gli altri 16 restano muti. Come muti sono i loro partiti e deputati di riferimento. Ma perché non parlano?
La gente ha il diritto di conoscere le loro posizioni e soprattutto se e come s’intende garantire la costituzione della provincia in vista dell’udienza di ottobre.
Ancora c’è chi pensa di cavarsela con la battuta logora e un po’ stupida secondo la quale qui tutto è possibile perché “siamo nella terra di Pirandello”. Il grande commediografo non c’entra nulla.
C’entrano, e tanto, gli interessi di singoli e partiti, non solo locali, che stanno distorcendo la vocazione naturale della provincia e della Sicilia, trasformandole in un enorme area di deposito e di lavorazione di prodotti energetici altamente inquinanti e pericolosi, da mettere al servizio dello sviluppo non della Sicilia, ma delle regioni del Centro- Nord italiano.
Davvero un capolavoro di autonomismo di cui può andar fiero il futuro partito del sud! In precedenti articoli abbiamo documentato la superfluità dei rigassificatori, specie per l’Isola. Non per un’avversità di principio, ma per opportunità economica e politica.
Viareggio una prova eloquente e terrificante
Dopo la terrificante esplosione alla stazione di Viareggio (32 persone bruciate vive e un’ intero quartiere distrutto) di un vagone che trasportava solo 30 metri cubi di gas GPL, confesso che in me, come in molti che abitiamo nelle vicinanze di Porto Empedocle, è prevalsa la preoccupazione per la sicurezza degli uomini. Com’è giusto che sia.
Viareggio è stata una prova eloquente e terrificante di cosa potrebbe accadere, nel raggio di qualche decina di km, se a esplodere fossero una nave in avvicinamento con un carico di centinaia di migliaia di m3 di gas o un rigassificatore che ne tratta miliardi.
Sentite cosa dice, a proposito, Piero Angela: “Se nelle vicinanze della costa, per un incidente, dovesse spezzarsi una nave metaniera da 125 mila m3 e rovesciare in mare il gas liquefatto potrebbe cominciare una sequenza di eventi catastrofici… il gas evaporato formerebbe una nube, una miscela esplosiva la cui potenza potrebbe avvicinarsi a un megatone: un milione di tonnellate di tritolo… le vittime immediate potrebbero essere decine di migliaia.” Si tratta- aggiunge- di “uno scenario assolutamente improbabile, ma non impossibile”.
Domanda: i responsabili politici e amministrativi possono garantire, e con quali argomenti, che un evento del genere non potrà mai verificarsi?
Qui non c’entra l’appartenenza politica, ma, prima di tutto, la coscienza della responsabilità. I decisori, prima di rilasciare autorizzazioni, oltre a rispettare gli aspetti formali, dovrebbero promuovere una serie di confronti pubblici fra esperti indipendenti e al massimo livello scientifico.
Il rischio è troppo grande per noi, per i nostri figli e nipoti, e non possiamo correrlo solo perché sono in ballo una manciata di posti di lavoro e qualche milione di premi al comune di Porto Empedocle.
*pubblicato in “La Repubblica” del 23 luglio 2010
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15475
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HyDro Power, mini turbina per ricavare energia dagli scarichi domestici 27.07.2010
Il ragazzo che vedete accanto, nella foto, (al link) si chiama Tom Broadbent e è studente in Industrial Design presso la De Montfort University a Leicester.
Ebbene ha inventato HyDro Power una sistema per ottenere energia attraverso 4 turbine che entrano in funzione grazie alle acque degli scarichi domestici. E’ stato calcolato che se HyDro Power fosse usato in un edificio di sette piani consentirebbe un risparmio di 925 sterline per anno, pari a circa 1000 euro.
Tom ha avuto l’intuizione osservando con quanta energia l’acqua scendeva dallo scarico di una vasca da bagno.
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New York assediata dalla spazzatura
Il sindaco lancia la tassa sui rifiuti 28.07.2010
La crisi ha imposto il taglio degli operatori ecologici e la situazione è a livelli di emergenza; Michael Bloomberg sta pensando d’imporre un tributo “pay per throw”, ossia “paga per quello che getti”
di ANGELO AQUARO
NEW YORK – Napoli prenda nota. Qui, nella capitale del pianeta, fino a metà di quegli anni 30 che lanciarono Frank Sinatra e il cinema Usa il problema dei rifiuti lo risolvevano così: tutta la monnezza raccolta sulle chiatte e poi via, al largo, per buttarla a fondo giù giù dove il mare è più blu. Certo, magari la corrente la trasportava sulle coste dei paesi vicini, che non gradivano quell’omaggio di avanzi e composti. Ma la legge del più forte ebbe la meglio fino a quando non dovette intervenire nientemeno che la Corte Suprema.
Oggi le 11mila tonnellate al giorno di rifiuti prodotte dalla città che non dorme prendono strade diverse ma sempre lontane: dal New Jersey all’Ohio, dalla Pennsylvania alla Virginia, l’America sta diventando la pattumiera in cui la Grande Mela scarica il suo monumentale torsolo. Ma i costi dell’operazione sono ormai così alti che il sindaco Michael Bloomberg sta pensando l’impensabile: una sorta di tassa pay per throw, paga per quello che getti.
L’alternativa è uno spettacolo da nemesi che già s’affaccia alle porte della città più glamour del mondo: i sacchetti della spazzatura che crescono come montagne sui marciapiedi. A Yonkers, un po’ più su del Bronx, duecentomila persone affacciate sull’Hudson, succede già. I tagli hanno portato l’amministrazione a raccogliere i rifiuti una volta alla settimana invece di due: e la spazzatura nelle strade è diventata una montagna. C’è voluta la rivolta dei cittadini, dice il Wall Street Journal, per tornare ai turni normali. Ma il pericolo è dietro l’angolo. E da Livingston a Paramus, nel vicino New Jersey, le famiglie sono gentilmente invitate a raccogliere da sé la monnezza e consegnarla ai centri di smaltimento: troppo costoso continuare a mantenere quelli che noi chiamiamo operatori ecologici e qui si definiscono della “sanitation”.
La tassa al consumo ha già attirato su New York le ira dei soliti urlatori di destra. Un professionista come Rush Limbaugh si è scagliato contro la città dei liberal che adesso vuole far pagare anche la spazzatura: ben guardandosi dal ricordare che il sindaco è un simpatico repubblicano. City Hall spende 1 miliardo e duecento milioni dei suoi 64 miliardi di budget per raccogliere gratuitamente i rifiuti dei suoi residenti, delle scuole e delle associazione nonprofit. I commercianti, per esempio, pagano già. Ma il dibattito è aperto e la Cbs ha raccolto le proteste dei newyorchesi: “Non se la possono prendere con la povera gente: non abbiamo tutti quei soldi, specialmente in questi tempi di recessione”, dice Phyllis Dennet del sobborgo di Flushing.
Ma l’alternativa è vedersi concretizzare quell’incubo che ogni sera, e fortunatamente solo per poche ore, per le vie di New York è già una realtà. Quando i portieri dei condomini raccolgono la spazzatura, i marciapiedi diventano impraticabili. Anche perché i newyorchesi riciclano pochissimo. Solo la metà della carta e del cartone, per esempio, finisce negli appositi contenitori. E sulla strada finisce invece di tutto: dalle poltrone ai forni a microonde. Una pacchia per gli scavengers, i poveri scavatori della monnezza paurosamente aumentati con la recessione. E per i topi, che qui sono almeno 7 per abitante. Fatti due conti, forse la monnezza stavolta varrà bene una tassa.
http://www.repubblica.it/esteri/2010/07/28/news/new_york_assediata_dai_rifiuti-5883531/
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Intel, luce e silicio 28.07.2010
Il chipmaker dice di aver raggiunto un importante traguardo nel campo delle interconnessioni ottiche basate sul silicio. C’è un prototipo a dimostrarlo, e a Santa Clara guardano molto lontano: oltre Light Peak
Roma – Anno 2010, la silicon photonics prende il volo e lo fa proprio grazie a chi sul silicio ha costruito la sua fortuna e il suo business ad alto profitto: Intel ha annunciato la realizzazione di un prototipo di sistema trasmettitore-ricevitore fotonico basato su una singola fibra ottica e tradizionali componenti elettronici al silicio, capace di “scalare” enormemente in quanto a superficie d’impiego e larghezza di banda trasferita tra due punti.
Il primo “link” della nuova tecnologia di trasmissione ottica, o come lo definisce Intel “la prima connessione Silicon Photonics end-to-end con laser integrati” è in grado di trasferire un totale di 50 Gigabit di dati al secondo: invece che sulle tradizionali piste di rame di un circuito elettrico, tale enorme massa di informazione viene trasmessa dal trasmettitore al ricevitore da una sottile fibra ottica che può estendersi ben oltre le normali possibilità dei collegamenti elettrici di cui sopra.
Il chip-trasmettitore ha il compito di modulare i fasci luminosi di quattro laser ibridi al silicio, codificarli in altrettanti flussi da 12,5 Gbps ciascuno e infine combinarli in un unico flusso da 50 Gbps prima di trasmetterli sulla fibra ottica. All’altro capo del link, il ricevitore compie l’operazione contraria (divide il flusso principale in 4 fasci da 12,5 Gpbs ciascuno) e trasferisce gli impulsi luminosi a 4 microscopici fotorivelatori che riconvertono la luce in segnali elettrici processabili dai microchip al silicio.
Stando a quanto sostiene Intel, il nuovo prototipo è al momento una sorta di “concept vehicle” con cui poter testare la fattibilità di nuove idee in merito all’evoluzione del computing e della tecnologia informatica e alle possibilità di “siliconizzazione” della fotonica. Eppure sul lungo periodo il chipmaker già preconizza data center e complessi di supercomputer formati da componenti sparpagliati su interi campus, in connessione tra loro con bus ad alta velocità grazie alle fibre ottiche.
Intel sostiene che grazie alla silicon photonics le performance aumentano, le nuove possibilità di design delle piattaforme di computing (grandi complessi ma anche portatili e MID) esplodono, e le spese si riducono grandemente per quel che concerne lo spazio e l’energia elettrica consumata. E i 50Gpbs del prototipo potrebbero facilmente raggiungere una banda teorica di 1 Terabit al secondo.
Prospettiva sul medio termine a parte, quel che è al momento certo è la volontà del chipmaker di trattare separatamente la silicon photonics propriamente detta da Light Peak, lo standard di interconnessione consumer – anch’esso basato su tecnologia ottica – in arrivo entro il 2011 che nelle speranze di Intel dovrebbe sostituire in un sol colpo le interconnessioni SATA, LAN Ethernet, USB (2 e 3.0) e HDMI.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2957295/PI/News/intel-luce-silicio.aspx
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Il batterio che resuscita le foglie 28.07.2010
di Valentina Murelli
Nuova scoperta dall’incredibile mondo di Wolbachia, batteri che vivono all’interno di numerosi insetti: nel caso delle larve della minatrice delle foglie, i batteri simbionti danno una mano a mantenere verdi le foglie di cui si nutrono.
Sopravvivere è spesso una questione di collaborazione. Come quella che si instaura tra le larve della farfalla Phyllonorycter blancardella, anche detta minatrice delle foglie, e un batterio simbionte appartenente al genere Wolbachia, che vive proprio nel suo organismo. E bisogna dirlo: qui la mano che dà Wolbachia alla farfalla, o meglio alle sue larve, è davvero grossa. Ecco che succede: le larve della minatrice fogliare si nutrono scavando gallerie nelle foglie e il meccanismo funziona finché queste ultime sono vive e vegete, cioè verdi. In autunno, però, tendono a ingiallire e a cadere: a meno che le larve non accolga al suo interno una colonia di Wolbachia: in questo caso i batteri contribuiscono a mantenere verdi e attive alcune zone delle foglie poste tutte attorno alle larve, garantendo così ricchi pasti ancora per diverse settimane.
Lo ha scoperto l’équipe dell’entomologo David Giron, dell’Università di Tours, in Francia. Il punto è che Wolbachia, come del resto altri microbi, contiene un gene molto simile a quello che, nelle piante, induce le cellule vegetali a produrre citochine, ormoni della crescita che le mantengono giovani. Guarda caso, le citochine sono particolarmente abbondanti proprio nelle isole verdi che si trovano nelle foglie infestate dalle larve di P. blancardella: da qui l’idea di capire se esista una relazione tra i batteri e lo strano fenomeno delle foglie” resuscitate”.
I ricercatori hanno preso due gruppi di farfalle femmine: a uno hanno somministrato un antibiotico in grado di uccidere i Wolbachia simbionti, mentre hanno tenuto l’altro come controllo. Poi, hanno fatto deporre le uova a tutte le femmine su foglie di melo. Ebbene; attorno alle larve prodotte dalle madri non trattate sono comparse le isole verdi, che non si sono invece fatte vedere attorno alle larve prodotte dalle farfalle trattate. Le quali, poverette, sono poi morte: niente batteri, niente isole, niente cibo. Lo studio è stato pubblicato sui Proceedings of the Royal Society B.
Resta ancora da scoprire se il fenomeno dipenda da citochine prodotte direttamente da Wolbachia o se il batterio stimoli in altro modo la produzione dell’ormone da parte delle cellule vegetali. In ogni caso, rimane uno splendido esempio di come una stretta relazione con un altro organismo possa aiutare a superare una difficoltà non da poco.
http://oggiscienza.wordpress.com/2010/07/28/il-batterio-che-resuscita-le-foglie/
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Iraq, Falluja, la nuova Hiroshima
Osservatorio Iraq, 23 luglio 2010
Falluja peggio di Hiroshima. Nella città irachena, che nel 2004 fu teatro di due devastanti attacchi americani, uno dei quali la distrusse quasi completamente, e in cui vennero utilizzate armi al fosforo bianco, il numero dei tumori è quadruplicato.
E’ il risultato di uno studio epidemiologico condotto da Malak Hamdan e Chris Busby, pubblicato sull’International Journal of Environmental Studies and Public Health (IJERPH) di Basilea, in Svizzera.
I dati mostrano un aumento di tumori, leucemia, e della mortalità infantile, oltre ad alterazioni del normale rapporto maschi-femmine alla nascita, assai maggiori di quelli che si registrarono fra i sopravvissuti alla bomba atomica lanciata nel 1945 sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki.
Lo studio – dal titolo “Cancer, Infant Mortality and Birth Sex-Ratio in Fallujah, Iraq 2005-2009” [pdf] – è stato condotto nel gennaio-febbraio di quest’anno – su 711 abitazioni e oltre 4.000 individui a Falluja, città che si trova nell’ovest dell’Iraq. I suoi risultati mostrano un aumento di quattro volte di tutti i tipi di tumori nei 5 anni successivi all’attacco del 2004 (2005-2009), tumori simili a quelli che si sono registrati nei sopravvissuti di Hiroshima che furono esposti alle radiazioni ionizzanti della bomba atomica e quindi dell’uranio.
Confrontando il tasso di insorgenza del tumore dei cittadini di Falluja con quelli di Egitto e Giordania, i ricercatori hanno scoperto che a Falluja la presenza di leucemia è di 38 volte superiore (20 casi), e quella del tumore al seno quasi 10 volte superiore (12 casi). A ciò si aggiunge un significativo aumento dei linfomi e dei tumori cerebrali negli adulti.
Due dei dati più inquietanti dello studio sono la crescita di 12 volte dei tumori infantili (fascia di età compresa fra 0 e 14 anni) dal 2004, e la mortalità infantile all’80 per mille. In Egitto, questo parametro è del 19 per mille, in Giordania del 17 per mille, e in Kuwait del 9,7 per mille.
Sono state inoltre registrate alterazioni significative del rapporto maschi-femmine alla nascita. Normalmente, questo è di 1050 maschi per 1000 femmine, ma nel gruppo dei nati subito dopo il 2005 (un anno dopo il conflitto) si è ridotto drasticamente, passando a 860.
Il rapporto maschi-femmine alla nascita è un indicatore noto di danno genetico. Una simile riduzione di questo dato è stata osservata nei bambini dei sopravvissuti di Hiroshima.
Risultato straordinario e allarmante
Di “risultato straordinario e allarmante” parla il dr. Busby, uno degli autori dello studio, che è visiting Professor all’Università dell’Ulster (Irlanda del Nord), nonché Direttore scientifico di Green Audit, organizzazione di ricerca ambientale indipendente.
Busby però sulle cause ci va cauto. Dichiara che “per produrre un effetto di questo tipo, deve essersi verificata qualche importante esposizione mutagena nel 2004, quando sono avvenuti gli attacchi”.
Perciò, sottolinea, “dobbiamo scoprire urgentemente qual è stato l’agente”.
L’uranio? A sospettarlo sono in molti: però – dice lo studioso, “non possiamo esserne certi senza ulteriori ricerche e analisi indipendenti su campioni dalla zona”.
Un primo risultato comunque è stato raggiunto.
Se prima dell’aumento di tumori e malformazioni congenite a Falluja si parlava soltanto, ora c’è una conferma scientifica.
Sono contento, dice Malak Hamdan, l’organizzatore del progetto: “Forse adesso la comunità internazionale si sveglierà”.
[O.S.]
Lo studio:
Chris Busby, Malak Hamdan and Entesar Ariabi, Cancer, Infant Mortality and Birth Sex-Ratio in Fallujah, Iraq 2005-2009, International Journal of Environmental Research and Public Health 2010, 7 [pdf]
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=9546
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Da http://www.movisol.org/ del 29.07.2010
L’Ungheria dà il benservito a FMI e UE
Il 22 luglio il Parlamento ungherese ha approvato il pacchetto di “rivoluzione economica nazionale” del Primo Ministro Viktor Orban con la stragrande maggioranza di 301 voti favorevoli, 12 contrari e un’astensione. Il pacchetto include una tassa sulle banche da utilizzare per ridurre il disavanzo e numerose restrizioni sull’elargizione di credito, misure duramente criticate dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e che il 17 luglio hanno condotto alla spettacolare rottura dei colloqui tra il FMI e il governo di Budapest.
La decisione dell’FMI di “punire” l’Ungheria bloccando la tranche rimanente di 5,5 miliardi di Euro di un prestito di 20 miliardi concesso due anni fa, è stata ridicolizzata dal governo ungherese, che ha detto che può fare a meno della dubbiosa assistenza del Fondo. E Janos Llazar, presidente del gruppo parlamentare del partito di governo FIDESZ, ha dichiarato che “nonostante le pressioni dell’FMI non abbiamo intenzione di spremere ulteriormente i poveri”.
Il dibattito parlamentare sul pacchetto legislativo è stato introdotto da Orban con le seguenti parole: “Suggerisco di studiare e spiegare il nostro rapporto con le istituzioni finanziarie internazionali da una nuova prospettiva… Intendiamo ristabilire la sovranità economica dell’Ungheria, perché senza di essa non c’è alcuna crescita economica”. L’accordo con il FMI firmato dal governo precedente aveva spinto il paese in una trappola debitoria, ha aggiunto, ma il programma a 29 punti proposto dal suo governo condurrà l’Ungheria fuori da questa trappola. Si noti che nel primo discorso pronunciato dopo aver assunto il mandato, Orban ha insistito sulle evidenti differenze tra il capitalismo speculativo ed il capitalismo produttivo, sottolineando che il suo governo ha risolutamente adottato quest’ultimo.
Sul piano per una tassa sulle banche, il Ministro dell’Economia Gyorgi Matolcsy ha spiegato che il piano ungherese “ha provocato una tempesta nella comunità economica globale”. Questo ha meno a che fare con l’Ungheria, che è un piccolo paese, ha aggiunto, quanto con “il timore che se l’Ungheria introdurrà una tassa sulle banche di questa portata, Germania, Francia, Gran Bretagna, Romania e Slovacchia potrebbero seguire l’esempio”.
In effetti l’Ungheria non è la sola ad opporsi al Fondo Monetario. Ha ricevuto il sostegno dagli altri tre governi del gruppo Visegrad-4 (Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia) al vertice di Bratislava del gruppo tenutosi il 21 luglio. I quattro leader hanno deliberato di coordinare i propri passi prima di ciascun importante incontro dell’UE, per assicurarsi che, come l’ha messa Orban “nessuna cortina di ferro, questa volta delle finanze, divida i nostri paesi dal resto dell’Europa”.
Dalla Slovacchia, che ha assunto la presidenza del gruppo Visegrad-4 per i prossimi 12 mesi, il Primo Ministro Iveta Radicova ha annunciato che non continuerà coi drastici tagli al bilancio decisi dal governo precedente. Il popolo slovacco, ha dichiarato, ha sofferto molto negli anni Novanta e all’inizio del millennio, quando i suoi livelli di vita sono stati ridotti del 10% per salvare il sistema bancario. “Questo non accadrà di nuovo; la popolazione non può essere continuamente vittima di governi irresponsabili” ha concluso.
Disgraziatamente, invece di sostenere le iniziative di questi paesi in difesa delle loro popolazioni, i governi francese e tedesco propongono di imporre dure sanzioni sugli stati che non accettano i criteri di Maastricht. E ogni governo europeo occidentale ha pronta una manovra durissima per la propria popolazione. Gli stessi governi, però, non sopravvivranno ai programmi di austerità da essi imposti.
In Francia, nel mezzo degli scandali che hanno gettato la presidenza Sarkozy nella crisi più grave della propria esistenza, alcuni media hanno iniziato a paragonare il Primo ministro Francois Fillon a Pierre Laval, che applicò una politica di tagli al bilancio che debilitarono la capacità francese di mobilitarsi economicamente e militarmente contro la Germania nel 1940, e divenne in seguito la principale figura del regime filonazista di Vichy.
In Italia, benché il programma di austerità sia modesto in confronto con quello degli altri partner dell’UE, la popolazione lo ha giustamente percepito come una svolta e ha punito nei sondaggi Berlusconi, alle prese con le spinte centrifughe della maggioranza, portandolo per la prima volta al di sotto del 50 per cento.
Importanti commissioni della Camera e del Senato USA respingono i piani del governo per la NASA
Il 22 luglio, la Commissione della Camera per la Scienza e la Tecnologia e il Comitato per gli Stanziamenti del Senato hanno approvato due leggi che respingono i piani di Obama per terminare i voli umani nello spazio. I due testi ora andranno in aula per il voto finale e, se approvati, dovranno essere fusi in un testo unico, prima di essere promulgati come legge. Grazie ad alcuni emendamenti, il testo della Camera si è avvicinato a quello del Senato, aggiungendo un’ulteriore missione dello Space Shuttle e autorizzando i fondi per la NASA per tre anni invece che cinque.
Politicamente, questo rappresenta uno schiaffo “bipartisan” al Presidente Obama e alla sua proposta. Il testo ora reintroduce la maggior parte del programma Constellation (che sostituirà lo Shuttle come navetta spaziale per condurre gli astronauti sull’ISS e oltre), riduce drasticamente la “privatizzazione” e la delocalizzazione a imprese private proposta dalla Casa Bianca, e protegge un gran numero delle migliaia di posti di lavoro che il piano Obama eliminerebbe.
Straordinariamente, anche se indicativo del modo in cui la popolazione americana considera l’esplorazione dello spazio, il punto più contestato nella discussione alla Camera non era sui fondi o sui programmi in quanto tali, ma in quali stati sarebbe stato costruita la nuova navetta, una volta ritirato lo Space Shuttle.
Nel corso della battaglia per sconfiggere il piano di Obama, molti ex astronauti si sono gettati nella mischia. L’esempio più recente è quello dei comandanti dell’Apollo 11 Neil Armstrong, dell’Apollo 13 Jim Lovell e dell’Apollo 17 Gene Cernan, che hanno inviato una lettera alle Commissioni del Senato coinvolte nella discussione della legge, sollecitandole a “continuare [a promuovere] il progresso”. Essi hanno citato il Presidente Kennedy, nel famoso discorso in cui Kennedy affermò: “L’esplorazione dello spazio… è una delle grandi avventure di ogni tempo. La nostra leadership nella scienza e nell’industria, le nostre speranze per la pace e la sicurezza, il nostro obbligo verso noi stessi e gli altri; tutto ciò richiede che noi facciamo questo sforzo per risolvere questi misteri, risolverli per il bene di tutti, e diventare la principale nazione nello spazio”. La lettera è stata pubblicata da Neil Armstrong il giorno del 41mo anniversario del primo passo umano sulla superficie lunare.
Contrariamente a ciò, in una riunione alla Casa Bianca con John Glenn il 19 luglio, il Presidente Obama ha fondamentalmente espresso l’opinione che il programma spaziale è uno spreco di denaro. Secondo fonti che hanno parlato con Glenn dopo l’incontro, il Presidente è stato “irrispettoso e disinteressato” e ha interrotto Glenn mentre parlava. L’incontro è stato definito “un disastro”.
Ciò non dovrebbe sorprendere. Barack Obama ha chiesto la fine dei voli umani nello spazio all’inizio della sua campagna elettorale e ha fatto vaghi accenni di ripensamento solo per vincere le primarie della Florida. L’audacia mostrata dai senatori e dai deputati è perciò benvenuta.
La Russia finanzia nuovo ambizioso cosmodromo
Mentre una certa fazione attorno ad Anatoli Chubais ancora culla l’illusione di creare una nuova bolla della nanotecnologia e dei servizi finanziari, altri nella leadership russa si adoperano per incrementare l’economia reale, con enfasi speciale sull’esplorazione dello spazio e le infrastrutture ferroviarie.
Il 19 luglio il Primo ministro Vladimir Putin ha confermato che il suo governo stanzierà i fondi necessari per la costruzione del nuovo Centro Spaziale di Vostochny, nell’estremo oriente. Previsto il completamento per il 2015, esso dovrebbe, secondo Putin, diventare il primo centro spaziale nazionale civile, e garantire piena indipendenza alle attività spaziali russe.
Putin ha sottolineato l’importanza di una prospettiva a lungo termine, affermando: “È importante che il nuovo centro spaziale fornisca servizi a tutti i futuri progetti spaziali, compreso un sistema di volo umano, vettori di nuova generazione e futuri complessi interplanetari”. Il Premier russo si è anche auspicato l’aumento della cooperazione con interlocutori privati e pubblici in Giappone, Cina, UE e gli USA.
Il cosmodromo Vostochny (“orientale”) aumenterà sicuramente la capacità industriale dell’estremo oriente russo, ed incoraggerà ulteriori investimenti in questa grande, ma sicuramente sottopopolata regione strategica. Saranno coinvolti fino a 30 mila specialisti nella costruzione del progetto nei pressi di Uglegorsk, circa 100 km ai confini con la Cina. Quella che allora era una semplice proposta di costruire il cosmodromo, e le sue implicazioni strategiche non solo per la Russia e l’Eurasia, ma per il mondo intero, fu presentata da un esperto russo alla conferenza dello Schiller Institute in Germania nel settembre 2007 (cfr. EIR Strategic Alert 39/07).
Sulle infrastrutture, il presidente delle Ferrovie Russe Vladimir Yakunin sta energicamente promovendo linee ad alta velocità, sostenendo correttamente che tali progetti sono essenziali per costruire la via d’uscita dalla crisi economica, rilanciando l’economia reale. In un’intervista all’Izvestia il 20 luglio, egli ha lodato il programma di infrastrutture nazionali della Cina, e ha rivelato che i funzionari cinesi gli avevano appena proposto di “pensare ad un servizio ad alta velocità tra Pechino e Berlino e tra Pechino e Parigi. L’idea mi è veramente piaciuta”.
I cinesi ritengono che il progetto possa durare anche oltre dieci anni, ma “questo treno andrà dalla Cina all’Europa attraverso la Russia”. L’attuale trasporto merci dalla Cina all’Europa impiega una settimana. “Se immaginate che la Russia e la Cina assieme completeranno una linea ferroviaria diretta ad alta velocità, di quanto si ridurranno i tempi?”, si è chiesto Yakunin.
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La Cina si fa l’agenzia di rating 29.07.2010
Tutti ricordano come alcuni mesi fa, in primavera, il giudizio delle agenzie di rating, in particolare di Moody’s e di S&P, sui debiti sovrani di alcuni paesi europei, ovvero di Grecia, Spagna e Portogallo, ha fatto traballare l’euro e dato il via alla speculazione contro la moneta unica, facendo scendere la valuta europea contro tutte le principali monete mondiali. Negli stessi giorni un moto di disapprovazione privata e istituzionale spinse le autorita’ alla riprovazione di certi giudizi e porto’ anche ad avanzare da parte di qualcuno delle proposta di creare una agenzia di rating europea. Se ne parlo’ per un po’ poi non se ne ne fece niente.
Lo hanno fatto invece in Cina. Gli analisti dell’agenzia Dagong Global Credit Rating sono infatti scesi in campo e, per la prima volta, hanno presentato il rapporto 2010 sul debito sovrano di 50 paesi. Con questo studio la Dagong Global Credit Rating si propone come un’alternativa al trio formato da Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch. Nel rapporto solo Germania, Canada e Olanda hanno lo stesso voto assegnato dalle tre agenzie, mentre sono inferiori le valutazioni sul debito del Giappone, Regno Unito, Corea, Francia e per gli Stati Uniti a cui e’ stata data una doppia AA con rating equiparato a quello dell’Arabia Saudita. La tripla A viene riconosciuta solo a Norvegia, Australia, Danimarca, Lussemburgo, Svizzera, Singapore e Nuova Zelanda. Rating in ribasso anche per il nostro paese e’, che si guadagna un A- alla pari con quello della Spagna, Portogallo, Belgio, Brasile, Cile, Sudafrica, Malaysia, Estonia, Russia, Polonia, Israele.
E come valuta la Dagong Global Credit Rating il debito cinese? A quello in valuta locale viene data la valutazione AA+ maggiore di quella assegnato allo stesso debito da Moody, S&P e Fitch. Mentre per quello in valuta estera, viene assegnata la valutazione AAA, la massima, alla luce del rilevante livello delle riserve che ammontano a 2.450 miliardi di dollari, per la maggior parte in titoli di stato Usa, che vantano pero’ la doppia AA!
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Amazzonia: una centrale idroelettrica per distruggerla 30.07.2010
Le centrali idroelettriche in Brasile stanno diventando un affare molto grosso (e losco!) che rischia di mettere in ginocchio alcune delle economie che ruotano attorno alle foreste e che traggono linfa proprio dallo sviluppo – sostenibile – delle stesse. Pochi giorni fa, alcuni indios del Mato Grosso, armati solo di lance e mazze, sono riusciti ad assaltare la centrale di Aripuanà prendendo in ostaggio oltre suoi 100 dipendenti per tentare di ottenere almeno un risarcimento per la (loro!) terra perduta… Oggi, invece, è nel mirino un’altra zona pluviale brasiliana, la regione amazzonica orientale della Tierra del Medio, nello Stato del Parà in cui il governo di Lula ha dato l’ok per la costruzione della centrale idroelettrica di Belo Monte Lungo il bacino del fiume Xingù, già dichiarato, nel 2004, “riserva estrattiva” con decreto presidenziale allo scopo di tutelare (allora!) la flora, la fauna e i “siringueros” che lavorano da almeno un secolo all’estrazione del latte dall’albero del caucciù.
La centrale che verrà costruita sarà un colosso di circa 11.233 megawatt capace di rendere, tuttavia, solo il 40% del proprio potenziale a causa delle notevoli differenze riscontrate nel flusso idrico del Rio Xingù tra la stagione secca e quella piovosa (da mille metri cubi al secondo a oltre ventimila) con la conseguente necessità di costruire due immense dighe che cambiaranno totalmente l’equilibrio ecologico e termico dell’area. La prevista deviazione del fiume comporterà la riduzione drastica del suo flusso idrico per un tratto di oltre 100 km, con la conseguente estinzione o diminuzione di un numero considerevole di specie prevalentemente ittiche portando al collasso anche quanti vivono di pesca, di raccolta di erbe officinali – altamente richieste dell’industria cosmetica internazionale – e di castagne….
Molte le azioni legali al momento pendenti per tentare di porre un freno alla centrale di Belo Monte, ma troppo poche, secondo i diretti interessati, le possibilità concrete di vittoria… E questo nonostante lo studio di impatto ambientale abbia riferito di almeno 50.000 sfollati previsti a seguito delle inondazioni e della probabile estinzione delle molte specie animali e vegetali autoctone presenti solo in queste zone, ben presto compresse tra modifica sostanziale dell’habitat e prolungamento della feroce Transamazzonica, rete viaria di agevole distruzione, mettendo a dura prova, inoltre, le aree totalmente protette presenti nei paraggi e le tredicimila persone, apparteneti a 24 popolazioni indigene, che, improvvisamente dovranno fare i conti con tuto questo…
Via | peacereporter
Foto | Flickr
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Dalle lumache marine una pillola contro il dolore 30.07.2010
Realizzata una nuova pillola efficace contro il dolore quanto la morfina, ma senza il rischio di sviluppare dipendenza.
Lo ha fatto un gruppo di ricercatori della University of Queensland, utilizzando una sostanza chimica che le lumache di mare usano per catturare le prede.
A darne notizia è stato un articolo pubblicato su Chemical & Engineering News.
Le lumache marine producono nella saliva una tossina letale, un peptide che aiuta a catturare le prede, iniettandolo nelle vittime tramite i denti aghiformi.
Gli scienziati australiani hanno trasformato questa tossina in un antidolorifico per gli esseri umani.
Una sostanza che all’inizio doveva essere iniettata direttamente nel midollo spinale, il che limitava le quantità che se ne potevano utilizzare.
Ma ora i ricercatori, guidati da David Craik, hanno sviluppato una forma di antidolorifico che può essere assunta per via orale.
La nuova pillola sembra in grado di ridurre il dolore grave nei topolini a dosi molto inferiori rispetto ai farmaci esistenti.
Ora gli scienziati sperano di poterla commercializzare al più presto.
Per approfondire:
Il Dolore e la Medicina del Dolore
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Interpretação exurbitante neste blog, visões assim dignificam a quem observar neste espaço !!!
Escreve mais deste espaço, aos teus cybernautas.