Il prossimo regalo? B-Fair, naturalmente… 22.01.2011
Carissimi,
questa settimana vi presentiamo un sito che vende on line. Qualcuno pensera’ che siamo impazziti a parlare della concorrenza, ma www.b-fair.net e’ un progetto che ci piace moltissimo. E’ stato realizzato da una nostra carissima amica: Laura Malucelli che gia’ conoscete per essere l’autrice di alcuni libri con Jacopo come Gesu’ amava le donne, Il libro nero del Cristianesimo, Schiave Ribelli.
Laura e’ stata la mente, l’anima e anche il braccio di una casa editrice che ha introdotto in Italia i piu’ importanti saggi di geopolitica internazionale: la Nuovi Mondi Media, editando tra gli altri lo straordinario Tre Tazze di te’ o Tutto quello che sai e’ falso.
Nel suo percorso Laura non ha mai smesso di occuparsi di scovare gli articoli piu’ interessanti e scomodi sulle situazioni critiche del pianeta, controllando fonti e autorevolezza con un’attenzione quasi maniacale, degna del miglior Assange.
Dopo il terremoto di Haiti si e’ dedicata a questo paese martoriato come nessuno, organizzando siti di informazione, creando un rete di persone anche in loco che si scambiano le notizie piu’ importanti, per rendersi poi conto che serviva anche un aiuto economico che non passasse per le solite Ong e che non alimentasse un nuovo colonialismo dalla facciata umanitaria.
Nasce così www.b-fair.net, un sito in inglese che presenta articoli di artigianato da tutto il mondo e che si rivolge a varie organizzazioni certificate, dopo aver verificato chi sono i produttori, di dove sono, con quali modalita’ lavorano, ecc.
Una raccolta di prodotti equo e solidali provenienti da ogni angolo del mondo, beneficiando le piccole comunita’ locali.
Prodotti straordinari come l’albero della vita di Haiti, un capolavoro di artigianato.
Ma www.b-fair.net non e’ solo e-commerce, raccoglie insieme a splendide collane e al caffe’ anche migliaia di informazioni, reportage, approfondimenti, tutto con la solita autorevolezza a cui Laura ci ha abituato.
Il prossimo regalo? B-fair, naturalmente…
Lasciamo la parola a Laura:
Il sito B-Fair e’ nato perche’ ci siamo resi conto che l’immagine che abbiamo della realta’, e delle cause di tanto dolore, e’ viziata e manipolata.
Tanti sanno che piu’ di un miliardo di persone sono affamate, in base alla soglia di poverta’ fissata dall’ONU. Pochi sanno che questa soglia e’ stata fissata in un reddito talmente basso che se l’alzassero a 10 dollari al giorno, 3000 euro l’anno, i poveri sarebbero l’80% del pianeta.
Un quarto dell’umanita’ vive senza elettricita’, il 12% degli abitanti utilizza l’85% dell’acqua del pianeta, per ogni dollaro in aiuti i paesi poveri pagano 25 dollari di debito…
Ogni giorno la disuguaglianza avanza e queste cifre diventano piu’ impressionanti.
L’immagine errata e’ che la fame che segna l’esistenza di tante persone sia dovuta a una mancanza di cibo.
Non e’ così.
Milioni di persone muoiono di fame per mancanza di denaro, non di alimenti.
Il 90% dei paesi in cui la fame uccide sono esportatori di cibo. L’idea che esista una penuria e’ falsa, con soltanto i generi alimentari che vengono buttati negli USA e in Europa si potrebbe nutrire il pianeta almeno 3 volte. Durante la carestia che stermino’ tante persone in Etiopia, negli anni ’80, il paese stava esportando cibo all’Europa.
Cio’ che uccide dunque e’ la poverta’, la mancanza di quei pochissimi soldi necessari a comprare una ciotola di riso salvavita. Grazie a questo voluto “malinteso”, quando un popolo soffre la fame gli vengono inviate cibarie. Le donazioni in alimenti sono una buona azione durante le emergenze, per un brevissimo periodo di tempo, ma non vengono gestite in questo modo. La modalita’ e’ spesso invadere il paese con tonnellate di alimenti che ne distruggono l’economia, rovinano l’agricoltura locale, facendo diventare il problema cronico. Cio’ rende il paese dipendente, di fatto lo schiavizza, e ottiene ottimi risultati in termini di “occupazione”, non di aiuto.
Questa dipendenza consente di installare poi industrie sfruttatrici, che pagando meno di due dollari al giorno e consentono a noi di comprare una maglietta per pochi euro.
Se considerassimo il costo di far crescere il cotone, di trasportarlo alle industrie, di lavorarlo, impacchettarlo, rispedirlo… non sarebbe pensabile un prezzo finale tanto basso. Lo stesso vale per il cibo, il cui costo e’ spesso talmente basso da permetterci uno spreco che in base agli ultimi dati arriva fino al 50%.
Con B-Fair approfondiamo tutte queste informazioni e offriamo l’alternativa che e’ realizzabile da ciascuno: comprare direttamente dai produttori locali. Supportiamo il fair trade, offriamo oggetti, caffe’, opere d’artigianato… prodotti da cooperative di paesi poveri, che possono così mantenere vive le proprie tradizioni, vendere cio’ che producono ricevendo un pagamento equo, migliorare le proprie condizioni di vita e di conseguenza quelle dell’intera comunita’.
Molti oggetti sono autentici capolavori, come ad esempio le opere in ferro battuto fatte a mano dagli artigiani haitiani con una tecnica tramandata da generazioni. A proposito di tradizione, una cooperativa di donne palestinesi produce a mano dei saponi a base di olio d’oliva che hanno effetti migliori di costosissime creme antirughe, utilizzando una ricetta che risale al secolo VII e tramandata da donna a donna.
Sapendo il costo umano di caffe’ e cioccolata, relazionato col fatto che in questo esatto momento ci sono 27 milioni di schiavi nel mondo, piu’ di quanti ce ne siano mai stati a memoria umana, un’opzione sarebbe rinunciare. L’altra acquistarlo dalle cooperative locali facendo così anche una delle piu’ efficaci donazioni possibile.
http://www.jacopofo.com/b-fair-e-commerce-artigianato-commercio-equo-solidale
—
Quanti coccodrilli per il mafioso Cuffaro…22.01.2011
Totò Cuffaro è, in via definitiva, un mafioso. In galera starà a dir tanto fino a Pasqua ma è stato condannato in tre gradi di giudizio come tale. Totò Cuffaro (nella foto in preghiera) non era un portaborse, un assessore o un consigliere. Era il governatore della Sicilia, una regione di più di cinque milioni di abitanti e il vicerè di Silvio Berlusconi in uno dei più importanti bacini di voti del centro destra.
In un paese normale dovremmo rallegrarci del nostro Stato, del nostro sistema giudiziario e della capacità di far pulizia all’interno delle nostre classi dirigenti. In uno paese normale vi sarebbero dichiarazioni sul fatto che finalmente giustizia è stata fatta, Cuffaro sarebbe trattato come un appestato e tutti farebbero finta di non averlo mai conosciuto.
In un paese normale… in Italia invece sono tutti costernati e vicini alla “vittima” che sembra star vivendo un lutto, che debba vivere una prova ingiusta da sopportare con cristiana rassegnazione. Date un’occhiata ai primi comunicati. Sono comunicati ufficiali, ponderati e forse preparati da giorni.
Pier Ferdinando Casini e Marco Follini, che stanno in partiti e poli diversi ma chissà perché fanno un comunicato congiunto si dicono “umanamente dispiaciuti per la condanna di Totò Cuffaro” ed esprimono “rispetto per la sentenza, come è doveroso in uno Stato di diritto e tanto più da parte di dirigenti politici. Ma, non rinneghiamo tanti anni di amicizia e resta in noi la convinzione che Cuffaro non sia mafioso”. Casini e Follini non rinnegano di essere amici di un mafioso. Bene!
Quella di Follini è al momento anche l’unica dichiarazione di un esponente del PD e, in mancanza di meglio, dovremmo pensare che anche questo partito, che appoggia il governo di Raffaele Lombardo in Sicilia, non meno chiacchierato del suo predecessore, non rinnega di essere amico di mafiosi.
Tornando all’UDC, chissà perché manda una corona di fiori per conto suo il segretario nazionale Lorenzo Cesa. Appena appresa la notizia della condanna definitiva di Salvatore Cuffaro a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra fa sapere che “sono sempre stato convinto dell’innocenza di Cuffaro e dell’assenza di qualsiasi legame tra lui e la mafia. Oggi, nel pieno rispetto della sentenza, mi sento umanamente vicino a Totò e alla sua famiglia in questo momento di profondo sconforto”. Pieno rispetto della sentenza?
L’Agente Betulla, già condannato per concorso in sequestro di persona e radiato dall’ordine dei giornalisti, Renato Farina, parlamentare berlusconiano, manda direttamente un biglietto di condoglianze: “In quest’ora di infinita amarezza voglio attestare solidarietà pubblica all’amico Totò Cuffaro, che ritengo vittima di un clamoroso errore giudiziario”.
Anche due ministri si sono precipitati per non far mancare i conforti religiosi a Cuffaro. Gianfranco Rotondi esprime: “Dolore e vicinanza al senatore Cuffaro. Cristianamente gli saremo vicini nei giorni difficili che verranno, ma passeranno”. Quanto presto passeranno per Cuffaro i sette anni di condanna lo scopriremo nostro malgrado.
Lo sfiduciando Ministro della Cultura Sandro Bondi è “umanamente e politicamente colpito dalla sentenza della Cassazione nei confronti del senatore Cuffaro. Rispetto la sentenza, anche se non riesco a credere alla verità delle accuse nei confronti di Cuffaro. In ogni caso, cercherò di aiutare cristianamente e umanamente Cuffaro in questa prova che egli ha affrontato con tanta dignità”.
Infine, in un altro comunicato congiunto, due dei maggiori gerarchi del PdL, preoccupati anche dal fatto che mancherà loro un voto sicuro, Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello esprimono la loro “solidarietà all’amico (anche loro!) Totò Cuffaro per la scelta che ha compiuto. Quanto al merito della vicenda, ci ha convito più la Procura della Cassazione che il collegio giudicante”. Come dire che le sentenze su Berlusconi dovrebbero farle scrivere da Ghedini!
Basta così. Se assicurare un criminale alla giustizia contrisce così tanti cuori ci pensiamo noi: esprimiamo tutta la nostra fiducia e solidarietà ad Antonio Esposito e agli altri giudici della Corte di Cassazione di Palermo. Grazie!
http://www.gennarocarotenuto.it/14860-quanti-coccodrilli-per-il-mafioso-cuffaro/
—
Vertiwind: il primo prototipo di turbina eolica ad asse verticale galleggiante 22.01.2011
Il suo nome è Vertiwind ed un modello di turbina eolica tripala ad asse verticale. La sua originalità sta nel fatto che si tratta di un particolare aerogeneratore offshore; mentre infatti è possibile trovare impianti di questo tipo installabili a terra (comunque sempre di piccole dimensioni) non lo è invece per quelli a mare. A testarlo sarà l’impresa francese Technip che ha lanciato un prototipo sperimentale da 35 kW che servirà a raccogliere importanti informazioni per realizzare un primo esemplare della potenza di 2 MW entro il 2012.
Come mai una simile tecnologia è da considerare così importante nel panorama delle energie rinnovabili? La risposta è presto detta. Innanzitutto vi sarebbe un indubbio vantaggio: è risaputo infatti che gli impianti offshore classici, da un punto di vista della gestione, portino con sé tutta una serie di problemi, fra questi l’aspetto più rognoso è il fatto di non poterli installare in aree con fondale molto alto.
Vertiwind potrebbe invece trovare applicazione in profondità maggiori ai 50 metri, un particolare questo non certo da poco soprattutto nel sud Europa, dato che uno dei limiti all’installazione di turbine nel Mar Mediterraneo è rappresentato proprio dal fondale, ben più alto in media rispetto a quello del Mar del Nord, dove al contrario l’offshore prolifera da qualche anno. Ancora: la struttura di galleggiamento, avendo un centro di gravità molto basso rispetto alle convenzionali turbine ad asse orizzontale (che hanno la navicella a circa 100 metri sul livello del mare), garantirebbe maggiore stabilità alla struttura riducendone gli sforzi giroscopici.
—
Nascerà in India la più grande centrale da maree 22.01.2011
Più volte abbiamo parlato di centrali che per produrre energia sfruttano le maree e le loro correnti; quando lo abbiamo fatto però abbiamo sottolineato l’immaturità di questo tipo di tecnologie considerandole infatti ancora non pronte per abbandonare il loro status di prototipo. Eppure sembrerebbe che anche in questo senso si stia cercando di fare un passo importante in avanti: infatti nelle scorse settimane è stato approvato un progetto per dar vita alla più grande centrale su scala commerciale di questo tipo.
L’impianto nascerà nel golfo di Kutch (appartenente allo Stato del Gujarat) sulla costa occidentale dell’India ed avrà una potenza di 50 MW. L’azienda produttrice installerà cinquanta turbine da 1 MW ciascuna per la centrale di partenza, che sarà ampliata ad una potenza pari al quadruplo di quella prevista inizialmente qualora i risultati di dimostreranno all’altezza delle previsioni. I lavori per la costruzione inizieranno fra qualche mese e dovrebbero terminare, intoppi permettendo, entro il 2013.
Il progetto verrà seguito con attenzione (com’è stato fatto per tante altre iniziative innovative come questa) in quanto rappresenterebbe un’importante nuova finestra al futuro nel settore delle energie rinnovabili essendo il primo vero banco di prova ufficiale di distribuzione commerciale di energia elettrica con questo tipo di fonte.
Via | Gizmag.com
Foto | Flickr
—
Hu Jintao-Obama, la “bolla” cinese che sostiene tutto 21.01.2011
Il Manifesto Joseph Halevi
È una noia dover scrivere dell’incontro tra Hu Jintao e Obama ma un giornale non può non parlarne. Al di là del fatto che Obama è un «lame duck President», presidente-anatra zoppa, bersaglio sicuro dei cacciatori, è «noioso» il contesto delle relazioni tra i due paesi, perché falsato dalle dichiarazioni politiche. Esempio: Hu ha detto che il regime del dollaro è finito, cose già sentite in passato, in Europa fin dagli anni Settanta! Hu Jintao non ha la minima idea di cosa proporre al posto del sistema dollaro. Vuole solo minacciare gli Usa dicendo che la Cina non accetta di subire passivamente i costi finanziari dei surplus cinesi in dollari. Ma – come lucidamente dimostrato sul China Daily del 23 dicembre dall’ex dirigente della Banca del Popolo Yu Yongding – Pechino é vincolata alle esportazioni nette sia per gli interessi della classe capitalistico-statale dominante, sia per la dinamica industriale fondata sulla forza della riproduzione espansiva piuttosto che sulle innovazioni made in China.
Quindi se la vita di Hu dipende dalle esportazioni nette, Hu deve continuare sovraccaricarsi di dollari. In realtà poi Pechino questi dollari li impiega. Decenni addietro si parlava della dollarizzazione dell’America latina come di un disegno finanziario degli Usa. Vero in parte. Tuttavia la dollarizzazione Usa dell’America del sud non é mai decollata ed é implosa con la crisi brasiliana del 1998 e quella argentina del 2001. Oggi però Brasile ed Argentina sono pieni di dollari, grazie alla Cina, direttamente per via delle esportazioni di materie prime ed indirettamente come destinazione dei capitali speculativi dati i prezzi delle derrate e dei prodotti minerari. I surplus cinesi hanno inoltre completamente dollarizzato l’Africa ove Pechino investe massicciamente nei giacimenti e in opere infrastrutturali dall’ Africa centrale, all’Etiopia, al Sudan, all’Algeria.
Quindi nei fatti Pechino sostiene l’espansione internazionale della moneta statunitense. Quello che Hu intende é una forma di cogestione con Washington della politica monetaria mondiale. Gli Stati uniti dal canto loro si trovano in contraddizione con se stessi. In vista dell’incontro tra Hu Jintao e Obama, Washington ha preparato una lunga lista di prodotti industriali che la Cina dovrebbe impegnarsi ad importare, riducendo così il deficit verso Pechino e creando un nuovo mercato per le produzioni statunitensi. Figuriamoci! La realtà é completamente diversa. Le industrie Usa quando possono delocalizzano o subappaltano in Cina.
Poco più di un mese fa il Financial Times mise in prima pagina la notizia che la Caterpillar, azienda Usa mondiale di scavatrici affini, chiudeva la filiale nipponica per traslocare in Cina. La strategia delle multinazionali Usa di diluire la produzione nazionale in una catena di subappalti e delocalizzazioni iniziò a fine anni settanta. È dunque un fenomeno non contingente e che non dipende dal valore del dollaro ma dalla differenza assoluta nel costo di lavoro per unità di prodotto e il divario con il Messico prima e la Cina oggi supera di molto ogni concepibile svalutazione del dollaro. Nei giorni scorsi la General Electric ha firmato un accordo di produzione joint venture con società cinesi che contempla un grosso trasferimento di tecnologia alla Cina. Visto il comportamento delle multinazionali Usa possiamo essere certi che il fatto implicherà un’ulteriore ed accentuata delocalizzazione di un comparto Usa ad alta tecnologia.
Niente di nuovo sotto il sole.
Certo l’incontro farebbe notizia se Hu dicesse ad Obama, «caro Barack, abbiamo deciso di non fumarci tutta l’aria, già abbiamo i fiumi mortalmente feriti, quindi noi sgonfieremo la bolla di Shanghai, ridurremo la crescita drasticamente ed in ogni caso ne cambieremo il contenuto. Dacci una mano con le tecnologie che hai a casa tua e noi in cambio ti ridiamo i dollari». Forse Obama sarebbe contento ma non le banche ed i mercati (borse) dei capitali che verrebbero presi dal panico.
La bolla cinese si integra con la politica Usa del denaro a costo zero dato alle banche e, con l’Europa in stallo totale, tiene in piedi tutto il socialmente fatiscente sistema economico attuale.
—
Italia: il cibo buttato nutrirebbe 44 milioni di persone 23.01.2011
Lo dichiara il professor Andrea Segre’ dell’Universita’ di Agraria di Bologna: 20 milioni di tonnellate di cibo SPRECATO ogni anno in Italia, 37 miliardi di euro il valore corrispondente, circa al 3% del prodotto interno lordo del nostro paese. Come si fa a buttare via questa ricchezza enorme mentre ci sono famiglie che stentano ad arrivare a fine mese?
Segre’ e i suoi colleghi non si sono limitati a fornire delle cifre scioccanti. Hanno fondato Last Minute Market (http://www.lastminutemarket.it/), e con il sostegno della Regione Emilia Romagna, hanno aperto supermercati dove si vendono a prezzi bassissimi prodotti ancora ottimi ma che stanno per superare la data di scadenza.
Ora, oltre agli alimenti, stanno proponendo anche medicinali prossimi alla scadenza e libri invenduti che le case editrici manderebbero al macero.
Ma ci sono molti altri prodotti che vengono buttati perche’ hanno piccoli difetti: un graffio o una confezione lacerata portano a buttare via televisori, computer, frullatori e altri elettrodomestici di ogni tipo. E che dire delle tonnellate di vestiti, borse e scarpe con marchi contraffatti che ogni anno la Finanza e’ costretta a distruggere?
Siamo una societa’ opulenta e folle.
Last Minut Market e altri gruppi hanno dato vita a iniziative simili nelle principali citta’ italiane e in molti centri minori.
Un lavoro enorme che permette ogni anno di recuperare centinaia di tonnellate di cibo.
E in molte citta’ esistono organizzazioni che raccolgono mobili, suppellettili ed elettrodomestici usati, li riparano e li rivendono a prezzi ribassati.
Siamo di fronte a un grande movimento solidale che non fa notizia… E’ questa l’Italia che mi piace, questa e’ la politica del fare.
Ma si tratta di azioni locali, frutto dell’iniziativa di piccoli gruppi di volontari. Avete mai visto nei pomposi programmi di partito parlare di sviluppare e generalizzare iniziative simili? Perche’ queste azioni non sono la priorita’ per i partiti della sinistra?
Io credo che in questa assenza dei partiti della sinistra sul fronte dell’iniziativa diretta ci sia la chiave per capire come stiamo messi…
Molti ripetono che la sinistra sta mostrando una sostanziale incapacita’ nel fare opposizione al governo e alla cultura del Bunga Bunga.
E l’altra sera, ad Annozero, Zucconi diceva che la cosa che stupisce di piu’ gli americani e’ che in Italia non c’e’ reazione di fronte alle follie maniacali del premier.
In qualunque paese moderno un capo del governo che incappasse in un simile scandalo avrebbe dato le dimissioni entro 24 ore. B. invece resiste.
Mi sono chiesto che cosa potremmo fare per liberarci da questa follia. E mi sono risposto che oggi la sinistra e’ completamente incapace di unirsi in una lotta vera contro questo drago che resiste sul suo trono.
Le cose che, in teoria, potremmo fare sono parecchie. Ad esempio picchettare tutti gli esercizi commerciali che fanno parte dell’impero di B. e fare lo sciopero degli acquisti di tutti i prodotti delle aziende che comprano pubblicita’ sui media del Cav.
Ma sono azioni che pochi metterebbero in pratica. Decenni di sinistra parolaia ci hanno disabituato ad affrontare i problemi costruendo alternative vere, mettendo in campo il potere politico dei nostri acquisti (“Voti ogni volta che fai la spesa”), del nostro lavoro, della nostra vita privata. Ci hanno insegnato che tutto si risolve votando per il partito giusto. Abbiamo disimparato la politica vera, quella dei fatti.
E adesso siamo qui a sperare che la base del PdL si rivolti, che Tremonti s’incazzi, che la Lega, dopo aver incassato il Federalismo, scarichi la Mummia.
E a sperare che poi avremo la coscienza di abbandonare i leader delle chiacchiere e cominciare a misurare l’impegno politico in opportunita’ aperte, ricchezze recuperate, razionalizzazione del sistema, cooperazione, qualita’ della vita. E che sapremo scegliere azioni di lotta che ottengono piccoli risultati subito, ogni giorno, piuttosto che perderci marciando verso obiettivi ideologici lontani nel futuro anni luce.
In altre parole, fino a che le sezioni locali dei partiti di sinistra saranno solo luoghi dove si discutono i programmi e si eleggono i delegati non andremo da nessuna parte.
—
Sul signoraggio
Pervenuto via mail da beniaminobis@yahoo.it per decrescita@liste.decrescita.it il 23.01.2011
Il tema della creazione del denaro è forse uno dei temi centrali in cui uno Stato poggia le sue fondamenta. Esso si basa su un comune accordo tra i propri cittadini e regola la vita sia pubblica (in rapporto con le istituzioni), sia privata, negli scambi commerciali tra cittadini stessi o tra essi e l’estero. È quindi fondamentale, per chi abbia a cuore la cosa pubblica, occuparsi del tema del denaro, a partire dalla sua creazione.
Tema che si è evoluto negli ultimi decenni, da quando cioè sono avvenuti cambiamenti sostaziali come l’abolizione della convertibilità in oro, che ne hanno cambiato robustamente la natura, che ne hanno riscritto le regole in pratica, ma non quelle teoriche .
Non allo stesso modo si sono evolute le teorie monetariste che invece sono rimaste alla loro preistoria, diventando oggi di fatto anacronistiche, superate dai fatti, non più in grado di rispondere ai problemi che sono sorti nel XXI secolo.
Questi problemi sono sotto gli occhi della gente comune che gli esprime come può in articoli su internet o in video di youtube.
Il tema del signoraggio, pur molto sentito da chi ha un minimo di sale in zucca, in rete è spesso affrontato da economisti “dilettanti” ovvero agronomi, geometri o odontoiatri che, scoperto che c’è qualcosa che non va, cercano di spiegarlo a loro modo. Questo comportamento può dare adito a confusione e essi stessi posso commettere dei piccoli errori che servono ai vari “dotti”, sapienti e baroni per screditarli e difendere lo status quo ad oltranza.
E’ bene quindi che da esperto di scienza economica, aperto alle teorie non ortodosse, mi pronunci sul merito.
La stessa parola “signoraggio” è oggi diventata uno slogan, al solo sentirla pronunciare ciascuno si dichiara a favore o contro, con poca apertura mentale. Vediamo allora di non pronunciarla proprio ma di dire due o tre cose che sono sotto gli occhi di tutti ma la cui rilevanza per le nostre vite, per il nostro lavoro, per le notizie che sentiamo al telegiornale è troppo spesso sottovalutata.
1) La Banca d’Italia nasce come un organismo privato e successivamente le viene attribuita importanza pubblica a causa del ruolo che le viene assegnato: quello di emettere moneta per il popolo italiano. Dal momento che questo ruolo è venuto a mancare da almeno un decennio, la Banca d’Italia potrebbe benissimo essere chiusa, o almeno le potrebbe essere revocato lo status di “pubblico”.
2) la funzione residua della Banca d’Italia è quella di controllare le altre banche private, ma nell’esercizio di questa funzione essa non è minimamente credibile dal momento che la proprietà azionaria appartiene alle stesse banche che dovrebbero essere controllate. La vicenda Parmalat o i comuni indebitati dai derivati (come ha denunciato la trasmissione Report) dimostrano come la sua opera sia del tutto inefficace e superflua La stessa funzione sarebbe meglio svolta da un’associazione a difesa dei consumatori.
3) Perché le quote azionarie di tale SpA non sono quotate sul mercato? perché solo Intesa o MPS hanno diritto a detenere azioni di BI e io e te non possiamo?
4) La BCE ha un ruolo centrale nelle vite di tutti gli europei almeno e un’influenza sull’economia mondiale: perché tale ente non è sottoposto a un controllo democratico di tutti i cittadini, bensì il suo operato è insindacabile persino dal Parlamento Europeo? Perché votiamo chi legifera sulla dimensioni minime delle banane e non possiamo esprimere la nostra preferenza su chi emette denaro e controlla i tassi d’interesse?
5) La BCE nell’atto di scambiare una banconota con un titolo di stato scambia due “titoli” con valore diverso: uno fisso, stabile nel tempo (il valore nominale della banconota) con uno che ha un valore “variabile” ovvero il valore nominale più il tasso d’interesse. Avviene quindi uno scambio iniquo, a favore della banca.
6) I titoli di Stato sono garantiti dagli Stati, i quali a loro volta possono contare sulle tasse derivanti dal lavoro e dalle proprietà dei cittadini. Da cosa sono garantite le banconote, da quando non è più possibile scambiarle con oro?
7) Se lo vediamo da un altro punto di vista, lo Stato potrebbe al limite rivelarsi inadempiente. Potrebbe mai una Banca Centrale essere inadempiente? Ovviamente no, dal momento che vende carta con niente di valore alle spalle .
8) Si usa dire che gli Stati (o la UE) non potrebbero emettere moneta perché da soli non sarebbero in grado di controllarne la quantità e si propenderebbe per politiche inflazionistiche. Ma cosa fanno gli Stati, specialmente quello italiano quando nelle varie manovre finanziarie, di bilancio, correttive, di stabilità, approvano debiti che non verranno mai ripagati? Semplicemente stanno creando dal nulla del denaro che non posseggono, anzi, per essere precisi stanno chiedendo alla banca centrale di crearlo e prestarlo.
9) La Banca Centrale, nel momento che richiede l’applicazione di un interesse positivo, in pratica sta richiedendo più denaro di quello che lei stessa ha stampato. Come è possibile, da dove si dovrebbere prendere il denaro mancante? E’ forse questo un modo per giustificare la falsificazione? O significa che accetterà delle uova e dei pomodori a saldo del debito in cambio dei titoli di stato?
10) Quando una banca comune, oltre all’Euribor (TUS tasso ufficiale di sconto) applica uno spread, ovvero alza ancora di più gli interessi da pagare, sta ancora una volta compiendo un atto illeggittimo oltre che immorale (cioè far soldi con i soldi, senza produrre niente). Infatti, a cosa serve lo spread? non certo a ripagare gli impiegati, che, per il semplice lavoro che fanno sono ampiamente retribuiti con gli oneri bancari e le spese di apertura pratiche.
11) Anche le banche private scambiano qualcosa di inesistente (bit o al massimo carta) con qualcosa di concreto e quantificabile: un’ipoteca e il lavoro umano. Dov’è il loro rischio se in caso di insolvenza hanno diritto ad impossessarsi di un’immobile che vale almeno il doppio di quanto prestato? E se non c’è rischio come si giustificano gli interessi sul debito?
12) l’istituzionalizzazione del tasso di interesse sul debito, è una corsa al produttivismo, una spinta, anzi una coercizione alla crescita economica, che tanti danni ambientali e umani produce, senza la quale non sarebbe possibile ripagare i debiti. Ciò nonostante, dal momento che il denaro è scarso per definizione, la crescita più alta immaginabile non è sufficiente a ripagare il debito né a impedire che una certa percentuale fissa e stimabile di imprese fallisca costantemente.
13) Gli interessi sul debito, facendo aumentare fittiziamente ma costantemente la massa monetaria, creano inflazione stabile, ovvero perdita del valore d’acquisto per chi ha uno stipendio fisso o per chi ha messo qualcosa da parte, dandoci l’impressione che i soldi non bastino mai, facendoci lavorare sempre di più per produrre senza sapere cosa o per chi, e ci costringe a scioperi e lunghe vertenze per il rinnovo dei contratti.
Credo che la maggior parte dei problemi sociali e ambientali, dai tagli della Gelmini ai tagli dell’Amazzonia non verranno risolti fin quando non si darà una risposta chiara ai problemi che ho su presentato. Lo Stato non avrà mai fondi sufficienti fin quando il suo debito ammonterà a cifre più alte dell’intero Prodotto Interno Lordo.
E non potremo permetterci di far calare il PIL fin quando non avremo ripagato il debito. Non potremo chiudere stabilimenti inquinanti come quello di Taranto o Priolo e non potremo “mandare a quel paese” imprenditori come Marchionne perché saremo sempre sotto il ricatto occupazionale.
Se ci fate caso i mali più grandi della nostra epoca derivano da non aver risolto il nostro rapporto con il denaro e con le banche.
dott. Beniamino Altezza
Presidente del CRETA
Centro ricerche su Economia, Territorio e Ambiente
—
Ancora sui promessi roghi di libri 21.01.2011
Una lettera dai compagni di Bartleby, e alcune questioni lessicali sul caso Battisti
Agli scrittori condannati al rogo del XXI secolo
Per noi è un piacere scrivervi, molti di voi sono passati nel nostro spazio, hanno contribuito a costruirlo e difenderlo in questi anni. Siete venuti in università a discutere con noi e presentare i vostri libri, molte delle vostre opere sono diventate gli strumenti di lotta di questo autunno. Per noi non siete maestri, siete amici e complici, compagni di lotta e di viaggio.
Vi scriviamo dopo aver letto del diktat che Raffaele Speranzon, assessore alla Cultura (!) con delega alle biblioteche (!!!) della provincia di Venezia, ha invocato contro di voi. Ovvero l’eliminazione dei vostri libri e la conseguente punizione per chi non è disposto a farlo.
Inoltre nelle ultime ore, l’assessore all’istruzione della regione, Elena Donazzan, ha fedelmente seguito la linea del suo collega dando pubblicamente il suo “indirizzo politico” (da quando in qua le scuole devono avere un indirizzo politico?) agli istituti scolastici che a breve arriverà in forma scritta ai presidi degli istituti veneti. L’obiettivo sarebbe quello di impedire la divulgazione dei testi degli autori firmatari nel 2004 della petizione pro-Battisti. Non vogliamo entrare nel merito né sulla questione Battisti in sé, né su come la sua vicenda sta divenendo sempre più strumentalizzata a scopi “politici” già dai primi giorni di questo 2011. La questione qui non è sulle scelte politiche di Battisti, ma è ben diversa. Qui si parla di censura verso tantissimi scrittori che sono parte integrante della letteratura contemporanea internazionale (solo per citare qualche nome: Agamben, Balestrini, Pennac!), è questione di spregio verso la libertà di insegnamento e verso il diritto di usufruire del servizio bibliotecario alla cittadinanza che inoltre lo sostiene economicamente. E si può andare ancora oltre.
Il diktat Speranzon-Donazzan non si limita solo un gruppo di scrittori e i loro libri, ma tocca tutti quanti. Tocca le librerie (che secondo il demenziale piano di Speranzon dovrebbero praticamente svuotare gli scaffali), tocca le biblioteche e i bibliotecari (a quando gli slogan “chiudiamo le biblioteche, tanto contengono solo libri inutili?”…ah, già, a Bologna questo succede già), tocca gli studenti universitari che vedrebbero eliminati gli insegnamenti di Letteratura Contemporanea e un conseguente buco nella loro formazione(ci manca solo questo visto che gli studi in Italia sono già all’avanguardia), tocca tutti quegli insegnanti che subiscono un’imposizione sui programmi decisa da chi si riempie la bocca parlando dei valori di una volta e non sa che anche Dante era un sovversivo. Ma a quanto pare di Bonifaci Ottavi ce ne sono ancora parecchi in giro.
I minacciati arresti preventivi del signor Gasparri, il ricatto del signor Marchionne, il taglio al futuro degli studenti della signora ministra e infine, il rogo ai libri di Speranzon, vanno nella stessa direzione, quella di un attacco alla democrazia. Forse non è troppo parlare di rigurgito di fascismo. La cosa triste è che tutto questo ora si può fare. Chi rappresenta le istituzioni in questo paese può permettersi con arroganza di fare dichiarazioni palesemente fasciste e vagamente eversive, tanto l’Italia sembra rimanere impassibile. Ma allora parlare di democrazia in Italia è davvero come parlare del sesso degli angeli? Non tutti sono disposti a sopportare tutto questo. La risposta della rete in queste ore ne è la dimostrazione. Altre risposte ci saranno, ne siamo sicuri.
Da parte nostra, risponderemo unendo le lotte che in questo periodo si stanno muovendo. In questi giorni stiamo mettendo in pratica la generalizzazione di cui abbiamo parlato nei mesi scorsi. La settimana prossima vivremo una data importante a fianco dei lavoratori della FIOM, di certo non mancheranno in quella data le parole di chi oggi è condannato al rogo.
Concludiamo con un augurio.
Dante descriveva l’inferno secondo la regola del contrappasso, per questo auguriamo al caro Speranzon e al caro Donazzan di farsi un giretto sul Mediterraneo usando uno dei vostri libri come scialuppa e un segnalibro come remo. Ad accoglierlo, come nave di vedetta, una balena. Bianca.
Qualche questioncella lessicale (e latamente manzoniana) sul caso Battisti/libri al rogo
di Lello Voce (dal blog Absolute Poetry)
Dell’oscuro potere delle parole sui destini umani, della spesso insospettata forza in esse insita fece le spese, com’è noto, il povero Renzo Tramaglino, ingenuo setaiolo di campagna, travolto a Milano dalla jacquérie e dalla peste…
Nel Trentraquattresimo capitolo dei Promessi sposi, mentre bussa inutilmente all’uscio di Don Ferrante, alla ricerca di Lucia, il suo gesto viene equivocato, le donne iniziano ad urlare “dagli all’untore, dagli all’untore!’. Renzo fugge ed è costretto a fuggire da ‘untore’, saltando sul carro dei monatti, che lo accolgono, sì, ma convinti anch’essi che sia, per l’appunto, un untore…
Paradosso del tutto: è solo grazie all’equivoco che si salva, il buon Renzo. Nella medesima parola sta dunque la sua condanna e la sua salvezza.
Un incubo: una notte in cui tutte le vacche sono nere….
Anche in questa faccenda, triste, desolante, dei tentativi di censura dei libri di tanti autori italiani colpevoli solo di aver firmato un appello per Cesare Battisti, nel 2004, l’oscuro potere delle parole si esplica con chiarezza.
Così le cose diventano diverse da quelle che sono, un setaiolo ingenuo e ignorante, alla ricerca della sua perduta promessa sposa, diventa l’agente virale e cosciente di un’enorme pestilenza, anche se non lo è affatto…
Un gruppo di scrittori che chiede chiarezza e che si apra finalmente un dibattito serio, sereno, senza infingimenti, né buchi di memoria su quegli anni, si tramuta in un gruppo di pericolosi eversori, gente senza cuore, che ha il coraggio di insultare la memoria delle vittime..
Quali sono, nel nostro triste caso, queste parole?
Terrorista, innanzi tutto: basta che in una qualsiasi cronaca giornalistica la parola faccia capolino, perché essa inizi ad agire con il suo veleno, si può dire quel che si vuole, ma se Battisti è stato ed è un terrorista ha, comunque in ogni caso, su qualsiasi faccenda, torto. Sempre.
A questo sostantivo, si fanno seguire, di solito, una serie di apposizioni, per lo più dedicate a descrivere ed individuare noi che quel manifesto firmammo: si va da ‘difensori’ (ancora accettabile), a ‘fiancheggiatori’, o addirittura ‘complici’, in un tripudio di alternative paradigmatiche, che trova la sua acmé nella titolazione dell’elenco immediatamente pubblicato da Libero “Ecco chi sono gli amici di Battisti”.
Il prossimo passo sarà, probabilmente: i compagni di merende…
Naturalmente nessuno dei firmatari di quell’appello è stato, o è un terrorista, nessuno di quei firmatari, molti dei quali, come me, hanno gli anni necessari, in quel periodo ebbe complicità alcuna al proposito, né credo la abbia oggi: non ci sono membri delle BR, di Prima Linea, o dei PAC tra noi. Ma questo conta poco. Come conta poco che, quando comoda, da terrorista il Battisti si tramuti, come per magia, in ‘criminale comune’. A Napoli lo chiamiamo il ‘gioco delle 3 carte’. Un gioco a cui si perde sempre…
Il malefico magnetismo di quella parolina è eccezionalmente efficace, taglia le gambe a ogni discussione, annichila ogni capacità di giudizio autonomo.
Si ha torto e basta: non c’è una buona ragione per difendere un terrorista.
Nessuna.
E’ come per Caino.
Lo facevano spesso anche i nazisti, questo giochino con le parole, lo fecero a Bassano quando appesero ai cadaveri dei 31 partigiani impiccati agli alberi del viale principale il cartello ‘BANDITEN’.
Ora, sia chiaro, non c’è in me nessuna intenzione di paragonare la pochezza di ciò che accade a noi, a quanto accadde a quei combattenti per la libertà. Non è questo il caso, né è questa la statura, non la mia almeno.
Ma la forza delle parole, la loro ostinazione a piegare la realtà a una narrazione ‘divergente’ fa davvero impressione. Il lavoro, si sa, rende liberi… E via così…
Le parole sono quelle che ci narrano la realtà, che la fanno ‘praticamente’ reale, che ci fanno scegliere, giudicare. Ma le parole a volte sono maschere. Altre sono truffe.
E’ così che, su molti quotidiani, con uno scivolamento, impercepibile, ma netto, chi dà conto di ciò che sta accadendo qui, nel Triangolo del Nord Est, pur dovendo (e volendo, magari) dar conto di un episodio vergognoso, in cui una serie di politici illiberali ed arroganti pretendono di imporre liste di proscrizione alla cultura, alla scuola e all’arte, poi inevitabilmente finisce per discutere d’altro: del Terrorista… Anche a Sinistra, dove sospetto agisca un immotivato ed evidente senso di colpa, ed un motivatissimo calcolo di supposto interesse ‘politico’…: come si fa a convergere al centro, se si difende troppo esplicitamente, sia pur in nome di una delle libertà ‘naturali’, il diritto di parola, gente che pretende che anche per un terrorista valgano quei diritti di equità e giustizia che valgono per qualsiasi altro imputato?
Un terrorista non è qualcuno che ha commesso un reato: è il Male. Ontologicamente.
Di conseguenza noi siamo: BANDITEN….
C’è poi un’altra espressione chiave: ‘cattivi maestri’.
Anch’essa ha una sua storia che tutti conoscerete, ma che qui in Veneto risuona in modo particolarmente intenso a causa di una triste mattina di un 7 di aprile. Il suo campo d’intensione semantico è tanto ampio da non indicare solo una ‘cosa’, una ‘situazione’, ma tutto un discorso. Un discorso che suona più o meno così: è vero la cultura è indispensabile, sacra, ma badate che ci sono casi in cui essa è letale, casi in cui è lecito perseguitarla, censurarla, annientarla.
In quest’ossimoro perfido, LorSignori, i Ferdydurke-boss di quest’Italia cocainomane, arrapata sino allo stremo, debosciata, menzognera, vigliacca, pedofila e furbissima, mettono tutto il loro veleno.
Aspettavo da qualche giorno che tirasse fuori il suo capino biforcuto da serpente, il maledetto ossimoro: ed eccolo che fa capolino nelle dichiarazioni odierne dell’Assessore Donazzan.
Ecco cosa siamo: cattivi maestri e cattive maestre… gente che tradisce il suo compito, che invece di suggerire valori sani, condivisibili, induce in errore l’animo dei giovani e degli ingenui. Dei vigliacchi… Poco meglio dei pedofili. Ma poco… I cattivi maestri siamo noi, amici miei, colpevoli di voler difendere Caino, colpevoli di voler esprimere, in ogni caso, la nostra libera ed autonoma convinzione che avesse qualche ragione, il Miglior Nostro, quando, per giustificare il povero Renzo che si era ficcato in quell’affare intricato e inefficace del matrimonio a sorpresa, ci ricordava che chi commette il male non è responsabile solo del male che compie, ma anche del turbamento in cui induce l’anima dell’offeso’, come ho già avuto modo di notare altrove.
Così dello scandalo vero non si parla, non si discute di quanto e se un politico abbia il diritto di limitare la libertà dei cittadini, sottraendo loro dei libri, delle fette di sapere e di arte, in base al fatto che a scrivere questi libri, questi, romanzi, queste poesie e queste musiche sia un ‘cattivo maestro’, un ‘amico di un terrorista’…
Tanto basta a farci sparire, a parer loro, almeno.
Achtung Juden! Achtung banditen! Ciò di cui hanno bisogno è paura. Si nutrono di PAURA…
La faccenda agisce a vari livelli, basti pensare alla querelle, che tanto imbarazzò certa Sinistra, a proposito dei ‘mercenari’ italiani in Irak, che mercenari erano, ma furono fatti passare per ben altro (diciamo: contractors), o al povero Baldoni, giornalista sì, ma freelance, insomma dilettante (anche se non lo era affatto, dilettante), uno che se l’era andata a cercare, in buona sostanza… Taccio, per pudore dell’espressione Black Blok, il suo danno è troppo recente ed evidente per sottolinearlo ancora.
Per la stessa ragione la parola Magistrato è un passepartout… Tutti Magistrati sono buoni, in quanto Magistrati.
Mi sbaglio se dico che c’è da rabbrividire?
Forse la ragione vera per la quale non si vuole aprire una discussione pacata ed approfondita su quegli anni è proprio questa: perché si vogliono usare i fantasmi-parola di quegli anni bui come parole-babau per il presente, come arma impropria per stroncare qualsiasi richiesta di libertà e di diritti, qualsiasi ipotesi di cambiamento che costringa LorSignori e i loro complici di casta (ché ormai all’odio di classe si sta sostituendo l’odio di casta, e non mi pare buona nuova…) a togliere il disturbo e a restituirci i nostri sogni, il nostro futuro e la nostra libertà.
E forse anche noi abbiamo fatto qualche errore lessematico.
Forse non era il caso di parlare di ‘libri al rogo’, troppo ottimismo, amici miei: peraltro nessuno li brucerà e dunque nessun naso sentirà odore di carta bruciata.
Si penserà che è stata la solita bolla di sapone.
E invece no… Loro lo faranno davvero, o almeno ci proveranno.
Li faranno sparire: che è lo stesso, e molto peggio.
http://www.carmillaonline.com/archives/2011/01/003761.html
—
I “Palestine papers” 23.01.2011
Guardian e Al Jazeera rivelano centinaia di documenti riservati sul conflitto e le trattative tra israeliani e palestinesi
Alle 21 di domenica sera, simultaneamente, i siti di Al Jazeera e del Guardian hanno pubblicato articoli e notizie su un nuovo lotto di documenti riservati, riguardanti il conflitto israelo-palestinese e presentati sotto il titolo “The Palestine papers”. Quasi 1700 documenti, migliaia di pagine di rapporti diplomatici sulle tensioni tra israeliani e palestinesi, risalenti al periodo tra il 1999 e il 2010. Tra le rivelazioni contenute nei documenti, il Guardian cita soprattutto:
– la quantità di concessioni informali offerte dai negoziatori palestinesi, persino sulla sensibilissima questione del rientro dei profughi
– la richiesta dei leader israeliani di trasferire cittadini arabi in un nuovo stato palestinese
– la cooperazione tra Israele e l’Autorità Palestinese in molte operazioni segrete
– Il ruolo centrale dell’intelligence britannica nel costruire un piano segreto per abbattere Hamas nei territori palestinesi
– come i leader dell’Autorità Palestinese siano stati informati privatamente della guerra di Gaza del 2008-2009
– la disponibilità dell’Autorità Palestinese a concedere nuovi insediamenti israeliani a Gerusalemme Est
Nessuno dei due siti di news indica le fonti da cui ha ottenuto i documenti, motivandolo con la loro delicatezza. Non si fanno riferimenti a Wikileaks. I documenti sono stati ricevuti da Al Jazeera, che li ha poi condivisi col Guardian.
http://www.ilpost.it/2011/01/23/i-palestine-papers/
—
Lo stato parallelo che non sa difendere i beni dell’Aquila 24.01.2011
Autore: Bufalini, Jolanda
Un convegno della Bianchi Bandinelli denuncia lo status di illegalità diffusa nella gestione della ricostruzione post -terremoto. Da l’Unità, 24 gennaio 2011 (m.p.g.)
«Uno Stato parallelo», definisce così Marisa Dalai Emiliani – presidente dell’associazione Bianchi Bandinelli – ciò che di grave è avvenuto nella «gestione del terremoto», a conclusione del convegno “L’ Italia non può perdere L’ Aquila” (Roma, teatro dei Dioscuri, 19 gennaio). E ricorda come fu imposto, durante la gestione dell’emergenza, «il silenzio stampa a soprintendenti e funzionari». Una gestione autoritaria che ha le sue origini, Marisa Dalai cita l’ex direttore del servizio sismico nazionale Roberto De Marco, in quella legge del 2001 che «ha trasformato i grandi eventi in catastrofi e le catastrofi in grandi eventi». Stato parallelo è un’espressione forte per Marisa Dalai, storica dell’arte “senior” abituata a misurare le parole, con un’esperienza trentennale nella gestione dei terremoti, dal Friuli, dove arrivò come volontaria, all’Irpinia e all’Umbria. Questa volta la sua esperienza, come quella di tutti o quasi coloro che hanno memoria storica e pratica dei terremoti, non è servita, è stata respinta. Il consuntivo è amaro: «Deficit di democrazia, deficit di cultura, deficit di organizzazione istituzionale». E l’impressione è che lo stato parallelo, a quasi due anni dal sisma, continui ad operare. Un’ordinanza, spiega Gianfranco Cerasoli, della Uil del ministero, sancisce la fine dell’emergenza, un decreto di Gianni Chiodi affida gli «interventi di restauro non a chi è deputato per legge, cioè alla soprintendenza, bensì al vice commissario Marchetti che avrebbe dovuto occuparsi della sola messa in sicurezza».
Ma se questa è la diagnosi, quali sono gli effetti pratici nel recupero del patrimonio storico artistico della città? Quale il disegno politico che si nasconde dietro l’emarginazione di 630 funzionari delle soprintendenze abruzzesi, stipendiati per fare ciò che, invece, viene affidato e pagato a consulenti esterni. Uno degli effetti dell’emarginazione degli specialisti funzionari dello Stato potrebbe essere quello che vedete rappresentato nella foto qui sopra: a palazzo Carli Benedetti la ditta dei lavori di messa in sicurezza ha perforato gli affreschi di un portale del 700 facendovi passare i tiranti. «L’attuale ministro Sandro Bondi – dice Marisa Dalai Emiliani – si è rivelato il Grande Liquidatore». La storica dell’ arte cita tre fatti dalle conseguenze nefaste: «La riduzione delle risorse del 55% in meno di un decennio, il prepensionamento dei funzionari con maggiore esperienza, l’Istituto centrale di restauro, l’Opificio delle pietre dure, l’istituto di patologia del libro, scuole preziose che non possono più rilasciare il titolo di restauratore».
L’Aquila-Italia, dunque: non si sfugge alla regola dei tagli orizzontali di Tremonti, le cifre le dà Gianfranco Cerasoli: i fondi ordinari e il lotto per l’Abruzzo nel 2010 erano 5.788.000 euro, nel 2011 saranno 2.611.000. Il ministro Bondi aveva promesso l’1% dei fondi Arcus per un decennio ma questa cifra, pari a 25 milioni annui, è scomparsa per lasciare posto alla promessa di 60 milioni in un decennio. Ci dovrebbe essere un tesoretto nascosto, quello di Win for Life. Il decreto istitutivo del gioco destina – è ancora Cerasoli a parlare – 23% alla ricostruzione in Abruzzo. «Ma dove sono i 230,7 milioni su 990 fin qui raccolti?». Eppure, se non si trovano le risorse, «saranno buttati 120 milioni di euro spesi per le opere provisionali, perché a distanza di due anni l’efficacia dei puntellamenti è al 30%». Un discorso a sé va fatto sull’ ingente patrimonio ecclesiastico. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, nel 1976, l’arcivescovo di Udine Alfredo Battisti lanciava lo slogan «prima le case poi le chiese». C’è una lettera dell’agosto scorso dei vescovi dell’Aquila al presidente commissario Chiodi che mette in evidenza come la Chiesa sembra essersi adeguata al sistema delle deroghe introdotto dalle ordinanze della Protezione civile che, come sostiene Vezio De Lucia, è «una violazione legalizzata della legge». I prelati, monsignor Molinari e monsignor D’Ercole, lamentano in effetti l’incertezza delle procedure perché «manca un preciso quadro di riferimento normativo» ma poi, sollecitando i finanziamenti pubblici, chiedono «una disciplina per l’affidamento dei lavori con modalità a tutela della diocesi, ma con apposite deroghe (ad esempio sul codice degli appalti) che consentano una rapida ricostruzione». Recuperare, riaprire il centro storico, non è solo una questione di beni culturali. È anche, dice il sindaco Massimo Cialente, una questione di vita e di morte. «Solo gli aquilani sanno cosa era la nostra vita lì, mentre io mi vedo arrivare decreti e regole da gente che non sa nemmeno dove sono le strade principali: la ricostruzione del centrò storico deve partire subito, altrimenti la vita si sposterà altrove e non tornerà più». Nella classifica del sole 24 ore il sindaco ha guadagnato 8 punti percentuali di consenso e non è temerario pensare che li abbia acquistati lasciando la carica di vice commissario. «Vi svelo un retroscena», dice: «addebitare da parte di organi dello stato tutte le difficoltà a una sola istituzione, alla più debole, aveva una sola ragione, decidere chi avrebbe ricostruito, tenendo fuori il sindaco».
http://eddyburg.it/article/view/16512/
—
Kosovo: il Rapporto Marty è stato censurato da Israele? 20.01.2011
*Stefano Vernole
Dopo la diffusione del rapporto dello svizzero Dick Marty del Consiglio d’Europa sulle atrocità commesse in Kosovo e Albania con il traffico di organi umani alla fine degli anni novanta, un altro documento, messo a punto da Jean Charles Gardetto del Principato di Monaco, anch’egli relatore del Consiglio d’Europa, definisce la situazione in Kosovo allarmante e denuncia in particolare l’uccisione di testimoni.
”Non esiste alcuna legge a protezione dei testimoni, che vengono uccisi, picchiati e minacciati. I testimoni non vivono in condizioni di sicurezza”, ha detto Gardetto in un’intervista al quotidiano serbo “Vecernje Novosti”.
Gardetto, scrive il giornale, presenterà il suo rapporto all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 26 gennaio prossimo, all’indomani della presentazione del rapporto di Dick Marty.
Nel suo rapporto, intitolato ‘La protezione dei testimoni pietra miliare per la giustizia e la riconciliazione nei Balcani’, Gardetto sostiene che i nomi dei testimoni sotto protezione vengono resi pubblici dai media locali e che testimoni potenziali rifiutano di fare rivelazioni temendo di essere considerati dei traditori.
Il parlamentare del Principato di Monaco sostiene al tempo stesso che il Kosovo, senza l’appoggio della comunità internazionale, non e’ in grado di garantire alcuna protezione ai testimoni a rischio, dal momento che la polizia kosovara non ha per questo le necessarie capacità.
Nel suo rapporto presentato nelle scorse settimane, il relatore del Consiglio d’Europa Dick Marty aveva puntato il dito in particolare contro l’attuale premier kosovaro Hashim Thaci, da lui definito uno dei principali responsabili dell’organizzazione criminale “Gruppo di Drenica” (tutti ex componenti dell’Esercito di liberazione del Kosovo, Uck) che gestiva il traffico di organi.
Al contrario, oltre 200 organizzazioni non governative del Kosovo e oltre duemila attivisti, tramite l’organizzazione ‘Coalizione per la Democrazia’ hanno difeso l’Esercito per la liberazione del Kosovo (Uck) reagendo alle dichiarazioni del relatore del Consiglio d’Europa Dick Marty.
I rappresentanti della ‘Coalizione per la Democrazia’ ritengono che l’Uck abbia rappresentato la volontà dei cittadini del Kosovo e che nello stesso tempo sia stato un ”simbolo di una guerra pulita”. ”L’Uck e’ stato e rimane personificazione della lotta civica per la libertà, la dignità e la tutela dei diritti umani”, si legge nel comunicato e il testo di questa Dichiarazione e’ stato inviato anche al Consiglio d’Europa.
Per Ulrike Lunacek, relatore per il Kosovo al Parlamento europeo, però, le elezioni legislative svoltesi nel piccolo paese balcanico il 12 dicembre scorso e la domenica successiva nella ripetizione in cinque Comuni sono state manipolate, e questo potrà condizionare negativamente il cammino del Kosovo verso l’Unione europea.
”Queste elezioni non potranno portare al Kosovo istituzioni stabili, e i futuri parlamentari kosovari devono sapere che sono stati eletti in maniera irregolare”, ha detto Lunacek in un’ intervista al quotidiano di Pristina “Koha Ditore”.
Per l’europarlamentare, si tratta di alcuni gruppi di persone che hanno fatto di tutto affinché il processo elettorale non fosse regolare, ”gruppi di persone che hanno manipolato altri ed effettuato brogli in maniera premeditata, e che vanno ritenuti per questo responsabili e puniti”.
Secondo “Koha Ditore”, gli europarlamentari che hanno monitorato il voto giudicano le elezioni in Kosovo illegittime, non conformi agli standard internazionali e dannose per la democrazia del Kosovo e la sua immagine.
Eulex, la missione europea in Kosovo, ha lanciato poi un appello a Belgrado e Pristina affinché si astengano da ogni atto che possa essere visto come una provocazione nella disputa sulle nuove targhe automobilistiche emesse dalla Serbia e che le autorità kosovare hanno avuto l’ordine di sequestrare.
”Chiediamo a entrambe le parti di astenersi da qualsiasi azione che possa essere vista come una provocazione”, ha detto la portavoce di Eulex, Kristiina Herodes.
Nei giorni scorsi il Ministro dell’interno kosovaro Bajram Rexhepi ha ordinato il blocco di tutte le auto con le nuove targhe emesse dalla Serbia, che vengono immediatamente confiscate.
Per Pristina, le nuove targhe serbe costituiscono un atto che viola la sovranità dello Stato del Kosovo, la cui indipendenza non e’ riconosciuta dalla Serbia.
Nei giorni scorsi il capo (un serbo) della polizia a Zvecan, nel nord del Kosovo a maggioranza serba, era stato sospeso dall’incarico per il suo rifiuto di confiscare le targhe emesse da Belgrado.
Eulex, la missione europea in Kosovo, ha dichiarato il nord del paese e in particolare la parte nord di Kosovska Mitrovica, ”zona pericolosa” per il proprio personale.
Come hanno riferito i media a Pristina, la decisione sarebbe la conseguenza di aggressioni subite di recente da quattro esponenti di Eulex e un rappresentante dell’Osce nella parte nord di Kosovska Mitrovica, la città del nord divisa in due dal fiume Ibar, il settore nord abitato da serbi e quello sud a popolazione albanese.
Il personale Eulex è stato avvertito di prestare particolare attenzione nel nord, badando a essere continuamente reperibili: chiunque si rechi al nord deve avere con sé sempre un cellulare a rete attiva e deve essere continuamente raggiungibile via radio.
Il nord del Kosovo, a maggioranza di popolazione serba, è la parte del paese più instabile e quella dove si registra il maggior numero di aggressioni e provocazioni fra i rappresentanti delle opposte comunità etniche.
Secondo i media a Pristina, le aggressioni a Mitrovica nord contro il personale Eulex e Osce sarebbero state opera di estremisti di una formazione denominata “Nova Nada Mitrovice” (“Nuova speranza di Mitrovica”).
Non è un caso che agenti dei servizi segreti kosovari (Kia) operino sull’intero territorio nazionale, compreso il nord del Kosovo a maggioranza serba, dove le autorità statali non sono riuscite ancora a imporre il loro pieno controllo.
L’Agenzia kosovara di intelligence (Kia) e’ stata istituita circa due anni fa e di essa fanno parte attualmente 80 agenti.
In questa situazione, non certo facile, continuano le pressioni europee su Belgrado: “Riconosciamo e diamo il benvenuto ai risultati raggiunti dalla Serbia durante l’ultimo anno ma, allo stesso tempo, evidenziamo le sfide che si configurano in futuro”, rimarca il comunicato dell’Europarlamento, sottolineando che “Belgrado deve collaborare pienamente con il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia per garantire che il processo di ratifica dell’Associazione continui senza problemi”. Gli eurodeputati hanno anche portato la loro attenzione sulla questione del Kosovo, chiedendo che la Serbia inizi il dialogo con Pristina “senza indugi”, che questo avvenga nel quadro dell’Ue e che si proceda allo smantellamento delle strutture parallele serbe nel Kosovo del Nord.
Nel frattempo, il relatore del Consiglio d’Europa Dick Marty ha negato di aver mai parlato nel suo rapporto di un coinvolgimento diretto del premier kosovaro Hashim Thaci nel traffico di organi umani avvenuto in Kosovo e Albania alla fine degli anni novanta.
Piuttosto, precisa il deputato svizzero, nel rapporto si afferma che e’ difficile pensare che Thaci non ne sapesse nulla dal momento che nella vicenda erano coinvolti suoi stretti collaboratori.
”Se leggete attentamente il mio rapporto, da nessuna parte in esso si dice che Thaci era coinvolto direttamente nel traffico di organi, si afferma invece che nel traffico erano coinvolte persone vicine a Thaci, e che e’ difficile immaginare che Thaci non ne avesse mai sentito parlare”, ha detto Marty in una intervista al website svizzero Albinfo.ch, parte della quale é stata rilanciata dalla radiotelevisione kosovara (Rtk) e dai media serbi.
“Nonostante Thaci avesse un ruolo di primo piano nell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) e nel cosiddetto Gruppo di Drenica” – ha aggiunto Marty – “difficilmente si può immaginare che Thaci in persona possa aver partecipato al traffico di organi”.
Il rapporto di Dick Marty, la cui diffusione il mese scorso ha provocato scalpore e sdegno a livello internazionale sopratutto per il coinvolgimento del premier Thaci e dell’Uck del quale lui era un alto dirigente, sarà discusso dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa la prossima settimana. Vittime di tali trapianti illegali sarebbero stati prigionieri serbi, rapiti durante e dopo (ma in realtà anche prima) il conflitto armato in Kosovo.
Nell’intervista, Marty sottolinea di non aver voluto criminalizzare l’intero Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), ma di puntare piuttosto il dito contro taluni gruppi dell’Uck direttamente responsabili dei traffici di organi e sui quali bisogna indagare.
E a differenza di Carla Del Ponte (l’ex procuratore capo del Tribunale penale dell’Aja, Tpi), ha aggiunto, lui non parla nel rapporto di centinaia di trapianti illegali, ma di alcuni casi.
”L’obiettivo del rapporto non è accusare ma denunciare dei crimini, e quello che esso chiede è di condurre delle indagini, che finora non sono state mai fatte’, nonostante tutte le indicazioni dei legami fra tali crimini e certi gruppi dell’Uck,” ha affermato Dick Marty.
Ebbene, io il rapporto l’ho letto bene e vi ho ravvisato una censura, che Marty o chi per lui dovrà spiegare (come anticipato nel mio articolo dello scorso 18 gennaio http://www.eurasia-rivista.org/7805/kosovo-rapporto-marty-tribunale-aja-dottor-frankenstein-e-mossad).
Seguite attentamente lo svolgersi degli avvenimenti: il 14 dicembre 2010 la Commissione europea annuncia l’imminente pubblicazione del Rapporto Marty: http://assembly.coe.int/ASP/NewsManager/FMB_NewsManagerView.asp?ID=6168
e se ne decide, visto l’interesse suscitato, la pubblicazione sul sito dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa:
http://assembly.coe.int/ASP/NewsManager/FMB_NewsManagerView.asp?ID=6172.
Infatti il 16 dicembre una Commissione dell’Assemblea chiede l’apertura di un’inchiesta sul traffico di organi e sui rapimenti in Kosovo e in Albania:
http://assembly.coe.int/ASP/NewsManager/FMB_NewsManagerView.asp?ID=6180
In realtà, come vediamo dai prossimi link, la bozza preliminare del Rapporto Marty era già disponibile sul sito dell’Assemblea in data 12 dicembre, in inglese: http://assembly.coe.int/ASP/APFeaturesManager/defaultArtSiteView.asp?ID=964 anche in pdf (versione teoricamente non modificabile dato il formato del file):
http://www.assembly.coe.int/CommitteeDocs/2010/ajdoc462010prov.pdf
e in francese:
http://assembly.coe.int/ASP/APFeaturesManager/defaultArtSiteVoir.asp?ID=964
Ora abbiate la pazienza di confrontare le due versioni datate 12 dicembre 2010; alla nota 36 del Rapporto, in quella inglese (anche in pdf) troviamo la seguente frase: 36) “The combined influence of Muja and Veseli in this regard endured through the transitional phase of the Kosovo Protection Corps; both men were central to the design of the intelligence structures and strategic decision-making mechanisms inside the PDK party. Among the external parties they are reported to have engaged are members of the Albanian secret services, American private military and security companies, and Israeli intelligence experts.”
In quella francese, alla medesima nota 36, troviamo invece: 36) “L’influence conjuguée de Muja et Veseli dans ce domaine a perduré tout au long de la phase de transition du Corps de protection du Kosovo; les deux hommes auraient joué un rôle central dans la conception des structures de renseignement et des mécanismes de prise de décisions stratégiques au sein du PDK. Parmi les prestataires externes aux services desquels ils auraient eu recours figurent, selon certaines informations, les membres des services secrets albanais, des sociétés américaines de sécurité et militaires privées.» Dove sono finiti «gli esperti dell’intelligence israeliana» citati nella versione inglese del Rapporto?
Ricordiamoci che qui stiamo parlando degli esponenti di un gruppo criminale, Mujia e Veseli, incaricati dai loro capi di «annodare contatti» per riciclaggio di denaro sporco e altri reati piuttosto gravi.
Già qui la questione della omissione-censura appariva piuttosto strana.
Il 7 gennaio 2011, però, il sito dell’Assemblea pubblicava la versione definitiva del Rapporto Marty (Doc 12462), in inglese:
http://assembly.coe.int/Mainf.asp?link=/Documents/WorkingDocs/Doc11/EDOC12462.htm
e in francese:
http://assembly.coe.int/Mainf.asp?link=/Documents/WorkingDocs/Doc11/EDOC12462.htm
Ritorniamo alla «famosa» nota 36 e non troviamo più, neanche nella versione in inglese, il riferimento all’intelligence israeliana: 36) «Muja was the overall “Medical Co-ordinator” for the KLA General Staff, a post in which he oversaw the provision of medical treatment for wounded KLA soldiers, as well as other emergency cases in KLA operational zones. Muja notably made use of the Military Hospital in Tirana, Albania, and administered extensive supplies and equipment acquired by the KLA through foreign donations. During 1998 and 1999, as the official representative of the KLA, supported by elements in the Albanian Army and the Albanian secret services, Muja also administered a diverse array of other infrastructure: at least one helicopter, several well-funded construction projects and makeshift accommodation arrangements – including private houses and apartments – for KLA commanders, recruits and affiliates who travelled into Albania from overseas, including those en route to Kosovo”, idem alla nota 40), che riprende la 36) della versione del 12 dicembre: “The combined influence of Muja and Veseli in this regard endured through the transitional phase of the Kosovo Protection Corps; both men were central to the design of the intelligence structures and strategic decision-making mechanisms inside the PDK party. Among the external parties they are reported to have engaged are members of the Albanian secret services and American private military and security companies.”
Men che meno, ovviamente, nella versione francese: 36) “Muja était le «coordinateur médical» général de l’état-major général de l’UÇK, une fonction qui l’amenait à contrôler la fourniture des traitements médicaux destinés aux soldats blessés de l’UÇK et aux autres situations d’urgence des zones d’opération de l’UÇK. Muja a notamment utilisé l’hôpital militaire de Tirana, en Albanie, et a géré les fournitures et le matériel considérables acquis par l’UÇK grâce aux dons provenant de l’étranger. En 1998 et 1999, en sa qualité de représentant officiel de l’UÇK assisté par des éléments de l’armée albanaise et des services secrets albanais, Muja a également géré un ensemble de diverses autres infrastructures: un hélicoptère au moins, plusieurs projets de construction solidement financés et l’aménagement de logements improvisés – notamment de maisons et appartements privés – destinés aux commandants, recrues et auxiliaires de l’UÇK qui se rendaient en Albanie depuis l’étranger, y compris à ceux en transit pour le Kosovo” e nota 40): “L’influence conjuguée de Muja et Veseli dans ce domaine a perduré tout au long de la phase de transition du Corps de protection du Kosovo; les deux hommes auraient joué un rôle central dans la conception des structures de renseignement et des mécanismes de prise de décisions stratégiques au sein du PDK. Parmi les prestataires externes aux services desquels ils auraient eu recours figurent, selon certaines informations, les membres des services secrets albanais, des sociétés américaines de sécurité et militaires privées.”
Ora, qualcuno potrebbe forse contestare che questa censura riguardante il ruolo dell’intelligence israeliana non è poi così influente ai fini legali del rapporto, dove, oggettivamente, le rivelazioni più clamorose riguardano l’ammissione da parte del Tribunale dell’Aja (lo stesso che ancora si permette di dettare alla Serbia le condizioni della propria ammissione in Europa) della sua distruzione di prove documentali sui crimini commessi in Kosovo (insieme alle incredibili “negligenze” di ONU, UE, NATO ecc. mentre gli USA e Israele, almeno, sanno benissimo cosa devono fare…).
C’è però un aspetto importante che si nasconde dietro a questa manomissione (a meno che non si tratti di un’autocensura decisa dallo stesso Marty ma il significato non cambierebbe): almeno a partire dagli anni Ottanta, Israele e i suoi sostenitori ci vogliono convincere che sarebbe in atto uno “scontro di civiltà”, Occidente cristiano (buono) da una parte e Oriente musulmano, a volte confuciano (cattivo) dall’altra.
Il dichiarato appoggio di Israele alla guerra dell’UCK albanese (teoricamente musulmano, anche se in realtà si tratta di tutt’altro…) contro la Serbia cristiana (ortodossa) viene allora a sconvolgere le carte in tavola e a prospettare l’ipotesi (molto più reale) che l’attuale conflitto in corso a livello globale sia dovuto a cause geopolitiche, geoeconomiche e geostrategiche (l’occupazione dello spazio eurasiatico) che con la religione non hanno proprio nulla cui spartire.
Peccato che questa partita si giochi sulla pelle dei popoli, serbo o albanese che sia.
* Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, è autore di “La questione serba e la crisi del Kosovo”, Ed. Noctua, Molfetta, 2008.
http://www.eurasia-rivista.org/7839/kosovo-il-rapporto-marty-e-stato-censurato-da-israele
—
Europa, crisi dei debiti: adesso l’Irlanda stampa da sé gli euro 19.01.2011
Costosi e insufficienti, i fondi europei non bastano più. Ma Dublino ha trovato una soluzione: riprendere a battere moneta. Anche se si tratta di quella continentale
Per mesi l’Europa ha affrontato la crisi del debito sovrano vivisezionando il problema sotto ogni punto di vista. Si è discusso ampiamente di fondi di salvataggio e di effetto domino, ma anche del possibile ridimensionamento di Eurolandia e delle linee guida del nuovo patto di stabilità. Ogni ipotesi è stata valutata cercando una risposta alla peggiore crisi collettiva dei conti che il Continente ricordi. Eppure nessuno si era accorto di quanto la soluzione fosse semplice. Altro che ristrutturare i debiti con complessi piani lacrimosi e sanguinolenti. Meglio, molto meglio, ridurli drasticamente nel modo più ovvio: stampando a casa propria miliardi di euro. Chiaro, è solo una battuta di cattivo gusto. Peccato però che non faccia ridere. Anche perché tutto questo sta accadendo davvero: in Irlanda, ovviamente.
La notizia riportata in questi giorni dal quotidiano di Dublino Irish Indipendent è a dir poco sorprendente, almeno quanto il fatto che nessuno da Bruxelles a Berlino abbia ancora alzato la voce. La banca centrale irlandese sta finanziando un ambizioso piano di prestiti da 51 miliardi di euro stampando da sé il denaro necessario. Proprio così. Nel mese di novembre, l’ultimo per il quale sono disponibili le cifre, i prestiti concessi dalla Bce sono calati da 136,4 a 132 miliardi di euro. L’istituto centrale irlandese, battendo da sé moneta, ha erogato invece 6,4 miliardi in più a favore delle banche private del Paese. Un portavoce della Bce, riferisce l’Irish Times, ha confermato tutto spiegando, in sostanza, che Dublino può stampare tutti gli euro che vuole a patto che la banca centrale europea ne sia informata.
“Lasciamo che la Grecia stampi gli euro, lasciamo che li stampino l’Italia, la Spagna, il Portogallo e il Belgio”, commenta su Business Insider l’analista di Sitka Pacific Mike Shedlock. “Fintantoché si può contraffare (sic – ndr) denaro senza che alla Bce importi, perché ogni Paese non dovrebbe stampare abbastanza euro per ripagare il suo debito? Ogni nazione potrebbe diventare ‘debt free’ nel giro di pochi secondi. Spero cogliate il sarcasmo. Perché questo è un pendio incredibilmente scivoloso e mi stupisce che la Germania non si metta a strillare”. Difficile dare torto a Shedlock, soprattutto alla luce delle implicazioni finanziarie e politiche della strategia irlandese.
Alla vigilia del vertice Ecofin, il ministro economico di Dublino Brian Lenihan si è pubblicamente lamentato delle condizioni di prestito cui è soggetto il suo Paese, chiamato a versare un interesse medio annuo del 5,8% all’Ue e al Fondo Monetario internazionale sui 67,5 miliardi di euro che gli sono stati garantiti. Un’affermazione che suona come un’implicita giustificazione. Come a dire: per risparmiare sugli interessi meglio produrre in casa un po’ di denaro liquido. Tutto perfettamente logico se non fosse che una simile scelta si traduce in una spinta inflazionistica scaricata sull’intero continente. E che dire di fronte alla logica tentazione cui potrebbero essere soggette le altre economie in difficoltà? Ad oggi la Bce ha autorizzato Dublino contando sul fatto che qualche miliardo di euro in più non dovrebbe avere alcun impatto rilevante sul valore della moneta unica. Ma cosa accadrebbe se gli altri Paesi in crisi avanzassero richieste simili? Davvero la Banca centrale avrebbe ancora l’autorità e la possibilità di rispondere negativamente?
Tutte domande prive di risposta, e proprio per questo decisamente inquietanti, che si riproporranno con forza qualora la situazione dei conti pubblici dovesse peggiorare ancora. Una buona notizia, se non altro, viene oggi da Madrid dove si è conclusa positivamente l’ultima asta sui titoli di Stato a 12 e 18 mesi: 5,54 miliardi complessivi di obbligazioni cedute a tassi medi del 2,94 (12 mesi) e del 3,36% (18 mesi) che segnano così il primo calo degli interessi dallo scorso mese di ottobre. Gli spread tra i rendimenti delle obbligazioni della periferia europea e i bund tedeschi si mantengono relativamente stabili mentre il prezzo dei credit default swaps (misura di fatto del rischio bancarotta sovrana) sono aumentati leggermente (+10 il Portogallo, +9 l’Irlanda, +14 la Grecia, segnala l’ultima analisi di Markit). In attesa che sia raggiunto un accordo sull’ampliamento del fondo salva Stati, la Bce si conferma intanto un ottimo cliente per i bond nazionali. In settimana l’istituto centrale ne ha acquistati 2,313 miliardi contro i 113 milioni della settimana precedente.
Preciso che la questione dell’inflazione, causata dallo stampare moneta verrebbe dipanata applicando le teorie di Domenico De Simone.
—
Commercio armi, governo va sotto
Roberto Di Giovan Paolo*, 21.01.2011
Quella che si è appena conclusa è stata una settimana politicamente vivace, non solo dominata dai fatti di Arcore. Peccato che la stampa mainstream non se ne sia accorta. Un esempio? Al Senato, in commissione 14esima, Affari Europei, abbiamo completato l’esame della Legge comunitaria che recepisce le direttive Ue e sana le infrazioni. Risultato: il Governo è stato battuto sulla modifica della legge sul commercio delle armi
In commissione 14esima, Affari Europei, abbiamo completato l’esame della Legge comunitaria che recepisce le direttive Ue e sana le infrazioni. Un primo risultato era già stato ottenuto a novembre con l’approvazione del mio emendamento per il recepimento integrale della direttiva Ue sul rimpatrio volontario (finora Maroni aveva utilizzato solo tre righe per l’allungamento a sei mesi dei Cie ma non l’intera direttiva che aiuta la regolarizzazione e promuove la possibilità di intraprendere un lavoro nel proprio Paese d’origine quando non vi siano motivi di asilo politico).
Ora il Governo ha ritirato l’emendamento (di cinque pagine intere!) con cui tentava di cambiare la legge 185 del 1990 sul commercio delle armi, legge ottenuta dopo due legislature e con il concorso di ong e associazionismo della pace; ha accettato di recepire solo la direttiva per il commercio interno ai 27 Paesi Ue e con tre volte la dicitura, come da miei emendamenti, che ci si deve rifare “ai principi della Legge 185/90”. In più è stato accolto il mio ordine del giorno a cui si è associato il senatore ed ex generale Mauro Del Vecchio, nel quale si impegna il Governo (qualunque sia) a promuovere una legislazione quadro per l’esercito europeo e le missioni militari all’estero riconoscendo che oggi ciò avviene solo in virtù delle scelte dell’ esecutivo e senza una specifica delibera del Parlamento.
Seguendo il filo del ragionamento significa che dovrà esserci una legge per cui ogni missione militare, anche cosiddetta “umanitaria”, dovrà essere regolata dalla decisione per legge del Parlamento e non più dalla semplice decisione per decreto del Governo che come, nel caso del governo Berlusconi, decise, ad esempio, di andare in Iraq senza mandato Onu. Non voglio entrare ora nello specifico delle 33 missioni italiane in corso (lo farò a febbraio per l’ennesimo voto sulle missioni a cui non ho partecipato per protesta nelle ultime volte) ma questo è il passaggio politico parlamentare che permette di istituire un controllo parlamentare sulle singole scelte (non è la stessa cosa la Bosnia di Sarajevo o la guerra in Irak). Essendo ormai una infima minoranza parlamentare quella degli “amici della pace e dei diritti umani”, non è, onestamente, poca cosa e continuiamo la lotta non violenta.
Per saperne di più visitate il sito di Di Giovan Paolo
* Senatore Pd, comitato politico Paneacqua
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16717
—
Da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org il 24.01.2011
Attenzione a Finmeccanica
E’ una notizia da tenere sotto controllo. Finmeccanica non è una holding come le altre.
La Lybian Investment Authority (Lia), il fondo di investimento pubblico della Libia, ha fatto il suo ingresso nel capitale del gruppo della Difesa con una quota del 2,01%. Un altro segnale del forte
interessamento del Paese di Muammar Gheddafi verso l’Italia, dove è già il primo azionista di Unicredit, vanta una quota in Eni e possiede il 7% della Juventus. Se la Lia volesse salire oltre il 3% di Finmeccanica dovrebbe però ottenere il via libera da parte del Governo italiano.
—
Güneydoğu Anadolu Projesi (Gap) Un mega-progetto che rischia di stravolgere il Kurdistan turco
22 dighe, 19 centrali idroelettriche, sette aeroporti e un numero indeterminato di infrastrutture e opere di urbanizzazione, per un costo complessivo stimato in circa 32 miliardi di dollari Usa.
È quanto prevede il Gap (Güneydoðu Anadolu Projesi), il piano di sviluppo voluto da Ankara per il sudest kurdo della Turchia.
Il progetto, attribuito a Mustafa Kemal Ataturk e promosso a partire dagli anni settanta, oggi coinvolge un territorio pari a 1,82 milioni di ettari, esteso nelle province a maggioranza curda di Adiyaman, Batman, Diyarbakir, Gaziantep, Kilis, Mardin, Siirt, Sanliurfa e Sirnak, e sta avendo un
pesante impatto in termini sociali ed ambientali.
Le popolazioni delle aree coinvolte (in grande maggioranza curdi) denunciano il tentativo da parte di Ankara di rivoluzionare il volto della regione, al fine di poterla meglio controllare.
E fortemente critico è anche il parere dei vicini Siria e Iraq, secondo cui dietro il progetto Ankara nasconde l’intento di rafforzare il controllo su una risorsa fondamentale come l’acqua.
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=Specials&rop=readall&id=16
Dalla newsletter del 24.01.2011
—
Sul grafene
Pervenuto da simyzag@yahoo.it per ListaSinistra@yahoogroups.com il 26.01.2011
Il grafene , chi è costui? Una bufala al momento. E’ un materiale costituito da uno strato di atomi di carbonio che ha uno spessore equivalente alle dimensioni di un solo atomo. Gli atomi sono collegati
fra di loro a forma di esagoni, ma non sempre. Le imperfezioni sono i collegamenti a pentagoni o a ettagoni. Dette imperfezioni disposte in maniera opportuna formano il principio per il funzionamento ( invece del tradizionale silicio) come un transistor che è alla base del funzionamento delle CPU o GPU ( processori a seconda del loro campo di applicazioni, per l’elaborazione di dati o di immagini sopratutto quelle 3D). Detta scoperta garanti il premio Nobel per la fisica 2010 ai due fisici Andre Geim e Konstantin.
Il grafene sembra rappresentare la prossima rivoluzione dell’informatica. Infatti il materiale, un foglio tanto sottile da essere considerato bidimensionale prospetta la prossima tappa per l’ultracompatto e ultrapiccolissimo dei microprocessori e a risolvere il drammatico problema dello smaltimento del calore. Infatti gli attuali microprocessori al silicio pongono un problema all’ultrapiccolo: il calore. Al di sotto di certe dimensioni non si può andare perchè, pur se le correnti elettriche in gioco sono dell’ordine di microampere, la superficie così ridotta non riesce a smaltire la quantità di calore prodotto, producendo quella catastrofe chiamata effetto valanga nei microprocessori. Il nuovo strato invece prometteva, essendo un superconduttore, sia per il passaggio della corrente sia per il calore di poter superare i limiti del silicio.
Ma….ma la IBM ha raffreddato “i bollenti” entusiasmi. Yu-Ming Lin, ricercatore di IBM, durante un’intervista ha spiegato che c’è una differenza fondamentale tra i transistori di silicio e quelli di grafene – differenza che Big Blue ha dimostrato – e che, per questo motivo, al momento non è ipotizzabile un processore basato sul grafene. Sembra che i transistor costruiti con il nuovo materiale non si possono “spegnere” completamente.
–
Zag(c) <http://vecchia-talpa.blogspot.com/>
—
La Tunisia e i Diktat del FMI: come la politica economica provoca povertà e disoccupazione in tutto il mondo 25.01.2011
di Michel Chossudovsky
Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l’ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore.
Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della “comunità internazionale”.
Ma Ben Ali non era un “dittatore”. I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economci occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
L’ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI.
Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare la economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.
Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”.La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”.
Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una “sostituzione” del regime. L’instaurazione di un burattino politico assicura l’attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l’eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell’impoverimento di un’intera popolazione.
Il movimento di protesta
Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L’esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l’ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
Dall’inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l’imposizione delle riforme neoliberiste.
Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell’ingerenza straniera?
Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.
Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di “rompere con il passato”, senza peraltro precisare se ciò significhi l’abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.
Cenni storici
I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del “dittatore”e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
La prima “rivolta del pane” in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo ricaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia . L’eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.
Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell’esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la “rivolta del pane”. La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l’aumento dei prezzi. (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread – TIME, gennaio 1984)
In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l’impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
L’agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all’inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento “per motivi di incompetenza”, portando all’insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni ’50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
Pochi mesi dopo l’insediamento di Ben Ali’ a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull’istituzione di un regime di libero scambio con l’UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell’ordine di 0.75 euro all’ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l’Unione Europea.
Chi è il dittatore?
Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall’instaurazione di Ben Ali’ nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l’eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l’attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un’ondata di fallimenti.
A seguito di queste dislocazioni dell’economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall’ Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell’ordine di US$ 1.960 miliardi di USD, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.
L’aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti
Nel settembre 2010, è stata raggiunta un’intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l’equilibrio fiscale:
Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l’esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell’ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni… IMF Tunisia: 2010 Article IV Consultation – Staff Report; Public Information Notice on the Executive Board Discussion; and Statement by the Executive Director for Tunisia.
Vale la pena notare che l’insistenza del FMI sull’austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell’agribusiness. Sono il risultato di un’autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell’impoverimento globale.
“I media hanno fuorviato l’opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l’attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l’offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell’aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …
La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una “put option” è una scommessa sul ribasso del prezzo, una “call option” è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l’instabilità che ne risulta incoraggia l’ ulteriore attività speculativa.
I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti” (Michel Chossudovsky, Global Famine, Global Research, May 2, 2008).
Dal 2006 al 2008, c’è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell’arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky, qui; per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, qui).
Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell’ indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.
“I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in “zona pericolosa”.
Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente – del giugno 2008 – per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma (la FAO), l’indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi”; (The Guardian, 5 gennaio 2011)
Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’ austerità fiscale.
Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione
Un’atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell’UE):
La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell’equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
L’aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell’aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani. (Banca mondiale – Tunisia – Country Brief)
Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna “analisi” economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un’attenuazione della povertà. L’impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di “repressione” economica che è stato applicato universalmente in più di 150 pæsi in via di sviluppo.
Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla “stima” della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.
La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell’ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell’urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .
La Tunisia e il mondo
Quello che sta succedendo in Tunisia fa parte di un processo economico globale che distrugge la vita della gente attraverso la deliberata manipolazione delle forze di mercato.
Più in generale, “la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell’intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all’istruzione primaria.”; (Michel Chossudovsky, Global Famine, op cit.)
Da Global research, 20 gennaio 2011
http://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/1201-michel-chossudovsky-la-tunisia-e-i-diktat-del-fmi
—
Riprendiamoci le banche
Tonino D’Orazio*, 24.01.2011
Bisogna fare un passo indietro per capire meglio l’edificio ammirevole. Il mercato liberalizzato dei capitali, cioè quelli che hanno confezionato la crisi finanziaria attuale, continua a rimanere l’unico elemento all’attenzione delle politiche governative. Ai bancarottieri sono andate tutte le riserve finanziarie dei vari paesi a capitalismo avanzato, lasciando nudi e indebitati i cittadini, le loro istituzioni democratiche, lo stato sociale costruito in tanti decenni, e l’avvio della recessione
E non basta.
Con il salvataggio della finanza privata e i costi della recessione ormai i bilanci statali sono a zero. La situazione è talmente incancrenita che le finanze pubbliche sono diventate esse stesse un problema e non hanno soluzioni. Chissà dove, con quali ulteriori e sempre più probabili “lacrime e sangue”, i governi (tutti di destra in Europa) potranno arrivare. E sempre per continuare a finanziare le banche?
Tutti quelli che hanno sostenuto il trattato di Lisbona fanno finta di non ricordare l’eccesso, più volte denunciato, di una “Europa economica e finanziaria” piuttosto che politica. Dimenticano la loro testarda volontà a sottomettere le politiche economiche in mano a folli creditori e banchieri europei e internazionali (in realtà leggi anglo-americani) peggiori. I romani dicevano: “Quelli che Giove vuol perdere comincia con il renderli pazzi”.
Risultato? I paesi europei stanno prosciugando i propri fondi per il salvataggio delle banche irlandesi ( e greche e portoghese) che hanno scientificamente affossato le finanze pubbliche del proprio paese. Il caso irlandese è interessante per la connessione tra finanza bancaria privata e finanza pubblica. Non c’è da sbagliare pensando che il problema non sia quello di salvare uno Stato (idem per Grecia e quelli che seguiranno) ma piuttosto quello di evitare un nuovo crollo del sistema finanziario. Infatti, per esempio, degli 85 miliardi di euro concessi, 35 andranno alle banche (si è saputo immediatamente dopo che non bastavano), senza contro partita, ovviamente, e 50 allo stato irlandese per tentare di mitigare i prossimi “lacrime e sangue”, ma in realtà per pagare i debiti di stato.
Insomma hanno costruito una Europa sottomessa alla finanza contro i propri cittadini, pronta a perire di finanza stessa.
In effetti è una finanza senza regole, e alla deriva, senza bussola, nemmeno per i necessari investimenti per una ripresa economica che potrebbe tra l’altro garantire soprattutto loro. Anzi. Il 30 settembre l’agenzia Moody’s ha avuto il coraggio di degradare il rating spagnolo a causa di “… una crescita insufficiente”, quando essa stessa vi ha concorso, in primavera, con l’adozione di politiche di rigore tali … che hanno ucciso la crescita. Lo stesso avviene e avverrà per tutte le prossime decisioni dei ministri economici della Comunità europea. E per tutti i paesi sotto debito o sotto speculazione, che guarda caso avvengono tramite finanziarie.
Senza voler aggiungere una considerazione di principio, ritenendola una specie di crimine contro la sovranità del popolo, si può pensare che sono stati aboliti i diritti di cittadinanza per aumentare quelli dei creditori.
L’European Financial Stability Facility (EFSF) (ossia fondo salva stati) cerca di nascondere il disastro. Il Fondo ha come parametro il bisogno finanziario degli stati dell’euro, cioè la somma del deficit corrente e delle scadenze dei debiti sui titoli di stato.
L’Irlanda e il Portogallo, insieme, dovranno trovare 60 miliardi nel 2011 e 40 per il 2012. Solo la Spagna avrà bisogno di 190 miliardi di euro per il 2011 e altri 140 miliardi per il 2012. Insomma 330 miliardi, più un anno prima della scadenza dell’EFSF, più i 100 dei due precedenti, 430 miliardi solo per questi tre paesi. L’EFSF ha un fondo globale di 440 miliardi. E speriamo che tutto vada per il meglio per l’Italia e la Francia, comunque già iscritti nella lista di attesa.
Bisogna aggiungere che, per emettere titoli, l’EFSF ha bisogno della tripla-A (ma guarda un po’ chi lo decide!), quindi di garantire per ulteriori 20% il fondo. Ciò significa che per ogni euro prestato bisogna conteggiarne 1,20 (a carico dei debitori) e dei 440 miliardi nominali soltanto 366 sono realmente disponibili. Potrebbero diventare anche di meno se i paesi che devono contribuire al fondo sono proprio quelli che ne hanno bisogno. E, finché mancano i 12 miliardi di euro della Grecia e i 7 dell’Irlanda, pazienza, ma il buco si comincerà a vedere se mancheranno i 52 della Spagna.
Infine l’EFSF è strutturato nella logica di salvataggi episodici, di numero piccolo e ristretto, e sarebbe assolutamente incapace a far fronte a situazioni di crisi per molti paesi europei. E ancora, spaventati da queste prospettive che hanno contribuito essi stessi a creare, gli investitori sono adesso ossessionati dall’ottenere garanzie perfette e, stranamente, non viene loro in mente di chiederle ai debitori privati.
Evidentemente non è aumentando i fondi che si troverà la soluzione perché regolare i problemi dei più indebitati indebitando quelli che lo sono meno, alla fine lo si noterà. Anche perché questi ultimi possono raggiungere rapidamente i primi nel disastro.
Tutto questo non può che finire male, anche perché parecchi movimenti sociali iniziano a “protestare”, perché il quadro nel suo insieme inizia ad essere chiaro e se ne vede la mostruosità:
1) la finanza privata è responsabile della più gigantesca crisi della storia del capitalismo; (inutile consolarmi dicendo che Marx l’aveva previsto);
2) Le banche sono riuscite a forzare i governi a soccorrerle per il fatto che sono la testa di ponte di tutto il sistema capitalista e sono riuscite a incatenare tutti gli strati sociali ai loro interessi;
3) Questa perfetta presa in ostaggio avrebbe potuto cessare col salvataggio del 2008, bloccando il gioco della finanza e riconducendo il sistema bancario alla comunità, in quanto essa è depositaria dei beni comuni vitali, cioè la sicurezza di incassare la moneta pubblica e garantire le condizioni generali del credito all’economia reale;
4) Infestati dalle lobby e dai poteri finanziari gli Stati non hanno fatto nulla e prestato soccorso gratuitamente, e per niente, anzi per una doppia fregatura dovuta al mantenimento delle remunerazioni esorbitanti dei dirigenti (quando si dice il merito) e soprattutto, più grave ancora, svuotando le casse statali e lasciandoli di fronte alla crisi e alla recessione;
5) Gli splendidi meccanismi dei mercati di capitali concorrono con rara eleganza all’organizzazione del peggio, rendendo irrisolta la crisi del debito che essi stessi hanno creato;
6) E questo finché questa crisi diventi irrimediabile e minacci di nuovo una seconda catastrofe come quella del 2008;
7) Nel frattempo l’Europa inventa con urgenza nuove istituzioni che dovrebbero aiutare gli “Stati” quando tutti capiscono che bisogna salvare le banche per la seconda volta. Sarebbe la seconda volta di troppo, e ci si chiede come sia stato possibile che i movimenti sociali abbiano potuto inghiottire la prima così facilmente. Almeno fino adesso. La fame vera non è ancora arrivata a quelli che non ci sono abituati.
Il messaggio culturale incomincia finalmente a circolare: “Le banche e i banchieri sono la causa dei nostri mali”.
In Francia un video di Cantona (sì, l’ex giocatore della Roma) ha fatto su Facebook circa 180.000 proseliti. Con un messaggio chiaro.
“Le banche e i banchieri sono la causa dei nostri mali”, “Esse vivono con i nostri depositi”, ” per cui, per abbattere le banche e sbarazzarci di questo flagello basta ritirare i nostri soldi”. Tecnicamente vero, ma alla fine catastroficamente falso.
Se uno ritira i propri risparmi, cosa ne fa ? Li mette sotto il materasso? A parte che bisognerebbe precipitarsi in banca tra i primi. Tutti sanno che le banche hanno una propensione relativa a rendere rapidamente i soldi, e che nelle casse non vi sono mai molte riserve, solo quelle determinate da una media ponderata di ritiri e di incassi giornalieri.
Comunque, ammettendo di aver messo le banche al tappeto, bisogna rappresentarsi la vita quotidiana e a cosa assomiglierebbe la vita materiale. Per esempio mangiare. Cioè comperare da mangiare. Pagare con assegni? Non è più possibile, non vi sono banche. Ritirare soldi al bancomat? Impossibile. Ottenere un credito? Impossibile. Rimangono i soldi liquidi in tasca. Per molti, rappresentano pochi giorni di possibilità di spesa.
Siccome distrugge istantaneamente il sistema dei pagamenti e del credito, il crollo bancario generale è l’avvenimento estremo dell’economia capitalista; blocco della produzione, incapacità di finanziare gli anticipi, impossibilità dei cambi, poiché la circolazione della moneta perderebbe le sue infrastrutture, una specie di caos, nel quale il mondo sociale pagherebbe di più perché quegli individui sono costretti a lottare una sopravvivenza materiale giornaliera.
La verità, anche se manca di poesia, è che abbiamo bisogno delle banche, anzi un bisogno vitale. Ma dire che abbiamo bisogno delle banche è una cosa e dire di quali banche abbiamo bisogno è un’altra.
Non sono le banche che bisogna distruggere in Europa, ma quel tipo di banche, quelle che ci stanno portando nel disastro. Nelle banche vi sono infrastrutture di sistemi di pagamento e di tenuta dei conti, cioè i requisiti per scambi possibili in una economia monetaria, e vi sono persone capaci (più o meno) di prendere decisioni per il credito alle famiglie, alle imprese e altre cose che abbiamo interesse a salvaguardare.
Non si tratta di affossarlo, ma di riprenderlo. Tanto il sistema bancario sta già lavorando al suo prossimo crollo. Nell’atmosfera attuale di panico dei mercati obbligazionari il fatto rilevante è notare la solidarietà (nel disastro) tra i titoli bancari e i titoli pubblici. Essi sono strettamente imbricati tanto che salvare le banche rovina gli Stati e il possibile fallimento degli Stati rovina le banche.
Tra far cadere le banche con un ritiro rabbioso dei depositi e vederle cadere da sole sotto l’effetto della loro proprio turpitudine, la differenza concreta è quella di lasciare al capitalismo finanziario e alle sue élites l’intera responsabilità storica della rovina finale. E se proprio non si vuole solo guardare cadere le banche ma attivamente farle cadere, la migliore opzione sarebbe quella che se ne incaricasse lo Stato dichiarando momentaneamente insolvente il suo debito pubblico.
La manovra prenderebbe un senso politico:
1) dimostrare con gesto unilaterale la propria sovranità e chi detiene veramente il potere democratico, il popolo e non la finanza;
2) con il ripudio di tutto o in parte del debito pubblico, di alleviare la popolazione dall’austerità e recuperare margini per politiche di crescita;
3) armarsi di una politica pubblica di trasformazione radicale necessaria all’affrancatura dal finanziamento del deficit pubblico dai mercati di capitale e alla ricostruzione completa delle strutture bancarie (comunque distrutte dall’insolvenza)
C’è da scommettere che tra i governi di oggi (l’eccezione è stata quella di Krouchner in Argentina quando decise di non rimborsare più i titoli di stato ai risparmiatori esteri, che poi abbiamo pagato noi agli speculatori italiani che poverini avevano perso i loro risparmi; l’altra quella delle banche islandesi, che si sono rapidamente ristabilite per il fatto di non aver riconosciuto i debiti con i non-residenti e, meglio ancora di aver convalidato questo gesto tramite referendum popolare) nessuno è capace di affermare la supremazia popolare e rivendicare, con l’insolvenza, una guerra aperta alla finanza. Questa può anche prenderci in ostaggio, noi e la democrazia, ma se diventa debitrice, anche lo Stato può rovinarla e ricomprarla a basso costo. E comunque è lo sviluppo endogeno della dinamica finanziaria che farà il resto, e lo Stato potrebbe ancora fare bella figura. Non abbiamo più scelta, solo quella di pensare all’ipotesi del crollo bancario conseguente all’insolvenza degli Stati, rivendicata o subita, cioè ad una nuova ipotesi “dell’autunno 2008”, con questa differenza però che la soluzione di salvataggio da parte dello Stato non sarà più possibile. (Né dal EFSF europeo)
Il fallimento tecnico delle banche avrebbe almeno un effetto interessante, cioè permetterebbe di mettervi le mani sopra, e a poco costo. Sarebbe un ottimo argomento per una riappropriazione del sistema creditizio; il fallimento non lede il principio dei privati e degli azionisti anzi permette di operare una nazionalizzazione con presa giudiziaria.
Sequestrare banche fallite non ha nessun carattere di attentato alla proprietà poiché questa è stata distrutta dal fallimento stesso. In questo senso sarebbe l’equivalente capitalista della bomba al neutrone che uccide i diritti di proprietà e lascia intatto gli immobili, le strutture e anche gli umani salariati capaci di far funzionare la macchina. Ma un fallimento non lascia a terra solo gli azionari, ma anche i creditori. Il diritto ordinario dei fallimenti e delle risoluzioni concordate offrono comunque a questi ultimi una possibilità di recuperare una parte. E’ questo che bisogna recuperare, finché si è in tempo. Anche culturalmente.
Il governo Irlandese ha deciso di nazionalizzare una delle più grandi, ma più indebitate, banche del paese, ritenendo essere l’unico modo di rilanciare il credito produttivo alle piccole e medie imprese. Forse si può fare, prima di raggiungere una fase critica di disastro.
*Direttore Ires Abruzzo
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16733
—
Le centrali nucleari si spostano sul fondo del mare 24.01.2011
La Francia studia nuovi impianti subacquei. Per portare l’energia in luoghi remoti e a basso costo
di Sergio Pennacchini
Altro che Caccia a Ottobre rosso e Guerra Fredda. Presto, i sottomarini nucleari che per decenni hanno rappresentato una silenziosa minaccia contro i nemici, potrebbero avere un obiettivo pacifico: generare elettricità e fornirla a comunità isolate. Mentre in Italia si continua a discutere sul ritorno all’energia atomica, la società energetica francese Areva, uno dei colossi del settore, sta infatti collaborando con il gruppo Dcns, azienda francese specializzata nella costruzione di navi militari, per il progetto Flexblue.
L’idea è abbastanza semplice: sfruttare i 40 anni di esperienza di Dcns nella costruzione di sommergibili nucleari per realizzare piccoli reattori da 50 a 250MW (sufficienti per alimentare circa 80.000 abitazioni) da porre sul fondo del mare, a 60-100 metri di profondità e a qualche chilometro di distanza dalla costa. Il Flexblue è un cilindro lungo circa 100 metri e largo 12, è totalmente automatizzato e non ha bisogno di personale a bordo. All’interno il piccolo core nucleare, le turbine, gli alternatori e tutti gli elementi necessari a impacchettare l’elettricità in modo da poterla trasportare a terra grazie a cavi elettrici sottomarini.
Ma perché andare sott’acqua? Secondo Areva, i vantaggi di costruire un impianto nucleare in fondo al mare sono molteplici. Prima di tutto, per una questione termica. A 100 metri di profondità la temperatura è molto bassa e questo aiuta a tenere sotto controllo il calore prodotto dal reattore. Inoltre, la profondità è anche un’ottima difesa contro possibili attacchi terroristici o sabotaggi. Non è semplice immergersi fino a 100 metri, senza contare che la struttura sarà protetta da sensori, telecamere e da una nave di pattuglia sulla superficie. Infine, i Flexblue sono semplici e relativamente poco costosi da produrre e possono essere posizionati ovunque ci sia acqua: questo significa per esempio raggiungere arcipelaghi e isole lontani dai continenti, dove non esistono le infrastrutture necessarie per la distribuzione di energia derivante da carbone o petrolio.
http://daily.wired.it/news/tech/centrale-nucleare-subacquea.html
—
Ictus: congelare il cervello facilita la guarigione 24.01.2011
Mettere il cervello di un paziente che ha subito un ictus nel ghiaccio potrebbe aumentare significativamente le possibilità di guarigione.
A dimostrare gli effetti di questa ‘ibernazione’ è stato un gruppo di ricercatori dell’Università di Edimburgo in uno studio riportato dalla BBC.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno unito i medici provenienti da tutta Europa che credono che l’ipotermia possa ridurre i danni al cervello in migliaia di pazienti colpiti da ictus.
La tecnica prevede di abbassare la temperatura corporea di una persona a 35 gradi centigradi iniettando per via endovenosa gocce ghiacciate e usando tamponi raffreddanti. Si stima che in tutta Europa muoiano ogni anno per ictus mille persone, mentre circa 2mila sopravvivono riportando gravi disabilità.
“Le nostre stime – ha detto Malcolm Macleaod, che ha coordinato lo studio – dicono che l’ipotermia potrebbe migliorare la guarigione di oltre 40mila cittadini europei ogni anno“.
L’idea di ‘congelare’ il cervello per favorire il recupero è tutt’altro che nuova. Un chirurgo dell’esercito di Napoleone ha scoperto questa tecnica notando che i soldati feriti messi vcini a un fuoco morivano mentre quelli messi vicino alla neve sopravvivevano.
Poi nel 2002, due studi, pubblicati sulla rivista New England Journal Of Medicine, hanno affermato l’importanza del raffreddamento del corpo dopo un attacco di cuore. I ricercatori hanno trovato che i pazienti i cui corpi sono stati raffreddati avevano migliori tassi di sopravvivenza e che il loro cervello funzionava meglio nei mesi dopo l’arresto.
I risultati sono stati così convincenti che l’American Heart Association raccomanda l’attuazione di una lieve ipotermia (temperature ridotte) nei comatosi sopravvissuti a un arresto cardiaco. Ora gli scienziati provenienti da più di 20 paesi hanno chiesto a Bruxelles il finanziamento di una sperimentazione a livello europeo di questa tecnica.
—
Sardegna: marea nera sulla costa nord, si tace sul disastro ambientale 24.01.2011
La marea nera dell’olio combustibile finito in mare l’11 gennaio scorso nello scalo industriale di Porto Torres ha raggiunto varie coste del nord Sardegna e sta minacciando il Parco nazionale dell’Arcipelago della Maddalena che ha chiesto lo stato d’emergenza. Lo riporta il sito de ‘La nuova Ecologia’. “Non sono stati riscontrati fenomeni di contaminazione, sebbene le condizioni meteo avverse e i possibili movimenti di corrente non escludano nelle prossime ore, purtroppo, il pericolo di spostamento della chiazza inquinante anche nelle acque dell’Arcipelago” – spiega il presidente del Parco nazionale Giuseppe Bonanno nella nota inviata al ministero dell’Ambiente e a tutti i soggetti istituzionali coinvolti.
Secondo il comandante della Capitaneria di Porto Torres l’emergenza sarebbe invece rientrata già la scorsa settimana dopo aver concluso l’opera di bonifica nella banchina interessata dalla perdita. Eppure circa 20mila i litri di olio combustibile sono stati riversati nelle acque e poi finiti inizialmente sulle spiagge della Gallura: la perdita è avvenuta durante le operazioni di scarico del combustibile destinato alla centrale E-on.
“Le fonti ufficiali continuano a sminuire il fenomeno, parlando di danno ecologico e non di disastro ambientale. Ma stando agli aggiornamenti dei cittadini, agli avvistamenti, alle esperienze e alle segnalazioni che arrivano sulla nuova marea nera di Porto Torres, sembra che ci sia molto di più anche perché un nuovo incidente ha peggiorato la situazione – denunciano gli ambientalisti locali. “Nessuno ne parla (a parte qualche raro TG che ha iniziato da poco a parlare dell’episodio), ma non è ancora tutto – denuncia GreenMe: la marea nera di Porto Torres rischia di danneggiare anche i parchi naturali dell’isola dell’Asinara e dell’arcipelago della Maddalena, e ieri alcuni ampi tratti dell’area industriale di Porto Torres sono stati dichiarati inaccessibili a causa del valore troppo alto di benzene”.
Le autorità locali non intendono minimizzare e il presidente della Provincia di Sassari, Alessandra Giudici, ha chiesto al governo di intervenire dichiarando lo stato calamità naturale e invitando autorità e i media a interrompere il silenzio sulla questione. In questi giorni infatti, sul tratto di spiaggia compreso tra fra Santa Reparata e Capo Testa sono stati raccolti oltre 300 chili di catrame in poco tempo, ma le operazioni di bonifica – per quanto possano essere veloci – devono fare i conti con un combustibile che si espande velocemente e con la nuove perdita avvenuta, sempre a Porto Torres, due giorni fa.
L’incidente ha riguardato una delle tubature che portano il carburante dalla banchina ai depositi della termocentrale. Dalla condotta, interrata nel cemento è fuoriuscito l’olio che prima ha invaso la banchina e poi è finito in mare. In un primo momento si era parlato di “una modesta quantità”, ma l’aspetto delle spiagge la mattina successiva raccontava un’altra storia.
“E’ inammissibile – denunciava prontamente Legambiente – che in un’azienda moderna avvengano ancora simili incidenti, tanto più grave se si considera che Porto Torres si trova di fronte al Parco nazionale dell’Asinara, uno degli ultimi paradisi naturali del Paese. La E.On s’impegni ora a ripristinare lo stato di salute del litorale ma soprattutto ad adottare tutte le misure necessarie affinché disastri del genere non si ripetano”. “Si tratta – continuava il presidente di Legambiente Sardegna Vincenzo Tiana – dell’ennesimo episodio di sversamento accidentale a danno delle nostre coste ed è ormai improrogabile avviare un piano di bonifica del territorio e ottenere adeguati risarcimenti. E’ il momento anche di ripensare il modello di sviluppo della Regione. Gli habitat e l’ambiente infatti sono la più grande risorsa dell’Isola minacciata costantemente dall’industria degli idrocarburi”.
“Un disastro di dimensioni incredibili e di cui, inspiegabilmente, non si parla. Perché?” – si chiede Eleonora Cresci di GreenMe. “Non è la Costa Smeralda, e lo sappiamo bene noi sardi che questo posto lo amiamo e che chiediamo tutela e valorizzazione per il litorale da decenni. No, qua non troverete personaggi famosi, discoteche, yacht. Solo una spiaggia libera lunga chilometri e qualche baretto qua e là. Per questo forse non importa a nessuno”.
Intanto l’Eni sta portando avanti il piano di impiantare proprio a Porto Torres il più grande deposito costiero di idrocarburi del Mediterraneo. “Un progetto – denuncia Gigi Pittalis dei Verdi – che l’Eni sta portando avanti quasi in silenzio e che, una volta completato, avrebbe la conseguenza di vedere aumentare in maniera esponenziale il traffico delle navi cisterna nel golfo dell’Asinara di fronte al parco. Dovrebbe riflettere chi pensa che si dovrebbe portare avanti il piano Eni di stoccaggio nei suoi serbatoi per poi movimentarlo verso altre rotte – aggiunge Pittalis. Ritengo sia neccessario invece potenziare ragionamenti che, passando attraverso le bonifiche, ci portino verso un modello di sviluppo armonico basato sull’uso delle nostre risorse”.
Il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo dovrebbe riferire mercoledì prossimo in Commissione Ambiente della Camera sul danno ambientale. Intanto i cittadini si sono organizzati in comitati perché su quanto accaduto non cali il silenzio. Chiedono di prendere parte alle operazioni di bonifica insieme ai tecnici della E. On, vogliono accertare la reale entità dei danni.
La mobilitazione dei cittadini è anche su Facebook nel gruppo “Disastro ambientale a Porto Torres e Platamona: vogliamo risposte!”. [GB]
http://www.unimondo.org/Notizie/Sardegna-marea-nera-sulla-costa-nord-si-tace-sul-disastro-ambientale
—
Arriva la banca dagli occhi a mandorla 25.01.2011
ICBC (Industrial and Commercial Bank of China) comprerà per 140 milioni di dollari l’80% delle azioni della statunitense Bank of East Asia, secondo la dichiarazione rilasciata ieri da entrambi gli istituti di credito. ICBC, che per valore di mercato costituisce una delle banche più grandi al mondo, acquisisce così dieci filiali in California e tre a New York, procurandosi una piattaforma per la crescita negli USA.
Si tratta della prima acquisizione cinese di una retail bank statunitense. Sarà politicamente interessante vedere se otterrà il benestare della Federal Reserve, chiamata dal Bank Holding Company Act a determinare se la Banca Centrale Cinese è in possesso di sufficienti informazioni sulle operazioni di ICBC per supervisionare le sue condizioni finanziarie e la sua conformità alla legge.
Quest’operazione per ICBC è significativa non tanto a livello di profitti (il totale dei suoi depositi aumenterebbe solo dello 0,02%) quanto per fare un passo avanti nella sua espansione globale. Il colosso bancario, che aveva già aperto la sua prima filiale americana nell’ottobre 2008, la settimana scorsa ha anche raddoppiato la propria presenza in Europa con cinque nuove filiali; raggiunge ora nove Stati del Vecchio Continente. Secondo gli analisti, però, ha ancora molta strada da fare prima di conquistare i clienti statunitensi in un settore così liberalizzato e competitivo.
Non a caso, la notizia arriva proprio alla conclusione della visita di Hu Jintao negli Stati Uniti: secondo il ministro del commercio cinese, in questi quattro giorni fra le aziende dei due Paesi sono stati raggiunti una sessantina di accordi commerciali, per il valore di 25 miliardi di dollari.
http://www.lamiaeconomia.com/2011/01/arriva-la-banca-dagli-occhi-mandorla.html
—
Il Fatto Quotidiano ha fatto utili
E una parte l’ha distribuita ai 30 dipendenti e giornalisti della redazione, che come regalo di fine anno si sono trovati 8mila euro in piu’ in busta paga.
“Perche’ il prodotto e’ fatto dai giornalisti, non scherziamo, il resto sono palle”, ha spiegato Giorgio Poidomani, amministratore delegato della Editoriale Il Fatto.
La media delle vendite e’ di 94mila copie al giorno, piu’ 28mila abbonati che leggono la versione in pdf. Sui circa 28 milioni di euro di fatturato gli utili dovrebbero attestarsi intorno ai 10 milioni di euro.
(Fonte: ItaliaOggi)
http://www.jacopofo.com/files/utili-fatto-quotidiano.jpg
—
Una sola memoria universale? 25.01.2011
Un rivoluzionario mix tra memoria volatile e non volatile, che forza i transistor ad effetto di campo
Roma – L’Università della Carolina del Nord sta lavorando da tempo ad una proposta che potrebbe rivoluzionare il concetto stesso di memoria. Attualmente, esiste una netta distinzione tra memoria di tipo volatile e non volatile. La prima scatta all’istante ma non è in grado di conservare le informazioni se manca l’alimentazione, mentre la seconda può archiviare i dati in maniera permanente scendendo a patti con la velocità d’esecuzione.
La soluzione ideata dal gruppo di ricercatori statunitense punta ad eliminare questi compromessi, con una tecnologia veloce quanto la DRAM ma densa quanto quella delle memorie Flash allo stato solido. A chi non piacerebbe avviare il sistema operativo con uno schiocco di dita?
Il promettente sistema utilizza transistor a effetto di campo (FET) con doppio floating-gate, per gestire i due diversi tipi di archiviazione dati, risultando di fatto universale. Attualmente resta ancora da testarne l’affidabilità, per assicurarsi che la “doppia memoria” non perda colpi dopo diversi cicli di lettura/scrittura. Una relazione dettagliata verrà comunque pubblicata a breve, sulla rivista IEEE Computer.
Oltre ad aumentare la velocità, questo tipo di soluzione potrebbe far risparmiare anche energia. A quanto pare, il computer che monterà il transistor a effetto di campo con doppio floating-gate potrà togliere il piede dall’acceleratore, passare i dati temporanei al secondo gate e mettere momentaneamente in pausa la memoria volatile. Le informazioni potranno essere recuperate immediatamente appena c’è bisogno di riprendere l’attività.
Roberto Pulito
http://punto-informatico.it/3074776/PI/News/una-sola-memoria-universale.aspx
—
Banca mondiale, Cina, sviluppo di Antonio Tricarico
La Cina sorpassa la Banca mondiale 25.01.2011
Aiuti ai poveri dai nuovi ricchi. Pechino supera la World Bank nei prestiti ai paesi in via di sviluppo. Interessi coloniali e politiche pubbliche
La notizia è di quelle che non possono passare inosservate: la Cina ha superato la Banca mondiale nei prestiti ai paesi in via di sviluppo. A rivelarlo è un’indagine condotta dal Financial Times, secondo cui nel 2009 e nel 2010 la China Development Bank e la China Import Export Bank – istituti di credito statali – hanno prestato a governi e aziende delle nuove economie emergenti oltre 110 miliardi di dollari, a fronte dei “soli” 100,3 miliardi di dollari erogati dalla World Bank dalla metà del 2008 fino alla metà dello scorso anno in risposta alla crisi. Nello specifico, i prestiti concessi dal Dragone sono stati utilizzati in progetti di infrastrutture in Ghana e in Argentina, altre quote sono rientrate invece in accordi siglati con Russia, Brasile e Venezuela per l’estrazione del petrolio. A questi vanno aggiunti inoltre i crediti concessi ad aziende indiane per l’acquisto di attrezzature elettriche.
Tutto sommato c’era da aspettarselo. Che prima o poi la nuova potenza emergente a livello globale superasse anche la Banca mondiale nella mole di finanziamenti concessi per “lo sviluppo” dei Paesi più poveri, era prevedibile. Del resto per attrarre più investitori e capitali cinesi la stessa Banca mondiale ha iniziato ad emettere i titoli obbligazioni con cui si finanzia anche in yuan. Ed è indubbio che tale approccio porti con sé numerose conseguenze per le politiche complessive di sviluppo e le relazioni internazionali. E’ palese che molti degli investimenti finanziati hanno pesanti impatti sociali ed ambientali, ma non bisogna per questo dimenticare anche le conseguenze spesso negative associate agli aiuti allo sviluppo – si pensi al pesante sostegno dato ancora oggi ai progetti a combustibili fossili – ed anche ai fondi pubblici “commerciali”, che facilitano l’export e gli investimenti esteri delle imprese dei paesi avanzati. Un esempio per tutti: nel 2010 la Export Import Bank americana ha avuto a disposizione un budget di 24 miliardi di dollari per aiutare l'”interesse nazionale” delle imprese americane, molto legato al petrolio. Ma di questo si parla ben poco.
Ma è importante sottolineare due differenze sostanziali nell’azione “di rapina” di nuove e vecchie potenze. La Cina afferma palesemente dice che gli investimenti servono ad assicurare risorse al paese, senza i tanti fronzoli a cui le ipocrisie occidentali ci hanno invece spesso abituato. Quante volte, ad esempio, gli aiuti dati per sviluppare il petrolio del delta del Niger sono stati “venduti” come sviluppo quando servivano per portare petrolio e gas da noi e profitti alle nostre società petrolifere, il tutto contro la volontà delle comunità locali?
Va anche sottolineato che la Cina persegue una forte politica pubblica nell’operato delle sue aziende anche all’estero, motivo per cui gli investimenti privati cinesi che vanno fuori dal paese sono ancora pochi rispetto alla taglia dell’economia del Dragone. In breve ciò significa che la Cina non cerca tramite i suoi aiuti di creare nuovi mercati all’estero – vedi invece l’ossessione occidentale al riguardo – ma di perseguire politiche ed interventi di stampo pubblico anche fuori dai suoi confini, a prescindere se giusti o sbagliati. L’ennesima prova dell’ibrido capitalistico-socialista che la Cina oggi rappresenta, motivo per cui bisogna stare attenti a parlare solo di nuova colonizzazione. D’altronde a cosa mira la nuova strategia europea sulle materie prime appena presentata dal Commissario Antonio Tajani, se non allo stesso obiettivo cinese?
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/La-Cina-sorpassa-la-Banca-mondiale-7399
—
Lavoro, società, territorio: come uscire dalla crisi 25.01.2011
Articoli di Luca Casarini e Gianni Rinaldini, Loris Campetti. Rocco De Michele sui due giorni di dibattito a Porto Marghera. Come uscire dalla crisi: un tema complesso, se si vuole tradurre il comprendere in cambiare. Il manifesto, 25 gennaio 2011
DOPO MARGHERA
L’ambizione di un’alternativa
di Luca Casarini e Gianni Rinaldini
Dopo la straordinaria due giorni di Marghera, potremmo lasciarci cullare dalla soddisfazione collettiva che ha invaso i luoghi del meeting e che ha accompagnato ognuno nel viaggio di ritorno verso casa. Non è cosa da niente, di questi tempi, poter essere soddisfatti di una scommessa politica e culturale che per noi si chiama uniticontrolacrisi. Ma indugiare troppo non ci è concesso, sarebbe come premere il tasto della pausa e trasformare un film appena iniziato in una fotografia: bellissima, ma ferma. Sia chiaro, non foss’altro per tutti quelli che si sono dannati per far riuscire l’appuntamento al meglio, la prima cosa è essere contenti di com’è andata. l numero delle persone che sono state «attratte», e non cooptate o obbligate, a partecipare (perché la nostra pratica della democrazia non ha niente a che fare con le pratiche di Marchionne), è un fatto importante. La qualità di questa presenza, espressa non solo attraverso quasi duecento interventi, ma anche e soprattutto in un modo di stare insieme fondato più sulla pazienza che sulle pretese, animato dalla disponibilità e non sul pregiudizio, ha creato il «clima». È opera di tutti quello che è potuto succedere: di un modo di pensarla, prima, questa occasione di incontro, e di come di essa ci si è collettivamente appropriati poi. Se la pratica del comune è innanzitutto esemplarità e non linea o modello, va da sé che Marghera segna una tappa di riferimento fondamentale. La formalità rituale che queste cose si portano dietro, anche se uno non vuole, perché è difficile e complesso trovarsi in tante e tanti e discutere, prendere delle decisioni, essere aperti ma non vaghi, includenti e non ambigui, ha avuto come correttivo la fiducia reciproca.
Un’altra cosa che, come la pazienza, non assume mai la dignità di categoria della politica, restando confinata nel recinto delle cose che si dicono per intendere il contrario. A Marghera no. L’abbiamo tutti voluta usare, la fiducia, in dosi massicce, come precondizione per poterci parlare, di nuovo o per la prima volta. È l’intelligenza collettiva che ci dice di fare così. La situazione che stiamo vivendo impone di mettersi sul serio a costruire una storia nuova, e se non ne sentiamo l’urgenza, o se pensiamo che per farlo basti allargare le nostre biografie di partenza, allora non c’è nulla da fare: non incontreremo mai nessuno in mezzo alla folla, e continueremo a chiederci perché la gente non capisce e le cose non cambino mai. Abbiamo, dopo Marghera, iniziato un percorso di accumulo che deve diventare amplissimo: sensazioni, contatti, scambi, confronti, questioni, obiettivi, linguaggi. Tutto ciò che concorre a costruire un sentire condiviso dove il rapporto tra singolarità e collettivo sia non solo possibile, ma visibile. Come diavolo dovrebbe fare ad esserlo? Non c’è solo il rifiuto condiviso della privatizzazione, ma anche un’evoluzione che arricchisce il concetto di pubblico: il discorso che abbiamo cominciato è immediatamente rivolto dentro di noi, alla soggettività che contribuisce a formarlo, e fuori di noi, a una società intera.
Ha l’ambizione di essere una proposta di alternativa. A Marchionne e alla Gelmini, alla privatizzazione dell’acqua e al nucleare. Alle ingiustizie che costruiscono, tragedia dopo tragedia, la crisi e la rendono, nel suo incedere senza uscita, insopportabile. Ma anche un’alternativa a noi stessi, a come abbiamo fatto e pensato fino ad ora, a come abbiamo subito e ci siamo arresi. Sta in questo il grande interrogativo che ci siamo posti sulla democrazia, che ha attraversato ogni riflessione, ogni dibattito. E sulla politica, che come la crisi, pretenderebbe di risolvere i problemi riproponendo i meccanismi che li hanno generati, invece che tentare di superarli.
La pratica di un comune sociale che vive dentro le modificazioni epocali del lavoro, del suo divenire vita messa al lavoro, del suo essere espropriato di ogni diritto e ogni garanzia, e che vuole definire un comune politico capace di dire di no come a Mirafiori e di dire di sì come per l’acqua bene comune, di tracciare degli obiettivi che disegnino la traiettoria di un’alternativa al capitalismo della crisi e dello sfruttamento, è anche, un’alternativa al modo di rapportarci con la rappresentanza e la sua crisi. Senza delegare niente a nessuno, semplicemente perché la posta in gioco è più alta e più seria. La crisi di questo paese, la delegittimazione delle istituzioni, la crisi della politica, devono diventare l’occasione, anche qui, per costruire una nuova storia, dove il protagonismo sociale delle lotte non sia affidato a chi lo dilapida in cose già viste e già sconfitte.
Ci siamo lasciati con appuntamenti importanti: primo fra tutti il 28 gennaio, a fianco della Fiom. Non diamo per scontato che tutto sia semplice, e inventiamoci, ognuno e tutti insieme, come far sì che ogni piazza, ogni presenza a sostegno di questa battaglia, diventi anche un contributo alla costruzione di un percorso includente. Per far questo ci vuole l’umiltà di chi non ha nulla da insegnare e molto da offrire, di chi ha chiaro che parlare e farsi capire da decine di migliaia di persone in carne e ossa, non è la stessa cosa che discutere tra amici di vecchia data. Ma siamo certi che con questo atteggiamento, anche le fabbriche diverranno luoghi dove gli studenti andranno a fare assemblee, e all’università i delegati operai non saranno come gli ospiti stranieri.
Siamo convinti che di riconversione produttiva in senso ecologico cominceremo a parlare con chi lavora dentro le industrie che inquinano, come di mobilità sostenibile con gli operai dell’auto. Ma niente è facile o già fatto, e tutto dipende da noi, sia che siamo dentro la Fiom o in un centro sociale, sia che militiamo in un’associazione ambientalista o contro il razzismo. Ecco, Marghera è già passata, non abbiamo tempo. Il film riprende e nessuno ha ancora visto il finale. Dovremo scriverlo insieme.
MARGHERA
Il 28 gennaio inizia il viaggio contro la crisi
di Loris Campetti
La cosa più grave di questa stagione non è tanto la crisi globale, di sistema, quanto piuttosto la ricetta scelta dai poteri forti mondiali e dai governi per uscirne fuori. I criteri, e le persone fisiche che guidano il processo di redistribuzione dei poteri, delle regole e della ricchezza sono gli stessi, neoliberisti, che l’hanno provocata. C’è un solo pensiero – per semplicità lo chiamiamo pensiero unico – dietro l’operazione autoritaria che cancella i diritti sociali, del lavoro e di cittadinanza e al tempo stesso riprone un modello di sviluppo energivoro diventato incompatibile con l’ambiente e con la democrazia. Un modello che inquina il territorio (fino a militarizzarlo con il nucleare, a cementificarlo con Tav e ponti improbali, ad armarlo con le basi americane) e l’ambiente con il suo percolato di veleni e di mafie.
Se fosse così, e se la percezione di questo disastro fosse diffusa, sarebbe normale che alla preparazione e alla realizzazione di uno sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici a cui si vuole cancellare dignità e soggettività, partecipassero tutti i soggetti e le figure sociali colpite dalla crisi e schiaffeggiate dalle ricette autoritarie neoliberiste. Qualcosa di simile sta realmente avvenendo intorno all’appuntamento di venerdì della Fiom. Ma non è normale bensì straordinario, quasi rivoluzionario, che la Fiom partecipi alle assemblee nelle università con studenti e precari, o che indìca manifestazioni insieme ai comitati che si battono contro le discariche, o propongono diversi consumi, diversa mobilità e la salvaguardia dei beni comuni. Altrettanto straordinario è che una città, Torino o almeno la sua parte migliore, torni in sintonia con i suoi operai e prepari in grande il ringraziamento ai carrozzieri di Mirafiori che con i loro no – e persino con molti sì costretti – hanno difeso la dignità di tutti dai diktat di Marchionne. O che gli studenti romani della Sapienza si organizzino per andare a Cassino a manifestare insieme agli operai della Fiat in sciopero, o quelli partenopei a Pomigliano, o quelli siciliani a Termini Imerese. È straordinario che in tanti centri sociali, da Jesi a Palermo al Nordest, si riuniscano in affollatissime assemblee le vittime della crisi per far crescere la partecipazione alle manifestazioni della Fiom in ogni regione italiana, in ogni luogo della crisi produttiva o democratica.
Certo, non è la prima volta che gli studenti vanno a volantinare davanti alle fabbriche, o che gli operai e i sindacalisti intervengono nelle scuole e nelle università. Ma è la prima volta che questo avviene non per pura solidarietà, sentimento peraltro nobile e da valorizzare come ha precisato Maurizio Landini a Marghera, ma per condizione sociale. La distruzione del lavoro, dei diritti, del sapere, della cultura, della libera informazione, la precarizzazione di massa che impedisce a più di una generazione ormai di progettare il proprio futuro, se da un lato tenta di scatenare una guerra tra poveri, tra generi, tra lavoratori dei nord e dei sud dei mondo, dall’altro lato rende più simili figure diverse colpite allo stesso modo.
Questo piccolo miracolo sostenuto dall’esperienza di Uniti contro la crisi è solo l’inizio di un cammino che potrebbe essere lungo, sicuramente difficile e contraddittorio. A renderlo difficile è il suo pregio: non punta sulla sommatoria di culture esperienze e sigle diverse, non è l’ennesimo, stucchevole intergruppi. Come dicono oggi sul «manifesto» le due persone che più hanno lavorato alla costruzione di questo «caravanserraglio» (luogo di accoglienza di chi migra e dunque cammina), bisogna costruire una cultura, dei linguaggi e delle pratiche nuove comuni. Buon viaggio e buon 28 gennaio.
FRONTE DEL PORTO
Ora Marghera progetta futuro
di Rocco Di Michele
Il «modello Marchionne» mette in movimento anticorpi sociali imprevisti. Prende il via un percorso di unificazione delle lotte: metalmeccanici, centri sociali, No Tav, No dal Molin, precari, ambientalisti… Perché i beni sono «comuni»
Tirare le somme del meeting di Marghera può esser semplice o difficilissimo. Nel primo caso si rischia di perdere il dettaglio, nel secondo il dato unitario. Fortissimo.
Mettere insieme i metalmeccanici della Fiom, i centri sociali, gli abitanti de L’Aquila, i No Dal Molin, i No Tav, gli ambientalisti di lungo corso e i «guerrieri di Chiaiano», era una scommessa quasi azzardata. Ma un passo deciso in avanti, sulla strada del «conoscersi reciprocamente» – anche lasciandosi alle spalle pezzi di «identità», evidentemente non decisivi – è stato fatto. Due giorni di discussione hanno messo in primo piano i molti «no» che ogni soggetto sociale aveva pronunciato nella sua lotta, ricavandone però il senso di diversi «sì» che ora diventano quasi dei punti di programma.
Partendo per forza di cose dalla Fiat e dal «modello Mirafiori», tutti hanno capito che prima di poter dire qualcosa in positivo bisogna opporsi a un modello di produzione che cerca di imporsi come modello di società, di stampo apertamente autoritario. Quel «no», insomma, è «costituente». Detto in altro modo, sulla linea di demarcazione tracciata da Marchionne non c’è spazio per gli equilibrismi: si accetta in blocco o la si rifiuta. «Chi sta con lui è contro di noi», ormai è senso comune.
Quasi l’intera politica italiana non ha perciò più nulla da dire a questo popolo che fa i conti ogni giorno con la crisi: «il nostro è un percorso che non delega più nulla alla politica, vogliamo costruire un’alternativa sociale». E un progetto che sappia fare i conti con la realtà brutale di fronte a tutti. «La risposta del capitale alla crisi è un grande rilancio dello stesso modello che ha portato alla crisi», sintetizza Gianni Rinaldini. Una strada che prevede aumento della disoccupazione e – non è un paradosso – aumento dei carichi di lavoro per chi conserva il posto; generalizzazione della precarietà (a livello europeo, «non è diverso da quel che succede nell’Italia di Berlusconi»), superamento dei diritti universali con operazioni corporative (gli asili o la sanità aziendale, il collocamento privato, scuola e università a misura d’azienda, enti bilaterali impresa-sindacato che gestiscono forme di welfare). Un incubo.
Proprio sul welfare la discussione è stata complessa. Tutti d’accordo che occorre avere l’obiettivo del «reddito di cittadinanza», ma «attenti a dire che va sostituito il welfare lavorista con uno tutto diverso, perché questo lo dicono anche Boeri e Ichino». Argomento direttamente connesso alla lotta alla precarietà e che implica una «politica fiscale», non agevole in un paese dove «i padroni» le tasse quasi non le pagano. Un esempio in positivo viene dall’Ilva di Taranto, dove gli operai «stabili» si sono battuti per l’assunzione degli interinali in scadenza.
Più semplice individuare i «sì» partendo dai «beni comuni», categoria che «ha fatto accendere una lampadina nel cervello di tutti noi». Beni che non sono «cose», tantomeno merci; ma ciò che viene individuato come tale nella «pratica» dei movimenti popolari. L’acqua, certamente, su cui ci sarà necessità di organizzare la partecipazione al referendum «accompagnando la gente a votare». Ma anche il ciclo di rifiuti, che ha scosso un Mezzogiorno dalla «subalternità», senza però innescare derive «leghiste» all’incontrario. Beni che hanno e favoriscono un «linguaggio comune», permettendo di aggregare un mare di iniziative altrimenti diverse, ma che bisogna sapere spiegare in modo comprensibile «alla zia Titina». Beni che sfuggono alla trappola della «legalità formale» (a là Repubblica, insomma), «troppo spesso complice del saccheggio» delle risorse o dell’ambiente. Beni che spingono alla partecipazione perché disegna un modello decentrato, mentre – col nucleare, per esempio – il potere cerca la centralizzazione e la militarizzazione.
La formula non è nuova («agire locale, pensare globale»); è nuova la concretezza con cui viene messa in pratica. Dai beni comuni a «contro la proprietà privata» il passo è davvero breve, e si incarna in due nodi: «giustizia sostanziale» e «democrazia». Ma siccome le idee camminano sulle gambe degli uomini, le «organizzazioni politiche ed istituzionali» di questo percorso sono necessariamente diverse da sindacati e partiti per come li abbiamo conosciuti finora.
Le «cose da fare» sono un collante e un discrimine. C’è ovviamente la partecipazione allo sciopero dei metalmeccanici questo venerdì (giovedì per l’Emilia Romagna). Subito dopo la battaglia referendaria sull’acqua, una legge di iniziativa popolare per L’Aquila; e poi un momento specifico per affrontare i problemi dei migranti, l’idea di un seminario internazionale («euro-mediterraneo, visto quel che che sta montando qui vicino a noi»). Con l’orizzonte a Genova, in luglio, quando in tre diverse giornate – 22, 23 e 24 – «oltre alle manifestazioni, dovremo organizzare altri momenti di approfondimento come questo». Insieme ai tanti altri soggetti che, nel 2001, avevano dato vita a una stagione intensa ma purtroppo breve. Stavolta, però, per costruire una continuità ambiziosa: verso un nuovo modello di sviluppo sociale.
http://eddyburg.it/article/articleview/16515/0/385/
—
La rassegna stampa di Caffè Europa, di Ada Pagliarulo e Paolo Martini del 26.01.2011
Le aperture
Il Corriere della Sera: “Pdl e Lega all’attacco di Fini”. “Caso Ruby, tutte le testimonianze. Tensione alla Camera. ‘Ora discutere il suo ruolo’. E la Farnesina invia ai Pm le carte sulla casa di Montecarlo”. In prima anche le notizie sulle proteste in Egitto: “Basta Mubarak”. “Scontri e morti nelle vie del Cairo”. “La protesta più imponente da trent’anni”. A centro pagina la notizia su Mike Bongiorno: “Rubata la salma di Mike”. A fondo pagina il richiamo ad una intervista al dissidente russo Mikhail Khodorkovskij: “Io uscirò dalle prigioni di Putin”. L’editoriale è firmato da Dario Di Vico e parla di federalismo fiscale: “Federalismo con più tasse? I dubbi su Ici e Irpef”.
La Repubblica: “Berlusconi: la mia verità su Ruby”. “Alla Camera le carte della difesa: pm incompetenti. Pdl e Lega: Fini deve lasciare”. “Ventinove testimoni, una sola tesi. ‘Ad Arcore cene normali, mai sesso’. Battaglia in giunta. L’opposizione sull’attacco a Lerner: superato ogni limite”: A centro pagina: “In Egitto esplode la rivolta anti-Mubarak, 4 morti”. Di spalla l’economia: “Allarme FMI: ‘La ripresa più debole è in Italia”. A fondo pagina il “rapimento” della salma di Bongiorno con commento di Michele Serra: “Quel vecchio rimasto bambino”.
La Stampa: “Pdl-Lega, riparte l’assedio a Fini. Oggi il voto su Bondi, per il ministro fiducia vicina”. “La maggioranza: discussione alla Camera sul ruolo ‘anomalo’ del leader Fli”. In alto le notizie dall’Egitto: “La giornata della collera: dopo la Tunisia le manifestazioni contro i governi coinvolgono tutto il Medio Oriente”. “Egitto e Libano, la rabbia incendia la piazza”. A centro pagina: “Allarme dell’FMI: ‘Ripresa incerta. Il mondo va, l’Italia rallenta. Napolitano: fare di più”.
Libero: “Caro Fini, fai le valigie. La casa di Montecarlo è del cognato. Si sapeva già, ma ora da Santa Lucia sono arrivate nuove carte che inchiodano l’ex leader An alla sua promessa: ‘Se Tulliani è il proprietario, lascio la Camera”.
Il Giornale: “Fini nei guai giudiziari. Confermato l’arrivo di nuove clamorose prove: il presidente della Camera ha mentito. Le carte in Procura. Il pdl chiede le sue dimissioni, ma lui vieta il dibattito in Aula. E pensare che aveva promesso di andarsene”. In prima pagina anche una foto di Nichi Vendola, ad un gay pride: “Ma quest’uomo può mettersi a fare la morale?”, il titolo.
Il Riformista: “Spudoratamente. Nuova offensiva berlusconiana per riscrivere e occultare il caso Ruby. La riapertura del dossier Montecarlo anticipa l’assalto finale a Fini. Ghedini suggerisce una nuova versione dei gatti. Signorini intervista un cugino prete. Muro contro muro sulla sfiducia a Bondi: oggi il voto”. A centro pagina: “Il contagio tunisino fa un morto in Egitto. 25 mila giovani scendono in piaza contro Mubarak”.
L’Unità, con foto di Berlusconi: “L’uomo che scambiò l’Italia per un bordello. Piange al telefono: è in crisi di nervi. Può guidare il Paese?”.
Il Fatto quotidiano: “Premier sotto ricatto, governo inetto. Tenersi buona la testimone chiave Minetti: ecco il perché della piazzata di B. contro Lerner. Lui difende l’indifendibile ma l’Italia è alla paralisi”. “Altro che puttanaio: nella memoria difensiva le serate di Arcore diventano ‘Il ballo delle debuttanti’. Mentre Mora e Ruby si contraddicono”. A centro pagina: “E Masi prepara la guerriglia per far saltare AnnoZero. Il pubblico verà selezionato dai direttore di rete. Basterà qualche guastatore per mettere in crisi i talk show critici con il governo”:
Il Sole 24 Ore: “Tutti in coda per il bond Ue. Emissione da 5 miliardi e domande nove volte l’offerta, con boom di richieste dagli investitori asiatici. L’economia britannica torna in recessione, cade la sterlina”. A centro pagina: “Dopo la Tunisia ora rivolta anti Mubarak, vittime al Cairo e Suez”. In evidenza una foto dalle proteste egiziane: un manifestante brandisce un cartello sui cui sta scritto: “Mubarak dégage”, rievocando così gli slogan della piazza tunisina, che invocavano l’uscita di scena dell’ex presidente Ben Ali.
Il Foglio: “Al Cairo la piazza cerca un’alternativa al regime dinastico dei Mubarak. Migliaia di giovani contro le forze dell’ordine. Un poliziotto e due manifestanti uccisi, seicento arresti. L’opposizione che non c’è”. Di spalla. “Così Confindustria cerca di far rientrare la Fiom nelle fabbriche. Angeletti (Uil) esorta Federmeccanica a disdire l’accordo del 93. Il contratto auto intralcia le intese aziendali”.
Egitto, Tunisia, Libano
La Stampa offre una corrispondenza dal Cairo che racconta la manifestrazione di ieri al Cairo. “La profezia di coloro che avveano prenosticato che il vento tunisino non avrebbe sfiorato l’Egito, ‘perché è una realtà diversa’, ieri è stata smentita dalla piazza”.
La Repubblica ha come inviato in Egitto Bernardo Valli che spiega come quella che è stata denominata “la giornata della collera” ieri è nata come protesta contro il rincaro dei prezzi ma contiene anche una richiesta di democrazia. Si è estesa a tutto il Paese: il Cairo è stato l’epicentro, con scontri intorno alla Corte Suprema, intorno al Parlamento e in numerosi quartieri popolari inaccessibili ai cronisti. Ma la collera si è estesa al resto del Paese, da Alessandria ad Assuan, da Asyut (nel sud) a Ismaylia, sul Canale di Suez, e persino nel nord del Sinai. Gli internati hanno diffuso in diretta le immagini della manifestazione: più di novantamila persone avevano sottoscritto su Facebook il documento in cui si legge che “la Tunisia è una soluzione” e che “Mubarak se ne deve andare”. Ma le autorità hanno bloccato cellulari, Twitter e Facebook.
“Un’altra protesta partita da Facebook”, scrive Il Sole 24 Ore, spiegando però come l’Egitto non sia la Tunisia: è un Paese di oltre 80 milioni di abitanti (10 in Tunisia) ed è il Paese chiave di tutta l’area mediorientale, oltre che uno dei migliori alleati degli Usa. Ieri Hillary Clinton, peraltro, ha immediatamente ribadito il sostegno Usa a Mubarak, precisando però che “sta cercando soluzioni per rispondere alle legittime necessità della popolazione”. Mubarak è al potere da quasi trent’anni, e potrebbe ripresentarsi alle elezioni del prossimo autunno. O potrebbe candidare suo figlio Gamal. L’ex direttore dell’Agenzia per l’energia atomica Baradei, che aveva ipotizzato una sua candidatura, ha benedetto le manifestazioni invitando su Facebook a “manifestare contro la repressione”. I Fratelli musulmani invece, al momento, si stanno tenendo in disparte.
Sul Corriere della Sera si scrive che in Egitto è scesa in piazza una folla di oltre 30 mila persone, e che se dovesse sfaldarsi il potere egiziano si andrebbe incontro a una vera catastrofe, sia per il Paese, che è il più importante del mondo arabo, sia per l’intera regione. Si sottolinea poi la grandissima popolarità acquisita in questi mesi da El Baradei. E si sottolinea che le manifestazioni più dure si sono svolte ad Alessandria, teatro dell’attentato contro i copti della notte di Capodanno: ed il paradosso è che mentre i Fratelli Musulmani, al Cairo, apparivano defilati, ad Alessandria erano in prima fila. Il Corriere della Sera continua peraltro ad avere un inviato in Tunisia, dove la tensione rimane alta e ieri due disoccupati si sono dati fuoco. Oggi verrà annunciato un rimpasto ministeriale per sostituire i cinque membri dimissionari. E pare che altri uomini simbolo dell’era Ben Ali, come l’attuale ministro degli esteri, siano pronti a lasciare.
Ricostruisce come si è arrivati alla crisi in Libano un retroscena de La Stampa, dove si spiega come lo schieramento filo-occidentale e filo-saudita dell’ex premier sunnita Hariri e il fronte dell’8 marzo, composto da Hezbollah e sostenuto da Siria e Iran, si siano scontrati sulla questione del Tribunale Onu che indaga sull’omicidio di Hariri. Dopo le dimissioni dei ministri di Hezbollah dal governo di unità nazionale, è stata cruciale la decisione del leader druso Jumblatt di passare al fronte dell’8 marzo “in nome dell’interesse nazionale”. Hezbollah ha puntato sul magnate delle comunicazioni Najib Miqati, un tempo alleato del premier Hariri. Così è accaduto che il fronte anti-Hezbollah si è ritrovato in piazza, per le giornate della rabbia. Sullo stesso quotidiano, una intervista allo stesso tycoon neopremier, Miqati: si spiega che deve parte delal sua fortuna economica alla famiglia Assad, al potere in Siria. All’accusa di essere il candidato di Hezbollah, risponde che “non ha senso dire che sono ‘un candidato di Hezbollah’ o della coalizione dell’otto marzo guidata dal movimento sciita. Loro mi hanno sostenuto e hanno fatto il mio nome, ma la candidatura è venuta dal profondo del mio cuore. Mi è stato chiesto di salvare il Paese e mi sono fatto trovare pronto. Nega di essere condizionato dalla Siria e nega anche di aver trattato la sua candidatura in cambio di un qualche affossamento del Tribunale Onu: “Non ho dovuto accettare nessuna precondizione, tanto meno in merito al tribunale internazionale”.
Il Sole 24 Ore dice che quando il leader di Hezbollah dice che non sarà la sua formazione a guidare il prossimo governo (“Miqati non è dei nostri”) ci si ritrova a metà tra una verità e una bugia: Miqati non è in senso stretto uomo di Hezbollah, eppure, mai come ora, questa formazione è stata tanto potente in Libano. Non ci sarà alcuna islamizzazione del Libano, ma semplicemente Hezbollah continuerà più di prima a perseguire la sua agenda di Stato nello Stato, con un potere militare più forte dello stesso Stato libanese, restando un avamposto iraniano a cinque minuti di missile da Tel Aviv, nel caso Israele e Usa decidessero di bombardare l’Iran, oltre a rappresentare una minaccia rivoluzionaria per tutti i regimi arabi moderati.
Obama
Scrive La Stampa che Barack Obama “tende la mano ai repubblicani offendogli di costruire ‘assieme il futuro dell’America’, risanando le finanze pubbliche e per dimostrare che fa sul serio propone il conggemaneto della spesa per cinque anni”. Parlando davanti al Congresso in sessione congiunta, il Presidente Usa ha pronunciato il suo discorso sullo stato dell’Unione incentrandolo sull’economia e sulla determinazione a raggiungere accordi bipartisan. “Le leggi passeranno solo con il sì di ambo i partiti, andremo avanti insieme o non lo faremo affatto”.
Il Sole 24 Ore offre il parere di Paul Ryan, “figura emergente”, repubblicano, è il deputato che presiede la Commissione bilancio della Camera ed è autore di un “piano radicale di riduzione del disavanzo”. “Spiacenti ma non basta. Si può riassumere così il messaggio che il partito repubblicano ha trasmesso martedì sera al presidente e al paese nell’intervento televisivo di risposta al discorso sullo stato dell’Unione”. “Non bastano vaghe intenzioni, occorre un duro intervento di tagli al budget federale. E, soprattutto, niente più piani di spesa spacciati per stimoli economici. L’unico strumento di manovra che potrà rilanciare l’economia e quindi l’occupazione è l’accetta”.
Su Obama da segnalare sullo stesso quotidiano un commento di Christian Rocca: “Obama 2.0 torna alle origini. La svolta moderata si confronti con i moti democratici in Nordafrica”.
Russia, Ungheria
La Repubblica torna ad occuparsi di Ungheria, e del dissenso esploso nelle piazze contro la legge sui media del primo ministro conservatore Viktor Orban. Cresce l’allarme anche tra gli intellettuali per gli Istituti culturali a rischio di epurazione. Secondo la Repubblica sarebbero a rischio anche le istituzioni indipendenti come quelli sulla storia della rivoluzione del 1956. Il direttore del prestigioso teatro nazionale Alfoeldi pare sia stato licenziato su due piedi ed insultato come traditore ebreo ed omosessuale. Pare fosse contestata la sua decisione di concedere in uso il teatro nazionale ad un party diplomatico per la festa nazionale romena. Una colpa che i nazionalisti magiari non gli avrebbero perdonato. Sulla stessa pagina una lettera-appello dei due filosofi Habermas e Nida-Rumelin che compare sotto il titolo: “La UE intervenga, il dissenso è represso come avviene in Cina”.
Il Corriere della Sera intervista l’ex patron di Yukos, Khodorkhovskji che, alla domanda perché crede che continuino a tenerla in carcere, risponde: “Forse Putin sa meglio di noi quanto sia debole in realtà il suo potere. E cosa potrebbe rappresentare una spinta sufficiente per farlo cadere. O forse è semplicemente il fatto che i funzionari che si sono riempiti le tasche con il saccheggio della Yukos sono veramente bravi a manipolarlo”. Mostra un qualche ottimismo sul nuovo presidente Medvedev, dal quale si ha il diritto di attendersi di più, e tuttavia dice: “Possiamo credere ai suoi desideri, non alle sue promesse”. La faranno mai uscire dalla prigione? “Sì, credo che mi rilasceranno, come credo nel futuro democratico del mio Paese”.
E poi
Su La Repubblica, alle pagine R2 Cultura, l’anticipazione del testo del sociologo polacco Zygmunt Bauman sulla “formazione delle identità nel mondo contemporaneo”, dove l’io riconfigura il resto del mondo come propria periferia.
Sul Corriere della Sera un articolo di Guido Ceronetti dedicato al dibatttio in Francia su Céline e la scelta di eliminarlo dal calendario delle celebrazioni per il 2011. “Ma io, filosemita, celebro Céline. La Francia sbaglia a cancellare l’omaggio, era l’occasione per analizzarlo'”.
La rubrica de la Jena su La Stampa, oggi: “Guai seri anche per lo zio di Ruby”.
—
«Un’onda dal basso scuote il mondo arabo»
Fonte: Geraldina Colotti – il manifesto | 26 Gennaio 2011
INTERVISTA Gilbert Achcar, politologo
«Il regime di Mubarak ha fatto l’errore di credere che chiudendo la valvola di sicurezza potesse controllare la marmitta, e così ha provocato un’esplosione», dice al manifesto l’analista politico libanese Gilbert Achcar con cui abbiamo discusso dei fermenti politici nel mondo arabo.
Proteste di piazza, scontri. L’Egitto come la Tunisia?
In Tunisia il movimento ha preso forma in modo spontaneo, la protesta si è estesa a macchia d’olio dopo il suicidio del giovane ambulante di Sidi Bouzid. In Egitto, la situazione è diversa. Le manifestazioni sono state organizzate da un’opposizione politica che sta conducendo una campagna forte contro il regime e quella che viene chiamata «la trasmissione ereditaria del potere»: ovvero l’intenzione, di Mubarak di passare al figlio la direzione del paese. Le elezioni del novembre-dicembre scorso hanno spinto la farsa un po’ più oltre, mostrando un contrasto stridente rispetto a quelle – comunque taroccate – del 2005. Allora, Bush faceva pressione sugli alleati arabi affinché adottassero una parvenza di democrazia. Il regime egiziano permise alla principale forza di opposizione, i Fratelli musulmani, di fare eleggere 88 deputati. Elezioni davvero libere avrebbero consentito agli islamisti di mostrare una forza elettorale ben più grande, magari vincerle come in Algeria nei primi anni ’90. Ma quell’apertura controllata mostrò comunque agli Usa, come voleva Mubarak, che l’alternativa era tra lui o i Fratelli musulmani. Washington si convinse che stava giocando col fuoco e che era meglio tornasse alla solita politica: meglio regimi autoritari alleati a situazioni incontrollabili. Mubarak ha organizzato le elezioni come prima del 2005: completamente truccate. I Fratelli musulmani sono passati da 88 deputati a uno solo. Inoltre, a partire da 2006-2009 l’Egitto ha conosciuto la più grande ondata di scioperi operai della sua recente storia. Una considerevole ondata iniziata nel 2006 che non è completamente morta e ha lasciato una forte tensione sociale nel paese. Mubarak ha fatto l’errore di credere che chiudendo la valvola di sicurezza potesse controllare la marmitta, e ha fatto esplodere le cose. A questo si aggiunge l’esempio tunisino che ha spinto la popolazione ad agire. Il regime è incerto: ha paura che finisca come in Tunisia e non vuole perdere il controllo.
Com’è composta l’opposizione?
In primo luogo dai Fratelli musulmani. Ci sono poi forze d’opposizione liberali che hanno come figura centrale l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia Mohammed El Baradey. Mubarak non gli ha permesso di lanciarsi nella competizione elettorale perché questo avrebbe voluto dire modificare le regole elettorali che ora consentono al regime di controllare completamente chi può presentarsi alla presidenza. Fra i suoi sostenitori, El Baradey ha anche molti nazionalisti di sinistra che vedono in lui l’alternativa non religiosa più credibile. Alle elezioni presidenziali avrebbe buone possibilità, perché è molto noto.C’è anche un’estrema sinistra, che va dai comunisti a un’ala più radicale, ai resti del nasserismo, ma ha poco peso. C’è poi una nuova sinistra che è comparsa questi ultimi anni in rapporto alle lotte in corso ma che resta a livello embrionale. Per la prima volta nella storia post nasseriana si è anche avuta l’apparizione di sindacati indipendenti. I movimenti sociali, però, non hanno ancora trovato un’espressione politica forte. Se si creasse un punto di congiunzione fra la protesta sociale e una vera opposizione politica, si potrebbe determinare un cambiamento alla tunisina, ma per il momento le cose non sembrano a questo punto.
Chi sostiene Mubarak?
Fin dal colpo di stato del 1952, è l’esercito il vero centro del potere in Egitto, anche Mubarak viene dall’esercito. Non così il figlio, che anche per questo non è credibile. Per ora l’esercito si mantiene prudente, ma se la protesta popolare dovesse aumentare, potrebbe abbandonare Mubarak. O comunque indurlo a lasciar perdere «la trasmissione ereditaria». Dall’Egitto allo Yemen, dalla Tunisia alla Giordania e all’Algeria sale dal basso un’onda di protesta che riapre comunque una speranza.
—
http://www.emilianobrancaccio.it
Su la testa, n. 11/12 – gennaio 2011
Per una critica del “liberoscambismo” di sinistra
di Emiliano Brancaccio
La straordinaria prova di resistenza degli operai FIAT va sostenuta con iniziative politiche. Occorre incunearsi nello scontro interno agli assetti del capitale, tra liberoscambisti e protezionisti. Se non si mette in discussione l’indiscriminata apertura globale dei mercati, se non si pongono argini alle fughe di capitale e alle delocalizzazioni industriali, la “guerra mondiale tra lavoratori” proseguirà indisturbata e ben difficilmente verranno a crearsi le condizioni per un rilancio del movimento operaio, nazionale e internazionale.
Le straordinarie prove di resistenza operaia in occasione dei referendum di Pomigliano e di Mirafiori hanno determinato una inattesa battuta d’arresto per Marchionne e per coloro i quali stanno scommettendo sulla cancellazione definitiva degli ultimi scampoli di movimento operaio esistenti nel nostro paese. Per il futuro tuttavia non c’è da illudersi. Nel tempo della crisi e in condizioni di piena apertura dei mercati e di libera circolazione dei capitali, le pressioni sui lavoratori sono destinate ad aumentare. Pensare quindi di respingere gli attacchi prossimi venturi affidandosi ancora una volta al solo coraggio operaio e alle connesse iniziative sindacali, è del tutto illusorio.
Il punto da comprendere è che più intensamente di altri fattori la globalizzazione dei mercati sta abbattendo la forza rivendicativa, politica e sindacale, dei lavoratori. Numerosi studi del Fondo Monetario Internazionale, dell’OCSE, della Commissione Europea, segnalano da tempo l’esistenza di una correlazione tra l’apertura dei vari paesi ai movimenti internazionali di capitali, di merci e in parte anche di persone, e il corrispondente declino degli indici di protezione dei lavoratori, della quota salari sul reddito nazionale e dei livelli di protezione sociale. I dati segnalano che la globalizzazione dei mercati indebolisce i lavoratori in tutte le fasi del ciclo capitalistico, sia nel boom che nella recessione. Tuttavia, quando si attraversa una crisi, la piena apertura dei mercati può condurre a una vera capitolazione delle rappresentanze del lavoro e a un conseguente, precipitoso declino delle tutele normative e sindacali e della quota di prodotto sociale destinato ai lavoratori.
Queste statistiche non fanno che confermare quel che già si evince dalla cronaca quotidiana. Il caso FIAT è emblematico in tal senso. In tutti questi mesi Marchionne ha insistito sul fatto che può ottenere a Detroit o in Serbia un valore del prodotto per ora di lavoro decisamente maggiore rispetto ai più modesti rendimenti degli impianti di Pomigliano o di Mirafiori (il differenziale, si badi, è reale: esso non dipende dal grado di utilizzo della capacità ma al contrario lo determina). Per questo motivo egli si è detto pronto a spostare le unità produttive all’estero a meno che in Italia non si affermi un nuovo modello di relazioni industriali, fondato sul recesso dai contratti nazionali, sulla eliminazione delle ultime sacche di resistenza sindacale e sulla conseguente possibilità di imprimere un’accelerazione al prodotto per unità di lavoro. Naturalmente Marchionne non è il solo ad adottare questa strategia. La minaccia continua delle delocalizzazioni è un elemento costitutivo dell’attuale regime di accumulazione del capitale. Essa non a caso scuote le relazioni industriali in moltissimi paesi. La libertà di spostamento dei capitali oltretutto non agisce solo sui salari diretti o sulle condizioni di lavoro, ma anche sul welfare. Basti pensare agli effetti dell’apertura dei mercati sulla concorrenza fiscale tra paesi, e sulla conseguente crisi di finanziamento dello stato sociale. Questo tipo di concorrenza non viene praticata dai soli paradisi fiscali. Molti paesi ricchi la sostengono apertamente: per evitare le fughe di capitale all’estero si elargiscono sussidi alle imprese e sgravi ai possessori di ingenti ricchezze, e si recupera poi tramite i consueti tagli agli investimenti pubblici e alla spesa sociale.
I dati ci dicono insomma che siamo al cospetto di un dumping salariale e fiscale senza limiti, che da tempo alimenta una guerra mondiale tra lavoratori e che ha trovato nella crisi uno spaventoso fattore di accelerazione. E’ bene chiarire che si tratta di un dumping trasversale, che mette in competizione gli stessi paesi avanzati tra loro e che non può essere sintetizzato nella sola corsa al ribasso tra lavoratori dei paesi ricchi e lavoratori dei paesi poveri. Il caso tedesco è in questo senso emblematico. La minaccia di trasferire interi spezzoni di produzione all’estero ha contribuito a rendere la Germania un motore del dumping salariale europeo, con un divario tra produttività del lavoro e retribuzioni tra i più alti del mondo. Ma anche dagli Stati Uniti emergono oggi chiari segnali di compressione salariale e di eliminazione delle già risibili tutele del lavoro esistenti. Basti ricordare che i sussidi del governo federale americano e l’abbattimento del costo del lavoro in Chrysler hanno fortemente contribuito allo spostamento dell’asse strategico di FIAT verso gli Stati Uniti. Tutto ciò sta ad indicare che il dumping salariale e fiscale può partire anche dai paesi più avanzati del mondo.
Di fronte a tali evidenze è curioso che soltanto il movimento di Seattle, pur tra mille contraddizioni e ingenuità, si sia posto in questi anni il problema di trarre un abbozzo di critica della globalizzazione. Al contrario tra gli eredi della tradizione del movimento operaio sembra prevalere da tempo una sorta di liberoscambismo acritico, talvolta addirittura apologetico. Dopo il crollo dell’URSS questa posizione ha caratterizzato in Europa soprattutto i socialisti, ma ha pure interessato frange della sinistra alternativa, delle aree di movimento e degli stessi partiti comunisti (in Italia la svolta liberoscambista avvenne anche prima, probabilmente in concomitanza con le conclusioni di Napolitano al convegno sul protezionismo ospitato nel 1976 da Rinascita). Le cause di questa sudditanza verso il dogma liberista della totale apertura dei mercati sono tante, di ordine sia teorico che pratico: da una lettura ingenua del Marx del 1848 alla incapacità di sottrarsi a un compromesso sempre più al ribasso con quel capitalismo finanziario che in questi anni ha più tenacemente sostenuto il paradigma del libero scambio. Non ho qui lo spazio per approfondire le determinanti di un simile orientamento. Mi limito a evidenziarne le conseguenze: oggigiorno troviamo esponenti della sinistra, persino della sinistra cosiddetta “radicale”, che in maniera ormai istintiva, preanalitica, etichettano il protezionismo e persino il controllo dei movimenti di capitale come politiche “nazionaliste”, “reazionarie” e “di destra”. Questi “comunisti liberoscambisti”, come talvolta provocatoriamente li ho definiti, alimentano un equivoco colossale che stiamo pagando carissimo, poiché esso ci sta impedendo di delineare un autonomo punto di vista del lavoro nello scontro interno agli assetti del capitale, tra fautori del protezionismo e difensori del libero scambio. Eppure si tratta di uno scontro che è pienamente in corso e che sta cambiando i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, come dimostrano i numeri: uno studio della Commissione Europea ha contato ben 332 nuove misure protezionistiche intraprese negli ultimi due anni un po’ in tutto il mondo tranne che in Europa, guarda caso! Questo conflitto durerà a lungo ed è destinato a mutare gli assetti della divisione internazionale del lavoro. Di ciò si sono accorti un po’ tutti: i movimenti neo-nazionalisti, così come le leghe. Al contrario i socialisti e i comunisti, e più in generale gli eredi delle tradizionali rappresentanze politiche e sindacali del lavoro, appaiono su questo tema silenti, estraniati dal dibattito. Basti notare, a questo riguardo, che mentre le destre prosperano da anni sulla spregiudicata disponibilità ad “arrestare gli immigrati”, mai nessuna voce a sinistra si è levata per proporre di “arrestare i capitali”, vale a dire per riprendere e aggiornare la politica di controllo dei movimenti internazionali di capitale largamente praticata nel corso del Novecento. Ma è forse ancora una volta la vicenda FIAT che appare più sintomatica della crisi delle sinistre al cospetto della globalizzazione. Alcuni intellettuali e politici hanno etichettato Marchionne come “cattivo manager”, che investe poco e punta solo ad abbattere il costo del lavoro. C’è del vero in queste accuse, ma bisogna rendersi conto che esse risultano del tutto insufficienti e per molti versi superficiali. In un certo senso potremmo considerarle simmetriche all’affrettato elogio del “capitalista buono” che gli veniva rivolto non moltissimo tempo fa. La verità è che Marchionne non è né buono né cattivo: egli è solo una equazione, è una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Finché gli sarà concesso, egli minaccerà sempre di effettuare investimenti lì dove le opportunità di sfruttamento del lavoro e i relativi profitti sono maggiori. Anzi, data la storica posizione di debolezza della FIAT nel risiko in atto da tempo all’interno del settore automobilistico, non c’è da meravigliarsi se la strategia di Marchionne sia così rozza e si scarichi in modo così brutale sulle condizioni dei lavoratori.
Il problema quindi non può risolversi semplicemente giudicando il manager, ma va posto in termini politici. Nel luglio 2010, quando Marchionne ha fatto della minaccia di delocalizzazione la sua arma “di ultima istanza” nel confronto che si accingeva ad aprire con il sindacato, Berlusconi lo ha repentinamente appoggiato sostenendo che «in una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione». E in prossimità del referendum di Mirafiori, Berlusconi ha aggiunto che se Marchionne non avesse ottenuto dai lavoratori la flessibilità che chiedeva, la FIAT avrebbe fatto bene a spostarsi in altri paesi. Ebbene, è sintomatico di una profonda debolezza strategica che in tanti abbiano manifestato indignazione e sconcerto per le parole del Premier ma nessuna forza politica abbia indicato una chiara alternativa alla sua netta presa di posizione. Nessuno, per esempio, ha affermato che “un gruppo industriale NON deve più esser lasciato libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”.
Tra l’altro, la questione dell’apertura dei mercati non attiene solo ai movimenti di capitale fisico e alla connessa localizzazione degli impianti industriali. Il problema è di ordine generale, e quindi riguarda tutti i tipi di movimenti di capitale, a partire da quelli finanziari. Questi, come è noto, hanno prodotto in varie circostanze veri e propri stravolgimenti nei rapporti di forza interni ai paesi che li subivano. L’Italia, in particolare, è stata più volte bersaglio delle fughe di capitale e in futuro rischia di esserlo nuovamente. Mi permetto a questo proposito di rivolgere una sommessa domanda a Bersani, Vendola, Diliberto, Ferrero, Camusso, Landini, e agli altri leader eredi più o meno diretti della tradizione del movimento operaio: se nei prossimi mesi dovesse partire un attacco speculativo contro i titoli italiani, quale sarebbe la proposta politica delle forze di sinistra? Si adeguerebbero alla prassi finora prevalente in Europa, basata su strette di bilancio, abbattimento ulteriore dei salari e dei diritti e massicce privatizzazioni in cambio di liquidità a breve? Accetterebbero in altri termini di subire passivamente gli effetti di una versione ancor più feroce della crisi valutaria del 1992?
O sarebbero piuttosto in grado di evidenziare che l’assetto rigidamente liberoscambista della Unione monetaria europea è palesemente insostenibile, e che dunque non si può restare al suo interno senza un profondo mutamento del medesimo? Spero che a questo interrogativo non si debba mai rispondere. Ma semmai venisse il tempo, sarebbe bene non trovarsi impreparati.
E’ possibile individuare una proposta che consenta di elaborare un autonomo punto di vista del lavoro nello scontro interno agli assetti del capitale, tra liberoscambisti e protezionisti? E’ ancora possibile colmare l’enorme ritardo delle sinistre di fronte alla possibilità di incunearsi nella crisi dei rapporti intercapitalistici globali? La Storia ci insegna che varie opzioni sono state praticate in passato e possono essere in ogni momento riprese, aggiornate e sviluppate nella direzione di una esplicita tutela degli interessi del lavoro: si possono elevare argini contro le fughe speculative di capitale e le delocalizzazioni industriali e si possono vincolare i movimenti internazionali di capitali e di merci al fatto che i vari paesi rispettino un comune “standard del lavoro”. Ma prima di approfondire le questioni tecniche occorre che maturi una consapevolezza politica: se non si sottopone a critica il “liberoscambismo di sinistra” di questi anni, se non si mette in discussione l’indiscriminata apertura globale dei mercati, la “guerra mondiale tra lavoratori” proseguirà indisturbata e ben difficilmente verranno a crearsi le condizioni per un rilancio del movimento operaio, nazionale e internazionale.
—
Pervenuto da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org il 21.01.2011
Cosa accomuna Università e CNR?
Cosa accomuna Università e CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche)?
Che la ricerca fondamentale non è più un bene pubblico, anzi non esiste più la ricerca fondamentale e non esiste più il bene pubblico.
Con l’ingresso sino al 40% di membri esterni nel Consiglio di amministrazione delle Università, manager di imprese o banche decideranno le linee di ricerca e le linee di sviluppo dell’Università.
Con l’approvazione del nuovo statuto, il Consiglio Nazionale delle
Ricerche (il più grande ente di ricerca italiano) parlerà la lingua del mercato attraverso la partecipazione a fondi di investimento, realizzazione di spin off industriali, creazione di società, fondazioni e consorzi con i privati.
Hanno deciso che l’università e il più grande ente di ricerca italiano devono abdicare al loro compito fondamentale, promuovere l’educazione scientifica di base e promuovere la scienza pura, per favorire la
finalizzazione tecnologica delle strutture produttive.
Hanno deciso che i pochi fondi pubblici dovranno sempre più rivolgere verso progetti di ricerca finalizzati, che il profitto derivante dalla ricerca applicata andrà a beneficio dell’industria privata, perchè l’industria moderna ha continue esigenze di innovazione, anzi, in alcuni settori l’innovazione stessa è divenuta prodotto.
L’università forgerà il tecnologo specializzato sottraendosi all’obbligo di formarle, di preparare la base strutturale dei giovani. Il CNR si orienterà su obiettivi con ritorni a tempo brevi, quasi scontati, che
lasceranno poche aperture all’inventiva autentica.
L’Italia, che già spendeva poco per l’intera ricerca di base, ha aggravato l’entusiasmo per la ricerca estremamente finalizzata, privilegiando la tecnologia e poco le conoscenze. Come se la tecnologia non nascesse sempre e soprattutto dalla conoscenza e non viceversa.
—
“C’è un Piano ancora attuale” 28.01.2011
Parla Licio Gelli: “Eravamo pronti ad attuarlo 20 anni fa. Con qualche modifica sarebbe utile anche oggi”
Per l’Italia la loggia P2 (e Licio Gelli) sono come ombre perenni, mai completamente illuminate dalla luce. L’ultimo, in ordine di tempo, a riaprire questo libro è stato Bruno Rozera, prefetto massone in pensione, parlando, tra l’altro, in un’intervista a L’Espresso, di un «livello superiore a Gelli». Ma da questi arriva una versione diversa, ovvero la citazione di una terza organizzazione («compagna» di P2 e Gladio) per l’attuazione del «Piano di rinascita democratica». Come si chiama questa «terza gamba»? «Mi dispiace, ma non ricordo, davvero… Eppoi la P2 è un capitolo chiuso, ormai». Così, mistero si aggiunge a mistero, nonostante il «Maestro Venerabile» della P2, prossimo ai 92 anni, intervistato a «Villa Wanda», sua residenza a Castiglion Fibocchi, piccolo paese della provincia di Arezzo, si schermisca: «Guardi, oramai dell’Italia mi interessa nulla… alla mia età, si figuri. Sono vecchio, ormai». Per poi aggiungere, sibillino: «Però se soltanto avessi venti anni di meno, rifarei il “Piano” e lo attuerei…».
Vede che si ritorna sempre lì? A un passato fatto di massoneria, loggia P2, “Piano di rinascita democratica”, accuse di eversione…
«Le ripeto, per me è un capitolo chiuso, la P2, chiuso in maniera definitiva. Ho addirittura donato tutti i miei documenti all’Archivio di Stato di Pistoia».
Avrà tenuto per sé i carteggi più «delicati», dica la verità…
«Assolutamente, non ho conservato nulla… perché avrei dovuto conservare ancora? Certo, se avessi avuto la sua età, probabilmente avrei tenuto ancora quelle carte… Ma ho un’altra età rispetto alla sua, così mi sono voluto liberare di tutto. Me ne voglio andare tranquillo, tranquillissimo, da ogni punto di vista. Tenga presente che ho preso quella decisione anche contro il volere dei miei familiari, ma siccome era materiale mio, anche se loro non erano d’accordo, ho deciso così. Ho sfidato anche loro. C’era tanto materiale da poter monetizzare, ma oramai non ho nulla da guadagnare e nulla da perdere. Tanto per farle capire, all’Archivio di Stato mi hanno detto che molte cose sono secretate, perché alcune persone sono tuttora vive».
Eppure lei stesso ha, ironicamente, detto di volere chiedere i diritti di autore, alla luce di quanto aveva programmato nel “Piano di rinascita democratica”. L’impressione è che quel Piano sia sempre lì sul tavolo, e non in un archivio…
«Quel Piano, come lo chiama lei, non solo lo rifarei, ma vorrei anche riuscire ad attuarlo, se solo avessi venti anni di meno. All’epoca, se avessimo avuto quattro mesi di tempo ancora, saremmo riusciti ad attuarlo… In quel momento avevamo in mano tutto: la Gladio, la P2 e… un’altra organizzazione, che ancora oggi non è apparsa ufficialmente, non creata da noi ma da una persona che è ancora viva tutt’oggi, nonostante abbia oramai tanti anni… Avevamo tre organizzazioni… ancora quattro mesi di tempo e avremmo sicuramente messo in pratica il Piano. Che, sia chiaro, era valido allora e sarebbe valido anche adesso. Certo, servirebbero delle modifiche, ma attuando il Piano non saremmo arrivati alla situazione che, in Italia, si vive oggi…»
Qual era questa terza organizzazione?
«Mi dispiace, ma non ricordo, davvero…»
Sempre punti oscuri. Come quello relativo all’effettivo numero di iscritti della P2: oltre 900 quelli compresi nella lista rinvenuta nel 1981, almeno 2500 secondo la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi.
«Le dico, non mi ricordo, davvero, quanti erano gli iscritti della P2… Piuttosto…»
Piuttosto?
«Avrei voluto parlare con la Anselmi, ho anche chiesto di organizzare un incontro, per dirle che sono stati i suoi collaboratori a tradirla. Non a caso, abbiamo potuto smentire tutto ciò che era stato detto e scritto all’epoca… In quel momento furono dette tante stupidaggini, e anche la Anselmi ne avrebbe beneficiato, perché aveva la possibilità di diventare presidente della Repubblica: la Democrazia Cristiana l’avrebbe votata, e anche ai comunisti non sarebbe parso vero per il colpo che era stato messo a segno».
A leggere le carte, però, sembra andata diversamente. E anche a considerare i tanti, troppi misteri. Come, ad esempio, il rapporto con la Chiesa.
«Tenga presente che era prevista la scomunica finanche per i laici iscritti alla massoneria. Poi, ci fu un cambiamento: la scomunica, secondo quanto stabilito dal Vaticano, poteva essere emessa solo nei confronti degli ecclesiastici. Ma sappia che i religiosi iscritti alla massoneria erano svariati, all’epoca, anche di alto grado. E non venivano mai citati, perché appartenevano a un altro elenco…»
Appunto, l’ennesimo mistero… Tornando all’attualità, oggi, sembra di rivedere molti punti del «Piano di rinascita democratica»: ad esempio, la riforma della giustizia e la divisione del fronte sindacale… E lei ha espresso un giudizio positivo, tempo addietro, su Berlusconi e sul suo Governo.
«Precisiamo: il giudizio era positivo»
Oggi, invece?
«Negativo»
Cos’è cambiato?
«Senta, quando due persone si sposano, fanno questa scelta con ardore, con calore. Poi, succede che, dopo tre, quattro anni, decidano di separarsi… Perché? Semplicemente perché sono venuti a mancare quei principi, quei valori. Ecco, anche lui, Berlusconi intendo, è venuto meno rispetto a quei principi che noi pensavamo lui avesse… E ricordi che l’ho avuto per sette anni nella loggia, quindi credo di conoscerlo… l’ho anche aiutato, quando ho potuto…»
E in cosa è venuto meno Berlusconi?
«Ma pensi anche a questo puttanaio delle ultime settimane… Sia chiaro, è vero che può fare ciò che gli pare e piace, come e quanto vuole, ma bisogna anche avere la capacità di “saperlo fare”, eppoi esiste pur sempre un limite. Invece lui continua… ha prima disfatto la famiglia, ora sta disfacendo l’Italia. Ma nessuno gli dice nulla… Ha commesso un reato? Se è vero ciò che gli viene attribuito (e credo che almeno in parte sia vero), allora sì: non avrebbe dovuto farlo, o, quantomeno, avrebbe dovuto utilizzare sistemi più riservati».
Pare di capire che avete puntato sul cavallo (politico) sbagliato…
«Guardi che politici validi, come Cossiga e Andreotti, non ci sono più. E un discorso simile vale anche per generali e ufficiali. Ma lei ha presente l’esercito italiano? Anni fa era un esercito per il Paese, non un esercito a cui si chiede di ripulire le città dall’immondizia, mentre i netturbini sono in cassa integrazione. Oggi, invece, mandiamo i soldati in Afghanistan e in Iraq: a noi cosa interessa? Da tutto ciò noi abbiamo ricavato solo morti! E io mi chiedo: ma le autorità italiane non si vergognano mentre baciano le bare dei soldati uccisi? Ripeto, non abbiamo alcun interesse ad andare in quei Paesi, eppure quei soldati sono morti perché quelli che baciano le bare, hanno deciso di mandarceli… Lei pensa che questo sia un Paese serio?».
Attilio Ievolella
http://www.iltempo.it/politica/2011/01/28/1233133-piano.shtml?refresh_ce
Commenti:
rinfreschiamo la memoria al vecchio licio: la terza organizzazione si chiama mica L’ANELLO? in questo caso, ne ha scritto diffusamente stefania limiti, e arriva – guarda un po’ – ai giorni nostri.
–
Una piccola nota di fondo: Se sapete che COSA sia il “piano di rinascita democratica” della P2, saprete anche che lui sta, con un tono normale, come se fosse lecito e possibile farlo, confessando un reato eversivo tra i più GRAVI che si possano concepire!!!!! Ma ci rendiamo conto? Il piano di rinascita democratica (che, contrariamente a quanto dice, E’ stato realizzato, solo che il potere non è andato a lui) è un piano che ha come obiettivo la trasformazione di una democrazia in un totalitarismo di fatto (la prova del fatto che è stato attuato è l’Italia di oggi, prima ancora che la lettura del piano stesso). Lui sta confessando, quasi con innocenza, di aver tramato nell’ombra costruendo organizzazioni segrete allo scopo di turbare gli equilibri della nostra (ex) democrazia, per ottenere un potere che MAI avrebbe dovuto avere!
—
Il vero crimine di M. Khodorkovsky
F. William Engdhal 22.01.2011
La decisione finale del processo russo contro l’ex oligarca del petrolio Mikhail Khodorkovsky ha attirato drammatiche dichiarazioni di protesta da parte dell’amministrazione statunitense di Obama e da governi di tutto il mondo che hanno accusato la giustizia russa di essere tirannica, o peggio. Ciò che è stato attentamente omesso dalla storia Khodorkovsky però è la vera ragione per cui Putin ha arrestato e imprigionato l’ex capo del più grande gigante petrolifero della Russia, Yukos.
Il vero crimine di Mikhail Khodorkovsky non è aver rubato i patrimoni russi per una miseria durante l’era da banditi di Yeltsin. Il suo crimine reale è aver partecipato ad un’operazione occidentale di intelligence per smantellare e distruggere ciò che rimane di uno stato russo funzionante. Quando si conoscono i fatti la giustizia che gli è stata servita è clemente a paragone dei normali trattamenti di Stati Uniti e Gran Bretagna contro quelli giudicati colpevoli di tradimento contro lo stato. La prigione delle torture di Obama non è che un esempio dei doppi standard di Washington.
Secondo il rapporto politicamente corretto sintetizzato da Wikipedia, “Yukos Oil Company era una compagnia petrolifera russa che, fino al 2003, era controllata dall’oligarca russo Mikhail Khodorkovsky…. Khodorkovsky è stato condannato e mandato in prigione… Yukos era una delle compagnie più grandi e di successo della Russia nel 2000-2003. Nel 2003, in seguito a una rivalutazione fiscale, il governo russo ha presentato a Yukos una serie di reclami per tasse che ammontavano a 27 miliardi di dollari. Dato che i beni di Yukos sono stati contemporaneamente congelati dal governo, la compagnia non è stata in grado di pagare queste tasse richieste. Il primo agosto 2006, una corte russa ha dichiarato la bancarotta di Yukos. La maggior parte dei patrimoni di Yukos sono stati venduti a bassi prezzi a compagnie petrolifere di proprietà del governo russo. Il Consiglio Parlamentare d’Europa ha condannato la campagna della Russia contro Yukos e contro il suo proprietario come prodotta per ragioni politiche nonché una violazione dei diritti umani.”
Se scaviamo un po’ più a fondo però troviamo un caso piuttosto diverso. Appena sceso dal suo aereo privato in Siberia nell’ottobre 2003 Khodorkovsky è stato arrestato. È stato arrestato, come Wikipedia correttamente afferma, per reati fiscali. Ciò che non dicono è che egli alla tenera età di 40 anni è diventato l’uomo più ricco in Russia tramite circa $ 15 miliardi di acquisizioni fraudolente del patrimonio statale durante l’era fuori legge di Yeltsin. In un’asta gestita dalla sua stessa banca, Khodorkovsky ha pagato $ 309 milioni per Yukos. Nel 2003 la stessa compagnia è stata valutata $ 45 miliardi, e non per l’estro manageriale di Khodorkovsky.
Nel 1998, Khodorkovsky è stato assolto da un processo statunitense in cui era stato accusato di aiutare a riciclare $ 10 miliardi con la sua banca e con la Bank of New York. Aveva amici molto influenti negli Stati Uniti è apparso. L’allora capo della Republic National Bank of New York, Edmund Safra, è stato assassinato alcuni mesi dopo nel suo appartamento di Monaco, stando alle testimonianze, da parte di membri di una certa “mafia russa” che aveva imbrogliato in uno schema di riciclaggio di denaro proveniente dalla droga.
Ma c’è di più. Khodorkovsky ha costruito degli impressionanti legami nell’Occidente. Con i suoi nuovi miliardi effettivamente rubati dal popolo russo, si è fatto alcuni amici potenti. Ha istituito una fondazione sul modello della Open Society del miliardario statunitense George Soros, chiamandola Open Russia Foundation. Ha invitato due potenti occidentali nel suo consiglio – Henry Kissinger e Jacob Lord Rothschild. Poi si è dedicato a stabilire vincoli con alcuni tra i più potenti circoli di Washington dove è stato nominato membro del consiglio consultivo della società di private equity, Carlyle Group di cui ha presenziato incontri del consiglio insieme ad altri consulenti come George H.W. Bush e James Baker III.
Comunque, il vero crimine che ha portato Khodorkovsky dietro le sbarre russe è il fatto che era coinvolto nel tentato colpo di stato appoggiato dagli USA per impadronirsi della presidenza russa nelle pianificate elezioni del 2004 alla Duma. Khodorkovsky stava usando la sua enorme ricchezza per comprare abbastanza seggi nelle future elezioni alla Duma da poter modificare le leggi russe a proposito di proprietà petrolifere sul terreno e di trasposto tramite condutture. Inoltre aveva programmato di sfidare direttamente Putin e diventare presidente della Russia. Come parte del mercanteggiamento che a Putin è valso il tacito appoggio dei cosiddetti oligarchi russi, Putin ha estratto un accordo per il quale viene permesso loro di mantenere i propri patrimoni a patto che ne rimpatrino una parte in Russia e che con la loro ricchezza non interferiscano negli affari domestici della politica russa. La maggior parte degli oligarchi ha accettato, come aveva fatto Khodorkovsky all’epoca. Loro hanno continuato ad essere affermati uomini d’affari russi, Khodorkovsky non più.
Inoltre, all’epoca del suo arresto Khodorkovsky stava negoziando tramite il suo amico di Carlyle George H.W. Bush, padre dell’allora presidente George W. Bush, la vendita del 40% di Yukos a una delle ex compagnie di Condi Rice, Chevron o ExxonMobil in una mossa che avrebbe assestato un duro colpo all’unico patrimonio che era rimasto alla Russia e a Putin per ricostruire la distrutta economia russa: il petrolio e l’esportazione attraverso le condutture di proprietà statale verso l’Occidente in cambio di dollari. Durante la conseguente azione penale russa contro Yukos, è venuto alla luce che Khodorkovsky aveva anche fatto segretamente un contratto con Lord Rothschild di Londra non solo per sostenere la cultura russa tramite la Open Russia Foundation di Khodorkovsky. Nel caso di un suo possibile arreso (Khodorkovsky evidentemente sapeva di esser coinvolto in un gioco ad alto rischio tentando di creare un colpo di stato contro Putin) il 40% delle azioni della sua Yukos sarebbe passato nelle mani di Lord Rothschild.
Le lacrime di coccodrillo di Hillary Clinton e Barack Obama per le violazioni dei diritti umani di Khodorkovsky nascondono un’agenda ben più profonda che non viene ammessa. Washington ha usato la Russia per provare a raggiungere il suo obiettivo di distruggere totalmente l’unica potenza rimasta sulla terra con un potere di attacco militare tale da sfidare la strategia del Pentagono di Full Spectrum Dominance – controllo di tutto il pianeta. Quando osservate in questa luce, le dolci parole “diritti umani” assumono un significato piuttosto diverso.
Traduzione di Roberta Mulas
http://www.eurasia-rivista.org/7868/il-vero-crimine-di-m-khodorkovsky
—
La strada per cambiare strada
Autore: Donati, Anna
L’articolo pubblicato sul numero speciale del manifesto e di decrescita del 28 gennaio 2011 e il link al testo integrale dello studio da cui l’articolo è una sintesi (30 gennaio 2011)
Il calo della vendita di automobili nel mondo occidentale non è contingente ma la crisi di un sistema maturo, che dopo un grande successo, con 35 milioni di veicoli in circolazione solo in Italia e il 65,5% di cittadini che la usa ogni giorno, mostra i suoi limiti. Limiti della crescita si direbbe, con la necessità di puntare sulla mobilità sostenibile con idee e progetti per la riconversione del sistema produttivo dell’automobile e del sistema di trasporti basato sul tutto strada.
C’è consapevolezza che la riconversione non è semplice né rapida perché i numeri sono impressionanti: il sistema «auto» dalla costruzione alla vendita e manutenzione impiega in Italia circa 1.000.000 persone, nel settore dell’autotrasporto lavorano 330.000 addetti (dati Eurostat) ed il sistema di prelievo fiscale del sistema auto ( veicoli, carburanti, multe) porta nelle casse dello stato ogni anno 81 miliardi, circa il 20% delle entrate totali.
Gli occupati nei servizi di trasporto
Ma altri dati del sistema trasporti italiano indicano comunque opportunità e numeri utili da cui partire in modo realistico: nel settore del trasporto pubblico e privato su strada (inclusi i taxi) lavorano 150.000 addetti, nel trasporto ferroviario nazionale e locale sono impiegate altre 110.000 unità, il sistema portuale nel suo complesso impiega 100.000 addetti e circa 25.000 muovono il sistema di trasporto marittimo, ben 45.000 addetti lavorano nelle agenzie di viaggio e come operatori turistici. In totale sono circa 430.000 gli addetti nei servizi di trasporto «sostenibili» rispetto al complesso dei servizi di trasporto pari a 968.491 addetti in Italia. (dati Eurostat 2006)
Colpisce che confrontando i dati italiani con la Germania, è che su di un totale di 1.317.000 addetti nei servizi di trasporto, lavorano nell’autotrasporto il 23,4% (309.000) e ben il 22, 2% (292.500) sono impiegati nel trasporto pubblico e privato su strada, in pratica il doppio dell’Italia, dove lavorano nel trasporto collettivo solo il 15,4% e nell’autotrasporto il 34%. Già da questo confronto con il paese che è la locomotiva d’Europa, possiamo trarre suggerimenti su cosa dovremmo fare anche in Italia: aumentare i servizi di trasporti ai passeggeri e ridimensionare il trasporto di merci su strada con l’intermodalità della gomma con ferro e mare. Già oggi una stima prudente di esperti del settore indica che il personale direttamente impegnato per la produzione dell’intermodalità terrestre è dell’ordine di 4.000/5.000 persone e sono questi i settori innovativi da far crescere.
Peccato che in questo momento in Italia la strada intrapresa sia esattamente opposta. Il governo ha tagliato le risorse per il trasporto collettivo su ferro (circa 20%) e le Regioni alle prese con i tagli della manovra Tremonti stanno ridimensionando gli autobus. Insomma nessun piano di efficienza serio che riduca i costi, innovi i servizi e rilanci il settore. Allo stesso modo una forte innovazione è richiesta nei servizi di trasporto delle persone a domanda individuale dato che solo una parte di spostamenti può essere risolta a costi accessibili con il trasporto collettivo. Sarebbe preferibile non vendere automobili in proprietà ma offrire servizi di trasporto in auto, come car sharing, autonoleggio «facile», taxi collettivo e noleggio con conducente.
Nel trasporto merci le cose non vanno meglio, con il trasporto ferroviario in caduta libera ed il sistema portuale in frenata . Poche le briciole destinate all’ecobonus per il trasporto combinato, ma ben 400 milioni anche per il 2011 in aiuti all’autotrasporto su strada. Insomma la solita strategia: grande sostegno all’autotrasporto (ben 5 miliardi in dieci anni) e quasi nulla a tutto il resto.
La produzione dei veicoli e gli investimenti per infrastrutture
Per la produzione dei veicoli sono oggi impiegati 130.000 addetti complessivi producono autovetture mentre la produzione degli autobus ne occupa circa 10.000, quello del ferroviario e tramviario circa 15.000, infine le due ruote ( moto, ciclomotori e bicicletta) occupano circa 13.500 addetti. Se vogliamo parlare di riconversione, da un lato dobbiamo indurre un ridimensionamento del sistema auto, che comunque manterrà sempre una quota significativa di produzione, sia per il mercato sostitutivo e sia per l’innovazione di prodotto e di servizi, con un’auto a basse emissioni, sicura, riciclabile, ad energia rinnovabile. Un veicolo che ancora non c’è e che richiede un progetto di ricerca pubblico/privato credibile, che coinvolga centri di ricerca, università, intelligenze, legato direttamente alla soluzione del problema dei carburanti dopo la fine del petrolio.
L’altra strategia essenziale nel settore industriale è puntare all’aumento della produzione di autobus, di treni, tram, tutti segmenti produttivi che oggi sono in forte sofferenza sia perché mancano investimenti pubblici per l’ammodernamento dei mezzi di trasporto collettivo e sia perché questo alimenta la debolezza delle nostre imprese nella concorrenza globale. Nessun investimento significativo sta arrivando nel settore del trasporto ferroviario metropolitano e regionale, anzi per coprire i buchi del taglio al servizio ferroviario pendolare il governo ha dirottato le scarse risorse (460 milioni) destinate ai treni e quindi ormai del necessario piano per i 1.000 nuovi treni per i pendolari del costo di 6 miliardi (come il Ponte sullo Stretto!) ormai è rimasto ben poco.
Anche il settore autobus vive una crisi molto seria perché si è smesso di investire nell’ammodernamento dei mezzi di trasporto collettivo su strada. Il governo non investe, le aziende non hanno risorse per i nuovi veicoli ed è stata abbondata la strategia di anni passati che aveva abbassato l’età media del parco autobus: adesso siamo a 9,3 anni di media contro i 7 anni della media europea.
Anche la vendita delle due ruote, cicli e motocicli sta vivendo una crisi evidente, con una piccola ripresa della bicicletta a seguito degli incentivi assicurati dal governo nel 2009, nonostante che vi sia molto interesse e disponibilità da parte dei cittadini verso queste modalità sostenibili. L’ Ancma stima che in Italia siano circa 90.000 le persone impiegate nella commercializzazione, riparazione ed accessori di prodotti legati alla bicicletta, moto e scooter: si tratta di numeri significativi.
Infine anche nel campo degli investimenti serve riorientare la spesa dalle grandi opere inutili e dalla costruzione di nuove autostrade programmate verso le reti per la mobilità su ferro urbana e regionale, il vero buco nero del nostro sistema di trasporti. E questo è anche un modo per dare occupazione per opere utili nel settore delle costruzioni. Manca di nuovo il governo, che d’intesa con le regioni e le città metropolitane individui una spesa costante e duratura per queste grandi opere strategiche.
I costi della riconversione
Non sfugge a nessuno che la principale obiezione che verrà alla riconversione del sistema «tutto auto», è la necessità di ingenti risorse pubbliche e private per poter camminare, un problema molto serio.
Una parte della spesa deve essere riconvertita da sussidi perversi che vengono dati adesso a sistemi da disincentivare come l’autotrasporto e le grandi opere inutili per destinarla a trasporto combinato ed infrastrutture ferroviarie urbane. In alcuni settori innovativi legati a nuovi servizi di trasporto dovrà essere incoraggiata e sostenuta l’iniziativa privata. Le aziende di trasporti pubblici su gomma e ferro dovranno fare la loro parte per l’efficienza dei costi perché è impensabile aumentare i servizi aumentando i debiti.
La ricerca scientifica per veicoli innovativi e sui carburanti puliti e rinnovabili dovrebbe far parte di un filone di ricerca pubblica, così come gli investimenti per autobus e treni dovrebbero far parte di un progetto industriale promosso dal governo. Se si innesta un circolo virtuoso anche la spesa delle famiglie che oggi destinano 90 miliardi ogni anno per l’uso dell’automobile potrà essere riconvertita verso servizi di trasporto alternativo, aumentandone la redditività. Insomma sarà dura ma si può e si deve fare.
Colpisce che il piano Marchionne di rilancio di Mirafiori punti a costruire Suv per il mercato americano, con componenti che provengono dagli Usa assemblati a Torino, che tornano per essere rifiniti e pronti per la vendita nel mercato americano. Un sistema insostenibile di globalizzazione dei trasporti che scarica sulla collettività i suoi effetti negativi.
File allegati
Il testo integrale con dati e note
( AnnaDonati riconversione sistema auto Donati gennaio11.pdf 108.04 KB )
http://eddyburg.it/article/view/16540/
—
Silvio Berlusconi e la morte 29.01.2011
L’analisi della necrosfera che governa la lenta discesa agli inferi del Presidente del Consiglio, descritta nell’articolo di Franco Arminio sulla «funerea alchimia del berlusconismo» ( http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=31934 ), si ferma sull’orlo di una domanda fondamentale, sul quando cioè sia «avvenuta questa mutazione della morte da evento che irrompe a realtà che ristagna». Questione fondamentale poiché essa è all’origine non solo del corpo necrotizzante e necrotizzato di Berlusconi, ma di tutta la pratica consumistica inaugurata dall’Occidente molti secoli fa, ben prima della nascita del capitalismo o, almeno, di questa sua forma oramai globalizzata e mortificante che, non a caso, prende il nome di occidentalizzazione del mondo. L’articolo muove da un assunto a mio parere evidentissimo: Berlusconi ha paura della morte e dunque consuma e si consuma accumulando potere e ricchezza.
Di questo consumo, volto a dipingere il suo ritratto di Dorian Gray, fanno certamente parte le pratiche sessuali di cui sappiamo. E allora, proviamo a rispondere alla domanda inevasa, e cerchiamo in primis di collegarla ad una analisi della relazione tra il sistema capitalista e la Grande Signora. Certamente la morte è il limite dei limiti, da sempre. Oltre ad essere «il mistero di tutti i misteri», la X di una equazione irrisolvibile, come diceva Vladimir Janchélévitch, cioè qualcosa di intrinsecamente inspiegabile che, però, è connaturato alla Vita, alla Zoé e non solo alla singola Bios caratterizzata. Questo significa evidentemente che, partendo dall’accettazione del «mistero», vedendo in altre parole nella morte uno stadio irrinunciabile per assicurare il flusso stesso della Zoé, della vita senza ulteriori caratterizzazioni, attraverso le singole forme di Bios, si arriva a pensare una civilizzazione del limite, a partire da quello della propria stessa esistenza, come funzione ciclica irrinunciabile nell’assicurare l’esistenza nel suo eterno fluire. In altre parole le civilizzazioni e le culture che accettano il «mistero» delle morte, che ne fanno un evento che, pur “irrompendo” nella vita ne fa intrinsecamente parte, sono portare alla costruzione di relazioni tra umanità e mondo tendenzialmente rispettose di tutte le forme di esistenza, e dunque vedono il limite ultimo come qualcosa che parametra tutti gli altri.
Ad esempio questa è la “cosmovisione” dei popoli indigeni, non a caso i più ecologisti proprio per questa loro consapevolezza del posto che una singola vita occupa all’interno della vita. Al contrario, rimuovere la morte significa rimuovere la vita. E allora da questo arriviamo direttamente alla domanda che pone Arminio sul quando si sia verificata la mutazione tra ciclicità e linearità, cioè la scomparsa della morte come limite e la sua progressiva rimozione dall’orizzonte degli eventi vitali. Il fatto si sovrappone esattamente con la nascita dell’Occidente dato che certamente ne è la cifra profonda, e avviene quando la cultura greca, la nostra cultura-madre, si stacca dalla ricerca della saggezza, indicibile ma non in conoscibile, per riflettere sulla verità, forse dicibile ma non sempre vissuta, quando cioè da Dioniso come protagonista della tragedia, direbbe Nietzsche, si passa all’umanità. Dioniso è, come dice Kerenyi, «l’archetipo della vita indistruttibile» non perché eterna in sé, come l’Occidente vorrebbe, ma perché in perenne mutazione proprio attraverso la Morte. Dioniso, infatti, è un dio che muore e rinasce, un principio ciclico, ma essere in empatia con lui significa accattare la stessa sorte, vivere la sua stessa tragedia. La nascita dell’Occidente tenta la carta dell’immortalità e per farlo mette “fuori di se” il mondo con la sua continua richiesta di cura e tempo ciclico, ma anche di mutamento e di morte. Il cristianesimo, meglio l’apparato ecclesiale, poi completa l’opera lucrando sulla gestione della morte e facendone uno spauracchio di salvazione o perdizione eterni, ancora una volta.
Ripensare la morte dunque significa ripensare il limite e dunque il modello simbolico che è alla base del consumare per rimuovere il momento dell’incontro finale. Berlusconi, in questo senso, è non solo il ritratto di Dorian Gray di noi tutti, rappresentazione plastica di un disfacimento che vede trasformarsi, come nel finale del romanzo, il ritratto corrotto nella persona fisica. Sapremo fermarci a guardare il nostro personale ritratto e non solo quello dell’ormai necrico Presidente del Consiglio? Non è questa la sfida simbolica che abbiamo davanti? Certo, lo è.
Raffaele K. Salinari
Fonte: www.ilmanifesto.it
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=31935
—
Società della conoscenza. L’indisponibilità dopo la controriforma 29.01.2011
Ricercatori, lavoratori dello spettacolo, operatori dei vecchi e nuovi media assieme all’arcipelago della formazione. La necessità di un incontro tra diverse figure del lavoro per elaborare proposte conflittuali verso la «fabbrica del consenso»
il Manifesto
Benedetto Vecchi
Il disegno di legge di Mariastella Gelmini è ormai legge e l’università italiana è in attesa che il ministero ne definisca tutti i decreti attuativi. Nel frattempo, negli Atenei gli studenti non sono tornati tornati a braccia conserte sui banchi, nonostante i tentativi di normalizzazione le facoltà, attraverso il disconoscimento dei gruppi studenteschi «rivoltosi» e forme più o meno esplicite di pressione sui ricercatori e ricercatrici «indisponibili» affinché tornino a lavorare in nome della continuità didattica e del normale svolgimento dei corsi, quasi che il rifiuto di svolgere un lavoro gratis o di supplenza debba essere la normalità in una realtà che riesce a malapena a sopravvivere, visti i tagli voluti da Giulio Tremonti e fatti propri dal ministro Gelmini, sempre più occupata a difendere lo stile di vita del Presidente del consiglio che non a svolgere il suo ruolo istituzionale. Ma al di là della constatazione delle tendenze contraddittorie che emergono in questa fase di transizione tra l’approvazione e l’attuazione della legge, è fuori dalle cittadelle universitarie che si moltiplicano le prese di parola e le mobilitazioni degli universitari, dei lavoratori dello spettacolo e, ad esempio, del meeting «Uniti contro la crisi» che si è tenuto a Marghera, a partire anche dal workshop dedicato alla proposta di convocazione degli stati generali della conoscenza circolata durante la «fase alta» delle mobilitazioni dentro le Università.
Oltre la vita agra
Sono alcuni anni che tale proposta viene ciclicamente proposta. Durante le mobilitazioni dell’Onda è stata avanzata nella forma di un incontro che coinvolgesse l’università, il mondo dello spettacolo o l’industria appunto culturale, settori in forte affanno per la crisi economica che allora cominciava a mordere e far male anche nel nostro paese. Poi si è dissolta nella risacca dell’Onda, mentre rigorosi studiosi – Luciano Gallino per tutti – scoprivano che la precarietà non coinvolgeva solo la generazione X (o Y, è lo stesso), ma l’insieme del lavoro vivo alla luce di quanto emerso nella discussione pubblica durante le mobilitazioni dell’Onda: la metà dei ricercatori italiani era ed è precaria. Inutile ricordare il fatto che già ai tempi de La vita agra di Luciano Biancardi chi lavorava nell’editoria doveva fare i conti con l’intermittenza della prestazione lavorativa. Ciò che in questo inverno è diventato chiaro è il fatto che l’espressione di lavoratori della conoscenza non poteva essere solo riservata ai ricercatori, ai docenti dell’università, ma poteva essere tranquillamente applicata a quanti svolgono lavoro di formazione e anche agli stessi lavoratori dei vecchi e nuovi media. Un elemento analitico e «esistenziale» emerso con molta forza negli incontri che hanno visto insieme giornalisti e lavoratori dello spettacolo dopo il blitz del decreto milleproroghe che ha nuovamente e draconianamente ridotto i contributi all’editoria e al fondo dello spettacolo. Anche in questo caso, la volontà di trovare momenti di incontro non legati a una sfavorevole contingenza, bensì al bisogno di avviare una discussione e una riflessione non episodica, a partire però del punto di vista di chi è giornalista, ricercatore o «operatore dei media», sui modi di produzione dell’informazione, della cultura e della rilevanza che hanno nella formazione dell’opinione pubblica, cioè con quella «fabbrica del consenso» che è la bestia nera dei movimento sociali.
La necessità di proporre gli «Stati generali della conoscenza» nasce dunque in questo contesto. Proposta che ha molte articolazioni e sfumature, ma che può invece essere pensata e organizzata come un momento di discussione, condivisione e elaborazione di proposte che faccia i conti con una condizione lavorativa che va ben al di là di quanto con la miseria culturale e politica di ciò che stanno facendo e faranno i «poteri forti» in nome della (piccola) «eccellenza» dopo la definizione dei decreti attuativi, nell’Università.
Ed è a partire dalla eterogeneità delle realtà che potrebbero essere coinvolte in questo «evento» che emerge con forza il fatto che gli «Stati generali della conoscenza» siano anche un momento di inchiesta tra i «produttori di conoscenza». Non solo per comprendere le dinamiche che regolano mercati del lavoro sicuramente circoscritti rispetto alla realtà nazionale, ma per verificare la validità delle rappresentazioni di quella che, giustamente, veniva chiamata «composizione sociale del lavoro vivo» in tutti i settori produttivi. In primo luogo, per cercare di comprendere se la figura ibrida del lavoratore-studente è così significativa tanto nell’università che nel mondo dello spettacolo e nella produzione culturale. Nelle azioni dei lavoratori dello spettacolo molti dei partecipanti hanno sottolineato che il lavoro si accompagna anche alla formazione, dunque all’università o gli stage di questo o quel corso privato. Lo stesso si può dire degli stagisti nei media, figura che spesso viene usata per svolgere un lavoro non retribuito invece che essere assunti.. Ciò di cui si sente necessità è un’inchiesta per individuare tanto le differenze che i momenti di ripetizione che possono manifestarsi per figure produttive scandite da una individualizzazione del rapporto di lavoro e da rapporti gerarchici sì informali, ma segnati da vincoli che potremmo tranquillamente definire servili.
Il rifiuto dell’individualizzazione dei rapporti di lavoro e dei vincoli servili che caratterizzano le università è stato, infatti, il leit motiv della presa di parola dei ricercatori nello scorso autunno. Allo stesso tempo, però, sono donne e uomini che non propongono un’organizzazione del lavoro scandita da orari certi e da gerarchie tanto impersonali, quanto vincolanti la prestazione lavorativa. L’incongruenza di unità di misura della produttività mutuate dal lavoro industriale e la difficoltà di stabilire criteri «oggettivi» sulla qualità della ricerca sono stati assunti come un principio di realtà che prefigura un’impossibile sintesi unitaria della condizione lavorativa dei ricercatori. Ma come ogni principio di realtà anche quello che attiene al contesto sociale e produttivo della conoscenza non può tradursi in un ostacolo alla trasformazione di tale realtà. Da questo punto di vista, il rifiuto dei rapporti servili di lavoro, e della conseguente complicità che la condizione precaria verso lo status quo, sono da considerare il fattore più importante delle mobilitazioni di questo inverno. Come testimoniano i dati emersi dal recente rapporto del «Comitato nazionale di valutazione», la precarietà, assieme a una gerarchia dal forte sapore medievale, stanno determinando il declino dell’università italiana. Come diceva un classico del pensiero critico, quando lo sviluppo delle forze produttive entra in contraddizione con i rapporti sociali di produzione il reale presenta inedite e fino ad allora inimmaginabili possibilità di trasformazione.
L’immaginazione doverosa
Inimmaginabili nelle forme che può assumere e anche nelle forme organizzative che agiscono il conflitto. Per quanto riguarda l’Università, questo significa immaginare come dare continuità all’indisponibilità dei ricercatori, evitando così un ritorno all’individualizzazione del rapporto di lavoro e a quei rapporti servili legittimati dalle promesse di concorsi per professore associato. In altri termini, è nell’eccedenza delle soggettività e della loro capacità produttiva e politica che va cercata la via di fuga dalle miserie del presente, sfuggendo così a una rappresentazione dei lavoratori della conoscenza come quei «nuovi poveri» che hanno bisogno della figura pastorale dello stato o di indefiniti patti di mutuo soccorso per uscire dall’indigenza in cui la crisi economica nella quale li ha catapultati. Come è stato variamente argomentato nei mesi scorsi è la produzione della conoscenza che richiede uno sforzo di immaginazione affinché la trasformazione delle condizioni di lavoro non sia un effimero miraggio.
Ma se l’individualizzazione del rapporto di lavoro è il primo nodo da sciogliere, ce ne sono molti altri che occorre nominare. In primo luogo il rapporto che intercorre tra produzione della conoscenza e il resto della produzione della ricchezza. E anche in questo caso il punto di partenza è il movimento sociale che si è espresso nell’inverno, assieme al conflitto che ha visto opposti la Fiom e la Fiat. Uno degli elementi che ha caratterizzato il movimento dentro le università non è stata il rifiuto della miseria della condizione studentesca, ma la sottolineatura di quella «condizione precaria» che è il presente di chi frequenta l’università o di chi vi lavora. Dunque, un movimento che ha interpretato le proposte di Mariastella Gelmini non solo come una classica misura di dismissione dell’intervento pubblico e di introduzione della lex mercatoria come principio regolatore dell’università. Più importante era infatti il giudizio emerso sulla legge di Mariastella Gelmini in quanto dispositivo per legittimare la precarietà come presente e futuro dei rapporti di lavoro. Allo stesso tempo, anche il conflitto a Pomigliano, a Mirafiori ha reso evidente che la precarietà non è solo una prerogativa generazionale, bensì come la norma dominante dei rapporti tra capitale e lavoro.
Tutto ciò ha un significato preciso per i produttori di conoscenza: la precarietà è momento costitutivo delle forme di vita metropolitane. È questo il bandolo della matassa che gli «Stati generali della conoscenza» devono sbrogliare. In altri termini, inchiesta, condivisione, pratiche del consenso e lavoro di immaginazione rappresentano la dimensione politica degli «Stati generali della conoscenza». Oltre gli angusti recinti del già noto e oltre i perimetri fissati da consuetudini o rappresentazioni che cancellano la ricchezza tematica e argomentativa che attorno la produzione della conoscenza e il suo ruolo immediatamente produttivo sono stati espressi in questi anni.
—
Maschere
Articolo di Società cultura e religione, pubblicato lunedì 31 gennaio 2011 in Spagna.
[El País]
“L’Italia è un Paese ridicolo e sinistro”. Nel settembre 1975, quando i sociologi la consideravano il laboratorio politico d’Europa e le forze progressiste, anche quelle spagnole, vedevano la sua società civile come un modello da imitare, Pier Paolo Pasolini scrisse queste parole. “I suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue. Ma i cittadini italiani non sono da meno”. Pasolini, considerato dai suoi compatrioti, persino in alcuni ambienti di sinistra, un intellettuale sgradevole a causa del pessimismo scarno delle sue opinioni, indicava due colpevoli: la scuola e la televisione, complici nell’aver trasmesso un’ideologia di edonismo carente di valori umani e umanisti.
35 anni dopo, Berlusconi incarna la visione pasoliniana della realtà con tanta maestria, come se stesse interpretando il ruolo principale nell’opera postuma dell’artista. I capelli tinti ed il viso coperto di trucco, le sue disperate ostentazioni giovanili di seduttore senile battono ogni giorno i suoi record di indecenza, senza che molti dei suoi concittadini trovino motivi per smettere di celebrare le sue pagliacciate.
Non voglio essere sgradevole, ma Berlusconi mi sembra più sinistro che ridicolo. Per provare che i sociologi degli anni settanta avevano ragione quando avvertivano che la società italiana anticipava l’evoluzione del resto del continente, basta contemplare le maschere della principessa del popolo e la sua corte di enormità. Sotto c’è una faccia brutta e volgare che nessuno vuol vedere. È la magia della televisione. Quando la triviale rappresentazione del cannibalismo smetterà di essere un ameno passatempo da godersi in famiglia, allora forse le sue stelle si saranno trasferite nei seggi del Governo e ci sarà qualcuno che dirà che è pura democrazia. Conviene prepararsi al peggio, leggete Pasolini.
[Articolo originale “Máscaras” di Almudena Grandes]
http://italiadallestero.info/archives/10782
—
30/01/2011 – DOSSIER- ISRAELE E L’OLOCAUSTO
Gli arabi ad Auschwitz per scoprire la Shoah
Cento politici e intellettuali visiteranno il campo: è la prima volta
ABRAHAM B. YEHOSHUA
Martedì prossimo, primo febbraio, una delegazione di un centinaio di personalità politiche e intellettuali provenienti da tutto il mondo arabo e musulmano, guidata dal presidente del Senegal e patrocinata dall’Unesco e dalla municipalità di Parigi, si recherà ad Auschwitz, in Polonia. Saranno accompagnati da un altro centinaio di personalità politiche, religiose e intellettuali cristiane, musulmane ed ebraiche di tutta Europa. Non è la prima volta che arabi musulmani visitano un campo di sterminio.
Ritengo però che una delegazione di tale livello e portata non si sia ancora vista, e questo non solo è un risultato molto positivo per l’Unesco e per la città di Parigi, che cercano di contrastare le ventate di antisemitismo e di anti-islamismo che soffiano sull’Europa, ma è anche un segnale della volontà di governi e di organizzazioni arabe e musulmane, nonché di intellettuali e di esponenti religiosi, di combattere il fenomeno della negazione della Shoah. Il sionismo nasce come movimento nazionale politico alla fine del XIX secolo, 50 anni prima dell’Olocausto.
E benché io non creda che i suoi ideologi fossero in grado di predire il terribile sterminio del popolo ebraico avvenuto a metà del ventesimo secolo, i più acuti tra loro (in gran parte scrittori e intellettuali) avvertirono che l’ostilità di stampo nazionalista che si andava diffondendo in Europa nei confronti degli ebrei avrebbe potuto rivelarsi ancora più grave e pericolosa di quella tradizionale di matrice religiosa. Così, anziché rimuginare su cosa fare perché il mondo si mostrasse più tollerante alla presenza ebraica, scelsero di operare un cambiamento di identità negli ebrei e, in primis, di instillare nelle loro coscienze la necessità di possedere un territorio definito.
Non più una patria virtuale radicata nell’immaginario che gli ebrei serbavano in cuore spostandosi da una nazione all’altra come chi cambia albergo, ma una patria reale, dove potessero esercitare una loro sovranità e fossero responsabili del proprio destino. Ma l’idea di raggrupparsi in un territorio definito era concepibile per gli ebrei unicamente in un luogo, nella loro patria storica e mai dimenticata menzionata anche nelle preghiere: la Terra d’Israele, chiamata però Palestina dal resto del mondo e dai suoi abitanti dell’epoca.
La stragrande maggioranza del mondo arabo, e in primo luogo i palestinesi, respinse categoricamente questa ipotesi ed è chiaro che chiunque altro al posto loro avrebbe fatto lo stesso. «Adesso vi siete ricordati di avere bisogno di uno Stato?», obiettarono, «avete cominciato ad abbandonare la Terra d’Israele 2500 anni fa. Già in epoca romana metà del popolo ebraico era disperso in tutto l’Impero. Dopo la distruzione del tempio, nel primo secolo d.C., ve ne siete andati definitivamente e benché nei duemila anni trascorsi abbiate avuto molte opportunità di farvi ritorno, non le avete sfruttate. Vi siete stabiliti ovunque nel mondo, persino nei Paesi intorno alla Palestina, solo qui non siete venuti.
E adesso volete prendervela?». In un primo momento i palestinesi pensarono che si trattasse di un nuovo tentativo di conquista coloniale da parte di europei. Tanto più che, come molti altri, ritenevano gli ebrei una collettività religiosa, e non nazionale. Ben presto, però, si resero conto che quella trasmigrazione, avvenuta in un primo tempo col patrocinio dell’impero ottomano e poi con quello britannico, aveva lo scopo di creare uno Stato sovrano che col tempo li avrebbe trasformati, nel migliore dei casi, in una minoranza o, nel peggiore, in una comunità priva di diritti che avrebbe potuto essere espulsa dal Paese.
Nel 1917, all’epoca della Dichiarazione Balfour con la quale la Gran Bretagna prometteva agli ebrei un focolare nazionale in Israele, il numero dei sionisti in Palestina non superava le 50 mila, rispetto a 550 mila palestinesi (cifre dell’Enciclopedia ebraica). In altre parole, questi ultimi erano 11 volte numericamente superiori. Ma i palestinesi sapevano che dietro a quei 50 mila c’era un intero popolo di 15 milioni di individui e, anche se solo una parte di essi si fosse trasferita in un futuro Stato ebraico, sarebbero diventati un’insignificante minoranza.
Così, fin dall’inizio, sostenuti dal mondo arabo, si imbarcarono in una lotta senza quartiere contro il sionismo. I palestinesi possedevano a quel tempo una distinta e autonoma coscienza nazionale? A mio modesto parere, è irrilevante nel contesto della controversia morale che li vede opposti agli ebrei. Anche se la Palestina era soltanto una regione della Siria, o del grande mondo arabo, nessuno aveva il diritto di trasformare i suoi cittadini in una minoranza.
La terra appartiene a chi vi risiede, è un principio universale inequivocabile e legittimo. Anche se all’inizio del ventesimo secolo la maggior parte del mondo non era ancora organizzata in Stati nazionali la terra appartiene a chi vi abita in quanto parte dell’identità umana, individuale e collettiva. È vero che gli ebrei che cominciavano a trasferirsi a poco a poco in Israele non avevano intenzione di espellere i palestinesi. Volevano unicamente fondare uno Stato che garantisse loro una struttura indipendente entro la quale decidere del proprio destino e soprattutto gestire la propria difesa.
Credevano inoltre che un Paese abitato da milioni di ebrei potesse garantire piena parità di diritti alle minoranze. E infatti, negli Anni 30, con l’intensificarsi delle persecuzioni antisemite in Germania e in altri Paesi europei, 350 mila ebrei riuscirono a trasferirsi in Israele, scampando allo sterminio. Ma anche se gli arabi palestinesi furono costretti ad ammettere in seguito che il sionismo contro cui avevano combattuto ancor prima della seconda guerra mondiale aveva salvato dalla morte centinaia di migliaia di ebrei, impossibilitati a trovare rifugio negli Usa che avevano chiuso le porte dopo la crisi del 1929, non si rassegnarono al fatto che tale salvataggio fosse avvenuto a loro spese, con una lenta ma costante erosione dei loro territori da parte di stranieri.
Non so se durante la seconda guerra mondiale, e anche dopo, gli arabi abbiano compreso appieno la portata e le dimensioni dell’eccidio del popolo ebraico. A volte ho l’impressione che gli ebrei stessi, ancora oggi, non siano del tutto consapevoli della gravità della tragedia abbattutasi su di loro, come non lo erano delle avvisaglie che la annunciavano e che avrebbero dovuto riconoscere. Lo sterminio degli ebrei non avvenne per un desiderio di occupazione territoriale e nemmeno per osteggiare una diversa religione. E sicuramente non per motivi economici o ideologici.
I nazisti sterminarono gli ebrei semplicemente perché volevano sterminarli. E questo è ciò che rende una simile barbarie unica nella storia. Lo sterminio degli ebrei in un primo tempo avvenne persino contro gli interessi dei loro stessi aggressori e trovò sostegno psicologico e talvolta concreto in molte nazioni occupate dalla Germania nazista. Io non so cosa gli arabi abbiano provato nell’apprendere della Shoah in Europa. Di certo i loro sentimenti furono contrastanti e complessi.
Da un lato sbigottimento per l’odio profondo mostrato contro gli ebrei in Europa giacché, anche se nel mondo arabo sussistevano qua e là ostilità e diffidenze nei confronti degli ebrei dovute a motivi religiosi, mai tali sentimenti si erano avvicinati ai livelli di antisemitismo cristiano e laico dell’Europa. Probabilmente, però, è naturale supporre che gli arabi, e in particolare i palestinesi, avessero anche provato soddisfazione nel constatare che la fonte della forza ebraica che li minacciava, soprattutto su un piano demografico, fosse stata colpita e si fosse ridotta di molto.
Se non che gli europei, indipendentemente dalla loro appartenenza al blocco comunista o a quello occidentale, sconvolti dalle atrocità naziste, si resero conto che non solo per gli ebrei, ma anche per loro stessi e per il futuro dell’umanità, dovevano fare qualcosa di drastico per combattere l’antisemitismo che cominciava a compromettere l’integrità del loro stesso essere. Perciò, con un’iniziativa rara ed eccezionale, nel 1947, due anni dopo la fine del conflitto e già al culmine della Guerra Fredda, il blocco comunista e quello occidentale si unirono per aiutare gli ebrei a normalizzare la propria esistenza in uno Stato che occupasse una parte (e sottolineo: una parte) delle terre palestinesi.
Il grido di protesta, di rabbia e di offesa del mondo arabo è comprensibile dal loro punto di vista: «Voi europei, che non solo ci avete oppresso nei nostri Paesi e continuate a farlo nei vostri ma avete anche commesso crimini orribili e gravi contro gli ebrei, vi aspettate che noi arabi, estranei ai vostri crimini, paghiamo per le vostre colpe con la nostra terra?». Secondo la loro logica, dunque, la decisione di cercare di distruggere lo Stato ebraico ancor prima che nascesse, era naturale e giustificata.
http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/386680/
—
Destabilizzare per stabilizzare 31.01.2011
Lucio Garofalo
La storia dell’umanità non segue un percorso uniforme e lineare, cioè un andamento progressivo caratterizzato da corsi e ricorsi, come asseriva il filosofo napoletano Giambattista Vico. Al contrario, lo sviluppo storico si svolge attraverso una dialettica tra tendenze e forze contrastanti, che innescano cicli violenti e balzi rivoluzionari che non sempre procedono verso un miglioramento e un progresso del genere umano. Gli esempi non mancano, ma per rendersene conto basterebbe riflettere sul funzionamento del potere e sui meccanismi di riproduzione dei rapporti di forza, a cominciare dai rapporti di comando e subordinazione tra le classi sociali, che sono il vero motore della storia.
Nel 1800 la reazione antigiacobina dell’assolutismo monarchico fu crudele e sanguinaria, incarnata dallo spirito codino e sanfedista dei regimi dispotici che ripresero a regnare dopo la Restaurazione sancita dal Congresso di Vienna nel 1815: i Borboni, lo Stato Pontificio, gli Asburgo, i Savoia (che erano tra le dinastie più retrive ed oscurantiste dell’epoca). Oggi lo spirito codino e liberticida è più subdolo e strisciante, assume atteggiamenti solo apparentemente morbidi e indolori, l’oltranzismo forcaiolo si traveste in forme più sfumate e sfaccettate, ma ciò non significa che il potere politico (e quello economico, che agisce dietro le quinte e decide realmente) non sia altrettanto efferato.
Procedendo in modo sommario e semplicistico, oggi possiamo osservare alcune istanze e posizioni palesemente reazionarie ed altre che si camuffano maggiormente: da un lato affiorano gli istinti rozzi e incivili, gli umori xenofobi e le pulsioni egoiste che fanno capo alla Lega, il neofascismo dichiarato (o rivisitato) di organizzazioni come Forza Nuova, CasaPound e altri movimenti di estrema destra; dall’altro lato, le avversioni antioperaie e antidemocratiche sono attitudini abilmente dissimulate sotto mentite spoglie, al riparo dietro false apparenze progressiste, senza dimenticare quella potente e pervasiva macchina di omologazione conformistica e di persuasione occulta che è la televisione, per cui il sistema di dominio che si serve di tali strumenti di controllo e sottomissione, apparentemente innocui e democratici, è paradossalmente più coercitivo e violento.
A dirla tutta, la natura reale (e trainante) del potere economico e politico nel mondo contemporaneo è una matrice tendenzialmente “rivoluzionaria” e “conservatrice” insieme, nella misura in cui il tratto distintivo e dominante del sistema capitalistico è quello di un movimento costantemente teso verso un’azione destabilizzante in senso conservatore (anzitutto a difesa dei rapporti di produzione), è una sorta di “rivoluzione permanente” programmata e indotta dall’alto, e mira a preservare e rafforzare l’ordine costituito. In questa ottica, le forze eversive che esercitano un ruolo di egemonia e di repressione, non sono di destra bensì di centro, in quanto il potere si colloca per definizione, per indole e vocazione al centro degli schieramenti politici ufficiali.
La chiave di lettura è riassumibile nell’antico adagio “divide et impera”, come insegnavano gli antichi Romani, padroni di un vasto impero, cioè “destabilizzare per stabilizzare”: in sintesi la “formula magica” della cosiddetta“strategia della tensione”, un’arma applicata più volte e mai dismessa, sempre pronta all’uso in quanto funzionale per autorizzare interventi antidemocratici e restrittivi, avallando la conservazione del potere. E’ sufficiente creare un facile e comodo pretesto per scatenare la repressione. I processi “rivoluzionari”, cioè repressivi, possono essere determinati dall’occasione di una crisi innescata dall’alto, quindi dal sistema stesso. E’ quanto sta accadendo nell’attuale momento storico, segnato da una recessione economica internazionale che non è contingente ma strutturale, e che non a caso incoraggia le tendenze più eversive e reazionarie, generando un fenomeno di terzomondizzazione dei rapporti di lavoro e degli stili di vita all’interno delle società capitalisticamente più avanzate dell’occidente.
La realtà mostra lo sfacelo in cui versa la società capitalistica, talmente evidente da non poter essere negato neanche dai fanatici più incalliti della globalizzazione neoliberista, di cui Marx aveva intuito ed enucleato le dinamiche essenziali. La finanziarizzazione sempre più estesa dell’economia e del capitale, la terzomondizzazione del mercato del lavoro, la precarizzazione e la proletarizzazione sempre più diffusa dei lavoratori, la crescente competizione al ribasso e le tensioni sociali conseguenti, la ripresa della lotta di classe e della centralità del lavoro produttivo come necessità per una fuoriuscita dalla crisi globale, sono fenomeni che il vecchio barbuto di Treviri aveva scoperto 150 anni fa.
Oggi le classi dominanti non sono più in condizione di imporre e propugnare un modello di vita credibile, una visione etica rigorosa, un’idea di società e di progresso che sappia infondere nell’animo dei giovani una fiducia nell’avvenire, tranne l’esaltazione acritica del presente, l’invito a consumare in modo incessante e scellerato le risorse esistenti, destinate ad esaurirsi, l’offerta di beni effimeri legati al consumismo materiale, per cui le classi dirigenti sono lo specchio più patetico della decomposizione sociale in atto.
In effetti la società occidentale, soprattutto le classi dirigenti sono ormai al tramonto proprio perché sta venendo meno il ruolo di supremazia storica svolto dall’occidente nel mondo. Non a caso sono emerse nuove potenze economiche sulla scena globale come la Cina, l’India e il Brasile, destinate a sconvolgere gli equilibri politici planetari. Questo è un dato evidente ed inoppugnabile che bisogna riconoscere per comprendere le gravi ripercussioni che si stanno verificando anche sul tenore di vita delle popolazioni occidentali, ormai in seria difficoltà, come del resto è accaduto in passato ad altre civiltà devastate dalla sete di conquista e di rapina delle potenze coloniali europee.
L’attuale modello di sviluppo, imposto per secoli con la violenza delle armi, del ricatto alimentare, del raggiro e della propaganda, è precipitato in una crisi strutturale e ideologica per cui non è più in grado di convincere e sedurre la gente, in particolare le giovani generazioni. Basti pensare a quanto è avvenuto negli ultimi anni in un continente come l’America Latina, attraversato e rinvigorito da spinte e fermenti anticapitalistici ed antimperialistici. Si pensi a quanto accade nella stessa Europa e nel Nord Africa, ai rivolgimenti e ai tumulti di massa che stanno ridisegnando gli assetti di intere nazioni.
La recessione economica tradisce uno stato di decadenza e dissoluzione di un mondo imperniato sulle certezze della scienza e della tecnica al servizio del profitto economico privato. Si tratta di convinzioni assunte come verità assiomatiche, che si sono rivelate per ciò che sono: fragili ed ingenue illusioni. La crisi economica è solo l’aspetto più evidente e doloroso di un processo di decomposizione avanzata di un sistema incentrato sui dogmi del capitalismo che si arroga il ruolo di padrone e gendarme del mondo. La religione del capitale è la più ottusa in quanto venera il dio denaro, promuove il feticismo del mercato, predica l’adorazione cieca e fanatica del consumismo più sfrenato, esercita il culto di un’economia inquinante e distruttiva che ha saccheggiato le risorse ambientali del pianeta, depredando popoli ed ecosistemi inviolati per millenni.
Tale situazione non reggerà in eterno, per cui è solo una questione di tempo che manca alla soluzione di quell’inerzia sociale favorita dalle classi dominanti. Già si colgono segnali evidenti di una rottura su scala globale: le masse proletarizzate prendono lentamente coscienza del loro destino e si sa che “i popoli non vogliono suicidarsi”.
http://www.radiocitta.net/articolo.php?id=24607
—
A Genova il museo della spazzatura 31.01.2011
Se avete qualche amico ligure saprete che rumenta è il termine dialettale con cui si indica la spazzatura, i rifiuti. A partire dagli anni ‘50 molti artisti hanno utilizzato materiali di recupero… dall’astrattismo, alla scultura d’assemblaggio finanche alla performance art.
Tra pochi mesi a Genova, nella zona del Porto Antico, ai Magazzini dell’Abbondanza, si aprirà il Museo della Rumenta. Il progetto nasce da un’idea di un famoso genovese, Renzo Piano, e vuole dar vita al primo centro in Europa dove si faccia educazione alla sostenibilità ambientale attraverso i linguaggi dell’arte e della scienza.
Quattro le sezioni del museo, l’area mostre, il laboratorio artistico, la zona dedicata al riciclo e quella dedicata alla green economy. L’inaugurazione dovrebbe coincidere con l’edizione 2011 del Festival della Scienza 2011 .
—
Proteina chiave per frenare il cancro al seno 31.01.2011
Inibendo una specifica proteina si può rallentare un particolare tipo di tumore al seno.
E’ quanto scoperto da un team di ricercatori italiani coordinati da Paola Nisticò, del Laboratorio di Immunologia dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena in collaborazione con l’Università Sapienza di Roma e con l’Istituto San Raffaele di Milano, che hanno dimostrato che i tumori al seno contemporaneamente positivi per l’espressione dell’oncogene Her2 e della proteina hMena, sono particolarmente aggressivi.
Esperimenti condotti in vitro su cellule di carcinoma della mammella hanno dimostrato come inibendo hMena si abbia un rallentamento della proliferazione tumorale indotta da Her2. Lo studio, in parte finanziato dall’AIRC, è stato pubblicato dalla rivista PLos-One.
I dati ottenuti non solo evidenziano il ruolo fondamentale di hMena nello sviluppo delle neoplasie mammarie, ma suggeriscono anche che interrompendo i segnali di comunicazione molecolari che intercorrono tra hMena e Her2 si possa arrestare la progressione tumorale.
Il gene hMena, identificato per la prima volta all’Istituto Regina Elena dalla stessa Nisticò e da Francesca Di Modugno, è assente nell’epitelio delle mammelle sane e compare invece nelle lesioni benigne che evolvono in tumori. Esso si candida quindi ad essere un marker di diagnosi precoce per il cancro al seno e un importante target terapeutico.
Per identificare alcuni meccanismi di comunicazione che le cellule tumorali utilizzano per proliferare, stimolate da segnali che provengono sia dalla cellula stessa che dal microambiente tumorale, i ricercatori hanno studiato la cooperazione tra l’oncogene Her-2 e la proteina hMena nei tumori al seno.
Il gene hMena dà origine a diverse varianti proteiche che si sono dimostrate validi marcatori precoci di carcinoma mammario, in quanto sono presenti solo nelle lesioni benigne che hanno però una elevata probabilità di evolvere in cancro. Ciò avviene, con molta probabilità, poichè hMena regola il complesso di filamenti proteici che costituiscono l’impalcatura delle cellule, il così detto citoscheletro.
Questa è una struttura molto dinamica, che controlla la forma e la funzione di ogni cellula. In quelle cancerose, questo ‘scheletro mobile’ cambia per l’ aumentata espressione di hMena e delle sue varianti. La ricerca getta una luce sui meccanismi che regolano l’interazione tra questi due geni che vengono co-espressi proprio da quelle neoplasie del seno con l’andamento clinico peggiore.
“hMena si rivela un utile marker sia diagnostico che prognostico – suggerisce Nisticò – inoltre si potrebbero individuare farmaci inibitori di hMena per interrompere i segnali che ne permettono la cooperazione col gene Her2, migliorando così il decorso clinico dei tumori al seno più aggressivi“.
—
Egitto, l’Unesco lancia l’allarme. A rischio il patrimonio archeologico ed artistico 01.02.2011
Allarme per il patrimonio archeologico ed artistico in Egitto. Secondo Reuters, i manifestanti hanno fatto irruzione nel Museo Egizio del Cairo venerdì sera e hanno distrutto due mummie di faraoni, diverse statue ed oggetti antichi. Il Direttore Generale dell’Unesco, Irina Bokova, ha dapprima espresso il suo profondo cordoglio per “le vittime dei disordini e le loro famiglie”, 190 persone morte dall’inizio delle proteste. Poi si è detta molto preoccupata per il patrimonio culturale egiziano, simbolo dell’identità del Paese e patrimonio dell’umanità intera.
“Il valore dei 120.000 pezzi conservati nel Museo Egizio del Cairo è inestimabile, non solo in termini scientifici o economici, ma perché rappresentano l’identità culturale del popolo egiziano. La prova è che, spontaneamente, centinaia di cittadini hanno formato una catena intorno al museo per proteggerlo. Io solennemente chiedo che tutte le misure necessarie siano prese per salvaguardare i tesori dell’Egitto, al Cairo, Luxor e in tutti gli altri siti culturali e storici del paese.”
La stessa Bokova ha detto che è in pericolo anche la libertà di stampa nel paese, molti media si sono visti sospendere le loro licenze. L’Unesco auspica invece che l’attenzione della stampa a livello internazionale, possa contribuire a responsabilizzare politici e manifestanti in Egitto.
-Dopo il salto su Continua, trovate uno ’sconvolgente’ video appena pubblicato su Youtube da Al Jazeera.-
Photo via Associated Press.
—
Prima retina artificiale tutta made in Italy 02.02.2011
Una retina artificiale compatibile con i tessuti circostanti grazie a inserimenti di materiale organico è stata realizzata dai ricercatori del dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano e del dipartimento di Neuroscienze e neurotecnologie (Nbt), del Centro di nanoscienze e tecnologie (Cnst) dell’Istituto italiano di tecnologia.
Il risultato, descritto sulla rivista Nature Communications, apre la strada alla possibilità di realizzare in laboratorio una retina artificiale perfettamente compatibile con i tessuti umani e quindi impiantabile. Un dispositivo del genere potrebbe aiutare a combattere le malattie causate dai difetti della retina, dal daltonismo alla cecità.
La retina è composta da un insieme di fotorecettori neuronali, chiamati coni e bastoncelli, capaci di captare i segnali luminosi e trasformarli in impulsi elettrici che vengono trasportati al cervello attraverso il nervo ottico. Mancanze, difetti o patologie di tali fotorecettori portano a conseguenze più o meno gravi e debilitanti. Il gruppo di lavoro è riuscito a creare una retina artificiale in grado di sostituire questo tessuto e le sue funzioni. La retina consiste in un’interfaccia tra le cellule nervose e un materiale organico semiconduttore, chiamato rr-P3HT:PCBM, in grado di captare gli impulsi luminosi convertendoli in corrente elettrica. In questo modo, la stimolazione luminosa dell’interfaccia provoca l’attivazione dei neuroni, mimando il processo a cui sono deputati i fotorecettori presenti nella retina.
“L’utilizzo di questo materiale organico semiconduttore è stato decisivo nel superare diversi problemi”, afferma Guglielmo Lanzani del Cnst, coordinatore della ricerca. “Il fatto di essere organico lo rende soffice, leggero e flessibile, garantendo una buona biocompatibilità ed evitando complicazioni ai tessuti circostanti. Inoltre, essendo un polimero semiconduttore, ha la capacità di trasmettere impulsi elettronici e ionici senza grande dispersione di calore, che potrebbe causare diversi danni al sistema nel suo complesso”. L’effetto fotovoltaico, inoltre, permette di trasformare l’energia della luce in impulso elettrico. Questo, al contrario delle interfacce realizzate finora in metallo o silicio, consente di non avere la necessità di una sorgente elettrica esterna per funzionare, né di dover trovare una soluzione al calore che viene dissipato attraverso la generazione di una corrente elettrica.
—
Una biblioteca pubblica del Veneto ritira “Gomorra” di Saviano
Articolo di Società cultura e religione, pubblicato domenica 30 gennaio 2011 in Spagna.
[El País]
La biblioteca comunale di Preganziol, a mezz’ora di treno da Venezia, 15.000 abitanti impegnati nella cura delle loro piccole imprese, dei loro giardini e in una raccolta dei rifiuti molto selettiva, non sembra un fronte di guerra. Tuttavia l’ennesima polemica tra la destra che governa il Paese e il mondo della cultura che cerca di raccontarlo ha preso il via in questa terra di borghesia operosa. Più precisamente nella sua biblioteca pubblica: dagli scaffali è sparito il libro più famoso di Roberto Saviano, Gomorra. Una delle dipendenti ha denunciato che «dall’alto» le hanno ordinato di disfarsi del volume, dopo che in televisione l’autore aveva detto che la mafia cerca la complicità della politica, il che significa, in queste terre placide e ricche, della Lega Nord.
Il sindaco Sergio Marton, dello stesso partito di destra, ha rifiutato le accuse di censura. Il segretario provinciale Gianantonio Da Re, invece, soffia sul fuoco: «I libri di questo scrittore li avrà comprati la precedente amministrazione di sinistra. Meglio metterli in cantina, magari se li mangia qualche topo».
Quella che Saviano chiama la macchina del fango (se il potere non è d’accordo con un’opinione, la distrugge), consuma il suo ennesimo atto in queste due stanze piene di libri, tra l’ufficio delle poste, una scuola e villette a schiera, in via Antonio Gramsci, il fondatore del partito comunista. Proprio lì giovedì scorso c’è stata una protesta contro la censura. ”Né il sindaco né nessun altro mi può dire cosa posso leggere e cosa no”, ha detto Mariella Frigo, 64 anni, casalinga. “Sono moderato con simpatie di destra. Ma i politici hanno superato il limite”, ha sottolineato Giuseppe, 70 anni, cardiologo in pensione. Non si riferisce solo a questo avvenimento. Preganziol non è un caso isolato.
È in atto un’altra crociata della Lega Nord e del Partito della Libertà, alleati nel governo di Roma e fortemente radicati al nord (soprattutto in Veneto e in Lombardia). All’inizio del 2004 un centinaio di intellettuali firmò un manifesto sul terrorismo rosso e nero che insanguinò gli anni settanta e ottanta. Chiedevano, tra le altre cose, il perdono di Cesare Battisti, membro di un gruppo di estrema sinistra, condannato in Cassazione all’ergastolo per quattro omicidi ed esiliato in Brasile. Alla fine del 2010 il presidente Lula ha negato l’estradizione. Il governo italiano non ha ottenuto la vittoria diplomatica ma ha cominciato la caccia alle streghe.
I firmatari sono stati proscritti. Daniel Pennac, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto,Tiziano Scarpa, il collettivo Wu Ming, lo stesso Saviano (che in seguito tolse la firma)…. Sette anni dopo sono diventati «cattivi maestri». Raffaele Speranzon, assessore berlusconiano alla Cultura della provincia di Venezia, ha proposto di togliere dalle biblioteche le opere di questi autori (romanzi e racconti). L’assessore regionale all’Istruzione, Elena Donazzan, qualche giorno fa ha minacciato di inviare una lettera a tutti i direttori delle scuole affinché i loro alunni non leggano quei libri. Non lo ha fatto ma ha incitato al «boicottaggio civico». “La scorsa settimana ho sfogliato Libero (quotidiano del fratello di Berlusconi) e ho visto il mio nome coronato da un titolo «Gli amici dell’assassino»” dice Stefano Tassinari, scrittore e drammaturgo. “La mia unica colpa è avere un’opinione diversa da quella del potere”. “La questione non è solo di forma. Descrive un Paese che non sa accettare il suo passato. Se non condividi il loro punto di vista sei fuori”, aggiunge un membro del collettivo Wu Ming.
[Articolo originale “Una biblioteca pública del Véneto retira ‘Gomorra’, de Saviano” di Lucia Magi]
http://italiadallestero.info/archives/10788
—
Pervenuto da digitalequestre@yahoo.it per neurogreen@liste.comodino.org il 31.01.2011
EU – Slovenia, no case ad italiani….
Petizione per preservare il Carso sloveno dalla vendita di case agli stranieri
La Civilna Iniciativa Kras chiede di limitare la vendita di case e terreni agli stranieri.
Chiede una tutela maggiore per il territorio del Carso visto che italiani, inglesi e tedeschi stanno “colonizzando” l’area e che, di conseguenza, i prezzi degli immobili stanno aumentando in maniera vertiginosa.
Scatterà dunque una petizione per limitare in qualche modo il libero mercato, seguendo l’esempio della Danimarca.
A riferirlo è il quotidiano Primorske novice. “Non si tratta di xenofobia” spiegano i rappresentanti di Civilna iniciativa Kras, che sottolineano in particolare come l’allarme arrivi dall’aumento sconsiderato dei prezzi degli immobili. “C’è stato un aumento anomalo dei prezzi. In particolare i terreni edificabili sono passati dai 15 euro al metro quadro precedenti all’ingresso della Slovenia nell’Ue agli attuali 120?.
Le conseguenze sarebbero di vasta portata: “I residenti saranno costretti a spostarsi verso l’interno della Slovenia, dove i prezzi degli immobili rimarranno accessibili. Al contempo il Carso sloveno si trasformerà nell’entroterra di Trieste, con persone che si sposteranno in automobile per andare al lavoro e continueranno a pagare le tasse in Italia”.
“L’esempio più evidente – spiegano i rappresentanti di Ci Kras – è Lokev. Il censimento del 2002 aveva rilevato 270 immobili, oggi 80 di questi sono di proprietà di cittadini italiani”.
—
I nemici della crescita e i nemici del genere umano 31.01.2011
di Marino Badiale – Megachip.
Raccomandiamo la lettura del fondo di Angelo Panebianco su “I nemici della crescita” («Corriere della Sera» del 27 gennaio) a chiunque nutra dei dubbi sull’assurdità della crescita. Per sostenere la necessità della crescita e dei sacrifici in suo nome Panebianco è costretto a omissioni, ammissioni e a vere e proprie assurdità, che nel complesso mostrano come sia impossibile sostenere in modo razionale il mito della crescita, nella situazione attuale.
Cominciamo dalle assurdità: la crescita è necessaria, ci spiega Panebianco, perché “senza crescita, una società consuma più ricchezza di quanta ne produce e finisce su un piano inclinato al termine del quale ci può essere solo un impoverimento complessivo”. Si tratta di affermazioni evidentemente false: è ovvio che una società si impoverisce se consuma più di quanto produce, ma questo non c’entra nulla con la crescita, c’entra appunto con la differenza fra la produzione e il consumo. Se un anno produco 100 e consumo 100, non mi impoverisco, che ci sia stata crescita oppure no rispetto all’anno precedente. Se un anno produco 100 e l’anno successivo produco 120 ma consumo 130, c’è stata crescita ma mi sono impoverito. E’ perfettamente possibile pensare ad una società stazionaria, nella quale ogni anno si produce la stessa ricchezza dell’anno precedente e se ne consuma un po’ meno: non c’è crescita, ma la società si arricchisce.
L’assurdità dell’affermazione di Panebianco appare in tutta la sua solare evidenza se la traduciamo sul piano individuale: “se il mio stipendio non aumenta ogni mese, mi impoverisco, perché spendo di più di quel che guadagno”. Tutti coloro che lavorano a stipendio fisso possono capire quanto razionali siano le argomentazioni di Panebianco.
Passiamo alle omissioni: parlando della vicenda Fiat e del conflitto con la Fiom, Panebianco spiega che “la ristrutturazione in atto sembra andare nella direzione giusta: attrezzando le imprese per la competizione globale essa spinge sul pedale della crescita”. Panebianco omette ogni riferimento alle molte critiche, ben argomentate, prodotte negli ultimi mesi nei confronti dell’azione di Marchionne proprio dal punto di vista dell’adeguatezza di tale azione per un serio rilancio degli stabilimenti Fiat in Italia, critiche che riguardano la mancanza di un piano industriale, il fatto che non sono previsti nuovi modelli, le perplessità sul rilancio produttivo di un settore ormai maturo. Un buon esempio di queste critiche è costituito dai molti articoli che Guido Viale sul «Manifesto» ha dedicato alla vicenda (ci permettiamo un suggerimento alla Fiom: perché non raccogliere questi articoli e farne un opuscolo?).
Allo stesso modo, Panebianco omette ogni informazione sui contenuti concreti dell’accordo di Mirafiori. In particolare, silenzio sul fatto che i rappresentanti sindacali non saranno più eletti dai lavoratori, ma nominati dai vertici sindacali e solo dai sindacati firmatari dell’accordo. Per chi si dichiara liberale, un’omissione non da poco.
Ma veniamo infine alle ammissioni di Panebianco, forse la cosa più interessante dell’articolo. Panebianco distingue fra le imprese che si danno da fare “per competere sui mercati globali” e gli altri attori sociali, che non sono esposti in prima linea, non si rendono conto delle necessità della competizione, ma devono tuttavia ad essa adeguare il loro comportamento. Se si vuole la crescita, ci dice Panebianco, occorre che ogni ambito sociale si faccia carico delle necessità della competizione, sia quindi funzionale al sistema della imprese globalizzate. Purtroppo in Italia non è (ancora) così. Ci sono ancora operai che difendono la propria dignità e la propria salute. Ci sono ancora insegnanti che pensano allo sviluppo umano e culturale dei propri allievi, e non al fatto che dovranno competere. C’è ancora qualche studioso che si occupa di un manoscritto antico o di un recente teorema per passione di ragione, e non per le necessità della competizione globale. C’è ancora qualche infermiera che ha cura dei malati per senso del dovere e solidarietà umana, e non per aumentare il Pil.
Tutto questo deve finire, se vogliamo la crescita, ci spiega Panebianco. Ma come spazzare via queste resistenze?
Panebianco cita con favore l’economista Mancur Olson, che a suo tempo spiegò i grandi risultati economici di Germania, Italia e Giappone negli anni Cinquanta in questo modo: “in quei tre paesi la guerra non si era limitata a distruggere le infrastrutture materiali. Ne aveva anche distrutto le infrastrutture sociali”. Non si poteva dire meglio. Grazie a Dio ogni tanto c’è la guerra che massacra la società e rende possibile la crescita.
Ecco cosa ci suggerisce Panebianco: se vogliamo la crescita è necessaria una distruzione sociale, una devastazione dei rapporti umani, un abbrutimento generalizzato paragonabile a quello di una guerra come la Seconda Guerra Mondiale. Non si poteva dire meglio, e non c’è che da ringraziare Panebianco per la sua chiarezza. Adesso ci è più chiaro perché siamo nemici della crescita, e chi sono i nemici del genere umano.
—
di Roberto Ciccarelli
INTERVISTA – La sociologa Chiara Saraceno
La riforma del welfare? Un’occasione persa 02.02.2011
Professoressa Saraceno, in un articolo pubblicato più di un anno fa ha sostenuto che la crisi avrebbe colpito giovani e precari. È passato un anno e mezzo, perché non è stato fatto nulla?
Il governo, e il ministro del welfare Sacconi, continuano ad affidarsi alla solidarietà familiare e ai suoi risparmi per ammortizzare la crisi. Pensano che con la cassa integrazione si proteggono i redditi dei capifamiglia. Ma questo è vero solo statisticamente. Ad averne diritto sono solo alcune tipologie di lavoratori, quelli a tempo indeterminato, che hanno figli giovani adulti già sul mercato del lavoro. È difficile pensare che a beneficiarne siano le famiglie giovani che molto spesso non hanno la stessa posizione.
Per quanto tempo la famiglia riuscirà a sostenere l’inattività di lungo periodo dei figli?
Ancora per poco, se la crisi dura. Le risorse dei capofamiglia ne risentiranno, anche perché la cassa integrazione non durerà per sempre. Cresce anche la diseguaglianza sociale e quella territoriale. I più colpiti dalla totale mancanza di politiche sociali sono i giovani, soprattutto meridionali, che non possono permettersi di creare progetti di vita autonoma. Questa situazione ha un risvolto ancora più preoccupante: il rafforzamento dei vincoli familiari accresce la cultura della dipendenza che è già molto forte in Italia.
Di tutele per il lavoro atipico se ne parla dagli anni Novanta, ma senza risultati. Come mai?
Allora sembrava che la flessibilizzazione del mercato del lavoro avrebbe creato posti di lavoro e ridotto la disoccupazione e l’inoccupazione femminile e giovanile. In parte è successo, ma avremmo dovuto introdurre un sistema di protezione sociale universale per chi perdeva il lavoro, insieme al reddito minimo per chi non lo ha. Ci furono varie commissioni alle quali ho partecipato anch’io, ma a causa dei veti incrociati, anche quella riforma è morta. Il governo Prodi voleva sì una riforma, ma sempre a costo zero.
La drammaticità della situazione impone di mettere mano ad una riforma. Come farla oggi?
Fare una riforma del welfare è quasi più complicato della riforma delle pensioni. In ogni caso abbiamo bisogno di un’indennità di disoccupazione generalizzata, di un reddito minimo con tutti i controlli sul livello della formazione. Se c’era un momento per fare una riforma, con la crisi economica alle porte, era questo. Ma abbiamo perso un’altra occasione. Il governo ha preferito usare gli strumenti esistenti, inventando nuove eccezioni.
Quali?
A parte l’uso della cassa integrazione, il sostegno previsto per i cocopro monocommittenti, ignorando il fatto che molti non lo sono. Se perdono il lavoro principale, ma hanno un’altra committenza, queste persone perdono la possibilità di accedere ad un sostegno abbastanza miserabile, credo di 3 mila euro all’anno. Anche in questo caso i sindacati hanno posto delle condizioni. Invece di chiedere l’estensione delle garanzie a tutti i cocopro, hanno accettato la creazione di un’altra categoria speciale di protetti. Non sto dicendo che è colpa loro, ma hanno delle responsabilità.
Il segretario Fiom Ladini ha rilanciato l’ipotesi del «reddito di cittadinanza». È un’apertura rispetto alla cultura sindacale?
Lo è se non lo chiamano «salario», una cosa che mi fa venire i brividi. Nella vecchia sinistra Pci c’è stata una forte resistenza contro il reddito minimo. Trentin lo trovava sbagliato perché bisogna creare innanzitutto il lavoro. Aveva ragione, ma cosa si fa per chi non ce l’ha? O guadagna troppo poco? Sa, per «reddito» si intendono cose diversissime. C’è chi come Philippe Van Parjis, esponente del Basic Income Network, sostiene che quello che conta è il reddito come principio e non il livello del contributo. Io sono d’accordo, ma bisogna fare anche i conti con ciò che è sostenibile politicamente, qui e ora.
Perchè quando si parla di welfare lo si intende solo come un costo da tagliare?
È una mentalità che esiste solo in Italia. Da noi il welfare è pensato come assistenza, non come benessere. È una spesa improduttiva, mentre il welfare è anche una spesa preventiva per sostenere il capitale umano delle persone che perdono il lavoro e ne cercano un altro. Inoltre le politiche sociali sono anche investimenti nella coesione sociale di lungo periodo. Ad esempio, in Germania dove mi trovo in questo momento, i bambini ricevono 200 euro al mese fino alla maggiore età. Da noi hanno 40 euro al mese fino a tre anni e poi non se ne parla più. E nessun altro sostegno alla famiglia.
È possibile invertire la tendenza nei prossimi cinque anni?
Non credo. Non esiste una cultura politica all’altezza e abbiamo una vecchia cultura imprenditoriale che usa la flessibilità senza investire nel capitale umano. Siamo un paese che pensa di essere inesauribile, capace di riprodursi da sé, senza investire su nulla. Sono molto turbata.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20110202/pagina/09/pezzo/296391/
—
Con Google Art Project i musei a portata di mano 02.02.2011
Se vi siete divertiti con Google Street View a vedere le piazze e le strade dove siete stati, a ’spiare’ dove abitano i vostri amici e a localizzare i più bei graffiti… beh, adesso le cose si fanno ancor più interessanti. Proprio ieri è stato lanciato Google Art Project, la trasposizione virtuale dei 17 musei d’arte più importanti al mondo. Tra questi c’è il Metropolitan Museum of Art e il Museum of Modern Art di New York, la Tate Britain e la National Gallery di Londra, e il Van Gogh Museum di Amsterdam, il Museo Reina Sofia di Madrid e, naturalmente, gli Uffizi di Firenze.
Trattandosi di Google, la storia che sta dietro a questo progetto non poteva che essere particolare. Un piccolo gruppo di dipendenti del colosso di Mountain View (California) con la passione per l’arte, ha partorito l’idea di rendere più accessibili i musei d’arte di tutto il mondo. Ecco come è nato Googleartproject.com, il più grande museo dei musei del mondo, con oltre 1000 opere d’arte di più di 400 artisti può essere visto.
Tutto ciò è possibile grazie ad una tecnologia fotografica ad altissima risoluzione (si parla di gigapixel, ogni immagine ha circa 7 miliardi di pixel), con cui si possono ingrandire i quadri per vedere i dettagli delle pennellate. Il sito è già funzionante e vi invito a provarlo… date un’occhiata alla Nascita di Venere del Botticelli e vi accorgerete da soli di che strumento abbiamo di fronte! Ingrandimenti impossibili ad occhio umano (soprattutto quando ci sono di mezzo i vetri)!
Saranno contenti tutti gli studenti d’arte che devono fare delle copie dal vero… con l’ausilio di un proiettore si possono raggiungere risultati impressionanti.
—
L’acqua? C’è! Basterebbe cooperare 02.02.2011
Gran parte delle risorse idriche globali scorre sotto la crosta terrestre, esse costituiscono una fonte alternativa importante per fronteggiare i problemi, presenti e futuri, di disponibilità d’acqua potabile, soprattutto in quei Paesi naturalmente poco dotati di risorse idriche superficiali. Questa ricchezza nascosta è stata a lungo trascurata proprio per il suo carattere occulto ed è stata sfruttata troppo o troppo poco per mancanza di norme adeguate (a livello locale, nazionale e internazionale) che ne preservassero il buono stato ecologico e ne regolamentassero l’uso.
Tale tema è oggi al centro dell’agenda politica internazionale che presta particolare attenzione alle falde acquifere transfrontaliere soggette, non solo, a pressioni concorrenti per usi diversi a livello nazionale, ma anche, a giurisdizioni differenti. L’Africa, per esempio, tradizionalmente considerata come un continente arido e desertico per la maggior parte della sua estensione, conta ben 38 falde acquifere, tutte condivise fra due o più Stati.
Nelle regioni aride e semi-aride, l’accesso a fonti d’acqua potabile rappresenta una questione di sopravvivenza e quindi motivo di scontro, anche violento, fra i Paesi che concorrono nel suo utilizzo. Spesso poi, gli Stati con maggiori capacità tecniche ed economiche si assicurano l’accesso alle riserve sotterranee e vantano diritti esclusivi di utilizzo a discapito di tutti gli altri, come nel caso del Nilo.
Nel dicembre del 2008 l’Assemblea Generale della Nazioni Unite ha adottato una risoluzione contenente i principi guida, elaborati dalla Commissione di Diritto Internazionale, per un’adeguata protezione e gestione delle falde acquifere transfrontaliere. Anche questa convenzione non è giuridicamente vincolante ma gli Stati che condividono risorse sotterranee vengono esortati a negoziare accordi specifici, sulla scorta dei suddetti principi, al fine di cooperare e realizzare una gestione congiunta.
I Paesi che condividono risorse idriche sotterranee sono solitamente riluttanti a collaborare tra di loro e a firmare Convenzioni internazionali in materia di sovranità di risorse naturali. Tra l’altro, ci sono numerose difficoltà tecniche giacché mancano spesso informazioni precise relativamente all’estensione e alla qualità delle riserve sotterranee, risorse economiche e strumenti tecnologici per realizzare le suddette valutazioni e scarsa conoscenza delle peculiarità delle acque sotterranee rispetto a quelle superficiali.
A tal fine, nel 2000, il Programma Idrologico Internazionale dell’UNESCO (UNESCO IHP) ha lanciato il progetto ISARM (International Shared Aquifer Resources Management) volto a realizzare un inventario globale delle falde acquifere transfrontaliere e sviluppare buone pratiche e strumenti guida per l’adeguata gestione delle risorse sotterranee. I progressi nella raccolta dei dati e nella realizzazione dell’inventario sono stati presentati a Parigi, lo scorso dicembre, in occasione della Conferenza Internazionale ISARM 2010 “Transboundary Aquifers: Challenges and new directions” e sono ora raccolti nell’Atlante delle Falde acquifere, che verrà progressivamente arricchito di dati nuovi e più precisi.
La Conferenza ha raccolto non solo giuristi e diplomatici, ma anche idrologi, geologi, ingegneri ambientali, geografi e altri esperti che, data la trasversalità della tematica trattata, possono dare un contributo importante allo sviluppo di un quadro normativo appropriato e misure d’intervento efficaci a proteggere le falde acquifere.
Tale questione deve essere affrontata in tempi piuttosto brevi visto che le risorse idriche, in generale, stanno subendo il forte impatto dei cambiamenti climatici, della crescita di popolazione e conseguente aumento della domanda d’acqua e sono troppo spesso sottoposte ad uno sfruttamento eccessivo e inadeguato. Gli investimenti in termini economici e tecnici sono ingenti e lo sviluppo di soluzioni appropriate richiede la partecipazione di esperti di diversi settori, ma è uno sforzo necessario visto che l’acqua è un bene comune, è la risorsa vitale per eccellenza e va protetta e rispettata.
Le esperienze di collaborazione e gestione congiunta di falde acquifere transfrontaliere, come è stato ipotizzato da la Carta di Trento per una cooperazione verde, si stanno realizzando in varie aree del mondo. Esse hanno dimostrato che preservare la quantità e qualità delle acque sotterranee e cooperare apporta benefici maggiori ed equamente distribuiti tra gli Stati che partecipano nella gestione delle risorse condivise, come nel caso dell’Acquifero Guaranì, rispetto ad azioni nazionali indipendenti e contrastanti tra di loro.
Emma Mitrotta
http://www.unimondo.org/Notizie/L-acqua-C-e!-Basterebbe-cooperare
—
Pechino nella morsa di una siccità mai vista 03.02.2010
Nella capitale cinese non piove e non nevica da mesi, come non accadeva da oltre 60 anni. Autorità in allarme, in primavera la situazione potrebbe farsi ancora più grave. Maxi investimenti a favore delle foreste
a cura di Greenreport
Il presidente cinese Hu Jintao ha chiesto di non risparmiare gli sforzi per combattere una prolungata siccità invernale che rischia di compromettere il raccolto cerealicolo estivo. Durante una visita al borgo contadino di Xishanbei, vicino a Baoding, nella provincia dell’Hebei, una delle più colpite dalla siccità che da tre mesi devasta il nord della Cina, Hu ha detto: «Dobbiamo prendere delle iniziative in tutti i settori al fine di assicurare la fornitura di capitali, di tecnologie, di attrezzature e di materiale per permettere una crescita regolare del grano durante l’inverno». Proprio per sottolineare la drammaticità della situazione e per segnare la vicinanza del Partito comunista cinese alle popolazioni rurali colpite, Hu ha scelto il piccolo villaggio di Shijiatong per accogliere il nuovo anno lunare cinese e celebrare la Festa di primavera.
L’attuale siccità invernale sembra destinata a diventare la più lunga da almeno 60 anni. A Pechino non cade né pioggia né neve da mesi e sicuramente per i prossimi 10 giorni il cielo sarà oscurato solo dallo smog. Il record attuale per Pechino è quello dell’inverno 1970-1971, quando non piovve e non nevicò per 114 giorni. Il primo febbraio il capo dell’ufficio meteorologico municipale, Sun Jisong, ha detto che «se la siccità continuerà per altri 14 giorni, sarà il più lungo periodo senza precipitazioni conosciuto dalla capitale cinese dal 1951 e dall’inizio dell’archiviazione dei dati meteorologici.
La siccità persistente aggrava i rischi di incendi e di malattie in città. Però, grazie all’approvvigionamento idrico, i cittadini risentono appena della crisi. Ma con l’avvicinarsi della primavera, la temperatura a Pechino aumenterà, il che aggraverà la siccità».
Nelle campagne intorno a Pechino la situazione sembra peggiore. Zhang Tiecheng, direttore aggiunto del villaggio di Nanjiao, nel distretto di Fangshan, a sud-ovest della capitale, ha detto all’agenzia ufficiale Xinhua che «le persone anziane non hanno mai conosciuto una tale crisi invernale per l’acqua. Un sistema di quote che limita l’acqua per ogni famiglia è stato messo in atto a novembre, perché l’acqua prelevata dai tre nuovi pozzi realizzati è riservata per berla». Prima per raggiungere la falda bisognava scavare per 200 metri in profondità ora i nuovi pozzi trovano l’acqua tra i 300 e gli 800 metri.
Le precipitazioni invernali, anche se rappresentano solo il 2% del consumo idrico totale annuo della capitale cinese, sono importanti proprio perché permettono la rigenerazione delle falde sotterranee. Hu Bo, responsabile dell’ufficio idrologico di Pechino, sottolinea che la capitale prende acqua dalla vicina provincia dell’Hebei (proprio quella visitata da Hu Jintao) e che dovrà continuare a farlo almeno fino a marzo: «Non oso pensare alla dimensione che assumerà la crisi dell’acqua nella città quando l’adduzione di acqua dalla provincia dell’Hebei cesserà».
Per placare la sua grande sete Pechino dovrà aspettare almeno fino al 2014, quando il colossale progetto di spostamento dei fiumi sud-nord sarà terminato. Intanto, a breve termine, si pompa acqua dal riarso Hebei. Il 30 gennaio l’autorità nazionale per il controllo della siccità ha dichiarato che «circa 77,4 milioni di mu (5,16 milioni di ettari di terre coltivate) sono stati devastati dalla siccità, e 2,57 milioni di persone si stanno confrontando con una penuria di acqua potabile. Grandi città, comprese Pechino e Tianjin, e le province di Henan e dello Shandong sono tra le regioni più colpite».
La siccità e il global warming fanno sempre più paura ed anche per questo il governo cinese ha investito 297,9 miliardi di yuan (circa 45,27 miliardi di dollari) nelle foreste con il suo undicesimo Piano quinquennale 2006-2010. L’Amministrazione nazionale delle foreste evidenzia che «questa cifra rappresenta un aumento dell’ 80% in rapporto agli investimenti durante il periodo del decimo Piano quinquennale. Gli investimenti sono stati essenzialmente diretti verso la ricostruzione ecologica, la riforma del settore forestale ed il miglioramento del livello di vita degli abitanti delle regioni forestali. Tra questi investimenti, la costruzione di infrastrutture ha rappresentato 47,9 miliardi di yuan, una crescita del 23,13% in rapporto al decimo piano quinquennale».
Le preoccupazione per le mutate condizioni climatiche e per i disastri ambientali prodotti dalla rapidissima crescita cinese sono emersi anche ieri in occasione delle celebrazioni in Cina della giornata mondiale delle zone umide, che quest’anno è dedicata al tema “Le zone umide e le foreste”. Anche in questo settore, legatissimo alla disponibilità di acqua dolce e pulita, la Cina nel 2011 raddoppierà i suoi sforzi per proteggere le zone umide del Paese. L’Amministrazione nazionale delle foreste spiega che «la Cina promuoverà la legislazione in materia di protezione delle zone umide. Il Paese si impegna a mettere sotto protezione il 55% delle sue zone umide entro il 2015».
Greenreport 1
http://www.repubblica.it/ambiente/2011/02/03/news/siccit_cina-12021831/?rss
—
Bocciatura Ue sui rifiuti a Napoli 04.02.2011
di Jacopo Giliberto
Tre notizie sui rifiuti di Napoli. Il parlamento europeo boccia l’emergenza della Campania. E chiede che vengano bloccati 145,5 milioni di fondi europei destinati all’ennesimo tentativo di risolvere la crisi.
La seconda notizia è che sta per cominciare una nuova (l’ennesima) fase rovente dell’emergenza: i rifiuti ricominciano ad accumularsi sui bordi delle strade e presto non si saprà dove metterli. Infine, i militari consegnano scatoloni di documentazione economica sulla gestione dell’emergenza (contratti, fatture, bandi e così via): avrebbero dovuto fare il lavoro di rendicontazione, ma è stato ordinato loro di rinunciare all’incarico.
Ieri il parlamento europeo in sessione plenaria riunita a Bruxelles, con 374 voti a favore, 208 contrari e 38 astenuti ha approvato un documento durissimo e ha respinto tutti i 17 emendamenti “mitigatori” presentati da 40 deputati del Ppe, tutti italiani.
Il documento (una “risoluzione”) chiede il blocco di 145,5 milioni di euro in favore della Campania, fino a quando la commissione europea non avrà prove certe sull’esistenza di un piano rifiuti conforme alle norme. Il parlamento ha chiesto alla commissione Ue di tenere un controllo stretto sulla situazione e ha appoggiato le proteste dei cittadini. Ma un passo caldissimo è là dove il parlamento europeo «ritiene che le misure straordinarie applicate per lunghi periodi dalle autorità italiane, tra cui la nomina di commissari speciali o la designazione dei siti dei rifiuti quali aree “di interesse strategico” sotto il controllo dell’esercito – dice il documento approvato – siano state controproducenti e teme che l’opacità instauratasi nella gestione dei rifiuti da parte delle autorità pubbliche abbia favorito una maggiore presenza di gruppi di criminalità organizzata, anziché ridurla, sia nella gestione ufficiale dei rifiuti a livello regionale che nello smaltimento illegale dei rifiuti industriali».
Qualche commento. «Una condanna preventiva. La risoluzione votata è solo un manifesto contro l’Italia. Anche in Europa si trasferisce il metodo giudiziario», sbotta l’europarlamentare Erminia Mazzoni del Pdl-Ppe. La risoluzione del parlamento «si limita a richiamare l’esigenza che le autorità competenti ai vari livelli provvedano ad adottare misure urgenti e invita la Commissione europea a monitorarne l’esecuzione», tranquillizza un altro pdl, Nicola Formichella. «Un altro colpo al tanto sbandierato miracolo di Berlusconi sui rifiuti in Campania», controbatte Stella Bianchi del Pd. Per Angelo Bonelli, presidente dei verdi, «il governo Berlusconi è incapace di affrontare una emergenza che, nel dicembre del 2009, aveva dichiarato conclusa: è il caso che l’Europa invii propri funzionari per gestire un’emergenza che rischia di essere eterna».
Di certo una soluzione si troverà, ma non ora: «Non siamo ancora in emergenza, ma in difficoltà e sacchi e sacchetti cominciano ad aumentare di nuovo», dice Rosa Russo Iervolino, sindaco di Napoli. E «nei prossimi giorni aumenteranno i rifiuti» dice Antonio Bassolino, già sindaco di Napoli e presidente della regione Campania. «È una situazione destinata a peggiorare sempre più. Non ci sono siti disponibili e quelli che abbiamo lavorano a rilento», osserva l’assessore all’Igiene urbana del comune di Napoli, Paolo Giacomelli. Intanto, «la prossima settimana saranno nominati i commissari per l’impiantistica, così come previsto dal decreto legge sui rifiuti approvato nei giorni scorsi», rassicura il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro.
Sul fronte della rendicontazione che era affidata all’unità stralcio dell’esercito, ai militari è stato ordinato di consegnare ai civili la documentazione. Gli scatoloni pieni di documenti vengono sigillati con la ceralacca e vengono ammassati in un ufficio del centro di Napoli, in via Medina, dove sono chiusi a produrre polvere altri quintali di documenti.
—
Anoressia: nuove prospettive di cura 04.02.2011
Le giovani pazienti affette da anoressia nervosa restrittiva presentano una vulnerabilità specifica nelle aree del cervello coinvolte nella rappresentazione mentale di sè e nella manipolazione delle immagini mentali.
Tali alterazioni spiegano perchè chi è affetto da anoressia nervosa ha una percezione distorta del proprio corpo e teme di ingrassare anche quando è sottopeso o addirittura in uno stato di denutrizione.
La scoperta, pubblicata su una delle maggiori riviste internazionali ‘Psychiatry research: Neuroimaging’, è stata fatta da un gruppo di ricercatori italiani guidati dal dottor Santino Gaudio, medico psichiatra, impegnato in diversi progetti di ricerca con importanti ospedali italiani.
“L’articolo pubblicato – spiega una nota – è il primo lavoro in letteratura su adolescenti con anoressia nervosa restrittiva che utilizza una nuova metodica di analisi della sostanza grigia (la Voxel Based Morphometry). I ricercatori hanno confrontato la sostanza grigia del cervello di 16 adolescenti con anoressia nervosa restrittiva, la cui malattia durava da meno di un anno, e di 16 ragazze adolescenti normali, utilizzando la risonanza magnetica e la nuova metodica di analisi (la Voxel Based Morphometry). Le adolescenti con anoressia nervosa presentavano una riduzione della sostanza grigia nelle aree del cervello coinvolte nella rappresentazione mentale di se e nella manipolazione delle immagini mentali. Tali risultati evidenziano una base neurobiologica per la distorsione dell’immagine corporea che è il sintomo cardine dell’anoressia nervosa. La scoperta, fatta dal gruppo guidato dal Dott. Gaudio – si legge – dà un nuovo contributo alla comprensione del perchè queste pazienti hanno un’immagine distorta del loro corpo ed apre la strada a nuove possibili strategie terapeutiche“.
—
I batteri ci controllano la mente 04.02.2011
Cambiamenti di umore, felicità inspiegabile, memoria migliorata, depressione. Tutti effetti spiegabili da un’infezione batterica in corso, per la gioia degli ipocondriaci
di Caterina Visco
Contento o con il morale a terra, con atteggiamenti strani o affetto da veri e propri disturbi mentali. La causa potrebbe essere, almeno in parte, di un’infezione batterica e della conseguente risposta del sistema immunitario. Alcuni studi, infatti, mostrano che questo processo può influenzare il nostro umore, la memoria e le capacità di apprendimento. E persino modellare la nostra personalità, secondo quanto racconta un articolo su New Scientist. La buona notizia? Comprendere questi legami tra cervello e sistema immunitario potrebbe portare a un nuovo modo di trattare alcuni disordini, dalla depressione alla sindrome di Tourette.
Comportamento
Sammy Maloney era un dodicenne di Kennebunkport nel Maine, sano, che suonava nella banda della scuola e che più di ogni altra cosa amava andarsene in giro con i suoi amici dopo le lezioni. Nel 2002, però, qualcosa cominciò a cambiare nella sua personalità. Prima cominciò a camminare a occhi chiusi per tutto il cortile, poi a usare solo la porta sul retro per entrare in casa, a indossare solo alcuni indumenti, a impedire che le finestre venissero aperte o che le luce fossero spente. Nel giro di quattro-sei settimane al ragazzo venne diagnosticato prima un disturbo ossessivo compulsivo, poi una sindrome di Tourette. Fortunatamente, qualche tempo dopo un amico di famiglia suggerì ai genitori di Sammy di sottoporlo a un test per lo streptococco, un comune batterio che di solito non provoca più di un mal di gola. Sam non mostrava nessun sintomo da infezione da streptococco, ma le analisi rivelarono l’infezione in atto; quando il medico prescrisse una terapia antibiotica, i suoi sintomi cominciarono a migliorare. Oggi è un ventenne come tutti gli altri.
Per quanto raro, il caso di Sammy, non è del tutto inusuale. Almeno secondo Madeline Cunningham della University of Oklahoma che ha passato anni a studiare i disturbi comportamentali legati a infezioni infantili da streptococco, inclusa la sindrome di Tourette, un disturbo chiamato Pandas e la Corea di Syndenham (associata a tic e incapacità di controllare le proprie emozioni). Cunningham ha dimostrato che alcuni anticorpi contro un tipo di streptococco legano i recettori di alcune aree del cervello che controllano i movimenti, portando al rilascio del neurotrasmettitore dopamina. Il che spiegherebbe i tic e i problemi emotivi sperimentati in alcuni dei bambini con questi disordini. Betty Diamond del Feinstein Institute for Medical Research in Manhasset, New York, ha inoltre dimostrato che alcuni anticorpi associati con il lupus, una malattia autoimmune, riescono a distruggere i neuroni legandosi a particolari recettori nel cervello. Questo potrebbe in parte spiegare i cambiamenti di umore e il declino cognitivo associato alla malattia.
Felicità
Esiste un batterio che regala il buon umore, si chiama Mycobacterium vaccae. Inizialmente doveva essere un nuovo modo per sconfiggere il cancro.
L’idea era che iniettando un certo batterio nelle persone si sarebbe stimolato il loro sistema immunitario a distruggere il tumore. Sfortunatamente, il trattamento non ebbe l’effetto desiderato. Tuttavia i ricercatori notarono che quanti si erano sottoposti al trattamento avevano sperimentato un radicale miglioramento dell’umore e della qualità della vita. I dettagli ancora non sono chiari, ma alcuni studi su animali suggeriscono che la risposta immunitaria provocata dal Mycobacterium vaccae faccia rilasciare ai neuroni della corteccia prefrontale grandi quantità di serotonina, migliorando l’umore e il benessere.
Graham Rook della Royal Free and University College Medical School di Londra ha recentemente suggerito che la depressione è prevalente nelle società occidentali perché le persone non sono più esposte naturalmente a organismi come M. vaccae nei primi anni di vita. A questo punto la domanda sorge spontanea: questo batterio potrebbe essere usato per rendere felici le persone? Ovviamente è più difficile ottenere l’approvazione per iniettare batteri vivi in persone depresse che non in pazienti malati di cancro in fase terminale. Quindi il prossimo passo previsto è lo studio clinico in pazienti con il cancro alla prostata. Se ci sarà un forte effetto di miglioramento dell’umore, allora forse le aziende farmaceutiche potranno concentrarsi di più sul potenziale antidepressivo del batterio. Se poi venisse scoperto il meccanismo preciso, chissà forse potrebbe essere possibile sviluppare un farmaco che ne mimi l’effetto.
Memoria
Migliorare il sistema immunitario per mantenere efficace la memoria con il trascorre del tempo? Jonathan Kipnis della University of Virginia ne è convinto. Con il suo team di ricerca, infatti, ha fatto crescere alcuni topi deficitarii delle cellule Cd4 (un tipo di cellule del sistema immunitario), scoprendo che gli animali avevano limitate capacità di apprendimento e scarsa memoria. Quando poi i ricercatori somministravano ai topi le cellule Cd4, la memoria migliorava.
Analogamente, quando Kipnis induceva la morte di queste cellule in roditori sani, la loro memoria diminuiva. Inoltre, altri studi del ricercatore mostrano che l’apprendere di nuovi compiti implica una l’arrivo di cellule Cd4 alle meningi, le membrane che circondano il cervello. Qui il rilascio di interleuchina 4, (che controlla la risposta immunitaria) dice alle cellule del cervello di rilasciare un fattore neurotico, una proteina che migliora l’apprendimento. Kipnis ora sta sviluppando un tipo di farmaci mirati al miglioramento della memoria in risposta a un rafforzamento del sistema immunitario. Secondo il ricercatore, i farmaci potrebbero essere usati non solo per invertire il declino cognitivo legato all’età o a determinate patologie, ma anche per migliorare la memoria nelle persone sane.
Depressione, sospetto ed empatia
Quando siamo malati, spesso ci sentiamo letargici e perdiamo il nostro appetito.
La nostra concentrazione soffre e noi possiamo sentirci ansiosi, depressi e antisociali. Questi cambiamenti sono causati da molecole segnale, chiamate citochine, che sono rilasciate dalle cellule del sistema immunitario in risposta allo stress e alle infezioni. Recenti studi hanno mostrato che se si inietta in una persona sana l’ interferone alfa, un farmaco antivirale che promuove il rilascio di citochine, questa inizierà a mostrare i sintomi della depressione. “ Teoricamente le citochine possono interagire con ogni meccanismo rilevante nella depressione”, spiega Andrew Miller della Emory University School of Medicine di Atlanta, in Georgia. Miller, inoltre, ha recentemente scoperto che il farmaco attiva la corteccia cingolata anteriore, una regione coinvolta nell’ individuazione degli errori e nella gestione del conflitto. Simili meccanismi di attivazione sono stati osservati nelle persone con gravi nevrosi e comportamenti ossessivo compulsivi. “ Se aumenti l’attività in questa area del cervello le persone tendono a essere più sospettose e a interpretare segnali innocenti come minacce”, spiega il ricercatore. Oltre alle infezioni e alle tossine, anche stress e obesità possono provocare il rilascio di citochine. Gli effetti di queste sostanze, tuttavia, non sono tutti negativi tuttavia, come sottolinea Naiomi Eisenberger della University of California Los Angeles. Insieme ai suoi colleghi, ha scoperto che alcune persone diventano più sensibili al dolore degli altri e ai problemi della società se veniva iniettata loro tossina batterica che aumenta la secrezione di citochine. In particolare una citochina, chiamata interleuchina 6, sembra aumentare l’attività del cervello coinvolta nell’ empatia.
http://daily.wired.it/news/scienza/umore-disturbi-personalita.html
—
L’Egitto e le sporche coscienze
di Sherif El Sebaie
Alcuni individui sono duri di comprendonio. Non si spiega, altrimenti, il fatto che qualcuno continui a chiedermi se sto con ocontro Mubarak, manco fosse una partita di calcio. Lo voglio ribadire forte e chiaro: dividersi fra chi sta con e chi sta contro Mubarak in questo particolare momento storico e con la brutta piega che stanno prendendo gli eventi, è stare semplicemente contro il bene supremo del paese. Dividersi fra chi è e chi non è disposto ad aspettare le sue dimissioni fra soli 200 giorni, permettendogli di salvare l’onorabilità della carica di Comandante supremo delle Forze Armate (una qualifica direttamente collegata al prestigio dell’esercito, unico garante dell’unità nazionale, tra l’altro festosamente accolto dai manifestanti antigovernativi) e di militare che ha combattuto la guerra contro Israele e governato il paese per trent’anni con meriti e demeriti che non mi metto certo a quantificare, porterà soltanto al caos e alla distruzione delle infrastrutture e dell’economia del paese in modo irrimediabile (e dire che persino al nostro ultimo Re, totalmente screditato, travolto dalla corruzione e dalla dissolutezza della sua corte, è stato permesso di abbandonare l’Egitto firmando un proprio editto reale, vestito in alta uniforme di ammiraglio e salutato da 21 colpi di cannone e da truppe dell’esercito).
Chiunque erediterà l’Egitto in gestione, di qualunque colore politico o ispirazione ideologica sarà, non dovrà risanare e rilanciare un paese ma ricostruire delle macerie. Vogliamo davvero che la svolta che si auspica per l’Egitto venga subito inaugurata con il ritornello “Si stava meglio quando si stava peggio”? Nel corso dei recenti avvenimenti sono stati distrutti non solo musei ma anche – solo per fare un esempio – l’ospedale per i tumori infantili, costato milioni: soldi del popolo che sarà difficilissimo recuperare avendo perso decine di miliardi in pochi giorni. Dove andranno a curasi questi bambini? Li accoglieranno in massa gli ospedali occidentali? Anche ciò che questo governo ha fatto di buono andrà distrutto. Aziende straniere come la Nestlè, che da sola dava lavoro a tremila dipendenti, hanno chiuso a tempo indeterminato. Quella gente fra un po’ non saprà come campare. Ricordiamoci che fame e rovina non portano democrazia e diritti. Quelli che hanno aspettato trent’anni per scendere in piazza contro Mubarak senza avere un leader da proporre in alternativa davvero non riescono ad aspettare 200 giorni per evitare al paese di sprofondare in un abisso da cui nessuno, ma proprio nessuno, riuscirà a tirarlo fuori?
Non entro nel merito di chi siano i manifestanti che a migliaia hanno partecipato alla marcia pro-Mubarak che è poi degenerata in scontri sanguinosi, non mi interessa. Che l’abbiano fatto per soldi o perché hanno ricevuto un sms del governo – come sostengono gli oppositori – o perché convinti che bisognava farlo perché esasperati dal danno economico – come sostengono i diretti interessati, fra cui i cammellieri che lavoravano con i turisti vicino alle piramidi – è irrilevante visto il disastroso esito finale: un assaggio di guerra civile. Anche se trovo francamente ridicolo che qualcuno creda davvero che bastino tre euro e mezzo, cioè 25 pound – una cifra che da anni non basta a comprare due bottiglie di olio al Cairo – per convincere chiunque a rischiare la pelle a pagamento per un presidente ormai uscente. Non basterebbero neanche mille di pound, oggi. E i rimanenti 23 milioni di abitanti del Cairo quanto sono stati pagati per non scendere a fianco dei 2 milioni che erano in piazza?
La verità è che le cose sono molto più complesse di ciò che i media occidentali sono abituati a propagandare. Non esiste solo il bianco e il nero, il moderato alla zio tom e il terrorista, la democrazia e la dittattura. Esistono anche vie di mezzo, come nel caso dell’Egitto, la singolare forma ossimoro di democrazia autoritaria che ha garantito una stabilità geostrategica a livello internazionale, quindi anche pace e stabilità per il paese, anche se è fallita nel garantire un’equa suddivisione della ricchezza internamente. E’ la stessa che ha permesso a scrittori come Alaa Al Aswani ed altri intellettuali di scrivere editoriali di fuoco e ispirare film e romanzi durissimi contro il presidente, suo figlio e il governo, formando e via via galvanizzando l’opinione pubblica che poi si è ritrovata a piazza Tahrir. Certo, c’è anche la tortura e la repressione. Ma chi si scandalizza farebbe prima a ricordarsi che persino in molti paesi democratici – dove l’opinione della maggioranza della popolazione non spesso condiziona l’azione dell’esecutivo eletto – capita che manifestanti pacifici vengano manganellati e torturati o che giovani fermati escano cadaveri dalle stazioni di polizia in cui sono entrati vivi e vegeti, senza che i colpevoli siano adeguatamente puniti.
Come egiziani – musulmani e copti, religiosi e laici – come cittadini arabi e come cittadini del mondo abbiamo una sola ed unica responsabilità: proteggere l’Egitto, il baricentro del mondo arabo, la culla della civiltà, dal caos che può giovare solo ai suoi nemici. E pazienza se ciò non piace ad alcuni rivoluzionari col culo al caldo residenti in Occidente. A loro non interessa affatto ciò che succederà, dopo: semplicemente cambieranno meta di vacanze o di lavoro. A loro basta cavalcare l’onda del momento rinvagando l’ambiente che li ha resi celebri sul web, regalarsi l’illusione di aver contribuito ad un “evento storico” o più semplicemente vendere più copie dei loro libri sul Medio Oriente e sugli Arabi, area e popoli che hanno sfruttato con ipocrisia e irresponsabilità. Sfruttatori, si. E non solo a parole. Questo vale anche per coloro che dicono che sono andati li per “lavorare” mentre erano li per fare una vita da “gauche sardine” che nei loro paesi non si sarebbero mai potuti permettere. Perché anche se fosse vero che non erano pagati profumatamente, hanno sempre potuto contare su qualche entrata extra in euro – su cui non hanno mai pagato le tasse in Egitto – e sulla svalutazione della lira egiziana per fare una vita che nessuno dei poveri che oggi dicono di difendere a spada tratta poteva o potrà mai permettersi.
Ma, cosa ancora più importante, hanno potuto approffittarsi dell’innata disponibilità, gentilezza, ospitalità ed oserei dire persino della singolare servilità masochista dei miei bravi ed onesti concittadini, che si sciolgono appena vedono il “khawaga”, lo straniero, magari biondo o semplicemente con un passaporto rosso. E che per questo si ingegnano in mille modi per aiutarlo, risparmiargli la fila, cedergli il posto, rendergli la vita più facile. Non sanno, poveretti, che quando sono loro a finire nei paesi dei Khawaga, non hanno diritto a nessuna corsia preferenziale per via della loro pelle scura e del loro passaporto verde, semmai le cose diventano molto più difficili. Eh no, cari rivoluzionari da tastiera: io scrivo e dico quello che voglio sul paese dove sono nato,cresciuto e di cui porto la cittadinanza pur vivendo e lavorando in una seconda patria, delle cui politiche interne – eccettuate quelle sull’immigrazione – non mi sono mai occupato. Voi invece se volete scatenare il caos là dove avete avete vissuto solo da turisti, da ospiti – voi si che lo eravate – serviti e riveriti, lavatevi prima la sporca coscienza.
Pubblicato il 4/272011 su Salamelik
http://www.nazioneindiana.com/2011/02/05/legitto-e-le-sporche-coscienze/
—
Geopolitica della Romania 13.01.2011
Aleksandr Dugin
I geni romeni e l’identità romena
La Romania ha dato al mondo, specialmente nel XX secolo, tutta una pleiade di geni di livello mondiale : Nae Ionescu, Mircea Eliade, Emil Cioran, Eugen Ionescu, Ştefan Lupaşcu, Jean Pârvulescu, Vasile Lovinescu, Mihail Vâlsan e molti altri.
Per quanto sia un piccolo Paese dell’Est europeo, sul piano intellettuale la Romania ha dato un contributo significativo alla civiltà, paragonabile a quello delle grandi nazioni europee e per poco non le ha superate. L’intellettualità romena ha di caratteristico che essa riflette lo spirito del pensiero europeo ed è indissolubilmente legata allo spirito tradizionale, traendo le proprie origini dalla terra e affondando le proprie radici nell’Antichità e in nell’Ortodossia di un immutato Oriente europeo.
Nel suo saggio su Mircea Eliade e l’unità dell’Eurasia, riferendosi alla natura eurasiatica della cultura romena, Claudio Mutti cita Eliade : « Mi sentivo il discendente e l’erede di una cultura interessante perché situata fra due mondi : quello occidentale, puramente europeo, e quello orientale. Partecipavo di questi due universi. Occidentale per via della lingua, latina, e per via del retaggio romano, nei costumi. Ma partecipavo anche di una cultura influenzata dall’Oriente e radicata nel neolitico. Ciò è vero per un Romeno, ma sono sicuro che sia lo stesso per un Bulgaro, un Serbo-Croato – insomma per i Balcani, l’Europa del Sud-Est – e per una parte della Russia » (M. Eliade, L’épreuve du Labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, pp. 26-27).
L’identità romena presenta una simbiosi tra vettori di civiltà orientali e occidentali, senza che gli uni prevalgano sugli altri. In ciò consiste l’unicità della Romania come società e come territorio e dei Romeni come popolo. La Romania e i Romeni si sono trovati divisi tra gl’imperi dell’Oriente (l’impero ottomano) e dell’Occidente (l’impero austro-ungarico), appartenendo alla chiesa ortodossa di rito bizantino e alla famiglia dei popoli di lingua neolatina.
Per gli eurasiatisti russi, questo è solo uno dei punti di approccio possibili, poiché essi prendono in considerazione una combinazione di coordinate occidentali ed orientali nella cultura e nella storia russa, dichiarando una specifica identità del popolo russo e dello Stato russo.
Quindi, nel quadro del dialogo culturale romeno-russo dovrebbe esser considerata la dottrina dell’eurasiatismo, la quale è autonoma, però, grazie alle varietà e alle proporzioni di cui essa dispone, ci offre una solida base per un mutuo approccio, ed una comprensione e un’amicizia reciproche.
Perciò la traduzione in romeno del libro I fondamenti della geopolitica, che contiene il programma della scuola geopolitica russa dell’eurasiatismo, può essere considerata un’opera di riferimento. Confido nel fatto che i Romeni, entrando in familiarità con la dottrina geopolitica dell’eurasiatismo di scuola russa, comprendano il paradigma del pensiero e dell’azione di Mosca sia in relazione al passato, sia in relazione al presente.
La Romania e la struttura delle opzioni geopolitiche (euroatlantismo ed eurocontinentalismo)
Adesso, alcune parole sulla geopolitica della Romania. Nelle condizioni attuali, l’espressione « geopolitica della Romania » non è molto appropriata, se prendiamo in considerazione la Romania come soggetto di geopolitica. Nell’architettura del mondo contemporaneo un soggetto del genere non esiste. Ciò è dovuto alla logica della globalizzazione, nella quale il problema si presenta in questi termini : o ci sarà un solo « Stato mondiale » (world state), con un governo mondiale guidato e dominato direttamente dall’ « Occidente ricco », in primo luogo dagli USA, oppure si stabilirà un equilibrio tra i « grandi spazi » (Grossraum) dei « nuovi imperi », i quali integreranno quelli che finora abbiamo conosciuto come « Stati nazionali ». Nel nostro mondo, o si passerà dagli Stati nazione sovrani (come nell’Europa tra il XVI e il XX secolo) al governo mondiale (mondo unipolare) o avrà luogo il passaggio verso un nuovo impero (mondo multipolare).
In entrambi i casi, la dimensione della Romania come Stato non ci consente di dire – nemmeno in teoria – che la Romania possa diventare un « polo » ; perfino la Russia, col suo potenziale nucleare, le sue risorsde naturali e il suo messianismo storico, si trova in una situazione analoga.
In tali condizioni, la « geopolitica della Romania » costituisce una sezione della « geopolitica dell’Europa unita ». Questo non è soltanto un dato politico attuale, essendo la Romania un Paese membro dell’Unione Europea, ma è un fatto inevitabilmente connesso alla sua situazione geopolitica. Anzi, la stessa « geopolitica dell’Europa unita » non è qualcosa di garantito e sicuro. Perfino l’Europa presa nel suo insieme, l’Unione Europea, può basare la sua sovranità solo su un mondo multipolare ; solo in un caso del genere l’Europa sarà sovrana, sicché la Romania, in quanto parte dell’Europa, beneficierà anch’essa della sovranità. L’adozione del modello americano unipolare di dominio, che rifiuta all’Europa la sovranità, coinvolge anche la Romania in quanto parte dell’Europa.
Perciò la familiarità con le questioni geopolitiche non è qualcosa di necessario e vitale, ma l’argomento va preso in considerazione quando si tratta di allargare l’orizzonte intellettuale.
In verità, se prendiamo in considerazione quello che abbiamo detto più sopra ikn relazione al contributo dei Romeni alla scienza ed alla cultura dell’Europa, la geopolitica potrebbe essere una base molto importante per determinare il ruolo e le funzioni della Romania nel contesto europeo. Non è quindi casuale il fatto che le prospettive geopolitiche occupino una parte significativa nei romanzi di quell’Europeo esemplare che stato l’eccellente scrittore franco-romeno Jean Pârvulescu, saggista, poeta e pensatore profondo.
Il dilemma della geopolitica europea può essere ricondotto a una scelta fra l’euroatlantismo (riconoscimento della dipendenza da Washington) e l’eurocontinentalismo. Nel primo caso l’Europa rinuncia alla sua sovranità in favore del « fratello maggiore » oltremarino, mentre nel secondo caso essa insiste sulla propria sovranità (fino a organizzare un modello geopolitico e geostrategico proprio). Questa opzione non è completamente definita e sul piano teorico dipende da ciascuno dei Paesi dell’Unione Europea, quindi anche dalla Romania. Per questo motivo, che ha a che fare con la geopolitica della Romania nel senso stretto del termine, nel contesto attuale si rende necessaria una partecipazione consapevole e attiva nella scelta del futuro dell’Europa : dipendenza o indipendenza, vassallaggio o sovranità, atlantismo o continentalismo.
Una geopolitica del « cordone sanitario »
Nella questione dell’identità geopolitica dell’Europa è possibile individuare il modello seguente : ci sono i Paesi della « Nuova Europa » (New Europe), paesi est-europei che tendono ad assumere posizioni russofobiche dure, aderendo in tal modo all’orientamento euroatlantico, delimitandosi ed estraniandosi dalle attuali tendenze continentali della Vecchia Europa, in primo luogo la Francia e la Germania (la Gran Bretagna è tradizionalmente alleata degli USA).
Questa situazione ha una lunga storia. L’Europa dell’Est è stata continuamente una zona di controversie tra Europa e Russia : ne abbiamo un esempio tra il secolo XIX e l’inizio del secolo XX, quando la Gran Bretagna usò deliberatamente questa regione come un « cordone sanitario » per prevenire una possibile alleanza tra la Russia e la Germania, alleanza che avrebbe posto fine al dominio anglosassone sul mondo. Oggi si verifica ancora la stessa cosa, con la sola differenza che adesso viene messo l’accento sui progetti energetici e nei Paesi del « cordone sanitario » si fa valere l’argomento secondo cui si tratterebbe anche di una rivincita per l’ »occupazione sovietica » del XX secolo. Argomenti nuovi, geopolitica vecchia.
La Romania è uno dei Paesi della « Nuova Europa » e quindi fa oggettivamente parte di quel « cordone sanitario ». Di conseguenza, la scelta geopolitica della Romania è la seguente : o schierarsi dalla parte del continentalismo, in quanto essa è un Paese di antica identità europea, o attestarsi su posizioni atlantiste, adempiendo in tal modo alla funzione di « cordone sanitario » assegnatole dagli USA. La prima opzione implica, fra le altre cose, la costruzione di una politica di amicizia nei confronti della Russia, mentre la seconda comporta non solo un orientamento antirusso, ma anche una discrepanza rispetto alla geopolitica continentalista dell’Europa stessa, il che porta a un indebolimento della sovranità europea in favore degli USA e del mondo unipolare. Questa scelta geopolitica conferisce a Bucarest la più grande libertà di abbordare i problemi più importanti della politica internazionale.
La Grande Romania
Come possiamo intendere, in questa situazione, il progetto della costruzione geopolitica nazionalista della Romania, progetto analogo a quello noto col nome di « Grande Romania » ? In primo luogo si tratta della tendenza storica a costruire lo Stato nazionale romeno, tendenza sviluppatasi in condizioni storiche e geopolitiche diverse. Qui possiamo richiamarci alla storia, a partire dall’antichità geto-dacica e citando Burebista e Decebalo. In seguito sorsero i principati di Moldavia e di Valacchia, formazioni statali che esistettero in modo indipendente fino alla conquista ottomana.
Bisogna menzionare anche Michele il Bravo, che agli inizi del secolo XVII realizzò l’unione di Valacchia, Moldavia e Transilvania. Fu solo nel secolo XIX che la Romania conquistò la propria statualità nazionale, la quale venne riconosciuta nel 1878 al Congresso di Berlino. Il peso strategico della Romania è dipeso, anche nelle condizioni della conquista dell’indipendenza, dalle forze geopolitiche circostanti. Fu una sovranità relativa e fragile, in funzione dell’equilibrio estero di potenza, tra Sud (impero ottomano), Ovest (Austria-Ungheria, Germania, Francia, Inghilterra) ed Est (Russia). Di conseguenza, l’obiettivo “Grande Romania” rimase una “utopia geopolitica nazionale”, anche se ricevette un’espressione teorica integrale coi progetti di realizzazione di uno Stato romeno tradizionalista dei teorici della Guardia di Ferro (Corneliu Zelea Codreanu, Horia Sima), mentre nel periodo seguente la Realpolitik di Bucarest fu obbligata, da forze di gran lunga superiori al potenziale della Romania, a operare una scelta: Antonescu fu attratto verso la Germania, Ceausescu verso l’Unione Sovietica.
Per rafforzare l’identità nazionale, l’”utopia nazionale” ed anche l’”utopia geopolitica”, è estremamente importante non rinunciare in nessun caso al progetto “Grande Romania”, ma non si prendono in considerazione gli aspetti concreti dell’immagine della carta geopolitica, poiché un appello all’”ideale” potrebbe essere un elemento di manipolazione, tanto più che la Romania non dispone, nemmeno di lontano, della capacità di difendere, in queste condizioni, la sua sovranità sulla Grande Romania nei confronti dei potenziali attori geopolitici a livello globale e regionale (USA, Europa, Russia).
5. La strumentalizzazione del nazionalismo romeno da parte dell’atlantismo
Una delle forme più evidenti di strumentalizzazione dell’idea di “Grande Romania” si manifesta ai giorni nostri, quando una tale idea viene utilizzata negli interessi dell’atlantismo. Ciò ha uno scopo evidente: il nazionalismo romeno (perfettamente legittimo e ragionevole di per sé) nella Realpolitik fa appello all’idea di integrazione della Repubblica di Moldavia. Sembrerebbe una cosa del tutto naturale. Ma questo legittimo desiderio dell’unione di un gruppo etnico in un solo Paese, nel momento in cui la Romania è membro della NATO, sposterebbe ulteriormente verso la Russia le frontiere di questa organizzazione e, in tal caso, le contraddizioni tra Mosca e l’Unione Europea – e l’Occidente in generale – si esacerberebbero. In altri termini, l’utopia nazionale della “Grande Romania” si trasforma, nella pratica, in una pura e semplice estensione del “cordone sanitario”, la qual cosa non avverrebbe a beneficio dell’Unione Europea, bensì degli USA e dell’atlantismo. In questo contesto, il progetto atlantista mira in fin dei conti a privare l’Europa della sua sovranità, mostrando indirettamente il suo carattere antieuropeo o, quanto meno, anticontinentalista.
All’integrazione della Repubblica di Moldavia si aggiunge anche la Transnistria, che per la Russia rappresenta una posizione strategica in questa regione. Dal punto di vista strategico la Transnistria è molto importante per Mosca, non solo in quanto si tratta di una leva su cui essa può agire nelle relazioni a lungo termine con la Repubblica di Moldavia, ma, fatto più importante, nella prospettiva del probabile crollo dell’Ucraina e della sua divisione in due parti (orientale e occidentale), che prima o poi si verificherà per effetto della politica di Kiev successiva alla “rivoluzione arancione”. Nei Fondamenti della geopolitica c’è un capitolo sulla disintegrazione dell’Ucraina. Il capitolo in questione è stato scritto all’inizio degli anni NOvanta, ma, dopo la “rivoluzione arancione” del 2004, questa analisi geopolitica è diventata più esatta, più precisa. In una certa fase, la Transnistria diventerà un’importantissima base della Russia nella regione. In questa prospettiva, la Grande Romania diventa un ostacolo, cosa che gli strateghi atlantisti hanno previsto fin dall’inizio.
Le frizioni tra Romania e Ungheria, così come alcune frizioni con l’Ucraina, non sono importanti per gli atlantisti e questo aspetto del nazionalismo romeno non avrà il sostegno dell’atlantismo, a meno che ad un certo momento gli USA non pensino di poterlo utilizzare per destabilizzare la situazione secondo il modello della disintegrazione jugoslava.
Puntando sui sentimenti patriottici dei Romeni, gli operatori della geopolitica mondiale si sforzeranno di raggiungere il loro specifici obiettivi.
6. La Romania nel quadro del Progetto Eurasia
Adesso è possibile presentare, in poche parole, il modello teorico della partecipazione della Romania al Progetto Eurasia. Questo progetto presuppone che nella zona settentrionale del continente eurasiatico si stabiliscano due unità geopolitiche, due “grandi spazi”: quello europeo e quello russo. In un quadro del genere, l’Europa è concepita come un polo, come un’area di civiltà. A sua volta, la Russia comprende il Sud (Asia centrale, Caucaso) e l’Ovest (Bielorussia, Ucraina orientale, Crimea). Il momento più importante in un’architettura multipolare è l’eliminazione del “cordone sanitario”, questo perpetuo pomo della discordia controllato dagli Anglosassoni che è in contrasto sia con l’Europa sia con la Russia. Di conseguenza questi Paesi e questi popoli, che tendono oggettivamente a costituire la Nuova Europa, dovranno ridefinire la loro identità geopolitica. Tale identità si deve fondare su una regola principale: contemporaneamente accanto all’Europa e accanto alla Russia. L’integrazione in Europa e le relazioni amichevoli con la Russia: questo è il ponte che unisce i due poli di un mondo multipolare.
Tre Paesi dell’Europa orientale, possibilmente alleati degli altri, potrebbero adempiere a questo compito meglio di altri Paesi: la Bulgaria, la Serbia e la Romania. La Bulgaria è un membro dell’Unione Europea, è abitata da una popolazione slava ed è ortodossa. La Serbia non è un membro dell’Unione Europea, è abitata da Slavi, è ortodossa e tradizionalmente simpatizza per la Russia. Infine la Romania: Paese ortodosso, con una sua missione metafisica ed una accresciuta responsabilità per il destino dell’Europa. Alla stessa maniera, ma con certe varianti, si potrebbe parlare della Grecia. In tal modo la Romania potrebbe trovare una posizione degna di lei nel Progetto Eurasia, sviluppando qualitativamente lo spazio culturale e sociale che collega l’Est (Russia) con l’Ovest (Europa), spazio che assumerebbe l’identità dei Paesi ortodossi dell’Europa, mentre le caratteristiche distintive nazionali e culturali resterebbero intatte, vale a dire non si dissolverebbero nel mondo stereotipato del globalismo né si troverebbero sotto l’influenza del modo di vita americano, che annulla tutte le peculiarità etniche. Integrandosi nell’Unione Europea e stabilendo stretti legami con la Russia, la Romania potrà assicurare il proprio sviluppo economico e potrà conservare la propria identità nazionale.
Senza alcun dubbio, questo progetto richiede un’analisi attenta e deve costituire il risultato di uno sforzo intellettuale particolarmente serio da parte dell’élite romena, europea e russa.
7. Correzioni all’opera I fondamenti della geopolitica
Il libro è stato scritto per lettori russi, ma, come dimostrano le sue numerose traduzioni e riedizioni in altre lingue – specialmente in turco, arabo, georgiano, serbo ecc. – esso ha destato interesse anche al di fuori delle frontiere della Russia. Non bisogna dimenticare che esso è stato scritto negli anni Novanta del secolo scorso per quei Russi che, nel clima e nella confusione generale di riforme liberali e di espansione dell’Occidente, avevano perduto l’ideale nazionale; per lo più, infatti, esso riflette le realtà internazionali di quel periodo. Al di là di tutto questo, però, l’opera contiene riferimenti essenziali alle costanti della geopolitica – le quali sono identiche in ogni epoca – e, in modo particolare, allo spazio eurasiatico.
I principi enunciati nei Fondamenti della geopolitica sono stati sviluppati ed applicati alle nuove realtà storiche dei primi anni del XXI secolo e si ritrovano nelle mie opere successive: Progetto Eurasia, I fondamenti dell’Eurasia, La geopolitica postmoderna, La quarta teoria politica ecc.
I fondamenti della geopolitica si distingue per la presentazione del metodo geopolitico di base applicato al caso dell’Eurasia.
In diversi momenti successivi alla sua pubblicazione, il testo dei Fondamenti della geopolitica è stato riveduto, ogni volta sotto l’influenza degli eventi in divenire, e ciò ha indotto a chiarire certi punti di vista. In primo luogo, l’autore ha riveduto la sua posizione nei confronti della Turchia, posizione inizialmente negativa a causa dell’appartenenza della Turchia alla NATO, nonché dell’azione svolta negli anni Novanta dagli attivisti turchi nei Paesi della CSI. Verso la fine degli anni Novanta, però, la situazione della Turchia ha cominciato a cambiare, poiché alcuni membri dei gruppi kemalisti degli ambienti militari, così come l’élite intellettuale e molti partiti e movimenti politici si sono resi conto che l’identità nazionale turca è minacciata di scomparsa qualora Ankara continui ad eseguire gli ordini di Washington nella politica internazionale e regionale. Questi circoli sollevano un grande interrogativo, perfino per quanto concerne l’integrazione della Turchia nell’Unione Europea, proprio a causa dei timori relativi alla perdita dell’identità turca. I Turchi stessi parlano sempre più di Eurasia, vedendo in quest’ultima il luogo della loro identità, così come già fanno i Russi e i Kazaki. Per adesso i pareri sono discordi, non solo nell’élite politica, ma anche presso la popolazione. Ciò si riflette anche nel caso di alcuni dirigenti politici turchi (ad esempio il generale Tuncer Kilinc), che considerano la possibilità di ritirare la Turchia dalla NATO e di avvicinare la Turchia alla Russia, all’Iran e alla Cina nel nuovo contesto multipolare.
Di questa evoluzione della politica turca non c’è traccia nei Fondamenti della geopolitica; a tale argomento è completamente dedicato il recente lavoro L’Asse Mosca-Ankara. Nonostante i brani antiturchi, i Turchi hanno mostrato interesse nei confronti dei Fondamenti della geopolitica, che sono diventati un testo di riferimento ed un vero e proprio manuale per i dirigenti politici e militari, aprendo loro una nuova prospettiva sul mondo, non solo verso l’Occidente, ma anche verso Est.
Parimenti, nel libro non sono presi in esame la vittoria di Mosca in Cecenia, i fatti di New York dell’11 settembre 2001, i tentativi di creare un asse Parigi-Berlino-Mosca al momento dell’invasione americana in Iraq, la secessione del Kosovo e la guerra russo-georgiana dell’agosto 2008.
Ciononostante, il lettore attento dei metodi presentati nei Fondamenti della geopolitica avrà la possibilità di effettuare la propria analisi in relazione al Progetto Eurasia. La geopolitica è in grado di rispondere alle domande “che cosa” e “dove”, facendo sì che le risposte siano precise quanto più possibile. Ma, per quanto concerne un determinato momento del futuro, si capisce bene che le previsioni non possono essere altrettanto rigorose. La geopolitica descrive il quadro di manifestazione degli eventi in relazione con lo spazio, ma anche le condizioni e i limiti dei processi in divenire. Come sappiamo, la storia è una questione sempre aperta, per cui gli eventi che possono aver luogo nel loro quadro avverranno e si manifesteranno in modi diversi. Certo, gli eventi seguono il vettore della logica geopolitica, per allontanarsene qualche volta o addirittura per spostarsi su una direzione contraria. Ma anche questi allontanamenti recano in sé un senso e una spiegazione geopolitica, implicando tutta una serie di forze, ciascuna delle quali tende ad assumere i processi e gli avvenimenti a proprio vantaggio. Per questo si usano metodi diversi, al di fuori dell’esercito, che nei decenni passati aveva un ruolo essenziale, mentre adesso un ruolo più efficiente viene svolto dalla “rete” armata (guerra delle reti); quest’ultima ha l’obiettivo di stabilire un controllo sull’avversario ancor prima del confronto diretto, attraverso la cosiddetta “azione degli effetti di base”. In questa “guerra delle reti” la conoscenza o l’ignoranza delle leggi della geopolitica (e ovviamente di tutti gli effetti connessi) è determinante.
Quindi non c’è da meravigliarsi se proprio coloro che traggono il massimo vantaggio dai frutti della geopolitica dichiarano, rispondendo alla domanda circa la serietà di quest’ultima, che essi in linea di principio non si sottopongono ai suoi rigori.
(Trad. di C. Mutti)
* Aleksandr G. Dugin (n. 1962), dottore in filosofia e in scienze politiche, è rettore della Nuova Università, direttore del Centro Studi Conservatori dell’Università di Stato di Mosca, nonché fondatore del Movimento Eurasia. Il testo qui tradotto è la Prefazione scritta da A. Dugin per l’edizione romena dei Fondamenti della geopolitica (Bazele geopoliticii, Editura Eurasiatica, Bucarest 2011).
http://www.eurasia-rivista.org/7737/geopolitica-della-romania
—
Lo smacco del Lingotto 06.02.2011
L’ amministratore delegato Sergio Marchionne ha annunciato che il gruppo Fiat-Chrysler, una volta che fosse interamente unificato, potrebbe stabilire la propria sede legale negli Stati Uniti. Sarebbe un fatto senza precedenti
di LUCIANO GALLINO
L’amministratore delegato Sergio Marchionne ha annunciato che il gruppo Fiat-Chrysler, una volta che fosse interamente unificato, potrebbe stabilire la propria sede legale negli Stati Uniti. Sarebbe un fatto senza precedenti.
Non si ricorda infatti un altro grande costruttore, di quelli che hanno fatto la storia dell’automobile, che abbia de-localizzato non solo il proprio braccio produttivo, ma anche la propria testa, gli enti che decidono e guidano tutto il resto di un grande gruppo nel mondo. Toyota e Volkswagen, Citroen e Renault, General Motors e Ford producono milioni di auto in paesi terzi, ma il quartiere generale, il cuore della ricerca e sviluppo, il controllo gestionale e finanziario restano ben saldi nel paese d’origine.
Sarebbe un grave smacco per Torino, per il Piemonte e per tutto il Paese se Fiat cambiasse nazionalità. L’Italia resterebbe con una sola grande industria manifatturiera, la Finmeccanica, che per il 40 per cento produce armamenti, non esattamente il tipo di produzione di cui un paese possa andare fiero, anche se permette di realizzare buoni utili. Questo in un momento in cui l’industria automobilistica è dinanzi a sfide, tipo la mobilità sostenibile, che potrebbero cambiare profondamente la sua struttura produttiva ed i rapporti con altri settori che cominciano seriamente a occuparsi di uno dei maggiori temi da affrontare per evitare il suicidio delle città causa collasso del traffico.
Inutile illudersi in merito a ciò che resterebbe a Torino, nel caso che la testa di Fiat Auto
se ne vada a Auburn Hills o a Detroit. Il Centro Ricerche Fiat, da cui sono uscite alcune delle più importanti innovazioni degli ultimi anni, in specie, nel campo dei motori, sarebbe prima o poi destinato a seguirla, insieme con i designer, i tecnici che progettano i sistemi base di un’auto, gli esperti di autoelettronica. Quanto ai fornitori di componenti, potranno sperare di trovare nuovi clienti tra i grandi gruppi europei ed extraeuropei che continueranno a costruire milioni di auto in ambito Unione europea gestendo con mano sicura la produzione dalle loro sedi nazionali.
È un esercizio sgradevole a farsi, ma dinanzi a un evento che potrebbe segnare definitivamente la discesa dell’Italia tra le potenze industriali di serie C, bisogna pure chiedersi chi sono e dove stanno i responsabili della eventuale migrazione di Fiat Auto negli Stati Uniti. Non è nemmeno un’impresa facile, perché se uno immagina di metterli materialmente fianco a fianco per affrontare tutti insieme una approfondita discussione sul caso Fiat, non basterebbe ormai un palasport.
Forse per deferenza nei confronti delle grandi figure del passato, come Giovanni e Gianni Agnelli, finora se n’è parlato poco, ma sembra evidente che la fuga della Fiat dall’Italia debba non poco alla famiglia proprietaria. Che all’auto deve tutto, ma che da una decina d’anni mostra chiaramente di considerare la produzione di auto come una palla al piede. Altrimenti non si spiegherebbero i modesti investimenti in ricerca e sviluppo che sono calcolati per addetto, la metà di quelli della Volkswagen; il mancato rinnovo di stabilimenti che sono ormai i più vecchi d’Europa, e il lasciare passare di mano il maggiore designer del continente, Giugiaro, senza alzare letteralmente un dito.
Accanto alla famiglia, sugli spalti del palasport dei responsabili della fuga Fiat dovrebbero esserci gli innumerevoli politici, sindacalisti, sindaci, economisti, commentatori tv che hanno salutato i piani del genere «prendere o lasciare» di Marchionne come folgoranti salti nella modernità delle relazioni industriali. Mentre si rivelano ora un goffo tentativo per recuperare sul fronte strettissimo delle condizioni di lavoro quello che si è perso sulla strada maestra dei nuovi modelli, del rinnovo radicale degli impianti, della ricerca e sviluppo. Ad onta della suddetta folla, un pò di spazio sugli spalti dei responsabili della fuga Fiat si dovrebbe ancora trovare per gli esponenti del governo che nel corso degli anni, non solo negli ultimi mesi hanno dato prova di una inettitudine totale nel concepire e attuare una politica industriale che coinvolga l’auto ma non si limiti ad essa. Come hanno saputo fare sia i maggiori paesi Ue, sia perfino alcuni dei più piccoli.
Se la Fiat diventa americana, ossia se è destinata a operare come il distributore di auto Chrysler in Italia, il problema da affrontare subito è il destino di Mirafiori e delle migliaia di posti di lavoro che vi ruotano attorno. Certo, è sempre meglio montare delle jeep i cui pezzi principali (la piattaforma e il motore) sono costruiti in America che restare disoccupati. Ma Torino e l’Italia meritano sicuramente di meglio. Farebbe bene sperare, o quantomeno ridurrebbe il tasso collettivo di pessimismo attorno al destino dei lavoratori Fiat, se nel palasport dei responsabili della migrazione all’estero di questa grande azienda qualcuno provasse ancora a fare un tentativo per uscire da questo vicolo cieco prima di dover sottoscrivere la resa definitiva.
http://www.repubblica.it/economia/2011/02/06/news/fiat-smacco_lingotto-12113270/
—
La sinistra è morta per mancanza di idee 06.02.2011
(La fine del modello di partito leninista)
Viviamo in un sogno.
Come in Matrix non vediamo la realtà.
Ho sentito ripetere un milione di volte che la sinistra italiana non è capace di opporsi in modo decente a Berlusconi.
Ma poi non ho sentito molti dire cosa farebbero loro, al posto di Bersani.
In un articolo precedente ho raccontato la storia della Semco, grossa azienda brasiliana dove il proprietario,
Ricardo Semler, ha deciso un cambiamento radicale del sistema. Orari flessibili e stipendi flessibili, ognuno decide quanto guadagnare e quanto lavorare, si accorda con i colleghi e si reca al lavoro all’ora che preferisce, non ci sono neppure turni fissi!
Sono stati aboliti i controlli e molta burocrazia aziendale.
I lavoratori in assemblea intervistano i candidati per le nuove assunzioni, siano essi manager o semplici manovali.
I dipendenti discutono i programmi imprenditoriali e ogni anno l’azienda investe nella creazione di nuove imprese proposte dai dipendenti. E chi ha avuto l’idea collabora a gestirla. Quindi chi ha buone idee diventa rapidamente un manager. In questo modo la Semco permette ai lavoratori di sviluppare le loro aspirazioni, realizzare progetti, trovare la propria unicità.
La chiave di tutto per Ricardo Semler è trattare i lavoratori da adulti, puntare sul loro senso di disciplina e responsabilità e sulla loro creatività.
La Semco 20 anni fa era un’acciaieria, oggi è un sistema estremamente variegato di imprese in decine di settori diversi: dai software alla ristorazione. (Clicca qui)
Ecco, questo secondo me vuol dire avere un vero programma innovativo. Avere un nuovo modello di società in testa ed essere capaci di svilupparlo.
Un modello che parte dalla capacità della gente di pensare collettivamente.
La sinistra italiana non ha nulla di tutto questo.
Viaggia ancora pensando che la partita consista nel vincere le elezioni e “governare bene”, e poi non ci riesce neanche molto. Ma anche se la sinistra governasse in modo perfetto, non riuscirebbe a rispondere ai bisogni del paese. Il mondo sta cambiando alla velocità della luce e solo riuscendo a immaginare un modello Semco globale possiamo sperare di stare al passo con i tempi e fermare il declino morale e economico italiano.
Dobbiamo creare una nazione che consideri adulti i propri cittadini, capaci di prendersi le loro responsabilità e non possiamo farlo con partiti politici che considerano i propri iscritti dei bambini.
C’è qualcuno che ha il coraggio di dirmi che veramente i partiti interpellano i loro militanti per conoscere le loro idee e fare appello alla loro creatività?
Se sei stato una sola volta a una discussione precongressuale non puoi dirmelo!
Ci sono linee politiche decise ai vertici che si scontrano, ci sono documenti già scritti che vengono discussi, leaderini di paese che si esibiscono in discorsi difficili di fronte al delegato regionale. E’ un teatrino dove non ci si mette veramente a sviscerare i problemi, a far funzionare l’intelligenza collettiva per trovare soluzioni.
Questo in pratica significa che non si discute mai di come affrontare i problemi concreti della gente.
Oggi il movimento progressista è scisso in due parti ben distinte. Da una parte ci sono le battaglie elettorali gestite dai partiti, dall’altra c’è una marea di organismi di base, che con i partiti di sinistra hanno rapporti solo saltuari e casuali, che si occupano di cambiare le cose: costruiscono gruppi di acquisto, cooperative per autocostruzioni edilizie, comitati di difesa del territorio, gruppi di solidarietà, gruppi culturali eccetera eccetera.
Tutte le grandi novità nel modo di fare politica non vengono dai partiti: il commercio equo e solidale, la finanza etica, le banche del tempo… Ma ancora queste entità non sono in grado di connettersi e dare vita a un’azione collettiva capace di generare un progetto elettorale. E sicuramente arrivarci sarà un processo lungo e graduale. Ma lo sviluppo delle comunità web e l’uso crescete delle potenzialità di connessione che la rete offre spingono prepotentemente in questa direzione.
Immagino “forme di partito” completamente nuove.
Vediamo cosa succede…
http://jacopofo.com/sinistra-morta-mancanza-idee-lavoro-modello-semco-brasile
—
Un nuovo materiale per i computer del futuro 03.02.2011
di Massimiliano Razzano
Come saranno i computer del futuro? Difficile a dirsi, viste le continue scoperte di nuovi materiali per la realizzazione di componenti elettronici, fra cui quella appena presentata su Nature Nanotechnology. Un team di ricercatori del Laboratory of Nanoscale Electronics and Structures (LANES) del Politecnico di Losanna ha infatti mostrato che la molibdenite (MoS2) potrebbe essere utilizzata con grande successo per realizzare i microchip del futuro. La molibdenite, formata da zolfo e molibdeno, ha infatti notevoli vantaggi sia rispetto a un materiale tradizionale come il silicio, sia rispetto a materiali di nuova generazione come il grafene. Secondo gli studiosi, l’utilizzo della molibdenite permetterà di costruire componenti più piccoli ed estremamente più efficienti. “Si tratta di un materiale bidimensionale, molto sottile e facile da usare per le nanotecnologie. Ha un reale potenziale nella costruzione di transistor molto piccoli, di LED e celle solari”, ha commentato Andras Kis, fra gli autori dello studio.
Quali sono i vantaggi specifici di questo materiale rispetto al silicio, attualmente il componente principale dei componenti elettronici? In primo luogo si tratta di un materiale meno voluminoso, che quindi consente la realizzazione di fogli sottilissimi pur garantendo un adeguato flusso di corrente elettrica. Ad esempio, in un foglio di soli 0,65 nanometri di molibdenite, gli elettroni sono liberi di muoversi come in un foglio di 2 nanometri di silicio (1 nanometro corrisponde a 1 miliardesimo di metro). Inoltre, la molibdenite è efficiente, e permetterà di costruire transistor che consumano fino a 100 mila volte meno energia dei tradizionali chip.
Ecco, invece, i plus rispetto al grafene, considerato uno dei materiali più promettenti nelle nanotecnologie del futuro. Per costruire un chip, ovvero un insieme di moltissimi “interruttori elettronici”, è necessario che gli elettroni nel materiale possano essere confinati in ben determinate bande di energia. Far saltare gli elettroni fra i diversi livelli di energia permette di “accendere” o “spegnere” questi microinterruttori. Ebbene, il grafene non è dotato di queste bande di energia, che vanno indotte artificialmente in fase di costruzione. Al contrario, la struttura cristallina della molibdenite possiede naturalmente i livelli energetici.
Riferimento doi:10.1038/nnano.2010.279
http://www.galileonet.it/articles/4d494d4672b7ab5127000052
—
Qualche bugia sui vantaggi dell’energia nucleare 07.02.2011
Ecco qui un paio di verità che non piaceranno ai sostenitori del ritorno al nucleare che si affanneranno a confutare. La prima verità riguarda la quantità di energia necessaria all’Italia. Scrivono Raffaele Pirozzi e Giuseppe Biasco:
I dati che citiamo in questo articolo provengono direttamente dalla fonte delle rilevazioni statistiche di Terna. Da queste tabelle si rileva che: l’Italia ha centrali per una potenza installata pari a 101 GigaWatt (dati 2009). I consumi oscillano tra 18 GW di notte e 52 GW di giorno. Il massimo picco di è avvenuto nel 2007, quando sono stati erogati 57 GW di energia elettrica. In Italia si produce, attualmente, una quantità di energia quasi doppia rispetto alle richieste.
Perché dunque si chiedono i due autori, e questa è la seconda verità, l’Italia importa energia elettrica prodotta da centrali nucleari francesi? (cavallo di battaglia di molti pro-nuke convinti).
Perché in Francia la produzione di energia elettrica avviene soprattutto tramite centrali nucleari, che per la loro struttura, non possono essere accese e spente a seconda della richiesta. Quindi di notte in Francia c’è un eccesso di produzione di energia elettrica che se non ceduta determinerebbe un sovraccarico della rete elettrica che potrebbe determinare gravi inconvenienti. La Francia allora la vende sottocosto ai Paesi confinanti, tra cui l’Italia. Di notte, quando la produzione di energia elettrica costa di più, l’Italia riduce fortemente la produzione di elettricità e l’acquista a basso costo dalla Francia che non può fare altrettanto e non può farne a meno. Di giorno succede il contrario e l’Italia, che come abbiamo visto ha un notevole surplus di potenza installata, esporta energia elettrica in Francia, guadagnandoci molto bene. La Francia, proprio per il massiccio ricorso alla energia nucleare, ha un sistema di produzione di energia elettrica poco flessibile, che produce scorie da smaltire a costi molto elevati, con un inquinamento dei territori molto pericoloso.
—
Fiat via dall’Italia. Marchionne dà il benservito a Berlusconi
Gianni Rossi, 07.02.2011
Nella nuova divisione mondiale del lavoro all’Italia è rimasto ben poco spazio: per la Francia e Germania il futuro continuerà ad essere incentrato sull’industria, per la Gran Bretagna sulla finanza; mentre il resto dell’Europa (orientale e mediterranea, Italia compresa, come Spagna, Portogallo e Grecia) farà da corollario come dispensatrice di “forza lavoro” e di alcune eccellenze di contorno
Sempre più la crisi della FIAT, e i possibili progetti industriali e finanziari che potrebbero rimetterla in sesto, passano per il tramonto del governo Berlusconi. Se stiamo ai fatti, la FIAT è ritornata in crisi da quando sono finiti gli “aiuti di stato”, ovvero gli incentivi fiscali per le rottamazioni. Modelli nuovi nello stile e nelle motorizzazioni sono ormai un ricordo lontano. Nel frattempo, l’amministratore delegato, Sergio Marchionne, ha imposto alcune condizioni “strangolanti”, per continuare a produrre in Italia: la chiusura dello stabilimento siciliano di Termini Imerese, la divisione in due società del gruppo per meglio “giocarsele sul mercato” della Borsa e trarre dividendi, regole “cinesi” per gli stabilimenti di Pomigliano d’Arco e Torino Mirafiori, fuoriuscita dalla Confindustria, riduzione dei diritti sindacali.
Nel volgere di meno di un mese, poi, ha svelato senza troppi fronzoli, il suo vero obiettivo: risanata la Chrysler, che nel frattempo ha ripreso a vendere auto e a macinare dividendi, si avvierà la fusione con la FIAT, e restituiti i lauti aiuti finanziari dei governi USA e del Canada, il nuovo gruppo da italo-americano si trasformerà in americo-italiano con testa, cuore e portafogli a Detroit. Così, d’altronde, vorrebbero le clausole riservate dell’accordo tra Marchionne e Obama, e così vuole la prassi legale borsistica di Wall Street.
Le pezze come sempre in questi casi anziché tappare il buco, lo hanno ingrossato. Ovvero, né il governo, con l’uscita tempestiva e consolatoria del ministro del Welfare, Sacconi, né il presidente della FIAT, John Elkann, e tantomeno la mediatica convocazione a Palazzo Chigi del Marchionne, hanno fugato i dubbi che le parole del commercialista-filosofo Marchionne fossero una boutade: hanno in effetti ribadito che entro il 2014, se non prima, il gruppo avrà più “poli decisionali” a Torino, a Detroit, in Brasile e in Asia. Nel frattempo, ne siamo sicuri, così come da molti mesi andiamo scrivendo sul nostro sito, Marchionne ridurrà la produzione in Italia, venderà ai migliori offerenti parti di alcuni “gioielli di famiglia” (Alfa Romeo e Ferrari), farà insomma “cassa” anche per aggiungere denaro fresco ai tanti miliardi con i quali dovrà rimborsare le amministrazioni statunitense e canadese.
In realtà e nella pratica del sistema industriale e finanziario globalizzato, nessun grande gruppo può permettersi un decentramento del genere, né ipotizzarlo è da sani di mente: la Renault con la compartecipata giapponese Nissan ha il “cuore pulsante” nei pressi di Parigi; le 3 “cugine” americane, Ford, GM e Chrysler, a Detroit e dintorni; Volskwagen, Porsche e Mercedes nelle rispettive città tedesche di origine; le giapponesi come la big mondiale Toyota nei luoghi di nascita. Da lì traggono la loro forza, la peculiarità del marchio e arricchiscono il rispettivo “sistema paese”. Pensare solo a spezzettare il ponte di comando in giro per il mondo risulterebbe una bestemmia nella logica industriale. Per questo le parole di Elkann sono solo “cortina fumogena” agli occhi degli sprovveduti sindacati che hanno finora detto sempre sì ai desiderata di Marchionne (CISL,UIL, UGL e FISMIC) e del governo, così come gli artifici lessicali e temporali di Sacconi possono solo rassicurare chi ancora nel PD (Veltroni, Fassino, ecc.) o negli altri partiti del centrodestra ha bisogno di “buffetti consolatori” istituzionali.
Ne uscirà, dunque, rafforzata persino la figura di Marchionne “risanatore” di due aziende storiche dell’auto, di “un uomo solo al comando”, che ha saputo piegare i sindacati più “spigolosi” del mondo, come sono ritenuti la FIOM e la CGIL. Ma, soprattutto, avrà dimostrato al mondo più industrializzato che si può rifare la storia economica ed industriale, imponendo una frattura logica nel corso degli avvenimenti, spesso lineari tra loro. Morirà così uno dei cuori pulsanti dell’industria dell’auto, quella di Torino, nata nel 1899 contemporaneamente a quella americana e francese e distintasi per eccellenze nello styling e nella progettazione dei motori. Muore così anche l’Italia industriale, quella della grande e media impresa che si è imposta nel mondo come “made in Italy” e come concorrente di livello con l’industria esportatrice tedesca. Questo accade, non solo per la crisi economica e finanziaria, che ci sta portando nel baratro dalla seconda metà del 2008, ma soprattutto per l’inerzia, l’incapacità culturale e politica del governo Berlusconi ad affrontarla.
Quando la FIAT, agli inizi del Duemila entrò in un abisso di debiti e di crisi di vendite, da una parte il vertice del gruppo, ancora controllato dalla famiglia Agnelli, cercò vie alternative per salvare il nucleo industriale, separandosi dalle compartecipazioni finanziarie; dall’altra rifiutò altezzosamente aiuti di stato “ingombranti” promessi da Berlusconi, perché consapevole che altrimenti l’azienda sarebbe entrata nell’orbita degli interessi tentacolari del sultano di Arcore. Con un po’ di fortuna e di capacità, la FIAT grazie alle banche e a una drastica cura dimagrante ad uscì dal baratro, accettando solo gli incentivi fiscali delle varie rottamazioni. Ma, d’altro canto, il governo italiano mai sarebbe stato in grado di finanziare, come ha fatto Obama, a suon di miliardi di euro il gruppo di Torino senza imporre suoi manager fidati o soci azionisti collaterali alla “Compagnia di giro”, che Berlusconi è riuscito a costruirsi in questi 25 anni e che ne fanno uno degli uomini più ricchi al mondo, ma soprattutto un coacervo di conflitti di interessi, dall’editoria, alla finanza, alle assicurazioni, all’edilizia, all’industria culturale, fino all’energia.
Si pensi solo alle ripercussioni politiche nella sua stessa maggioranza, con la Lega di Bossi, a sbraitare contro la “dinastia sabauda” e gli aiuti decennali agli “ingrati” di Torino! Certo, per Berlusconi, una FIAT (con tutto l’indotto) ai suoi piedi sarebbe stato un colpaccio non solo dal lato economico, ma anche di sudditanza politica e culturale. Ma che avrebbe distrutto la linea di austerità imposta da Tremonti e Bossi, tutta protesa a finanziare in realtà lo sgangherato progetto federalista. Anche perché di soldi “cash” nel bilancio dello stato ce ne sono pochini e il “Trio lumbard”, Treconti-Berlusca-Bossi, non ha la più pallida idea di dove andarli a pescare, se non aumentando le tasse.
Ecco, allora, che Marchionne con i suoi diktat tra il sindacalese, il politichese e l’industriale alla “ghe pensi mi”, si è divincolato dall’abbraccio mortale di Berlusconi, preferendo la sponda atlantica offertagli da Obama, ben sapendo che a quest’ultimo ( e a tutto il “sistema paese” nordamericano) doveva portare in dote un competitor europeo del settore: appunto la FIAT con i suoi gioielli di famiglia e i suoi cervelli. Mentre la Merkel, rispondeva alla crisi del settore, aiutando i suoi gioielli, e altrettanto faceva Sarkozy. Non a caso, i gruppi automobilistici tedesco e francese in qualche modo riescono ” a tirare”, pur in periodo di “vacche magre”, mentre la FIAT continua la sua discesa nelle vendite, sia in Italia sia, soprattutto, in Europa.
Nello scenario mondiale, ormai l’Italia non viene più considerata una mini-potenza industriale, dedita all’esportazione, quanto un feudo medievale di potentati economici e finanziari americani, tedeschi, francesi, indiani, cinese e russi. Quest’ultimi sono i più pericolosi, perché dediti al “money laundering”, alla ripulitura del danaro sporco, proveniente dai loschi affari mafiosi, italiani e russi. Secondo ben informati operatori finanziari milanesi, infatti, capitali russi di dubbia provenienza sarebbero piombati come neve in molte società quotate a Piazza Affari, da quando si sono strette le alleanze politico-affaristiche tra il governo italiano e quello russo. Non solo, ma molte società energetiche avrebbero soci prestanome proprio per non far ancora apparire ambienti affaristici dai trascorsi torbidi, legati in qualche modo all’amministrazione Putin.
Marchione dà insomma il benservito a Berlusconi, anche perché nella nuova divisione mondiale del lavoro all’Italia è rimasto ben poco spazio: per la Francia e Germania il futuro continuerà ad essere incentrato sull’industria, per la Gran Bretagna sulla finanza; mentre il resto dell’Europa (orientale e mediterranea, Italia compresa, come Spagna, Portogallo e Grecia) farà da corollario come dispensatrice di “forza lavoro” e di alcune eccellenze di contorno.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16876
—
Il cioccolato fa più bene della frutta 07.02.2011
Che il cioccolato faccia bene è cosa ormai nota ai ricercatori, ma ora c’è addirittura chi lo definisce un ‘super-cibo’.
Si tratta dei ricercatori del britannico Hershey Centre for Health & Nutrition che in uno studio pubblicato dalla rivista Chemistry Central Journal hanno comparato le proprietà di questo alimento con quelle dei succhi dei frutti più ‘sani’.
La ricerca ha scoperto che il cioccolato in polvere contiene più antiossidanti e polifenoli, sostanze che aiutano a prevenire il cancro e i problemi cardiovascolari, rispetto al succo di melograno e a quello di mirtilli, entrambi considerati dei ‘campioni’ tra i cibi salutari.
Le proprietà vengono mantenute anche nelle tavolette di cioccolato amaro, che contengono più flavonoidi dei succhi presi in considerazione, mentre da evitare è la cioccolata calda, che distrugge quasi tutte le sostanze benefiche per la salute.
“I semi di cacao dovrebbero essere etichettati come ‘super-frutti’ – hanno spiegato i ricercatori – mentre la cioccolata come un ‘supercibo’, sulla base delle proprietà per la salute“.
—
Estratto della rassegna http://www.caffeeuropa.it/ del 09.02.2011
”…Egitto
Sembrava destinata a svuotarsi, negli ultimi giorni, la piazza egiziana. E invece ieri si è assistito ad una affluenza record, forse anche per effetto delle lacrime in tv del manager di Google, Wael Ghonim: intervistato lunedì sera sul canale privato Dream tv, poco dopo esser stato rilasciato dalla polizia, ha raccontato di esser stato tenuto bendato per 12 giorni. Ne parla ampiamente il Corriere della Sera. Su La Repubblica si scrive che Wael è stato in qualche modo consacrato come il volto della protesta: “Se la piazza cercava un leader, uno pulito, non compromesso con il passato, per giunta poco più che ventenne, nonviolento, capace di commuoversi e piangere lacrime vere in diretta tv, ieri forse lo ha trovato”. E’ un ragazzo come tanti, e dopo soltanto tre minuti di intervista la sua voce si incrina, diventando poi un pianto dirotto. Sullo stesso quotidiano si racconta invece la rivoluzione in redazione del più importante e famoso quotidiano egiziano, Al Ahram, pur controllato dallo Stato. Ieri mattina i redattori hanno dato il via ad un corteo interno, scandendo slogan contro Mubarak e per la libertà di stampa. Al Ahram non è soltanto un giornale con un grande passato (fondato nel 1875, oggi vende oltre un milione di copie): è la più grande impresa editoriale in Medio Oriente, pubblica libri, testi universitari, ha un canale tv, una università, un centro di studi politici.
Sul Sole 24 Ore: “Un milione di no a Mubarak”, “l’annuncio di riforme costituzionali non accontenta la piazza che si ripopola per chiedere le dimissioni”. Washington, spiega il corrispondente, vorrebbe che il presidente restasse fino alla fine del mandato, con il vicepresidente Suleiman incaricato di guidare la transizione. Quanto ai Fratelli Musulmani, vanno ammessi al negoziato, ma senza effettuare verso di loro una reale apertura. Sullo stesso quotidiano, un reportage da Alessandria, dove a fine anno ci fu la strage di copti in chiesa: “I copti temono la deriva islamica”. I copti sarebbero attanagliati da un dilemma: partecipare alla rivolta e chiedere la fine del regime, o restare a casa, come ha chiesto loro Papa Shenuda III, sperando che il presidente regga. Il solo pensiero che i Fratelli Musulmani possano prendere il sopravvento è vissuto come un incubo. E temono di pagare il prezzo di una loro non partecipazione alla rivolta. I copti lamentano gravi discriminazioni: nel campo della giustizia, dell’università, delle forze dell’ordine. Chiedono una legge unica per i luoghi di culto e l’abolizione della dichiarazione della fede negli atti di compravendita e nelle domande di impiego.
Sullo stesso quotidiano si parla dei “timori di contagio” che hanno indotto la polizia palestinese a reprimere proteste. Slogan contro Abu Mazen si leggono a Ramallah. La settimana scorsa alcuni giovani avevano tentato una manifestazione di solidarietà con il popolo egiziano, approfittandone per rilanciare qualche slogan contro Abu Mazen, associato come raiss a Mubarak. La polizia è intervenuta con durezza.
Ancora dal Sole 24 Ore, segnaliamo il punto di vista di Israele, allarmata per i timori dell’ascesa dei fondamentalisti. Ai lettori è offerto il punto di vista di Shlomo Avineri, dell’università ebraica di Gerusalemme, già direttore generale del ministero degli esteri con Rabin. Critiche alla indecisione dell’alleato Usa sulla gestione della crisi in Egitto e poi l’allarme: “Per trent’anni la Fratellanza musulmana si è opposta al trattato di pace. L’assassioni di Sadat fu opera dell’entourage dei Fratelli Musulmani, come di altri leader di Al Qaeda. L’ideologia dei Fratelli Musulmani ha ininterrottamente contrastato l’esistenza di Israele. La Fratellanza appoggia al contrario Hamas a Gaza. Che significa anche uno smacco per l’autorità palestinese laica, in grado di rendere ancor più remoto nel tempo un possibile accordo”.
Ampio spazio alla rivolta egiziana anche su Il Foglio, al ruolo fondamentale che hanno avuto i giovani in piazza, ma anche alla questione Fratelli Musulmani (David Schenker, del Washington Institute for Near East Policy, dice che con elezioni libere potrebbero arrivare al 40 per cento).
Sul Corriere della Sera il professore di islamistica Roberto Tottoli si occupa dei Fratelli Musulmani e dell’allarme suscitato da una loro possibile ascesa. Invita a metterli alla prova, poiché l’organizzazione giocherà un ruolo politico importante nel futuro di un Egitto democratico. E non sarebbe il primo caso, dice, citando il caso Giordania, ma anche i partiti religiosi in Turchia. Tottoli sottolinea che nelle piazze non è risuonato neppure uno slogan inequivocabilmente musulmano. E se pure dopo elezioni libere, i Fratelli Musulmani avessero la meglio, varrebbe la pena accettare il risultato con cautela. Le vicende della Fratellanza musulmana in Egitto sono separate dall’Islam militante da almeno 40 anni.
Sullo stesso quotidiano invece si racconta la rivolta delle tribù beduine contro la regina di Giordania Rania: una lettera a re Abdallah, pubblicata dal web e firmata da 36 capotribù, perlopiù beduini, la attacca per il troppo potere e le spese…”.
—
Elettrodi a base tessile per il fotovoltaico 02.2011
I nuovi conduttori per le celle solari sono trasparenti, flessibili, leggeri e anche economici.
Li ha messi a punto la società svizzera Sefar Ag, che ha collaborato con gli Swiss Federal Laboratories for Material Science and Technology di Dübendorf (Canton Zurigo) e il britannico National Physical Laboratory. Il lavoro congiunto dei laboratori elvetico-britannici ha dato vita a un elettrodo basato su una maglia di fibre metalliche e polimeriche intrecciate tra di loro, che rappresenta la nuova soluzione tecnologica da utilizzare nella produzione degli OLED (Organic Light Emitting Diode) e delle celle solari.
Nonostante oggi si stiano studiando i nanotubi in carbonio come alternativa trasparente al costoso e più fragile rivestimento di ossido di stagno e indio (largamente usato dal settore solare), essi presentano ancora svantaggi non trascurabili, come prestazioni non ancora all’altezza delle aspettative.
I nuovi elettrodi a base tessile promettono, invece, un’alternativa economicamente efficiente consentendo una produzione “roll-to-roll” ad alto rendimento.
Il team di studiosi già in passato aveva messo a punto una maglia dalla struttura porosa, ma vi erano dei limiti strutturali, il cui superamento ha portato alla nascita dei nuovi conduttori. Gli spazi all’interno della maglia, che costituivano il punto debole della precedente versione, sono stati riempiti da un polimero trasparente e inerte tramite immersione, coprendo in tal modo uno dei lati del tessuto come una pellicola di protezione. Tale rivestimento polimerico ha reso l’elettrodo impermeabile ai gas e ai liquidi, dando alla struttura un aspetto trasparente in quanto i fili metallici possiedono un diametro inferiore ai 40 micron.
Il team ha scoperto che gli elettrodi all’interno di celle solari organiche realizzate su tessuti di precisione raggiungono le stesse performance di quelle in celle solari realizzate su substrato di vetro.
Peter Chabrecek, manager della società Sefar Ag, spiega che “I primi promettenti risultati sono stati raggiunti, ora abbiamo bisogno di sviluppare un design più adatto.” E annuncia che la società ha intenzione di cooperare con altre aziende sui prodotti finali. “Gli elettrodi trasparenti giocano un ruolo chiave nell’ambito della produzione di sistemi optoelettronici come gli OLED. Le caratteristiche principali saranno l’alta conduttività, l’alta trasparenza e l’alta temperatura”, conclude Chabrecek.
Fonte: Advanced Materials
http://www.scienzaegoverno.org/n/095/095_01.htm
—
Arriva la banda larga satellitare 08.02.2011
Finalmente anche in Italia arriveranno presto le connessioni a banda larga satellitare di nuova generazione, più economiche e, soprattutto, più veloci di quelle conosciute fino ad ora…
Queste nuove connessioni allevieranno le sofferenze di chi vive in quelle zone del Paese non ancora coperte da ADSL né da tecnologie a banda larga di tipo wireless.
Le nuove offerte satellitari saranno a 10/2 Mbps in download/upload, a partire da 25 Euro al mese, a cui andranno aggiunti circa 400 Euro per gli apparati di connessione.
Queste tecnologie sono frutto di satelliti lanciati da Eutelsat e Avanti Communications che utilizzano un’infrastruttura e bande di frequenza ottimizzate per offrire servizi Internet veloci.
Le offerte basate sul satellite di Avanti arriveranno a entro la fine di febbraio. Per quelle di Eutelsat, invece, che utilizza un sistema più complesso, bisognerà aspettare fino al primo giugno.
http://www.manuali.net/articoli/web/arriva_la_banda_larga_satellitare/1.html
Arriva la vena artificiale 08.02.2011
Dopo il fegato, il polmone e l’intestino, ecco i vasi sanguigni in provetta. Una futura speranza per i cardiopatici che si devono sottoporre a un bypass coronarico
di Fabio Deotto
Al link immagini e video
Prima è stata la volta del polmone in provetta, lo scorso giugno, a Yale. Un team di ricerca è riuscito a ricreare un polmone funzionante partendo dalle cellule polmonari di un topo appena nato e a trapiantarlo nella cassa toracica di un topo adulto. Poi è stata la volta del fegato in provetta, a ottobre, alla Wake Forest University di Boston. Il gruppo guidato da Shay Soker ha fabbricato un fegato funzionante in miniatura, usando cellule epatiche umane in fase di maturazione. Infine anche l’ intestino, lo scorso dicembre. Adesso, è la volta dei vasi sanguigni.
Alla Humacyte, compagnia privata specializzata in matrici di tessuto sterili per l’utilizzo biomedicale, sono riusciti a ricreare vasi sanguigni funzionanti utilizzando le cellule dello stesso paziente. E ancora una volta, alla base di questo successo c’è un promettente approccio bioingegneristico, basato sulla coltivazione di cellule alloggiate su un’impalcatura che ne guida la crescita, e fatte crescere mediante bioreattore fino alla formazione di un nuovo organo completamente funzionante.
Ma se nel caso di Yale e della Wak Forest l’impalcatura veniva ottenuta attraverso la decellularizzazione di organi reali, le vene in provetta della Humacyte utilizzano come “scheletro” di partenza una struttura polimerica sintetizzata ad hoc.
“ Partiamo da cellule umane provenienti da un donatore” spiega Shannon Dahl, responsabile del progetto di ricerca “ Poi disponiamo queste cellule su un’impalcatura polimerica biodegradabile. Le cellule proliferano e secernono le proteine della matrice extracellulare, che poi sono le proteine che conferiscono forza e resistenza ai tessuti. Mentre le cellule sono in fase di coltura il polimero si degrada gradualmente. Essendo dello stesso tipo di quei polimeri utilizzati nelle suture riassorbibili.”
In questo modo il team è riuscito ad ottenere veri e propri vasi sanguigni con un diametro compreso tra i 3 e i 6 millimetri. Questi vasi in provetta sono poi stati decellularizzati, in modo che ne rimanesse solo l’impalcatura di tessuto connettivo, e conservati mediante refrigerazione. Dodici mesi dopo i vasi decellularizzati sono stati scongelati e sottoposti di nuovo alla crescita di cellule umane in bioreattore: i test hanno dimostrato che potevano garantire un buon flusso sanguigno e resistenza all’occlusione.
Fino ad oggi questo tipo di interventi veniva realizzato utilizzando l’ autotrapianto di vasi provenienti dallo stesso paziente o attraverso l’installazione di strutture sintetiche. Tuttavia in molti casi il paziente non dispone di vasi funzionali all’autotrapianto, in altri le strutture sintetiche non vengono accolte dal corpo dando luogo a rigetto. I vasi sanguigni in provetta pronto uso annunciati da Humacyte potrebbero fornire una nuova valida alternativa in questo senso.
Diversi esponenti della comunità medico-scientifica hanno espresso entusiasmo per il lavoro di Dahl e colleghi, nel frattempo in tutta la Rete l’evento viene salutato già come l’inizio di una rivoluzione nel campo della cardio-chirurgia. Prima di urlare al miracolo sarebbe però giusto aspettare che vengano effettuati i dovuti trial clinici. E lo stesso vale per gli altri organi coltivati in provetta, per i quali già si prevede l’impiego di cellule staminali.
Nel frattempo, nel campo dei vasi sanguigni ingegnerizzati emergono nuovi progetti di ricerca. L’ultimo arriva dall’Università di Pittsburgh, dove il professor Yadon Wang è riuscito a ottenere vene incredibilmente elastiche, utilizzando un analogo processo di ricellularizzazione, mapartendoda cellule muscolari di babbuino. Le vene in provetta di Wang sono forse quelle che mostrano una migliore performance in fatto di elasticità, ma devono ancora dimostrare una corretta funzionalità in vivo e, soprattutto, un basso tasso di rigetto.
http://daily.wired.it/news/scienza/organi-artificiali.html
—
Cina, il ritorno di Confucio 07.02.2011
Quando la censura dei mezzi di comunicazione impediva al popolo cinese di vedere la sedia vuota di Liu Xiaobo durante la cerimonia di assegnazione del premio Nobel per la Pace, il governo della Repubblica Popolare lanciava in grande stile un’iniziativa destinata a portare nel mondo gli ideali cinesi, invece di subire le “ingerenze” occidentali: si tratta del “Premio Confucio per la Pace”. La prima edizione del premio è stata assegnata a Lien Chan, ex vicepresidente di Taiwan e leader onorario del Partito nazionalista, “per avere costruito un ponte di pace tra la Cina continentale e Taiwan”.
Al di là delle motivazioni politiche il revival di Confucio rappresenta una svolta culturale di portata quasi epocale. Nella storia della Cina tre sono state le componenti etico – religiose che si sono alternate nei vari periodi dell’impero: confucianesimo, taoismo e buddhismo. Ciascuna di esse ha forgiato la cultura cinese, ma è l’insegnamento del saggio per eccellenza, appunto Kung Fuzi (“maestro Kung” questo è il nome cinese del latinizzato Confucius), vissuto tra il VI e il V secolo a.C. a innervare il tessuto tradizionale, nonostante le tentate “rivoluzioni culturali” di epoca nazionalista e maoista.
Se durante il Novecento la proposta classica confuciana era stata additata come un retaggio reazionario del passato, ora in piazza Tian an men è stata collocata una statua bronzea (8 m di altezza) di Confucio stesso che ormai fa ombra alla gigantografia del Grande Timoniere. È stato pure realizzato un film celebrativo del regista Hu Mei (che ha già girato serie televisive nazional-popolari di notevole successo), intitolato appunto Confucius e giunto nelle sale cinematografiche di mezzo mondo. Si tratta di una rivoluzione politica e “teologica” che chiude un’epoca e suggerisce il poderoso tentativo della dirigenza cinese di unificare il passato imperiale con la trasformazione socialista, proprio nel centenario della caduta dell’ultimo imperatore.
Il nome del maestro è diffuso ovunque non solo per una fama storicamente sedimentata ma anche per la presenza capillare in tutto il mondo degli “istituti Confucio”, istituzioni sorte per valorizzare la cultura cinese. Ma l’esplosione di interesse per Confucio ha coinciso con la salita al potere dell’attuale presidente Hu Jintao, che sintetizza nell’ideale della “società armoniosa socialista” il superamento definitivo del comunismo maoista, in direzione di un confucianesimo post-moderno dove comunque lo Stato resta il perno indiscusso. Va ricordato che Confucio propone un’etica, non una religione, un modo di vivere bene nella società senza porsi troppi problemi spirituali, una visione dell’uomo fondata sul “senso di umanità” e su un formalistico rispetto dei “riti” che non è altro che l’armonica accettazione dei rapporti gerarchici, da quello tra padre e genitore fino a quello tra suddito e imperatore.
Hu reinterpreta questa lezione sottolineando la necessità di un equilibrio tra le classi (altro che lotta di classe e egualitarismo marxista!), e facendo molta attenzione a una crescita globale anche per le fasce più povere. Tutto però deve essere pianificato e regolato da un autoritarismo ferreo che unisce l’intransigenza di stampo leninista con il dispotismo benevolo e illuminato di un imperatore che gestisce il potere per “mandato celeste”. Il presidente ha ribadito questi concetti nel corso della sua recente visita negli Stati Uniti, parlando pure in una lunghissima intervista al Washington post di “democrazia socialista”.
Oggi l’ideale confuciano di una società armonica passa attraverso un nazionalismo basato sull’espansione economica e attraverso il capitalismo di stato. Se negli scaffali delle librerie vanno di moda i grandi classici dell’economia occidentale a cominciare dalla Ricchezza delle nazioni di Adam Smith (negli anni ‘80 e ‘90 quando la nomenclatura cinese cercava nuovi modelli economici si lessero Keynes, Hayek e Friedman) per capire la mentalità sottostante a questa inarrestabile espansione occorre immergersi nelle radici della cultura cinese.
Tuttavia il revival confuciano tralascia molti insegnamenti del maestro: dal rispetto per la persona alla necessità che chi governa debba essere un esempio di umanità e di moralità.
Ma c’è un livello ulteriore che investe un regime che, come tutti i totalitarismi, è fondato sulla negazione della verità. In un celebre passaggio dei Dialoghi, interrogato su quanto dovrebbe fare per prima cosa un sovrano che volesse governare con saggezza, Confucio dice: “Quando non sa di cosa sta parlando, un uomo di valore preferisce tacere. Se i nomi non sono corretti, non si possono fare discorsi coerenti. Se il linguaggio è incoerente, gli affari di governo non si possono gestire… Ecco perché l’uomo di valore usa soltanto nomi che implicano discorsi coerenti e parla soltanto di cose che può mettere in pratica. Ecco perché l’uomo di valore è prudente in quello che dice”.
Occorre “rettificare i nomi”, cioè bisogna adeguare per quanto possibile le parole alla realtà, il linguaggio alla realtà concreta, occorre superare la propaganda per fare un discorso di verità. In questo caso il regime non segue l’insegnamento di Confucio.
http://www.unimondo.org/Notizie/Cina-il-ritorno-di-Confucio
—
Senza cultura e informazione non c’è futuro
Vincenzo Vita*, 08.02.2011
“Nessun dorma”, come evoca la notissima romanza della Turandot. Se non ci si sveglia, già nelle prossime ore quella – come tante altre opere- cesseranno di essere rappresentate nei teatri lirici italiani. Come si bloccherà lo straordinario risveglio del cinema italiano. E come chiuderanno i battenti circa cento testate editoriali, con quattromila persone a rischio di disoccupazione. E attraverserà il mondo dei seicentomila lavoratrici e lavoratori della conoscenza il terremoto dei tagli e dei bavagli
Sono solo alcuni degli “effetti collaterali” del cosiddetto “milleproroghe”, il decreto che entro la fine del mese di febbraio verrà convertito (con il voto di fiducia?), rimaneggiando centinaia di buchi fatti dal governo, che hanno bisogno di toppe e rammendi. Di tutto un po’, ma non saperi, ricerca, scuola, università, spettacolo, beni culturali e informazione. No. Quelli sono considerati territori non controllabili dal partito-azienda-televisivo, che ha bisogno di una società meno critica, non indipendente, meno colta, ignorante. Territori infedeli, sovversivi: naturaliter.
Infatti, sugli emendamenti numerosi – in qualche caso, come sul rimpinguamento del fondo per l’editoria, bipartisan – in merito alle materie della conoscenza e della riproduzione sociale è calato un silenzio tombale. Si rinvia continuamente l’esame dei singoli punti nelle riunioni delle Commissioni affari costituzionali e bilancio del Senato, che sembrano un’orchestra perennemente impegnata (con ritmi assai lenti) nelle prove generali. La “prima” non si sa se e quando arriverà, magari sotto specie di maxiemendamento, come impera nell’era giuridica berlusconiana. Il Parlamento non è più nemmeno considerato luogo di ratifica, bensì riempitivo spazio-temporale in attesa che il governo (chi, Tremonti? Visto che Bondi dileguossi…) decida qualcosa.
E nel frattempo assistiamo alla morte in diretta della cultura italiana. Lasciamo perdere, poi, ciò che si dice di noi all’estero, dove ricordano i grandi protagonisti del cinema e dell’audovisivo, Cinecittà ( a proposito, è in atto una colossale operazione speculativa?), l’Opera che ha diffuso la lingua italiana in paesi lontani, il teatro e dove si apprezzano i giovani artisti misconosciuti in un paese “occupato” anche nell’immaginario collettivo. Si rischia la desertificazione, come ha ricordato Bersani nelle conclusioni dell’assemblea nazionale del partito democratico sabato scorso. Si rischia la marginalità nel villaggio globale.
Per non dire dei precariati perenni, dell’assenza di certezze nelle e delle figure professionali, della crisi delle tutele, dei crolli di Pompei, della delocalizzazione delle produzioni, per fare il verso a Marchionne.
E’ un dramma, non un melodramma, come si era abituati in altre, pur discutibilissimi ma diverse, fasi della vita della Repubblica. Non si “aggiusta”. O si rialza la schiena, come è stato fatto dal vasto movimento di queste settimane composto da organizzazioni sindacali e dall’universo associativo, o si perisce. Sul serio.
Il Presidente del Senato Schifani svolse recentemente un impegnato intervento all’apertura del congresso della Federazione della stampa.
Sì, Presidente, sono in pericolo libertà fondamentali, perché senza informazione e saperi anche l’esercizio degli altri diritti è impossibile. E, dunque, sia così cortese di battere un colpo.
*Senatore Pd
quest’intervento è stato pubblicato da L’Unità del 7 febbraio 2011
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16893
—
Monumentale grido di battaglia per la libertà in tutto il mondo rischia di deragliare l’agenda del nuovo ordine mondiale
di Paul Joseph Watson Fonte: Prison Planet.com
Il “risveglio politico globale” molto temuto da Zbigniew Brzezinski è in pieno svolgimento. Rivolte in Egitto, Yemen, Tunisia e altri paesi rappresentano un grido di libertà veramente imponente in tutto il mondo che rischia di danneggiare enormemente l’agenda per un governo mondiale, ma solo se i rivoluzionari riusciranno ad evitare di essere cooptati da una paranoica e disperata elite globale.
Durante un discorso al Council on Foreign Relations a Montreal l’anno scorso, il co-fondatore insieme a David Rockefeller della Commissione Trilaterale e regolare partecipante alle riunioni del gruppo Bilderberg, Zbigniew Brzezinski, ha lanciato l’allarme per un “risveglio politico globale”, principalmente da parte dei giovani dei paesi in via di sviluppo, che minaccia di rovesciare l’ordine internazionale esistente.
Leggere interamente le parole di Brzezinski, alla luce delle rivolte globali che ora vediamo diffondersi a macchia d’olio in tutto il pianeta, ci offre una sorprendente panoramica su quanto sia di fondamentale importanza l’esito di questa fase della storia moderna, per il futuro corso geopolitico del mondo, e di conseguenza per la sopravvivenza e la crescita della libertà umana in generale.
Per la prima volta nella storia umana, quasi tutta l’umanità è politicamente attiva, politicamente consapevole e politicamente interattiva … Il risultato globale dell’attivismo politico sta generando un impulso alla ricerca della dignità personale, del rispetto culturale e di opportunità economiche in un mondo dolorosamente segnato dai ricordi di una secolare dominazione straniera coloniale o imperiale … L’anelito alla dignità umana a livello mondiale è la sfida centrale insita nel fenomeno del risveglio politico globale … un risveglio che è socialmente imponente e politicamente radicalizzante … L’accesso quasi universale a radio, televisione e Internet sta creando sempre più una comunità di percezioni condivise e di invidia che può essere galvanizzata e canalizzata da demagogiche passioni politiche o religiose.
Queste energie trascendono i confini sovrani e rappresentano una sfida sia per gli Stati esistenti, che per l’attuale gerarchia mondiale, su cui ancora si fonda l’America…
I giovani del Terzo Mondo sono particolarmente inquieti e risentiti. La rivoluzione demografica che essi rappresentano è quindi una bomba politica ad orologeria, come pure … Il loro potenziale rivoluzionario potrebbe emergere tra le decine di milioni di studenti concentrati negli istituti di istruzione di “terzo livello” spesso intellettualmente discutibili dei paesi in via di sviluppo. Stando alla definizione di istruzione di terzo livello, vi sono attualmente in tutto il mondo tra 80 e 130 milioni di studenti “universitari”. In genere provenienti dalla piccola borghesia socialmente insicura e infiammata da un senso di indignazione sociale, questi milioni di studenti sono rivoluzionari-in-attesa, già semi-mobilitati in assemblee di grandi dimensioni, collegate da Internet e pre-posizionati per un replay su scala più grande di ciò che è accaduto anni prima a Città del Messico o in piazza Tiananmen. La loro energia fisica e la frustrazione emotiva è solo in attesa di essere innescata da una causa, o una fede, o un sentimento di odio …
Anche [Le] maggiori potenze mondiali, vecchie e nuove, affrontano una realtà nuova: mentre la letalità della loro forza militare è più grande che mai, la loro capacità di imporre il controllo sulle masse politicamente risvegliate del mondo è a un minimo storico. Per dirla senza mezzi termini: in tempi precedenti, era più facile controllare un milione di persone che uccidere fisicamente un milione di persone, oggi, è infinitamente più facile uccidere un milione di persone che controllare un milione di persone.
Zbigniew Brzezinski
E ‘importante sottolineare che Brzezinski non stava elogiando l’inizio di questo “risveglio politico globale”, lo stava screditando. Come uno degli dei principali architetti dell'”attuale gerarchia a livello mondiale”, a cui fa riferimento, lo stesso Brzezinski è sotto minaccia diretta, così come in generale la continua capacità dell’élite globale di controllare gli affari del mondo.
Brzezinski si rammarica del fatto che Internet ha reso quasi impossibile per le élites globali controllare l’ambiente politico, controllare i pensieri e il comportamento di un milione di persone, che è precisamente ciò per cui l’Egitto si è mosso per fermare il world wide web ieri, in un disperato tentativo di evitare che gli attivisti si organizzassero contro lo Stato.
Come è di routine ogni volta che sommosse e rivoluzioni spuntano improvvisamente come dal nulla, la storia ci ammonisce di non prendere alla lettera quello che si vede, e ricordare le numerose artificiose “rivoluzioni colorate” che sono servite a ben poco se non a consentire all’elite globale del FMI/Banca mondiale di rovesciare un potere canaglia e sequestrare il paese entrando dalla porta di servizio con l’aiuto di regimi fantoccio successivamente insediati.
Tuttavia, l’effetto domino della rivoluzione globale che ha subìto un’accelerazione nelle ultime settimane, sembra essere stato generato da una genuino desiderio coordinato, su base popolare, per la vera libertà, e la fine dei regimi dittatoriali che gli Stati Uniti e l’elite bancaria hanno contribuito a sostenere.
La rivolta globale che si sta diffondendo in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa, avendo già toccato l’Europa con disordini e scioperi in Italia, Francia, Grecia e Regno Unito lo scorso anno, si caratterizza come una reazione contro la dittatura, la brutalità della polizia e la repressione politica. Questi fattori hanno agitato correnti sotterranee di risentimento per anni, ma solo grazie ad una maggiore educazione e ad un più facile accesso alle informazioni e alla capacità di organizzazione attraverso Internet, una nuova generazione di attivisti ha detto finalmente basta. L’aumento vertiginoso dei prezzi alimentari, l’inflazione del carburante, salari più bassi e alta disoccupazione hanno svolto un ruolo centrale.
Come scrive Andrew Gavin Marshall nel suo ottimo articolo, Stiamo assistendo all’inizio di una rivoluzione globale? “Non dobbiamo accantonare queste proteste e rivolte come istigate dall’Occidente, ma piuttosto come proteste emerse in maniera organica, e l’Occidente sta tentando successivamente di cooptare e controllare i movimenti emergenti”.
Nel caso di Egitto, Yemen e Tunisia, tutti e tre i regimi hanno goduto del supporto multi-decadale del complesso militare-industriale. Tutti e tre sono stati vassalli completamente compiacenti con il nuovo ordine mondiale. Non c’era bisogno di “rivoluzioni colorate” fittizie o messe in scena provocate dall’elite globale in questi paesi.
Infatti, il dado era già stato tratto quando l’amministrazione Obama ha espresso il suo sostegno al trentennale dittatore Hosni Mubarak, durante un’intervista della PBS di ieri, quando il vice-presidente Joe Biden ha lasciato intendere che le richieste dei manifestanti sono illegittime.
“L’azione riflessa delle potenze imperiali è quella di armare e sostenere ulteriormente i regimi oppressivi, come pure la possibilità di organizzare una destabilizzazione attraverso operazioni di infiltrazione o di guerra aperta (come si sta facendo in Yemen)”, scrive Marshall. “L’alternativa è quella di avviare una strategia di “democratizzazione”, in cui le Organizzazioni Non Governative-ONG- occidentali e organizzazioni della società civile, stabiliscono contatti e relazioni forti con la società civile nazionale in queste regioni e nazioni. L’obiettivo di questa strategia è quello di organizzare, finanziare e aiutare direttamente la società civile nazionale per la creazione di un sistema democratico, sul modello occidentale e, quindi, mantenere la continuità della gerarchia internazionale. In sostanza, il progetto di “democratizzazione” implica la creazione delle strutture esteriori visibili di uno stato democratico (elezioni multipartitiche, società civile attiva, “indipendenza” dei media, ecc) e tuttavia mantenere la continuità nella sottomissione alle corporazioni, alla Banca Mondiale, al FMI, alle multinazionali e alle potenze occidentali”.
Ricordate – ogni paese che mantiene la propria sovranità, agisce principalmente nel suo interesse e tenta di costruire se stesso come uno Stato forte, prospero e culturalmente forte è un nemico per i globalisti. La gerarchia internazionale esige il rispetto, la dipendenza, la debolezza e una diluizione del patrimonio e della cultura in modo che ogni nazione possa essere racchiusa nella sfera di controllo del governo mondiale.
Non commettete errori a questo proposito, stiamo assistendo ad una rivoluzione globale, l’età della collera è caduta su di noi come tessere di domino che raggiungono ogni angolo del pianeta. Se l’esito sarà il rovesciamento dell’attuale gerarchia globale, come teme Zbigniew Brzezinski, resta da vedere, ma sicuramente questo dipenderà da chi controllerà i nuovi governi che sostituiranno i governanti spodestati – la gente che ha iniziato il processo di cambiamento, o la Banca mondiale, o il FMI, o le ONG e il resto delle élites globali che stanno disperatamente tentando di salvare il loro programma di governo mondiale da un deragliamento.
Fonte: PrisonPlanet 28 Gennaio 2011
Traduzione: Dakota Jones
—
Alcatel-Lucent e le antenne a forma di cubo 09.02.2011
Un nuovo design di antenna per reti cellulari in grado di ridurre i consumi, far risparmiare sui costi di gestione e installazione e aumentare le prestazioni delle reti stesse
Roma – I grossi, ingombranti e problematici pennoni delle vecchie antenne radio sono un anacronismo che le moderne reti cellulari non possono più permettersi, suggerisce Alcatel-Lucent, ragion per cui sarebbe venuto il momento di sostituirli con qualcosa di più moderno, più efficiente nel consumo di energia elettrica e dotato di prestazioni in grado di sostenere l’impatto della vorace – e crescente – orda di utenti dotati di smartphone e cellulari.
La nuova proposta di Alcatel-Lucent in fatto di antenne radio si chiama lightRadio, ed è composta da una serie di cubi con lato da 6,3 centimetri contenenti tutto il necessario – hardware e software – per la gestione delle comunicazioni cellulari nella cella di pertinenza. Bastano 8-10 di questi cubi messi assieme per fornire tutta la potenza e le funzionalità necessarie.
Funzionanti a una frequenza tra gli 1,8 GHz e i 2,6 GHz, i cubi lightRadio integrano un SoC (System-on-a-Chip) che si occupa di processare i dati e gestire le comunicazioni baseband, e sono in grado – attraverso la semplice modifica della configurazione del software integrato – di gestire in alternativa segnali 2G, 3G o anche 4G (LTE).
Molti i vantaggi derivanti dall’adozione del nuovo dispositivo, secondo Alcatel-Lucent: sposando il modello di data processing dei moderni data center, lightRadio dovrebbe garantire il funzionamento continuo dell’antenna anche in caso di malfunzionamento di uno dei cubi – le antenne tradizionali smettono di funzionare del tutto dovesse guastarsi anche solo uno dei componenti installati.
Vi è poi la praticità di avere a disposizione una singola unità in grado di operare con tutti i diversi segnali cellulari utilizzati oggidì, la facilità di trasporto di eventuali ricambi da parte degli operatori telefonici, il risparmio su strumentazioni ed energia elettrica dovuti all’integrazione delle componenti di data processing all’interno delle antenne e a una gestione ottimizzata della corrente da parte dei cubi.
Sommando tutti i vantaggi forniti dalla nuova unità, dice Alcatel-Lucent, con lightRadio le società telefoniche risparmierebbero il 50% dei costi e incrementerebbero le prestazioni delle trasmissioni del 100%. Sia come sia, per toccare con mano le qualità della nuova infrastruttura occorrerà attendere almeno il 2012, anno in cui lightRadio diverrà disponibile in volumi.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3085213/PI/News/alcatel-lucent-antenne-forma-cubo.aspx
—
My brother suggested I might like this blog. He used to be entirely right. This submit truly made my day. You can not consider simply how a lot time I had spent for this info! Thanks!