La piastrella che raccoglie l’energia cinetica
Il primo esempio è stato fornito dalla discoteca Watt di Rotterdam, munita di una pista da ballo che produce energia grazie al movimento dei ballerini.
Ma Laurence Kemball-Cook, presidente della società Pavegen Systems, ha fatto – è il caso di dirlo – parecchi passi avanti, riuscendo a convertire in energia elettrica l’energia cinetica sprigionata continuamente da chi cammina. Considerando che ogni punto di una strada pedonale molto trafficata è “colpito” da circa 50 mila passi al giorno, il manager-inventore inglese ha pensato di produrre piastrelle per pavimentazione che, calpestate, sono in grado di trasformare il movimento di ogni passante in energia elettrica producendo circa 2,1 watt all’ora (quantità calcolata stimando un passo ogni 4-10 secondi).
Ogni volta che viene calpestata, la piastrella si flette di 5 mm e accumula l’energia prodotta dalla pressione del piede nella batteria al litio situata al suo interno: energia che può essere utilizzata immediatamente o essere immagazzinata per usi successivi. Inoltre, a ogni passo che la calpesta, la mattonella s’illumina brevemente grazie a una lampada LED a basso consumo, avvertendo così i pedoni d’aver contribuito all’accumulo di energia (il consumo di questa lampada è pari circa al 5% dell’energia immagazzinata). L’illuminazione delle piastrelle è stata, però, pensata per poterne fare anche un nuovo mezzo pubblicitario che potrebbe contribuire al finanziamento dell’installazione delle piastrelle stesse, dal momento che il sistema può essere utilizzato sia per pavimentazioni interne che per aree esterne.
Per quanto riguarda il costo delle piastrelle, i produttori assicurano che questo dovrebbe essere ammortizzato più o meno in un anno, a seconda del luogo in cui vengono installate e del calpestio più o meno intenso a cui sono sottoposte, mentre la loro durata è stimata intorno ai cinque anni (vale a dire: 20 milioni di passi) e sarà sufficiente prevedere una non dispendiosa manutenzione annuale. Anche perché sono progettate per resistere al caldo, al gelo, all’acqua e sono dotate sia di bulloneria antimanomissione per prevenire atti vandalici, sia di ammortizzatori per assorbire lo shock dovuto al passaggio di veicoli particolarmente pesanti.
Infine, le “piastrelle energetiche”, prodotte in vari colori, sono ecosostenibili, perché rivestite in gomma riciclata, grazie alla partnership di Pavegen con il gruppo inglese Ryburn Rubber, leader nel settore del riciclo dei copertoni. I primi test condotti sul prodotto hanno dato buoni risultati, mostrando, ad esempio, che 5 ore di passi in una strada affollata sono sufficienti a illuminare una fermata di autobus per più di 12 ore.
A partire dall’inizio del 2010 le piastrelle Pavegen saranno testate in diversi luoghi pubblici del Regno Unito: l’azienda confida di poter arrivare al più presto alla commercializzazione.
Novembre 09
Fonte:
www.worldarchitecturenews.com
http://www.scienzaegoverno.org/n/071/071_01.htm
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Dalla newsletter di Jacopo Fo del 19.11.2009
La libera Universita’ del Web
Siete studenti che hanno bisogno di ripetizioni ma non potete permettervi un insegnante privato? Siete studenti-lavoratori o pensionati che hanno voglia di riprendere gli studi?
Su Youtube, grazie all’iniziativa di un gruppo di utenti e’ nata la LUW, Libera Universita’ del Web, una serie di video lezioni, gratuite e archiviate per materia, tenute da insegnanti e studenti che mettono a disposizione del pubblico il loro sapere.
La Luw finora ha attivato 13 corsi classificati in sei diverse facolta’ con un’utenza che varia dai 13 ai 65 anni.
Per maggiori informazioni http://www.liberauniversitadelweb.it/
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Pubblico la rassegna stampa completa di http://www.caffeeuropa.it/ del 20.11.2009, particolarmente saliente
La Repubblica apre con le dichiarazioni del Presidente della Repubblica: “Il Parlamento è in difficoltà”. “Il Capo dello Stato: grossi problemi a legiferare, mi riservo di intervenire. Allarme di Napolitano. Montezemolo al premier: basta leggi ad personan”. A centro pagina la decisione europea su Presidente e “ministro degli esteri”: “UE, no a D’Alema, tocca a una donna. Scelta l’inglese Ashton. Schultz critica il governo italiano” per quello che sarebbe stato uno scarso appoggio a D’Alema da parte del Presidente del consiglio Berlusconi.
La Stampa: “L’allarme di Napolitano. ‘Parlamento in difficoltà’. Il Quirinale: sulle riforme qualcosa si muove. Alfano: con processo breve a rischio l’1 per cento dei procedimenti. ‘Si fa poco con scarsa qualità’. Montezemolo: niente leggi per uno solo”. Di spalla: “Ue, D’Alema tradito dal Pse. La presidenza al belga Van Rompuy. Agli Esteri l’inglese Ashton”.
Il Corriere della Sera: “L’Europa sceglie il basso profilo. Per le nuove cariche abbandonate le candidature di figure forti. Prodi: la Ashton, chi è? Battuto D’Alema, baronessa inglese agli esteri. Presidenza al Belgio”.
Il Sole 24 Ore: “Van Rompuy-Ashton alla guida Ue. Compromesso sulle nomine al vertice di Bruxelles, non passa la candidatura D’Alema. I nuovi incarichi al via il 1° gennaio”. Sul tema viene intervistato Giuliano Amato (“Una vittoria degli interessi nazionali”, dice), e anche l’editoriale si occupa della decisione: “La radiosa Europa post Lisbona si risveglia oggi nelle mani di un opaco leader fiammingo e di una baronessa labruista che non è mai stata ministro di sua maestà”.
Il Riformista: “L’Italia non conta. L’Europa affida le sue massime cariche a due sconosciuti. D’Alema silurato dai premier del Pse. Van Rompuy – chi-era-costui sarà il primo presidente dell’Unione. L’inglese Catherine Ashton sarà il ministro degli esteri. Decide il lodo Brown-Zapatero”. Commento di Antonio Polito: “I socialisti preferiscono la baronessa”. In prima sul quotidiano arancione si legge anche di un “asse Montezemolo-Fini”.
Il Foglio: “L’Europa socialista preferisce una baronessa inglese a D’Alema. Il Pse scarica l’ex premier e Brown alla fine rinuncia a Blair. La rivoluzione di Lisbona finisce con gli ‘europigmei’”.
Libero parla in prima di una vignetta del settimanale tedesco Stern dedicata all’Italia di Berlusconi, con tre carabinieri che indicano a qualcuno di entrare in una cella dove si vede su una panca una collezione di Playboy. “Una cella pronta per Silvio. Il settimanale tedesco Stern pubblica una vignetta dove i carabinieri preparano la prigione per Berlusconi. Così i giornali stranieri danno il premier per spacciato e già in manette”.
Il Giornale invece apre sui “risultati strabilianti di una ispezione in tribunale” a Milano: “Così si premia il giudice lazzarone. Sentenze depositate con sei anni di ritardo, imputati ‘dimenticati’ in carcere per 4 mesi. Ma i magistrati di Milano fanno comunque carriera: per il Csm sono ‘produttivi’. E a Palmi un detenuto si uccide: dovevano liberarlo e nessuno lo avvisa”. A centro pagina il consueto spazio per la trasmissione di Santoro di ieri sera. “Santoro-Travaglio: soccorso rosso per Fini. ‘Annozero’ attacca ‘Il Giornale’ e il giudice Ingroia chiede in diretta le dimissioni del premier”.
D’Alema
L’intesa è stata raggiunta su due personalità di profilo minore gradite ai leader nazionali, Germania e Francia in testa, scrive il Corriere. E’ l’accordo nel Pse sulla britannica Ashton ad aver messo fuori gioco D’Alema. Il premier britannico laburista Brown, nel prevertice tra i capi di governo del Pse, è stato convinto a ritirare la candidatura di Tony Blair in cambio dell’appoggio alla Ashton. E il via libera di Londra ha eliminato la riserva principale sul belga Van Rompuy, appoggiato dalla cancelliera tedesca Merkel e dal Presidente francese Sarkozy. Secondo Il Riformista il capogruppo eurosocialista Martin Schultz avrebbe spiegato di considerare D’Alema il suo candidato. “Peccato che non è il candidato di un governo socialista”, avrebbe detto. L’abbandono della candidatura di D’Alema viene legata soprattutto all’atteggiamento di Londra: Downing Street aveva deciso di giocare la carta dello scontro frontale con l’asse renano Merkel-Sarkozy e di prendersi il posto di Mister Pesc. Sintetizza nei titoli Il Riformista: “Mrs Pesc e l’orgoglio britannico, Londra non si piega all’asse renano. Brown non poteva subire la terza euro-bruciatura dopo Miliband e Blair”. Ma la vittoria della Ashton viene considerata soprattutto una vittoria di Lord Mandelson, del suo sempre più crescente prestigio politico. E la cui candidatura a premier alle prossime elezioni contro Cameron alle prossime elezioni ormai appare scontata.
La Ashton – scrive La Repubblica – è stata protagonista nella mediazione che ha condotto la Camera dei Lord inglese a ratificare il Trattato di Lisbona.
Sull’Europa da segnalare un intervento dell’ex Presidente della Commissione Delors dal titolo: “Mediatori cercasi per il bene dell’Unione. Dopo il Trattato di Lisbona la Commissione è chiamata ad un difficile equilibrio con i Capi di Stato”. Giuliano Amato, pure intervistato dal quotidiano di Confindustria, dice che il premier laburista Brown ha fatto prevalere le sue questioni di politica interna: “In vista del difficile passaggio elettorale che ha davanti, ha premuto fortemente sui colleghi socialisti perché non lo facessero rientrare a casa a mani vuote”. Comunque, secondo Amato, si è trattato di una conferma dell’orientamento dei governi europei negli ultimi anni “verso figure non particolarmente forti”, “per garantire non più integrazione, ma il perdurare più incontrastato possibile del metodo intergovernativo”. Amato dice comunque di stimare la Ashton, di esser convinto che farà un buon lavoro, sebbene senza alcun dubbio “D’Alema avrebbe dato maggior autorevolezza a quel ruolo”.
Esteri
Il Riformista intervista il politologo americano Larry Sabato, ribattezzato “il professore più citato d’America”, visto che negli ultimi dieci anni ha azzeccato tutti i risultati elettorali, compreso il trionfo di Obama. E’ stato il primo a scommettere sul senatore dell’Illinois, ha scritto “The year of Obama”, e spiega al quotidiano perché Obama non è un bluff. Scommette sulla riforma sanitaria. Sottolinea che le aspettative erano decisamente troppo alte. Sulla situazione in Afghanistan dice che è vero che sta ritardando troppo la decisione, ma questo dipende dalla sua naturale prudenza: “Obama ha una mente accademica, e vuole analizzare ogni possibile alternativa”. “Del resto l’opposto sarebbe peggio, pensi a Lyndon Johnson in Vietnam. Obama sta leggendo libri su questo, su come Johnson ha gestito la guerra in Vietnam”. Sulla riforma sanitaria: “Ogni presidente democrat, dai tempi di Truman, ha provato a fare la riforma sanitaria e tutti hanno fallito. E’ normale quindi che il processo sia lento e difficile”, “sarà necessariamente un compromesso”, ma sarà più di quanto qualsiasi presidente sia mai riuscito ad ottenere. Sabato dice anche che “l’idea che Obama abbia vinto al centro” è una “illusione mediatica” e che la partita “la vince chi riesce a mobilitare il proprio elettorato”.
La Stampa offre oggi un “dialogo via web” di Yoani Sanchez, blogger e dissidente cubana, con il Presidente degli Stati Uniti Obama. “Obama a Yoani: un giorno visiterò una Cuba libera”. La blogger ha inviato le sue domande anche a Raul Castro. Di Cuba parla anche Il Giornale, dando notizia del rapporto di Human Rights Watch sull’isola. “A Cuba basta pensare a un reato per finire diritti in galera. Rapporto sui diritti umani a tre anni dal passaggio dei poteri: aumentano le condanne basate sulla semplice intenzione di commettere un illecito”.
Sulla prima pagina de Il Foglio si parla della crisi economica in Venezuela, dove il pil è sceso del 4,5 per cento nell’ultimo trimestre, e l’inflazione è al 27 per cento.
Guido Rampoldi è l’inviato de La Repubblica a Kabul, da dove racconta il giuramento di Karzai in una capitale deserta. Il neopresidente apre al dialogo con i Taleban, capi milizia e signori della guerra sono seduti a fianco della Clinton durante la cerimonia. Nel suo discorso Karzai dice che il governo lotterà contro la corruzione, formerà un governo di onesti e competenti, e fra questi vi sarebbe il governatore di Kandahar, personaggio sponsorizzato dagli americani anche se è noto per malversazioni. Su La Stampa si riprende un articolo pubblicato su Tomdispatch.com, che viene presentato ai lettori sotto il titolo: “Gasolio a peso d’oro. Così si arricchiscono i corrotti di Kabul. Migliaia di autocisterne alimentano inutili centrali. Ci guadagna soltanto la cupola vicina al Presidente”.
Sulla prima pagina de Il Foglio si parla del fronte militare pakistano con un articolo titolato: “Perché i talebani colpiscono ogni giorno la loro amata Peshawar. Sette attacchi solo negli ultimi 23 giorni, con 160 morti”.
E poi
Su Il Riformista si ricorda che domani il primate di Canterbury Williams incontrerà a Roma Papa Benedetto XVI, il Pontefice che “preoccupa gli anglicani e affascina gli ortodossi”. L’incontro è particolarmente importante, poiché arriva all’indomani delle polemiche seguite all’accoglienza nel cattolicesimo dei tradizionalisti della Chiesa d’Inghilterra. Le svolte liberal in favore del sacerdozio femminile e gay, ricorda Il Riformista, hanno creato divisioni e spaccature nel mondo anglicano e le comunità tradizionali sono in rivolta. Williams finora non è riuscito a mediare tra le diverse anime dell’anglicanesimo.
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Caso Marrazzo: la transessuale Brenda è morta in un incendio 20.11.2009
Il cadavere ritrovato in un appartamento nella zona Due Ponti a Roma.
Italia. Il cadavere di Brenda, la transessuale brasiliana coinvolta nel caso dell’ex presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, è stato ritrovato questa mattina in un appartamento nella zona Due Ponti, un quartiere a nord della Capitale. La morte di Brenda sarebbe avvenuta a causa di un incendio la cui natura è sotto indagine.
La vittima è stata identificata grazie alle dichiarazioni di una persona arrivata sul posto durante il rogo e che ha dato l’allarme ai pompieri. L’incendio si è sviluppato in un locale del seminterrato.
La procura di Roma ha disposto i rilievi del medico legale, si sta procedendendo agli accertamenti e ai rilievi dela polizia scientifica.
Brenda era stata sentita dagli inquirenti della Procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sul ricatto che aveva visto come vittima l’ex presidente Marrazzo.
http://www.sabatoseraonline.it/home_ssol.php?site=1&n=articles&category_id=15&article_id=123704&l=it
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Chi ha ucciso la legge 68/1999? 5.11.2009
Come (non) funziona la norma a tutela del diritto al lavoro di disabili e invalidi.
Bologna. Fatta la legge trovato l’inganno. In Italia, un paese incartato dalla burocrazia, pare che questa ormai sia la regola. Le leggi spesso vengono scritte male, senza lungimiranza soprattutto e senza un riscontro sulla realtà. Ed anche una legge “sacrosanta” come la n. 68 del 1999 nata per tutelare il diritto al lavoro dei disabili diventa un boomerang per gli stessi disabili.
Questa legge obbliga le aziende che hanno più di 15 dipendenti ad assumere all’occorrenza almeno un invalido. Questo significa che ciascuno di noi che lavora in una media e grande impresa dovrebbe avere almeno un collega con invalidità. Di fatto non è così. Abbiamo cercato di capire perché.
Insieme a Giuseppe, imolese, cinquantaduenne invalido al 55%, cassaintegrato alla ricerca di una nuova occupazione abbiamo seguito il balletto infinito della burocrazia.
Giuseppe è già iscritto alle liste della provincia di Bologna del collocamento mirato. Il primo passo da fare, allora, è quello di recarsi al centro per l’impiego di Imola. La strade da seguire sono diverse, spiega l’impiegata del Cip. La prima è quella del concorso pubblico. A date prestabilite vengono fatte delle aste per concorso nelle pubbliche amministrazioni. Ma, da quando è iniziata la crisi, non ci sono più richieste nella pubblica amministrazione .Ormai da un anno a questa parte . Il concorso viene evaso per qualifiche professionali e serve per realizzare delle altre graduatorie.
La seconda via è quella del collocamento nelle aziende private. Ed è qui che stanno gli inganni. Perché le aziende per la legge ’68 sono obbligate ad assumere, anche quando non vorrebbero. Per questo utilizzano qualsiasi stratagemma per non farlo. La Provincia di riferimento, nel caso di Giuseppe quella di Bologna, stila una graduatoria in base alla qualifica del lavoratore e allo stesso tempo le aziende pubblicano degli annunci di ricerca di assunzioni protette in base alla qualifica.
Giuseppe, allora, armato di pazienza ha contattato tutte le aziende dell’imolese. Ma da parte di tutti la risposta è stata: picche. “In questo periodo di crisi – risponde la Provincia di Bologna – le aziende sono esonerate dall’applicare la legge ‘68”. Giuseppe è visibilmente sempre più affranto – “Mi chiedo perché allora perché esiste una legge se poi per mille motivi non viene applicata? – chiede – Il giudice di pace di Bologna mi ha consigliato di scrivere a ciascuna azienda una raccomandata con ricevuta di ritorno di richiesta di assunzione. Se le aziende non rispondono posso fare ricorso. Ma io mi chiedo quale sarà l’azienda che mi assume una volta che ho intrapreso una causa”.
In realtà le aziende comunque non assumono. “E’ una legge fatta male – spiega Marco Silvagni, ex dipendente del Cip di Faenza e ora collaboratore al servizio lavoro della Provincia di Bologna – Con l’obbligo alle assunzioni si scontrano esigenze diverse. Mediamente l’imprenditore italiano è poco alfabetizzato. A fatica riesce a vedere una risorsa umana in un portatore di handicap. Quindi succede che spesso il disabile venga assunto per poi rendergli la vita impossibile. O ancora più spesso succede che l’azienda preferisce pagare la sanzione, piuttosto che assumere. O ancora succede che l’azienda faccia degli avvisi per qualifiche in genere impossibili da ricoprire per un portatore di handicap”. “ Bisognerebbe fare dei corsi di formazione per gli imprenditori per insegnare loro come collocare le assunzioni protette. In Veneto esistono delle cooperative sociali che funzionano benissimo in cui tutti gli operai sono disabili (del resto le aziende hanno in questo modo una notevole defiscalizzazione) – continua Silvagni – ma nella nostra regione siamo ancora molto lontani da questo tipo di mentalità”.
Intanto il nostro Giuseppe rimane in cassa integrazione e ancora senza lavoro. In attesa che giunga il suo turno nella graduatoria provinciale. Che la burocrazia lo benedica.
Stefania Mazzotti
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Leonardo Sciascia e il Pci, 18.11.2009
Agostino Spataro*
Un contributo personale, non esaustivo, sulla base di fatti che l’autore dell’articolo ha vissuto direttamente e sui quali gli è capitato di discutere con lo scrittore siciliano. L’ha scritto in occasione di questo magro ventennale della morte come omaggio a Sciascia e come modesto contributo alla ricerca su questo versante della sua personalità
1.. Il 20° anniversario della morte di Leonardo Sciascia rischia di passare quasi inosservato. Il 2009 doveva essere l’anno sciasciano, specie in Sicilia. La visita del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla tomba dello scrittore, a Racalmuto, lasciava ben sperare.
Purtroppo, così non è stato per ragioni che ai più restano ignote.
Anche per novembre, il mese della ricorrenza, non si annunciano eventi importanti.
Questo passa il convento, anzi il governo. C’è da sperare che qualcuno non pensi di scaricarne la colpa sulla concomitanza con un altro, memorabile ventennale: quello del crollo del muro di Berlino che cade 11 giorni prima della morte di Sciascia.
Come dire, oltre al danno, la beffa irriverente della morte che si è preso lo scrittore a 68 anni e per giunta 9 giorni dopo lo storico crollo. D’altra parte, nessuno può decidere né quando nascere né quando, e come, morire. Solo ai suicidi è concesso il secondo, tragico “privilegio”.
2.. Ma lasciamo questo infausto preambolo e andiamo ad alcune cose, che ancora ricordo, riguardanti il rapporto di Leonardo Sciascia con il Pci che, prima del partito radicale, fu per lui la forza politica di riferimento.
Con questo partito, specie a livello siciliano, lo scrittore ebbe, una relazione lunga e intermittente che si romperà nella seconda metà degli anni ’70 quando, nel volgere di quattro anni, (1975-79) passò da consigliere comunale di Palermo eletto nelle liste del Pci a deputato radicale.
Discutendo con lui, a più riprese, ho cercato di indagarne i motivi, almeno quelli più connessi con taluni passaggi importanti della vita del Pci isolano.
Nei miei appunti non c’è molto, perciò scrivo quel che rammento (magari rischiando qualche imprecisione e omissione), prima che il ricordo svanisca fra le nebbie della memoria.
Può darsi che qualcuno non apprezzerà o se ne lagnerà. Pazienza. Posso, comunque, assicurare che questo ricordo corrisponde alla realtà dei fatti vissuti o raccontatemi; in ogni caso non è esaustivo del rapporto più complesso fra Sciascia e il Pci che, forse, andrebbe meglio indagato.
L’anniversario potrebbe essere l’occasione per stimolare gli studiosi ad avviare la ricerca anche su questo versante della personalità dello scrittore che resta poco conosciuto, specialmente dalle nuove generazioni.
3.. Premetto anche che non sono stato “amico” di Sciascia nel senso che con lui non ebbi mai un’intimità, una frequentazione intensa sul piano personale.
L’ho incontrato in qualche convegno. Una sola volta lo andai a trovare alla “Noce”, nella sua casa di campagna, a Racalmuto e un’altra volta lo vidi a Porta di Ponte, ad Agrigento, mentre, con la busta della spesa in mano, usciva dalla Standa con a fianco la moglie. Prendemmo un caffè al bar Milano.
Di più mi è capitato d’incontrarlo alla Camera dove, di tanto in tanto, veniva quando era deputato radicale.
Nelle lunghe attese si rifugiava nella sala dei giornali. Sebbene fossimo colleghi, lo salutavo con un rispettoso “professù” come lo chiamavano i compagni di Racalmuto.
Incontri casuali, dunque, (per me molto graditi) come possono avvenire fra due compaesani che si ritrovano in una piazza di una città lontana.
Un caffè alla buvette e poi quattro chiacchiere, avanti e indietro, nel corridoio dei “passi perduti”. Sciascia, talvolta, si appoggiava al bastone anche se apparentemente sembrava non averne bisogno.
4.. Prima che politico, il mio approccio con lo scrittore era quello del lettore, dell’estimatore del suo stile letterario, del suo scrivere conciso ed efficace nella rappresentazione e nell’intuizione. Tuttavia, quasi mai parlammo dei suoi libri e di letteratura in genere.
Eravamo nel tempio della politica ed era giocoforza parlare di cose politiche sulle quali, per altro, non sempre si era d’accordo. Del resto, eravamo deputati di due partiti diversi e sovente in polemica. Tuttavia, ero molto interessato a conoscere il suo punto di vista di scrittore su determinate questioni politiche.
L’elezione a deputato non gli aveva fatto superare del tutto il disagio verso la politica attiva.
Nei suoi scritti Sciascia aveva mostrato un buon fiuto politico, ma non riusciva ad adattarsi al ruolo di parlamentare. O, forse, non desiderava adattarvisi. Credo che sia venuto in Parlamento solo per far parte della Commissione d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro.
5.. Leonardo Sciascia, pur essendo nativo di Racalmuto, centro minerario dell’agrigentino a cui rimase legato per tutta la vita, non ebbe molte frequentazioni col Partito e i dirigenti della provincia di Agrigento.
Di più frequentò alcuni dirigenti e intellettuali comunisti di Caltanissetta (Giuseppe Granata, Emanuele Macaluso, Calogero Roxas, Gino Cortese, ecc) dove studiò e visse per un certo tempo.
Tuttavia, per quanto a me risulta, la Federazione comunista di Agrigento lo interpellò per averlo candidato, anche per il Senato.
Sciascia, pur dichiarando una certa affinità d’idee col Pci, rifiutò dicendo che desiderava continuare a scrivere senza essere distratto dall’attività politica verso la quale non si sentiva portato.
6.. La sua “discesa in campo” avvenne nel 1974, in occasione della campagna per il referendum per l’abolizione della legge sul divorzio. Una battaglia importante per i diritti civili e di libertà molto cari allo scrittore il quale decise d’impegnarsi in prima persona nel fronte del “No” (pro-divorzio) che in Sicilia non era, sulla carta, maggioritario.
Ad Agrigento eravamo ancor più preoccupati poiché in questa provincia periferica era forte l’influenza politica e culturale della Dc e della Chiesa cattolica.
Sciascia non si limitò a firmare qualche appello, ma diede una mano in concreto, partecipando a conferenze e incontri pubblici che, credo, in altre circostanze avrebbe evitato. Ad Agrigento tenne un’affollata conferenza al cinema Astor. Ricordo che nella città dei Templi gli eventi più rimarchevoli di quella campagna referendaria furono la citata conferenza di Sciascia e la memorabile manifestazione popolare con Enrico Berlinguer. Per la cronaca, nell’agrigentino il “No” vinse alla grande.
L’impegno di Sciascia, di Renato Guttuso e di altri intellettuali di sinistra e progressisti fu decisivo per scuotere il mondo della cultura, dell’Università e della scuola in genere che, per la prima volta, dopo il 1968, si schierava a difesa di una conquista laica, di civiltà, che rischiava di essere travolta.
7.. Dopo la vittoria, per noi si pose il problema di assicurare continuità a questa battaglia di progresso estendendola ad altri campi della condizione civile e sociale siciliana e soprattutto di non disperdere il grande patrimonio di forze intellettuali, anche di tendenza moderata, che sull’onda della vittoria referendaria potevano spostarsi a sinistra.
Per altro, il referendum trovò il partito siciliano nel vivo di un confronto interno, a tratti anche duro, per il rinnovamento dei gruppi dirigenti e del modo di fare politica.
Anche la vecchia struttura, prevalentemente, contadina del Pci siciliano stava facendo i conti col ’68. Non quello importato da Milano o da Roma, ma quello più fecondo esploso, anche per tutto il ’69, nelle università e nelle scuole siciliane.
A quel tempo, (dal 1973) segretario regionale del Pci era Achille Occhetto (inviato in Sicilia da Longo nel 1970, per “punizione” dicevano le malelingue) il quale s’intestò la battaglia del rinnovamento che in alcune federazioni era già iniziata qualche tempo prima e con successo.
Significativa quella che abbiamo combattuto, e vinto, ad Agrigento che culminò nel congresso provinciale del febbraio 1972.
Subito dopo quel congresso, fu sciolto il Parlamento e quindi fummo costretti a correre per preparare le liste e la campagna elettorale.
Per dare un chiaro segnale di rinnovamento anche della nostra rappresentanza parlamentare ponemmo il problema di non ricandidare due compagni di grande prestigio, ma avanti con le legislature: il senatore Francesco Renda e l’on. Salvatore Di Benedetto.
Iniziò la ricerca di nomi alternativi. Per il collegio del Senato formulammo una rosa ristretta fra cui Leonardo Sciascia che, interpellato, declinò l’invito.
8.. Dopo la campagna elettorale del 1972, Achille Occhetto subentrò ad Emanuele Macaluso alla segreteria regionale.
Il cambio si caratterizzò all’insegna del rinnovamento generazionale e del “nuovo modo di fare politica” in Sicilia. Sotto accusa andò il cosiddetto “notabilato rosso” ossia una serie di personalità carismatiche, di capipopolo, affermatisi durante le lotte del dopoguerra, che il tempo aveva logorato. Per altro, Occhetto chiamò in segreteria e alla guida di alcune federazioni provinciali alcuni compagni esterni, suoi collaboratori ai tempi della Federazione giovanile comunista italiana.
L’intento era quello d’innestare nel gruppo dirigente siciliano, già in fase di rinnovamento, un gruppo di giovani provenienti dal Nord.
Una folata di “vento del nord” per modernizzare, cambiare gli assetti dirigente del Partito in terra di mafia e di predominio della Democrazia cristiana.
E così, oltre a Michele Figurelli già in loco, giunsero, fra gli altri, Valerio Veltroni (fratello di Walter) che dalla segretaria regionale sarà catapultato a Trapani, e i toscani Giulio Quercini segretario a Catania e Alessandro Vigni segretario a Enna.
Qualcuno parlò di “colonizzazione” del partito siciliano.
Leonardo Sciascia, invece- mi dirà alla Camera- la vide di buon occhio, anzi la ritenne necessaria.
Occhetto fece leva su questo suo interesse per avviare, tramite Figurelli e V. Veltroni, un contatto piuttosto intenso con lo scrittore.
Sciascia, dunque, approvò la “calata” in Sicilia di questi giovani dirigenti del nord, anche se rimase restio verso l’adesione a un partito-chiesa come un po’ gli appariva il Pci, verso il quale, per altro,
aveva accumulato alcune perplessità riferite a fatti antichi (la contrastata esperienza del milazzismo) e più recenti riconducibili alla segreteria di Macaluso.
9.. Occhetto e i suoi inviati del Nord garantirono a Sciascia che quel tempo era finito, per sempre.
Ora a dirigere il Partito c’erano loro, forze nuove, fresche formatesi in altri contesti, nell’alveo delle lotte per la pace e del movimento studentesco e affermatisi in Sicilia dopo una lotta durissima proprio contro i personaggi verso i quali lui aveva riserve.
L’idea che si voleva accreditare era quella che nel partito siciliano e negli organismi collaterali fosse in atto una sorta di “rivoluzione culturale” che stava liquidando ogni residua mentalità compromissoria e aperto il Partito alla società civile, agli intellettuali progressisti, agli imprenditori onesti.
Insomma, a Sciascia fu prospettato un mondo nuovo, una sorta di rivoluzione copernicana della politica siciliana.
Lo scrittore – ammetterà – che un po’ si lasciò sedurre dai discorsi di questi giovani “colonizzatori” i quali, provenendo dal nord, erano immuni dai difetti mostrati dai dirigenti siciliani.
10.. Perciò ruppe gli indugi e nel 1974 partecipò attivamente alla campagna referendaria e l’anno successivo accettò la candidatura, come indipendente, a consigliere comunale di Palermo nella lista del Pci.
Un bel colpo per Occhetto che era riuscito dove tanti avevano fallito. Quello stesso Sciascia che aveva rifiutato le profferte del Pci per un seggio nel Parlamento nazionale ora accettava di candidarsi per un posto al consiglio comunale di Palermo, insieme a Renato Guttuso e allo stesso Occhetto, capolista. Ovviamente, sarà eletto.
Si parlò di svolta per Palermo, ma nel nuovo consiglio i numeri non promettevano facili cambiamenti. Nonostante la discreta avanzata del Pci, la Dc e il centro-sinistra (di allora) conservavano una solida maggioranza.
Per di più, Sciascia a ogni riunione del consiglio comunale era costretto a bighellonare per ore fra i banchi di Sala delle Lapidi, impacciato e nervoso, in attesa che s’iniziassero quelle interminabili, e spesso inconcludenti, sedute notturne.
Una situazione frustrante che lo porterà, a pochi mesi dall’insediamento, alle dimissioni dal consiglio comunale di Palermo. Lo scrittore, che mesi dopo sarà seguito da Guttuso, motivò la sua inattesa decisione con i lunghi ritardi sui tempi d’inizio delle sedute e in generale col confuso andamento dei lavori d’aula.
Tutto ciò era vero, ma oltre quelle motivazioni c’era un disagio politico che l’inquietava. Probabilmente, Sciascia, in quei pochi mesi d’impegno attivo nel gruppo consiliare del Pci, cominciò ad avvertire una certa delusione rispetto alle attese e alle promesse di cambiamento annunciate da Occhetto e dai suoi inviati.
11.. Ne parlammo in quelle chiacchierate a Montecitorio. Mi fece capire che presto si accorse che il cambiamento dato per avvenuto in realtà era in gran parte di facciata, anzi di facce. Insomma, un po’ millantato dai dirigenti del nord per indurlo ad entrare in lista a Palermo.
E – aggiungo io- per fare di Sciascia un bel fiore all’occhiello da esibire nelle riunioni romane e nei salotti buoni dell’intellighenzia di sinistra.
Lo scrittore riteneva (e diversi fra noi) che Emanuele Macaluso, anche da Roma, continuasse
a influire sul partito siciliano, soprattutto sul gruppo parlamentare all’Ars dove operava Michelangelo Russo, uomo di sua stretta fiducia.
A parte l’amarezza per l’esperienza del milazzismo, citava in particolare l’episodio, verificatosi ai primissimi anni ’70, della fusione tra Realmonte-Sali (società dell’Ente minerario siciliano) e la Sams dell’avvocato Francesco Morgante, potente imprenditore del sale e intimo dell’ex presidente dc della regione on. Giuseppe La Loggia.
Sciascia conosceva bene la vicenda perché edotto dal prof. Antonio Lauricella, sindaco dc di Grotte e comproprietario di una miniera di salgemma in territorio di Petralia minacciata dal piano Ems-Sams.
Lauricella non sapendo più dove sbattere la testa (gli amici democristiani gli avevano chiuso la porta in faccia) si rivolse all’uomo di cultura di sinistra, quasi compaesano, che sapeva sensibile ai temi della trasparenza e della moralità pubblica.
Consegnò a Sciascia un dettagliato memoriale dal quale si evidenziava la supervalutazione degli apporti privati (Sams) e i comportamenti quantomeno distratti dei partiti politici di maggioranza e d’opposizione.
12.. Anche molti fra noi consideravano quella fusione un inganno che avrebbe fruttato miliardi alla Sams di Morgante e soci e non avrebbe dato corso ai programmi di sfruttamento dei grandi giacimenti di salgemma esistenti e di quelli scoperti, di recente, lungo la costa agrigentina, da Realmonte a Ribera. Così è stato.
Sciascia prese a cuore la questione e la girò ai suoi amici del Pci, facendone una sorta di banco di prova per verificare la loro coerenza politica.
Vista la sordità dei suoi interlocutori, inviò il memoriale alla segreteria nazionale del Pci, accompagnato da una sua lettera in cui chiedeva un intervento di Roma sul partito siciliano.
Non ebbe risposta. La fusione si fece, con la benedizione anche dei vertici regionali del Pci.
Non cercai riscontri su ciò che Sciascia mi disse anche perché avendo seguito, da responsabile economico del Pci agrigentino, quella vicenda e i comportamenti dei vari protagonisti, fui incline a crederlo per vero.
Per altro quella chiacchierata fusione finirà in tribunale. Chi ne avesse voglia potrà consultare le carte del processo, soprattutto, consiglio, le relazioni del prof. Piga, perito della pubblica accusa.
13.. Ma torniamo al percorso politico di Leonardo Sciascia che nel 1979 è pluri – capolista alla Camera per i radicali.
Sarà eletto in più collegi con una valanga di voti di preferenza. Il grande scrittore arriva, dunque, alla Camera nella veste di deputato radicale, accompagnato dalla stima generale anche da parte di tanti esponenti siciliani di quella Democrazia cristiana che lui accusava di contiguità con la mafia e col malaffare.
Confesso che vedere lo scrittore tra i banchi radicali mi procurava un certo rammarico. Ero convinto che se ci fosse stata più correttezza l’avremmo potuto portare noi in Parlamento, anche se- vedendolo all’opera – mi persuasi che quella radicale fosse la casacca a lui più appropriata. Politicamente, Sciascia era un libertario. Mai sarebbe diventato un comunista, anche se anticomunista non fu mai.
Nemmeno dopo l’increscioso episodio delle presunte “rivelazioni” che Enrico Berlinguer gli avrebbe fatto sui collegamenti delle Brigate Rosse con i servizi di Praga.
Sciascia mi raccontò questa vicenda un paio di volte, in Transatlantico, una prima su mia richiesta e una seconda in uno sfogo contro Guttuso.
14.. Cos’era successo? Secondo Sciascia, in un incontro informale e alla presenza di Guttuso, Berlinguer gli avrebbe confidato che, da informazioni in suo possesso, risultava che settori della Brigate Rosse erano in collegamento con i servizi di Praga, fra i più fedeli al Kgb. La qualcosa, detta dal segretario generale del Pci, avvalorava la tesi, da taluni sostenuta durante il sequestro Moro, di un interesse di Mosca a eliminare il presidente della Dc per impedire l’attuazione del progetto del “compromesso storico” che avrebbe aperto al Pci le porte del governo.
Com’è noto, tale progetto era stato propugnato da Berlinguer e non condiviso dalle alte sfere del Pcus che temevano un distacco, una deriva “revisionista” del Pci e di altri partiti comunisti europei (Pcf e Pce), impegnati nella svolta dell’eurocomunismo.
Sciascia, troppo preso della vicenda umana e politica di Aldo Moro, sulla quale scrisse un pamphlet controcorrente (“L’affaire Moro”), svelò la confidenza fattagli da Berlinguer creando scandalo nell’opinione pubblica e gravissimo imbarazzo nel gruppo dirigente del Pci.
Berlinguer smentì su tutta la linea e minacciò querela. Sciascia, invece, confermò e chiamò Guttuso a testimone. Quest’ultimo si venne a trovare in una situazione davvero drammatica giacché doveva scegliere di confermare la parola del segretario del Partito, del cui Comitato centrale era membro prestigioso, o quella del suo amico scrittore, siciliano come lui e compagno di tante battaglie.
Guttuso diede ragione a Berlinguer. Non sapremo mai se scelse la verità o l’onorabilità del suo segretario generale.
Mentre raccontava queste cose, Sciascia più che indignato mi parve amareggiato.
Credo che, in cuor suo, se ne fosse fatta una ragione. Fra i due capiva di più Berlinguer che certo non poteva ammettere d’aver detto quelle cose. Le conseguenze sarebbero state davvero disastrose, incalcolabili. Lo ferì di più la testimonianza sfavorevole del suo amico Guttuso, che, da artista, aveva il dovere della verità facendola prevalere sull’appartenenza politica.
15.. Ricordo che in quel periodo il suo chiodo fisso era la drammatica condizione della Dc dopo i delitti Moro e Mattarella.
Una domenica, (19 settembre 1982) andai a trovarlo alla Noce, pochi giorni dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Gli portai una copia del mio libro “Per la Sicilia”. Lo trovai fisicamente un po’ giù. Mi elencò quattro – cinque malattie di cui soffriva. Soprattutto si lamentò di una fastidiosa cervicale.
Ovviamente, parlammo del fatto di Dalla Chiesa e del suo articolo, apparso sul “Corriere della Sera” quella mattina, in cui sosteneva la tesi, un po’ ardita, della mafia come fenomeno eversivo.
Una mafia che, avendo perduto la protezione della Dc e quindi dello Stato, uccide tutti quelli che incontra sulla sua strada.
Gli feci osservare che questi delitti potevano essere letti anche come la sfida tracotante di una mafia che aspirava al predominio sulla Sicilia.
Anche la strage di via Carini poteva essere interpretata come una dimostrazione di forza attuata come da prassi. Quando cioè fu chiaro a tutti che il generale-prefetto era stato un po’ abbandonato dallo Stato in una condizione di solitudine e diffusa ostilità, (non solo mafiosa) e senza i poteri speciali promessi.
Gli riferii le “difficoltà”, soprattutto di carattere giuridico, prospettatemi dal ministro dell’interno, on. Virginio Rognoni, a proposito dei poteri non attribuiti a Dalla Chiesa e le “preoccupazioni” circolanti a Montecitorio, prima dell’assassinio, a proposito dei trascorsi piduisti di Dalla Chiesa e di certe riserve provenienti dagli uffici giudiziari di Milano.
Sciascia ascoltò, ma restò fermo nella sua posizione. Secondo lui, la Dc, a differenza dei tempi di Portella della Ginestra, oggi vorrebbe distaccarsi dalla mafia. Molti democristiani vivono nel terrore d’essere uccisi. Perciò, non capiva il motivo di tanto accanimento contro la Dc quando, invece, bisognerebbe incoraggiarla in quest’opera di distacco.
Accennò a un colloquio avuto, di recente, con l’on. Calogero Mannino.
16.. Si passò, infine, all’argomento che più mi premeva conoscere: il suo futuro politico.
Sciascia fu chiarissimo e conciso. Mi ribadì l’intenzione di dimettersi da deputato a conclusione della commissione d’inchiesta sul delitto Moro e di non volersi ripresentare alle prossime elezioni.
Smentì anche la voce secondo la quale potrebbe ricandidarsi col Psi di Craxi.
Mi rispose: “Se dovessi rifare questa “pazzia” mi ripresenterei coi radicali”
Nel PR si era trovato bene, giacché il regime interno gli consentiva la più ampia libertà, anche se era destinato a dissolversi.
In ultimo, il discorso ri-cadde sul suo impegno nelle liste del Pci a Palermo. Sciascia scosse la testa e chiuse con un laconico “Si è sbagliato da entrambe le parti”.
* Agostino Spataro è stato dirigente e parlamentare nazionale del Pci. E’ direttore di “Informazioni dal Mediterraneo” (www.infomedi.it) e collaboratore di “La Repubblica”
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13537
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La nuda vita di Cesare Battisti 17.11.2009
Redazionale
La decisione di Cesare Battisti di attuare, come estrema e disperata forma di protesta, lo sciopero della fame – di mettere in gioco la propria vita – mostra, nella sua gravità, lo stato in cui la nuda vita è costretta oggi.
Un uomo è inseguito e raggiunto, dopo trent’anni, da un’accusa alla quale non è possibile rispondere, dalla quale è tecnicamente impossibile difendersi: una condanna comminata sulla sola parola di un pentito che la legge riconosce avere più volte mentito. Una condanna comminata all’insaputa del condannato, che è diventata definitiva e irrevocabile perché il condannato, non sapendo di essere tale, non ha potuto ricorrere in appello – a differenza di altri correi, in appello assolti dalle medesime imputazioni.
Questa è la storia di Cesare Battisti: accusato da accusatori che hanno responsabilità politiche e morali pari a quelle che gli vengono imputate – ad esempio, ex ministri che condividevano, con ruoli dirigenti, spazi politici con i militanti dei NAR.
Questa è la storia di Cesare Battisti: inchiodato a una falsa rappresentazione della realtà: assassino di Torreggiani e feritore del figlio rimasto invalido per i media e la pubblica opinione, non ostante le stesse sentenze dicano che quella volta lì Cesare non ha sparato perché non c’era.
Questa è la storia di Cesare Battisti: come se tre decenni di vita potessero esser cancellati con un tratto di bianchetto.
Non è possibile girare la testa e ignorare cosa succederebbe a Cesare Battisti se venisse tradotto in un carcere italiano. Come non è possibile girare la testa e ignorare il destino toccato a Stefano Cucchi. Le foto del corpo di Stefano Cucchi dicono tutto: la nuda vita, il mero corpo esposto alla violenza dello Stato, al desiderio microfascista di potere, vendetta, di violenza di alcuni servitori dello Stato per il quale è subito scattata la difesa d’ufficio (mica stiamo parlando di “zingari” ubriachi), e per i quali è comunque pronta l’autoassolutoria definizione di “poche mele marce” da parte dello Stato (mica stiamo parlando di “rumeni”).
Quando tra il cittadino e lo Stato, tra il corpo e il Potere, tra la vita e il “monopolio legittimo della violenza” non s’interpone più alcuna barriera, alcuna mediazione, alcuna istituzione viene svelata l’originaria natura tirannica del Potere. La vita in pericolo di Cesare Battisti, i corpi oscenamente macellati di Stefano Cucchi o di Federico Aldrovandi, ci mostrano che a questo siamo arrivati.
http://www.carmillaonline.com/archives/2009/11/003247.html#003247
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Lo spettro del capitale. Per una critica dell’economia della conoscenza
di Bellucci Sergio, Cini Marcello
Durante gli ultimi vent’anni il capitalismo ha conosciuto un cambiamento epocale: da un’economia prevalentemente materiale, veicolata dalla legge della domanda e dell’offerta e dalla produzione di merci fisiche, si è passati a un’economia dell’immateriale e alla produzione di un bene intangibile e non “mercificabile”: la conoscenza. In questo passaggio si sta verificando però un pericoloso attrito: il capitalismo tende infatti ad assorbire nelle proprie logiche di privatizzazione e mercificazione il processo produttivo della conoscenza, che per sua stessa natura è un bene comune e collettivo, soffocandone così lo sviluppo. Sergio Bellucci e Marcello Cini studiano questo fenomeno da molto tempo; ne “Lo spettro del capitale” la loro analisi si concretizza in una denuncia e allo stesso tempo in una proposta. La denuncia è rivolta alla politica, soprattutto alla sinistra, incapace oggi di cogliere i segni di quanto sta avvenendo, e per questo di interpretare e farsi carico dei bisogni dei lavoratori. La proposta è quella di promuovere a sistema una nuova logica produttiva, che oggi sta già emergendo autonomamente dal corpo sociale, basata sugli stessi principi su cui si fonda la diffusione della conoscenza: condivisione, cooperazione e democraticità.
http://www.libreriauniversitaria.it/spettro-capitale-critica-economia-conoscenza/libro/9788875781378
di Benedetto Vecchi
Una sinistra senza Rete 18.11.2009
«Lo spettro del capitale», un saggio di Marcello Cini e Sergio Bellucci sull’economia della conoscenza
Pagine sostenute da un’urgenza politica: perché il movimento operaio è incapace di proporre una visione alternativa a quella dominante? È attorno a questa domanda che il saggio di Marcello Cini e Sergio Bellucci Lo spettro del capitale (Codice edizione) si sviluppa, evidenziando come, anche chi esercita il potere, non dorme sonni molto tranquilli. Lo testimonia la crisi economica, che da un biennio sta ridisegnando i rapporti sociali e le relazioni tra Stati a livello mondiale in una direzione che, più che costituire una soluzione, rappresenta un problema aggiuntivo rispetto la possibilità di uscire dalla crisi, perché le dinamiche e i conflitti sociali e geopolitici del capitalismo contemporaneo non contemplano un esito riformista, come è stato il New Deal e il welfare state dopo la crisi del ’29 e la seconda guerra mondiale. Dunque, un saggio ambizioso che concede ben poco allo stile espositivo e molto, invece, alla radicalità dei problemi che la sinistra, meglio quello che ne rimane, si trova di fronte.
La tesi dei due autori è presto riassunta. Negli ultimi lustri, il capitalismo ha conosciuto un mutamento radicale che ha portato al centro della scena la conoscenza, divenuta fonte primaria nei processi lavorativi nonché settore trainante della produzione della ricchezza. Una conoscenza intesa nella sua forma generica, ma tuttavia pervasiva dell’attività economica. Non solo dunque il sapere tecnico-scientifico, ma anche l’informazione, l’intrattenimento, l’immaginario collettivo sono diventati il cuore del capitalismo. Questo non significa ovviamente che le merci «tangibili» perdano importanza, ma ciò che produce «valore aggiunto» nella loro vendita è il brand che le accompagna. Un marchio che significa non solo griffe di successo, ma anche simulacro di uno stile di vita appettibile. Vendere un’automobile o un paio di sneakers significa dunque proporre una weltanshauung, nella cui elaborazione è delegata una forza-lavoro altrettanto significativa di quella che contribuisce alla produzione «fisica» dell’automobile o delle scarpe da ginnastica. Altro elemento importante di questa «economia della conoscenza» è la spasmodica ricerca di innovare tanto i prodotti che i processi lavorativi.
Cini e Bellucci sono consapevoli dei limiti delle teorie dominanti sulla «economia della conoscenza» nello spiegare la grande trasformazione che è alle nostre spalle. Ed è per questo che invitano a fare i conti con l’analisi marxiana del capitalismo per capire cosa occorra salvare dell’opera di Karl Marx e cosa invece consegnare alla storia. In un breve capitolo, ricordano tanto la teoria del valore che le pagine dei Grundrisse dedicate all’intelletto generale, ma lo fanno per sottolineare il fatto che non siamo all’anno zero della teoria critica, ma neppure siamo giunti al termine del necessario lavoro analitico da compiere.
Dunque la loro è un’analisi critica dellla realtà che si sofferma, ad esempio, sui processi di appropriazione privata della conoscenza. Significativa è così la messa a tema della proprietà intellettuale come terreno di conflitto tra chi ritiene che la conoscenza è un bene comune e chi la vuole recintare e sfruttarla per fare profitti. È noto che, nel passato, il possesso di un terreno, di un computer, di un’automobile, un capo di abbigliamento era esclusivo, ma con la conoscenza questo non accade: conoscere una formula matematica, leggere un libro, un giornale non impedisce che altri possano conoscere quella stessa equazione, che l’informazione possa essere acquisita da molte persone. L’accesso alla conoscenza e all’informazione non impedisce che altri possano usare quella stessa conoscenza. Al medesimo tempo, ognuno può arricchirla in una dimensione accumulativa che non prevede appunto una proprietà esclusiva. Con le leggi e le norme sulla proprietà intellettuale la conoscenza viene però ricondotta a un regime di scarsità. Le leggi sui brevetti, sul copyright, sui marchi altro non sono che gli strumenti per quel movimento di privatizzazione della conoscenza che gli autori giustamente paragonano alle enclosures delle terre comuni agli inizi della rivoluzione industriale.
È però sul crinale delle enclosures della conoscenza che assumono centralità politica i comportamenti, le esperienze della produzione open o free dei programmi informatici o dei movimenti sociali contro l’uso di sementi geneticamente modificati o sottoposti al regime dei brevetti. Esperienze di cooperazione sociale basate sul riconoscimento della conoscenza come bene comune non privatizzabile. Ed è proprio facendo riferimento alla reciprocità, alla condivisione, all’eguaglianza insita nella cooperazione sociale che, nella parte conclusiva del volume, è abbozzata la proposta di un «welfare delle relazioni» che preveda, anche il diritto alla formazione permanente, alla mobilità, a un ambiente non inquinato e degradato.
Un saggio dunque che prende le distanze da quanto la sinistra politica, tanto quella cosiddetta di governo che quella «radicale», va declamando sulla realtà contemporanea. Ed è quindi un libro che ha l’indubbio merito di presentare una prospettiva «altra» da ciò che un’asfittica discussione nelle segreterie di partito e del sindacato ci offre da oltre un decennio sul capitalismo contemporaneo. E altrettanto positiva è la proposta sul «welfare delle relazioni» avanzata dai due autori, perché suona come un antidoto alle tesi di chi invoca una riforma dello stato come riduzione dei diritti sociali di cittadinanza in nome dei giovani precari. Per Cini e Bellucci, il welfare delle relazioni aggiunge diritti senza toglierne a nessuno.
Ci sarebbe da discutere se l’«economia della conoscenza» coincida con l’emergere di un settore e il declino di altri; o se piuttosto la centralità della conoscenza abbia cambiato il capitalismo en general e, dunque, anche i processi lavorativi preposti alla produzione delle merci «tangibili». Oppure, se la produzione artificiale della scarsità della conoscenza non renda il conflitto sui beni comuni un aspetto dirimente del conflitto di classe nel capitalismo contemporaneo. Temi e argomenti da mettere nell’agenda politica. Operazione che trova sicuramente il consenso dei due autori.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20091118/pagina/03/pezzo/264958/
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QUEL DIVERSO CHE CI FA PAURA Perché la tolleranza non basta più 16.11.2009
Pubblichiamo una parte dell’ intervento tenuto in videoconferenza da Zygmunt Bauman al convegno su “La qualità dell’integrazione scolastica” che si è tenuto a Rimini nei giorni scorsi Vivere con gli stranieri, che è il fondamento demograficoe sociale dell’ esposizione alle differenze, a una qualche sorta di alterità, non è affatto nuova nella storia moderna. Ma l’ idea era grosso modo che chiunque sia alieno, straniero, diverso da te perderà prima o poi il suo carattere di straniero. La politica dominante verso gli stranieri, per la maggior parte della storia moderna, è stata una politica di assimilazione: “Voi siete qui, siete fisicamente vicini; diventiamo quindi vicini anche spiritualmente, mentalmente, eticamente”, che vuol dire accettare gli stessi valori universali dove però, per “universali”, abbiamo sempre inteso i “nostri” valori. Quindi, con questa prospettiva dove l’ essere stranieri era soltanto uno spiacevole fastidio temporaneo, non esisteva l’ idea di dover imparare a vivere con il diverso. Ora per la prima volta nella storia moderna siamo arrivati a renderci conto che le cose non stanno così. La modernità è sempre stata un periodo di migrazioni massive di persone da un continente all’ altro, da un capo del mondo all’ altro, da una cultura all’ altra,e la migrazione è avvenuta per necessità nelle circostanze moderne in cui le persone cosiddette in soprannumero, persone per cui non si poteva trovare una sistemazione nella loro società d’ origine, non c’ era spazio per loro nel nuovo ordine, nel nuovo stato avanzato del progresso economico, erano costrettea viaggiare. Tuttavia c’ è una differenza: le migrazioni contemporanee hanno un carattere diasporico, non assimilatorio. Le persone che vanno in un altro Paese non ci vanno con l’ intenzione di diventare come la popolazione ospite. La popolazione ospite, nativa, non è particolarmente interessata ad assimilarle. Ci sono circa 180 diaspore che convivono a Londra, 180 diverse lingue, culture, tradizioni, memorie collettive.E il problemaè che se la politica di assimilazione non è più facilmente percorribile, come possiamo vivere giorno per giorno con gli stranieri? Come possiamo comunicare, cooperare, vivere in pace senza che noi perdiamo la nostra identità e che loro perdano la loro, quindi in una coabitazione che non porta all’ uniformità? In altre parole la questione non è più quella di essere tolleranti verso le persone diverse. La tolleranza in realtà è molto spesso un altro volto della discriminazione. “Sono tollerante verso le tue abitudini e le tue usanze bizzarre. Sono una persona molto aperta, sono superiore a te. Capisco che il mio stile di vita è irricevibile per te. Tu non puoi raggiungere lo stesso livello. Quindi ti permetto di seguire il tuo stile di vita ma io non lo farei mai se fossi in te”. La sfida con cui ci dobbiamo confrontare oggi consiste nel passare da questo atteggiamento di tolleranza a un livello più alto, cioè a un atteggiamento di solidarietà. Dobbiamo rassegnarci al fatto che ci sono degli stranieri ma anche imparare a ricavarne dei vantaggi. La maggior parte di noi vive in grandi città. Le città sono sempre piene di stranieri e la loro presenza è inquietante perché non sai come si comporterebbero se non li tenesse a distanza, destano sospetto, fanno orrore semplicemente perché sono delle entità estranee. Gli stranieri fanno paura. Ho chiamato questa paura tipica delle città contemporanee mixofobia, la fobia di mescolarsi con altre persone, perché là dove ci mescoliamo ad altre persone in un ambiente poco familiare tutto può succedere. Ma la stessa condizione di mescolanza con gli stranieri provoca anche un altro atteggiamento. Ci sono due reazioni contraddittorie al fenomeno, entrambe osservabili nelle città contemporanee. La seconda è la mixofilia, la gioia di essere in un ambiente diverso e stimolante. Hannah Arendt fu probabilmente la prima pensatrice moderna che ripensando a Gotthold Ephraim Lessing, uno dei pionieri dell’ Illuminismo tedesco, vide in lui una delle figure più lungimiranti fra i filosofi della prima modernità. Secondo Lessing non bisogna limitarsi ad accettare il fatto che la differenza sia destinata a perdurare ma bisogna effettivamente apprezzarla, riconoscere che in essa c’ è un potenziale creativo senza precedenti. Il fatto di mettere insieme esperienze, ricordi, visioni del mondo molto diverse può portare a una prosperità di sviluppo culturale. È troppo presto per dire quali potranno essere gli sviluppi perché le due tendenze contrapposte, la mixofobia e la mixofilia, hanno più o meno uguale forza. A volte prevale l’ una, a volte l’ altra. La questione è incerta, siamo ancora nel mezzo di un processo che non sappiamo bene come andrà a finire. Quel che stiamo facendo nelle vie delle città, nelle scuole primarie e secondarie, nei luoghi pubblici dove stiamo accanto ad altre persone è di estrema importanza non soltanto per il futuro delle città in cui vogliamo trascorrere il resto della nostra vita, o perlomeno in cui viviamo al momento, ma è di somma importanza per il futuro dell’ umanità. Viviamo in un mondo globalizzato. La globalizzazione ha raggiunto un punto di non ritorno, non possiamo tornare indietro, siamo tutti interconnessi e interdipendenti. Ciò che avviene in luoghi remoti ha un impatto formidabile sulle prospettive di vita e sul futuro di ognuno di noi. Quindiè giunto il momento di fare ciò che Lessing predisse che avremmo dovuto fare, cioè imparare ad apprezzare le opportunità create dalle nostre differenze, anziché temere le conseguenze morbose del convivere con le differenze. Ci confrontiamo con le conseguenze della globalizzazione in ogni strada delle città in cui viviamo, in ogni scuola in cui insegniamo, ma dal canto opposto per la stessa ragione, le città, le scuole sono il laboratorio in cui sviluppiamo i modi per imparare, trarre beneficio, tesaurizzaree rallegrarci per l’ appunto della natura diasporica della realtà contemporanea. Non sto dicendo che si tratti di un compito facile. Confrontarsi con una sfida che i nostri antenati non hanno mai raccolto, ci pone di fronte a un compito che mette a dura prova la nostra mente e le nostre emozionie che dobbiamo riuscire ad affrontare nel suo dispiegarsi, in corso d’ opera, senza disporre di soluzioni precostituite. – ZYGMUNT BAUMAN
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Gli oceani al centro della lotta al cambiamento climatico 18.11.2009
LIVORNO. «Se vogliamo veramente evitare una grave crisi climatica, è essenziale che i leader mondiali riconoscano l’immenso potenziale dell’oceano o per lottare contro il riscaldamento climatico grazie al suo potere di assorbimento del carbonio». E’ questa la tesi centrale dell’innovativo rapporto “The management of natural coastal carbon sinks”, che è stato presentato al Climate change and protected areas summit in corso a Grenada, in Spagna.
Il rapporto espone per la prima volta le ultime scoperte scientifiche sul ruolo svolto da ecosistemi come le praterie sottomarine, le mangrovie ed le paludi salmastre e rivela che hanno una capacità di assorbire e stoccare progressivamente il carbonio molto superiore a quella dei “pozzi” di carbonio terrestri, come le foreste.
Lo studio realizzato dai maggiori scienziati del settore per l’Iucn, con il sostegno di Natural England, de la Fondazione Lighthouse e dell’Unep, fornisce le più recenti prove della capacità degli oceani di assorbire la CO2 e del ruolo a svolto da questi ecosistemi marini nella riduzione degli effetti negativi del cambiamento climatico. Offre anche orientamenti politici specifici sulla maniera per includere la gestione dei “carbon sink” marini nelle strategie nazionali ed internazionali di riduzione dei gas serra.
Il principale autore del rapporto, Dan Laffoley, che è anche vice presidente della World commission on protected areas (Wcpa) dell’Iucn, spiega che «L’attuale perdita dei due terzi delle praterie sottomarine e del 50% delle foreste di mangrovie a causa delle attività umane, ha seriamente diminuito le capacità di assorbimento del carbonio. Questo fenomeno è paragonabile al declino annuale constatato nelle foreste amazzoniche. Occorre prendere immediatamente delle misure internazionali per fare in modo che gli ecosistemi marini siano interamente riconosciuti come pozzi di carbonio essenziali e che siano correttamente gestiti e protetti».
Secondo “The management of natural coastal carbon sinks”, il potenziale delle mangrovia, delle paludi salate e delle praterie sottomarine in termini di assorbimento di CO2 può essere garantito da diversi approcci di gestione, come le aree protette marine e la pianificazione dello spazio marino, ma anche da tecniche di gestione della pesca per zone, dalla regolamentazione dello sviluppo costiero e dal recupero e restauro degli ecosistemi.
Carl Gustaf Lundin, a capo del programma Global marine dell’Iucn, sottolinea che «Abbiamo avuto numerose discussioni sui principali pozzi di carbonio terrestri come le foreste, invece, abbiamo sentito parlare meno degli oceani come carbon sink Il mondo marino fa di più che regolare il nostro clima e fornire dei beni e dei servizi essenziali, ci aiuta anche a lottare contro il cambiamento climatico. I decisori nazionali e internazionali devono studiare le politiche ed I meccanismi di finanziamento che permettano di proteggere e gestire correttamente gli oceani e questo rapporto costituisce il miglior punto di partenza esistente».
http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=%202025
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Una lady fortunata
Stefano Rizzo, 20.11.2009
Lady Catherine Ashton, baronessa di Upholland si è trovata al posto giusto al momento giusto. E’ una funzionaria di partito assolutamente sconosciuta ai più, quando nel 1998 Tony Blair, che ha da poco vinto le elezioni ai Comuni, decide che bisogna riformare la Camera dei Lord, dove i conservatori invece detengono una larghissima maggioranza. I lord, si sa, sono per lo più ereditari ed essendo di antico lignaggio tendono ad essere conservatori; quindi per Blair, intenzionato a riformare il paese e ad accrescere le fortune laburiste, sono un ostacolo da eliminare
Il minimo che si può dire di Lady Catherine Ashton, baronessa di Upholland, è che sia una signora fortunata. E’ nata plebea ed è diventata baronessa. Non è mai stata eletta ad alcunché ed è diventata prima membro del governo laburista (anche se in ruolo minore), poi commissario dell’Unione europea e infine Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, forse la carica più importante prevista dal trattato di Lisbona.
Fortunata perché si è trovata al posto giusto al momento giusto. E’ una funzionaria di partito assolutamente sconosciuta ai più, quando nel 1998 Tony Blair, che ha da poco vinto le elezioni ai Comuni, decide che bisogna riformare la Camera dei Lord, dove i conservatori invece detengono una larghissima maggioranza. I lord, si sa, sono per lo più ereditari ed essendo di antico lignaggio tendono ad essere conservatori; quindi per Blair, intenzionato a riformare il paese e ad accrescere le fortune laburiste, sono un ostacolo da eliminare.
In due modi: eliminando il diritto dei lord ereditari di sedere nella camera alta e nominando un gran numero di “lord a vita”. Il primo obbiettivo viene raggiunto con qualche compromesso e Blair deve accettare che nella camera dei lord rimangano una novantina di nobili ereditari. Per bilanciarli e assicurarsi una solida maggioranza, Blair procede a nominare un gran numero di militanti laburisti “pari a vita” cioè nobili a tutti gli effetti salvo che il titolo muore con loro (in dieci anni Blair ne nominerà oltre 200).
E qui entra in gioco Catherine Ashton che, trovandosi al posto giusto al momento giusto, cioè accanto a Blair quando procede a riempire la camera dei lord di suoi fedeli, viene nominata baronessa di Upholland. Nella camera alta lady Ashton non si segnala per particolari attività (del resto con la riforma del 1999 i lord sono stati molto depotenziati e privati di effettivi poteri legislativi); occupa varie cariche, per lo più onorifiche o di nomina governativa, come quella di lord presidente del consiglio privato o di speaker dei lord.
Intanto Blair continua nella sua marcia trionfale che, a parte alcuni indubbi successi di politica interna, lo porterà ad abbracciare con entusiasmo la guerra al terrorismo di George Bush, comprese le due guerre gemelle in Iraq e in Afghanistan. Catherine Ashton non si segnala in questi anni per alcuna posizione, documento, discorso, iniziativa pubblica di politica estera e di difesa; ricopre alcuni minori incarichi governativi come sottosegretario al welfare. Passa così indenne la buriana che travolge Blair a causa degli insuccessi della guerra in Iraq e, soprattutto, del ruolo subalterno che il Regno Unito vi aveva assunto vis à vis il potente alleato americano (gli inglesi non perdoneranno mai a Blair di essere diventato “il cagnolino di Bush”).
Fino al 2008, quando Gordon Brown, che è succeduto a Blair l’anno prima, nomina lady Ashton commissario europeo al mercato. Si tratta di un incarico prestigioso per il quale occorrerebbero specifiche competenze ed un curriculum adeguato. Lady Ashton non ha né le une né l’altro, ma ancora una volta si trova al posto giusto al momento giusto. Il commissario inglese al commercio si chiama Peter Mandelson ed è un economista di riconosciuta competenza, ma Gordon Brown lo vuole al governo (è attualmente ministro dell’economia) per puntellarlo in vista delle elezioni che si preannunciano disastrose per il partito laburista.
Mandelson lascia la Commissione e Brown nomina la Ashton per sostituirlo. Oltre alla sua totale inesperienza, c’è un altro problema: è pari a vita e le norme europee vietano che un commissario sia membro di un’assemblea parlamentare nazionale. Come si fa? Da pari a vita non ci si può dimettere, né il decreto può essere annullato. Ashton e Brown trovano una soluzione, una soluzione di solito detta “all’italiana”: Ashton non si dimette, ma chiede un congedo indefinito allo speaker dei lord che, essendo lei stessa, se lo concede; e diventa commissario dell’Unione.
E veniamo alla tappa successiva. Al Regno Unito dell’Europa non importa granché, né mai ha importato: non ha adottato l’euro, non consente la libera circolazione delle persone (è fuori dall’area Schengen), la sua politica economica e la politica estera, sotto il manto di un’orgogliosa autonomia, sono piuttosto orientate verso gli Stati Uniti. Ma Blair è disoccupato e bisogna trovargli un posto. Evidentemente non gli basta quello rimediato all’ultimo momento di rappresentante dell’Europa in Medioriente (nel quale peraltro non si è distinto in alcun modo). Quindi deve diventare presidente del Consiglio europeo, la nuova prestigiosa carica della durata di due anni e mezzo prevista dal trattato di Lisbona.
E qui inizia il balletto inverecondo. Gli europei non vogliono Blair per la sua passata politica antieuropeista e soprattutto a fianco dell’America guerriera: non sarebbe un bel segnale da mandare al mondo nel momento in cui entra in vigore la riforma che dovrebbe dare più forza e prestigio all’Europa. Ma gli inglesi non demordono: Blair o morte, dice Gordon Brown. In verità, sono pronti ad accettare anche una soluzione alternativa: l’incarico di alto rappresentante per la politica estera per David Miliband, ministro degli esteri e brillante pupillo di Blair.
Miliband però traccheggia e alla fine rifiuta (o forse è Blair che non vuole: Miliband è troppo capace – un Blair giovane — e gli farebbe ombra); in ogni caso Miliband decide di rimanere al governo anche per guidare il partito alle prossime elezioni. Per lo stesso motivo anche Mandelson rinuncia.
A questo punto ci si guarda intorno e in campo inglese non c’è nessuno sufficientemente autorevole per occupare l’uno o l’altro incarico. Ma il Regno Unito uno dei due lo deve avere per controbilanciare l’asse franco-tedesco, che di fatto è il vero motore economico e politico dell’Unione.
Ed ecco che dal cilindro di Brown spunta il nome di Lady Ashton. Ancora una volta la signora non ha alcuna competenza e nessuna esperienza, non si è mai occupata di politica estera, a parte qualche giovanile manifestazione per il disarmo nucleare. Ma che importa? E’ la persona giusta al posto giusto semplicemente perché non c’è nessun altro disponibile.
Gli europei mandano giù il boccone amaro; e forse a molti di loro non dispiace neppure trangugiarlo. Un forte, stimato e apprezzato ministro degli esteri (come – per fare un esempio – avrebbe potuto essere Massimo D’Alema) avrebbe rischiato di portare avanti una politica estera europea forte e in grado di accrescere il peso dell’Europa sulla scena mondiale. Ma questo evidentemente sono in molti a non volerlo, né i paesi dell’Est (oltre all’Irlanda e Regno Unito) che hanno votato obtorto collo per il trattato di Lisbona, né tanto meno (almeno in questo momento) l’asse franco-tedesco. Quindi la soluzione “migliore” è stata anche la più debole. Se ne riparlerà tra due anni e mezzo. La vecchia Europa può aspettare.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13559
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“Gli Usa volevano attaccare l’Iraq già prima dell’11 settembre” 25.11.2009
ROMA
Gli Stati Uniti avrebbero voluto un’operazione militare contro il governo di Saddam Hussein in Iraq già prima degli attentati dell’11 settembre 2001, ma Londra si oppose a un «cambio di regime» che, secondo l’allora premier Tony Blair, sarebbe stato contrario alle leggi internazionali. È quanto emerso dalla deposizione di ieri di due funzionari britannici, Peter Ricketts e William Patey, davanti alla Commissione di inchiesta sulla partecipazione della Gran Bretagna. La notizia è riportata oggi con grande evidenza su tutti i principali quotidiani britannici. Fra il 2000 e il 2001, Richetts fu a capo del comitato dei servizi esterni britannici prima di occupare dal 2001 al 2003 un’alta carica presso il Foreign Office. Il diplomatico di Londra, che ancora oggi lavora al ministero degli Esteri, ha spiegato che fin dal 2001 alcuni membri dell’amministrazione di George W. Bush puntavano ad un «cambiamento di regime» in Iraq. E William Patey, responsabile del Dipartimento per il Medio Oriente al Foreign Office dal 1999 al 2002, ha confermato davanti alla stessa commissione le aspirazioni ’guerrafondaiè di Washington ma ha aggiunto che Londra «voleva rimanere estranea a tutto questo». «Pensavamo che sarebbe stato fantastico se Saddam non ci fosse stato ma non avevamo una politica esplicita per sbarazzarci di lui», ha affermato. La commissione, per diversi mesi, ascolterà capi militari diplomatici e alti funzionari per comprendere il processo decisionale che portò all’impegno nel 2003 della Gran Bretagna accanto agli Usa contro il regime di Saddam Hussein. Il momento culminante di queste udienze, la cui conclusione è attesa per febbraio, sarà la deposizione di colui che prese la decisione ultima di mandare circa 45.000 soldati britannici in guerra, Tony Blair. L’inchiesta si concentrerà inizialmente sul famoso «dossier» in cui il governo di Blair affermava che l’Iraq di Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa. La commissione era sta reclamata da lungo tempo sia dalle famiglie dei soldati che dall’opposizione. Il rapporto finale, è previsto per la fine del 2010.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/200911articoli/49734girata.asp
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Peres: reali progressi per il rilascio di Shalit 22.11.2009
«C’è un progresso reale nella questione di Gilad Shalit » lo ha detto domenica sera Shimon Peres, il presidente israeliano, di ritorno da un’importante missione al Cairo dove israeliani e Hamas stanno negoziando un imminente rilascio di ostaggi. Tra essi ci sarebbe anche il giovane soldato rapito da Hamas nel giugno 2006. «Non posso fornire dettagli – ha detto Peres – perché ogni dichiarazione potrebbe compromettere la questione». Secondo l’emittente Al-Arabiya domani, lunedì, al Cairo si recherà una delegazione di Hamas per esaminare la lista di detenuti palestinesi che Israele accetta di liberare in cambio di Shalit. Secondo la tv americana Fox News, la lista conterrebbe ben 1.000 nomi tra cui alcune persone ritenute responsabili di attentati.
Intensi colloqui
La notizia di un accordo per uno scambio di prigionieri era stata anticipata, nel pomeriggio di domenica, dall’emittente araba al-Arabiya e subito ripresa dai mass-media israeliani che l’hanno giudicata credibile. Se lunedì al Cairo i colloqui -in corso da alcuni giorni anche sulle questioni relative al processo di pace- la lista verrà approvata dagli emissari di Hamas la liberazione potrebbe arrivare molto presto, forse prima della festa islamica del Sacrificio che inizia venerdì. Il quotidiano Israel ha-Yom, vicino al premier Benyamin Netanyahu, ha scritto nel numero di domenica che è in corso «uno sforzo diplomatico serrato» nel tentativo di giungere all’accordo. In questo contesto vanno lette le visite del presidente Peres al leader egiziano Hosni Mubarak, da sempre gran mediatore nel conflitto arabo-palestinese, e quella di lunedì del ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle. Sarebbe anche per agevolare il negoziato che sabato sera Hamas ha annunciato un accordo con altre fazioni palestinesi per la sospensione del lancio di razzi sul sud di Israele.
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di Roberto Ciccarelli
ONDA D’URTO
«Per l’Università ci vuole welfare» 20.11.2009
«La vera riforma? Tutele sociali per il lavoro precario, ridurre drasticamente le tipologie contrattuali e garantire la continuità di reddito ai singoli». Intervista al sociologo Luciano Gallino, alla vigilia dell’assemblea alla Sapienza di Roma con studenti, ricercatori e Flc-Cgil. Nel frattempo il governo recupera solo 40 degli 80 milioni stanziati da Prodi per la ricerca
L’università non è riformabile senza tutele sociali per il lavoro precario e un welfare basato sulla continuità di reddito dei singoli. È questa la chiave non corporativa, ma politica, scelta dalla rete dei ricercatori precari romani e dalla Federazione dei lavoratori della conoscenza (Flc) della Cgil per convocare l’assemblea nazionale dell’Onda di oggi pomeriggio alla Sapienza contro il disegno di legge Gelmini sull’università. Una novità che non è sfuggita a Luciano Gallino, sociologo del lavoro tra i più ascoltati in Italia: «Mi pare che sia il segnale di un’accresciuta percezione della situazione che si va determinando nel mondo del lavoro. Moltissimi contratti precari in scadenza non saranno rinnovati, ci sarà un aumento notevole della disoccupazione di lunga durata. Dinanzi a questo, si sta facendo avanti l’idea che occorre un’innovazione radicale dei cosiddetti ammortizzatori sociali, che io chiamerei in maniera più precisa di sostegno al reddito».
L’appello sottoscritto dall’Onda e dalla Flc dimostra che questa sensibilità si sta affermando anche nella Cgil?
Mi pare che la Cgil si sia fatta sentire anche più di altre confederazioni sul tema del lavoro precario, indicando i limiti e i problemi. Il passo che andrebbe fatto, e forse queste prime manifestazioni vanno in questa direzione, è che bisognerebbe sfoltire radicalmente il numero dei contratti precari. Il conto è difficile da fare, ma dovremmo essere tra 40 e 45. Un certo numero di contratti non a tempo indeterminato può essere utile al lavoratore quanto all’impresa. Ma, in generale, questi contratti in deroga dovrebbero essere quattro o cinque.
Quali sono le difficoltà che ha il sindacato con il lavoro precario?
Il numero dei contratti, come le dicevo. E poi c’è una doppia complicazione: in molte aziende lavorano aziende esterne e molto lavoro interno viene affidato all’esterno. In questo contesto è molto complicato rappresentare gli interessi dei lavoratori giovani, adulti e anziani in tutti i settori produttivi. Il sindacato è nato oltre 150 anni fa forte di una triplice unità: l’unità di tetto degli operai in uno stesso luogo, l’unità di padrone e l’unità di condizione di lavoro. La sua forza era di rappresentare questa unità. Dato che oggi questi tre pezzi sono andati in frantumi, bisogna cercare di tornare verso qualche tipo di unità, sebbene quella di un tempo non possa più essere recuperata.
Quanto al lavoro nell’università e nella ricerca?
Ogni valutazione sul lavoro in questi campi deve partire dal fatto che in tutto il mondo diminuiscono i fondi pubblici per la ricerca. È il privato, di norma, a finanziarla. In qualche caso ciò avviene senza imporre fini alla ricerca. In moltissimi altri casi la ricerca finanziata serve a uno specifico tornaconto economico. Il che vuol dire strozzare gran parte della ricerca di base che ha degli orizzonti di tre, cinque, dieci anni. La ricerca che deve fare profitti ha un orizzonte di uno o due anni. È questa la linea sulla quale fare resistenza.
Quali dovrebbero essere i rapporti tra università e impresa?
Non bisogna essere manichei ed escludere ogni rapporto tra questi soggetti. Nel caso dei politecnici, il rapporto è vitale anche nella formazione degli studenti. Se un ragazzo spende cinque anni per diventare ingegnere senza contatti con le industrie, nel momento in cui va a lavorare scopre di essere in ritardo di cinque anni. Il discorso però è diverso. Bisogna che l’università ponga dei limiti all’impresa e sappia contrattare. Purtroppo i politici che se ne occupano ritengono che impresa è bello, che i soldi non hanno odore, che è lecito fare ricerca seguendo i dettami delle imprese. Se una volta si parlava di «complesso militare-industriale», la realtà oggi è diversa. C’è il «complesso accademico-industriale» creato dall’enorme attrazione che le multinazionali hanno sui dipartimenti, soprattutto nel mondo anglosassone.
Non ha l’impressione che negli ultimi 20 anni il tanto evocato rapporto con i privati abbia prodotto in Italia pochi risultati?
Credo che sia un’impressione corretta. C’è una questione a monte: per fare ricerca bisogna avere obiettivi precisi di ordine generale. La politica industriale in Italia non esiste più da quarant’anni. La ricerca, anche quando la si fa, ha un basso contenuto tecnologico o scientifico. Le domande italiane per i brevetti, spesso interessanti, hanno un contenuto tecnologico modesto perché non c’è alcun governo, ministro o ente che sappia dire se aiutare la ricerca in questa o in un’altra direzione. Se politica industriale significa scegliere dove investire, allora in Italia non c’è mai stata. Siamo ultimi tra i paesi Ocse nella somma degli investimenti pubblici nella ricerca con l’1,1% del Pil. Ci sono eccezioni importanti, non si può negarlo, ma in generale gli investimenti sono maldiretti e sotto il potenziale che il paese potrebbe esprimere.
Da quanto ha potuto capire dal ddl Gelmini, esiste l’intenzione di correggere questa tendenza?
È molto difficile capirlo, anche perché si dovrebbe fare un’analisi approfondita degli effetti applicativi del disegno di legge, quando ci saranno. Mi sembra che si resti su linee assai generali e si rinnovino gli inviti a una maggiore collaborazione con l’industria. Questo potrebbe significare un asservimento della ricerca all’industria, come anche l’opposto. Non è chiaro, dunque, in quale direzione il governo voglia andare.
Lei propone il reddito di base come soluzione per un’economia che dopo la crisi crescerà poco e non produrrà occupazione. Quale ruolo avrebbe in una situazione di generale dequalificazione della formazione come quella italiana?
Una delle posizioni etico-politiche del reddito di base è rendere gli individui maggiormente liberi dinanzi alle scelte lavorative e, si può presumere, anche alle scelte nel percorso universitario e post-universitario. Se una persona è a reddito zero, cioè se non ha mai avuto un lavoro normalmente retribuito o è un giovane in cerca di una prima occupazione, accetterà qualunque tipo di lavoro. Se, invece, avesse un reddito di base, il cui scopo è tenere le persone al di sopra della soglia di povertà, sarebbe più libero di compiere le sue scelte. Non cercherebbe a tutti i costi uno sbocco lavorativo redditizio. È un po’ tutto da sperimentare, ma ritengo che questo carattere del reddito di base, cioè la costruzione di maggiori spazi di libertà fuori dall’assillo del bilancio quotidiano, potrebbe avere effetti positivi anche sulla ricerca e sui percorsi universitari in genere.
Come risponde alle obiezioni sul suo finanziamento?
Chi è pregiudizialmente ostile al reddito di base troverà infinite ragioni per opporsi. Vi sono molti pro e molti contro. Per ragionare in concreto, il reddito dovrebbe assorbire tutte le spese che vengono erogate sotto la forma di ammortizzatori sociali e assimilati. Se si mette insieme il costo della cassa integrazione ordinaria, cassa straordinaria, cassa integrazione in deroga, liste di mobilità, prepensionamenti, assistenza ai pensionati sotto la soglia di povertà e altre forme di assistenza, sono miliardi di euro. In altre parole, bisogna pensare ad una generale trasformazione delle politiche sociali.
In questa nuova cornice, come dovrebbe funzionare?
I calcoli che si fanno stabiliscono che per stare al di sopra di una soglia della povertà una famiglia avrebbe bisogno di 1.500 euro o giù di lì, 5 o 600 euro per due familiari, la metà per uno o due figli. Ci sarebbe comunque un margine non coperto, però la trasformazione degli ammortizzatori sociali come – per fare un gioco di parole – base per il reddito di base potrebbe far fare un grande passo in avanti. Il reddito di base non è condizionato dal fatto di avere avuto un lavoro. La cosa paradossale oggi è che per avere un sussidio di disoccupazione bisogna avere versato almeno 52 settimane di contributi.
L’assemblea dell’Onda affronterà, tra l’altro, il problema dei 50 mila precari che lavorano nell’università. È presumibile che nessun governo e nessuna legge di riforma riescano a disporre l’assunzione di tutte queste persone. Il reddito di base potrebbe tornare utile anche per questa situazione specifica?
Entriamo su un terreno un po’ complicato. Queste sono persone che non hanno la minima certezza sul proprio futuro dentro l’università e fuori. E tuttavia gli assegnisti, i contrattisti, i ricercatori precari costano, ricevono un reddito. Il reddito di base implica la riconversione di questi fondi e dà una serie di garanzie alle persone quando il concorso non c’è, si fa dopo dieci anni o quando, per qualche motivo organizzativo, ci si priva di certe figure. Non sarebbe tanto un trasferimento di costi, anche se costi addizionali ci sarebbero comunque. Il reddito di base sarebbe un cambiamento di prospettiva nella vita delle persone.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20091120/pagina/05/pezzo/265138/
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25/11/2009 – L’URBANISTICA DEL XXI SECOLO. “IMITARE I PROCESSI NATURALI E’ L’UNICA STRADA PER SALVARE IL PIANETA DAL COLLASSO”
Salotto, cucina e fior di loto
L’archiborescenza diventa un modello per le metropoli sostenibili
STEFANIA DI PIETRO
L’architettura del futuro è bio. Immagina metropoli «viventi», come organismi metabolicamente attivi. Un protagonista della nuova visione urbanistica, proiettata in quel mondo ecologicamente corretto che difficilmente il prossimo summit sull’ambiente di Copenaghen riuscirà a delineare, è Luc Schuiten, l’architetto belga noto come «Il visionario».
Il suo contributo per risolvere i problemi del Pianeta parte dall’idea di far collaborare la natura con l’uomo per realizzare centri ecologici al 100%. «Al centro di tutto resta sempre l’uomo – spiega – ma deve essere in grado di trarre dall’ambiente la propria fonte di vita senza distruggerlo». L’«Archiborescenza» si ispira quindi all’utilizzo di materiali organici innovativi e a una tecnologia «sana».
Non è un caso che l’architetto belga sia stato uno dei primi a debuttare alla fine degli Anni 70 con un’icona dei progetti ecologici, vale a dire l’«Orejona house». E se questa è entrata a far parte della storia della bio-architettura, oggi le sue creazioni sono diventate un abile intreccio di proposte e di provocazioni, a cominciare da «Vegetal city», descritta da centinaia di disegni, modellini e fumetti. In questa visione poetica dell’urbanistica case e palazzi assumono la forma di piante e fiori, costruiti con materiali riciclabili, mentre dai tetti scendono cascate d’acqua piovana, seguendo un meccanismo a circuito chiuso.
A rappresentare un insieme di più ecosistemi c’è invece la «Lotus city», città di pavimenti erbosi fiancheggiati da alberi, le cui radici fungono da supporti anche per l’illuminazione. Gli alloggi sono chiamati «habitarbes» e si ispirano alle piante, mentre le case hanno la forma del loto. «Da sempre simbolo di spiritualità, ora diventa un modello di innovazione»: grazie a un sistema di apertura e chiusura dei petali è stato progettato il riutilizzo del metano dei rifiuti organici.
La «Tree house city», poi, è una città-foresta, in cui le pareti degli edifici sono fatte di composti trasparenti, simili alla chitina, il rivestimento delle ali delle libellule. «Così si crea una ventilazione naturale e di notte l’illuminazione avviene con una bioluminescenza simile a quello delle lucciole». Situato su un altopiano solcato da ampie faglie, Schuiten ha anche immaginato l’«Urban canyon», i cui edifici sono ricoperti da materiali che imitano la bio-mineralizzazione di molluschi e coralli, capaci di creare un guscio calcareo.
Un ulteriore scenario è «Waves city», accanto a un lago: qui le abitazioni hanno la forma delle onde e la città diventa un super-organismo capace di autoregolarsi attraverso il proprio metabolismo. Le facciate sono ricoperte da immensi pannelli solari, le cui prestazioni sono incrementate dalla riflessione dei raggi solari nel lago. E per chi predilige un luogo completamente solare ecco materializzarsi «Hollow city», ispirata alle costruzioni dei nativi americani, in cui spiccano le turbine eoliche a forma di piramide. E ovunque la mobilità urbana si adegua: la «click car» è un’auto robotizzata, che può unirsi ad altri veicoli, formando una specie di trenino. I «cyclos», invece, si muovono con la forza dei muscoli, come le bici, mentre con gli «ornithoplanes» si vola: simili a mini-dirigibili, sono alimentati a energia solare. «Abbiamo dimenticato – conclude Schuiten, con un po’ di enfasi – che siamo organismi viventi che vivono in un Pianeta altrettanto vivo».
Chi è Luc Schuiten Eco-architetto
RUOLO: E’ UNO DEI PIU’ CELEBRI ESPONENTI DELL’ARCHITETTURA BIOCOMPATIBILE, ISPIRATA ALLE FORME E ALLE FUNZIONI DELLA NATURA
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crisi, economia di Sergio Bruno
Economia, la paura della complessità 24/11/2009
La crisi e le responsabilità degli economisti: i nessi non spiegati e quelli non visti. Vuoti da riempire, per riaprire un dibattito sulle teorie e sulle politiche economiche
Provo nell’articolo a spiegare (anche a non economisti, chiedendo loro tuttavia un notevole sforzo concettuale) quali siano i vuoti, annidati nelle teorie economiche prevalenti, ignorando i quali il dibattito sulla crisi rischia di divenire banale. Riprendo e sviluppo spunti annegati in contributi spesso oggetto di omaggio ma sostanzialmente ignorati (da Böhm Bawerk a Wicksell, Hayek, Hicks, Robertson, Lerner). Si tratta di interrogarsi su temi quali le fonti di creazione di moneta e titoli, il ruolo del tempo cronologico nella produzione e nei contratti, la pretesa eguaglianza tra risparmi monetari e investimenti produttivi, il ruolo della ricchezza non direttamente connessa alla produzione corrente (titoli di vecchia emissione, immobili, ecc.), il senso di prescrivere politiche imperniate sui saldi del bilancio pubblico prescindendo dalla sua struttura e dalle modalità, spesso oscure ai più, del suo finanziamento. In questa sintesi – la versione completa del paper “La crisi e le responsabilità della teoria economica: la paura della complessità” si trova qui – tratto prima gli aspetti monetari, poi quelli produttivi, infine le implicazioni.
Moneta, risparmi, ruolo degli stock improduttivi
La crisi ha origine nella crescita giudicata eccessiva dei valori di cose che “già esistono” (case, titoli finanziari). A monte non può che esservi una crescita del combustibile della moneta. Si tratta comunque di una forma di inflazione. Al contrario dell’inflazione che riguarda il flusso delle merci e dei servizi, considerata un male, quella che interessa i valori monetari della ricchezza è data per buona da politici e, con euforia eccessiva, dai media. Paradossalmente la teoria economica raramente si interessa di ricchezza già prodotta, quanto meno a livello sistemico. Di qui due interrogativi. Il primo è “da chi e come viene creata moneta?” Il secondo riguarda la pretesa eguaglianza tra risparmi e investimenti reali: se davvero fossero eguali come si spiega la massa di danaro/risparmio che va ad acquistare ricchezza improduttiva?
Quanto al primo interrogativo, trascurando allegorie irrealistiche (la manna dal cielo), la letteratura propone fonti esogene (Keynes della Teoria Generale, con le operazioni sul mercato aperto in cui si scambiano titoli e moneta) ed endogene (ad es. Wicksell, con moneta creata dal sistema creditizio). Nel primo caso non si spiega l’origine dei titoli, che vengono supposti dati; ma se, quando nel breve periodo i titoli vengono comprati, si immette moneta, quando emessi (nel passato) la si è sottratta. Non si spiega dunque come cresca la moneta al crescere dell’economia.
Anche nel caso di Wicksell vi sono problemi: il circuito da lui immaginato, con la moneta che si crea ad inizio periodo per finanziare le esigenze produttive e si estingue alla fine del periodo, non funziona. Il circuito non si “chiude” se non in casi limite (Graziani, Messori ed altri), tanto che Graziani ipotizza (a ragione) che quanto manca per chiudere il circuito debba (e non “possa”) essere fornito dal deficit pubblico, ovvero (possibilmente a torto) che i risparmi monetari delle famiglie siano trasferite alle imprese. La quantità di risparmio trasferibile alle imprese è infatti limitata, come le teorie della crescita hanno implicitamente evidenziato (e con ciò passo al secondo interrogativo); in una economia che non cresce il risparmio dovrebbe essere nullo e le imprese dovrebbero autofinanziare per intero i propri investimenti, meramente riproduttivi. E’ invece diffusa l’idea sbagliata, suggerita da approcci statici, che il risparmio non possa che andare alle imprese, mentre tale trasferimento ha senso solo nella misura degli investimenti per la crescita (ovvero, ma con qualche problema, per l’innovazione). Esso può invece essere minore o, più plausibilmente, maggiore di tali investimenti.
La mancata inclusione degli acquisti di stock improduttivi nelle analisi sistemiche deriva da ciò e dal fatto di non avere preso in considerazione il fatto che gli impieghi improduttivi di danaro possano essere lucrosi; lo sono, invece, attraverso i capital gains e possono spiazzare gli investimenti produttivi. Ma la domanda di stock improduttivi può alimentarsi anche del credito. La propensione ad orientare il danaro, proprio o preso in prestito dalle banche, verso gli stock improduttivi, rinforza, in certe congiunture, l’aumento del loro valore (Minsky). La stessa BCE offre implicitamente evidenza di alimentare la domanda di stock quando, senza effetti sull’inflazione dei flussi di merci e servizi, crea base monetaria in eccesso rispetto alla somma tra tasso di crescita e tasso di inflazione.
Decisioni produttive e tempo
Produrre prende tempo. Gli input devono essere ultimati prima di consentire produzioni ulteriori. La produzione di macchine e impianti richiede di solito un tempo multiplo di quello che serve per produrre beni di consumo. Nel sistema in ogni momento sono dunque lavorati, con l’ausilio di macchine, beni capitali in processo, prodotti con ciò che si può chiamare lavoro indiretto, accanto alla lavorazione di beni in consumo, prodotti da lavoro diretto. Ciascun tipo di lavorazione richiede tecnologie e macchine specifiche, che durano nel tempo ma sono l’eredità di decisioni e costi occorsi nel passato. Per quanto produciamo oggi siamo dunque debitori nei confronti di produzioni fatte nel passato; un debito che possiamo restituire solo decidendo oggi di produrre cose che saranno produttive nel futuro. Si garantisce così la continuazione del sistema. Questa constatazione, evidenziata da oltre un secolo da un trascurato Böhm Bawerk e che pone alla ribalta l’esigenza di lungimiranza (in contrapposizione alle opzioni di guadagno a breve e brevissimo termine), ha molte conseguenze.
Le decisioni su quanto produrre nel periodo corrente, ancorché privilegiate dai modelli economici prevalenti, sono relativamente banali; quelle del prezzo a cui vendere sono poco più che un arsenale di strategie commerciali, miranti a saturare la capacità esistente senza rompere collusioni.
Sono le decisioni sulla capacità futura quelle delicate e strategiche; delicate perché non possono essere prese sulla base di aspettative sui prezzi che prevarranno in un futuro relativamente lontano, ma solo in termini meramente quantitativi; strategiche perché da esse dipende il nostro futuro, un futuro che è da esse creato.
Esse sono sensibili ai segnali proiettati dalle autorità di policy, le cui aspettative annunciate tendono ad indurre risposte coerenti e quindi meccanismi di autorealizzazione. Esse si alimentano di rassicurazioni (Richardson), sono negativamente sensibili a fattori di instabilità, anticipano le reazioni negative della politica monetaria alle tensioni sui prezzi.
Ma le tensioni sui prezzi sono fisiologiche quando si accelera la crescita, perché o occupazione, monte salari e domanda aumentano, ma non la produzione corrente di beni di consumo, ovvero occupazione, monte salari e domanda restano invariati ma la produzione di beni di consumo diminuisce (Hicks, indirettamente). Ciò succede perché il rapporto tra lavoro indiretto, funzione della più alta produzione futura, e lavoro diretto, funzione della produzione corrente, aumenta. Si ha dunque in ogni caso un eccesso di domanda, che crea tensioni o sui prezzi o sulla bilancia commerciale. Le tensioni vi sono anche quando si costruiscono innovazioni, perché anche in questo caso il rapporto tra lavoro indiretto e diretto aumenta.
In conclusione, i fenomeni inflazionistici non hanno una sola origine. Reprimerli indiscriminatamente può far abortire accelerazione della crescita e innovazioni.
Implicazioni
Il gap di domanda dovuto a eventuali risparmi monetari eccedenti gli investimenti reali va comunque sistematicamente rifinanziato.
Il credito all’acquisto di stock non connessi alla produzione può alimentare la domanda via effetti ricchezza e via spesa di parte dei capital gains. Si tratta tuttavia di un fenomeno aleatorio e che incide negativamente sulla giustizia distributiva.
Più affidabile appare il deficit pubblico, purché non associato alla collocazione di titoli presso i privati (che sottraggono moneta), bensì, contrariamente alle idee prevalenti, monetizzato dalle banche centrali. Non si tratta tuttavia di un ritorno alla finanza anticiclica keynesiana; il deficit deve essere invece associato a programmi di lungo respiro, che offrano alle imprese un quadro espansivo affidabile che le induca a sviluppare capacità produttiva e innovazioni.
Un compito che potrebbe essere connesso per noi ad un programma di sviluppo comunitario associato all’obbligo, per la BCE, di finanziare in deficit (monetizzato) la parte di spesa pubblica connessa a tale programma. Corollario importante di una tale svolta sarebbe la costituzione di una Autorità responsabile delle politiche produttive in Europa, che bilanci il ruolo della BCE.
Si tratta infatti di un ruolo divenuto troppo egemone, non solo sul piano delle politiche (con i governi nazionali imprigionati da un Patto di Stabilità eccessivamente rigido, che pone l’Europa in una condizione di inferiorità rispetto agli altri grandi poli della competitività mondiale, più attrezzati sul piano delle politiche industriali e commerciali) ma anche sul piano culturale, grazie ai notevoli sforzi dei soggetti delle banche centrali nell’attrezzarsi sul piano del capitale umano.
Il punto è tuttavia che l’affermarsi di una sorta di pensiero unico non è salutare.
L’autore ha qui presentato una sintesi del lavoro “La crisi e le responsabilità della teoria economica: la paura della complessità”, pubblicato sui Papers del Dipartimento di Economia
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Economia-la-paura-della-complessita
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