Ecologia estrema: i capelli al vento 04.11.2010
Quello che vedete nella foto non e’ il cuoio capelluto di Cesare Ragazzi ma la prossima generazione di turbine eoliche.
Alte 55 metri e con un diametro di 30 cm ognuna, oscillano al vento generando energia elettrica rinnovabile; tecnicamente si chiama “piezoelettricita’”.
Per ora il progetto e’ solo su carta ma nel deserto di Abu Dhabi sarebbe stato gia’ individuato il sito in cui fare la sperimentazione.
Tre i vantaggi rispetto al tradizionale eolico a pale: i capelli eolici sono silenziosi, hanno un impatto visivo minore, non interferiscono con le rotte migratorie degli uccelli e per la manutenzione basta un buon hair stylist.
Per maggiori informazioni sul progetto, ne sentiremo parlare, http://atelierdna.com/?p=144
(Fonte: Greenme.it)
Fonte imm
http://www.jacopofo.com/turbine-eolico-capelli-deserto-adu-dhabi
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Inghilterra, legge sull’immigrazione “selettiva”: dentro i calciatori fuori i ricercatori 04.11.2010
C’è extracomunitario ed extracomunitario. Il calciatore super pagato di Premier League, per esempio, in Gran Bretagna ha il visto garantito. Il ricercatore che vuole scoprire la cura per il cancro, invece, incappa nelle maglie della nuova legge inglese sull’immigrazione. Ospedali e centri di ricerca lanciano l’allarme: senza cervelli stranieri terapie e vaccini per le principali forme di tumore rimarranno chimere. Tutta colpa della legge-pasticcio che i Conservatori hanno approvato appena arrivati al governo lo scorso maggio. Da luglio è in vigore una quota massima di ingressi extra Ue nel Paese: 24.100. Una goccia nel mare visto che gli immigrati entrati nel 2009 sono stati oltre 500.000. Il limite rimarrà in forza fino ad aprile 2011, quando un “cap” definivo sarà introdotto.
A causa delle restrizioni i progetti di ricerca per individuare una terapia contro i tumori di origine genetica e per mettere a punto un vaccino contro il cancro al seno, si sono arenati. L’Institute of Cancer Research (Icr), il più prestigioso del Regno Unito, è anche il più colpito, perché impiega giovani laureati da 55 Paesi nel mondo. Attualmente ci lavorano quattordici scienziati internazionali, il gotha della ricerca contro il tumore. Ma con la legge attuale presto saranno clandestini e dovranno lasciare il Paese. In era laburista all’Icr erano stati accordati trenta visti, oggi si sono ridotti a quattro.
E mentre in Inghilterra c’è la fila per entrare, da noi c’è quella per uscire. I cervelli italiani all’estero, secondo i dati Ocse, sono circa 400.000 (dei quali 20.000 sono ricercatori), ovvero il 7% della popolazione in possesso di una laurea. In realtà il 33% dei giovani con istruzione universitaria vorrebbe lasciare il Paese ma tanti alla fine rinunciano per problemi economici.
A differenza dell’Inghilterra l’Italia non rappresenta, ancora, una meta ambita per i ricercatori scientifici. Da noi gli stranieri in questo campo nel 2006 erano solo il 5%, contro il 14,5 della media europea. Se da un lato offriamo buone borse di studio, dall’altro le complicazioni burocratiche per i visti non invogliano.
Il Regno Unito invece è sempre stato un Paese d’eccellenza per i suoi laboratori e la ricerca sulle staminali, proprio grazie alla grande capacità di attirare talenti da altre nazioni. Circa il 20% dello staff di università e istituti medici è costituito da scienziati e ricercatori extracomunitari. Il mese scorso un gruppo di premi Nobel aveva firmato una lettera pubblicata sul Times, per chiedere al governo un ripensamento. Se non ci sarà, sostenevano, l’Inghilterra perderà il suo primato.
All’interno della coalizione i Liberal Democratici scalpitano. Sono sempre stati contrari al tetto sull’immigrazione e soprattutto non condividono le eccezioni previste dal premier David Cameron. Gli atleti ai massimi livelli, come i calciatori, non rientrano nelle quote e hanno il visto garantito. E con un voltafaccia dell’ultimo minuto ieri Cameron ha annunciato che anche i trasferimenti “intra-company”, da una sede all’altra di un’azienda, non saranno compresi nel “cap”. Vuol dire che le società informatiche potranno portare dall’India tutti gli impiegati che desiderano, pagandoli una miseria. Ma in questo modo il business è salvo, ha esultato Vince Cable, ministro delle Attività Produttive. Non solo. Il premier ha anche lanciato un nuovo tipo di visto per imprenditori, che sarà offerto a chiunque abbia un’idea innovativa e redditizia e riesca a ottenere finanziamenti da privati per realizzarla.
Sport e affari sono garantiti. Ma a furia di aggiungere eccezioni alla quota il governo rischia di non raggiungere il suo obiettivo. Era stampato sul manifesto elettorale: ridurre i numeri degli extracomunitari da centinaia di migliaia a decine di migliaia, entro la fine della legislatura. Secondo gli esperti di immigrazione un traguardo a dir poco irrealistico.
di Deborah Ameri
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Ambiente, la scure del governo
tagliato un miliardo di euro
Rapporto Wwf: i fondi ridotti del 60 per cento in tre anni. La legge di stabilità sancisce l’agonia del ministero: la penalizzazione più pesante mentre aumenta il degrado del territorio
di GIOVANNI VALENTINI
ROMA – L’hanno chiamata, eufemisticamente, “Legge di stabilità”. Ma, almeno per quanto riguarda l’ambiente, bisognerebbe ribattezzarla legge di instabilità. O meglio, di destabilizzazione del suolo, del territorio, delle aree protette, insomma di quell’immenso patrimonio naturale su cui pure si fonda la maggiore industria nazionale: quella del turismo. Sono tali e tanti i tagli in questo campo da prefigurare addirittura lo smantellamento o la liquidazione del ministero che è o dovrebbe essere istituzionalmente preposto – appunto – all’Ambiente e alla Tutela del territorio e del mare.
Le cifre contenute nella cosiddetta “Legge di stabilità” (ex Finanziaria), predisposta dal governo Berlusconi, parlano chiaro. Nel 2011, come denuncia un Rapporto del Wwf Italia, il bilancio complessivo del ministero affidato a Stefania Prestigiacomo sarà ridotto a un terzo di quello del 2008, anno d’insediamento del governo Berlusconi: da un miliardo e 649 milioni di euro ad appena 513 milioni. Una decurtazione secca di un miliardo. E nel triennio successivo, lo stanziamento verrà ridotto ulteriormente per scendere a 504 milioni nel 2012 e poi a 498 milioni nel 2013.
Il taglio risulta ancora più netto e allarmante se confrontato con quelli molto meno drastici a carico di ministeri affini come i Beni culturali o le Politiche agricole. Nel primo caso, la dotazione del 2011 sarà di circa 1.320 milioni di euro contro i 1.930 del 2008. Nell’altro, si scenderà dai 1.747 milioni di tre anni fa a 1.320. Per entrambi, dunque, la riduzione sarà di circa il 20% contro il 60% del ministero dell’Ambiente, condannato virtualmente all’agonia. La scure del ministro Tremonti, come si vede, non è diretta a colpire in ugual misura i vari ministeri, in forza della crisi economica.
Un’ulteriore conferma viene dal raffronto con i fondi stanziati per le Infrastrutture e i Traporti e per le spese della Difesa. Qui l’atteggiamento propagandistico del governo risulta tanto più evidente, perché gli investimenti per le opere pubbliche non risultano sufficienti per tutti i progetti annunciati, ma neppure rispetto ai costi reali di quelli già cantierati o dichiarati cantierabili. A fronte comunque di un bilancio pari a 6.991 milioni di euro nel 2010, l’anno prossimo si prevede una leggera flessione a 6.821 milioni, per arrivare a 6.654 milioni nel 2012 e a 6.640 nel 2013.
In pratica, l’unico ministero che non subisce tagli consistenti è quello della Difesa: dal 2007 in avanti, il suo bilancio registra una riduzione massima intorno al 4%, peraltro recuperata interamente con il bilancio previsionale 2011-2013 dell’attuale manovra finanziaria. Se infatti nel 2008 i fondi del ministero ammontavano complessivamente a 21.132 milioni di euro, quest’anno sono stati di 20.364, con una prospettiva di crescita fino a 21.366 milioni nel 2013. Pur considerando che i due terzi di questi bilanci riguardano il costo del personale, e quindi costituiscono una spesa obbligatoria, il Wwf sottolinea che la quota prevista in conto capitale è assolutamente ingente.
C’è senz’altro un’ispirazione “sviluppista” alla base di una scelta che, da una parte, punta a promuovere nel segno della cementificazione le infrastrutture con un forte impatto ambientale e, dall’altra, a deprimere la tutela del suolo, del territorio e quindi del paesaggio. Sui 13,5 miliardi di euro indicati come valore complessivo della manovra triennale, 4.836 miliardi (pari al 36%) vengono assegnati a opere come l’Alta velocità e le autostrade; mentre solo 400 milioni sono attribuiti agli interventi di tutela e di prevenzione (meno del 3%). E si tratta di un’impostazione che, come dimostra anche l’ultima emergenza provocata dal maltempo, è destinata purtroppo a incidere ulteriormente sull’assetto idro-geologico del Malpaese.
L’Italia, insomma, continua ad armarsi per guerre straniere, lontane e remote. Ma resta disarmata per combattere le calamità naturali, le alluvioni, le frane e tutti i disastri che minacciano direttamente il territorio nazionale. Risulta inconcepibile perciò che i fondi concessi al ministero dell’Ambiente per il prossimo triennio equivalgano, secondo i calcoli del Wwf, al costo di quattro cacciabombardieri F35 o di una Fregata Multimissione.
È vero che spesso l’ambientalismo fa di tutto per apparire come un freno allo sviluppo, un fattore di conservazione o addirittura di regressione. Qui rischiamo, però, di passare da un estremo all’altro: da un eccesso di tutela a un eccesso di incuria. Ma il progresso di un Paese come il nostro, con il suo patrimonio di risorse naturali, artistiche e culturali, non può passare attraverso un assalto autorizzato al territorio, una manovra governativa di abbandono e di degrado.
http://www.repubblica.it/ambiente/2010/11/05/news/ambiente_tagli-8765493/
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Crisi, Draghi preoccupato: “La produttività è deludente, bisogna stabilizzare i precari” 05.11.2010
E’ preoccupato il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi quando parla di una economia che fatica a crescere. Per lui “la difficoltà di quella italiana di crescere e di creare reddito non deve smettere di preoccuparci. Dobbiamo ancora valutare – aggiunge in una lezione magistrale alla facoltà di Economia dell’università di Ancona – gli effetti della recessione sulla nostra struttura produttiva. È possibile che lo shock della crisi abbia accelerato la ristrutturazione almeno di parti del sistema, accrescendone efficienza e competitività; è possibile un semplice, lento ritorno al passo ridotto degli anni pre-crisi; è anche possibile un percorso più negativo”.
Sono i giovani a rischiare di più – Per Draghi “l’Italia è davanti a un bivio e, se non si agisce presto, saranno i giovani a rischiare di subire le conseguenze peggiori del declino economico”. Dopo il duro monito il Governatore di Bankitalia aggiunge “voglio solo suggerire che ci potremmo trovare di fronte a un bivio. Gli indicatori delle organizzazioni internazionali ci dicono che gli italiani sono mediamente ricchi, hanno un’elevata speranza di vita, sono in gran parte soddisfatti delle loro condizioni: l’inazione è sostenibile per un periodo anche lungo; potrebbe generare un declino protratto. Ma quegli stessi indicatori – sostiene il Governatore – mostrano che l’inazione ha costi immediati: la ricchezza è il frutto di azioni e decisioni passate, il Pil, legato alla produttività, è frutto di azioni e decisioni prese guardando al futuro. Privilegiare il passato rispetto al futuro esclude dalla valutazione del benessere la visione di coloro per cui il futuro è l’unica ricchezza: i giovani”.
Necessario stabilizzare i precari – “Una graduale stabilizzazione dei precari è indispensabile per evitare alla lunga un calo della produttività”, sottolinea il numero uno di Bankitalia. “Nel mercato del lavoro – dice ancora Draghi – il dualismo si è accentuato. Rimane diffusa l’occupazione irregolare, stimata dall’Istat in circa il 12% del totale delle unità di lavoro. Le riforme attuate, diffondendo l’uso di contratti a termine, hanno incoraggiato l’impiego del lavoro, portando ad aumentare l’occupazione negli anni precedenti la crisi, più che nei maggiori paesi dell’area dell’euro”. Ma senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, sottolinea in chiusura il Governatore, “si indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”.
“La mobilità sociale in Italia è ancora scarsa e l’origine familiare conta più degli studi nel successo professionale dei giovani”, ha fatto notare il Governatore della Banca d’Italia. “La mobilità sociale persistentemente bassa che si osserva in Italia – ha detto – deve allarmarci. Studi da noi condotti mostrano come, nel determinare il successo professionale di un giovane, il luogo di nascita e le caratteristiche dei genitori continuino a pesare molto di più delle caratteristiche personali, come il livello di istruzione. Il legame – ha concluso – tra risultati economici dei genitori e dei figli appare fra i più stretti nel confronto internazionale”.
Manca concorrenza – L’impegno nelle liberalizzazioni “si è interrotto da tempo”, ha affermato Mario Draghi. In Italia, ha spiegato, c’è “un problema di concorrenza nei servizi. Studi condotti in Banca d’Italia mostrano da tempo come la mancanza di concorrenza nel settore terziario ne ostacoli lo sviluppo e crei inflazione; essa incide anche sulla produttività e competitività del settore manifatturiero. Nel 1998 – ha concluso Draghi – si presero misure di liberalizzazione del commercio al dettaglio; documentammo come esse favorissero in quel comparto l’occupazione, la produttività e l’adozione di nuove tecnologie. Ma l’impegno a liberalizzare il settore dei servizi si è da tempo interrotto”.
http://notizie.tiscali.it/articoli/economia/10/11/05/draghi-preoccupato.html
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La Cina vuole eliminare il dollaro 05.11.2010
La decisione della banca centrale Usa di mettere a disposizione più denaro per l’economia del Paese è comprensibile, ma rischia di creare dei problemi per l’economia globale ed evidenzia l’esigenza di riformare il sistema monetario internazionale. A dirlo è il responsabile di Banca di Cina, Zhou Xiaochuan, che già lo scorso anno aveva avanzato la rivoluzionaria richiesta di eliminare il dollaro come divisa di riserva globale dai diritti speciali di prelievo, una sorta di unità di conto, del Fondo monetario.
Zhou è tornato sulle argomentazioni alla base della sua proposta dicendo che la gestione dell’economia da parte degli Stati Uniti pone un conflitto intrinseco. “Possiamo comprendere le ragioni della politica di QE2 della Fed, dal punto di vista di chi vuole ravvivare la crescita e spingere l’occupazione. Ma il problema è che il dollaro è la valuta di riserva globale”, ha detto Zhou parlando a un forum.
“Potrebbe non essere la scelta giusta per l’economia globale nel suo complesso, sebbene sia una buona opzione per l’economia Usa”. Senza limitarsi a una critica della mossa della Fed, Zhou ha suggerito di valutare delle riforme radicali del sistema finanziario globale.
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
www.lamiaeconomia.com
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5/11/2010 – IL TOUR DEL PRESIDENTE USA IN ASIA Obama in India
mette Pechino sotto pressione
Partnership con New Delhi per creare occupazione. Intesa con il Sud Est asiatico sul contenimento cinese
Maurizio Molinari
Barack Obama parte oggi per l’India dando inizio ad un viaggio di dieci giorni in quattro nazioni asiatiche destinato a mettere sotto pressione la Cina su tre fronti: rispetto della concorrenza sui mercati globali, dei diritti umani e della stabilità regionale. «Il presidente visiterà India, Indonesia, Sud Corea e Giappone ovvero quattro grandi democrazie dell’Asia nostre alleate – spiega Mike Hammer, portavoce del consiglio della Sicurezza nazionale – e l’obiettivo è sottolineare l’importanza della Cina per assicurare stabilità e prosperità regionale». Jeff Bader, consigliere per l’Asia del presidente, va oltre: «Nella regione dove stiamo andando, tutti hanno in mente la Cina, e gli Stati Uniti hanno interesse a chiedere a Pechino un’oscillazione della valuta sulla base dei mercati e un maggiore impegno nel rispetto dei diritti umani» la cui necessità è stata evidenziata dalla recente assegnazione del Nobel della Pace a Liu Xiaobo, testimone della repressione avvenuta sulla Piazza Tiananmen nel giugno 1989. Durate l’ultimo weekend sono stati il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, Chuck Donovan, e il consigliere uscente per gli Affari economici, Larry Summers, a recarsi a Pechino per preavvertire gli interlocutori cinesi di quanto sta per avvenire. D’altra parte l’appena terminata missione del Segretario di Stato Hillary Clinton in nove Paesi dell’Estremo Oriente è servita per attestare il sostegno di Washington a nazioni come il Vietnam, la Malaysia e il Giappone che negli ultimi mesi sono state al centro di tensioni con Pechino a causa di contenziosi nelle rispettive acque territoriali. «L’impatto della crescita della Cina è uno dei temi che Obama affronterà nell’agenda dei colloqui e nei discorsi pubblici» sottolinea Bader, ricordando come «da tempo» gli Usa si sono detti a favore di una stretta cooperazione strategica con Pechino ma a patto che ciò avvenga «nel quadro delle regole della comunità internazionale» violate dal fermo di pescherecci nipponici come dall’occupazioni di isolotti nell’arcipelago conteso delle Spratly.
L’accento della Casa Bianca sulle tensioni con la Cina è anche la conseguenza di una campagna elettorale per il Congresso che ha visto i candidati di entrambi i partiti individuare la «concorrenza sleale» di Pechino come una delle ragioni della disoccupazione negli Stati Uniti. Non a caso proprio ieri Obama, incontrando i ministri alla Casa Bianca, ha detto che il viaggio in Asia «punta ad aprire nuovi mercati alle nostre aziende per creare posti di lavoro». È un approccio destinato a sottolineare la partnership economica con l’India, con la quale saranno siglati importanti accordi nel settore dello sviluppo dell’alta tecnologia e delle energie rinnovabili. Ad avvicinare Washington e New Delhi sono la cooperazione antiterrorismo e gli equilibri strategici: «Se la Cina punta a farci concorrenza in Asia, il partner naturale dell’America è la democrazia indiana» osserva Robert Kaplan, il politologo del «Center for American Security» autore del recente libro «Monsoon» nel quale sostiene che il rinnovamento della potenza globale americana nel XXI secolo «passa per l’Oceano Indiano».
Dopo la tappa in India, Obama andrà in Indonesia – la nazione dove ha vissuto da piccolo – per pronunciare da Giacarta un «discorso all’Islam» e poi ripartire alla volta di Seul dove a margine del summit del G20 vedrà il presidente cinese Hu Jintao per discutere la complessa agenda bilaterale prima della fine del viaggio a Yokohama, in Giappone, per il vertice dell’Apec dove è atteso un incontro con il presidente russo Dmitri Medvedev.
La partenza per l’Asia è segnata a Washington da vivaci polemiche sui costi del viaggio. Numerosi blogger, citando alti funzionari indiani a Mumbai, parlano di spese pari a «200 milioni di dollari al giorno» dovuti ad una carovana aerea di 60 velivoli, allo schieramento nell’Oceano Indiano di 40 navi da guerra – inclusa una portaerei – e alla scelta di portare da Washington sei limousine blindate assieme ad una Cadillac «per controllare l’arsenale nucleare» oltre alla creazione a New Delhi e Mumbai di due centri hi-tech dell’intelligence per seguire via satellite ogni spostamento di Obama, che viaggia accompagnato da Michelle e dalle figlie. Per Hammer «sono indiscrezioni senza fondamento sulla cui reale origine stiamo indagando».
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A Ecomondo premiato l’impianto del compost che simula lo stomaco di una mucca 04.11.2010
Una volta si diceva che dai diamanti non nasce niente ma dal letame nascono i fiori. Col tempo si è imparato che dal letame si può imparare molto, compreso un modello di gestione dei rifiuti ecocompatibile. Come quello premiato oggi a Ecomondo, a Rimini, con il Premio sviluppo sostenibile 2010. Si tratta dell’impianto di compostaggio di Romagna Compost, società posseduta al 60% da Hera e al 40% da vari soggetti locali come il Consorzio agrario di Forlì-Cesena.
Caratteristica dell’impianto è il processo di digestione dei rifiuti organici, che simula lo stomaco di una vacca: si tritano i rifiuti e li si fanno stare in capannoni alti 5 metri, lunghi 18 e larghi 10 per 30 giorni ad una temperatura controllata di 37 gradi centigradi. Ad aiutare la decomposizione ci pensano gli stessi batteri presenti nello stomaco dei bovini che, come “scarto” producono biogas che viene bruciato per produrre energia rinnovabile.
Al termine della digestione, tolto il biogas, il ciò che resta dei rifiuti viene fatto compostare in maniera tradizionale per farne terriccio fertilizzato. Certificato per agricoltura biologica. Se non bastasse, il tutto avviene senza la produzione di cattivi odori grazie ai batteri che digeriscono proprio le sostanze che li causano.
Dentro questo tipo di impianto vengono trattati i rifiuti organici provenienti dalla raccolta differenziata e quelli agricoli: potature, scerbature, scarti della filiera agroalimentare. Tutto fa compost, tutto fa biogas, tutto fa risorsa. Vi piace? Ne vorreste uno nel vostro territorio? Bene, sappiate che è esattamente lo stesso impianto che volevano costruire nella Valle del Dittaino, in provincia di Enna, e che il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo ha deciso di bloccare.
Via | Altra Rimini
Foto | Flickr
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Geert Lovink*: Network clandestini nell’era del Web 2.0 05.11.2010
“Occuparsi della luce, nella più oscura delle ore”. – Johan Sjerpstra
“I giorni in cui avevi un’immagine differente per i tuoi amici di lavoro e per i tuoi collaboratori e una per le altre persone che conosci probabilmente finiranno presto… Avere due identità per te stesso è un esempio di mancanza di integrità”. – Mark Zuckerberg
La questione dei siti di social networking negli ambiti artistici e di movimento è strategica e tocca alcuni temi chiave, dall’organizzazione interna all’articolazione di campagne di comunicazione e design. Ciò che sembra solo un altro livello di idiozia sociale sembra reclamare risposte di principio. Il panico morale condanna il web 2.0 come pubblicità (“Disarmiamo gli spacciatori!”). La frangia monofunzionale invoca la pubblica condanna della mania mainstream per i gadget più recenti e per le killer apps, le applicazioni di successo. Facebook ci sta friggendo il cervello e rovina le prospettive di successo negli studi (se mai ve ne sono state). Tale critica affrettata dell’ideologia ci impedisce di fare analisi accurate. I social media stanno invadendo tutti gli aspetti della vita. E’ un fatto. Dal tradizionale punto di vista ‘underground’, controculturale e/o clandestino che dir si voglia, sarebbe inconcepibile utilizzare Facebook o Twitter. Secondo la propria autopercezione il guerrigliero nei barrios comunica “faccia a faccia”, come disse un tempo Hakim Bey. Ma l’incasinata realtà attuale ci insegna qualcos’altro: avete provato a non usare google per una settimana? Come altri hanno già sperimentato, è un test che siete destinati a cannare.
L’underground estremo non può più permettersi di sognare uno stato di invisibilità perché è soggetto alla stessa tecno sorveglianza a cui soggiacciono tutti. Sottoculture deboli rispondono creando allegramente siti, gruppi e canali nella speranza di essere lasciate in pace come comunità. Ed effettivamente può esserci molta quiete in una Coda Lunga. Ma nemmeno sperimentare i più recenti manufatti culturali che le masse non hanno ancora scoperto fa ancora tendenza. Non c’è avanguardia al di fuori del regno del marketing. Abbiamo tutti compreso le sacre leggi del ‘cool’, quindi come potremmo ora sbarazzarcene del tutto? Non basta distruggere ciò che nella società è ‘cool’. E’ possibile ignorare un iProdotto? I social media promettono connessioni non mediate e dirette tra le persone, ed è questa energia utopica che ci trascina a qualche forma di accordo con i grandi media proprietari delle corporation. Invece di limitarsi alla semplice chiamata al rifiuto di tali tecnologie una volta per sempre, che cosa andrebbe dunque fatto?
I social media stanno giocando un ruolo sempre più importante nella ‘organizzazione dell’informazione’. Inizialmente messo da parte come un qualsiasi indirizzario online che genera significati attraverso la chiacchiera informale tra ‘amici’, il Web 2.0 è ora una fonte primaria di informazioni per milioni di persone. Ciò a sua volta condiziona il modo in cui trasformiamo le notizie in questioni sulle quali intendiamo agire. Dove sta l’urgenza? Il giornalismo ufficiale versa in una crisi epocale, ma noi delegheremmo veramente il nostro bisogno quotidiano di una ‘visione sul mondo’ a una nube diffusa di blogs, tweets e email? Non per ora almeno. In questo senso Jurgen Habermas ha ancora ragione. Nel breve periodo i social media restano supplementari, fonti secondarie di informazione che primariamente generano contesti interpersonali. Da una prospettiva di ‘economia dell’attenzione’ frammentano il discorso pubblico centralizzato, quello organizzato dai media a stampa e a trasmissione radiotelevisiva. Ma sul lungo periodo la percezione della natura costitutiva delle ‘notizie’ diventerà meno rilevante.
L’uso attuale del Web 2.0 è ciò che importa, non come gli opinionisti del web e gli editorialisti strutturano gli argomenti del giorno. Ciò che pensiamo stia ‘accadendo’ è la conseguenza della riconfigurazione del sociale a favore di ambiti informali, un’ecologia mediatica in cui controlliamo costantemente cosa sta succedendo. L’erosione dei media ufficiali renderà solo più difficile definire cosa sia veramente ‘underground’. Nascondersi nella abitudine dell’abbandono è, ed è sempre stata un’opzione ma, nel declino del Pop, è diventato secondario e decisamente meno sexy sopravvivere nella periferia. Le tecniche ricombinatorie di mashup e di riappropriazione hanno esaurito sé stesse. Le rovine dell’era industriale sono state nuovamente colonizzate e trasformate in valore immobiliare. L’occupazione di uffici vuoti, simboli dell’era postindustriale, deve ancora decollare e probabilmente questo non accadrà mai a causa delle dure regole e dei regimi di sorveglianza. Nulla viene lasciato indietro. Lo stesso spazio abbandonato è diventato scarso, se si esclude il deserto.
La scarsità di spazio urbano ci spinge ulteriormente nella Rete. Questo fatto sociale di per sé stesso ci mette di fronte al problema del Web 2.0. Abbiamo bisogno di pensare ad una separazione più netta tra organizzazione interna e comunicazione esterna. Per colpa della mancanza di privacy e dell’incremento nel controllo, la protesta (militante) non può fare affidamento sui dispositivi elettronici, soprattutto nelle fasi iniziali e nei momenti decisivi di azioni socio-culturali. Questo è un problema grave tanto quanto l’uso delle email come mezzo di mobilitazione e dibattito interno. Si è tentati dall’usare i telefoni cellulari per le strade coordinando le azioni. Saper disattivare questi strumenti nel momento giusto è un arte, paragonabile al settimo senso che bisogna evolvere per localizzare le videocamere di sorveglianza attive. E’ probabile che l’attivismo debba, ancora una volta, diventare iperlocale e offline al fine di colpire i suoi bersagli in maniera efficace. Questo può essere il caso persino delle strutture delle ONG più grandi.
Dopo lo ‘slow-food’, gli ecomarketers hanno scoperto la ‘slow communication’. Avremo prima o poi bar o locali privi di wi-fi nel nome di uno stile di vita rilassato? Non prendiamo questa strada. Mettersi offline non dovrebbe essere promosso come un credo. La comunicazione non è una religione, a meno che voi non abbiate scommesso tutto sull’implosione di tutte le istituzioni. La necessità di mobilitazione nelle lotte deve essere distinta dalle tendenze ecologiche sul genere dei mercati di agricoltori che offrono prodotti locali. Dopo che Facebook ha cambiato per l’ennesisma volta le impostazioni della privacy, Mary Joyce di DigiActive ha suggerito ai propri compagni di smettere di seguire digitalmente i propri fratelli attivisti, di ‘rimuoverne l’amicizia’ e lasciare qualsiasi gruppo politico di cui fossero membri su Facebook: “Cancellare ogni status politico, ogni nota e link e non aggiungerne di nuovi, rimuovere qualsiasi ‘tag’ dalle proprie foto mentre si prende parte ad attività politiche o in presenza di attivisti conosciuti, eliminare ogni connessione che ti colleghi a idee, organizzazioni e persone politicamente pericolose.” (10 Dicembre 2009). Questo è un problema che viene preso molto sul serio nel lavoro di Danah Boyd che mette costantemente in guardia sulle questioni legate alla privacy nei siti di social networking.
Le strategie Luddiste offline possono diventare reali solo se vengono praticate collettivamente, dopo aver preso le distanze da uno stile di vita atomizzato. DigiActive continua: “Gli attivisti devono creare profili separati anonimi per le loro attività politiche, che non contengano accurate informazioni personali e siano completamente disconnessi dai loro veri amici, da affiliazioni o località. In alcuni casi può essere sensato creare dei profili usa e getta, come del resto molti attivisti usano telefoni usa e getta: creare un account falso per fare un azione sensibile e quindi non usarlo mai più. Cosi da fare in modo che un singolo indirizzo IP sia direttamente connesso al tuo solito account, e al quale dovresti accedere ogni volta da computer pubblici diversi situati negli internet point o nei cybercafè e mai dal tuo computer di casa.” Questa è la conoscenza del futuro, fino ad ora condivisa solo da pochi.
In una discussione con Clay Shirky, Evgeny Morozov afferma: “Credo che un movimento di protesta di massa abbia bisogno di un leader carismatico come Sacharov, per sviluppare realmente il suo potenziale. Temo che l’era di twitter non producerà un nuovo Sacharov”. I nuovi media decostruiscono attivamente, disassemblano, smontano, descolarizzano, frammentano e decompongono. Il computer in rete in questo senso è una macchina da guerra fredda postmoderna. Immobilizza. Le masse a cui faceva riferimento la ‘vecchia scuola’ erano solite delegare i loro desideri e proiettarli su un capo carismatico. Finora abbiamo cercato invano un modo per ricomporre le masse. Ciò che Morozov suggerisce comincia dalla parte opposta: non ci saranno masse fino a quando noi saboteremo innanzitutto la produzione di leaders. Invece di creare contropotere, abbiamo smantellato il potere. Ciò significa che abbiamo raggiunto l’età foucaultiana.
Una fase chiave dei movimenti sociali è il contatto iniziale tra unità apparentemente autonome. Chiamiamolo l’’erotica del contatto’. Avete mai sperimentato la metamorfosi di ‘connessioni deboli’ in trasformazione verso legami rivoluzionari? E’ difficile immaginare che questa eccitante fase possa essere eliminata dall’equazione digitale. Creare nuove connessioni è essenziale nel processo artistico-politico. E’ il momento del ‘cambiamento’, il momento in cui il deserto del consenso si trasforma in un oasi fiorente. Michael Hardt e Antonio Negri affermano: “Il tipo di transizione con cui stiamo lavorando richiede crescente autonomia sia dal controllo pubblico che privato; la metamorfosi dei soggetti sociali attraverso l’apprendimento nella cooperazione, nella comunicazione e nell’organizzazione di incontri sociali; e quindi una progressiva accumulazione del comune”(Hardt-Negri, Commonwealth). Non è nient’altro che la scienza della rivoluzione: lo scopo finale degli studi sull’organizzazione, e il suo caso di studio ‘underground’.
Leggere correttamente lo spirito del tempo non basta. Abbiamo bisogno di sperimentare nuove forme di organizzazione. Questo è ciò che rende la lettura di Zizek, Badiou e altri rivoluzionari accademici insoddisfacente. Le loro ricette sono chiaramente retro-leniniste nella retorica e mancano di curiosità per le forme contemporanee di organizzazione. Il web 2.0 mette le carte in tavola su come organizzare il dissenso nell’era digitale. Come fanno oggigiorno i movimenti sociali a farne parte? Se non c’è nulla da nascondere dovremmo adottare un modello di ‘cospirazione aperta’? I movimenti crescono dai ‘cristalli di massa’ di cui parlò Elias Canetti nel suo libro più letto, “Massa e potere”, ovvero dai piccoli gruppi che sapevano come attirare la folla nelle strade e nelle piazze? E’ per questo che restiamo così affascinati dalla ‘comunicazione virale’? Fino ad ora la curiosità è stata principalmente per l’aspetto emulativo insito nel ‘divenire virali’. Ma chi decide i contenuti di cos’è virale? I network organizzati diventeranno i ‘cristalli’ del XXI secolo?
*pubblicato per la ‘Underground Special Issue’ della rivista australiana d’arte ‘Artlink’.
L’articolo originale si trova sul blog di Geert Lovink nel sito dell’Institute of Network Cultures
Tradotto utilizzando la funzione Note di Facebook da Cristiano Doni, Guillaume LaBerge e Elena Nìnà Sauvage.
Fonte: Global project
http://www.indipedia.it/news/geert-lovink-network-clandestini-nell%E2%80%99era-del-web-2-0
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Come e dove va la ricerca e sviluppo in Italia?
Da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org lo 08.11
Il Ministro Tremonti per la ricerca ha dichiarato in un intervista su IL SOLE 24 ORE del 4.8.2010:
“Sulla spesa pubblica c’è una sola voce su cui si deve davvero fare uno sforzo in più, ed è la voce ricerca. E su questa che stiamo lavorando”.A distanza di un mese (intervista a La Repubblica del 4 settembre 2010), alla domanda dell’intervistatore: “Come può crescere un Paese che non finanzia la ricerca? Perché continuate a non fare nulla in questo campo? Il Mo Tremonti ha risposto:“In questo si deve fare oggettivamente molto di più. Sappiamo bene che servono soldi. Pensi comunque che inventariando i fondi per il Sud sono venuti fuori circa 5 miliardi destinati alla ricerca, ma non utilizzati. L’istruzione tecnica è la grande assente nel nostro sistema educativo, che si è troppo allontanato dal mondo produttivo.”
Ma di quale ricerca e sviluppo si sta parlando? Guardiamo cosa accade nelle scuole, università, centri di ricerche e industria.
Entriamo nel merito dell’intervento dello Stato.
Con i oltre 15 miliardi di euro complessivi del progetto per il JSF si potrebbe: Costruire 3.000 asili nidoCosto 1 miliardo di € con beneficiari 90.000 bambini da 0 a 3 anni e 50.000 famiglie Posti di lavoro creati: 20.000Mettere in sicurezza 1.000 scuole. Costo 3 miliardi di € con beneficiari
380.000 studenti. Posti di lavoro creati: 15.000Installare 10 milioni di pannelli solari. Costo 8,5 miliardi di € con beneficiarie 300.000 famiglie. Posti di lavoro creati: 80.000 Dare indennità di disoccupazione di 700 € per 6 mesi ai precari con reddito inferiore ai 20.000 €. Costo 2,5 miliardi di € con beneficiarie 800.000 persone oppure (al posto di quest’ultima)Ristrutturare il centro storico dell’Aquila, 5.000 case inagibili, l’ospedale e la casa dello studente. Costo 2,5 miliardi di € con beneficiarie 30.000 persone Posti di lavoro creati: 2.000 Con i 100 milioni di euro di un singolo cacciabombardiere JSF si potrebbe: Acquistare 20 treni per pendolari. Costo 100 milioni di € con
beneficiarie 20.000 studenti. Posti di lavoro creati: 1.500
Acquistare 5 Canadair per servizio antincendio. Costo 100 milioni di € con beneficiaria un’area di 200.000 abitanti (scheda allegata alla campagna contro l’F-35)
Quali industrie vengono favorite dallo Stato? Quale ricerca viene finanziata nelle università e quali scuole superiori vengono privilegiate?
Gelmini: Rettori manager nelle università del futuro
I rettori delle università italiane diventeranno dei manager chiamati a rispondere a criteri di produttività ed efficienza. Lo annuncia Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione, a Capri parlando al convegno dei Giovani Imprenditori. “Nel mio disegno di legge che riforma ricerca e università – osserva – gli atenei diventano elementi centrali di un sistema che prevede il raccordodiretto tra centri di studio ed imprese”.
Per i distretti tecnologici sono pronti 900 milioni che saranno assegnati alle imprese con l’apertura di un bando. Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, utilizza la vetrina del convegno di Capri per annunciare di “aver firmato proprio oggi un bando che sostiene lo sviluppo dei distretti tecnologici”.http://www.denaro.it/speciale-confindustria-capri_2010.aspx
Cresce chi innova!
http://www.confindustriaixi.it/it/VII_giornata_ricerca.html#
Sintesi: andamento della ricerca e sviluppo in Italia e nei principali Paesi
http://progetti.airi.it/statistiche-ricerca-sviluppo/
Outsourcing della Ricerca Industriale. PROBLEMATICHE E POTENZIALITA’
DELLA RICERCA AFFIDATA A TERZI (IN ITALIA, ALL’ESTERO, IMPORTATA)
http://progetti.airi.it/outsourcing/AIRI-OutsourcingReS-Monti-Rapporto.pdf
http://progetti.airi.it/outsourcing/AIRI-OutsourcingRes-Altobello-Airi.pdf
Istat – Rilevazione su “Ricerca e Sviluppo” in Italia
L’ISTAT ha pubblicato le rilevazioni sulla Ricerca e Sviluppo in Italia, riferite alle imprese, alle istituzioni pubbliche e alle istituzioni private non profit.
Nel 2007 la spesa per R&S intra-muros sostenuta da imprese, istituzioni pubbliche, istituzioni non profit e università ammonta complessivamentea 18.231 milioni di euro. Le imprese (che realizzano il 51,9 per cento della spesa totale), con una crescita del 15,2 per cento rispetto al 2006, sono al primo posto per spesa complessiva in attività di R&S; un aumento si registra comunque anche per le università (+7,8 per cento) e, in misura minore, per le istituzioni private non profit (+1,1 per
cento). Si riduce, al contrario, la spesa per R&S delle istituzioni pubbliche (-8,7 per cento).
http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20091221_00/testointegrale20091221.pdf
Gazzetta Ufficiale N. 251 del 26 Ottobre 2010. MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO. DECRETO 14 settembre 2010 , n. 173
Regolamento concernente la disciplina degli interventi relativi ai progetti di ricerca e sviluppo, in applicazione della legge 24 dicembre 1985, n. 808. (10G0194)
Il possesso del requisito di cui al comma 1 sussiste per le imprese che, nei tre esercizi precedenti la domanda di ammissione agli interventi, abbiano conseguito un fatturato medio determinato per oltre il 50% ? ovvero il 25% per le PMI ? da attivita’ di costruzione, trasformazione e manutenzione di aeromobili, motori, sistemi ed equipaggiamenti aerospaziali, meccanici ed elettronici e parti degli stessihttp://gazzette.comune.jesi.an.it/2010/251/1.htm
Gli interventi di cui al presente regolamento, integrando in via sussidiaria l’investimento delle imprese che operano in Italia con attivita’ principale nel settore aerospaziale, sono finalizzati a consentire la tempestiva realizzazione – anche nell’ambito di programmi internazionali, o europei – di progetti di ricerca e sviluppo funzionali alla sicurezza nazionale in aree nelle quali l’industria italiana appare in grado di esprimere effettive eccellenze. http://gazzette.comune.jesi.an.it/2010/251/2.htm
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orchi
La sera del 4 novembre ho seguito la trasmissione Annozero del bravissimo Santoro con disagio, fastidio, ripugnanza. Tutto mi è sembrato orribile, perché rimestare nella merda immerda chiunque. Ma la palma di uomo più ripugnante dell’anno, che ho deciso di attribuire personalmente, tocca a Paolo Mieli. Il direttore del Corriere della sera, untuosamente gareggiando con Emilio Fede e Lele Mora (ma forse battendoli di qualche lunghezza) si è rivolto al presidente del Consiglio per invitarlo a fare più attenzione alle sue frequentazioni.
Ma come, diceva Mieli, non si rende conto signor presidente del Consiglio, di frequentare persone indegne, corrotte, volgari, insomma puttane? Non infanghi, signor Presidente la Sua carica con quelle compagnie di bassa lega.
Vorrei, se mi è concesso, rimettere le cose al loro posto.
Nella storia dei festini a casa Berlusconi non c’è un problema di moralità o di rispetto delle istituzioni. C’è soltanto la solita storia dello sfruttamento dei corpi da parte di uno sfruttatore, con la solita mediazione di ruffiani, lenoni, prosseneti, o caporali. Ci sono ragazze povere, proletarie e precarie alla ricerca di un ingaggio per una serata o per una mesata che accettano di essere assunte da caporali ruffiani che si chiamano Emilio Fede Lele Mora, Angeletti o Bonanni o Sacconi, per potersi offrire sessualmente a un individuo che le paga somme più o meno consistenti, se accettano di accoppiarsi con lui e con i suoi sodali. La morale non c’entra niente, la famiglia la sacralità e tutte queste stronzate non c’entrano niente. C’entra solo la miseria sociale che spinge milioni di persone a vendersi a chi detiene il potere e il danaro. Punto e basta. C’entra la miseria intellettuale prodotta da trent’anni di veleno mediatico, che ha tolto ai corpi e alle menti giovani la capacità di ribellarsi, di prendere a calci i padroni che li sfruttano, o li violentano per pochi euro (molti euro talvolta, quando al puttaniere schiavista di turno vien voglia di essere generoso). C’entra la miseria psichica di una generazione incapace di solidarietà, di auto comprensione, di organizzazione politica, di ribellione, di autonomia etica, politica e sociale.
Nell’agghiacciante spettacolo di Annozero questo emergeva con forza impressionante: il disprezzo che ogni giovane intervistato (gli amici di Karima o il suo fidanzato, per esempio) manifestavano nei confronti della loro coetanea e in conclusione il disprezzo di sé, che il cinismo produce.
Da trent’anni i ruffiani che procurano carne al dittatore si sono impadroniti dell’intero sistema di comunicazione. Fede e Mora si occupano di procurare carne sessuata per le voglie dell’orco di Palazzo Chigi, ma Paolo Mieli procura carne lavoratrice per le voglie dell’orco Marchionne. Non c’è differenza tra l’orrore dei festini e l’orrore di Pomigliano, sia ben chiaro. La storia è la stessa.
Una generazione distrutta psichicamente, intellettualmente, moralmente e sessualmente da una classe dirigente la cui bassezza ha ormai superato ogni possibile giudicabilità.
Della generazione precaria fanno parte allo stesso titolo milioni di lavoratori costretti ad ammazzarsi per un salario infame, e milioni di giovani donne e uomini costretti a vendere pezzi del loro corpo per i succhiamenti di vecchi bavosi, sfruttate poi gettate in pasto a una stampa pruriginosa e ipocrita che usa i prezzolati accoppiamenti come merce di scambio per operazioni politiche di guerra fra porci.
Negli ultimi giorni la guerra fra porci ha raggiunto forse un punto di svolta, chi può mai dirlo.
Finora abbiamo subito il dominio dei ladri, ora tocca prepararsi al dominio degli assassini. I salvatori della patria che si delineano all’orizzonte, i Fini e i D’Alema non sono meglio dell’orco obnubilato dal delirio pornografico-senile. Sono peggio.
Quando a Genova fu necessario torturare e uccidere, nel luglio 2001 Berlusconi incaricò della bisogna il suo Ministro degli interni, che si chiamava Fini. E il primo a violare l’articolo 11 della Costituzone non è stato Berlusconi, ma D’Alema che ha sulla coscienza i bombardamenti criminali sulla fabbrica Zastava di Belgrado e centinaia di militari italiani morti per gli effetti dell’uranio impoverito.
Un articolo di Alberto Asor Rosa uscito sul Manifesto del 4 novembre col titolo Uscire dall’era berlusconiana rischia di alimentare illusioni pericolose, tipo: si può ancora salvare la democrazia italiana se qualcuno caccia l’orco da Palazzo Chigi. Attenzione, non è così. Non c’è più nulla che possa salvare questo paese il cui futuro è scritto nella devastazione che trent’anni di avvelenamento hanno prodotto.
Il regime di Mussolini aveva distrutto la coscienza dell’intero popolo e questo poté risvegliarsi soltanto quando la guerra distrusse il paese. Ma il fascismo di Berlusconi ha distrutto qualcosa di ancor più profondo: non solo la coscienza, ma il rispetto di sé, fondamento di ogni ribellione, di ogni solidarietà e di ogni autonomia.
Una piazza Loreto si sta preparando per il cavalier Berlusconi. Sarà una piazza mediatica, naturalmente, e come accadde nel 1945, a gridare contro il tiranno saranno soprattutto coloro che fino a ieri lo hanno sostenuto. Piazza Loreto fu un episodio di barbarie, culmine e frutto di un ventennio di barbarie. Ma non si esce dalla barbarie senza passare per la Resistenza.
A Roma il 16 ottobre abbiamo visto insorgere quella minoranza che non ha perduto la dignità e la consapevolezza, quella minoranza che ha resistito e che resiste. Non disarmiamola promettendogli la facile soluzione di un governo nel quale accanto ai Fini e ai D’Alema siederanno Marcegaglia e Montezemolo e Marchionne. Quello non sarebbe il governo di liberazione, ma il governo dello schiavismo normalizzato, il governo degli orchi senza feste.
Da Franco Berardi, via Facebook il 05.11.2010
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Nel Brasile del miracolo agricolo. Così il paese è diventato la potenza che sfida Europa e Stati Uniti 05.11.2010
dall’ inviato Roberto Da Rin
CURITIBA. Sul volo San Paolo-Curitiba, vera nave Argo del Brasile di oggi, il cellulare dei passeggeri imprenditori squilla fino al monito, perentorio, delle hostess: «Da questo momento siete vivamente pregati di spegnere telefoni e dispositivi elettronici». All’atterraggio, non appena l’Airbus A330 di Tam tocca terra, subito tutti accesi: contattano le segretarie, ridefiniscono l’agenda, diramano ordini.
Sementi, trattori, ettari, camion e naturalmente… reais. Sono queste le parole che ricorrono nelle loro conversazioni. Il Brasile del miracolo agroindustriale lo si vede qui, prima ancora che gli operatori varchino la soglia del portellone dell’aereo e si infilino nel finger. Due ore dopo, lasciata la piana di Curitiba, la messa in moto di cinque gigantesche macchine agricole rompe il silenzio della campagna attorno a Ponta Grossa ma è la partenza che genera una certa inquietudine. Le mietitrebbia sono senza autista: giganteschi e avveniristici robot agricoli.
Avanti e indietro per le grandi fazendas del Paranà, campi sterminati battuti con una precisione quasi millimetrica. Uno spettacolo quasi surreale. Marcos, quarant’anni, agroimprenditore brasiliano, sorride e previene con tempismo domande irrituali. «Non si preoccupi, rientrano tutte alle base, puntuali, tra 9 ore. Nessuna si perderà, c’è il gps. Sono teleguidate a distanza da un operatore». Il Brasile si é trasformato nella prima potenza agricola tropicale, capace di sfidare e battere il predominio dei cinque grandi esportatori di alimenti: Stati Uniti, Canada, Australia, Argentina e Unione europea.
A 30 chilometri di distanza un altro imprenditore, snocciola dati impressionanti: 1.600 ettari coltivati a soia, 1.100 a miglio e 1.000 a mais. Fazendas di dimensioni inimmaginabili in Italia. I conti sulla semina, sui raccolti, sui costi di trasporti sempre a portata di calcolatrice. Celso Macedo Kossatz ne parla con la competenza di una vita spesa in campagna. Pensare che è un ginecologo. «Ma non scriva che sono un rinnegato» un sorriso in tralice «…è che mi sono appassionato alla campagna». Il fatto è che il Brasile, di questi tempi, offre opportunità talmente redditizie da indurre alla rinuncia di professioni e posizioni consolidate.
Nell’ufficio di Kossatz, scrivania, pc a schermo piatto, e telefono, l’unica oggettistica non funzionale sono dei modelli, non di auto, di mietitrebbia. Tra queste anche la Cr9090, un bestione prodotto da New Holland che lavora 573 tonnellate in dieci ore. Un record mondiale. Non l’unico per la verità, di traguardi il Brasile ne ha tagliati tanti in questi anni. Ha bruciato tutti, Stati Uniti compresi.
Proprio quando il dibattito sul fabbisogno alimentare si faceva più vibrante il governo di Lula ha tracciato un modello di sviluppo riconosciuto come il più solido. Nel 2000 esportava 20,6 miliardi di dollari che sono diventati 64,7 nel 2009. Triplicati. Il Brasile è leader mondiale nelle esportazioni di soia (in grani, farine e olio), carne vaccina, caffè, zucchero, tabacco, etanolo e succo di frutta. Poi viene il resto: mais, cotone, cacao, frutta fresca e carne di maiale. Ma è la produzione strettamente agricola che ha inanellato risultati stupefacenti. Le superstrade del Paranà che si irradiano da Curitiba verso nord e verso ovest costeggiano per centinaia di chilometri campagne pettinate ma anche nuovi capannoni, centinaia di aziende agricole. La produzione agricola è aumentata del 79% in dieci anni, passando da 83 a 149 milioni di tonnellate, mentre l’area seminata è cresciuta solo del 28%, da 36 a 47 milioni di ettari. La crescita è stata resa possibile grazie all’utilizzazione di Ogm.
La presidenza Lula ha saputo modulare interventi diversi, nella piccola, media e grande impresa agricola: il vicepresidente commerciale di New Holland, Francesco Pallaro, spiega come sia aumentata la competitività del settore «con il rafforzamento i meccanismi di mercato e rilanciando l’agricoltura familiare. Il programma “trator solidario», introdotto nel 2008, ha concesso agevolazioni ai piccoli proprietari, prestiti per macchinari agricoli rimborsabili con il 2% di interessi, facilitazioni creditizie per gli investimenti in macchinari».
È la quadratura del cerchio di uno schema che ha soddisfatto i grandi produttori e i nuclei familiari. L’industria e le famiglie. A differenza di quanto avviene in Europa, in Brasile è decollata una vera e propria politica agraria gestita da Embrapa, la più grande agenzia agricola del mondo,che pianifica e programma interventi nazionali basati sul forza del mercato, interno e internazionale.
Al ristorante italiano “Barolo” Joao Gonçalves, un imprenditore agricolo con interessi in molte regioni brasiliane, confessa che gran parte dei suoi amici e colleghi hanno votato per Dilma Rousseff, la pasionaria che la scorsa settimana ha raccolto l’eredità politica di Lula. «È un po’ troppo di sinistra, ma pazienza. Noi siamo pragmatici, sappiamo che Dilma seguirà la politica di Lula senza neppure modificare una virgola, squadra che vince non si cambia. Vale per il Santos, (la mitica squadra di calcio di Pele’, ndr) di cui sono grande tifoso e vale per il governo di Brasilia». Un sorso di Malbec, e poi ancora: «tutti sappiamo che neppure l’avversario Josè Serra avrebbe cambiato la sostanza del modello agricolo in vigore, ma perché rischiare qualche inciampo?». L’ottimismo è diffuso, non c’è che dire. Il tavolo a fianco al nostro è occupato da 12 manager agricoli. Tema del giorno è lo sviluppo del progetto porco leve, the light pig, più carne e meno grassi.
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Campi più verdi con i carburanti rinnovabili
Il trattore ora va a biodiesel
In attesa dell’idrogeno
L’offerta ecocompatibile di Case e New Holland, mentre il gruppo Argo punta sul made in Italy 08.11.2010
Punta sull’offerta di macchine che permettono l’autosufficienza energetica delle aziende agricole la New Holland del gruppo Fiat, che in un settore in crisi ha ritrovato, invece, la crescita. Lo dicono i numeri di Cnh, che oltre ai brand agricoli Case Ih Agriculture e New Holland Agriculture comprende anche il movimento terra: il fatturato del terzo trimestre è stato di 3,5 miliardi di dollari, rispetto ai 2,9 miliardi dello stesso periodo del 2009. I primi nove mesi del 2010 raggiungono i 10,6 miliardi di dollari e Cnh si avvia a chiudere l’esercizio in crescita rispetto ai 12,8 miliardi dell’anno scorso. Europa occidentale (Francia, Germania, Italia) e dell’Est, America Latina e Stati Uniti i mercati di riferimento.
CARBURANTI RINNOVABILI – «Per il 2011», dice Carlo Lambro, vice president Europe New Holland Agriculture, «si dovrebbe registrare una leggera ripresa del mercato, che rispecchia l’andamento dei prezzi delle principali produzioni agricole. Nel settore delle mietitrebbie, dove la stagione della raccolta 2010 si è appena conclusa, New Holland ha registrato, in controtendenza a livello europeo, un aumento della quota di mercato, che fa ben sperare per il futuro». Il marchio è ritenuto pioniere nell’uso dei carburanti rinnovabili, tanto che l’azienda è stata la prima a offrire, fin dal 2006, la compatibilità del prodotti con il biodiesel. Negli ultimi cinque anni la ricerca sull’impiego di questo combustibile in agricoltura è continuata, al punto che oggi l’85% dell’intera gamma di prodotti New Holland è in grado di funzionare con biodiesel al 100%. Ma la svolta arriverà quando sarà messo in vendita il trattore a idrogeno, che oggi è in fase di sperimentazione in una prima azienda pilota.
IDROGENO – La chiave per vincere sui mercati è offrire macchine che consentano di minimizzare la spesa per il carburante, che rappresenta una parte significativa dei costi di gestione di un’azienda agricola. Con il trattore NH2 alimentato a idrogeno, l’azienda agricola diventerà completamente autonoma dal punto di vista energetico. Investire in macchine nuove costa e alcuni imprenditori utilizzano ancora trattori vecchi di oltre 15 anni. «Per rilanciare il mercato italiano», sostiene Lambro, «l’intervento che più potrebbe fornire supporto a una crescita strutturale è certamente una maggiore apertura del credito alle aziende agricole».
MADE IN ITALY – Altra grande azienda italiana che produce macchine agricole è Argo, di Fabbrico ( Reggio Emilia). Il gruppo, presieduto da Valerio Morra, possiede i marchi McCormick, Valpadana, Sep, Laverda, Fella, Pegoraro e lo storico Landini, nato nel 1884. L’azienda è al 100 per cento italiana e punta sul concetto di made in Italy. «Dal 1° gennaio 2011 su tutti i trattori commercializzati in Italia sarà presente il logo “Made in Italy” e la bandiera tricolore, che ha lo scopo di valorizzare un know-how tecnico industriale tutto italiano», annuncia Ruggero Cavatorta, responsabile marketing e comunicazione Argo Tractors. Il business, però, non è in ripresa. «Il 2009 si era chiuso con circa 28.700 unità», dice Mario Danieli, direttore vendite Italia. «Nel 2010 c’è stato un calo a partire da settembre e il risultato dell’anno potrebbe essere di poco più di 23.200 unità. Il 2011 manterrà il trend degli ultimi mesi del 2010 e la mia previsione è che chiuderà con una leggera contrazione tra i 22 mila e 22.500 trattori».
Cinzia Fontana
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L’ecologia della mente. L’eredità di Bateson 05.11.2010
Scritto da Michele Maggino
Quest’anno cade il trentennale della morte di uno dei più grandi pensatori del secolo scorso: nel 1980 moriva Gregory Bateson, definito da qualcuno un pensatore per il XXI secolo, autore di un pensiero fecondo quanto sfuggente ad ogni catalogazione o etichettatura. In occasione del convegno a lui dedicato (6 novembre 2010, presso l’Aula Magna del Rettorato dell’Università Roma Tre) abbiamo pensato di riproporre alcune meditazioni di Rosalba Conserva (apparse sulla rivista “Naturalmente” nel dicembre del 2003), insegnante e profonda conoscitrice di Bateson, che cercano di parlare della scuola partendo da alcuni spunti stimolanti dell’autore di “Verso un’ecologia della mente”.
Si tratta di un testo denso, di una lettura impegnativa, ma crediamo che possa valerne la pena in quest’epoca di tagli e attacchi alla scuola pubblica: quando il livello del confronto si abbassa e si fa rozzo, è bene elevarsi e affinare gli strumenti (a cura di Michele Maggino).
Obsolescenza e cambiamento *
di Rosalba Conserva – “Naturalmente”, dicembre 2003.
“Sembra che i grandi insegnanti e terapeuti evitino ogni tentativo diretto di influire sulle azioni degli altri e cerchino invece di instaurare le situazioni e i contesti in cui certi cambiamenti – di solito specificati in modo imperfetto – possano avvenire”.
(Gregory Bateson)
Diversamente dal gruppo minoritario dei ‘conservatori’ (anziani per età o per mentalità), i più trovano la scuola lontana dai bisogni reali dei giovani, come fosse fuori del tempo, ostile alle novità, obsoleta. Se ciò è vero, e se è davvero conveniente o necessario combattere l’obsolescenza, si tratta di capire chi deve combatterla, come, in quale misura… Prima ancora, però, dovremo chiederci qual è una teoria generale della vita e della conoscenza da cui far derivare piccoli e grandi cambiamenti.
In questo articolo proporrò di ripensare la scuola e la dinamica conservazione/cambiamento attraverso la teoria di Bateson del confronto tra i due processi stocastici relativi al pensiero e all’evoluzione. Per molte ragioni, non ultima quella che insegnanti e studenti acquisiscano una nozione di ‘errore’ riferita non a singole contingenze né soltanto a teorie pedagogiche, ma riferita a una visione eco-logica del mondo vivente.
1. In un lungo e fondamentale capitolo di Mente e natura (1) Bateson vuole dimostrare che l’unità del sistema “combinato” di evoluzione e pensiero è necessaria.
Dei due sistemi, uno, il pensiero, “è dentro l’individuo ed è chiamato apprendimento”; l’altro, l’evoluzione, “è immanente nell’eredità e nelle popolazioni”. Il primo concerne la durata di una singola vita, l’altro numerose generazioni di molti individui. (2)
Sappiamo bene che il tempo dell’evoluzione è di tipo logico diverso da quello del pensiero: i tempi biologici e quelli storici non coincideranno mai. Ma è questo solo un aspetto del confronto tra i due sistemi, che limiterebbe la nostra attenzione alle divergenze. La grande intuizione di Bateson fu quella che, pur differenti nei tempi, evoluzione e pensiero seguono strade parallele: entrambi sono processi stocastici, in parte interagiscono, in parte non comunicano, ma hanno struttura analoga. Analoga infatti è la struttura – doppia – delle loro componenti:
a) una componente conservativa, selettiva, tautologica, che Bateson chiama anche “rigore”;
b) una componente casuale, creativa, aleatoria, che prelude pertanto al cambiamento, e che Bateson chiama anche “immaginazione”.
Il mondo delle ‘cose vive’ può essere perciò assimilato a una grande ‘tautologia’: date certe premesse, dati certi vincoli, date certe possibilità di cambiamento, ogni organismo tende a cambiare mantenendo inalterati i presupposti che garantiscono sia la propria coerenza interna sia la coerenza con gli organismi con i quali esso co-evolve. Se quindi una finalità c’è, nel complicato bilanciamento tra ‘nuovo’ e ‘vecchio’ e tra evoluzione e pensiero, questa finalità consiste, in natura, nel generare e rigenerare la vita. “Uno dei grandi errori della biologia di metà Ottocento – osserva Bateson – fu quello di pensare che la selezione naturale fosse una forza che spinge al cambiamento. Non è così: la selezione naturale è una forza che spinge a lasciare le cose come stanno, che spinge a continuare la stessa danza che si stava danzando prima, e non a inventare danze nuove. […] Ciò che si deve fare è cambiare in modo che il sistema dei cambiamenti abbia una certa stazionarietà, un certo bilanciamento o equilibrio… magari complicatissimo. ” (3)
2. Limitiamoci ora a considerare il processo del pensiero (dell’apprendimento).
Immersi come sono nell’ambiente e nel tempo, gli individui (o le società) sono come le canne di bambù: rigide e flessibili allo stesso tempo; nel mantenere in equilibrio le due differenti tensioni (verso l’innovazione e verso il mantenimento dello statu quo) oscillano tra “rigore” e “immaginazione”. Le due componenti possono però risultare ‘fuori squadra’: è ciò che accade agli esseri umani, i quali, nell’accettare il nuovo, tendono a massimizzare più che a ottimizzare le variabili del sistema in cui sono immersi, e potrebbero quindi mandare gambe all’aria il proprio equilibrio interno (e di conseguenza esterno) fissando una singola variabile che sembra assicurare un (momentaneo) ‘benessere’ e adattarsi – fino ad assuefarsi – ad essa senza aver adeguatamente verificato a quale tipo logico appartiene l’adattamento che hanno incorporato. Il benessere di un individuo è di tipo logico diverso dal benessere di una popolazione (e viceversa), ed entrambi sono di tipo logico diverso dal ‘benessere’ delle altre specie, degli ecosistemi e così via. Ed è proprio l’assuefazione – un adattamento di ripiego -, quindi la perdita di flessibilità, ciò che impedisce la ricerca di soluzioni adattative migliori – ‘migliori’ dal punto di vista dell’ecosistema (e quindi degli stessi esseri umani).
3. Queste che ho appena richiamato sono idee semplici e di una ‘verità’ quasi indubitabile. Eppure, se guardiamo dentro di noi e intorno a noi, notiamo che sono proprio le idee ‘sbagliate’ ad avere vita facile. Il fatto è che anche le epistemologie sbagliate funzionano. Ed è per la facile caduta nell’errore (epistemologico) che da sempre gli esseri umani hanno cercato dei correttivi alla loro evidente tendenza alla manipolazione o all’eccesso di immaginazione o all’eccesso di conservatorismo…, alla perdita insomma della visione e dell’agire sistemici.
Le società umane costruiscono perciò un’etica del comportamento: leggi civili, religiose ecc. Istituiscono anche luoghi dove istruire i nuovi nati: l’uovo fecondato riparte da zero, i piccoli nascono privi della memoria delle precedenti generazioni: dovranno imparare. Il mutare del tempo esige continui adattamenti: aggiornare, togliere, aggiungere… Per decidere i nuovi confini di ciò che deve essere appreso dai nuovi nati, vengono messe al lavoro commissioni di ‘saggi’. Limitarsi ai soli provvedimenti di emergenza potrebbe infatti essere non vitale al sistema. Come ho già detto, serve un quadro teorico generale: che cos’è un uomo, che cos’è la conoscenza?… E i contesti? come dovranno essere ridisegnati? Tra parentesi, sarebbe stupido buttare a mare forme e rituali che identificano un certo contesto senza aver contemporaneamente individuato forme, sì, più attuali, ma che siano analoghe alle precedenti, che svolgano cioè la stessa funzione. (4)
4. Resoconti, storie, teorie, tecnologie ecc. costituiscono un patrimonio diffuso nella memoria sociale. Ricorrendo al metodo della doppia domanda, diremo: “Che cos’è un bambino che può acquisire la memoria sociale?; e che cos’è la memoria sociale che un bambino può acquisirla?”
Nessuna società ha mai consegnato precocemente e tutta quanta intera la sua ‘scienza’ alle nuove generazioni. Oggi, l’accumulo di memoria risulta ingovernabile: e allora, quali conoscenze elementari occorrono per comprendere una società planetaria, che non sembra avere confini?
Invece di dare una risposta diretta torniamo ai processi stocastici.
Proviamo a pensare alla scuola in questi termini: che le due componenti a) e b) del processo del pensiero, vale a dire rigore e immaginazione, siano non solo interne a ogni organismo – sia nei vecchi sia nei giovani – ma anche personificate, in ambito culturale, rispettivamente dalla figura dell’insegnante e da quella dell’allievo. (5)
In teoria, diremo che, essendo il patrimonio delle conoscenze disseminato nella memoria sociale e nelle biblioteche (o in qualcosa di analogo), il gruppo sociale si attrezza per accogliere i nuovi nati ai quali, del vasto accumulo delle conoscenze, trasmetterà ciò che prefigura debba restare ‘sempre vero’ nonostante i continui e inevitabili cambiamenti. Nella boscaglia africana, sarà sempre vero che qualcuno dovrà allevare il bestiame all’aperto, fabbricare il carbone, costruire recipienti adatti a contenere il latte di cammella ecc.: tutto ciò i piccoli dovranno impararlo. Qui da noi, sulla base di ciò che noi adulti possiamo prefigurare dell’evoluzione sociale e culturale, ci sembra ragionevole affermare che sarà ancora sempre vero (meglio: conveniente) separare la fisica dalla metafisica, insegnare la meccanica prima ancora della robotica, l’uso del microscopio ottico prima ancora di quello elettronico, insegnare a padroneggiare la lettura e la scrittura, ecc.
5. Come ogni processo stocastico, la scuola è rigida e flessibile allo stesso tempo. Può introdurre correttivi che modificano il contesto: un laboratorio anziché un’aula tradizionale, un filmato anziché un libro, ecc.; e tutto ciò comporterà – per chi impara e per chi insegna – adattamento e quindi apprendimenti di differenti tipologie, differenti riguardo sia a ciò che è oggetto di apprendimento, sia al tempo necessario per acquisirlo (per fare un esempio, il tempo occorrente per imparare a usare il computer è di tipo logico diverso dal tempo che occorre per riconvertire una collaudata modalità di spiegazione – tutta verbale, e con il supporto di gesso e lavagna – in una lezione cui facciano da supporto le moderne tecnologie).
Secondo criteri contingenti, sceglieremo le ‘nozioni’ che vanno mantenute e quelle che vanno aggiornate, cambiate, ridimensionate ecc.; e tuttavia, anche quando nozioni, materie, programmi saranno del tutto nuovi, il sistema di istruzione sarà in ritardo rispetto alla evoluzione delle tecniche e dei linguaggi. Dalla scuola spartana, a quella montessoriana, alla scuola multietnica di oggi, il gruppo dei ‘saggi’, agendo da ‘filtro critico’, fa sì che – analogamente a quanto avviene nell’evoluzione – tutto cambi affinché resti invariato qualcosa di fondamentale.
Per circoscrivere il numero delle variabili e per poterle controllare e per operare quindi continue ed efficaci correzioni, il contesto entro cui avverrà l’istruzione è bene che rimanga in qualche misura isolato. Prendendo come metafore due differenti tipi di gara: la Formula Uno e la Parigi-Dakar, diremo che la scuola ha scelto come modello la prima: un circuito al riparo da variabili ‘fuori controllo’. È vero anche che ciascun allievo ‘gareggia’ come fosse unico e solo (come fosse sulla Parigi-Dakar), tuttavia si avvale della continua e tempestiva ‘calibrazione’ suggerita da una équipe di esperti, i quali decidono per lui (non sempre con lui) gli opportuni correttivi. Egli, insomma, è dentro un sistema organizzato, pertanto gerarchico: un sistema (la scuola) che è connesso a e che comunica con altri sistemi (il mondo della ricerca, il sistema legislativo, economico e così via), anche questi organizzati e gerarchici.
Ordine e circolazione di informazione sono quindi necessari. Ma è altrettanto necessario che i sistemi (viventi) ammettano tratti di non-comunicazione o di comunicazione non-diretta fra livelli non-contigui.
Pensiamo, ad esempio, alle leggi di uno Stato, le quali non modificano automaticamente la Costituzione, anzi sono vincolate ad essa, in quanto la Costituzione contiene ciò che deve restare ‘sempre vero’ (dal punto di vista di una data società, s’intende) qualunque cosa accada. Una ipotetica richiesta della pena di morte o la negazione del diritto d’asilo, pur se plebiscitarie, non passeranno mai direttamente nella nostra Costituzione.
6. In ambito scolastico, stabilire una comunicazione non diretta ma mediata fra ciò che i piccoli imparano in contesti ‘protetti’ (la scuola) e ciò che ‘serve’ qui e ora alla società, permetterà alla scuola di non incamerare automaticamente le novità che vengono dall’esterno (specie se questo cambiamento segue tempi troppo veloci), e di finalizzare perciò l’apprendimento non a un ‘altrove’ ma allo specifico contesto entro cui un certo apprendimento si realizza.
Questo perché i piccoli acquisiscano lo stesso o un analogo patrimonio di idee e di conoscenze che ha permesso agli adulti di ora, quando erano giovani, di coltivare e allo stesso tempo temperare l’immaginazione, e affinché siano in grado, poi, di vagliare il nuovo anziché assuefarsi ad esso.
Insomma, come i provvedimenti e le leggi contingenti sono diversi (per tipologia) dalle leggi costituzionali, allo stesso modo gli adattamenti provvisori, di emergenza, nella stesura e nello svolgimento dei programmi di studio – calibrati su quella classe di bambini e non su una ipotetica classe – saranno di tipo logico diverso dalle ‘verità eterne’ dell’istruzione: leggere, scrivere e far di conto (per ciò che oggi significano).
7. A mio parere, noi, oggi, ci preoccupiamo troppo di introdurre nel sistema di istruzione cambiamenti tesi a combatterne l’obsolescenza. Il cambiamento è inevitabile. Infatti la componente creativa del pensiero (dei ragazzi, degli insegnanti) non solo si combina internamente con la componente conservativa, ma quelle due componenti (interne) si combinano, all’esterno, con l’evoluzione sociale e culturale dotata della stessa doppia struttura: il sistema-scuola, quindi, non può non cambiare.
Creatività e immaginazione si alimentano del casuale. Il pensiero cosiddetto divergente non rientra perciò in un ‘programma’. A differenza dei contenuti (l’aspetto teorico, normativo, convenzionale delle discipline), quello ‘creativo’ non è un progetto che la scuola può perseguire finalisticamente, consapevolmente. La scuola crea semmai le premesse, predispone le condizioni perché ciascun allievo liberi una sua autonoma ‘immaginazione’ che preluderà al cambiamento. Gli educatori possono (anzi: devono) avere cura dei contesti, governare le tante variabili, ma dove e come si manifesterà il cambiamento, questo non spetta a loro specificarlo, né possono prevederlo. E, in generale, non è detto che il nucleo del cambiamento verrà sempre dal versante ‘creativo’ del pensiero, chiunque sia a sollecitarlo: le variabili dall’evoluzione più lenta, o che al confronto con altre risultano obsolete, potrebbero costituire anche esse un laboratorio di idee – per adesso marginali – che – chissà quando e come – costituiranno il ‘punto di svolta’.
8. Nessuna specie è al riparo dall’errore di entrare in un vicolo cieco evolutivo; noi però lo sappiamo, tuttavia il fatto che lo sappiamo non ci conduce, automaticamente, a comportamenti coerenti. Viviamo, insomma, in un perenne ‘doppio vincolo’ che caratterizza forme e modi del nostro pensare e del nostro agire; condizione, questa, non soltanto nostra – di noi ‘moderni’ (e occidentali) – ma propria degli esseri umani: in ogni tempo e in ogni dove non ci è dato di scegliere una comoda strada tutta a valle o tutta a monte.
Indubbiamente oggi costituisce un vantaggio conoscere la teoria dei sistemi, la teoria del caos deterministico, i criteri del processo di evoluzione e pensiero ecc.: queste teorie suggeriscono criteri di prudenza in chi elabora e mette in atto piani d’azione – in ambito culturale, nella politica, nell’economia, nella strategia militare… Tuttavia quella di velocizzare il cambiamento è una tentazione sempre presente e quasi ineliminabile.
Potrebbe darsi davvero che Bateson avesse ragione quando, nel 1978, scrisse che il tempo è ‘fuori squadra’ (6), che cioè l’evoluzione delle idee, combinate oggi con una potente tecnologia, stia ignorando i vincoli definiti dalla complementarità tra immaginazione e rigore. Di riflesso, la più grande tautologia (l’intera biosfera o parte di essa) potrebbe essersi irrimediabilmente ‘ammalata’ (compresi noi), o per dir meglio seguirebbe tempi di ‘guarigione’ troppo lunghi perché noi possiamo vederne e valutarne gli effetti.
A una distanza maggiore, ogni idea, ogni cambiamento ogni ‘guarigione’ potranno apparire appropriati (anche la desertificazione del pianeta: “è ciò che ci voleva!”, concluderà una ‘mente’ guardando la cosa da una qualche distante ‘saggezza’ ), ma noi oggi non possiamo saperlo perché in questo processo siamo immersi.
9. Bateson sembra a tratti ottimista all’idea che l’ecologia della mente e gli strumenti concettuali forniti dalla cibernetica (retroazione positiva e negativa), divenuti senso comune, avrebbero fornito agli esseri umani una più umana filosofia. D’altro canto, però, era pessimista: immaginava se stesso come un “lemming sardonico” che guardando i suoi simili precipitarsi in mare prendesse appunti e dicesse: “Io ve l’avevo detto!”.
“Mi sembra che tu stia dicendo delle sciocchezze – osserva la figlia nel Metalogo “E allora?” (7) -. Non ti vedo come l’unico lemming intelligente che prende appunti sull’autodistruzione degli altri. Non è da te. Nessuno comprerà il libro di un lemming sardonico”. E il padre, con somma ironia, risponde: “Ti sorprenderà sapere quanti libri di lemming sardonici in realtà si vendono molto bene…”.
Prigionieri del ‘doppio vincolo’, dicevo, e in eterno. Forse no. Forse una possibile uscita dal dilemma sarà proprio l’ironia: quella straordinaria risorsa del pensiero attraverso cui “si vede la più ampia Gestalt”. (8)
Note
(1) “I grandi processi stocastici”, in Mente e natura, Adelphi, Milano 1984, pp. 195-247
(2) cfr. Mente e natura, cit., pp.199-200.
(3) Una sacra unità, Adelphi, Milano 1997, pp. 415-416
(4) Scrive Bateson: “Tentare di alterare qualsiasi variabile di un sistema omeostatico senza essere consapevoli dell’omeostasi soggiacente è sempre miope e forse immorale”. (Una sacra unità, cit., p.387)
(5) Qualcuno potrebbe obiettare che i ‘vecchi’ di oggi – gli insegnanti che in gran numero ancora oggi insegnano – sono quelli che da giovani teorizzavano “l’immaginazione al potere”. Forse allora io sbaglio nel pensarli come conservatori per natura o per il ruolo che occupano. Comunque stiano le cose, ciò che conviene considerare è che la relazione tra ‘noi’ e ‘loro’ è a un tempo complementare e antagonista. (Noi ci impegniamo a spiegare e a far imparare la struttura metrica dell’endecasillabo, e per far ciò dovremo forzare la resistenza dei ragazzi, i quali intanto si appassionano, e per altre vie, a ben altra musica.)
(6) cfr. l’Appendice a Mente e natura, cit., pp. 285-295.
(7) G. Bateson e M.C. Bateson, Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano 1989, p. 257
(8) Una sacra unità, cit., p. 443
la citazione iniziale è presa da Una sacra unità, cit., p.386.
* pubblicato sulla rivista “Naturalmente”, bollettino di informazione degli insegnanti di scienze naturali, n. 4, dicembre 2003
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Da claudio.tullii@alice.it per ListaSinistra@yahoogroups.com il 06.11.2010
Tutte le “battute” infelici dei politici sui gay: da Bossi a Rosy Bindi
Siete sconvolti anche voi per la battuta di Berlusconi sui gay?
Be’, risparmiatevi un po’ di indignazione per tutti gli altri politici che, più o meno esplicitamente, hanno espresso posizioni altrettanto omofobiche, se non addirittura peggiori.
Date un’occhiata qua sotto e arrivate fino in fondo: ne varrà la pena, perché fra i giustizieri degli omosessuali ce ne sono alcuni che fino ad oggi avevate considerato assolutamente insospettabili.
Siamo messi molto peggio di quanto sembra, o sbaglio?
Se lei mi chiede: “Un maestro dichiaratamente omosessuale può fare il maestro?” Io le dico di no. Capito? Perché ritengo che non sia educativo nei confronti dei bambini.
(Gianfranco Fini)
E se ancora non si è capito essere culattoni è un peccato capitale e, pertanto, chi riconosce per legge una cosa del genere è destinato alle fiamme dell’inferno.
(Roberto Calderoli)
Meglio noi del centrodestra che andiamo con le donne, che quelli del centrosinistra che vanno con i culattoni.
(Umberto Bossi)
E’ meglio che un bambino stia in Africa con la sua tribù, piuttosto che cresca con due uomini o due donne, con genitori gay.
(Rosy Bindi)
Le adozioni gay? Non credo che sia una scelta che la società possa accogliere e neppure penso che sia utile per il bambino essere adottato e crescere con due persone dello stesso sesso.
(Piero Fassino)
L’omosessualità è una devianza della personalità: un comportamento molto diverso dalla norma iscritta in un codice morfologico, genetico, endocrinologico e caratteriologico.
(Paola Binetti)
Le coppie gay sono costituzionalmente sterili.
(Mara Carfagna)
Altre forme di convivenza sono di serie B rispetto alla famiglia.
(Pierferdinando Casini)
La fiction che mette in scena due ragazze lesbiche che si sposano veicola l’idea di una parodia di matrimonio che mette a rischio il futuro della nostra società.
(Carlo Giovanardi)
Per le coppie omosessuali sono assolutamente contraria alla fecondazione o al fatto che abbiano figli. Lo dico a favore dei bambini perché hanno diritto di avere un padre ed una madre. E’ una questione di principi di riferimento.
(Giorgia Meloni)
Le unioni di fatto? Sì al riconoscimento dei diritti per le coppie eterosessuali. Ma il problema sono i gay.
(Clemente Mastella)
E’ indegno che un drappello di ministri partecipi a una manifestazione vergognosa come il gay pride.
(Maurizio Gasparri)
Le minoranze omossessuali non devono essere discriminate, ma è sbagliato quel che ha deciso la Spagna di Zapatero, stabilendo che le coppie omossessuali possono adottare bambini. Noi non lo consentiremo mai.
(Francesco Rutelli)
Ma l’omosessualità è una devianza. Quindi niente famiglia e niente adozioni. Il gay dichiarato non può essere né insegnante, né militare, né istruttore sportivo.
(Pier Gianni Prosperini)
Baciarsi e denudarsi nella piazza della Cattedrale di Roma è un modo esibizionista che fa molto male ai gay perché genera una reazione. Si lamentano posizioni omofobiche ma quando si offende il sentire comune con forme esibizionistiche poi nessuno può controllare le reazioni.
(Savino Pezzotta)
La famiglia è una sola, quella fondata sul matrimonio tra un uomo ed una donna: il resto è ciarpame da non prendere neanche in considerazione.
(Giuseppe ciarrapico)
Meglio fascista che frocio.
(Alessandra Mussolini)
Sono certa che tutti i genitori italiani sperano di avere figli eterosessuali.
(Daniela Santanchè)
Sul piano politico e sociale sono contro ogni disriminazione contro i gay. Ma moralmente penso che sia sbagliato. Come non pagare le tasse.
(Rocco Buttiglione)
I gay sono delle persone ammalate, devono essere comprese e posso comprenderle. Però non possono offendere, andando ad occupare un territorio dove ci sono persone che non sono della loro stessa tendenza. Devono farsi curare, se sono curabili, altrimenti devono stare dentro le loro mura, perché non possono invadere la libertà altrui.
(Riccardo Missiato)
Ma insomma, dobbiamo fare l’elogio degli invertiti? Ma se lo fossero tutti si estinguerebbe la razza umana!
(Giulio Andreotti)
Darò subito disposizioni alla mia comandante dei vigili urbani affinché faccia pulizia etnica dei culattoni.
(Giancarlo Gentilini)
No, non sono favorevole al matrimonio tra omosessuali, perché il matrimonio tra un uomo e una donna è il fondamento della famiglia, per la Costituzione. E, per la maggioranza degli italiani, è pure un sacramento.
(Massimo D’Alema)
A Firenze non è mica vietato l’accesso agli omosessuali. Non sono stati invitati al convegno perché si parla di famiglie e i gay non lo sono.
(Antonello Soro)
I fondatori della psicologia moderna descrivono l’omosessualità come patologia clinica.
(Luca Volontè)
Gli omosessuali devono smetterla di vedere discriminazioni dappertutto. Dicano quello che vogliono, la loro non è una condizione di normalità.
(Flavio Tosi)
Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga.
(Renzo Bossi)
Ho tanti amici gay e non penso che il matrimonio o l’adozione siano una loro priorità. Le persone che conosco io vogliono semplicemente poter vivere serenamente questa loro condizione.
(Renata Polverini)
Cosa taglierei per aumentare i fondi della ricostruzione spara? Gli aiuti alle coppie gay.
(Claudio Scajola)
Ho tutto il rispetto possibile per le persone omosessuali, li conosco, ho delle amicizie, nessuna discriminazione: ma il Gay Pride è un fatto di esibizionismo sessuale ed io sono contrario all’esibizionismo.
(Gianni Alemanno)
Una cosa sono i diritti individuali, e un’altra è equiparare il matrimonio naturale tra persone di sesso diverso con quello tra persone dello stesso sesso, finalizzato alla procreazione, perché quella è la ragione del fatto che il matrimonio sia protetto dal diritto pubblico: di questo non se ne parla.
(Ignazio La Russa)
Nel nostro Paese ognuno può vivere come meglio ritiene, basta che stia all’interno delle leggi. Non si possono però trasformare i desideri in diritti illegittimi. Bene quindi ha fatto la Consulta a rigettare le istanze che volevano far introdurre di fatto nel nostro paese il matrimonio gay.
(Isabella Bertolini)
Sono sempre stata contraria al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto.
(Livia Turco)
In Europa si approvano leggi che disgregano la famiglia e si mettono con arroganza e protervia al voto popolare i valori della persona e della vita: il riferimento è chiaramente è alla legge spagnola sulle coppie omosessuali e al referendum italiano sulla fecondazione assistita.
(Marcello Pera)
Il PDL ed il centrodestra si sono battuti strenuamente per difendere la famiglia fondata sul matrimonio dagli attacchi, provenienti da sinistra, tesi ad un’odiosa equiparazione tra unioni civili e famiglia tradizionale.
(Gabriella Carlucci)
Già cinque anni fa Forza Nuova aveva fatto un manifesto in cui si diceva che dietro ad un pedofilo si nasconde un omosessuale, il che non significa dire che tutti gli omosessuali siano pedofili, bensì che tra i pedofili è forte l’omosessualità latente o manifesta.
(Roberto Fiore)
Nel nostro Paese non c’è spazio per il riconoscimento della coppia omosessuale.
(Italo Bocchino)
singolarità qualunque
http://materialiresistenti.blog.dada.net/
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Il comunismo del capitale
Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale
pp. 254
€ 22,00
isbn 978-88-95366-72-2
il libro
La crisi non è finita. Dopo la virulenta esplosione dell’ennesima bolla finanziaria, scatenata dai titoli suprime e seguita dagli interventi statali di salvataggio di banche, assicurazioni, istituti finanziari e interi settori industriali, si è passati alla cosiddetta crisi del “debito sovrano”, che segna la definitiva entrata dei mercati finanziari nella gestione del debito pubblico. Lo scenario che scorre davanti ai nostri occhi rimanda a una sorta di “comunismo del capitale”, in cui lo Stato, assecondando i bisogni dei “soviet finanziari”, impone la dittatura del mercato sulla società. Non ci troviamo però di fronte a una svolta improvvisa quanto agli esiti di un ciclo storico in cui le trasformazioni dei processi produttivi, iniziate con la crisi del modello fordista, hanno mutato alla radice le basi della creazione del valore e della ricchezza.
La finanziarizzazione e le sue crisi cicliche vanno dunque interpretate alla luce delle biopolitiche del lavoro, delle strategie produttive postfordiste in cui, accanto ai saperi e alle competenze cognitive incarnate nei corpi vivi, è la vita stessa che viene messa al lavoro: linguaggio, affetti, emozioni, capacità relazionali e comunicative, concorrono tutti alla creazione del valore.
I testi raccolti in questo volume analizzano in tempo reale le trasformazioni economiche degli ultimi dieci anni a partire dall’ipotesi che la finanziarizzazione non sia una deviazione parassitaria del capitalismo ma la forma adeguata e perversa del suo nuovo regime di accumulazione. Contro ogni lettura semplicistica o moralista della crisi, gli sconvolgimenti del presente sono letti alla luce dell’inaggirabile nesso, spesso rimosso, che lega l’accumulazione capitalistica alla finanziarizzazione, ossia alla crescente centralità dei mercati borsistici nel capitalismo contemporaneo che, a partire dal crack bancario del 2008, sembra entrato in una fase di lunga stagnazione, di instabilità geopolitica e monetaria, i cui esiti appaiono imprevedibili.
l’autore
Christian Marazzi, economista, è professore e responsabile della ricerca sociale alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. È autore di numerosi saggi sulle trasformazioni del modo di produzione postfordista e sui processi di finanziarizzazione, tra i quali: Il posto dei calzini (Casagrande-Bollati Boringhieri 1999), E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari (Bollati Boringhieri, 1998), Capitale e linguaggio. Ciclo e crisi della new economy (DeriveApprodi, 2002) e Finanza bruciata (Casagrande, 2009).
1) La politica e i suoi derivati
Il potere alienato dalla folla
di Toni Negri
La raccolta di saggi «Il comunismo del capitale» di Christian Marazzi* ripercorre le
trasformazione del capitalismo contemporaneo dove la finanza è diventata strumento di
governo dello sviluppo economico. La dismissione del welfare state e la precarietà dei rapporti
di lavoro risultano, così, due momenti della appropriazione privata del «comune». Il libro
dell’economista di origine svizzera non si limita, però, a una rassegna dei cambiamenti
avvenuti, ma si pone l’obiettivo di fornire strumenti per la trasformazione.
Sono stati scritti in un decennio, questi saggi di Christian Marazzi raccolti nel volume Il
comunismo del capitale (Ombre corte, pp. 160, euro 23). Hanno il buon sapore che si sentiva
nel bel volume che ha reso questo economista di origine svizzere abbastanza noto in Europa e
negli Usa: Il posto dei calzini (pubblicato dalla casa editrice Casagrande nella Svizzera italiana
e ripreso poi da Bollati Boringhieri). Lì, per la prima volta, il postindustriale era coniugato con la
sovversione femminista ed il postmoderno trovava non una voce debole o molle per dichiararsi
(come ci avevano abituato i suoi fondatori) ma mostrava i muscoli della rivoluzione sociale.
Leggo qui con voi le prime due parti di questo libro: la prima, «Biocapitalismo e
finanziarizzazione» e la seconda, «Il lavoro nel linguaggio». Parto da una questione posta da
Marazzi che sembra, a prima vista, bizzarra e mi chiedo con lui: perché i manager sono spesso
dislessici? Perché – risponde Christian -se la difficoltà di focalizzare e decodificare i fonemi
sviluppa nei dislessici, in generale, la capacità di vedere o percepire molto rapidamente il
quadro d’assieme, il contesto nel quale si trovano ad operare i manager trasforma la condizione
di dislettica nella facoltà di alterare e creare percezioni, organizza un’estrema consapevolezza
dell’ambiente nel quale sono immersi. Pensiero ed intuito si applicano insieme su scene
multi-dimensionali e qui esprimono potenza e creatività.
Quando Marazzi ci racconta queste avventure che capita ai manager di vivere, non lo fa proprio
per riconoscere loro qualche dono sublime, per definirli come geni romantici – lo fa piuttosto per
scavare, attraverso quella specifica competenza imprenditoriale, le caratteristiche della
produzione postindustriale e la dinamica linguistica della nuova economia. Economia digitale e
sociale, economia immateriale e cooperativa. La tesi è precisa: la nuova economia non conosce
più quella delega tecnologica che costituiva il perno della divisione del lavoro nell’economia
industriale (attraverso le macchine gli operai erano massicciamente delegati alla produzione);
neppure conosce una struttura lineare, liscia e continua. Al contrario: in un ambiente arredato
da tecnologie multimediali, dove è mobilitata l’attività vitale di tutti gli organi del corpo umano, ivi
predomina una divisione cognitiva del lavoro e tecnologie discrete tendono a sostituire le
vecchie tecnologie accumulative dell’industria fordista.
La potenza del dislessico
Il dislessico non può che trovarsi bene in questo ambiente. Non solo manager ma anche
semplice operatore linguistico. La discontinuità dislessica diviene inventiva. Il processo
industriale non procede più attraverso innovazione (quantitativa, dialettica, schumpeteriana) ma
attraverso convenzioni sociali nutrite da connessioni di conoscenze e di affetti, da invenzioni
vere e proprie, che interiorizzano l’intero insieme delle condizioni sociali al processo produttivo.
«Ciò dipende più dall’immaginazione che dalla logica, più dalla poesia e dall’umore che dalla
matematica». (Non sarà dislessico anche Marazzi? Ed anche noi non vorremmo esserlo? È
chiaro che sì.). Tuttavia quel capitalismo che imprigiona il linguaggio e fa di questo la sua
materia prima, trova in questo anche il suo limite. «Nel capitalismo dislessico la potenza
creativa dell’agire umano si affranca dalle condizioni poste dalla logica lineare dell’economia di
mercato. La crisi rivela questo suo interno divenire, l’alternarsi “delirante” tra creatività
multi-sensoriale e ordine economico disciplinare». È così che avanziamo nella conoscenza del
capitalismo contemporaneo. Capitalismo di crisi -è evidente: perché esso regola una materia
vivente, perché pretende di eccitare all’invenzione produttiva dispositivi di soggettività che deve,
al tempo stesso, controllare. Conseguentemente «l’impresa irresponsabile è la forma del
comando capitalistico su una cooperazione sociale che, per manifestarsi come attività tesa
all’innovazione e allo sviluppo economico, tanto dev’essere libera, ma altrettanto dev’essere
piegata nel rapporto sociale di produzione».
Ma il capitale non è solo mascalzone (e neppure lo sono semplicemente gli imprenditori). È
chiaro che nel postindustriale e nei regimi economici dove la valorizzazione è estorta alla forza
lavoro intellettuale, sociale e cooperante, la legge del valore non funziona più nella stessa
maniera di prima -poiché la misura della produttività sociale (cioè la funzione di controllo dello
sviluppo ed eventualmente della crisi) deve esser comunque determinata. La finanziarizzazione
dei processi economici risponde a questo scopo. Non deve dunque esser vista come una
perversione speculativa e neppure come una semplice prolungazione delle forme classiche del
capitale finanziario (alla Hilferding) -questa finanziarizzazione non sta fuori ma dentro la
produzione sociale.
La fusione tra salario e reddito
In conseguenza di questa interiorità, il capitale finanziario rappresenta la fusione dell’insieme
delle funzioni della moneta: la tradizionale distinzione tra salario diretto e salario socializzato,
fra salario e reddito è in via di estinzione. Smettiamola di piagnucolare sulla distanza
dell’economia finanziaria da quella reale! Se la comunicazione, il linguaggio e la cooperazione
intersoggettiva stanno al centro dei processi di valorizzazione del capitale, questa interiorità è
divenuta la forza del capitale. Ma è divenuta anche la sorgente di ogni sua crisi – è lì, nella
contradizione fra linguaggio come bene comune e la sua appropriazione privata. «La new
economy rivela la crisi di commensurabilità che è stata la chiave del suo stesso successo. (…) I
mercati finanziari hanno assunto un ruolo che in passato aspettava allo Stato keynesiano,
quello della creazione della domanda effettiva indispensabile per assicurare la continuità della
crescita. Lo spostamento del risparmio dal debito pubblico ai mercati borsistici (…) ha dato
origine alla prima quotazione del general intellect».
Quando il dominio capitalistico investe la vita e quando la finanziarizzazione si rivela come un
vero e proprio campo di esercizio del biopotere, quando il capitale si appropria non più
solamente dei mezzi di produzione ma di una forza lavoro disgregata e delle sue forme di vita,
che cosa avviene allora? Quale sarà, in queste condizioni, il nuovo comune dei lavoratori? Una
riappropriazione comune di tutto ciò che è privato? Una democrazia come forma di vita -sociale
ed economica, linguistica e politica?
2) Un vademecum per colpire i rentier del comune
di Carlo Vercellone
Il comunismo del capitale è uno dei migliori saggi usciti sulla crisi globale del capitalismo contemporaneo. Al tempo stesso in modo preciso e pedagogico, Marazzi* spiega il lessico e la grammatica della finanziarizzazione e, saggio dopo saggio, guida il lettore nella ricostruzione dei meccanismi che hanno condotto dallo scoppio della bolla della new-economy a quella dei subprime. Ne risulta un’analisi acuta del carattere strutturale della crisi e delle tendenze deflazionistiche che condannano i paesi dell’Ocse a una lunga fase di stagnazione e d’instabilità sociale, geo-politica e monetaria. Nel quadro di questa recensione, vorrei insistere su due aspetti particolarmente stimolanti della lettura della crisi proposta da Marazzi: il suo senso e la sua posta in gioco. Il primo aspetto parte dal rovesciamento del presupposto comune alla grande maggioranza delle interpretazioni della crisi secondo cui la sua origine si troverebbe nella crescita abnorme del potere autonomo della finanza. La finanza, insomma, come una forza esogena, avrebbe preso in ostaggio il «buon capitale produttivo» dell’epoca fordista e soffocato l’economia reale imponendo le sue norme di rendimento e una drastica compressione dei salari. Marazzi rifiuta tale visione fondata sull’ipotesi di una dicotomia tra economia finanziaria e reale cosiccome di un conflitto tra le differenti frazioni del capitale. Per Marazzi è nella metamorfosi che la crisi del fordismo e lo sviluppo di una economia fondata sulla conoscenza ha indotto nei meccanismi d’estrazione e di realizzazione del plusvalore che bisogna cercare le origini del processo di finanziarizzazione e le sue caratteristiche completamente inedite: in particolare la sua natura né ciclica, né circoscritta ma strutturale, pervasiva e consustanziale a una nuova logica dell’accumulazione che ingloba l’insieme delle componenti del capitale. Due punti della dimostrazione di Marazzi sono a questo proposito essenziali. La finanza é ormai plasmata sull’insieme del processo di produzione e di consumo, penetrando, come per l’utilizzo della carta di credito, in ogni singolo atto della nostra vita quotidiana. Il capitale cosiddetto produttivo, lungi dal subirlo, é stato uno degli attori del processo di finanziarizzazione in quanto modalità adeguata del controllo e dello sfruttamento di un’economia fondata sul ruolo motore del sapere e la sua diffusione. L’espropriazione del comune. Nel nuovo capitalismo, la finanza non è infatti che la manifestazione principale di una moltiplicazione delle forme rentières d’accumulazione, e più precisamente, di quanto si può chiamare «il divenire rendita del profitto». In altri termini, il capitale tende sempre più a catturare il valore a partire dall’esterno del processo di produzione, senza più giocare alcun ruolo positivo nell’organizzazione del lavoro e nello sviluppo delle forze produttive. Questa evoluzione si manifesta attraverso due modalità principali che Marazzi illustra con molteplici esempi. Da un lato, è sempre più al di fuori delle frontiere delle imprese che il capitale ricerca le conoscenze e le competenze necessarie alla propria valorizzazzione, come attesta anche il ricorso massivo alle strategie manageriali di «crowdsourcing, ossia di messa a valore della folla (crowd) e delle sue forme di vita». Ne consegue un formidabile innalzamento del tempo di lavoro non retribuito che contribuisce a spiegare il mistero della «crescita dei profitti senza accumulazione di capitale» che ha preceduto e in parte determinato la crisi. Dall’altro, che si tratti della finanza, dei diritti di proprietà intellettuale o ancora della privatizzazione del Welfare, l’estensione della proprietà privata e della logica della merce comporta ormai la creazione di una scarsità artificiale di risorse e si traduce in un freno al processo di circolazione e di produzione di conoscenza. In questo senso, la crisi, al di là dei meccanismi congiunturali e strettamente finanziari che l’hanno innescata, ha un carattere sistemico. Essa esprime la contraddizione strutturale che oppone il nuovo capitalismo, cognitivo e finanziarizzato, e le condizioni sociali e istituzionali della produzione del comune proprie a un’economia fondata sulla conoscenza. La rendita è insomma il modo di espropriazione del comune. Con questo concetto si deve intendere non solo la moltiplicazione dei beni informazionali e conoscenza, non rivali, non esclusivi e quindi teoricamente disponibili in quantità illimitata. Si deve intendere anche e soprattutto l’egemonia tendenziale del lavoro immateriale e cognitivo che va di pari passo con una «crescente perdita di importanza strategica del capitale fisso e il trasferimento di una serie di funzioni produttive-strumentali nel corpo vivo della forza-lavoro». Abbiamo qui, come mostra Marazzi, le fondamenta di un nuovo modo di produzione che punta al di là del capitale. Esso trova la sua figura emblematica nel «modello antropogenetico» dove la produzione di merci a mezzo di merci cede il passo a quella della produzione dell’uomo mediante l’uomo secondo una logica dominante nei servizi del Welfare (salute, educazione, ecc.) e che in gran parte sfugge alla razionalità economica del capitale. Su queste basi, un secondo aspetto centrale dell’analisi di Marazzi è di invitarci a riflettere sulle condizioni di un processo di uscita dalla crisi capace di superare i termini della tradizionale alternativa tra Stato e mercato, ossia della scelta tra l’assoggettamento alla dittatura delle finanza e la nostalgia socialista di uno stato-piano dirigista in cui il pubblico si pone come la negazione del comune. La questione che qui si pone può essere formulata nei termini seguenti : come pensare, – non abbiamo paura delle parole –
una pianificazione decentralizzata del comune che salvaguardi al tempo
stesso le caratteristiche della democrazia radicale propria a
quest’ultimo? Per abbozzare una risposta a questa domanda, l’analisi di Marazzi ci offre alcuni spunti fondamentali: l’incontro tra intellettualità di massa e tecnologie digitali apre possibilità inedite di coordinazione della produzione e dei bisogni su una scala non solo locale ma globale; la risocializzazione della moneta e la sua messa al servizio di un piano di rilancio fondato sulle produzioni dell’uomo mediante l’uomo e la riappropriazione democratica delle istituzioni del Welfare; l’instaurazione di un reddito garantito. Potrei continuare. Ma mi fermo qui ricordando il monito con cui Marazzi conclude l’introduzione al suo libro: «il primo passo per costruire nuovi paradigmi alternativi, nuove forme di governo del comune, è tutto soggettivo. Qui non ci sono ricette predefinite, c’è solo la dura consapevolezza che qualsiasi futuro dipende da noi».
il manifesto
http://materialiresistenti.blog.dada.net/post/1207165285/IL+COMUNISMO+DEL+CAPITALE+#more
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Pallante: trent’anni di bugie, vi svelo la truffa dei partiti 02.11.2010
Come direbbe Beppe Grillo: ci hanno preso per i fondelli. Tutti: destra e sinistra. Politici impegnati a recitare nel loro teatrino elettorale, ma in realtà ridotti a semplici sudditi, servi ottusi e corrotti del pensiero unico, meri esecutori dei diktat del vero potere, quello dell’industria e della finanza, complice anche l’appoggio della politica cattolica. Firmato: Maurizio Pallante, il guru della Decrescita all’italiana. Che stavolta non tiene una conferenza e non firma un saggio sul dogma folle dello sviluppo illimitato, ma addirittura un romanzo: ambientato nell’hinterland di Torino, in un ex paese divenuto città. Un plastico perfetto per mettere in mostra, spietatamente, tutti gli orrori dei “trent’anni che sconvolsero il mondo”: una trappola dalla quale, ormai è evidente, non sappiamo più come uscire.
Destra e sinistra? Mentivano, entrambe: perché proclamavano di battersi per un umanesimo che nei fatti tradivano ogni giorno. Giuravano di lottare per l’uomo, invece erano agli ordini della Grande Macchina, il sistema stritolatore e irresponsabile fondato sulla produzione suicida di consumi, veleni e rifiuti, in cambio di profitto a qualsiasi costo. Il Sol dell’Avvenire? Sarebbe sorto su un mondo ridotto a sterminata discarica per masse ormai inebetite dalla televisione. Un immondezzaio di tradimenti: contro la libertà, l’uomo, la felicità, la terra, l’acqua, l’aria. Hanno rubato tutto, anche il futuro. Senza mai dire la verità. Mai, neppure una volta, vittime com’erano – anche loro, i “mezzi uomini” della politica – di un sistema feudale, fondato sulla dittatura dell’economia e sorretto dal potere dei partiti che, attraverso le elezioni, regalavano al pubblico pagante l’illusione ottica del grande gioco chiamato democrazia.
Pallante si appella a Pasolini per mettere al bando lo sviluppo, nemico del progresso umano, e cita la celebre invettiva di Elémire Zolla contro l’impero totalitario dell’industria; sfiora il pensiero di un grande eretico come Guido Ceronetti e torna con affetto al lirismo di Tomasi di Lampedusa, che nel racconto “La Sirena” rimpiange la Sicilia antica, scomparsa dopo che l’isola «tanto scioccamente ha voltato le spalle alla sua vocazione, quella di servir da pascolo per gli armenti del sole», votandosi allo scempio di Augusta e di Gela in nome del miraggio petrolifero, annunciato da Enrico Mattei nel 1962, in un discorso che Pallante cita come pietra miliare di una storia, privata e pubblica, che muove proprio dalla Sicilia – terra d’origine della famiglia del politico democristiano protagonista del romanzo – per arrivare molto più a nord, sull’orlo del cratere che sta per eruttare il suo destino: il micidiale boom economico della metropoli Fiat, atroce emblema di ogni sulfurea contraddizione.
Nei panni di romanziere, il teorico italiano della Decrescita non risparmia nessuno: le tronfie architetture innalzate a Torino cinquant’anni fa per celebrare l’invasione sabauda della Penisola, spacciata per Unità d’Italia, e i salotti chic dell’arte contemporanea ridotta a specchio ossequiente della Casta e pronta a degradare l’opera artistica in vile merce “usa e getta”, piegando anche l’ingegno alla macchina del business controllato dal potere economico attraverso la politica. Non manca una severa analisi sul ruolo del Vaticano, che non si è vergognato, all’epoca, di straparlare di “miracolo” economico dopo aver agitato madonne pellegrine per controllare politicamente le sue pecorelle, salvo poi subire la ribellione mal tollerata dei preti operai; nel romanzo di Pallante l’unico religioso che lo scrittore assolve è un frate, che sceglie la terza via: meglio la solitudine dell’eremita, pur di non sentirsi più complici del sistema.
Tra ironie e sarcasmi che ricordano accenti calviniani, all’interno di un impianto da romanzo politico, Pallante mette in scena – alla periferia di Torino – un teatro di frammenti che insieme costruiscono una storia corale e polifonica, comicamente parallela: quella del politico di origine siciliana, figlio di immigrati devotamente democristiani, e quella dell’anonimo popolo della sinistra metropolitana, affollato di neo-assessori rozzi e sbrigativi, alle prese con appalti, prebende e spettacolari speculazioni edilizie. Dopo trent’anni di battaglie, vere o soltanto simulate, nelle quali ciascuno prendeva ordini dai rispettivi feudatari – la Casta dominante torinese, industriale e finanziaria, o viceversa i dominus delle coop rosse – finiranno ingloriosamente seduti alla stessa tavola, dopo aver predicato – di fatto – la medesima politica di espansione, per trenta lunghissimi anni. Salvo poi ritrovarsi assediati dai rifiuti e minacciati da una folla ormai impazzita dalle compulsioni consumistiche, pronta a dare l’assalto ai supermercati.
Un’opera narrativa, quella di Pallante, che diluisce con fluente ironia l’elevatissima densità di contenuto ideologico, distillando gli intenti quasi pedagogici – svelare al lettore quello che l’autore considera il grande imbroglio recitato per almeno tre decenni dalla politica sviluppista – nella piccola storia dell’hinterland torinese, specchio della vicenda sociale nazionale: un sociologo straniero che avesse visitato quella cittadina negli anni ’50 quando era ancora quasi un paese, poi negli anni ’60 quando stava diventando città e infine negli anni ’70 quando lo era ormai diventata, «non avrebbe mai sospettato che nel primo decennio l’amministrazione fosse stata di centro-destra, nel secondo di centro-sinistra, nel terzo di sinistra». Una continuità senza crepe né sbavature, scrive Pallante: nessuno di quelli che avevano amministrato la città, impegnandosi in dure battaglie elettorali, aveva «cantato la propria canzone». Al contrario: «Uno dopo l’altro si erano solo limitati a eseguire un karaoke».
(Il libro: Maurizio Pallante, “I trent’anni che sconvolsero il mondo”, Pendragon, 221 pagine, 14 euro).
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Tag: decrescita, destra, elezioni, Enrico Mattei, finanza, I trent’anni che sconvolsero il mondo, industria, Maurizio Pallante, Pendragon, politica, potere, romanzo, sinistra, sviluppo, Torino
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Séraphine de Senlis. La “primitiva” che dipingeva la natura con l’anima
Al link alcune immagini
Maria Cristina Serra, 05.11.2010
Un film e un libro fanno conoscere anche al pubblico italiano la straordinaria pittrice autodidatta, mistica, “primitiva”, Séraphine de Senlis, che dopo un lungo oblio, un anno fa, ha incantato la Francia con i suoi quadri di fiori, frutti, foglie intrecciati in una trama segreta, fatta di felicità e follia
Attraverso i suoi pennelli “parlava con gli alberi, i frutti e le foglie, ispirata dagli angeli e dalla Madonna”. Di giorno, per vivere lavava i pavimenti delle case dei ricchi e i loro panni nelle fredde acque del fiume. Di notte, per sognare, nell’umile stanzetta che era la sua casa, dipingeva furiosamente la natura visionaria e intricata, che la sua mente ispirata rielaborava e la sua anima conteneva. Séraphine Luis, nata povera il 3 Settembre del 1864 ad Arsy sur l’Oise, meglio conosciuta come Séraphine de Senlis, dalla cittadina medievale alle porte di Parigi, dove visse gran parte della sua tribolata esistenza, e morta derelitta l’11 Dicembre del 1942 nel manicomio di Clermont, è stata riscoperta e ha conquistato i francesi nel 2008, grazie ad un film e a una mostra che hanno tolto il velo dell’oblio su questa geniale artista “che sapeva comunicare l’invisibile”.
Dopo molti decenni di indifferenza, infatti, da parte della critica ufficiale, la pittrice autodidatta, mistica, “primitiva”, sconosciuta al grande pubblico, che “contrapponeva i lavori neri” diurni” a quelli “colorati” notturni, è così salita agli onori della popolarità con un’importante retrospettiva al museo Maillol, un film, diretto da Marcel Provost, che ha vinto 7 premi César (Oscar di Francia), e con due biografie: “Dalla pittura alla follia” di Alain Vircondelet e “Séraphine la vita sognata” di Françoise Cloarec.
Dopo due anni, si comincia a conoscerla anche in Italia con il film di Provost, interpretato dalla stupefacente Yolande Moreau, e grazie al libro della Cloarec, edito da Archinto.
Per quanti non hanno avuto la fortuna di ammirare la mostra parigina, c’è sempre la possibilità di vedere le opere di questa artista davvero unica nel suo genere al Musée d’Art e de l’Archéologie a Senlis, dove è custodita una sua raccolta. La cornice è suggestiva. I luoghi dove Séraphine ha vissuto e creato sono quelli di un’antica città d’arte, già dimora dei Re di Francia, circondata da cinte murarie e boschi secolari. Su tutto domina la maestosa cattedrale gotica del XII secolo. Séraphine era una assidua frequentatrice della chiesa. Il suo misticismo profondo si alimentava nella contemplazione delle sfolgoranti vetrate medievali, traendo l’ispirazione per i suoi colori fluidi e smaglianti.
E’ arduo guardare una tela di Séraphine. Non ci sono spazi vuoti, mai figure umane, animali, oggetti. Solo intrecci indissolubili, intriganti, segreti, di fiori, frutti, rami e foglie, che sembrano piume di pavoni, mentre l’occhio si perde tra le mille sfumature dei verdi, turchesi, gialli, rossi, azzurri, tracce di bianco e profili di nero. Una trama segreta impastata di felicità e follia. Si sprofonda in un mondo della natura sconosciuto, una botanica speciale, tutta sua. Gli alberi mostrano le loro radici, che sembrano serpeggiare dal nulla, e all’apparente aspetto minaccioso si contrappongono i loro significati più veri di “Alberi della vita”. I frutti (mele, limoni, ciliegie, melograni) hanno una corposità così evidente,che viene l’istinto di accarezzarli. Fra i riccioli di bacche e petali, si mimetizza la firma di Séraphine, quasi un prolungamento della pittura. Autoconsapevolezza della sua arte, che difendeva con determinazione dallo scherno, che spesso subiva dai notabili benpensanti e dalle beghine per la sua personalità bizzarra e la “pretesa” di elevarsi dalla condizione di “serva senza famiglia”, per acquisire una dignità di artista.
Si sa che questa donna semplice, rude, ma buona e generosa, poco attraente, il viso e il corpo segnati dalle fatiche fin da bambina, non ha mai vissuto la tenerezza e la passione di un amore. Eppure le sue tele trasudano una sensualità e una carnalità dirompenti. L’arte di Séraphine non è semplicemente immediatezza e istinto; la scelta dei colori, delle composizioni delle forme, sono frutto di un’alchimia voluta. E sono i colori a catturare occhi e cuore, frutto di una miscela segreta, “alla mia maniera” diceva: un miscuglio composto di smalti, vernici fluide, manciate di terra, sangue di animali, “olio santo” dei lumini della chiesa, arbusti e frutti. E sarà proprio l’intensità e la particolarità dei colori, la felicità che esprimevano, a colpire lo sguardo competente di Wilhelm Uhde, raffinato critico e collezionista d’arte tedesco, trapiantato a Parigi (già scopritore di Picasso, Braque, Rousseau “il doganiere”, Derain, Vivin e Bombois), che nella primavera del 1912 si trovava in vacanza a Senlis. Avviene allora che i destini di due anima solitarie, due spiriti liberi, due “non omologati”, si intreccino e con loro si incontrino due mondi: quello umile di Séraphine che vive da sempre in casa d’altri, espropriata di una propria vita privata, e quello aristocratico di Uhde, immerso nell’effervescente mondo artistico parigino, ma riservato e geloso delle sue scelte omosessuali.
Il film di Provost tratteggia con delicatezza il singolare incontro tra i due. Quasi per caso, Uhde (il bravo attore Ulrich Tukur) scopre che la sua domestica a ore, silenziosa e premurosa, quanto rustica, che al posto dell’abituale tazza di tè gli offre complice un goccio del suo vinello, è l’autrice di un luminoso quadretto, lasciato su una sedia. Una regia sobria e in punta di piedi. Un gioco di specchi, che si sovrappongono per ricreare una sinfonia di immagini fra le scene di quotidiana normalità di Séraphine, che sbriga le faccende, ruba il sangue nella macelleria o la cera in chiesa per rendere “più vivi” i suoi colori, che si arrampica sugli alberi e nuda nuota nel fiume; e quelle di straordinaria creatività quando, nottetempo, alchimista prepara nelle ciotole le tinte e dipinge in ginocchio sul pavimento aiutandosi spesso con le dita.
La Moreau “vive” non interpreta solo Séraphine (la camminata strascicata ma veloce, gli abbracci improvvisi ai tronchi d’albero, l’empatia con la natura), alterna grazia a ruvidezza, goffaggine a frivolezza con straordinaria sensibilità. Il precario equilibrio di Séraphine si infrange quando per la seconda volta si ritrova senza il sostegno del suo “Pigmalione”, costretto dalla guerra ad abbandonare la sua attività. L’indifferenza alle cose materiali e la spiritualità, che erano stati gli elementi ispiratori della sua arte, finiscono col separarla sempre più dalla realtà, la conducono al delirio. Il “lato oscuro” della mente spense così la luce intensa della sua pittura. Séraphine muore nel dicembre del 1942, a 78 anni, in piena occupazione nazista, dopo 10 anni di internamento nel manicomio, e viene sepolta in un’anonima fossa comune. Guardando i suoi quadri viene da chiedersi se la “follia” di Séraphine, che la fece piombare nella notte buia di una “sepolta viva”, sia stato il passaggio obbligato per arrivare a quei capolavori. Se il film di Provost si chiude con un’immagine quasi consolatoria, Séraphine sospesa fra sogno e realtà in una asettica stanzetta d’ospedale, davanti ad un giardino, nella realtà segregata là dentro scriveva: “sono troppo vecchia..non si fa arte in questi posti…non è il mio genere di professione né di carattere…la pittura è scomparsa nella notte”. E prima di morire, quando le restrizioni rendono inumane le condizioni dei degenti, riuscirà solo a scrivere: “ho fame…”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16161
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Strade e autostrade al collasso 05.11.2010
Strade e autostrade sono al collasso. Il trasporto merci sembra in via di estinzione (attualmente il 90% delle merci viaggia su strada). Gli effetti di tale situazione sono diversi. Tra questi le difficoltà di molte imprese manifatturiere, in particolare al Nord, perchè i costi per le loro spedizioni sono quasi sempre superiori a quelli dei concorrenti stranieri. Tali temi vengono affontati in un articolo pubblicato da “Il Sole 24 ore:
“In base ai primi elementi contenuti nel nuovo Piano nazionale della logistica in fase di elaborazione al ministero delle Infrastrutture d’intesa con la Consulta generale per l’autotrasporto e la logistica, il gap logistico dell’Italia – in termini di colli di bottiglia, congestione e inquinamento, mancata realizzazione di opere strategiche, incapacità di attrarre traffici capaci di produrre valore aggiunto per il paese – costa al sistema industriale italiano 40 miliardi di euro l’anno. Una cifra colossale, che mina alla radice la competitività di moltissime imprese. E non è solo un problema di grandi infrastrutture. Spesso sono proprio i nodi e le strozzature a livello locale a causare i danni maggiori.
Infatti Confindustria, oltre a insistere per la realizzazione delle nuove direttrici di trasporto, mantiene alta l’attenzione anche sulle reti minori, cioè interventi di piccola dimensione da operare sull’ultimo miglio che spesso risultano decisivi per eliminare i colli di bottiglia. Una miriade di svincoli, raccordi, rotatorie, bretelle di accesso ad autostrade e tangenziali i cui lavori sono inspiegabilmente bloccati oppure procedono con una lentezza esasperante e contribuiscono a ostacolare ulteriormente la consegna delle merci. Micro infrastrutture che assai di rado conquistano spazio sui media ma che sono decisive per migliorare la qualità del sistema logistico italiano.
Il Nord, cioè la parte più sviluppata e industrializzata del paese, è alle prese con una vera e propria ‘questione logistica’. I progetti prioritari per elevare il sistema logistico e della mobilità del Settentrione al livello degli altri grandi paesi che stanno al di là delle Alpi sono notissimi: corridoio 5 Traspadano, basato sulla linea ferroviaria ad Alta velocità Lione-Torino-Milano-Trieste-Lubiana-Budapest-confine ucraino e sulla costruzione di nuove autostrade come Pedemontana lombarda, Brebemi e Pedemontana veneta; corridoio 24 ‘dei due mari’, basato sul collegamento ferroviario tra gli scali marittimi di Rotterdam e Anversa con il porto di Genova attraverso il tunnel del Gottardo; corridoio 1, che prevede il collegamento ferroviario tra Berlino e Palermo e il potenziamento del tunnel del Brennero. Il problema è che molti di questi interventi stentano a decollare per l’assoluta mancanza di fondi…
Il quadro macroeconomico generato dalla crisi globale del 2008-2009 ha contribuito ad accrescere le difficoltà di intervento da parte della finanza pubblica e ha compresso i margini di manovra del project financing. Una doppia tenaglia che in molti casi si è tradotta in blocchi di cantieri già avviati o in via di apertura. Tra l’altro da quest’anno il Dpef, che da alcuni anni era accompagnato dall’allegato infrastrutture, è stato sostituito dalla Decisione di finanza pubblica…
Il tutto mentre il trasporto merci su ferrovia è ai minimi termini: in Italia appena il 9,4% dei prodotti viene caricato sui treni contro l’11,2% dell’Inghilterra, il 14,4% della Francia e il 20,7% della Germania. In Europa la media si aggira intorno al 17%. Mentre altri paesi europei investono sul trasporto ferroviario delle merci, in Italia manca ancora una politica nazionale rivolta allo sviluppo dell’intermodalità. Di recente le compagnie ferroviarie private, concorrenti di Trenitalia, hanno attaccato il gruppo Fs per la decisione di tagliare da 240 a 71 il numero di scali merci utilizzabili da tutti gli operatori. Secondo il documento del governo, al momento Trenitalia cargo non è un operatore logistico di livello comparabile con Deutsche Bahn. «Appare cruciale – scrive il documento – che l’azionista Fs decida al più presto se e quanto è disposto a investire in modo che si possa realizzare un cambio di rotta oppure se è preferibile cedere il ramo d’azienda al miglior offerente».
L’Italia ha storicamente privilegiato il trasporto merci su strada eppure nell’ultimo ventennio la rete autostradale nazionale è aumentata solo del 4,7% (da 6.193 a 6.487 chilometri), mentre nella Ue a 15 del 37,7% (da 39.300 a 54.150 chilometri). In alcuni paesi come la Spagna la rete autostradale è più che raddoppiata (+111,2%) mentre in altri, dove la rete era già sviluppata, si sono avuti ulteriori e significativi incrementi, come in Germania (+11,4%) e Francia (+49,8%)…”
Quanto sostenuto nell’articolo in gran parte lo condivido. Ma è doveroso aggiungere che le caratteristiche del sistema dei trasporti italiano creano forti disagi non solo alle imprese ma anche ai singoli cittadini, in particolare ai pendolari per motivi di lavoro o per motivi di studio. E per superare i loro problemi potrà anche rivelarsi necessario un certo aumento, nel rispetto però del prioritario obiettivo della tutela dell’ambiente, di strade e autostrade (meglio ancora una loro migliore manutenzione e una loro ristrutturazione) ma non ci si potrà esimere da una forte crescita del trasporto ferroviario, non solo di merci però.
ferrovie autostrade strade trasporti
http://paoloborrello.ilcannocchiale.it/2010/11/05/strade_e_autostrade_al_collass.html
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Cinque inedite, antichissime galassie
di Massimiliano Razzano
I telescopi più potenti dell’Universo non sono costruiti dagli astronomi, ma ce li regala Madre Natura. Sono le lenti gravitazionali, capaci di deflettere la luce proveniente da lontanissime galassie in maniera analoga alle lenti di ingrandimento. In questi casi l’“effetto lente” ci fornisce un’immagine distorta e ingrandita di galassie remote, ben oltre la portata dei telescopi a Terra. Ora, grazie a questo effetto, un gruppo internazionale di astronomi è riuscito a osservare le immagini “ingrandite” di cinque nuove lontanissime galassie primordiali con un alto tasso di formazione stellare, nate quando l’Universo aveva appena un quinto dell’età attuale (si trovano a circa 11 miliardi di anni luce da noi).
Sfruttando osservazioni effettuate dal telescopio spaziale infrarosso Herschel, il team, composto da diversi ricercatori italiani e coordinato da Mattia Negrello della Open University in Gran Bretagna, ha applicato un nuovo metodo per scoprire le lenti gravitazionali, descritto oggi su Science. Alla ricerca hanno contribuito anche Luigi Danese e Joaquin Gonzalez-Nuevo della Sissa – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste e Gianfranco De Zotti e Sara Buttiglione dell’Inaf-Osservatorio Astronomico di Padova.
Predette da Einstein negli anni Trenta, le lenti gravitazionali sono una delle conseguenze della Teoria della Relatività Generale. Secondo questa celebre teoria, pubblicata nel 1916, la presenza di un corpo dotato di massa può curvare lo spaziotempo circostante. Quindi un raggio luminoso, passando vicino a un corpo massiccio, non procede in linea retta, ma viene deviato. In presenza di un effetto lente particolarmente intenso (strong lensing), può avvenire che la luce di una galassia lontana venga deflessa da galassie più vicine, con il risultato di una distorsione o un ingrandimento dell’immagine della galassia sullo sfondo. Scovare nuove lenti gravitazionali, anche in caso di strong lensing, non è però un compito facile, perché richiede grandi risorse di calcolo. Pertanto un metodo efficiente come quello proposto da Negrello e colleghi è particolarmente utile, soprattutto nelle osservazioni infrarosse, dove i telescopi hanno una risoluzione (angolare) limitata.
L’idea di base del nuovo metodo è utilizzare osservazioni che abbracciano ampie porzioni di cielo, sulle quali è possibile studiare la distribuzione di luminosità e confrontarla con le previsioni teoriche. “Questo studio ha dimostrato come il metodo da noi utilizzato sia straordinariamente efficiente per scoprire i rari fenomeni di forte amplificazione gravitazionale dei flussi di galassie lontane” ha commentato De Zotti. “Questi fenomeni sono di estremo interesse per numerosi motivi. Per esempio ci consentono di studiare le condensazioni di materia che agiscono da lenti gravitazionali e che sono prevalentemente composte di materia oscura, quindi inaccessibile alle normali osservazioni astronomiche” (ascolta qui l’intervista audio)
La scoperta delle cinque galassie è stata effettuata confrontando le osservazioni con un modello teorico della distribuzione su un’ampia regione di cielo di sorgenti a lunghezze d’onda submillimetriche. “Il modello alla base della ricerca – precisa Negrello – è stato elaborato da un gruppo di astrofisici della Sissa in collaborazione con l’Inaf-Osservatorio Astronomico di Padova nel corso degli ultimi dieci anni. E i primi dati raccolti a bordo di Herschel ne dimostrano la validità”.
Le osservazioni rientrano nell’ambito del progetto Herschel Astrophysical Terahertz Large Area Survey (H-ATLAS), che si propone di osservare un’area di circa 580 gradi quadrati a lunghezze d’onde comprese fra 100 e 400 micron con PACS e SPIRE, due degli strumenti installati su “Herschel”. Finora solo una parte di questo progetto è stata portata a termine, coprendo circa 14 gradi quadrati fino a novembre 2009.
Queste cinque galassie sono soltanto l’antipasto di un menù molto più succulento. Come sostengono gli autori, quando il progetto H-ATLAS sarà completo sarà possibile scoprire almeno un centinaio di nuove lenti gravitazionali, che permetteranno di gettare uno sguardo più profondo sugli angoli più remoti dell’Universo.
Immagine: L’immagine mostra come avviene il fenomeno della lente gravitazionale. La luce proveniente da una galassiadistante è deflessa e intensificata dalla presenza di un’altra galassia molto più vicina che si trova sulla stessa linea di vista. La galassia vicina (in blu) è osservata dai telescopi ottici, mentre la luce prodotta da quella più distante (in rosso) dà luogo a un’immagine distorta (in rosa) nelle osservazioni condotte nel lontano infrarosso e nelle ondesub-millimetriche. La luce delle galassia distante ha impiegato 11 miliardi dianni per raggiungere la Terra, contro i 3 di quella che svolge il ruolo di lente gravitazionale. (Crediti: NASA/JPL-Caltech)
Riferimento: DOI: 10.1126/science.1193420
http://www.galileonet.it/articles/4cd3d2ad72b7ab3eda00000a
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