9/9/2009 – IL NEUROSCIENZIATO LUCA BONFANTI: SI SPALANCANO NUOVE FRONTIERE E L’OBIETTIVO È CURARE ALZHEIMER E ICTUS
Il motore invisibile della mente
“Lavori in corso permanenti: il cervello rinasce con staminali fantasma”
GABRIELE BECCARIA
Scovare le cellule staminali nel cervello è come catturare i talebani sulle montagne dell’Afghanistan. Ogni tanto si trovano delle tracce, ma i guerriglieri svaniscono sempre nel momento decisivo. Gli scienziati impegnati nell’impresa sanno di non potersi fermare: se un giorno impareranno a controllarle, rivoluzioneranno la medicina.
Professor Luca Bonfanti, lei è uno dei ricercatori che sta cambiando l’idea del cervello – non più statico, ma organo capace di rinnovarsi – e racconta l’avventurosa indagine internazionale con il saggio «Le cellule invisibili». Perché invisibili?
«Prima di tutto perché fino a una quarantina di anni fa si pensava che le staminali cerebrali non ci fossero, mentre oggi si sa che ci sono, anche se è stato un processo faticoso. Ma “invisibili” si riferisce anche a un altro aspetto, la loro principale proprietà, che è quella di essere degli stati funzionali».
Può spiegare che cosa significa?
«E’ come la forma dell’acqua di Camilleri. Non esiste, perché dipende dal contesto, a seconda che si riempia una bottiglia o si disperda in una pozzanghera. L’attività delle staminali – replicarsi ed espandersi ed eventualmente rigenerare e curare – è legata all’ambiente in cui si trovano. E c’è poi un terzo aspetto».
Di quale si tratta?
«Sono invisibili perché non riusciamo letteralmente a vederle. Non abbiamo una molecola o un anticorpo che le identifichi e loro non esibiscono una forma propria. Nel cervello, per esempio, sono state identificate con un sottogruppo di astrociti – le cellule che fanno da supporto ai neuroni – ma sono uguali a questi ultimi. E non c’è nemmeno la possibilità di osservarle nel momento in cui eseguono il loro lavoro. Gli scienziati, così, si travestono da detectives: arrivano sulla scena del delitto, anche se non è detto che riconoscano il colpevole».
Lei parla di «contesto»: si riferisce ai test in vitro più recenti?
«Sì. Quando prendiamo le staminali e le mettiamo in coltura riusciamo a far fare loro tante cose, come la rigenerazione dei tessuti, ma, quando le rimettiamo nel cervello, non fanno più le stesse cose. Nel momento in cui si esegue il test – come prevede il principio di indeterminazione di Heisenberg – si alterano le condizioni e i risultati cambiano».
Ma se si entrasse nella testa che cosa si vedrebbe?
«Il risultato della loro attività e quindi la loro progenie: per esempio generano precursori che migrano nel bulbo olfattivo e lì si integrano con gli altri neuroni».
Dove avete trovato le staminali?
«In due aree: la sottoventricolare e l’ippocampo. Si nascondono lì, tra gli astrociti, appunto, ma non sappiamo quali di questi, in un momento x, si comporti da staminale. Ritorna sempre l’invisibilità: l’identità della cellula cambia e non ce ne accorgiamo».
E nel resto del cervello?
«Qui, vale a dire nel restante 99%, siamo rimasti al vecchio dogma, quello del tessuto perenne che non si rigenera».
E lì il dogma resisterà sempre?
«Siamo pressoché certi che una vera neurogenesi – il rinnovamento dei neuroni – avvenga solo in quelle due zone. Ma si sa che altrove esistono dei progenitori – e quindi non staminali vere e proprie – che possiedono potenzialità rigenerative: si dividono, sebbene lentamente, e generano alcune cellule, perlopiù gliali, con funzioni di sostegno e nutrimento per i neuroni».
Sono staminali quiescenti?
«Sì. Qualcosa del genere. Sono sparse un po’ ovunque e la speranza è riuscire a risvegliare questa capacità».
Ma le staminali «vere» quanto sono attive? A che velocità rinnovano il cervello?
«Sono lentissime: il tempo con cui agiscono assomiglia a quello dilatato di certe scene dei film di Kubrick e De Palma».
Se i neuroni fossero 100, quanti ne vengono sostituiti nel corso di una vita?
«E’ un calcolo che nessuno ha fatto. Si stima che circa il 99% dei 100 miliardi dei neuroni sia perenne. Fate voi i conti… Nelle zone “nicchia”, invece, gli ordini di grandezza sono di alcune migliaia, ma delle cellule che migrano solo una minoranza si integra».
Lei descrive un meccanismo sofisticato e tuttavia statisticamente poco rilevante: che cosa ci sfugge dell’indagine?
«E’ la domanda più intrigante e al momento non abbiamo la risposta. Un’ipotesi è che il processo di rinnovamento sia legato ad aree importanti per i nostri parenti mammiferi».
Spieghi.
«Nei topi si è osservato che i nuovi neuroni migrano dall’area sottoventricolare al bulbo olfattivo: questi animali dipendono dal naso per le funzioni essenziali, come trovare il cibo, difendere il territorio, scegliere il partner. Per noi, evidentemente, non è più così».
Come si comportano i nuovi neuroni?
«Ne sostituiscono altri: sono importanti per l’apprendimento della funzione olfattiva, mentre la capacità di imparare è alla base anche della produzione delle staminali nell’ippocampo, che è sede di varie forme di memoria, compresa quella spaziale. E’ chiaro che sono sempre in gioco funzioni vitali».
Il perché lo ignorate: è così?
«Probabilmente per disporre una riserva di neuroni che possano entrare nei circuiti, rendendoli giovani: così si garantisce un adattamento a situazioni ambientali nuove, non previste dal Genoma».
Ma noi umani che cosa guadagniamo?
«Il processo, per noi, appare “vestigiale”. Però c’è un punto essenziale: se è interessante analizzare il fenomeno biologico, in realtà a noi interessa molto di più il meccanismo, perché, una volta compreso, potremmo riprodurlo o potenziarlo».
A che scopo?
«Per curare le patologie neurodegenerative che affliggono il sistema nervoso oppure traumi o ictus. Si tratta di una prospettiva ancora lontana e nemmeno garantita. Qui scienza e fantascienza tornano a toccarsi: siamo appena arrivati su una nuova soglia. Un po’ come nel finale di “2001 Odissea nello Spazio”».
Chi è Luca Bonfanti Morfologo
RUOLO: E’ PROFESSORE DI ANATOMIA VETERINARIA ALL’UNIVERSITA’ DI TORINO
IL LIBRO: «LE CELLULE INVISIBILI» BOLLATI BORINGHIERI RICERCHE: PLASTICITA’ DEL CERVELLO
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Patti Smith canta a Firenze
(un mio idolo)
(ANSA) – FIRENZE, 8 SET – Passeggiare per Firenze e scoprire che, seduta in qualche angolo delle vie del centro, Patti Smith con la sua chitarra sta suonando. E’ quanto accaduto questa mattina dove la poetessa del rock si e’ esibita, tra la gente, al mercato di Sant’Abrogio, in piazza Santa Croce, al Museo del Bargello. E per domani mattina e’ previsto un bis. Patti Smith e’ in questi giorni a Firenze per ‘I was in Florence’, la rassegna dedicata al trentennale dello storico concerto che tenne nella citta’.
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07.09.2009
Guatemala sentenza storica contro l’impunità
Mi raccontano che, nel calendario Maya, il giorno “E’” è quello nel quale s’inaugura un percorso e si aprono le porte di un cammino verso la giustizia.
Il 31 agosto 2009, nel calendario Maya, in effetti, corrispondeva a un giorno “E’”.
Per tutti quelli, Maya e non, che amano il Guatemala e che in qualche modo si adoperano per sconfiggere l’impunità che regna nel paese dell’eterna primavera sulle gravissime violazioni dei diritti umani commesse nel corso di un conflitto interno durato 36 anni, il 31 agosto 2009 sarà comunque una data da ricordare. Quasi quanto il 29 dicembre 1996, quando la firma degli Accordi di Pace di Oslo pose fine, almeno sulla carta, al genocidio che aveva già lasciato 250.000 morti (la quasi totalità dei quali appartenente a una delle varie etnie Maya), circa 45.000 desaparecidos e un milione di profughi. Quasi quanto il triste 26 aprile 1998, quando dei codardi pensarono che un’efferata aggressione potesse mettere a tacere per sempre quell’uomo coraggioso e cocciuto che era Monsignor Gerardi, che aveva appena reso pubblico un rapporto nel quale si denunciavano con tutti i dettagli del caso le violazioni commesse durante il conflitto e si facevano nomi e cognomi dei principali responsabili. In effetti, Monsignor Gerardi morì, ma lasciò come “testamento” una citazione evangelica: “la verità vi renderà liberi”.
Queste parole sono riuscite a penetrare nella società guatemalteca più a fondo del prepotente colpo alla testa che ha ucciso Monsignor Gerardi e hanno segnato (e continuano a segnare) la vita di molti uomini e donne. Alcuni hanno dedicato la propria intera esistenza, a prescindere dai rischi e dalle continue intimidazioni, a cercare di stabilire quella tanto invocata verità e a ottenere giustizia per chi non c’è più. Altri si ostinano a cercare di mettere un bavaglio a quella verità, a presumere che la paura avrà la meglio sulla memoria ostinata e sulla dignità.
Sospetto che questi ultimi non abbiano letto una bella fiaba di quel genio di Gianni Rodari (Giacomo di Cristallo), nella quale un tiranno mette ai ceppi il povero Giacomo pur di nascondere una scomoda verità. Mi racconta Rodari che “di notte la prigione spandeva intorno una grande luce ed il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire. Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano”.
La sentenza che il Tribunale di Chimaltenango ha reso alle quattro di pomeriggio del 31 agosto 2009, in un giorno E’ del calendario Maya, è decisamente il miglior modo di affermare la verità. E di dimostrare che alla verità, nonostante mille difficoltà e pericoli, può fare seguito la giustizia.
Nonostante quando si parla di desaparición forzada l’immaginario collettivo tende sempre a correre verso il più noto caso dell’Argentina, è il Guatemala a detenere il macabro primato di vittime di questo delitto odioso. 45.000, si diceva. E, sino al 31 agosto 2009, nessuna condanna per questo delitto: un’impunità assoluta che rinnovava di ora in ora, di giorno in giorno, la ferita sanguinante di non sapere che cosa è successo ad un proprio caro.
Il 31 agosto 2009 il Tribunale di Chimaltenango ha decisamente spalancato una porta sulla strada che conduce alla giustizia: Felipe Cusanero, ex comisionado militar, è stato condannato a 150 anni di carcere per la sparizione forzata di 6 uomini e donne (Lorenzo Ávila, Alejo Culajay Ic, Filomena López Chajchaguin, Encarnación López López, Santiago Sutuj, Mario Augusto Tay Cajt) – per la cronaca, tutti Maya – avvenuta tra il 1982 e il 1984 nel villaggio di Choatalum. 25 anni di carcere per ciascuna delle vittime.
La sentenza del giorno E’ riveste una particolare importanza non solo simbolica, ma anche, e soprattutto, giuridica. Sino ad oggi, infatti, quei pochi casi di sparizione forzata di persone che erano arrivati di fronte all’autorità giudiziaria erano stati archiviati e spesso si era utilizzato il criterio per cui, non esistendo la fattispecie penale di sparizione forzata di persone nel momento in cui si era verificato il delitto, non si potesse procedere.
Il tribunale di Chimaltenango ha chiaramente affermato la natura permanente del reato di sparizione forzata (si continua a commettere sino a che non si stabilisce con certezza la sorte toccata alla vittima e, in caso di decesso, non ne vengono esumati e identificati i resti mortali), determinando l’applicabilità della fattispecie penale introdotta nel codice guatemalteco nel 1996 e l’impossibilità di invocare la prescrizione.
La sentenza del giorno E’, in effetti, arriva in un momento cruciale nella lotta contro la sparizione forzata di persone, in Guatemala e nel mondo intero.
Il 30 agosto cade la giornata mondiale contro la sparizione forzata di persone. In quasi 30 diversi paesi del mondo le associazioni di famigliari di persone scomparse forzatamente, accompagnate da esponenti della società civile e da membri di organizzazioni non governative, hanno svolto manifestazioni denunciando questo crimine contro l’umanità che ha scaraventato migliaia di uomini e donne a tutte le latitudini nel dramma di vivere relegati tra il sordo dolore e la più cocciuta e tremendamente umana speranza. Ad Algeri, per esempio, 80 uomini e donne hanno sfidato la proibizione presidenziale e sono scesi in piazza (come le Madres de la Plaza de Mayo hanno fatto e continuano a fare) in un clima di tensione palpabile, chiedendo semplicemente di sapere la verità e di ottenere giustizia per le 9.000 persone scomparse negli anni Novanta in Algeria.
A Manila invece si sono radunati rappresentanti delle associazioni di famigliari di scomparsi forzatamente delle Filippine, del Nepal, del Kashmir, dell’Indonesia, della Tailandia, di Timor Est, del Pakistan e dello Sri Lanka. Anche loro hanno ribadito, ciascuno nella propria lingua, la stessa richiesta che si è udita ad Algeri e che, qualche ora dopo, sarebbe echeggiata nelle manifestazioni tenutesi in varie città dell’America Latina: verità e giustizia. A Manila, mentre l’aria si faceva densa del calore insopportabile che precede l’acquazzone quotidiano della stagione delle piogge, non si sono viste lacrime gratuite. Si è solo sentito ripetere con convinzione uno dei motti della Federazione Latino Americana di Famigliari di Scomparsi: “non esiste dolore inutile”. Confesso però che, a bassa voce, alcuni dei presenti hanno mormorato un’ulteriore domanda: “quando?”. Presumo intendessero “quando arriverà il giorno della verità e della giustizia?”. Quello in cui si riesce a dare il senso al dolore di una vita.
Il fuso orario ci ha portato la risposta, inaspettatamente, da Ciudad de Guatemala.
Per telefono è arrivata la notizia del giorno E’: anche se i presenti non conoscevano Lorenzo, Alejo, Filomena, Encarnación, Santiago o Mario Augusto, apprendere che il responsabile di queste sparizioni forzate sia stato condannato e sia effettivamente in carcere, è stato un messaggio dalla forza dirompente, che li ha motivati a riprendere con ancora maggior convinzione i propri sforzi. Perché, in effetti, anche se a volte si deve attendere per più di vent’anni, la giustizia può arrivare e la verità, come nella fiaba di Rodari, non permette al tiranno di dormire in pace.
Mi raccontano che nel calendario Maya esistono anche i giorni Aq’ab’al e Aqmaq: il primo rappresenta al tempo stesso l’alba e il tramonto, la luce e l’oscurità; il secondo rappresenta insieme perdono e peccato, momento più buio della notte e primo raggio di luce. Confesso che non so a che giorno del calendario Maya corrisponda l’8 settembre 2009. Sono però certa che ci sono tutte le caratteristiche dell’ambiguità di Aq’ab’al e Aqmaq.
Alle 9 del mattino di fronte alla prima sezione del tribunale di Chiquimula si terrà un’udienza di fondamentale importanza per un ulteriore caso di sparizione forzata di persone e può trattarsi o del primo raggio dell’alba o della condanna all’oscurità.
Il 19 ottobre 1981, nella comunità di El Jute, vennero fatti sparire da membri dell’esercito guatemalteco Jacobo Crisóstomo Chegüen, Miguel Ángel Chegüen Crisóstomo, Raúl Chegüen, Inocente Gallardo, Antolín Gallardo Rivera, Valentín Gallardo Rivera, Santiago Gallardo Rivera e Transito Rivera. Sono trascorsi 28 anni e i famigliari di questi 8 uomini non hanno ancora potuto conoscere la verità sulla sorte dei propri cari e, se del caso, dare loro sepoltura in accordo con i propri riti e le proprie credenze.
In questi 28 anni non si sono risparmiati i tentativi di portare alla sbarra i responsabili. Non si sono risparmiati neppure gli attentati contro i testimoni, i famigliari e gli avvocati coinvolti nel caso (già, i tiranni cercano sempre di mettere a tacere la verità…).
Non esiste dolore inutile e, nel 2005, si riesce ad ottenere che venga emesso un mandato di cattura e vengano effettivamente portati in carcere in attesa di giudizio i presunti responsabili: colonnello Marco Antonio Sánchez Samayoa, i comisionados militares Salomón Maldonado Ríos, José Domingo Ríos Martínez, Gabriel Álvarez Ramos e Juan Carlos Ramos Rivera (quest’ultimo già deceduto).
Nel 2008 si apre il processo che, pur lentamente, riesce a superare i mille cavilli giuridici accampati dalla difesa e che, finalmente, potrebbe entrare nel vivo e culminare con una sentenza di condanna. Il 7 dicembre 2008, con una scandalosa risoluzione, la Corte costituzionale guatemalteca accoglie le richieste di Sánchez Samayoa, che torna in libertà, a far compagnia a migliaia di criminali che continuano a sostenere di aver ucciso, torturato e fatto sparire migliaia di persone per garantire la “sicurezza nazionale”.
Ciononostante il processo continua e si può ancora sperare, soprattutto dopo l’incoraggiante esempio di quanto avvenuto nel giorno E’, di ottenere giustizia e di riportare in carcere i responsabili.
Ci sono ben 19 testimoni di quanto avvenne quel 19 ottobre 1981. Dal 2008, questi uomini e donne vivono nel terrore, in quanto oggetto di continue minacce e attentati. La Commissione interamericana dei diritti umani ha ordinato al Guatemala di adottare ogni misura che si renda necessaria per tutelare la loro vita e la loro integrità personale. Per essere obiettivi, i risultati ottenuti sino ad ora in tal senso sono scarsi. Il 25 luglio 2009 uno dei famigliari delle vittime è stato raggiunto da un colpo di arma da fuoco esploso da individui non identificati e sta ancora lottando per ristabilirsi.
Dal giorno E’ e in concomitanza con l’avvicinarsi dell’udienza dell’8 settembre 2009, le telefonate anonime e le minacce si sono decuplicate e le autorità non danno cenno di prendere misure più efficaci per tutelare questi uomini e donne che sono disposti a rischiare la propria vita in nome della verità.
Non so che giorno sarà domani nel calendario Maya. Se si tratta di un Aq’ab’al o di un Aqmaq, voglio sperare che corrisponda all’interpretazione di “alba e affermarsi della luce”.
Sia come sia, so che questi 19 uomini e donne, i famigliari delle 8 vittime e i loro avvocati non saranno soli domani: li guardano con speranza e solidarietà centinaia di altri famigliari di scomparsi nei più diversi paesi del mondo.
Li dobbiamo guardare con attenzione e rispetto anche noi, da ogni angolo della terra. Per far sapere al colonnello Sánchez e ai suoi scagnozzi Maldonado Ríos, Ríos Martínez e Álvarez Ramos che, come il tiranno di Giacomo di Cristallo, non possono dormire sonni tranquilli e le loro minacce non metteranno a tacere la verità.
Se non il giorno E’, per loro, mi auguro sia arrivato il giorno Kan. Quello della “giustizia e della verità”.
* Ricercatrice in diritto internazionale presso l’Università di Milano-Bicocca, consulente giuridica internazionale della Federación Latinoamericana de Familiares de Detenidos Desaparecidos (FEDEFAM).
http://www.gennarocarotenuto.it/4904-guatemala-leterna-impunit/
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Ricevuto via mail il 09.09.2009
Jeans ribelli in prima pagina. Bambini scomparsi e traffico d’organi, non pervenuti
Da Elvio Arancio
Doriana
All’unisono, la stampa italiana scopre la sua nuova eroina: Lubna.
Colonne su colonne di giornale per rendere noto al mondo, applaudire, invitare a commuoversi per la ricca signora sudanese Lubna Hussein, addetta stampa dell’ONU, che condannata dal feroce regime islamico del Sudan per aver indossato dei jeans, ha rischiato 40 frustate, poi commutate in una multa di 200 dollari; multa che lei rifiuta, per
andare in carcere (un mese) e «trasformare il suo caso in una battaglia civile per le donne». Bene, brava Lubna e bravi i giornali che farebbero informazione.
Il Corriere della Sera le ha dedicato tre, diconsi tre articoli. A pagina 14, «I pantaloni antiregime di Lubna», a firma di Paolo Lepri. A pagina 17, ampia cronaca su cinque colonne («La giornalista in pantaloni che sfida gli islamici») e un commento di Luigi Accattoli, il vaticanista. E’ tutto un crescendo di peana, sempre più sperticati: «Donna coraggiosa, coraggiosa come Aung San Suu Kyi, come Anna Politkovskaya», per Lepri. Accattoli la paragona a Giovanna d’Arco, anche lei condannata perché indossava i pantaloni (e per altre due o tre cosette).
D’accordo, è bello che l’Occidente si riscaldi ancora per delle figure sublimi, e perseguitate. Però, siamo giusti, cerchiamo di mantenere il senso delle proporzioni. Lubna ha sferrato la battaglia dei pantaloni. Non è stata nemmeno staffilata (ai media spiacerà un po’, avrebbe fatto più sensazione); s’è beccata una multa. La Politkovskaya è stata ammazzata, Giovanna d’Arco bruciata viva, Aung San Suu Kyi è agli arresti da 40 anni in Birmania.
«Il grande merito» di Lubna, ci spiega Lepri, è «aver riportato l’attenzione su un paese canaglia, il Sudan, che era stato cancellato da una mano nera nella lavagna dell’interesse del mondo».
Chissà di chi è questa mano nera che cancella l’attenzione mediatica sul Sudan. Il Corriere coltiva una teoria del complotto, naturalmente islamico; è noto che è la lobby musulmana a controllare i media occidentali, e a sopprimere le informazioni sulle loro persecuzioni di donne in jeans.Infatti non c’è giornale che, da noi, abbia il coraggio di scrivere una riga contro Ahmadinejad, contro Gheddafi, o contro il capo del Sudan, o di pubblicare vignette insultanti contro Maometto. Giustamente, il Lepri prende coraggio dall’esempio della bella perseguitata di Kartum: «Lubna può insegnarci molte cose, ma soprattutto a non aver paura», inneggia Lepri, e in crescendo vibrato: «Lubna non ha mai taciuto, non ha mai avuto nemmeno una volta la tentazione della sottomissione… ci ha dimostrato che ribellarsi è giusto, vincere è possibile». Parole sante. Incitati da tanto esempio, osiamo riportare qui notizie apparse su vari giornali algerini (Al Marada ed Al Khabar del 6 settembre), che a noi appaiono degne di nota, e al Corriere no. Apprendiamo che l’arresto, recentemente operato dall’FBI a New York, del rabbino Levy Izhak Rosenbaum e dei suoi complici di traffico di organi umani, ha preso le mosse proprio in Algeria, da numerosi casi di bambini scomparsi.
Perché dal 2001 al 2008, sono scomparsi in Algeria 841 bambini fra i 4 e i 16 anni; rapiti per lo più in grandi città, Algeri, Orano, Annan, gettando nella disperazione le famiglie. A volte vengono ritrovati i cadaveri (81 solo nel 2007), ma più spesso se ne perdono del tutto le tracce; non vengono richiesti riscatti.
In Algeria scompaiono, o sono scomparsi, anche centinaia di adulti: da mettere forse sul conto di anni di guerriglia islamica divenuta folle, ma non mancano i sospetti sul «potere», ossia sul regime corrotto ancorché «laico». Fatto sta che la polizia algerina, non riuscendo a chiarire il macabro mistero, ha chiesto l’assistenza dell’Interpol. E, secondo i giornali algerini, è stato proprio il coordinamento attuato dall’Interpol fra varie polizie (fra cui quella del Marocco) che ha portato allo «smantellamento della rete di contrabbando internazionale di organi» conclusasi in USA con la cattura del rabbino Rosenbaum e di altri 43 americani.
Il giornale Al-Khabar conferma che «gli arresti hanno avuto luogo dopo che le indagini hanno mostrato che bambini algerini rapiti, e portati in Marocco, erano direttamente collegati con la rete ebraica che usava gli organi dei bambini onde contrabbandarli in Israele e Stati Uniti, allo scopo di venderli fra i 20 mila e i 100 mila dollari».
Ovviamente i giornali algerini riferiscono della recente inchiesta del giornale svedese «Aftonbladet», secondo cui i palestinesi di Gaza e Cisgiordania sostengono da anni che giovani palestinesi vengono uccisi e smembrati dall’armata israeliana per trarne gli organi. Riporta anche le frasi che rabbi Rosenbaum disse al telefono ad un compratore, intercettate dall’FBI: «Lasci che le spieghi. E’ illegale comprare o vendere organi… Sicché lei non può comprarli. Quel che lei farà, è dare un compenso per il mio tempo». Lamentando che la compensazione era aumentata a 160 mila dollari, perché «è difficile ottenere gente», da quando Israele ha passato una legge che vieta la vendita di organi umani.
Qui, si tratta di una notizia più grossa della Lubna multata perché porta i pantaloni. La faccenda del traffico d’organi a favore di israeliani, spesso pagati dai loro servizi ed assicurazioni sanitari, diventa sempre più ricca di dati, circostanziata e precisa, eppure è come – per dirla con Lepri – «una mano nera l’avesse cancellata dall’interesse del mondo». Se per caso i nostri giornali ne parlano, è solo per riferire lo sdegno di Israele a queste voci ed accuse: nulla di vero, si tratta solo di atroci fantasie antisemite, il ritorno alla vecchia accusa di assassinio rituale…
E’ possibile. Ma se si vince la tentazione della sottomissione (come ci insegna Lubna, secondo Lepri) si finisce per domandarsi se nella cultura ebraica ci sia davvero qualcosa che renda impossibile simili traffici. E si scopre che è il contrario: che esiste almeno una parte della cultura ebraica, che ammette quel delitto.
Israel Shahak, in «Jewish Fundamentalism in Israel», Londra 1999, riporta un rescritto del venerato rabbi Schneerson, gran maestro dei Lubavitcher: «Se un ebreo ha bisogno di un fegato, si può prendere il fegato di un non-ebreo innocente per salvare il primo? La Torah probabilmente lo consente. La vita di un ebreo ha un valore infinito. Se vedi due persone annegare, un ebreo e un non-ebreo, la Torah ti impone di salvare prima la vita dell’ebreo».
Ora, di fronte alla cattura di rabbi Rosenbaum di New York e alla sua comprovata compravendita di organi per ricchi ebrei, si ha l’impressione che il rescritto di rabbi Schneerson non sia una speculazione teorica, un caso del tutto ipotetico per una discussione talmudica. E’ forse il via libera teologico allo strappo di organi di noi gentili, in ebraico goyim? Se la Torah consente «probabilmente» di prendere da un non-ebreo il fegato, organo unico, che condanna l’espiantato a morte certa, magari consentirà «sicuramente» lo strappo di un rene, che tanto è doppio, o la presa di un cuore da un cadavere ancora caldo di un palestinese, che tanto è morto?
Lepri del Corriere, se ha imparato da Lubna a «non aver paura», non faccia la lepre e si getti su quest’argomento: ne ricaverà pezzi un po’ più corposi che su una multa per abiti considerati in Sudan indecenti. Non abbia paura, e legga come rabbi Schneerson giustifica teologicamente l’asportazione di organi da non ebrei: «Il corpo dell’ebreo sembra simile a quello del non ebreo (…) ma la similarità è solo nella sostanza materiale, aspetto esteriore e qualità superficiale. La differenza della qualità interiore è così grande che i corpi devono considerarsi di specie del tutto diverse (…). Un ebreo non è stato creato come mezzo per uno scopo; egli stesso è lo scopo, dal momento che tutta la sostanza della emanazione è stata creata solo per servire gli ebrei. ‘In principio D. creò i cieli e la terra’ (Genesi 1;1) significa che tutto fu creato per il bene degli ebrei, che sono chiamati ‘il principio’. Ciò significa che tutto è vanità in confronto agli ebrei».
Rabbi Schneerson di venerata memoria non mancava di insistere: «L’intera realtà non ebraica è solo vanità. Sta scritto: ‘e gli stranieri pascoleranno le vostre greggi’ (Isaia 61:5). L’intera creazione esiste solo per il bene degli ebrei».
Dunque, secondo questa ideologia, gli altri esseri umani sono solo «mezzi per uno scopo», lo scopo di essere usato dagli ebrei. Non pare a Lepri e al Corriere che questa ideologia non rigetti affatto l’espianto di organi da vivi e da morti non ebrei, eventualmente il rapimento di bambini e di palestinesi per trarne organi, ma anzi giustifichi teologicamente questo tipo di cose orribili?
La replica indignata è, di solito, questa: che è antisemita prendere le idee di Schneerson, e della sua piccola setta estremista, e far credere che sono legge in Israele. Che sono idee del tutto minoritarie, di frangia, e non adottate dallo Stato ebraico. Ma è proprio vero?
A parte che gli Habad Lubavitcher, quelli che credono Schneerson il loro messia, sono un gruppo numeroso, potente e con schiacciante influenza in Israele e in USA; a parte che nessun altro rabbino ha rigettato come eretiche e inammissibili, contrarie alla Torah e al Talmud, le idee dei Lubavitcher (anzi il contrario: i rabbini-capi esprimono idee simili, invocando il massacro o l’espulsione in massa dei palestinesi), perché mai la Sanità israeliana finanzia viaggi all’estero di ebrei bisognosi di organi non ebrei, sapendo bene cosa vanno a fare?
In queste settimane è in corso in Israele una grande campagna pubblicitaria, finanziata e sponsorizzata dal governo, che ha l’intento di combattere i matrimoni misti, di ebrei con non-ebrei. Dappertutto ci sono manifesti con foto di un giovane o di una ragazza, con sotto la scritta «Perduto». Sono i ragazzi e le ragazze a rischio di sposare dei goyim, non ebrei, per cui trattati come persone scomparse. I manifesti, ma anche un videoclip TV di 30 secondi, invita chi «conosce un giovane ebreo all’estero» che sta per sposarsi con una non-ebrea, a chiamare un numero d’emergenza.
Nel clip, la voce fuori campo dice: «Insieme possiamo rafforzare i suoi legami con Israele, in modo da non perderli». La linea d’emergenza esiste davvero; di fatto, il pubblico israeliano è invitato a segnalare amici, parenti e conoscenti «in pericolo di matrimonio» inter-razziale, in modo che le autorità possano fare pressione su di loro, onde ritornino sulla retta via ebraica, ossia alla tradizionale endogamia.
La campagna (costo, 800 mila dollari) viene giustificata col fatto che la metà dei giovani ebrei che vivono all’estero si sposano fuori della comunità: sono duque «perduti» per il giudaismo.
Scusa accettata. Ma provate ad immaginare se uno Stato europeo – che dico – un partito, o la Lega Nord, lanciasse una simile campagna pubblicitaria. Pensate se apparissero manifesti con foto di ragazze e ragazzi «lumbard» che sono a rischio di sposare dei «terùn», e dunque devono essere dissuasi, sottoposti a corsi speciali (come accade in Israele) «per rafforzare il loro legame con la Padania».
Pensate alle accuse di razzismo che lancerebbe Il Corriere, ed ogni altro giornale dell’Italia e del mondo. Pensate alle trasmissioni che organizzerebbe Gad Lerner. Pensate allo scandalo, al clamore, allo stracciamento di vesti, alla richiesta della messa fuorilegge di quel partito…In Israele lo fanno, e nulla succede. Una mano nera cancella tutto dalla lavagna dell’opinione pubblica.
C’è uno stato razzista e criminale sull’altra sponda del Mediterraneo, i cui dottori della legge chiamano i non-ebrei «un mezzo per un scopo», e gli ebrei «il fine della creazione»; e questa ideologia è pure armata di 2-300 bombe atomiche. E i nostri giornali di cosa si occupano? Di Lubna, sudanese, che è stata multata perché vuol portare i pantaloni.
E’ la classica storia dell’Occidente ipocrita, che scarta il moscerino, e ingoia il cammello.Sarà che stampa e tv sono di proprietà dei vari DeBenedetti, Elkan, Murdoch o diretti da direttori quali Mieli,Giuliano Ferrara, C. Minum e una truppa di ebrei filo israeliana vi lavorano:Gad Lerner, Arrigo Levi, Lowental, Nierstein, Mentana, Cohen e se ne dimentica sempre qualcuno?
E’ così che Israele razzista si potenzia, si fa sempre più arrogante e feroce, non contrastato dalla stampa, forte del silenzio intimorito o complice dei media. Suvvia, almeno Lepri impari dalle sue parole: «Lubna non ha mai taciuto, non ha mai avuto nemmeno una volta la tentazione della sottomissione… ci ha dimostrato che ribellarsi è giusto, vincere è possibile». Provi anche lui, giornalista libero.
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In carcere mai così tanti suicidi
di Daniele Biella
08.09.2009
Nel 2009 48 morti in soli otto mesi. Un record. L’ultima vittima? Un tunisino che si è lasciato morire di fame
Non ce l’ha fatta Stefano, 50 anni, artigiano incensurato di Rovereto, che lo scorso luglio, dopo l’arresto per detenzione di hascisc (l’uomo era stato fermato per strada dai Carabinieri per una manovra azzardata in bicicletta) non è sopravvissuto alla prima notte in cella, impiccandosi con le lenzuola a Rovereto. Non ce l’ha fatta Nabruka, 44 anni, tunisina: fermata a maggio mentre era in coda per il rinnovo del permesso di soggiorno (era da 20 anni Italia, con marito e un figlio), alla notizia dell’imminente espulsione dall’Italia, s’è tolta la vita nel Centro d’identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte galeria. E l’orrore del binomio carceri-suicidi non conosce sosta: è di martedì 8 settembre la notizia che non ce l’ha fatta nemmeno Sami, il detenuto tunisino di 42 anni che è morto per le complicazioni sopraggiunte al suo fisico dopo un mese di sciopero della fame nel penitenziario di Pavia.
Vite spezzate, che diventano un triste e altissimo grido d’allarme per la situazione che le persone, con le loro sttrie di vita, le emozioni, i sensi di colpa, vivono dietro le sbarre. Sono ben 48 i detenuti che si sono uccisi nei primi otto mesi del 2009: il dato è della rivista online Ristretti orizzonti, che ogni anno, da tempo, compila quello che che viene chiamato Dossier ‘Morire di carcere‘ e che chiunque, a questo link sul sito web, può leggere: dietro ogni gesto estremo, tante vicende, e chissà quante cose non dette.
Il numero dei suicidi in carcere del 2009 deve anche far riflettere: si tratta in fatti di un’aumento di quasi il 50% rispetto al 2008, quando, nello stesso periodo, erano state 30 le morti, 18 in meno quindi. Addirittura, nel 2007 erano state ‘solo’ 28. “Di questo passo”, segnala Ristretti orizzonti, “a fine anno arriveremo a un numero di suicidi superiore a 70, un triste primato, mai registrato nelle nostre galere.
Scorrendo la lista delle morti del 2009, si scopre che il più giovane dei detenuti suicidi di quest’anno era un 19nne tunisino, ma ben 17 avevano tra i 20 e i 30 anni. “A riconferma che i giovani sono i soggetti più a rischio in carcere, a differenza del ‘mondo libero’, dove sono maggiormente le persone mature o anziane ad uccidersi”, commenta Ristretti orizzonti. 28 dei suicidi erano italiani e 20 stranieri, 2 le donne.
Quanti di questi atti estremi potevano essere evitati? Non c’è risposta a questa domanda. Gli agenti penitenziari fanno il possibile, ma non riescono a controllare più di una volta ogni ora e mezza o due le singole celle. Gli psicologi per prevenire ci sono, ma non la prima notte, la più lunga, nel caso di molti, oltre a Stefano di Rovereto. Quello che è certo è che alcune situazioni potrebbero essere gestite meglio, come quella finita tragicamente oggi a Pavia, una vicenda che ricorda da vicino quella di Ali, 40enne iracheno deceduto nell’agosto 2008, dopo ben 80 giorni di digiuno nel carcere di L’Aquila. “Entrambi stranieri, entrambi senza famiglia in Italia e senza denaro per garantirsi una adeguata difesa (Juburi era in carcere perché accusato del furto di un telefonino), entrambi protestavano la loro innocenza rifiutando di nutrirsi”, riporta Ristretti orizzonti, “chissà se l’Amministrazione Penitenziaria classificherà la loro morte come ‘suicidio’. Noi preferiamo scrivere vicino ai loro nomi ‘morti per fame'”
http://beta.vita.it/news/view/95134/
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09.09.2009
Di ritorno da Asmara
Riceviamo e volentieri pubblichiamo certi di rendere un buon servizio ai nostri lettori.
Tornato a Milano da Asmara leggo sui giornali italiani gli articoli sull’Eritrea apparsi in seguito alla nuova tragedia del mare ma concentrati non sulle politiche dell’immigrazione ma su una demonizzazione che appare sospetta.
Trovo descritto il paese che ho appena lasciato come un inferno, un paese dove si muore di fame e dove i negozi sono vuoti (1), una gigantesca prigione, un fattore costante d’instabilità del corno d’Africa (2), un paese dove è in atto una persecuzione anticristana ad opera di un tiranno marxista e islamico (3) allora mi costringo a scrivere qualche riga citando solo quello che ho visto in poco più di un mese, periodo in cui Eritrea ed eritrei mi hanno ospitato.
Asmara: una città africana
Non so esattamente cosa intendesse dire Berlusconi quando in campagna elettorale definì Roma e Milano come città africane, certo mi stupì allora non sentire risposte sdegnate per l’affermazione evidentemente razzista ma solo basse polemiche sulle responsabilità degli amministratori locali del Pdl.
Asmara è una città africana: è pulita – a differenza delle nostre – e si può dire lo stesso degli altri paesi e città che ho visto; anche le strade sterrate più periferiche sono mantenute in uno stato più che dignitoso e se ci puoi trovare qualche pozzanghera dopo un temporale è difficile trovare un mozzicone di sigaretta e impossibile trovare sacchi di immondizia o oggetti abbandonati.
Le città eritree sono luoghi sicuri, non esiste in sostanza il rischio di furti o aggressioni e ho visto moltissime ragazze camminare per la città anche di notte da sole. Ma Asmara non è affatto una città militarizzata anzi si vedono pochissimi poliziotti e ancor meno armi, i militari armati in pratica li ho visti solo fermi di fronte a ministeri, ambasciate ed a qualche banca (normalmente un solo soldato in ogni luogo): se conto poliziotti, carabinieri, guardie giurate e militari che incontro in un’ora a piedi girando per il quartiere dove abito a Milano vedo certamente più uomini armati di quanti ne abbia visti girando per un mese l’Eritrea.
Il festival dell’Eritrea: l’identità plurale di un popolo
Ho avuto la fortuna di visitare nei primi giorni di agosto ad Asmara il Festival dell’Eritrea, una manifestazione che si tiene tutti gli anni presso l’area EXPO a cui partecipano decine di migliaia di eritrei provenienti da tutto il paese e dall’estero.
Vale la pena di parlarne perché si tratta di una fedele rappresentazione dell’identità nazionale di questo stato: qualcosa di straordinario ed estremamente originale.
Nel festival sono rappresentate e valorizzate le antiche tradizioni culturali delle nove etnie presenti nel paese: le loro musiche e danze, le case, gli oggetti d’artigianato, i vestiti e naturalmente i piatti tipici che si possono assaggiare in decine di piccoli ristoranti.
Nello stesso tempo i padiglioni dell’EXPO ospitano le mostre d’arte, i plastici dei vari progetti di modernizzazione in corso di realizzazione e le scuole hanno il loro spazio per far presentare direttamente dagli studenti il loro lavoro.
Anche se evidentemente la popolazione non è distribuita in modo uniforme (circa il 50% degli eritrei sono tigrini ed il 31% tigre) quello che emerge è un paese fondato sulla parità tra le culture presenti (come pure si può dedurre dalla televisione di stato che oltre a fornire programmi in 4 lingue diverse è molto attenta a mostrare tutte le etnie) e che nel rispetto di queste antiche tradizioni trova una fortissima unità nazionale basata su un grande grande orgoglio per la propria indipendenza e sul rifiuto di ogni intromissione da parte di qualsivoglia potenza internazionale.
La musica avvolge tutto questo, i concerti – da quelli dei cantanti più apprezzati a quelli dei bambini delle scuole elementari fino alle danze dei diversi gruppi etnici – si alternano dalla mattina fino a tarda notte. Ammetterò che ascoltare un bambino cantare una vecchia canzone struggente dedicata al proprio paese e scritta negli anni in cui per non incorrere in persecuzioni il nome dell’Eritrea era sostituito da quello di una ragazza mi ha commosso e forse mi ha insegnato cosa può significare l’amore per la propria Patria.
L’Eritrea è uno stato multireligioso ed è uno stato laico
Il centro di Asmara è delimitato dalle più grandi strutture religiose del paese: la Cattedrale Cattolica la Grande Moschea e la Chiesa Ortodossa di Nda Mariam, sono presenti inoltre diverse chiese protestanti ed una Sinagoga; la libertà di culto è garantita ed il governo non interferisce nelle questioni religiose.
Il carattere laico dello stato è ciò che consente ad un popolo che professa diverse religioni (ed è così in tutti le città ed i villaggi e anche all’interno delle stesse etnie) di vivere nel reciproco rispetto e a quello che ho visto l’identità nazionale non ne risulta minimamente scalfita.
E’ normale vedere passeggiare, scherzare, studiare, lavorare e ballare insieme ragazze e ragazzi mussulmani con cristiani delle diverse confessioni.
Va fatto un altro discorso – tutto diverso – per quanto riguarda i beni materiali della Chiesa Cattolica (in Eritrea ingenti e di derivazione diretta dalla dominazione coloniale italiana): il Governo nel tentativo di garantire un’istruzione ed una cultura a tutti ha trasformato diverse scuole private (prima a beneficio di pochi privilegiati) in scuole pubbliche, gli stessi cattolici eritrei sono in grado di distinguere questa questione da quella della libertà religiosa.
Faccio solo un esempio dell’approccio laico del governo: l’unica pubblicità che ho visto uniformemente diffusa sul territorio nazionale e con uno spot (il solo trasmesso dalla televisione) è quella che propaganda l’utilizzo del preservativo per la protezione dall’HIV.
Negozi eritrei
I negozi in Eritrea sono molto diffusi (almeno uno in ogni piccolo quartiere o villaggio) non essendo intervenuta la desertificazione successiva all’apertura dei grandi supermercati (questi, in effetti qui non esistono); nei negozi di solito si trova di tutto (frutta e verdura, farina, pasta, carne, zucchero, caffè oltre agli articoli non alimentari di uso comune) e non sono affatto vuoti. Nel centro delle città e nei villaggi più grandi si trovano poi negozi più differenziati: sartorie, lavanderie, negozi di vestiti, di scarpe, di elettrodomestici e di CD e musicassette, cartolerie/librerie, fotografi, parrucchieri e moltissime farmacie. Oltre a questi ci sono i mercati di solito distinti per generi venduti, da quello del pesce a quello dei vestiti o dell’artigianato, dei mobili o degli animali.
Ho visto personalmente tutti questi luoghi affollati come pure ho visto affollati i moltissimi caffè delle vie del centro di Asmara dove in alcuni orari è quasi impossibile trovare posto a sedere.
Qualche considerazione sulla povertà
Capita di leggere qui in Italia articoli dove si accusa un popolo di essere povero quasi fosse una colpa diretta del popolo stesso o del suo governo, mi pare però che la questione andrebbe affrontata in modo un po’ più serio ed un po’ meno semplicistico.
Certamente se il parametro di confronto è il livello di vita medio occidentale l’Eritrea è un paese povero e sappiamo che la sproporzione tra quanto si consuma in occidente e nel resto del mondo è tale (e questo con le precise responsabilità delle politiche di rapina coloniali e neocoloniali) da indurre tantissimi a sognare un’altra vita in una metropoli nel nord del mondo (ed i nostri più vigorosi e retorici politici anti-immigrazione schiavi del loro egoismo sociale sarebbero i primi a scappare se qualcuno gli togliesse anche solo per un mese il loro centro commerciale o la loro villetta nel varesotto).
Però in una condizione di scarsità di risorse occorre capire che tipo di sviluppo è possibile; l’Eritrea ha scelto di non essere “sviluppata” da altri a spese di tutto il popolo e con l’arricchimento di una ristretta élite.
Ho visto personalmente in tutto il paese la costruzione di nuovi moderni ospedali e scuole e il governo tende a privilegiare nella distribuzione delle risorse le zone più povere del paese. Anche se ad Asmara qualcuno si lamenta di questo ciò consente di evitare un’incontrollabile emigrazione interna che ridurrebbe questa città ad una bidonville come ce ne sono tante nel mondo purtroppo.
La povertà che pure ho visto è quasi sempre povertà dignitosa di piccoli pastori o venditori ambulanti, di agricoltori con il loro piccolo campo o di famiglie che vivono in case decisamente troppo piccole e non è la disperazione dei bambini costretti a sniffare colla per sopravvivere o lo sfruttamento senza limiti che si può vedere quotidianamente in altri paesi.
Perché tanto accanimento contro questo piccolo paese?
Appare sospetto questo congiunto e trasversale attacco contro l’Eritrea e credo che oltre a qualche utile ed ingenuo sciocco ci sia un preciso disegno teso a demonizzare un paese ed un popolo a cui il governo avrebbe fatto il lavaggio del cervello (4).
C’è chi sta sfruttando in modo immorale le tragedie, provocate peraltro dalle stesse politiche di contrasto feroce all’immigrazione che sostiene, vuole introiettare nell’opinione pubblica italiana l’idea che “l’inferno” vada debellato.
Le vetrine dei negozi di Asmara sono decorate con le colombe della pace: gli eritrei conoscono bene la guerra e non hanno certo la volontà di affrontarne ora un’altra.
L’ultima sanguinosa aggressione etiopica del 1998 (in cui l’esercito etiopico è penetrato in Eritrea compiendo brutalità e distruzioni assolutamente ingiustificate sui civili) è una delle cause delle difficoltà del paese anche perché pur essendo concluse dal 2000 le operazioni militari non è stata mai raggiunta una vera pace e sono bloccati tutti i naturali canali commerciali con il grande stato confinante.
Ma gli eritrei tengono più di ogni altra cosa alla loro indipendenza, non hanno intenzione di lasciare campo libero agli interessi occidentali nel loro territorio, non rinunciano a sostenere che anche il vicino popolo somalo ha diritto alla propria autodeterminazione: questi i veri motivi di una campagna che, a quanto ho avuto modo di vedere, si fonda su vere e proprie menzogne.
Chi vuole la pace lavori per la pace e non si renda complice del linciaggio di un popolo
Quando un paese è descritto in occidente con toni da giudizio universale definitivo si sente già risuonare la sentenza ed è quasi sempre di condanna a morte (Jugoslavia, Afganistan, Iraq … e la Somalia è dietro l’angolo…).
Il compito di chi vuole la pace non è certo quello di assecondare la propaganda che dipinge un paese che nella realtà non esiste o di attendere che sia una forza “umanitaria” (sempre dotata dei suoi bombardieri) o il fedele regime di Washington che domina l’Etiopia e che che già si è prestato (seppur con poco successo) alla guerra sporca in Somalia ad eseguire una sentenza già scritta. Oppure, per essere più precisi, a provare ad eseguirla, vista la capacità di resistenza dimostrata dal popolo eritreo nel corso di 30 anni di guerra di Liberazione ed ancora negli ultimi anni.
Mattia Gatti
(1) Massimo Alberizzi, Gli eritrei in fuga dall’inferno, Corriere della Sera on line 21/8/2008
(2) M.M., Quelle migliaia in fuga dalla perla del regime, il manifesto, 26/8/2008
(3) Riccardo Farina, Gli eritrei? Fuggivano da marxismo e islam, il Giornale on line, 24/8/2009
(4) Riccardo Farina, Gli eritrei? Fuggivano da marxismo e islam, il Giornale on line, 24/8/2009
http://www.ilbuio.org/index.php?articolo=9_114.txt
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Due prospettive di vedere la Cina
Ricevuto il 10.09.2009-09 via mail
Investire in Cina: alcuni miti da sfatare
Le acquisizioni di società cinesi da parte di investitori occidentali sono aumentate drasticamente dal 2005 al 2008. Nonostante il recente rallentamento dovuto agli effetti del credit-crunch, è opinione largamente condivisa che il numero e il volume di queste operazioni tornerà a crescere rapidamente.
Durante la prima ondata di investimenti diretti esteri in Cina, che ha avuto luogo negli anni ‘80, gli investitori occidentali hanno prevalentemente optato per la costituzione di joint ventures (equity o contractual) con controparti cinesi.
Da un lato, questo era il frutto di una precisa scelta di politica industriale operata dal Governo cinese, tale per cui in gran parte dei settori industriali gli investimenti diretti esteri potevano assumere esclusivamente la forma di una JV.
Dall’altro, si tendeva per lo più a sopravvalutare i vantaggi derivanti dall’avere un partner societario cinese rispetto ai problemi sollevati da un quadro normativo e da una prassi giudiziale ampiamente favorevole alla parte cinese.
Nel corso degli anni ‘90, con la progressiva apertura di diversi settori industriali agli investimenti diretti esteri condotti anche senza la partecipazione di un socio cinese, abbiamo visto proliferare casi di costituzione di società ad intero capitale straniero (Wholly Foreign Owned Enterprise WOFE).
Più di recente, con l’ingresso della Cina nella WTO, tale tendenza si è peraltro rafforzata essendo state ammesse anche le WOFE che esercitano attività di mera distribuzione (c.d. FIC Foreign Invested Commercial Enterprises).
Fino al 2001, anno di ingresso della Cina nella WTO, il Governo cinese tendeva a scoraggiare l’acquisto di partecipazioni in società cinesi da parte di investitori stranieri.
Una radicale inversione di tendenza, testimoniata dal repentino aumento delle operazioni di cross-border negli ultimi anni, si è registrata dalla seconda metà degli anni 2000, al punto da trovare costante eco nella letteratura economica e giuridica che si sta occupando della materia in modo sempre più approfondito.
Quali le ragioni di questo radicale mutamento di prospettiva?
Lo straordinario sforzo profuso dal Governo cinese per privatizzare le società a capitale pubblico attive in settori non strategici per gli interessi nazionali sta dischiudendo importanti opportunità per gli investitori stranieri di acquisire SOEs (State Owned Enterprises) ad alto potenziale.
Gli investitori occidentali che hanno saputo accumulare esperienza e professionalità nell’operare sul mercato cinese sono progressivamente più aperti a considerare l’ipotesi di acquisire imprese locali, avendo gli strumenti culturali e la preparazione necessari per assumere ed elaborare informazioni sulla società target che consentano un ragionevole contenimento dei rischi.
La crescente maturità del mercato cinese dei capitali e gli sforzi profusi dal Governo per accrescerne la trasparenza
La possibilità – oggi concessa – di investire in settori che presentavano notevoli barriere all’entrata.
Alcuni miti da sfatare
Riscontriamo spesso nelle imprese italiane che si accingono ad operare in Cina taluni pregiudizi che rischiano di distorcere i processi decisionali con riguardo alla scelta se porre in essere un’acquisizione societaria. Ne indichiamo alcuni.
“In Cina è impossibile condurre un’approfondita attività di due-diligence sulla società oggetto di un’acquisizione”.
Non v’è dubbio che l’accesso alle informazioni societarie, in Cina, è di norma più complesso che in altre giurisdizioni. Tuttavia, adottando taluni accorgimenti, è possibile ottenere risultati soddisfacenti. Ad esempio, una preventiva verifica presso il SAIC può rivelare informazioni particolarmente utili (va osservato che nessuno studio legale straniero, sia pure autorizzato ad operare in Cina con propri uffici di rappresentanza, può ottenere informazioni dal SAIC se non appoggiandosi ad uno studio legale cinese). E’ quindi importante assicurarsi che il professionista cinese incaricato abbia l’esperienza e la seniority necessarie per dare seguito proficuamente alla ricerca.
“La possibilità di acquisire una società cinese è riservata a grandi gruppi industriali e finanziari occidentali e non può essere seriamente considerata da una media impresa italiana”.
In realtà i numeri dimostrano il contrario. La maggioranza delle operazioni di M&A cross-border condotte in Cina riguardano acquisizioni di società di medie dimensioni ad opera – prevalentemente – di investitori industriali.
“Il Governo cinese intende disfarsi delle imprese pubbliche a scarso potenziale di crescita, vendendole agli investitori occidentali”.
La politica industriale perseguita da Pechino mira a selezionare un numero ristretto di grandi imprese pubbliche cinesi attive in settori strategici per gli interessi nazionali, le quali resteranno soggette al controllo pubblico. Le restanti imprese pubbliche verranno in parte ristrutturate, in parte privatizzate.
Il processo di privatizzazione è stato congegnato in modo tale da offrire alcuni importanti presidi alla trasparenza dell’operazione (come ad esempio l’obbligo di depositare presso un’equity exchange autorizzata una stima peritale redatta da un ente certificato di comprovata reputazione e l’obbligo di dare seguito ad un’asta pubblica per aggiudicarsi la partecipazione).
Obiettivo del Governo non è certo quello di allocare “limoni spremuti” agli investitori occidentali, con il rischio di dare luogo a fenomeni di adverse selection che condurrebbero a un rapido fallimento del mercato dei capitali, come la letteratura economica insegna.
Al contrario, l’intento è piuttosto quello di individuare gli investitori che abbiano le caratteristiche finanziarie e industriali necessarie per sfruttare al meglio le potenzialità di crescita dell’impresa target.
Non bisogna naturalmente trarre la conclusione che tutte le imprese pubbliche cinesi attualmente in corso di privatizzazione rappresentino delle ottime opportunità: è infatti sempre indispensabile esercitare un’approfondita due-diligence sulla società target.
Tuttavia, l’esistenza di una procedura standardizzata che disciplina i processi di privatizzazione offre alcuni importanti vantaggi:
migliore pianificazione dei tempi dell’operazione (il procedimento si articola in una serie di fasi, ciascuna con scadenze ben determinate)
disponibilità di una stima peritale che può costituire un buon punto di partenza per successivi approfondimenti
trattative condotte con una controparte istituzionale (l’autorità che controlla la partecipazione)
intervento di diverse autorità, ciascuna con (sia pur limitate) funzioni di garanzia.
WOFE o M&A?
E’ evidente che non sempre l’ipotesi di acquisire una società cinese rappresenta una valida strategia per l’investitore italiano in Cina. Porre in essere un’operazione di questo genere richiede in ogni caso un impegno finanziario e organizzativo di norma più consistente rispetto alla semplice costituzione di una WOFE.
In linea del tutto generale, l’M&A può rappresentare una concreta alternativa ai progetti “greenfield” nei seguenti casi:
quando l’imprenditore italiano ha già maturato una certa esperienza di business sul mercato cinese e intende consolidare o ulteriormente rafforzare la propria presenza
quando l’impresa italiana individua un target cinese che consenta di soddisfare una specifica necessità industriale, rispetto alla quale è agevole verificare l’esistenza dei requisiti richiesti. Ad esempio: un’impresa farmaceutica che necessita di una struttura industriale in Cina in grado di produrre determinate molecole; un’impresa attiva nel settore dell’abbigliamento che acquisisce il proprio fornitore o il proprio distributore in Cina, con il quale collabora già da diversi anni e di cui conosce da tempo il management e l’operatività concreta
quando l’impresa italiana è dotata di risorse umane e finanziarie sufficienti per pianificare e dare seguito a un’acquisizione societaria in Cina e per gestire la fase post-acquisizione con la necessaria professionalità
quando oggetto di acquisizione è la partecipazione del partner cinese in una joint-venture della quale la parte italiana è socia.
Avv. Marco Carone
http://www.newsmercati.com/Article?ida=4161&idl=2348&idi=1&idu=49647
e
09.09.2009
La Cina non dice la verità!!!!
La Cina ha perso oltre 41 milioni di posti di lavoro per la crisi finanziaria globale, pari a circa il 40% dei licenziamenti avvenuti nell’intero mondo. Nonostante la ripresa in atto, 23 milioni di costoro sono ancora senza lavoro, ormai da molti mesi.
E’ quanto ha affermato ieri l’Accademia cinese delle Scienze sociali, maggior organo di studio del governo, nel suo annuale Libro Verde su Popolazione e Lavoro. La crisi ha soprattutto causato la chiusura di decine di migliaia di fabbriche, tradizionale luogo di lavoro per milioni di migranti.
Il professor Cai Feng, dirigente dello studio, nel presentarlo alla stampa ha anche osservato che i finanziamenti concessi dal governo alle imprese, per 4mila miliardi di yuan, hanno mirato a favorire la crescita economica piuttosto che ad aumentare i posti di lavoro: infatti la somma avrebbe potuto creare in più anni 72,36 milioni di nuovi posti di lavoro, rispetto ai 51,35 milioni cui mira il governo.
Questi dati contraddicono in modo pesante le stime ufficiali del governo: ad agosto il ministro per le Risorse umane e la sicurezza sociale aveva detto che la crisi aveva causato “appena” 16,5 milioni di disoccupati, tra cui solo 9 milioni di migranti. La notevole differenza suscita seri interrogativi circa l’attendibilità dei dati statistici forniti dal Paese, anche perché spesso non sono supportati da elementi che ne permettano la verifica.
La situazione occupazionale appare in piena emergenza se si considera che, secondo uno studio della Bbc reso noto ieri, almeno 20 milioni di migranti hanno provato a tornare a casa, in campagna, all’inizio del 2009, dopo avere perso il lavoro. Ora il governo dice che il 95% di loro torna nelle grandi città per cercare un lavoro, ma non appare esserci una corrispondente offerta, specie da parte di fabbriche e cantieri edili. Per cui molti esperti occidentali prevedono che la gran parte di loro avrà solo lavori occasionali e mal pagati. Il tasso di disoccupazione è rimasto al 4,3% nel primo semestre 2009, il più alto dal 1980.
Chen Xiwen, direttore dell’Ufficio del Gruppo dirigente centrale per il lavoro rurale del ministero dell’Agricoltura, dice che dalla fine di giugno 150 milioni di migranti hanno lasciato casa per cercare lavoro nelle grandi città e nelle fabbriche, il maggior numero di sempre.
Il professo Kam Wing Chan osserva che “i migranti cinesi sono davvero all’ultimo posto nel mondo del lavoro” e sono mano d’opera reclutabile con poca spesa.
Esperti osservano che il problema è aggravato dalla mancanza di sindacati che curino i diritti dei lavoratori, dato che i sindacati statali sono organi del Partito comunista che spesso privilegiano gli interessi della produzione economica rispetto a quelli dei cittadini.
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
http://www.lamiaeconomia.blogspot.com
http://lamiaeconomia.blogspot.com/2009/09/la-cina-non-dice-la-verita.html
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Garzón imputato per antifranchismo
Elena Marisol Brandolini, 09.09. 2009
Attorno alle ore 12 di questa mattina, il giudice Baltasar Garzón si è presentato, come un qualsiasi cittadino, alla sede del Tribunale Supremo di Madrid, in qualità di imputato per un supposto delitto di prevaricazione nella sua indagine contro i crimini del franchismo durante la Guerra Civile e la dittatura
Al suo arrivo, alcune decine di persone appartenenti ai forum sulla Memoria Storica, hanno voluto esprimergli la loro solidarietà, tacciando l’accusa mossa nei suoi confronti di vera e propria “vendetta miserabile”.
A querelare il giudice, alcune associazioni d’estrema destra (“Manos Limpias” e “Libertad y Identitad”), il 26 gennaio di quest’anno. A consentire il tramite della querela, il Tribunal Supremo, con il giudice Luciano Varela designato come istruttore (già relatore in un’altra causa contro Garzón) ed il giudice Adolfo Prego, relatore dell’ordinanza di ammissione, di orientamento prossimo a quello degli autori della querela, già distintosi nel passato per le sue critiche contro la Legge sulla Memoria Storica.
Secondo i querelanti, il giudice avrebbe ecceduto nelle sue competenze, dettando risoluzioni ingiuste pur sapendo che lo erano, iniziando un procedimento per l’indagine e l’esumazione delle fosse del franchismo, senza esserne competente. A nulla sono valsi il ricorso presentato da Garzón contro la querela e la richiesta del Pubblico Ministero al Supremo di non ammetterne il tramite.
Lo scorso anno, il giudice Garzón della Audiencia Nacional aveva aperto un’indagine sui crimini del franchismo, accusando il generale Francisco Franco e altri 44 componenti dei suoi governi e appartenenti alla Falange, di “delitti contro Alti Organismi della Nazione e la forma del Governo, e detenzione illegale con scomparsa forzata di persone nel quadro di crimini contro l’umanità”.
Successivamente – anche per i contrasti intervenuti con il Pubblico Ministero capo della Audiencia Nacional, Javier Zaragoza – Garzón, con una nuova risoluzione, si asteneva dal procedere nella causa contro il franchismo in favore dei tribunali territoriali, situati nei luoghi dove erano avvenute le scomparse ed erano state scoperte le fosse con resti umani; dichiarando “estinta la responsabilità” penale del generale Franco (e degli altri imputati) “per morte”, non per aver concesso “l’impunità, il perdono e l’oblio giudiziario” per atti considerati di mera repressione politica.
In quest’ultima ordinanza, compariva un nuovo capitolo dedicato a “i bambini perduti del franchismo”, ove si faceva riferimento ad un possibile sistema di sottrazione di minori, figli di madri repubblicane, scomparsi tra il 1937 e il 1950, e dati in adozione a famiglie legate al regime.
Ora, c’è da sperare che la causa contro il giudice Garzón duri il meno possibile, sostiene preoccupata la Commissione Internazionale di Giuristi con sede a Ginevra, costituita da presidenti ed ex-presidenti delle Corti Supreme e da magistrati e giuristi provenienti da oltre 50 paesi, nella maggior parte rappresentati nelle Nazioni Unite. L’Associazione per il Recupero della Memoria Storica, in un suo comunicato, giudica ingiusta e paradossale la situazione determinata dal Tribunal Supremo; i giuristi internazionali la considerano una interferenza ingiustificata nel procedimento giudiziale.
Una causa questa, contro il giudice Garzón, che, nella sua carriera, ha investigato e perseguito i crimini contro l’umanità, perpetrati da altre dittature nel mondo.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=12837
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Ocalan: “C’è voluto tempo, ma sarà un bene per tutti”
di Tolga Korkut
Bianet, 17 agosto 2009
Istanbul – Abdullah Ocalan, leader del Partito armato dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), prigioniero nell’isola di Imrali, ha incontrato i suoi avvocati il 14 agosto scorso.
Il completamento dell’auspicata “road map” non si è ancora concluso, tuttavia Ocalan ritiene di poter affermare che questa sarà pronta il 19 agosto.
Ecco, secondo quanto riportato dalla Firat News Agency (Ahf), le dichiarazioni di Ocalan.
Ciascuno dovrà prendere le sue decisioni. I kurdi dovranno prendere le loro decisioni. Non posso essere ritenuto il solo responsabile di ogni accordo. E se ci saranno sviluppi, questo riguarderà anche i kurdi. Non si può dire “lasciamo fare a loro e io mi atterrò agli ordini”. […] I giovani, le donne, tutti dovranno fare una scelta. Non sarà una soluzione sulla base di richieste. Loro decideranno su una cosa, io su un’altra, altri decideranno su altro ancora. Sarà un lavoro da fare di comune accordo.
Un nuovo processo. E’ l’inizio di una nuova epoca, un’epoca nuova e diversa dal passato e importante come lo è stata la fondazione della Repubblica di Mustafa Kemal. E’ tempo di costruire una società democratica. E la società turca imparerà la cultura della democrazia. […] C’è voluto tempo, ma sarà un bene per tutti. Quello che si doveva fare negli anni venti, si farà adesso. Noi porteremo a compimento ciò che fu iniziato negli anni venti.
L’importanza di questa nuova fase dovrà essere compresa da tutti. Il Partito della società democratica (Dtp) dovrà capire l’importanza di questa nuova fase perché se non lo farà, ne verrà travolto. Se il Partito del movimento nazionalista (Mhp) e il Partito repubblicano del popolo (Chp) continueranno sulla loro strada, questo segnerà la loro fine. Essi non dovranno ostacolare questo processo ma se lo faranno, sarà lo spirito di questi nuovi tempi a travolgerli, e basteranno pochi mesi. Allo stesso modo, anche il Partito di governo per la giustizia e dello sviluppo (Akp) non potrà permettersi di aspettare a lungo. Tra pochi mesi le reali intenzioni dell’Akp saranno chiare. E diverrà chiaro anche se le dichiarazioni pronunciate dal partito corrisponderanno al vero.
Il nuovo corso della politica medio-orientale. Nel 2007 gli Stati Uniti hanno ritirato il proprio appoggio alla Gladio annunciando che non avrebbero tollerato ulteriori esecuzioni e omicidi illegali. D’ora in avanti sarà improbabile che possano verificarsi esecuzioni extra giudiziali di questo tipo, e le cose dovranno svolgersi all’interno di un sistema di legalità. Gli Stati Uniti e le altre potenze dovranno perseguire una diversa politica nei confronti del Medio Oriente. Se da un lato vorrebbero veder sparire il Pkk, sanno anche che non possono sopprimerlo con le armi. Vorrebbero disarmarlo ma sono obbligati a raggiungere un compromesso con noi. E un compromesso verrà fuori. Gran Bretagna e Stati Uniti […] stanno già cooperando con Barzani e Talabani nell’Iraq del Nord e potrebbero, allo stesso modo, cercare di raggiungere un compromesso con noi. Tuttavia non sarà facile senza basi concrete, e concreti non lo diventeranno tanto facilmente. Si tratta di questioni serie e delicate e potranno esserci ambiguità. Non hanno una posizione precisa sulla Turchia, d’altra parte nessuno dimostra di averla.
Non accetterei la proposta di uno Stato federale. In passato ho ritenuto che con la creazione di uno stato federale tutto avrebbe funzionato, poi ho capito che questa non era la soluzione ma che anzi avrebbe creato problemi. […] Per questi motivi non la ritengo una soluzione. E non accetterei nemmeno la concessione di uno Stato federale, magari al sud (come è avvenuto nell’Iraq del Nord). La soluzione che propongo va oltre, costituisce un nuovo approccio che non si limita agli schemi classici. Il nostro modello è vicino a quelli europei anche se lo ritengo più sviluppato. Il modello europeo del resto non si dimostra del tutto democratico.
Lo Stato dovrà essere coinvolto. Non dico che lo stato non debba essere coinvolto nella soluzione della questione kurda. Lo stato ci sarà ma dovrà essere uno stato che rispetta le libertà. […] Il modello che propongo per una soluzione è il seguente: da una parte ci sarà lo Stato, dall’altra una nazione kurda. I kurdi riconosceranno l’esistenza dello Stato e lo accetteranno. Lo Stato, da parte sua, riconoscerà ai kurdi il diritto di esistere come nazione democratica. E’ in questo modo che potranno incontrarsi a metà strada. In breve, questo è ciò che intendo per soluzione. Tutto il resto verrà di conseguenza. Ciò significa che la società civile dovrà diventare più democratica. E dopo tutto ciò, se lo stato lo riterrà opportuno, potrà mettere bandiere e uffici dappertutto, potrà insegnare la lingua turca dove vorrà.
Ai kurdi tuttavia dovrà essere consentito di potersi associare, di esistere come nazione democratica. Se saranno in grado di organizzare da soli sport, istruzione, organizzazioni religiose, parlamento e municipalità, lo faranno. Potrebbero perfino organizzare autonomamente la difesa del loro stato. […] Una società che non è in grado di organizzare se stessa è una società morta. […] Affinché questo processo sia possibile e affinché tutti noi possiamo lavorarci, si richiedono condizioni adeguate.
Il cambiamento riguarderà tutto e tutti. Uomini e cose cambieranno in modo radicale. In passato ritenevo che cambiamenti profondi come quelli scaturiti dalla Rivoluzione d’Ottobre o dalla Rivoluzione francese potessero condurre alla creazione di un nuovo Stato. Ma i tempi sono cambiati. E ciò avrebbe significato grandi rischi e gravi perdite. Ora penso invece che uno Stato nel senso classico costituisca più un problema che una soluzione. […]
Oggi si parla di istruzione nella lingua materna, di cultura e di altre cose. Nella soluzione che propongo i kurdi e i turchi potranno esprimersi ciascuno nella propria lingua; culture e stili di vita coesisteranno.
L’impronta di Mustafa Kemal. Sulla stampa si sta attualmente discutendo dei Protocolli di Amasya del 20-23 ottobre 1919. Solo di tre protocolli sono stati resi noti i contenuti mentre persiste il segreto sugli altri due. Nel secondo protocollo, firmato da Mustafa Kemal, si parla anche dei diritti etnici e sociali dei kurdi. I protocolli conosciuti sono diventati pubblici nel 1960. Il 10 febbraio 1922 vi fu inoltre un’assemblea plenaria. Un amico, anch’egli detenuto, mi ha scritto che sulla questione dell’autonomia kurda vi furono 237 voti favorevoli e 64 contrari.
Fetullah Gulen non è un avversario. Ho letto di Fetullah Hoca e non lo ritengo un avversario. E’ riuscito a ottenere imprese e scuole in Kurdistan, insomma sono organizzati. Su basi democratiche potrebbe esservi un riavvicinamento reciproco.
(Traduzione di Silvia Pagliacci per Osservatorio Iraq)
L’articolo in lingua originale
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=8177
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11.09.2009
“Grazie, caro Barack Sarai tu
a realizzare il mio vecchio sogno”
TED KENNEDY
Ecco la lettera sulla riforma sanitaria negli Stati Uniti che il senatore Ted Kennedy ha inviato a maggio al presidente e che Obama ha letto ieri durante la sessione congiunta del Congresso. Il senatore Kennedy è morto il 25 agosto scorso. Eletto per la prima volta nel novembre 1962, ha servito per 46 anni nel Senato americano.
Caro presidente
Ho voluto scrivere alcune parole conclusive per esprimerti la mia gratitudine personale, sia per la gentilezza dimostrata nei miei confronti, sia per celebrare ancora una volta la tua leadership che sta restituendo al nostro Paese il suo futuro e la sua autenticità. A livello personale tu e Michelle avete fatto così tanto, sotto ogni punto di vista, per Vichi, per la nostra famiglia e per me. Avete fatto di questi mesi così difficili un periodo felice della mia vita. E ne avete fatto anche un tempo di speranza per me e per l’America.
Ripensando a tutti questi anni, a tutte le battaglie, a tutti i ricordi di questa mia lunga carriera pubblica, io ho fiducia, in questi ultimi giorni della mia vita che, anche se io non sarò qui a vederlo, tu sarai il presidente che infine tradurrà in legge quella riforma sanitaria che è la grande opera incompiuta della nostra società. Per me è stata la battaglia di una vita. Mi ha riservato delle delusioni ma non ho mai pensato di essere stato definitivamente sconfitto. E in questo ultimo anno la prospettiva della vittoria mi ha dato coraggio e il lavoro necessario per sostenerla ha catalizzato le mie energie e la mia determinazione.
Ci saranno delle battaglie, ce ne sono sempre state, e stanno già ricominciando. Ma in questi mesi di lavoro comune ho capito che tu non darai mai il segnale della ritirata, che non abbandonerai il campo fino alla vittoria.
Ho visto la tua determinazione nel pensare che il momento sia arrivato, posso testimoniare la tua dedizione senza compromessi, la tua convinzione che la tutela della salute sia un caposaldo per la nostra futura prosperità.
Ma hai anche ricordato a tutti noi che si tratta di qualcosa che va ben oltre gli aspetti pratici, che abbiamo davanti a noi una questione morale; che in ballo non ci sono solo dettagli politici ma i principi fondanti della giustizia sociale e dell’essenza ultima del nostro Paese.
E così, grazie alla tua visione e alla tua risolutezza, io sono pronto a credere che presto, molto presto tutti avranno un’assistenza sanitaria decente in un America dove la salute di una famiglia non dipenderà mai più dall’ammontare del conto in banca. E anche se non vedrò quel giorno so che noi, sì noi, adempiremo questa promessa: l’assistenza sanitaria in America sarà un diritto e non un privilegio. In conclusione, permettimi di ripetere quanto sia orgoglioso di aver partecipato alla tua campagna, di aver avuto un ruolo nei primi mesi di una nuova era di ideali e di obiettivi raggiunti.
Iniziai la mia vita pubblica con un giovane presidente che ispirò una generazione e il mondo intero. Mi dà speranza sapere che, nel momento in cui la lascio, un altro giovane presidente ispira un’altra generazione, facendo di nuovo dell’America un esempio per il mondo intero.
Così, ho scritto questa lettera per dirti ancora grazie come amico e per essere al tuo fianco ancora una volta, l’ultima, per il cambiamento e per l’America che sapremo diventare.
Alla convenzione di Denver dove hai ottenuto la nomination avevo detto che il sogno è ancora vivo. Ora, concludo con l’incrollabile convinzione che il sogno si avvererà in questa generazione e sarà consegnato più forte e più grande alle generazioni che verranno.
Con profondo rispetto ed eterno affetto.
Ted
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Obama, pugno di ferro in guanto di velluto
Stefano Rizzo, 10.09.2009
“Siamo l’unica democrazia al mondo che non garantisce la copertura medica universale ai suoi cittadini. Non manterrò le braccia incrociate mentre le lobby usano le stesse tecniche trite per mantenere le cose esattamente come stanno”. Davanti al Congresso a camere riunite, risoluto ed energico come mai, Barack Obama si è giocato il tutto per tutto sulla “sua” riforma sanitaria. Un lungo discorso, nutrito di fatti e cifre, perché i congressisti approvino subito il provvedimento che trasformerà in maniera sostanziale il sistema sanitario statunitense
Mercoledì sera Obama ha parlato alla nazione e al Congresso di riforma sanitaria. Parlare alla nazione è abbastanza facile per lui, considerate le sue doti oratorie; al Congresso è un altra cosa: lì doveva vedersela non solo con una opposizione virulenta che per tutta l’estate ha gridato nelle piazze e nei talk-show accusandolo di volere imporre il socialismo in America e di praticare l’eutanasia sui malati cronici, ma anche con una maggioranza divisa e timorosa, soprattutto ora che il gradimento del presidente nei sondaggi è sceso sotto il 50 per cento.
La decisione di parlare al Congresso per spingere una iniziativa legislativa è abbastanza insolita nel sistema presidenziale americano e alla vigilia i commentatori ne avevano denunciato i rischi. Ma prima una premessa.
A differenza dei sistemi parlamentari, nei sistemi presidenziali come quello americano il presidente, in quanto capo dell’esecutivo, non ha praticamente poteri sul Congresso, se non di influenza. Non può chiedere un voto di fiducia, non può minacciare lo scioglimento delle camere, non può presentare un testo bloccato, prendere o lasciare, non può neppure imporne la discussione. Questo nella forma. Nella sostanza, i parlamentari di maggioranza, anche se dello stesso partito del presidente, sono eletti indipendentemente da lui ed è ai propri elettori che debbono rendere conto per essere rieletti ogni due anni (due anni! – questa è la durata di una legislatura della Camera). Il risultato è che se una proposta di legge è osteggiata dagli elettori nel collegio di un rappresentante democratico (ed è il caso, perché nelle ultime elezioni molti deputati sono stati eletti in collegi moderati o conservatori), il rappresentante non la voterà, dovesse scendere Dio in terra a chiederglielo, e neppure il presidente — soprattutto se, come avviene in questi giorni, la sua popolarità è in declino e non può avvolgerlo nel suo mantello di gloria.
Quindi le difficoltà nel fare approvare la legge ci sono e anche i pericoli di una forzatura, dal momento che quella del discorso alle camere riunite era l’ultima cartuccia che Obama poteva sparare dopo un mese (agosto) in cui il suo piano era stato attaccato e anche il ministro della sanità Kathleen Sebelius aveva mostrato segni di fare marcia indietro su alcuni punti qualificanti. Ma anche la posta in gioco era alta. Obama sa bene cosa è successo l’ultima volta che un presidente democratico (Bill Clinton) ha provato a fare approvare una riforma sanitaria: contro di lui i repubblicani hanno scatenato l’inferno, lui ha fatto marcia indietro, dopodiché, due anni dopo, ha perso la maggioranza del Congresso e nulla è stato più come prima. Obama lo sa e l’ha detto: “Non sono il primo a presentare un progetto di riforma, ma voglio essere l’ultimo.”
La ragione è semplice. Al di là dei guasti evidenti dell’attuale sistema (spesa fuori controllo, decine di milioni di persone senza copertura, prezzi troppo elevati delle prestazioni e dei farmaci) e quindi della elementare giustizia di riformarlo, la posta in gioco è soprattutto politica. Se Obama perde questa volta i repubblicani sapranno che la stagione di caccia è aperta e punteranno a bloccare tutti gli altri provvedimenti che Obama ha promesso e cui ha affidato le sorti della sua presidenza: la riforma del sistema energetico, la riforma dell’immigrazione (con prevedibile sanatoria per i dieci milioni di irregolari), la riforma del sistema bancario; e sarà anche molto difficile per lui riuscire a mettere insieme il necessario consenso sulla guerra in Afghanistan (che continua ad andare male) e in genere sulla politica estera.
Quindi Obama ha deciso di dare battaglia. Questa volta non l’ha fatto con un discorso “ispirato”, dei suoi, ma con un discorso tutto politico rivolto ai politici. Con tutti, repubblicani e democratici, conservatori e liberal, ha usato il pugno di ferro dentro il guanto di velluto. Ai primi ha confermato la sua disponibilità ad ascoltare le loro proposte alternative e a continuare il dialogo, ma subito dopo ha aggiunto un monito durissimo: “Non perderò tempo con coloro che hanno deciso per motivi politici di affossare questo piano invece di correggerlo”. Alla sua maggioranza ha fatto capire che non ha bisogno di tutti: gli bastano 51 voti al senato (ne ha 59) e 218 alla camera (ne ha 256), e quindi è finita la stagione dei negoziati interminabili per ottenere il consenso dei “blue dog democrats” (i cani blu) conservatori. Ai liberal nel paese e nel congresso, che hanno deciso di puntare i piedi perché nel piano sia presente una “opzione pubblica” (cioè una assicurazione gestita dallo stato), proposta inizialmente dallo stesso Obama, ma che ha incontrato molte resistenze, ha ricordato che l’opzione pubblica non è irrinunciabile, ma solo “un mezzo per un fine” e che ora a lui va bene qualunque altro mezzo (ad esempio, le cooperative) purché si raggiunga l’obbiettivo della totale copertura per tutti i cittadini.
A proposito di cittadini, Obama, dopo avere usato il pugno di ferro, ha concesso anche qualcosa ai conservatori. In passato aveva sempre parlato di 47 milioni di persone senza assistenza sanitaria, ma si è scoperto che almeno dieci milioni di questi sono immigrati illegali (altri 6 o 7 non si sono iscritti al programma pubblico pur avendone diritto). Non ha detto che non saranno assistiti, ma sorprendentemente nel discorso di mercoledì il numero di persone senza copertura è sceso a 30 milioni. Una concessione alla destra che vuole cacciare gli immigrati clandestini con la forza. Un’altra concessione l’ha fatta a proposito delle cause di risarcimento nei confronti dei medici che sbagliano un’operazione o una diagnosi. Obama si è detto disposto ad accogliere le proposte repubblicane (ha citato perfino il suo predecessore, George Bush!) che mirano a limitare la responsabilità dei medici e degli ospedali.
Detto questo, il Congresso è avvertito: una legge di riforma dovrà essere approvata entro il mese di ottobre. Altrimenti… altrimenti niente: sarà l’inizio precoce del declino della presidenza Obama. E questo lui non lo può accettare.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=12846
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Dall’estero, Gran Bretagna
28.08.2009
Gli spot di “Videocracy” non possono andare in onda sulla TV di stato italiana
Milano – La RAI, televisione di stato italiana, ha rifiutato di mandare in onda gli spot che pubblicizzano “Videocracy”, un documentario svedese che esamina l’influenza della televisione sulla cultura italiana negli ultimi 30 anni, perché gli spot sono considerati offensivi nei confronti del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Entrambi gli spot della durata di 30 secondi mostrano un Berlusconi sorridente, il settantaduenne magnate dei media e tre volte Presidente del Consiglio. Uno inizia con una serie di immagini di donne poco vestite apparse in TV nel corso degli anni, l’altro mostra statistiche che illustrano la bassa posizione dell’Italia nelle classifiche per le pari opportunità e per la libertà di stampa e fa notare che la TV è la fonte primaria di informazione per l’80 percento degli italiani.
La lettera di rifiuto della RAI, ricevuta dall’Associated Press, definiva gli spot “offensivi per l’onore e per la reputazione personale del Presidente del Consiglio”, facendo notare che le foto di donne svestite alludevano ai recenti scandali sulla vita personale di Berlusconi.
Il regista italo-svedese Eric Gandini ha respinto l’accusa che il film fosse contro Berlusconi, affermando che il film non fa assolutamente allusione agli scandali, poiché è stato finito il mese prima che questi scoppiassero.
Le rivelazioni della partecipazione di Berlusconi alla festa per il 18° compleanno di una modella a Napoli in aprile avevano portato sua moglie ad annunciare pubblicamente il divorzio. Da allora è stato collegato ad altre donne, compresa una prostituta. Berlusconi ha negato di aver avuto relazioni improprie con la modella o con qualsiasi altra donna.
“È un film sul presente. È un film che parla di come è diventata l’Italia dopo tutti questi anni. Certamente, c’è anche Belusconi. Ma è molto di più un film sulla cultura italiana” ha dichiarato Gandini in un’intervista a Stoccolma, dove “Videocracy” è uscito giovedì sera.
Sarà proiettato la prossima settimana al Festival del cinema di Venezia e in seguito al Toronto Film Festival.
Berlusconi ha fatto fortuna con Mediaset, il suo impero dei media, che ha costruito negli anni ’80 e che include i tre maggiori canali televisivi privati italiani. Mediaset e i tre canali della televisione di stato, la RAI costituiscono il 90 percento dei canali in chiaro visti in Italia.
Anche Mediaset ha rifiutato di mandare in onda gli spot.
“È uno di quei casi in cui c’è un eccesso di zelo”, dichiara in un’intervista al sito di La Repubblica Domenico Procacci, della casa produttrice italiana Fandango.
Procacci ha detto che gli spot erano stati proposti alla RAI in slot pensati per la promozione del cinema.
Nella lettera di rifiuto, la RAI ha inoltre obiettato che gli spot alludono anche al conflitto di interessi relativo alle vaste proprietà di mezzi di comunicazione di Berlusconi e “suggeriscono che il Governo, attraverso la televisione, sarebbe in grado di influenzare in maniera subliminale le idee dei cittadini a favore delle sue stesse scelte assicurandosi così il consenso della gente”.
La RAI ha dichiarato che gli spot potrebbero essere trasmessi solo se accompagnati da un altro che offrisse un punto di vista alternativo. Gandini ha risposto che la RAI e Mediaset di Berlusconi, per loro stessa natura, raccontano già l’altro lato della storia.
“L’altro lato possiede sei canali, ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni su sette, che raccontano l’altra storia”, ha risposto Gandini. “Penso che si possano certamente permettere una discussione su questi temi perché non gli mancano di certo i mezzi per raccontare l’altro punto di vista, per mostrare quanto tutto sia bello e divertente. Divertirsi è come un mantra degli ultimi anni. Dire qualcosa di diverso diventa ovviamente molto, molto controverso.
Il regista quarantaduenne, che è cresciuto in Italia ma vive in Svezia da vent’anni, ha dichiarato che per lui il film era destinato a un pubblico straniero e che ciò era motivato dall’immagine dell’Italia come paese zimbello.
“I miei amici svedesi, ridono molto dell’Italia. È una specie di farsa per loro. Questo è il motivo per cui ho fatto questo film. Volevo mostrare ai miei amici quanto forte è stata questa evoluzione culturale e che non c’è nulla da ridere” ha dichiarato Gandini.
[Articolo originale “‘Videocracy’ ads can’t air on Italy state TV” di COLLEEN BARRY]
http://italiadallestero.info/archives/7402
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