La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 15.04.2010
Le aperture
La Repubblica: “Bossi: a noi le banche del Nord. Il Senatur, a cena dal premier, boccia le modifiche alla legge elettorale”. E poi: “Bersani al Quirinale: no alla bozza Calderoli. Pronto il nuovo Lodo Alfano, arriva la stretta sulle intercettazioni”. A centro pagina: “Berlusconi a Karzai. ‘Verità su Emergency’. Frattini: uno dei tre italiani potrebbe essere liberato”. E poi un articolo di Gino Strada: “Curiamo tutti, non taceremo mai di fronte agli orrori della guerra”. Di spalla: “Parla Ruini: Sulla pedofilia accuse ingiuste. Parigi critica Bertone sui gay”, con un articolo di Hans Kung: “Benedetto XVI ha fallito, i cattolici perdono la fiducia”. Da segnalare in prima pagina anche un richiamo alle pagine R2 del quotidiano diretto da Ezio Mauro, dedicato al rapporto Ue sull’energia: “Sole, vento e auto elettriche, la ‘rivoluzione verde’ del 2050”. A fondo pagina la notizia della decisione della Corte Costituzionale sui matrimoni omosessuali: la Consulta ha respinto i ricorsi di tre coppie gay. Alla decisione della Consulta è dedicata la copertina de L’Unità: “Un altro no”.
Il Corriere della Sera: “Il leader del Carroccio parla di riforme ed economia. Vertice con Berlusconi: ‘Vogliamo le banche del Nord’. Bossi all’attacco: possibile un premier leghista nel 2013”. A centro pagina: “Berlusconi premese su Karzai. Emergency, medico sospettato per il caso Mastrogiacomo”.Articolo di ricostruzione sulle vicende Mastrogiacomo e Torsello: “Quel riscatto e i misteri”. Accanto: “Ecco le intercettazioni tra i club e gli arbitri. Inter, Milan e Roma nelle telefonate presentate da Moggi”. L’editoriale del quotidiano milanese, firmato dal professor Giovanni Sartori, è dedicato alla riforma federalista dello Stato.
La Stampa: “Kabul, si muove il governo. Berlusconi scrive a Karzai. Presto libero un volontario di Emergency. Il ministro Frattini: ‘Insoddisfatti delle risposte delle autorità afghane, ma le parole di Gino Strada non aiutano”. A firmare l’editoriale sul “drastico aggiustamento di linea” italiano è Lucia Annunziata.
In alto le parole di Bossi (“Bossi all’attacco: prenderemo le banche del Nord”), e la risposta del leader della Lega alla domanda su un possibile premier leghista (“Tutto è possibile”). A centro pagina il terremoto in Cina (“La terra trema, paura del big One”. Ci sono stati seicento morti).
Per Il Riformista Bossi “vuole pure le banche”, mentre a centro pagina ci si sofferma sulla questione Chiesa, pedofilia ed omosessualità: “Il Vaticano corregge Bertone” per le sue parole che associavano la pedofilia all’omosessualità.
Il Sole 24 Ore si occupa dell’economia greca: “L’accordo non basta, i tassi tornano al 7 per cento. L’Italia pronta a concedere in tempi stretti l’aiuto bilaterale. Dubbi sulla tenuta spagnola”. A centro pagina Bossi e le banche.
Libero: “Bossi: abbiamo una banca. I Senatur entra senza bussare nei salotti buoni. In nome del popolo, del federalismo e del potere. Le strategie dell’Umberto per un premier leghista”. A centro pagina: “Le nozze gay sono troppo anche per i giudici. Il no della Corte Costituzionale alle unioni omosessuali”.
Il Giornale: “Bossi: a noi le banche del Nord. Carroccio di lotta e di finanza. ‘Nostri uomini negli istituti più grossi. La gente ce lo chiede’”. Il quotidiano in prima pagina, con una foto di Antonio Di Pietro, racconta anche che ci sarebbe l’ombra della “pedofilia” sul delitto di un esponente politico di Italia dei Valori, ucciso in Puglia nell’estato del 2008. “La procura di Lecce si è imbattyta in un giro di presunti abusi sui minori facendo accertamenti sull’uccisione del consigliere Basile. Indagato per molestie il parroco che andava ai comizi di Idv. E Di Pietro diceva: ammazzato per le battaglie contro il malaffare”.
Il Foglio: “Così il Cav e Tremonti seguono la corsa di Draghi verso la Bce”. Secondo il Foglio la strategia è quella di “non esporre il candidato italiano con sortite estermporanee”. Sarebbe “al vaglio” l’articolo de La Repubblica di ieri che criticava il premier proprio per un presunto scarso impegno per sponsorizzare il Governatore della Banca d’Italia.
Emergency
Sulla prima pagina de La Repubblica una lettera di Gino Strada che compare sotto il titolo: “Curiamo tutti, non taceremo mai di fronte agli orrori della guerra”. L’incipit: “Caro direttore, si introducono – direttamente o con la complicità di qualcuno che vi lavora – alcune armi in un ospedale, poi si dà il via all’operazione… Truppe afghane e inglesi circondano il centro chirurgico di Emergency a LashkarGa, poi vi entrano mitragliatori in pugno e si recano dove sanno di trovare le armi. A quanto ci risulta, nessun altro luogo viene perquisito. Si va dritti in un magazzino, non c’è neppure bisogno di controllare le centinaia di scatole sugli scaffali, le due con dentro le armi sono già pronte – ma che sorpresa! – sul pavimento in mezzo al locale. Una telecamera e il gioco è fatto”.
Chiesa
Il teologo svizzero Hans Kung spiega su La Repubblica perché BenedettoXVI “ha fallito”. Molte le questioni affrontate: tra le molte cause del fallimento citate ed argomentate da Kung, è mancato il riavvicinamento alle Chiese evangeliche, è mancata la continuità del dialogo con gli ebrei e con i musulmani (“Benedetto XVI ha dato dell’islam una immagine caricaturale”), è mancata la riconciliazione con i nativi dell’America Latina, non si è colta l’opportuntà di venire in aiuto alle popolazioni dell’Africa nella lotta contro sovrappopolazione e Aids, non si è colta l’opportunità di riconciliarsi con la scienza moderna (teoria dell’evoluzione e nuove prospettive della ricerca come le cellule staminali), sono stati accolti nella Chiesa cattolica, senza precondizione alcuna, i vescovi tradizionalisti della fraternità di San Pio X.
Su Il Foglio, ritratto del cardinale Cristoph Schonborn, arcivescovo di Vienna: “le due facce di un papabile. Conservatore, riformatore”, “il vescovo che maltratta la Curia”. Ha chiesto scusa per le colpe dei pedofili nel clero facendo parlare nella cattedrale di Vienna le vittime, ha nominato una donna, l’ex governatrice della Stiria alla testa di una commissione indipendente sugli abusi sessuali dei preti nel Paese. Ha estimatori, ma anche critici in Vaticano: è stato lui a descrivere la Curia romana come spaccata in due, con da una parte coloro che fin dai tempi di Wojtyla fino ad oggi hanno lavorato per insabbiare i casi di abusi, e dall’altra coloro che si sono dati da fare per la trasparenza. Due giorni fa su La Stampa ha detto che Ratzinger, da prefetto per la congregazione della dottrina della fede, nel 1995, avrebbe voluto una commissione di inchiesta sulle accuse di pedofilia nei confronti del suo predecessore, Groer, ma fu fermato dalla Curia romana favorevole all’insabbamento.
Torniamo su La Repubblica per segnalare una intervista all’ex Presidente della Cei Camillo Ruini: “Soffriamo per i nostri peccati, ma il Papa sta facendo pulizia”. E sull’Islam: “L’attuale Papa sta dando un forte contributo al dialogo sulle religioni, evitando di incagliarsi sulle loro ineliminabili sofferenze”.
“La Francia attacca il Vaticano”, titola Il Sole 24 Ore, dando conto delle dichiarazioni fatte dal portavoce del Ministero degli Esteri, in cui si è definito un “amalgama inaccettabile” l’accostamento fatto dal Segretario di Stato Bertone tra omosessualità e pedofilia. Il quotidiano ricorda che l’anno scorso il governo francese aveva proposto una mozione per la depenalizzazione dell’omosessualità, incontrando in sede Onu l’opposizione della Chiesa cattolica.
Dello scandalo pedofilia il giurista Francesco Margiotta Broglio, secondo cui l’articolo 23 del Trattato dei Patti lateranensi potrebbe aiutare a fare giustizia. La disposizione prevede che abbiano piana efficacia giuridica, anche a tutti gli effetti civili, in Italia, le sentenze e i provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche e riguardanti “persone ecclesiastiche o religiose”.
Banche
Il Sole 24 Ore parla di una “Opa di Bossi sulle banche del Nord” e dedica una analisi agli uomini del Carroccio che sarebbero in corsa nel risiko bancario, in vista dei rinnovi ai vertici di alcuni istituti di credito. A cominciare da IntesaSanpaolo, dove poco dopo la sparata bossiana, è stato chiamato alla presidenza del Consiglio di gestione Domenico Siniscalco, che negli ultimi tempi ha ricucito i rapporti con il ministro dell’Economia Tremonti. Il sindaco di Verona Tosi, della Lega, ha ricordato che le Fondazioni devono tornare sotto il controllo del territorio e i sindaci essere determinanti negli orientamenti delle erogazioni. Se ne occupa anche La Repubblica con un commento di Massimo Riva (la campagna lumbard per i feudi del credito, “bisogna davvero risalire molto indietro nel tempo per ritrovare accenti politici di pari arroganza lottizzatoria”). Anche su questo quotidiano una panoramica sulle Fondazioni in cui ha già iniziato a pesare il Carroccio e i cda in scadenza: Cariverona nel 2010, Caritorino nel 2013, Compagnia di SanPaolo 2012, Cariplo nel 2010. Secondo un retroscena del Corriere Bossi da dieci anni accarezza questo sogno, che sarebbe stato parte del “patto segreto” Bossi-Berlusconi nel 2001. Un sogno che è passato per il fallimento della banca leghista CrediEuroNord e per la mancata riforma delle fondazioni bancarie. Ora Bossi ha deciso di aggirare gli ostacoli affidando al ministro Tremonti la regia tecnica, la triangolazione proprio con le fondazioni bancarie, che passa anche dal rinnovo di cariche importanti, come quella della Cassa depositi e prestiti.
E poi
Oggi gli inglesi vedranno il primo dibattito in tv tra i tre leader candidati al voto del 6 maggio. In diretta su Itv. Ne parla Il Riformista. Sul Sole 24 Ore, in prima pagina, un intervento del Presidente russo Dmitri Medvedev, dedicato al summit Bric (Brasile, Russia, India, Cina) che si svolgerà in Brasile oggi e domani. I Bric “premeranno per la riforma del sistema di Bretton Woods”. E “rafforzando il quadro economico del mondo multipolare, questi Paesi stanno oggettivamente contribuendo a creare le condizioni per il rafforzamento della sicurezza internazionale”. All’ultimo arrivato tra i partiti di estrema destra populista, lo Jobbik ungherese, è dedicata una analisi di Piero Ignazi su Il Sole 24 Ore (“Se ritornano i fantasmi del fascismo al gulasch”).
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15/4/2010 (7:23) – SFIDA TRA LE STELLE
Il contrordine di Obama: “Torneremo nello spazio”
Oggi il discorso a Cape Canaveral: meno tagli e astronavi costruite dai privati
MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK
Un nuovo veicolo spaziale spinto da razzi costruiti da aziende private, tecnologia robotica per portare l’uomo a sbarcare su Marte e la ristrutturazione del Kennedy Space Center entro il 2012 con la conseguente creazione di almeno 2500 posti di lavoro: sono questi i perni del piano di Barack Obama per il rilancio della Nasa che verranno annunciati domani con un brusco cambio di marcia rispetto agli orientamenti dello scorso anno, quando la Casa Bianca si era limitata a cancellare il programma «Constellation» ereditato da George W. Bush.
Ad anticipare le intenzioni del presidente americano sono alcuni alti funzionari dell’amministrazione assieme a Pete Worden, direttore del centro di ricerca della Nasa a Ames, di base San José in California. «La scelta di fondo sta nell’affidare a imprese private la costruzione e lo sviluppo dei razzi» spiega Worden, sottolineando come ciò comporterà significativi risparmi economici per le casse federali oltre al fatto di «ridurre la dipendenza dai vettori russi» che invece era connaturata alla struttura di «Constellation». «Il programma che Bush ci aveva lasciato in eredità comportava il versamento di ingenti risorse all’Agenzia spaziale russa per sfruttare i loro vettori al fine di esplorare il Sistema Solare – osserva un alto funzionario dell’amministrazione chiedendo l’anonimato – ma ciò ci avrebbe reso, nel lungo termine, dipendenti da Mosca. Invece la formula che illustrerà il presidente Obama appoggerà la Nasa alle risorse delle industrie nazionali americane». Affidare ai privati la realizzazione dei nuovi razzi significa per l’amministrazione Obama anche puntare a favorire lo sviluppo del settore turistico-spaziale, con ricadute positive in prospettiva sulla creazione di manodopera.
Senza più l’onere di doversi occupare di vettori e propellenti, l’Agenzia spaziale riceverà nei prossimi cinque anni almeno 3 miliardi di dollari pubblici che andranno a finanziare la ricerca per la realizzazione della navetta spaziale che sostituirà lo Shuttle, al quale rimangono solo tre missioni da compiere ed è dunque oramai prossimo al pensionamento. «Disegneremo un veicolo di nuova generazione che consentirà all’uomo di raggiungere un certo numero di posti nel Sistema Solare» assicura Worden, includendovi anche Marte. Obama dunque non rinuncia all’obiettivo dell’esplorazione umana del Sistema Solare ma punta a riuscirci scaricando una parte importante dei costi sull’industria privata, alla quale – secondo alcune indiscrezioni – verrà chiesto di sviluppare «razzi pilotati da uomini».
Nelle anticipazioni non c’è invece traccia del progetto di creare una base permanente sulla Luna – che Bush aveva ipotizzato come trampolino logistico verso Marte – mentre del programma «Constellation» ciò che sopravvive è la capsula «Orion» anche se con mansioni ridotte perché sarà destinata ad essere adoperata esclusivamente come veicolo di emergenza per abbandonare una stazione spaziale oppure come vettore per testare la tecnologia necessaria a realizzare il successore dello Shuttle. «Si tratterà in gran parte di tecnologia robotica» assicurano fonti della Nasa, lasciando intendere che a questo filone di ricerca scientifica sarà destinata buona parte degli investimenti federali.
Il secondo pilastro del piano-Obama riguarda la ristrutturazione del Kennedy Space Center con lo stanziamento di 6 miliardi dollari nei prossimi 5 anni per realizzare tecnologie e infrastrutture capaci di rimodernare il quartier generale dell’Agenzia spaziale portando alla creazione di almeno 2500 posti di lavoro, per fare in qualche maniera fronte ai 7000 che andranno perduti a causa del taglio dello Shuttle. C’è infine un altro tassello del nuovo programma spaziale del governo che ha a che vedere con il luogo dove la Nasa effettuerà molti test perché ad affiancare i deserti dell’Ovest ci saranno anche le isole delle Hawaii. L’accordo è stato siglato nei giorni scorsi fra la Nasa e il governatore delle Hawaii, Linda Lingle, secondo la quale «posizione geografica e caratteristiche fisiche» fanno delle isole natali di Obama «una straordinaria risorsa logistica per l’esplorazione del Sistema Solare».
Se in passato le Hawaii ospitarono i test delle passeggiate lunari degli equipaggi dell’Apollo e le acque circostanti accolsero l’ammaraggio delle capsule al ritorno dalla Luna, i progetti in arrivo «promettono di portarci all’avanguardia della ricerca scientifica nel mondo» assicura la Lingle, guardando con favore anche alle «positive conseguenze economiche che ciò avrà per noi».
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201004articoli/54125girata.asp
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Una corsa che si deve vincere, 15.04.2010
NEIL ARMSTRONG, JAMES LOVELL, EUGENE CERNAN
Gli Stati Uniti sono entrati nella sfida dell’esplorazione dello spazio quando il presidente Eisenhower era al suo primo mandato e tuttavia a quell’epoca era l’Unione Sovietica a primeggiare. Grazie alla visione audace dei presidenti Kennedy, Johnson e Nixon e accompagnati dall’entusiastico consenso del popolo americano noi riguadagnammo terreno fino a guidare nell’ultimo terzo del 20° secolo la corsa all’esplorazione spaziale.
Quando recentemente il presidente Obama ha discusso il budget della NASA ha proposto un leggero incremento del finanziamento complessivo, lo sviluppo nei campi della ricerca e della tecnologia, l’estensione dell’operatività dell’Iss – l’International Space Station – fino al 2020, un piano a lungo termine per un nuovo ma non ancora ben definito sistema di razzo da trasporto e stanziamenti significativi per lo sviluppo dell’accesso commerciale alle rotte orbitali a bassa quota. Benché alcune di queste proposte siano meritevoli, la concomitante decisione di cancellare il programma Constellation con i propulsori Ares 1 e Ares V e l’astronave Orion, è devastante. La sola via per l’America alla circumnavigazione terrestre a bassa quota e alla stazione Iss ora sarà soggetta a un accordo con la Russia per l’acquisto di spazio sulle loro Soyuz (a un prezzo di oltre 50 milioni di dollari per ogni posto con la prospettiva di aumenti significativi nell’immediato futuro) fino a quando non saremo autosufficienti.
La realizzazione di un sistema di trasporto commerciale orbitale come previsto nel piano del presidente non può essere fissata in modo certo ma è probabile che richiederà lungo tempo e che sarà più costosa di quanto vorremmo. E così avremo sprecato l’investimento di oltre dieci miliardi di dollari per la Constellation e, cosa non meno grave, avremo perso i tanti anni necessari per ricreare l’equivalente di quello che abbiamo buttato via. Per gli Stati Uniti, la nazione che per quasi mezzo secolo ha condotto la corsa allo spazio, trovarsi a tempo indeterminato senza mezzi di trasporto per la circumnavigazione orbitale e senza la capacità di mandare esploratori oltre l’orbita terrestre, significa ridursi a un ruolo di secondo o terzo piano.
Benché il piano del presidente Obama preveda nel futuro viaggi nello spazio compiuti da esseri umani oltre la Terra e forse anche verso Marte la mancanza di vettori adeguati e di astronavi ci priverà di questa possibilità per molti anni a venire. Senza la capacità e l’esperienza garantite dall’attuale progettazione gli Usa sono con ogni evidenza avviati a una inarrestabile discesa verso la mediocrità. L’America deve decidere se vuole conservare il ruolo di leader dell’esplorazione spaziale. Se è così allora deve avere un programma che ci garantisca le migliori condizioni per raggiungere l’obiettivo.
TRADUZIONE DI Carla Reschia
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Gay-Vaticano: Francia guida le proteste mondiali, 14.04.2010
La Francia ha condannato “l’amalgama inaccettabile” tra pedofilia ed omosessualità nelle parole del segretario di stato Tarcisio Bertone. Parigi ricorda che è la seconda volta in pochi mesi che si trova a protestare con il Vaticano a tutela dei gay e ribadisce “il suo impegno nella lotta alle discriminazioni ed ai pregiudizi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere
La Francia ha condannato “l’amalgama inaccettabile” tra pedofilia ed omosessualità nelle parole del segretario di stato Tarcisio Bertone. Alle parole del portavoce del ministero degli Esteri francese, Bernard Valero, in una conferenza stampa a Parigi, ha subito replicato il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, chiarendo – senza nessuna ambiguità – che il Vaticano non si sente competente nelle valutazioni mediche e che i dati ai quali si riferiva il porporato a Santiago del Cile riguardano solo l’universo – statisticamente molto limitato – degli abusi commessi da religiosi cattolici: dai dati statistici della Chiesa Statunitense risulta infatti che il 60 per cento degli abusi di preti su minori e’ compiuto da sacerdoti omosessuali.
Parigi ricorda però che è la seconda volta in pochi mesi che si trova a protestare con il Vaticano a tutela dei gay e ribadisce “il suo impegno nella lotta alle discriminazioni ed ai pregiudizi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere”. L’anno scorso c’erano state forti proteste in tutto il mondo per le dichiarazioni dell’osservatore permanente del Vaticano presso le Nazioni Unite, Celestino Migliore, che aveva annunciato la volontà della Santa Sede di dissociarsi da una mozione per la depenalizzazione universale dell’omosessualità, promossa dallo stesso Governo Francese. “Occorre ribadire con chiarezza – aveva dichiarato in quel caso padre Lombardi – che la Chiesa sostiene la depenalizzazione dell’omosessualità ma è contro l’intenzione di porre sullo stesso piano ogni orientamento sessuale”. Da parte della Chiesa c’era in quel caso anche il timore che si potesse far passare poi l’opposizione al matrimonio e alle adozioni gay – tema oggi di attualità in Italia per la sentenza della Consulta – come una forma di discriminazione da perseguire penalmente.
Alle parole di Bertone hanno replicato prontamente – con dichiarazioni di fuoco – le associazioni gay in tutto il mondo, comprese quelle del Cile, dove il cardinale era in visita. E in modo inaccettabile hanno reagito alcuni attivisti in Germania e a Malta, che si sono dedicati a imbrattare con la vernice i cartelli che salutano l’arrivo del Papa sabato prossimo sull’Isola e la sua casa natale in Baviera.
“Ogni accostamento tra omosessualità e pedofilia è indebito e pericoloso”, ha sottolineato da parte sua Walter Veltroni che invita la Chiesa a prendere consapevolezza che “una cosa è la pluralità e la libertà degli orientamenti sessuali e ben altra cosa è la sopraffazione e la violenza verso chi, in primo luogo i bambini, non ha gli strumenti e la forza per difendersi da un abuso. E dovremmo fare tutti molta attenzione – dice l’ex leader del Pd – a non far cadere semi su un terreno, quello della discriminazione e dell’intolleranza, che purtroppo è sempre molto fertile”.
(agi)
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14636
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L’idrogeno di domani? Dal sole e dall’acqua, 14.04.2010
L’idrogeno solare cambierà il futuro del pianeta. I ricercatori greci guidati da Athanasios Konstandopoulos e quelli italiani del Polo fotovoltaico della Sicilia, coordinato da Mario Pagliaro dell’Istituto dei materiali nanostrutturati (Ismn) del Cnr, ne sono certi. L’idrogeno è l’elemento più abbondante in natura, ma non è mai presente allo stato puro: appare sempre legato ad altre sostanze dalle quali, per poter essere utilizzato come fonte energetica, deve essere separato.
Nel nostro pianeta, il più comune legame chimico dell’idrogeno è quello con l’ossigeno, nella molecola dell’acqua (H2O). E proprio la trasformazione dell’acqua in fonte di energia mediante la separazione dell’idrogeno è l’obiettivo di due tecnologie a energia solare. “In entrambe i casi a rendere possibile il processo a costi finalmente convenienti è la nano chimica”, spiega Mario Pagliaro. “Possiamo già produrre energia motrice ‘on-demand’ per imbarcazioni, piccoli aerei e automobili, mediante pannelli fotovoltaici e un elettrolizzatore di platino con cui l’idrogeno liberato è bruciato come combustibile”.
In commercio già esiste una barca a idrogeno, il Frauscher Riviera 600, che si ricarica a stazioni fotovoltaiche di idrogeno solare. Per la produzione massiva necessaria per alimentare complessi industriali o centri abitati, invece, la tecnologia è in fase di sviluppo.
“Per produrre idrogeno con efficienza elevata”, prosegue Pagliaro, “si usano ‘specchi speciali’ (eliostati), che concentrano tutta la radiazione solare su un innovativo nanomateriale catalitico, che riscaldato a 800 °C, scinde la molecola dell’acqua nelle sue due componenti e permette di ottenere, come ‘sottoprodotto’, anche ossigeno per una molteplicità di usi: dall’industria agli ospedali”.
La nanochimica ha reso possibile la sintesi a basso costo dei materiali funzionali a queste tecniche. “Nel corso degli ultimi 18 mesi”, aggiunge il ricercatore dell’Ismn-Cnr, “il prezzo dei pannelli solari è sceso da 6 euro a meno di uno a Watt e si è riusciti a ridurre di 8 decimi la quantità di platino, il componente più costoso utilizzato nel catalizzatore per l’elettrolisi dell’acqua. Si stima che entro tre anni il prezzo dell’elettricità generata dall’idrogeno sarà inferiore a sei centesimi di euro per kWh”.
La Sicilia, terra di sole e mare, pare essere la sede ideale per lo sviluppo di queste nuove opportunità di sviluppo sostenibile. Non a caso, ‘L’energia solare. Adesso’ è il motto scelto per la ‘Sun New Energy Conference and Exhibition (SuNEC)’ in programma in Sicilia dal 13 al 15 ottobre 2010. Tra le tematiche della conferenza, l’idrogeno solare, le nuove tecnologie del fotovoltaico e il solare termico.
Per saperne di più: Mario Pagliaro, Nano-Age: How Nanotechnology Changes our Future, Wiley, (in uscita a Luglio 2010) (ISBN: 978-3-527-32676-1)
Claudio Barchesi
Fonte: Pagliaro Mario, Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati, Palermo, tel. +39 091 6809 370, email mario.pagliaro@ismn.cnr.it
http://www.almanacco.cnr.it/reader/cw_usr_view_articolo.html?id_articolo=546&giornale=588
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Innovazione, la strada del successo, 14.04.2010
“Questo premio è senz’altro un traguardo significativo per il Gruppo che rappresento, ma è anche un’importante riconoscimento all’Italia che innova”. Si schermisce, Mario Moretti Polegato, sul premio ‘Innovatore dell’anno’, ricevuto a Londra dopo una selezione tra oltre 200 aziende di tutto il mondo: la sua Geox è stata considerata quella più tecnologicamente all’avanguardia. Un primato difficile da contestare per un gruppo passato, in quindici anni, da cinque persone a trentamila addetti, interni o esterni, e per un uomo che ha inventato un sistema di traspirazione delle calzature che lo ha reso il secondo industriale al mondo nel settore.
Un risultato ottenuto, tra l’altro, partendo da un percorso professionale molto diverso e grazie a un investimento in ricerca del 2% del fatturato (che è di 860 milioni di euro), cioè la quota indicata a Lisbona come media per gli imprenditori dell’Unione Europea, ma dalla quale i ‘privati’ di casa nostra sono abissalmente lontani. Quanto Mario Moretti Polegato sia vicino alla ricerca lo ha confermato anche facendo visita al Cnr, dove ha tenuto una lectio magistralis ai ricercatori impegnati nel trasferimento tecnologico.
Modestia a parte, l’Innovator of the Year è un riconoscimento di grande importanza.
È un grande premio per nostra azienda, per tutti quelli che lavorano ai nostri progetti, per i ricercatori nostri partner negli enti e nelle università italiane e straniere. Noi abbiamo anticipato il concetto di innovazione come base del made in Italy. D’altronde un imprenditore non si adatta al sistema, lo anticipa, e noi con la nostra scarpa, più che un’innovazione, abbiamo fatto una rivoluzione.
In un Paese dove le aziende in media investono in ricerca e sviluppo lo 0,4% del Pil.
È vero, ma non dobbiamo dimenticare che l’italiano è un creativo, ha la fantasia nel Dna, anche quando fa il poeta, l’artista, lo dimostra la nostra storia. Ci manca però la capacità di gestire questa creatività e qui devono intervenire i soggetti istituzionali: la formazione, le categorie, la politica.
Eppure, per un Paese votato al manifatturiero, la competitività può passare solo per l’innovazione, non crede?
Certamente: non possiamo più affrontare la concorrenza a colpi di prezzi, dobbiamo dare valore aggiunto al prodotto. Innovare è l’insieme di tre fattori: si parte col sogno, cioè creare o modificare un oggetto, poi bisogna tutelare la propria idea a livello brevettuale – e questo spesso è già un tabù per i piccoli e medi imprenditori – e infine sperimentarla. Qui, di nuovo, il singolo imprenditore non ha quasi mai la forza finanziaria e la capacità culturale necessarie e allora deve intervenire la collaborazione col mondo della ricerca e delle università.
Dunque pensa sia preferibile creare una filiera tra imprese e ricerca, più che innovare direttamente in azienda?
È una deduzione logica. Ma un’altra questione è prioritaria in questo momento: come coinvolgere la politica? Come ottenere che si aiuti il Paese mediante la formazione dei giovani, che sono i più ricchi di idee, senza dare i pochi aiuti a pioggia?
Forse la formazione è ‘bloccata’ anche dalla vecchia rivalità tra sapere umanistico e scientifico?
Io credo che colui che inventa, crea, innova non abbia un’appartenenza in un senso o nell’altro. È importante sia comprendere l’importanza di dare ai nostri figli un titolo di studio, sia rendere sempre di più le aziende agenzie culturali. Anche l’innovazione industriale è cultura, un’idea vale più di una fabbrica.
Il suo successo può testimoniare che l’innovazione paga in termini di bilancio?
Per aiutare le aziende e combattere la crisi economica sostenere l’innovazione d’impresa serve più che abbassare la pressione fiscale. Ma serve anche la capacità di credere e rischiare, perché non tutti i progetti riescono, spesso anche noi portiamo avanti dei progetti per poi renderci conto che dobbiamo cambiare percorso.
Lei come andava a scuola nelle materie scientifiche?
Ho avuto una vita di studente particolare, cominciata in un collegio religioso molto rigido. Poi ho studiato Agraria, per la precisione enologia, perché la mia famiglia ha un’aziende vinicola, ma capivo che non era l’ambiente per me. Soltanto a quel punto ho cominciato ad avvertire il fascino della ricerca e a studiare: per accorgermi di quanto sono ignorante, come suol dirsi. Non avevo mai studiato Scienza dei materiali, in cui adesso ho ricevuto una laurea honoris causa all’Università di Venezia…
Una ricerca che le piacerebbe arrivasse a compimento, in un settore diverso dal suo?
Nel campo della medicina e della farmacologia, certamente, per allungare ulteriormente la speranza di vita. Poi, accanto a questo obiettivo primario, c’è quello di migliorarne le condizioni e in questo anche noi possiamo dare un contributo nel campo che ci compete. Non vogliamo solo portare la moda italiana nel mondo.
Marco Ferrazzoli
http://www.almanacco.cnr.it/reader/cw_usr_view_facciaafaccia.html?giornale=588
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«Abortirai con dolore». Le mie 100 ore di strazio tra leggi e obiettori, 10.04.2010
Ore 9.00. Giovedì 25 marzo 2010. Appuntamento in un ospedale cattolico di Roma per l’ecografia morfologica al quinto mese di gravidanza. Arriviamo nella piena spensieratezza. Alle 9.30 ci chiamano e inizia la pratica dell’ecografia con l’invito del medico a “svuotare la vescica”. Da questo momento la mia vita non sarà più la stessa. La vita non è mai la stessa, di volta in volta, di respiro in respiro. Ci sono volte però in cui la vita si ferma, si spezza. Il feto è “malconcio”, non si è sviluppato il cervelletto, tetralogia di Fallot e altro. “Correte al San Camillo”. Ventiduesima settimana. Siamo strettissimi per i tempi legali dell’aborto terapeutico ammesso in Italia entro la ventiquattresima settimana. Per chi ne resta fuori un’alternativa è la Spagna. Esco dall’ospedale e dopo mesi che non lo faccio mi accendo una sigaretta e la fumo tremando. La nostra via crucis è iniziata.
Al San Camillo andiamo diretti agli uffici addetti alla 194. Non ci sono responsabili che firmino il ricovero e l’accettazione della “pratica”, non ce ne saranno fino a lunedì. Per ora non capisco bene cosa voglia dire, lo capirò nei prossimi giorni, quando mi imbatterò nel sistema intermittente “obiettori-non obiettori”, quindi nell’applicazione zoppa della 194, che prevede la costante presenza di non obiettori nei luoghi in cui la legge viene applicata. Si aprono le ipotesi, tutte fuori dal San Camillo: il Grassi di Ostia, il San Filippo Neri di Roma. Acquisisco il dato e mi incammino verso il San Filippo Neri. Sono le 13.30 del 25 marzo.
Le infermiere aprono la cartella. La ginecologa ha finito il turno, ma riescono a recuperarla nei corridoi e la portano nella stanza in cui mi trovo. “Se sei un obiettore con te non ci parlo”. E’ il segnale che inizio ad avere paura. Mi prende per un braccio, caccia via tutti e mi invita a sedermi. Erre francese, bella donna, adulta, umana, empatica. Scoprirò poi, con un sorriso, di chi si tratta. “Non si metta mai di traverso agli obiettori. Lo dico per lei […] Sta per affrontare un’esperienza più grande di lei […] Stiamo per fare una cosa contro, contro natura. Indurremo il parto e aspetteremo le contrazioni. Metteremo una prima candeletta (il termine sta a indicare l’ovulo vaginale di stimolazione del parto) ma non basterà. Dopo dieci ora inseriremo la seconda candeletta e forse neanche questa basterà”. Vi ricordate la canzoncina “Un elefante si dondolava…”?
“Voglio essere addormentata e risvegliarmi quando tutto è finito.” “In Italia non è possibile anestetizzarla e aspirare il feto.” Per ora penso che il sistema adottato in questo paese sia solo una crudeltà nei miei confronti.
Alle 14.30 scendo di due piani. Reparto pichiatria. Ho bisogno di un certificato che dichiari la mia inabilità psichica a sostenere una maternità come quella che mi è capitata. Il colloquio è una formalità, o meglio, un’ipocrisia. Posso scegliere, e d’altronde nessuno mi ha messa di fronte alla scelta, nemmeno l’ecografista; in realtà però non è che io sia proprio libera di scegliere. Libera di riconoscermi matta. Meno male che da giovane ho letto Foucault. Esco col mio certificato e lo consegno al reparto Ostetricia Ginecologia. Il ricovero è previsto per l’indomani mattina. Torno a casa ed è quasi sera. Mi aspetta la prima delle notti senza sonno. Senza tutto. La mattina dopo io e il mio compagno (rinominato marito in ospedale. Tutti i miei principi, le mie idee su convivenza e matrimonio vanno a farsi friggere e sinceramente non me ne importa niente. Non ribatto nemmeno una volta) prendiamo il trenino che ci porta proprio di fronte al San Filippo Neri. Siamo puntualissimi ma questo serve a poco.
Il medico che mi ha accolta il giorno prima non è di turno. Aspetto che si liberi un letto e non è detto che vada tutto liscio: se arrivasse una partoriente mi scavalcherebbe nel sistema dei codici rosso giallo verde che quasi tutti abbiamo sperimentato al pronto soccorso. Dopo ore di attesa, alle 16.00 del 26 marzo mi ricoverano. Sto tremando, ma non è ancora tempo. Il medico di turno è un obiettore, non inizierà la stimolazione del parto. Dovrò aspettare la sera, quando di turno sarà la ginecologa incontrata il giorno prima, la donna dalla erre francese. Il mio letto si trova nel reparto di Ginecologia, un proseguimento di quello di Ostetricia, due luoghi che si mescolano e si confondono anche nella sistemazione delle pazienti. Mi aggiro tra donne al nono mese in dolce attesa. Meno male gli amici, le amiche, gli affetti che restano fino a tardi con me, quando chiedo di avere un ultimo colloquio con un ecografista. Sono le 22.30 e io e il mio compagno veniamo ricevuti da quello che soprannominiamo Dottor House.
Diretto, quasi crudo, mentre parla mi dà l’idea che nonostante tutto la vita ancora lo appassioni. “Qui arrivano coppie che pensano che il prodotto del loro concepimento sia il migliore del mondo. Ma la vita è una questione di culo.” Sfoglia il referto ecografico. “Quando c’è un tale casino la causa è sempre una cazzata. Non è mai genetica.” La cosa mi rincuora e allo stesso tempo mi mette di fronte alla fragilità dell’esistente, del mio intimissimo esistente. Usciamo dal suo studio e inizia la stimolazione del parto. Non ho scelta, e in questo forse sono stata fortunata. Mai come questa notte l’ho sentito muoversi dentro di me. Faccio finta di non sentirlo, e non è facile perché l’ho amato con tutto il mio cuore. Il mio compagno torna a casa a riposare un po’. Mi addormento anche io e alle 3.00 mi sveglio con i primi dolori, comincio ad aggirarmi per l’ospedale, da una corsia all’altra, da un corridoio all’altro, fino alla mattina.
Mi tengono a digiuno e applicano la seconda candeletta. La ginecologa non obiettrice che prosegue la stimolazione del parto è di turno fino alla sera, mi sistema in sala parto e si prende cura di me; le seguirà un medico obiettore, cioè se la stimolazione non sarà stata sufficiente dovrò resistere ai dolori delle contrazioni che non si fermeranno e aspettare che arrivi il turno di un nuovo non obiettore. Per me il tempo si sospende. Lentamente vado in trans e tutto il mondo si chiude nel cerchio di ciò che sto vivendo. Arriva l’obiettore ma io ho “fortuna”. Le due candelette sono sufficienti e alle 2.15 avviene “l’espulsione”. Poi il raschiamento, poi crollo e mi addormento fino alla mattina. Tutto è finito, ma i termini legali dell’operazione rimandano le mie dimissioni a 24 ore dalla piccola anestesia fattami per il raschiamento. Ho perso il mio vecchio letto in Ginecologia e vengo sistemata in Ostetricia, cioè dormirò insieme alle puerpere. Sono incazzata nera e voglio firmare, ma la fortuna mi abbandona e mi capita una ginecologa di turno che senza ammettermi a colloquio fa sapere all’infermiera che non posso andarmene dall’ospedale per un’ecografia che in realtà non devo fare. Ha da passa’ la nottata e la nottata passa. Il giorno dopo, finalmente, torno a casa. E’ lunedì 29 marzo.
Nei giorni che seguono scopro chi è la ginecologa dalla erre francese che mi ha accolta e ha messo a disposizione la sua umanità e la sua professionalità nel sistema delle disfunzioni dell’applicazione della 194. Mirella Parachini, una donna che dagli anni settanta lavora in difesa della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. Per quanto mi riguarda, penso che il sistema italiano di aborto terapeutico sia stato per me la via migliore, perché non ho dormito, sono rimasta lucida, l’ho fatto io, ne sono stata consapevole, col corpo e con la mente. Eppure, mi chiedo, se una donna fosse davvero psichicamente inabile a sostenere una maternità insostenibile, come è possibile chiederle di sostenere lucidamente, col corpo e con la mente, un dolore come quello che ho affrontato io? Le mie riflessioni sull’interruzione di gravidanza non si fermeranno qui, continueranno a fare i conti con le contraddizioni umane, sociali, sanitarie, ideologiche, politiche. Mi domando: non bastava il mio intimo strazio? Disfunzioni e contraddizioni sulle carne viva. La mia e non solo.
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Pillole, corpi e donne. 14.04.2010
Di Claudia Mongini http://www.claudiamongini.net/
Tre recenti categorie di notizie continuano, un po’ ossessivamente, ad occupare i miei pensieri.
1) La strumentalizzazione cattoleghista seguita all’avvio della legalizzazione della RU 486.
La sceneggiata di Cota e Zaia e’ stata ufficialmente ritrattata, ma intanto i due hanno raggiunto il loro obbiettivo di incidere la loro propaganda biopolitica nella mentalita’ collettiva, giusto quando il fresco risultato elettorale faceva folgorare la luce mediatica sul novello palcoscenico padano.
2) La storia personale di Monica Micheli su “gli Altri” del 9 Aprile, che ci racconta quello che a livello di instituzione ospedaliera e’ accaduto nel e sul suo corpo durate una pratica di aborto. (http://www.glialtrionline.it/home/2010/04/10/%C2%ABabortirai-con-dolore%C2%BB-le-mie-100-ore-di-strazio-tra-leggi-e-obiettori/)
3) La sempre piu’ ridotta presenza femminile sullo scenario politico nazionale, dopo la recente ripetuta vittoria della destra.
Cerchero’ di spiegare che cosa mi porta a connettere queste notizie che, seppur diversificate tra di loro, mi sembrano indizi di una condizione generalizzata in cui il corpo e l’immaginario femminile vengono proiettati.
E’ sintomatico che l’attacco leghista alla pillola abortiva sia basato sulla critica che questo metodo permetterebbe alla donna di interrompere la gravidanza con maggiore “leggerezza”.
Si tratta del contrario. A differenza dell’ aspirazione chirurgica che viene svolta sotto anestesia ed in una tempistica rapida (pochi minuti), la pillola permette alla donna di elaborare la sua esperienza in forma consapevole, attraverso un processo che si estende per parecchie ore. E’ cioe’ un espediente che permette alla mente di registrare l’esperienza corporea mentre la donna si trova in una condizione emozionale che, qualunque sia la casistica specifica, esula comunque dalla quotidianita’.
Non sono interessata a farmi paladina di un metodo abortivo piuttosto che di un altro, ma partire da queste vicende per puntare l’attenzione su come la semiotica politico-mediatica travisi ed in parte l’esperienza corporea reale del femminile (se non arriva ad annichilarla del tutto).
Un discorso simile si puo’ fare a riguardo della storia di Monica. Qui la pillola non centra, visto che lei si e’ trovata a dover abortire al quinto mese dopo che le era stata notificata una malformazione al feto. (La pillola puo’ essere utilizzata solo fino al secondo mese). Anche qui pero’, le vicende personali che lei ci racconta, esulano completamente dalla disputa astratta fra obiettori e non obiettori su quello che e’ considerato “etico”. D’altra parte pero’, sono proprio queste dispute astratte a regolare la presenza o meno di ginecolog* non obiettori nelle strutture ospedaliere e di conseguenza determinare le condizioni di praticabilita’ dell’aborto.
Se la tendenza della politica, soprattutto quella di destra, continua furiosamente a negare l’esperienza del femminile, non diventa poi un caso che la presenza femminile si riduca. Piu’ specificatamente siamo di fronte alla situazione del gatto che si morde la coda, visto che la diminuita presenza femminile (se si esclude coloro che si sentono a loro agio in un governo che qualifica le donne in relazione al loro grado di “gnocche”), ha come conseguenza un’ulteriore svalutazione esperienziale.
Forse un’ uscita da questa impasse (se ancora di una possibilita’ si puo’ trattare) consiste in una (rinnovata) asserzione della relazione fra divenire politico della donna ed il divenire corpo-donna.
Con questo ragionamento non intendo riproporre l’equazione “il personale e’ il politico”. Il risultato delle ultime elezioni ne ha per certi versi dimostrato il fallimento. O per lo meno, ha reso manifesto come la destra sia stata in grado di impossessarsi di questa semiotica, rigirandola a suo favore. Se “il partito dell’Amore” non ne e’ necessariamente uscito vincitore, l’allargata “Coalizione dell’Amore” lo e’ stata, eccome. L’asse Cota-Zaia-Bertone che, al nascere della nuova Padania, osannano “la vita” osteggiando “leggi ingiuste” come la 194, ne e’ la manifestazione palese.
Non dimentico assolutamente come la logica del personale sia stata portata avanti, negli ultimi mesi, da donne coraggiose che hanno cercato di mostrare come la dimensione pubblica della (questionabile) politica dei loro mariti, amanti e compagni sia necessariamente interrelata e prodotta dalla loro vita privata, da un rapporto di basilare disuguaglianza fra i sessi (e, aggiungerei di sfruttamento). Mi chiedo pero’ che cosa da questi atti libertari ne sia alla fine scaturito. Se cioe’ l’attuale convoglio mediatico non abbia ri-semiotizzato tali gesta audaci ed in tal modo rinvigorito ancora di piu’ una politica maschile fondata sul disprezzo e l’ oltraggio delle donne. E del loro corpo.
E allora, visto che nell’era di facebook e twitter la soluzione non puo’ essere nemmeno quella di un ritorno alla serena dimensione del logos ateniese che esula completamente dall’intimita’ della sfera passionale dell’ oikos, e’ il caso, forse, di partire proprio dal’oggetto-soggetto del disprezzo: dal corpo femminile, nella sua nuda e cruda fisicita’. Dalle sue palpitazioni e mutazioni, dai suoi stati viscerali. Dai suoi traumi. Dai suoi scontri di petto con istituzioni regolate da una logica maschile e conservatrice, come la storia di Monica ci testimonia. In poche parole, proprio da quello che la discussione politica recente (e non), ha dimostrato di voler bandire a tutti i costi: il peso del corpo femminile.
Dar peso ad un corpo, significa pesarlo nella sua essenza fisica, come Jean Luc Nancy sostiene nel suo bellissimo saggio Corpus. Si tratta di un pensare i corpi pesandoli, di concepirli a partire dalla loro materialità, in una dimensione che fuoriesce quella della limitata cognizione razionale. E` proprio pesando i corpi che li si crea. E si esula dalla vuota parlata su di essi.
In altre parole, l’ esperienza vissuta con, tramite e dal corpo, a puo’ portare all’individuazione di un campo emozionale da cui scaturisce un nuovo modo di essere, un altro modo di affermarsi, e come possibile futura conseguenza, l’appropriazione di un linguaggio che fuoriesca dalla strettoia dettata dalla sfera semiomediatica contemporanea. L’uscita dal tunnel del disprezzo del corpo puo’ provenire solo a partire da un amore che parte dal corpo. Da quello che il corpo e’ e sa fare nella sua congiunta affermazione fisica e mentale. Un amore che non ha niente a che vedere con la vuota totalita’ proclamata da B. ma che agisce nel limite della sua specificita’. Ed agendo, crea e congiunge nuove dimensioni.
Se la donna oggi viene scansata, alienata ed oltraggiata, facciamola ri-emergere come donna-corpo.
Prelevato da Facebook
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energia, liberalizzazioni, privatizzazioni, ricerca di Alessandro Sterlacchini
Le grandi dell’energia non fanno ricerca, 07/04/2010
L’emergenza energia ha bisogno di forti investimenti nella ricerca. Ma questi sono crollati in tutto il mondo, con la privatizzazione delle relative aziende
Che la crescente domanda mondiale di energia si stia scontrando con vincoli di offerta è un fatto da tempo acclarato. Non a caso, il controllo delle fonti energetiche è stato ed è tuttora all’origine di gran parte, se non della totalità, dei conflitti internazionali. Un secondo, rilevante vincolo con cui confliggono i maggiori consumi energetici è la qualità globale dell’ambiente. A meno che non si accetti che il prezzo dell’energia continui a salire, le tensioni con l’offerta e l’ambiente non possono che essere risolte da un’ondata di innovazioni tecnologiche rilevanti. Queste ultime dovrebbero concentrarsi, da un lato, sulle nuove fonti di energia e, dall’altro, sull’uso più efficiente e la riduzione degli impatti ambientali delle fonti esistenti. Su questo fronte vi sono stati indubbi progressi, ma la difficile sfida tecnologica e la portata globale del problema impongono uno sforzo assai maggiore, soprattutto in termini di investimenti in ricerca e sviluppo (R&S).
Purtroppo, quello che è avvenuto negli ultimi decenni è esattamente il contrario. Se si guarda all’esperienza dei paesi avanzati, la riduzione delle spese in R&S nei settori energetico ed elettrico è stata drammatica. Tra il 1990 e il 2004, sia negli Usa che nell’Unione europea, la flessione in termini reali è stata di circa il 40%. Pur considerando che anche i contributi pubblici sono diminuiti, la maggiore responsabilità di questa débacle va imputata alle imprese che producono e distribuiscono energia elettrica: i loro investimenti in R&S si sono ridotti del 70% negli Usa, del 60% in Europa e, tra il 1995 e il 2004, di circa il 40% in Giappone.
Tale fenomeno è essenzialmente dovuto ai processi di deregolamentazione, privatizzazione e liberalizzazione dei mercati dell’elettricità che, seppur con intensità e tempistiche diverse, hanno riguardato tutti paesi sopra menzionati. Il semplice annuncio della liberalizzazione (che poi una maggiore concorrenza si sia effettivamente esplicata è tutto da dimostrare) ha fatto sì che le imprese elettriche private o in via di privatizzazione depotenziassero fino a smantellarli i loro laboratori o dipartimenti di R&S. Chiaramente, i progetti di ricerca che sono stati pressoché azzerati sono stati quelli a lungo termine, più ambiziosi e rischiosi, vale a dire proprio quelli di cui il sistema avrebbe avuto bisogno per far fronte alle carenze di offerta e all’emergenza ambientale.
A conferma del ruolo giocato dalle scelte pubbliche orientate alla privatizzazione, da una recente analisi che ho condotto emerge che, tra le prime 10 imprese nel mondo per produzione e distribuzione di energia elettrica, le uniche che non hanno ridotto gli investimenti in R&S sono quelle rimaste saldamente in mano pubblica (Electricité de France, la svedese Vattenfall e Hydro-Québec in Canada). Enel, seppur detenuta al 30% dal governo italiano, si è comportata peggio delle altre imprese private, riducendo, tra il 2000 e il 2007, le spese di ricerca da 124 a 29 milioni di euro. In teoria, le attività di R&S abbandonate da Enel avrebbero dovuto essere finanziate dagli utilizzatori finali tramite un adeguamento delle tariffe elettriche ma, in realtà, le risorse reperite in questo modo (58 milioni nel 2007) non hanno affatto compensato la riduzione. Il risultato è che in Italia, rispetto al 2000, si destina circa il 30% in meno alla ricerca a vantaggio del sistema elettrico. In modo più o meno accentuato, lo stesso fenomeno è avvenuto nei numerosi paesi in cui non operano imprese elettriche pubbliche.
Il punto è che, folgorati dalle magnifiche sorti e progressive del libero mercato, i decisori pubblici non hanno considerato che la maggiore concorrenza nei mercati elettrici poteva sì dar luogo ad un abbassamento dei prezzi nell’immediato ma, al tempo stesso, ridurre gli sforzi innovativi delle imprese e, quindi, la possibilità di abbassare i prezzi nel futuro. Nel gergo degli economisti, si è perseguita l’efficienza statica del sistema anche se ciò poteva pregiudicarne l’efficienza dinamica. Di conseguenza, il paradosso in cui ci troviamo attualmente è che pur in presenza di mercati (apparentemente) competitivi i prezzi dell’energia rischiano di aumentare. Tutto ciò per vincoli di offerta e ambientali che nulla hanno a che fare con la concorrenza, ma che potrebbero essere stemperati se tutti gli attori, privati e pubblici, che operano nei o incidono sui mercati dell’energia investissero adeguate risorse nella ricerca e nell’innovazione.
Secondo un rapporto predisposto nel 2005 dall’Advisory Group on Energy per conto della Commissione Europea (Key tasks for future European Energy R&D), per garantire nel futuro fonti di energia più sicure e pulite e meno costose gli investimenti nella R&S dovrebbero ritornare ai livelli di 25 anni fa, cioè aumentare di quattro volte rispetto a quelli attuali. E’ chiaro che, senza il contributo delle imprese che operano nei mercati elettrici, il solo settore pubblico non può far fronte ad un’esigenza di questa portata. Si noti che stiamo parlando di imprese con un giro d’affari enorme: le prime 10 nel mondo che ho esaminato fatturavano più di 350 miliardi di euro nel 2007 (una cifra nettamente superiore al PIL della Svezia). Per ripristinare un’adeguata capacità innovativa a livello globale, insieme ad un rilancio degli investimenti pubblici, sarebbe sufficiente che tutte le imprese elettriche destinassero l’1 per cento del loro fatturato ad attività di ricerca (attualmente, lo fanno per meno dello 0.4 per cento).
A questo fine, l’unica strada percorribile è quella di imporre un “obbligo di ricerca” alle imprese di grande dimensione che producono e distribuiscono energia elettrica. E’ chiaro che in un mercato elettrico mondiale dove le principali imprese operano sempre più come multinazionali, tale obbligo non potrà che essere generalizzato e, quindi, comune a tutti i paesi. A prima vista, introdurre una tale imposizione su scala globale può apparire una missione impossibile. In realtà, se si considera la ridotta numerosità dei soggetti privati interessati, è decisamente più semplice che accordarsi su un obiettivo improrogabile come la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Sarebbe sufficiente che i governi riconoscessero che la liberalizzazione dei mercati elettrici qualche effetto indesiderato lo ha prodotto e, quindi, ne traessero le opportune conseguenze.
Nell’allegato Pdf, il paper “Energy R&D in private and state-owned utilities: an analysis of the major world electric companies”, del quale quest’articolo è una sintesi
MPRA_paper_20972.pdf 347,37 kB
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Le-grandi-dell-energia-non-fanno-ricerca
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«Beppe fa il capopopolo, io non ci riuscirei mai. Preferisco restare un saltimbanco»
«No a Grillo e Di Pietro
La Lega è l’unico partito»
Paolo Rossi: l’ex pm mi ricorda un poliziotto cubano, 15.04.2010
Un «cittadino esemplare» riceve una visita inaspettata: è lo Stato a bussare alla porta. «Lo so, ce l’hai con me. Mi hai cercato tanto. Mi hai sempre rispettato. E io cosa ho fatto? Ti ho abbandonato, ti ho lasciato tutte le bollette da pagare, a chi poi? A me…». Irriverente ma non offensivo, il monologo che Paolo Rossi avrebbe dovuto portare al festival di Sanremo. Eppure gli italiani non l’hanno visto. «Mi hanno cercato loro, gli autori—racconta Rossi —. Sono stato a trovarli a Roma, poi a Sanremo. Ho raccontato il testo. Bellissimo, divertentissimo, dicevano. Poi non hanno più telefonato. Qualcuno però deve aver telefonato a loro». Si è detto che nella prima versione il visitatore non fosse lo Stato ma Berlusconi… «No. Non sono così pazzo, sarebbe stata una provocazione. Ho riferito l’episodio al mio maestro, Dario Fo, che deve averlo rielaborato. Ma non è così».
Dice Rossi che «ci sono molte forme di censura. C’è quella dei cortigiani, come in questo caso. Burocrati che si svegliano un paio d’ore prima delle persone di talento, per avere il tempo di sforbiciarne il lavoro. Poi c’è la censura del re. Ma c’è anche la censura di chi il proprio talento lo sacrifica, si vende al mercato, purga le proprie opere. Succede a molti del mio ambiente. Li vedo censurare la loro stessa intelligenza e originalità. Ma non voglio fare nomi. L’unico collega di cui parlo è il presidente del Consiglio: un uomo di spettacolo, il più adatto a governare la società dello spettacolo».
«In questi trent’anni in Italia è accaduta una rivoluzione culturale, che ha trasformato i cittadini in spettatori. Tutti sono stati coinvolti, anche la sinistra. Gli unici che non si sono adeguati, che hanno continuato a lavorare per strada, magari avendo in tasca ancora la tessera del vecchio Pci, sono i leghisti. La Lega è l’unica forma di resistenza al virtuale. Purtroppo, a differenza di Alberto da Giussano, è salita sul carro dell’imperatore. Per il resto, non credo ci sia molta differenza tra le feste azzurre del Pdl e la festa dell’Unità o come si chiama adesso. Festa democratica, mi dicono. Da tempo, dalla canzone di Gaber in poi, i parametri di destra e sinistra non sono più validi. E a volte, quando incontro un esponente di sinistra, mi viene da sentirmi un po’ di destra ». Ma se alle regionali lei si è candidato con Rifondazione? «L’ho fatto per un amico, Vittorio Agnoletto. Non sono comunista; al più, anarchico. E la mattina delle elezioni sono rimasto a casa. Credo di essere l’unico candidato che non si è votato».
In tanti guardano a un altro suo collega, Beppe Grillo. «Ognuno nella vita va dove lo portano le sue scelte. Io non riuscirei mai a diventare un capopopolo — dice Rossi —. Preferisco restare un saltimbanco. Questo so fare, e lo so fare bene. Grillo ha altre capacità. Da buon genovese, è molto portato ad afferrare i concetti economici». E Di Pietro? «L’ho visto due volte in vita mia. A un convegno sulla Costituzione, dove si arrabbiò molto perché gli avevano portato via il posto in prima fila. E in tv da Fazio. Dietro le quinte mi chiese se i capelli erano i miei. Per un attimo ho pensato che non fossero i miei, che Di Pietro avesse un dossier riservato sui miei capelli e sapesse di loro cose che io non so. Mi ha ricordato il poliziotto cubano che mi interrogò per ore: aveva trovato la polvere che usavo per incollare un ponte dentale. Non mi mollò finché non mi staccai il ponte, lo cosparsi di polvere e lo riattaccai. Disgustato, il Di Pietro cubano mi rilasciò ».
Tra i bersagli di Paolo Rossi ci fu Bettino Craxi. «Dov’è finita la fontana di piazza Castello? Ad Hammamet!» cantava. Qual è oggi il suo giudizio su Craxi? «Non riesco a giudicare una persona che non può rispondere. Io attacco il potere; quando l’uomo perde il potere, smetto di prendermela con lui. Craxi paga il pedaggio che tocca agli sconfitti. Quando in Parlamento si alzò a dire che tutti erano responsabili, diceva la verità. Anche se ormai è diventato un luogo comune, dalla politica a Calciopoli: tutti sono corrotti, così fan tutti…».
Si chiamava Pianeta Craxon lo spettacolo che Rossi faceva al Derby nel 1980. «Uno dei personaggi era Berlusconi. Mi chiedevano: “Perché te la prendi con un imprenditore edile?”. In realtà lui aveva già cominciato a comprarsi l’Italia. Per prima cosa cambiò la comicità. La tv impose il passaggio dalla narrazione al tormentone, dalla tradizione latina alla battuta anglosassone, frantumabile dagli spot. Poi ha cambiato tutto il resto. Denunciare la malefatte di Berlusconi è inutile: vince perché in tanti si identificano nel primattore, che è anche un po’ primattrice; in tanti vorrebbero vivere nel suo film. Non lo dico per snobismo: sono uno che considera i propri film migliori quelli girati con i Vanzina. Ma la tv ha sostituito valori autentici con altri falsi, ha innalzato vitelli d’oro, anzi maiali d’oro. Per fortuna, ora la tv è morta. Tra un po’ sarà modernariato, come i registratori Geloso ». Sicuro? «Sì. Prima il cinema uccise il teatro. Poi la tv uccise il cinema. Ora la rete uccide la tv, e con il passaparola rilancia il teatro. Il celebrato Raiperunanotte di Santoro alla fine era uno spettacolo dal vivo, in un Palasport». Non guarda proprio nulla in tv? «Ogni tanto, Amici o X-Factor. Selezionano ragazzi preparati, a cui però manca il “duende”, quell’estro che non si insegna ma si può uccidere». Morgan? «Di questa storia colgo solo l’aspetto umano. Nella mia vita artistica ho visto, indirettamente e no, parecchi inferni. Quando lo spettacolo è finito e dalle uscite laterali sbuchiamo nel silenzio e nel buio, capita di cadere in certi guai».
Ora Paolo Rossi porta in giro per l’Italia il Mistero Buffo. «Vado nella casa della carità di don Colmegna a Milano, nelle scuole del Reggiano, e nel carcere di Bollate. Ha organizzato Vallanzasca. Il pienone è sicuro: i detenuti non hanno altra scelta». Il suo fondo anarchico viene fuori quando difende i dissidenti dell’amata Cuba: «Proprio chi si è entusiasmato per la rivoluzione cubana non deve vergognarsi ora di criticare il regime cubano». E quando racconta storie di famiglia. «Due anni fa, con il mio primogenito Davide, ho accompagnato mio padre, che ha combattuto in Jugoslavia, a cercare i corpi dei suoi commilitoni gettati dai titini nelle foibe. Non li trovammo: quella è zona termale, sul posto magari avevano costruito un percorso benessere. Noi siamo di Monfalcone. Bisiacchi, che secondo Magris può significare sia “gente tra due acque”, l’Isonzo e il Timavo, sia “gente in fuga”. Come i carpentieri del mio paese, bastonati per vent’anni dai fascisti e, passata la frontiera dopo la guerra, dai comunisti».
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Addio a Raimondo Vianello, decano della tv italiana, 15.04.2010
Giovedì 15 aprile, è morto a Milano Raimondo Vianello, vero signore della televisione italiana. Nato a Roma nel 1922, il popolarissimo attore e conduttore avrebbe compiuto 88 anni il prossimo 7 maggio.
Prima di diventare uno dei personaggi più amati della tv, Vianello trascorre la giovinezza a Spalato, in Dalmazia, a causa del trasferimento del padre, ammiraglio della Marina Militare.
Durante la seconda guerra mondiale, Raimondo aderisce alla Repubblica di Salò come bersagliere, e nel 1945 affronta la dura esperienza del campo di concentramento (viene rinchiuso, insieme ad altri esponenti della cultura e dello spettacolo, nel campo alleato di Coltano).
Dopo la guerra, Vianello debutta nel teatro di rivista, dove ottiene un grande successo.
Negli anni Cinquanta si dedica al cinema, recitando in diverse pellicole accanto a personaggi del calibro di Totò.
La vera popolarità giunge per Vianello grazie alla televisione dove, dal 1954 al 1959, insieme a Ugo Tognazzi conduce il programma ‘Un due tre’, basato su sketch e parodie di inchieste documentarie all’epoca assai in voga.
Nel 1958 l’artista conosce Sandra Mondaini, che nel 1962 diventa sua moglie e con la quale lavora per cinquant’anni.
Sandra e Raimondo sono stati una delle coppie più rappresentative del mondo dello spettacolo italiano e insieme hanno condotto molti show televisivi di grande successo.
Negli anni Settanta la Rai affida loro il timone di varietà come ‘Sai che ti dico?’, ‘Tante scuse’, ‘Di nuovo tante scuse’, ‘Noi… no’, ‘Io e la befana’. Agli Ottanta risalgono il quiz ‘Sette e mezzo’ e ‘Stasera niente di nuovo’. Con questo programma la coppia Mondaini-Vianello saluta la televisione di Stato per approdare a Mediaset (allora Fininvest), dove i due conducono varietà come ‘Attenti a noi due’, ‘Attenti a noi due 2’ e ‘Sandra e Raimondo Show’.
Dal 1988 al 2007 sulle reti Mediaset va in onda la famosissima sit-com ‘Casa Vianello’, dove Sandra e Raimondo recitano in coppia dando vita a siparietti molto divertenti con battibecchi tra i due coniugi che si scambiano battute mordaci, alcune delle quali entrate nell’immaginario collettivo italiano (“Che noia, che barba, che barba, che noia!”, commenta Sandra, nel letto insieme a Raimondo, al termine di ogni episodio).
La carriera di Raimondo Vianello prosegue anche senza Sandra, con programmi come ‘Zig zag’ (1983-1986) e ‘Il gioco dei 9’ (1988-1990), ‘Pressing’ (1991-1999), ‘Studio tappa’ (1996). Nel 1998 a Raimondo Vianello viene affidata la conduzione del Festival di Sanremo.
Nel 2004 Mediaset omaggia la coppia con il programma ‘Sandra e Raimondo Supershow’, mentre nel 2008 Raimondo dà l’addio al mondo dello spettacolo, ma si dichiara disponibile a partecipare come ospite ad alcune trasmissioni.
Raimondo Vianello, insieme con Mike Bongiorno e Corrado, è stato uno dei presentatori più importanti della tv italiana. Vero gentleman della conduzione, mancherà ai telespettatori non solo per la sua verve umoristica, ma anche per la gentilezza e la delicatezza che caratterizzavano ogni sua comparsa in scena.
Vianello, infatti, era sempre impeccabile, anche quando sfoderava le sue celebri battute: tanto humour, certo, ma di gran classe.
http://it.tv.yahoo.com/blog/article/40986/addio-a-raimondo-vianello-decano-della-tv-italiana.html
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Gratis per tutti, è finita la stagione, 16.04.2010
Di fronte a bambini messi alla berlina in mezzo ai loro compagni solo perché i loro genitori non hanno pagato la retta della mensa o della scuolabus, è naturale gridare all’ingiustizia. E il motivo è che quei bambini non sono certo responsabili. Ma proprio questo motivo ci invita ad una riflessione su quali siano le situazioni in cui è opportuno che la collettività si faccia carico dello stato di indigenza e povertà dei suoi membri e quali invece quelle in cui l’assicurazione sociale può diventare uno strumento che finisce per proteggere rendite parassitarie.
È il problema che gli economisti chiamano «rischio etico» (moral hazard). Se un eventuale stato di indigenza dipendesse soltanto dalla fortuna e gli uomini nulla potessero fare per modificare il loro fato, sarebbe perfettamente ragionevole che la collettività prendesse l’impegno di proteggere i suoi membri dai colpi della Dea bendata. Se invece è possibile, anche se costoso e faticoso, comportarsi in modo da evitare lo stato di indigenza, l’assicurazione offerta dalla collettività comporta il rischio che gli individui si accontentino di farsi proteggere dalla società e non si impegnino per evitare i colpi della Dea bendata. Il problema è vecchio come il mondo: quanto del nostro benessere dipende da noi e quanto dipende da fattori che non possiamo controllare e di cui non abbiamo né colpa né merito?
Difficile, probabilmente impossibile, rispondere. E di fronte a questa impossibilità di rispondere, ciò che forse meglio caratterizza una posizione di «sinistra» nel nostro Paese è la convinzione che sia comunque preferibile assicurare tutti, anche al costo di proteggere chi non se lo merita, piuttosto che privare di protezione chi davvero ne ha bisogno. È una convinzione nobile e legittima. Ma costosa per la collettività.
Costosa soprattutto in un paese come il nostro in cui l’evasione fiscale è la norma e sono i redditi e la ricchezza dichiarata (non quella verificata da un’agenzia indipendente e credibile) a determinare nella maggior parte dei casi il diritto a molte forme di solidarietà sociale. Un paese in cui la legge sulla privacy, che ad esempio non consente di rendere pubbliche le dichiarazioni dei redditi, finisce per impedire la trasparenza e proteggere la rendita. L’aneddotica è piena di racconti su indigenti quanto meno sospetti il cui vigliacco abuso del sostegno offerto dalla collettività finisce per danneggiare proprio chi, a pieno merito, della collettività avrebbe bisogno.
E allora, in questo contesto, può diventare paradossalmente di «sinistra» la posizione opposta, quella di coloro che, piuttosto che proteggere la rendita parassitaria di chi riceve assicurazione sociale quando potrebbe ampiamente farne a meno, preferiscono non garantire demagogicamente la protezione a tutti.
In realtà non è un paradosso. Le risorse sono scarse e se vogliamo davvero proteggere chi ne ha bisogno non possiamo sprecarle con chi può benissimo contare sulle sue forze e anzi dovrebbe aiutare i veri bisognosi. Quindi ben venga la protezione senza sé e senza ma dei bambini che colpe non hanno. Ma, riguardo agli adulti, attenzione alla demagogia di chi nasconde, sotto panni di sinistra, una posizione che sa invece molto di Ancién Regime.
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TORINOSETTE 16/4/2010 – ALL’AMBROSIO FINO AL 22 APRILE
Glbt con James Ivory per la festa dei 25 anni
Il Premio Dorian Gray al regista californiano e una retrospettiva per celebrare il quarto di secolo di una rassegna bella e importante
DANIELE CAVALLA
Festa con James Ivory per «Da Sodoma a Hollywood», il Torino Glbt Film Festival che celebra i venticinque anni di vita con un’edizione scintillante, nobilitata dalla presenza del regista californiano. Il Festival s’è aperto con la serata inaugurale di giovedì 15 all’Ideal, e prosegue all’Ambrosio fino al 22 aprile. E’ – nel suo settore – il più antico Festival d’Europa, terzo nel mondo solo ai celebri «Frameline» di San Francisco e «Outfest» di Los Angeles. E per il venticinquennale si propone in una veste in parte rinnovata, con una nuova squadra di collaboratori (Fabio Bo in qualità di coodinatore artistico, Angelo Acerbi, Margherita Giacobino, Alessandro Golinelli) guidata come sempre dal direttore Giovanni Minerba.
Inoltre, per celebrare il suo primo quarto di secolo, il Festival propone una retrospettiva dall’eloquente titolo «I venticinque film che ci hanno cambiato la vita»: tra i titoli selezionati spiccano «Bent» del britannico Sean Mathias, un film che ha fatto epoca sull’amore ai tempi dell’Olocausto sulle note di Philip Glass, «A mia madre piacciono le donne» della coppia Inés Paris e Daniela Fejerman, effervescente commedia spagnola datata 2002 che ha giocato d’anticipo con l’era zapateriana, e «Lilies» di John Greyson, regista canadese con un passato da attivista, un’indole queer e una filmografia a dir poco eccentrica.
Come ogni anno il Festival propone tre sezioni competitive sottoposte al giudizio di tre giurie internazionali e del pubblico (concorso lungometraggi, concorso documentari, concorso cortometraggi). Due i focus: il primo dedicato a fede e omosessualità, il secondo all’omofobia, specie nei paesi come Iran, Camerun e Uganda, dove essere omosessuali è un reato punibile con il carcere e la morte. Tra gli altri temi in risalto in questa edizione del Festival, citiamo il tormentato, intenso e a volte morboso rapporto genitori e figli omosessuali; la bisessualità, non vissuta più come indecisione ma come scelta; i problemi dei gay anziani e soli.
Gli omaggi riguardano tre icone del cinema internazionale tra erotismo, femminismo e drag queen: Maria Beatty, filmaker newyorkese sperimentale che indaga i territori dell’erotismo lesbico, Patricia Rozema, autrice di tre pellicole chiave («Ho sentito le sirene cantare», «When Night Is Falling » e «Mansfield Park») perla cinematografia femminista e lesbica, e Holly Woodlawn, attrice, cantante e drag queen cresciuta artisticamente nella Factory di Andy Warhol e celebrata da Lou Reed in «Walk on the Wild Side». A partire da questa edizione, il Torino Glbt Film Festival attribuisce un premio ad una personalità – un regista, un attore, un’attrice, un produttore – che si è particolarmente distinta, nel corso della sua vita o della sua carriera, nel cinema gay.
Il premio si chiamerà «Dorian Gray» (hanno dovuto rinunciare a dedicarlo a «Oscar» Wilde, la massima icona gay della storia, per via del rigido copyright sul termine «Premio Oscar»): la statuetta, realizzata da Ugo Nespolo, riproduce comunque la silhouette dello scrittore irlandese. Il primo premiato sarà come detto, l’ottantaduenne James Ivory, atteso a Torino sabato 17 aprile alle 20,30 all’Ambrosio con la «prima» del suo ultimo lavoro «The city of Your final destination», film del 2007 tratto dal romanzo dello scrittore Peter Cameron (in giuria quest’anno al Festival) con Anthony Hopkins e Charlotte Gainsbourg ancora inedito in Italia. «Da Sodoma a Hollywood – Torino Glbt Film Festival», diretto da Giovanni Minerba, dal 2005 è gestito e amministrato dal Museo del Cinema con il sostegno degli assessorati alla Cultura della Regione, della Provincia e della Città di Torino, con il contributo della Fondazione Crt, oltre al ministero per i Beni e le Attività Culturali che lo ha riconosciuto come «una tra le più importanti manifestazioni cinematografiche italiane a livello internazionale ». Il Festival si avvale quest’anno di un budget superiore ai seicentomila euro, di cui 270 mila assegnati dal Comune, 225 dalla Regione Piemonte, 40 mila dal Ministero e 15 mila dalla Provincia; completano la quota le sponsorizzazioni delle aziende.
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Pianeti extrasolari controcorrente, 14.04.2010
Scoperti altri nove esopianeti. Diversamente da quanto predetto dalla attuale teoria sulla formazione dei sistemi, però, alcuni di questi orbitano nella direzione opposta alla rotazione delle loro stelle
L’elenco dei pianeti extrasolari si arricchisce di nove new entry, arrivando così a contarne 452. La scoperta sarebbe importante ma non straordinaria, se non fosse che due di questi hanno la peculiarità di ruotare nel senso inverso a quello predetto dalle attuali teorie sulla formazione dei sistemi, e presentano un’orbita davvero inusuale. La scoperta è stata annunciata ieri, 13 aprile, nel corso del National Astronomy Meeting 2010 del Regno Unito. Non è tutto: i due non sarebbero le uniche eccezioni.
Si tratta di una notizia ‘bomba’ per l’intera comunità internazionale di planetologi, ma andiamo con ordine. I nove pianeti sono stati individuati da un gruppo di ricerca guidato da Didier Queloz, dell’Osservatorio dell’Università di Ginevra, e da Andrew Collier Cameron, dell’Università di St. Andrews (Scozia), grazie al Wasp (Wide Angle Search for Planets) dell’Osservatorio La Silla, in Cile. I corpi sono stati classificati come Giove caldi, ovvero con dimensioni simili a quelle del nostro Giove, ma che percorrono un’orbita molto prossima alla loro stella.
In seguito alla scoperta, il team ha utilizzato i dati dello spettrografo Harps dello European Southern Observatory (Eso) e del telescopio svizzero Euler (entrambi a la Silla), combinandoli con quelli raccolti su altri 18 esopianeti. Il fine era quello di confermare la scoperta e studiare le caratteristiche di questi corpi (vedi materiale supplementare).
I risultati però hanno sorpreso tutti: ben sei pianeti extrasolari sui 27 considerati hanno una rivoluzione retrograda – cioè orbitano nella direzione opposta alla rotazione delle loro stelle (come avviene per tutti i pianeti del Sistema Solare) -; più della metà degli esopianeti, inoltre, ha orbite disallineate rispetto all’asse di rotazione di queste. Entrambi i fatti contraddicono la teoria sulla formazione dei pianeti attualmente più accreditata, secondo cui i sistemi si formano nel disco di gas e polvere che circonda una giovane stella e che ruota nella sua stessa direzione e sullo stesso piano. Finora si riteneva, inoltre, che i Giove caldi si formassero ai confini più esterni di questi dischi e migrassero successivamente vicino al loro sole. La condizione per cui questo avvenga, però, è che le orbite di pianeta e stella siano allineate. I ricercatori hanno ora avanzato un’ipotesi alternativa che chiama in causa disturbi gravitazionali di altri corpi massivi molto distanti. Secondo i primi dati, il loro effetto potrebbe anche causare il rovesciamento dell’orbita. (t.m.)
Fonte: Eso
http://www.galileonet.it/news/12618/pianeti-extrasolari-controcorrente
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Sardegna: biopetrolio da alghe e CO2, 14.04.2010
Brevettato da un’azienda sarda un processo che sfrutta le capacità fotosintetiche delle microalghe per produrre carburante
Spetta alla Sardegna, stavolta, il primato nell’interazione tra imprenditoria e ricerca, con la messa a punto di una tecnologia che sfrutta fonti rinnovabili di energia. L’azienda sarda Biomedical Tissues, infatti, ha recentemente depositato il brevetto europeo sul “Procedimento per la produzione di biopetrolio che prevede l’impiego di CO2”, un sistema che consente di ricavare, dalle alghe unicellulari presenti nei mari e nei fiumi, alcuni biocarburanti come il biodiesel e altri composti destinati all’industria alimentare, biomedicale, cosmetica e zootecnica. Il brevetto è nato da uno studio partito nel 2008 nell’Università di Cagliari; i ricercatori hanno poi coinvolto l’azienda e avviato una collaborazione con il Cnr e il centro di ricerca internazionale Center for Advanced Studies, Research and Development in Sardinia (Crs4).
Il procedimento si basa sull’impiego di microalghe che, utilizzando l’anidride carbonica e la luce del sole, sono in grado di riprodursi velocemente e di creare sottoprodotti oleici convertibili in carburanti biologici. “Si cattura l’anidride carbonica contenuta in fumi di scarico, per esempio di una centrale termoelettrica, e la si veicola in apparecchiature chiamate fotobioreattori, al cui interno sono state isolate delle microalghe che metabolizzano la CO2”, spiega a Galileo Giacomo Cao, docente di Ingegneria Chimica e Ambientale presso l’ateneo sardo e responsabile del gruppo di ricerca che ha messo a punto il processo: “Dalle alghe così trattate è possibile estrarre il biopetrolio, utilizzabile per la produzione di biodiesel, ma anche di vitamine, antiossidanti, antimicrobici e antitumorali”.
Questo brevetto, unico in Italia, ha un duplice obiettivo: produrre combustibili rinnovabili e ridurre l’immissione nell’atmosfera dell’anidride carbonica. I vantaggi, secondo la Biomedical Tissues, saranno anche economici: le microalghe, la cui elevata produttività è garantita dalla loro velocità di crescita e dal loro alto contenuto di olio, possono essere coltivate in zone industriali o aride, senza ‘invadere’ superfici agricole. “Oggi il costo di produzione sarebbe più alto di quello del petrolio. Ma non sarà così in futuro – prevede Cao – quando il prezzo del greggio salirà col contrarsi della sua disponibilità”. E il salto dalla sperimentazione alla produzione industriale potrebbe essere breve: la Biomedical Tissues ha partecipato al bando “Industria 2015 per progetti innovativi nel sequestro della CO2 atmosferica” e, se il progetto sarà approvato, verranno costruiti quattro stabilimenti dimostrativi, di cui uno nel cagliaritano, dove ha sede l’azienda. (a.o.)
http://www.galileonet.it/news/12617/sardegna-biopetrolio-da-alghe-e-co2
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Padova, la fabbrica senza orari
l’operaio sceglie quanto lavorare
Accordo alla Zf. “Più felici e produttivi”. L’arco d’impiego si adatta alla vita familiare. via gli straordinari, ogni addetto presenta un piano e un software lo combina con i bisogni aziendale, 14.04.2010
dal nostro inviato CINZIA SASSO
PADOVA – La fabbrica dove non esiste l’orario di lavoro è un rettangolo bianco che compare in fondo a una strada bianca. Si chiama Zf, è un’azienda metalmeccanica, con gli operai in pantaloni blu e maglietta bianca con il logo aziendale che armeggiano in mezzo a un frastuono infernale.
Si trova a Caselle di Selvazzano, alle porte di Padova, è il terminale italiano di una multinazionale tedesca e produce soprattutto ingranaggi per motori marini. Solo che gli operai, 200 su 360 dipendenti, non ci vanno tutti dalle 8 alle 17: la produzione è continua, ma l’orario di ognuno è a sua scelta. L’hanno chiamato “orario a menù” ed è un miracolo che perfino il Politecnico di Milano ha studiato, la realizzazione concreta di un sogno che sembrava irrealizzabile: conciliare il tempo del lavoro con il tempo della vita.
Per non continuare ad affrontare i picchi di lavoro con lo straordinario, azienda e sindacati si sono messi a un tavolo e hanno inventato una soluzione che una ricerca europea indica come esempio da seguire: ogni due mesi i lavoratori compilano una richiesta con le loro preferenze sui tempi di lavoro mentre l’impresa presenta il piano sulle necessità produttive. Un software apposito incrocia le diverse esigenze. Quello che ne esce è l’orario di ognuno. Si può avere un “orario di carico”, che significa lavorare di più. Ma si può scegliere anche quello di “scarico”, per avere più tempo libero. Il bilancio delle ore si fa a fine anno, tenuto conto che in ogni settimana si dovrebbe lavorare 40 ore. Nella sala del consiglio di fabbrica, sotto un manifesto ormai ingiallito di Luciano Lama, Luca Bettio, delle Rsu, racconta: “Ci abbiamo guadagnato tutti. Abbiamo abolito lo straordinario, strumento in mano ai capetti, e l’abbiamo sostituito con un premio per la flessibilità. Così ognuno può bilanciare la sua vita familiare con quella della fabbrica, e in tempi di asili che chiudono e di anziani da accudire non è poco”.
Così c’è chi, come Daniele Olivieri, 30 anni, addetto al montaggio, riesce a gestire un’associazione di volontariato, la Zattera Urbana, che si occupa di integrazione. E chi, come Daniele Agostini, al mattino può accudire i figli, mentre la moglie è al lavoro. Renzo Soranzo, occupato alle “isole di montaggio”, racconta di un collega che nel tempo liberato si è laureato in ingegneria. E Gianluca Badoer spiega: “La fabbrica era una gabbia rigidissima, come nella Manchester dell’800, noi siamo riusciti a rompere quel meccanismo e a gestire la flessibilità in modo collettivo e con vantaggio reciproco”. L’assenteismo è diminuito, aumentata la puntualità nella consegna, così come i margini di redditività. Marina Piazza, sociologa, sottolinea un altro aspetto virtuoso della rivoluzione Zf: per rendere possibile l’orario a menù, tutti hanno dovuto imparare a fare di tutto, aumentando la professionalità di ciascuno. “È la prova – dice – che non bisogna avere paura a cercare orizzonti più ampi, importante in un periodo in cui si deve immaginare una nuova mappa del welfare”. Non è solo l’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro a suggerire l’urgenza di immaginare un nuovo equilibrio tra vita e lavoro. Eurofound, l’agenzia della Ue per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, conclude nel suo rapporto del 2009 che la flessibilità è uno degli strumenti per rispondere meglio alla crisi. I Paesi più dinamici e competitivi sono quelli che sanno innovare. Iniziando dagli orari di lavoro.
http://www.repubblica.it/economia/2010/04/14/news/operai_senza_orario-3335104/
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L’Iran e la sfida eurasiatica, 15.04.2010
Il focus dell’agenda internazionale sul Golfo Persico e l’Iran, all’interno della dimensione più ampia del quadrante asiatico-mediorientale, configura l’intera area come luogo privilegiato delle frizioni in atto nel mutante contesto multipolare e lascia intravedere come la struttura delle relazioni internazionali dei prossimi anni sia presumibilmente lontana da un modello sostanzialmente cooperativo.
Tutto ciò implica come la nuclearizzazione del confronto sia in un senso una forzatura e in un altro la strada maestra scelta per la conduzione di un conflitto strategico che, in quanto tale, non si riduce ovviamente alla disputa sul programma iraniano di arricchimento e di sviluppo delle centrali. Insomma, decidere sul dossier nucleare per trattare la questione iraniana.
Il ruolo geopolitico
L’elemento di fondo da considerare per cercare di cogliere l’evolversi della situazione è la particolare posizione geografica nonché il modo in cui Teheran percepisce se stessa, cioè il suo ruolo geopolitico. Nell’attuale contesto internazionale, in fase di cambiamento con l’emergere di nuovi poli dopo la disgregazione delle egemonie bipolari, la Repubblica Islamica è al bivio tra due indirizzi caratterizzanti quali il ruolo di potenza regionale e la funzione di integrazione eurasiatica. I fattori relativi ad ambo le prospettive sono molteplici e in certa parte coincidono, specie se si immagina un percorso progressivo in cui quelli interni non possono prescindere da quelli esterni. Tuttavia, l’effetto strategico diverge in maniera sostanziale. Si è quindi aperta una conflittualità a lungo termine il cui risultato risentirà anche del peso degli attori principali, siano essi globali o regionali.
L’Iran sin qui si è al più barcamenato tra l’opzione regionalista e quella eurasiatica, ora attraverso cedimenti ora attraverso prese di posizione nette.
Il ruolo di potenza regionale comporterebbe l’esigenza di coniugare le istanze di influenza islamica sul mondo arabo e sulle circostanti comunità religiose con un necessario pragmatismo legato ai rapporti di forza tra Stati Uniti e Russia in quanto forze preponderanti e rispetto alle quali potrebbe agire solo di riflesso e con un raggio di autonomia comunque circoscritto. Non solo, la vocazione regionalista significa automaticamente incidere sui relativi equilibri con l’apertura di una competizione egemonica con Pakistan, Arabia Saudita, Turchia e soprattutto Israele. E se quest’ultima è una sfida per così dire orizzontale, ben più ardua sarebbe quella verticale rappresentata dal progetto americano di ridisegnamento dell’area, secondo i canoni del progetto del Grande Medio Oriente che permarrebbe come scelta strategica di controllo da parte di Washington, per quanto condizionato dagli eventi bellici e dalla tenuta economico-finanziaria.
L’opzione eurasiatica, invece, implicherebbe una funzione di integrazione continentale che l’Iran consoliderebbe, ad esempio, con l’ingresso nella Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS) e nella Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC) e perseverando in scelte come quella dell’oleodotto Iran – Pakistan – India (IPI). Assecondando il processo integrativo, Teheran realizzerebbe una sinergia di intenti e di azione innanzitutto con la Russia, divenendo imprescindibile per la stabilizzazione dell’area caucasica e nucleo di raccordo – in continuità con Ankara – tra la penisola europea e lo spazio sino-indiano, in un continuum geopolitico che ingloberebbe le rotte energetiche e le sfere di influenza che Washington contende nella sfida vitale del Grande Gioco.
Tra i diversi nodi da sciogliere rimane particolarmente delicato quello dei rapporti con il mondo arabo. Al netto di considerazioni concrete anche se schematiche, la verve egemonica regionalista ma anche ideologico-religiosa della Repubblica Islamica è non solo prodotto dell’aprirsi di spazi strategici nell’avanzamento del policentrismo, ma anche del fallimento e del tramonto del grande progetto panarabo. Oltre la valutazione degli attriti e delle incongruità tra i vertici politici dei Paesi arabi, l’azione progressiva ed efficace di Stati Uniti e Israele di scardinamento dei movimenti nazionalisti, laici, socialisti e panarabi – l’autentica minaccia alle loro mire di egemonia e controllo – ha innescato, da essi stessi indotta, una spirale di integralismo islamico dalle mille facce anche in contrasto nel suo variegato mondo e che, nella sua impossibilità di essere ricondotto ad un unicum, attua una forte frammentazione all’interno delle comunità arabe e contribuisce a minare una sovranità già notevolmente limitata e in alcuni casi nulla.
Sicchè, nell’ordine delle azioni strategiche, il ruolo di Teheran nel Vicino Oriente se in questa fase è garanzia di sostegno ai gruppi armati di resistenza come Hamas ed Hezbollah, alla Siria come rimanente soggetto sovrano non integrato nella strategia statunitense e sionista (senza perdere di vista le relazioni con la Turchia), e fonte di ingerenza nella crisi irachena, sotto il profilo progettuale rimane un’incognita in considerazione dei fattori confessionali, etnici, politici ed economici. Fattori che sono basati su assonanze ed elementi comuni ma anche su significative differenze storiche e quindi, al di là delle contingenze, su differenze geopolitiche che rischierebbero di essere confliggenti ben oltre le reciproche diffidenze (guerra Iraq-Iran).
Al di là di tutta una serie di reciprocità storiche e tattiche degli iraniani con statunitense e israeliani, può realmente l’Iran contribuire (supporto finanziario e militare a parte) alla risoluzione della questione palestinese? Fino a che punto gli arabi accetterebbero un suo ruolo preminente nella regione? Quali i risvolti del rapporto tra il fattore identitario e quello geostrategico con gli iraniani? Fino a che punto può reggere il fronte di alcune forze contro nemici in comune e fin dove reggono gli accomodamenti tattici di altre forze o Paesi? Come possono conciliarsi le istanze laiche di alcuni Paesi o le divergenze confessionali – sia interne sia esterne – con un’eventuale forte influenza proveniente da una entità con una marcata connotazione clerico-sciita? In definitiva, perché abdicare a favore della potenza persiana, comunque estranea alla dimensione araba?
Probabilmente, se Teheran propendesse per l’opzione di integrazione eurasiatica, maturerebbe una sua funzione sicuramente autonoma e rafforzata ma naturalmente sinergica con gli altri attori continentali e andrebbero in parte a sanarsi delle difficoltà storiche ed estemporanee anche nell’incerto scenario delle relazioni nel Vicino Oriente e nel Golfo Persico.
L’interesse nazionale
La propria proiezione sullo scacchiere che l’Iran sta elaborando risente di due variabili generali non isolabili quali gli assetti e la struttura interna di potere da un lato, e il contesto internazionale e regionale dall’altro. A fronte di tali due variabili, l’oggettiva identificazione del suo status geopolitico rimanda allo sforzo di delineare e perseguire il suo interesse nazionale. Il tutto serba una logica.
La Repubblica Islamica risente di una sindrome da accerchiamento e cerca di garantire la propria sicurezza in un sistema internazionale notoriamente anarchico attraverso la valorizzazione della propria specificità e l’utilizzo razionale delle risorse a disposizione. Cosciente di incarnare uno snodo delle vie energetiche mondiali, è chiamato a conciliare interessi ed obiettivi propri con quelli di un’area instabile al cui interno ha l’assoluta necessità di procedere secondo i criteri di cooperazione e distensione, onde evitare di venire soffocata nelle sue ambizioni dagli eventi ancor prima di dispiegare il suo raggio d’azione. Parimenti, è questa anche una fase di inquadramento di amici e nemici strategici al fine di uscire dallo stato di pressione cui si sente sottoposto e che, soccombendovi, diventerebbe forse persino di isolamento. Situazione che non gioverebbe a nessuna delle parti in campo.
Sussistono due macro-elementi di fondo legati al suo interesse nazionale:
–il primo: la sopravvivenza stessa del regime, la sua sicurezza e la sua difesa identitaria;
Nell’odierna fase internazionale, l’entità statuale religiosa iraniana costituisce una singolarità, in particolare nella sua connotazione sciita e nel suo afflato islamico extra-confini, tanto da avvertire la propria difesa come un dovere religioso in primis. L’aspetto identitario (per di più in una terra già incontro di civiltà diverse), oltre a quello interno, ha un risvolto fondamentale nel gioco di forze con gli altri attori, anche sotto il profilo mediatico e di immagine. Del resto, l’identità degli Stati può mutare nell’interazione con gli altri e nella struttura della politica internazionale, così come la percezione di una minaccia non prescinde dall’essere stesso del soggetto, o comunque dal profilo che di esso viene elaborato. Tant’è che oggi Stati Uniti e Israele reputano e veicolano – brandendo la loro consolidata leva politico-mediatica – l’Iran come un pericolo, una minaccia rispetto alla quale acconsentire ad una sua dotazione nucleare non potrebbe costituire una scelta per così dire neutra, proprio in considerazione del suo status di rivale ancor più oggi di ieri. Dal canto suo, la Repubblica Islamica vive la sua identità e modella il suo sforzo di sopravvivenza percependo gli USA come il suo altro da sé nonché come il simbolo di un neocolonialismo oppressivo di ritorno, di un imperialismo occidentalista che pone sotto scacco la sua missione e l’essenza stessa del mondo islamico. Lontano da assolutizzazioni di sorta, sarà comunque determinante individuare di che tipo sarà la sua commistione tra il fattore religioso di autoproclamato paladino dei musulmani e dei popoli oppressi, e il fattore laico dell’azione politica concreta. Essa non è un monolite e sta già da tempo tentando di delineare una personale combinazione di tradizione e modernità.
La percezione dell’accerchiamento di Teheran proviene da tre fronti instabili e pieni di incognite.
1) Nello scenario del Vicino Oriente, il tentativo di ritagliarsi una posizione di forza deve confrontarsi – come nel nucleo Palestina-Libano-Siria – con la propensione sionista e la spinta alla frammentarietà da parte di Israele e degli Stati Uniti, e con l’ambiguità delle petro-monarchie votate sia agli affari con gli occidentali che al sostegno dei vari gruppi sunniti. La partita curda e quella irachena sono poi una spina nel fianco alla luce di una conflittualità di varia intensità, ma nello stesso tempo un ottimo terreno di scontro e di compromesso con gli statunitensi, terreno sul quale gli iraniani stanno già spendendo la loro influenza in quello che è un gioco in cui l’instabilità prolungata rischia di logorare entrambi i contendenti, oltre che affossare una già compromessa sovranità irachena. Così come è evidente che un pesante controllo di Washington sull’Iraq farebbe di quest’ultimo una testa di ponte contro Teheran, il cui senso di insicurezza non può che aggravarsi in virtù del dispiegamento statunitense di mezzi e uomini nel Golfo Persico con la flotta schierata allo stretto di Hormuz, in aggiunta ad una costante operatività dell’intelligence nemica nei vari Paesi circostanti mediante un’attività non solo di spionaggio ma anche di supporto a gruppi armati e di opposizione sul fronte interno, dove si registra una continua pratica del soft power.
2) Nell’area del Caucaso meridionale-Asia centrale, gli iraniani rilevano numerose insidie: la presenza statunitense in Azerbaigian e Kirghizistan, il possibile allargamento della Nato, la mai conclusa questione delle risorse del Caspio, le possibili ripercussioni del conflitto nel Nagorno-Karabakh, le velleità irredentiste dei gruppi azerbaigiani a forte componente iraniana, la possibile estensione del fenomeno etero-diretto delle rivoluzioni colorate, la proiezione di Ankara nei territori turcofoni, l’esigenza di non allontanare Mosca almeno sul piano tattico.
3) Sul versante Est, le preoccupazioni concernono l’instabilità e la permeabilità del fronte Af-Pak dove agiscono svariati gruppi e organizzazioni e prospera il narcotraffico; il rinfocolarsi del fondamentalismo sunnita; il ruolo estensivo del Pakistan – solitamente avvertito con timore – nel territorio afghano, ma anche la preoccupazione di un suo eventuale disfacimento; la minaccia dell’installazione di basi statunitensi in Afghanistan quale determinante fattore logistico-militare e di pressione.
E’ evidente, quindi, che l’evolversi della situazione iraniana si lega al processo di stabilizzazione dell’Iraq e dell’Afghanistan quali tasselli ineludibili della nuova architettura di sicurezza statunitense nell’intera area che comprende lo schema di una crescente pressione sul fianco sud della Federazione Russa.
Il centro degli interessi di Washington scivola dall’Europa e dai Balcani all’Asia centrale, caspica e pacifica. Siffatta percezione di una minaccia costante ai propri danni induce Teheran a mosse di rafforzamento anche sotto l’aspetto militare, persino giustificando, in un contesto di marcato squilibrio di forze, l’ipotesi di un arma atomica di difesa o attacco.
Alla luce delle vicende post–Guerra Fredda concernenti il rapporto potenza egemonica – medie potenze, quella della guerra in Kosovo potrebbe essere fatta propria dagli iraniani: il ragionamento poggia sul presupposto che se Milosevic avesse potuto disporre di un apparato di difesa sufficientemente valido, la sua capacità negoziale rispetto all’Occidente avrebbe avuto maggior peso.
Per l’Iran, date le condizioni di accerchiamento, sanzioni di tipo economico-commerciale o simili opzioni coercitive non potranno che cristallizzare la sensazione di insicurezza e la percezione dei rischi per la propria sicurezza nazionale.
–il secondo: l’intrinseca valenza geoeconomica del Paese
Le risorse energetiche e la relativa posizione pivot fanno del territorio persiano un moderno protagonista geostrategico. Esso non solo è a cavallo del Golfo Persico – il maggior canale di traffici petroliferi globali – , confinando con sette Paesi, ma vanta anche il privilegio di affacciarsi sul Mar Caspio che sempre più si configura come importante e contesissima rotta di transito intra-continentale per i prodotti energetici e commerciali. Il fiorire di numerosi progetti di oleodotti e gasdotti misura l’alto livello della sfida geopolitica in atto.
Teheran sa di avere un ruolo imprescindibile e mira ad utilizzare, sulla base di una piena ed effettiva “scomoda” sovranità, tali immense risorse nell’ambito di una prospettiva sviluppista e di crescita industriale che le permetterebbe di coltivare l’ambizione di divenire Paese guida nel progresso economico e tecnologico dell’intera regione del Golfo Persico. Ha un potenziale petrolifero enorme in virtù dei suoi 137,6 miliardi di barili in termini di riserve, pari al 10% su scala mondiale, con una produzione di 3,77 milioni di barili al giorno (ponendosi al secondo posto dietro l’Arabia Saudita nella classifica OPEC). Il suo altissimo livello delle esportazioni, contando sull’innalzamento del prezzo in un’area di instabilità, frutta una sostanziosa crescita del PIL tale da consentirgli una progettualità infrastrutturale di sfruttamento e ricerca, tra cui si annovera naturalmente anche l’opzione nucleare. Opzione questa che ha una giustificazione di fondo nel deficit energetico del Paese, come evidenzia il dato che lo vede al secondo posto dopo gli USA come importatore di benzina, a fronte di un consumo che da più di un decennio è sopra il 10%. L’alto fabbisogno comporta quindi un incremento della capacità di raffinazione che esso cerca di ottenere mediante la costruzione di nuove raffinerie sia all’interno sia all’estero, come dimostrano gli accordi con Siria e Venezuela (con il loro carico di risvolti politici).
Sia le consolidate potenze industriali sia quelle emergenti vedono nel greggio del Golfo una risorsa fondamentale per le impellenti esigenze di crescita e consumo, cosa di cui assolutamente tengono conto gli stessi Usa nella loro politica del contenimento nei confronti dell’Iran. Per gli statunitensi, infatti, la tela delle rotte petrolifere in quella zona è una pericolosissima causa di dipendenza e vulnerabilità.
L’altra formidabile risorsa energetica è il gas, di cui l’Iran detiene il 15% di riserve mondiali accertate e di cui costituisce il secondo produttore. In forza pure di imprecisati giacimenti da esplorare, gli iraniani puntano a fare di esso un settore chiave (e questa è una crescente tendenza globale) non solo in termini di competizione sui mercati, ma anche nei termini di un disegno secondo il quale sostituire progressivamente il gas al petrolio come principale fonte energetica, così da liberare per l’esportazione ulteriori disponibilità di greggio attualmente impiegate per il fabbisogno interno. Sempre più significativi e strutturanti sono le collaborazioni industriali e tecnologiche con Russia, Cina e India, per un combinato di partnership che inevitabilmente allarga la strategia anche al campo delle influenza politiche.
La combinazione di questi grandi vettori energetici, cui si sommano le grandi risorse minerarie ed agricole, con la disponibilità di una enorme forza lavoro in virtù di una popolazione prevalentemente giovane, alimenta la prospettiva di un Iran come potenza industriale ad alto consumo, con tutto il suo potenziale corollario di industrie nazionali, infrastrutture e patrimonio di conoscenze proprio.
L’arma dell’energia è contemporaneamente un’arma diplomatica che permette alla Repubblica Islamica di tessere la sua rete di relazioni e muoversi secondo una logica di difesa/attacco e azione/reazione. Si fa spesso riferimento ad una possibile ritorsione iraniana nel taglio della produzione di petrolio, ma ben più significativo sarebbe il progetto che ruota intorno alla Borsa di Kish, che rimane il simbolo di una terribile minaccia per gli Stati Uniti: la vendita del greggio non più in dollari ma in euro con il conseguente sconvolgimento del paradigma finanziario americano che finora consente alla superpotenza atlantica di librarsi oltre le sue possibilità.
Washington e Tel Aviv – al di là delle difformità contingenti – sembrano aver posto ormai l’Iran al centro di una contesa strategica. Alla lunga è un’azione per mettere fuori gioco dalle rotte energetiche e dalle sfere di influenza politica l’Europa, la Russia, la Cina, l’India, il Giappone nella competizione delle potenze.
A Teheran si gioca una partita della sfida eurasiatica.
Alfredo Musto, dottore in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università La Sapienza di Roma), collabora con “Africana”
http://www.eurasia-rivista.org/3804/liran-e-la-sfida-eurasiatica
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Imperi: come prevedere un crollo imminente
di Sergio Romano – 19/04/2010
Provo a compilare una lista, personale e incompleta, di alcuni eventi accaduti negli ultimi cento anni, dallo scoppio della Grande guerra alle vicende dell’ altro ieri: la tragica estate del 1914, la rivoluzione bolscevica, il crollo di tre imperi (austriaco, ottomano, russo), il crack del 1929, la guerra fredda, la morte del comunismo e la disintegrazione dell’ impero sovietico nel grande spazio euro-asiatico, le guerre jugoslave, la rivoluzione cinese. Il crack di Lehman Brothers nel 2008, lo scandalo dei preti pedofili, la crisi finanziaria greca del 2009. Alcuni di questi eventi possono considerarsi conclusi e si prestano a uno sguardo d’ insieme. Altri si stanno svolgendo sotto i nostri occhi e sollecitano alcuni interrogativi. Potranno gli Stati Uniti riassorbire in tempi ragionevoli il disavanzo (un trilione e 4 miliardi nel 2009) e il debito pubblico (5 trilioni e 8 miliardi nel 2008) senza rinunciare alla loro condizione di superpotenza mondiale? Potrà la Chiesa cattolica sopravvivere a un’ ondata di scandali che ha profondamente intaccato l’ autorità del suo magistero? Potrà la piccola Grecia raddrizzare i suoi conti senza provocare il collasso dall’ eurozona e trascinare con sé la pericolante costruzione della moneta unica? Supponiamo per un attimo che gli Stati Uniti siano costretti a ridurre drasticamente le loro spese militari, che la Chiesa esploda lasciando dietro di sé una miriade di sette religiose, gruppi millenaristi e Chiese nazionali, che la crisi greca provochi la morte dell’ euro e il brusco fallimento del processo d’ integrazione europea. Vi è qualcuno che possa ragionevolmente prevedere le conseguenze di questi disastri sugli equilibri internazionali? Le profezie saranno molte, ma fantasiose, se non addirittura cervellotiche, e poco utili alla ricostruzione dell’ ordine internazionale e dell’ ordine spirituale. Sappiamo con certezza, tuttavia, che sul luogo del disastro arriverà prima o dopo una frotta di formiche operose e di api operaie. Sono gli storici, con i loro computer, i loro archivi, le loro gigantesche bibliografie. Si metteranno al lavoro per spiegarci che cosa è accaduto e perché è accaduto. Il loro modus operandi (il latino si addice al mondo accademico) sarà quello con cui hanno spiegato, per esempio, lo scoppio della Grande guerra e la rivoluzione d’ Ottobre. Nel caso di queste due grandi tragedie hanno allineato l’ uno accanto all’ altro, con qualche differenza d’ accento dovuta alle diverse scuole storiografiche, alcuni fattori: la rivoluzione industriale, l’ applicazione di nuove tecnologie al campo di battaglia, le ideologie rivoluzionarie, il nazionalismo, il militarismo, la nascita della classe operaia, la crisi delle democrazie parlamentari, la rivalità anglo-tedesca negli oceani, la rivalità franco-tedesca nel continente europeo, la rivalità italo-austriaca nell’ Adriatico, le smodate ambizioni austriache nella penisola balcanica, il lungo declino degli Stati dinastici, dell’ autocrazia russa, del sultanato ottomano. E dopo avere piazzato in buon ordine, sulla scacchiera delle loro ricostruzioni, le cause remote del grande evento, gli storici sono passati a individuare i passaggi critici, gli snodi cruciali in cui la scintilla ha dato fuoco alle polveri. Negli studi sulla Grande guerra questi snodi furono il colpo di pistola a Sarajevo, l’ ultimatum austriaco alla Serbia, le mobilitazioni generali. Nel caso della rivoluzione bolscevica furono il fallimento della Repubblica di Kerenskij, il ritorno di Lenin a Pietrogrado il 16 aprile 1917, il presunto golpe del generale Lavr Kornilov, l’ assalto al Palazzo d’ Inverno, la brusca chiusura dell’ Assemblea Costituente nel gennaio del 1918. Quando dovranno spiegare la crisi dell’ impero americano e quella dell’ impero cattolico, gli storici adotteranno lo stesso metodo. Nel primo caso spiegheranno che gli Stati Uniti hanno dominato il mondo grazie a una forza militare finanziata dai loro clienti, amici e potenziali avversari grazie all’ acquisto di titoli di credito emessi dal Tesoro americano e denominati in dollari. Gli storici economici spiegheranno che questa è stata la più colossale operazione di signoraggio mai realizzata nella storia dell’ umanità. L’ America ha stampato dollari per le proprie necessità, ma ne ha venduti una buona parte al resto del mondo; e ha finanziato in tal modo il suo debito. Qualcuno ricorderà che uno storico dell’ università di Yale, Paul Kennedy, aveva pubblicato nel 1987 un libro (Rise and Fall of the Great Powers, nell’ edizione italiana, Ascesa e declino delle grandi potenze) in cui si era proposto di dimostrare che i grandi imperi muoiono di overstretching, vale a dire delle troppe spese militari provocate dell’ eccessiva estensione delle proprie ambizioni e responsabilità. E qualcun altro aggiungerà che il disastro è stato accelerato dall’ applicazione spericolata delle regole del capitalismo finanziario in una fase in cui gli Stati Uniti erano impegnati su due grandi scacchieri militari (Iraq e Afghanistan) e dovevano tenere a bada una mezza dozzina di Stati «canaglia», dal Venezuela alla Corea del Nord passando per l’ Iran. Se queste sono le cause remote, gli snodi cruciali sono gli attentati dell’ 11 settembre e la pretestuosa occupazione militare di un Paese che fu accusato a torto di avere armi di distruzione di massa. Gli storici che si dedicheranno al declino e alla caduta della Chiesa romana ricostruiranno invece i difficili rapporti della Santa Sede con la modernità, dal dogma sull’ infallibilità papale di Pio IX al Concilio Vaticano II di Giovanni XXIII. Spiegheranno che il Vaticano, soprattutto negli ultimi cent’ anni, ha dovuto combattere su due fronti. Sul primo fronte si è scontrato con fenomeni politici e sociali che mettevano in discussione la sua autorità: la democrazia laica, il comunismo, il paganesimo nazista, l’ edonismo della società dei consumi, l’ impatto delle nuove scienze e delle nuove tecnologie sulle grandi funzioni naturali, dalla nascita alla procreazione. Sul secondo fronte ha dovuto sostenere l’ offensiva di tendenze e movimenti sorti all’ interno della sua stessa casa: il modernismo, il riformismo del Concilio Vaticano II, il femminismo cattolico. Le due battaglie hanno avuto fasi alterne e si sono concluse talora con un compromesso, ma hanno complessivamente indebolito, con qualche differenza da un Paese all’ altro, la Chiesa romana nel mondo. Lo snodo cruciale, nell’ analisi degli storici, sarà probabilmente lo scandalo dei preti pedofili. È uno scandalo in due atti che rimbalza, a quasi dieci anni di distanza, dagli Stati Uniti all’ Europa. Ma in America la partita si chiude con il denaro degli indennizzi, mentre in Europa, apparentemente, il denaro non basta. Queste storie di «ascesa e declino» sono affascinanti e ricalcano in generale il taglio di grandi opere storico-letterarie del passato: il Declino e caduta dell’ impero romano di Edward Gibbon, Il tramonto dell’ Occidente di Oswald Spengler, il «grand’ angolo» storiografico di Arnold Toynbee, gli studi sul declino dell’ impero spagnolo di Fernand Braudel (un altro caso di overstretching finanziario). Ma presentano un problema che potrebbe essere sommariamente definito così: rendono razionale ciò che razionale non era. Lo storico spiega e giustifica, oppure spiega e condanna, ma ottiene in ambedue i casi il risultato di mettere ordine in una realtà disordinata. Quando deve spiegare il declino di un grande impero, dice ai suoi lettori quali errori furono commessi. Li avrebbe evitati se fosse stato contemporaneo dei suoi personaggi? Avrebbe individuato le soluzioni giuste e le strade pericolose? È possibile che i posteri abbiano sempre ragione e i contemporanei abbiano spesso torto? Non basta. I teoremi, concepiti a posteriori, possono contenere implicitamente una ricetta per il futuro. Ma se la ricetta è il risultato di una diagnosi fatta quando il paziente è già nella tomba, la terapia potrebbe rivelarsi inutile, se non addirittura pericolosa. Cominciai a pormi questi problemi dopo la caduta dell’ impero sovietico nel 1989 e la disgregazione dell’ Urss nel 1991. Gli storici hanno trattato quegli avvenimenti nello stesso modo in cui hanno studiato la Grande guerra, la rivoluzione bolscevica, il crollo dei grandi imperi multinazionali. Le cause remote, nel caso dell’ Urss, sarebbero sostanzialmente tre: le promesse non mantenute, la distruzione della società civile, l’ overstretching di un regime che sfruttava male le sue risorse naturali e spendeva per la sua potenza militare ricchezza non guadagnata. Gli snodi cruciali, invece, sarebbero l’ invasione dell’ Afghanistan nel dicembre 1979, la vertiginosa caduta del prezzo del petrolio agli inizi del 1986, la nascita dei movimenti secessionisti, il golpe fallito dell’ agosto 1991. Per chi aveva assistito alla fase della perestrojka (arrivai a Mosca nel settembre del 1985) nessuno di questi fattori tuttavia bastava a dare una spiegazione sufficiente della straordinaria rapidità con cui il sistema crollò fra l’ agosto e il dicembre di quell’ anno. Era accaduto qualcosa che sfuggiva alla nostra percezione e alla nostra analisi. Una possibile spiegazione è quella prospettata da Niall Ferguson in un saggio apparso su «Foreign Affairs», vol. 89, n. 2, e intitolato Complexity and collapse. Secondo Ferguson, le grandi potenze e gli imperi sono «sistemi complessi, costituiti da un larghissimo numero di componenti che interagiscono e che sono organizzate in modo asimmetrico: una costruzione che assomiglia a un monticello di formiche piuttosto che a una piramide egiziana. Operano al confine fra l’ ordine e il disordine, sul ciglio del caos». Anche quando appaiono stabili sono in continuo movimento e costretti a ricomporre continuamente l’ equilibrio perduto. Bastano un piccolo smottamento, una piccola crepa perché lo squilibrio temporaneo diventi crisi permanente. Secondo Ferguson, incidentalmente, un simile «incidente» potrebbe prodursi da un momento all’ altro anche per gli Stati Uniti. L’ analisi di Ferguson mi è apparsa attraente anche perché esisteva a Mosca, negli anni della perestrojka, l’ uomo che avrebbe potuto illustrare a Gorbaciov la fragilità dei grandi sistemi. Era Jermen Gvishani, un intelligente e simpatico matematico georgiano che aveva sposato la figlia di Aleksej Kossighin, viaggiava frequentemente all’ estero per partecipare a incontri internazionali, era buon amico di Aurelio Peccei, fondatore del Club di Roma, e apparteneva all’ ala colta, europea e «cosmopolita» (esisteva anche quella) della dirigenza sovietica. Negli anni Ottanta aveva alte cariche pubbliche ed era direttore di uno degli istituti dell’ Accademia delle scienze. Ma l’ incarico che maggiormente gli piaceva era quello di vicepresidente di un «laboratorio» internazionale creato in Austria, a Laxenburg, nel 1972 e chiamato, con una denominazione piuttosto oscura, «Istituto per l’ analisi dei sistemi applicati». Se il lettore vorrà consultare il suo sito (http://www.iiasa.ac.at) scoprirà tra l’ altro che l’ Istituto cerca di mettere a punto metodi che consentano di «gestire modelli complessi» e di calcolare il rischio di eventi che hanno potenziali conseguenze catastrofiche. Sinora si è occupato di clima, ambiente, risorse naturali, movimenti di popolazione. Domani – perché no? – potrebbe occuparsi dei grandi Stati. E potrebbe scoprire in tal modo che un evento minore e privo di qualsiasi significato politico può essere la causa scatenante di una catastrofe politica. Non sarei sorpreso ad esempio se l’ istituto di Laxenburg scoprisse che lo smottamento dell’ impero sovietico fu provocato da un evento naturale: il terremoto armeno del dicembre 1988. Mentre il «sistema complesso» dell’ Urss cercava faticosamente di assorbire le riforme gorbacioviane e di ricomporre il proprio equilibrio, quell’ evento ebbe l’ effetto di suscitare la rabbia degli armeni contro le inefficienti strutture sovietiche e di contagiare tutti i latenti secessionismi sovietici, dal Baltico al Caucaso. I matematici dell’ Iiasa potrebbero quindi sostituire gli storici? Solo in parte. Costretti a scegliere fra la verità e l’ immaginazione, gli uomini continueranno a preferire le narrazioni seducenti e accattivanti, soprattutto quando escono da una buona penna. E la storiografia, dopotutto, è anche (forse soprattutto) letteratura.
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Le false virtù della Cassa Integrazione, 19.04.2010
di Giovanni Perazzoli
Abbiamo sentito spesso ripetere che la Cassa Integrazione italiana ha mostrato tutte le sue mirabolanti virtù nel far fronte alla crisi economica attuale.
In realtà, quello della Cassa Integrazione è uno strumento arcaico, nato vecchio, e del tutto lontano dalla logica europea, ma estremamente prezioso per mantenere lo status quo del potere italiano.
Qual è la differenza essenziale tra la Cassa Integrazione e il reddito minimo garantito in vigore in tutta Europa?
La differenza è racchiusa nella locuzione “diritto soggettivo esigibile”. Il salario di disoccupazione (chiamiamolo così, con formula generale) si ottiene nei Paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Austria, Lussemburgo, Spagna, oltre che Danimarca, Svezia, Norvegia…) senza alcuna mediazione: è appunto un diritto soggettivo esigibile. Se si è maggiorenni e disoccupati, si entra in un ufficio, si riempie un modulo e si ottiene, oltre a una somma in denaro (determinata da parametri oggettivi), mensile o settimanale, anche un aiuto (sempre in base a parametri definiti e oggettivi) per l’alloggio. Tutto libero, senza mediazioni, con la possibilità potenziale di beneficiarne in modo illimitato.
Non così in Italia. La Cassa Integrazione italiana presuppone infatti una mediazione, sindacale e governativa. È uno strumento discrezionale. Qualcuno decide se erogarla, a chi concederla e per quanto tempo. E non ne beneficiano tutti i lavoratori.
La differenza, come si capisce, è enorme.
La discrezionalità fa sì che chi ottiene la Cassa Integrazione è di fatto condannato a dipendere dal sindacato e dalla politica.
Non solo. Rispetto al salario di disoccupazione europeo, la Cassa integrazione produce lavoro e nero e disoccupazione. Il cassintegrato che trova un lavoro, infatti, perde il diritto al sussidio senza la sicurezza di riaverlo se viene licenziato di nuovo; quindi non accetterà mai dei lavori temporanei o insicuri. Mentre accetterà di lavorare in nero.
Al contrario, il salario di disoccupazione europeo, proprio perché è un diritto e non presuppone alcuna “concessione”, mette chi ne beneficia nella condizione di accettare un lavoro temporaneo o insicuro. Se va male, si fa sempre in tempo a tornare nell’ufficio, compilare di nuovo il modulo etc.
Non solo, dunque, la Cassa Integrazione sperpera denaro, ma lo sperpera producendo una serie di danni aggiuntivi: incoraggia il lavoro nero e scoraggia la ricerca di un lavoro.
Ma allora perché se ne cantano le lodi?
Perché il bisogno crea consenso. La discrezionalità della Cassa Integrazione può essere piegata a varie esigenze di clientela e di potere. Al contrario, il diritto soggettivo esigibile rende il cittadino libero e indipendente da partiti e apparati.
In un recente articolo, Tito Boeri ha rilevato che la discrezionalità della Cassa Integrazione è stata ulteriormente piegata ad usi politici e clientelari: “La Cassa Integrazione in deroga, pagata da tutti i contribuenti e non dalle imprese ed erogata con discrezionalità quasi totale della politica, è, dopotutto, un’invenzione della Lega. Ha dato più risorse al tessile della bergamasca che a molte altre aziende che avevano altrettanto bisogno di aiuto (e un futuro meno improbabile) in altre parti del paese. Nelle province dove la Lega governava, vi è stato un ricorso massiccio a questo strumento: Brescia, ad esempio, ha raccolto il 20 per cento dei fondi stanziati in Lombardia quando il suo peso sull’occupazione della Regione supera di poco il 10 per cento. Ma ci sono tanti altri trasferimenti occulti, di cui non si ha traccia”.
La logica è la stessa che al Sud è stata utilizzata per le pensioni di invalidità, che in Italia vanno a comporre l’altra voce (clientelare) che sostituisce il salario di disoccupazione. La “rivoluzione” della Lega non si è proposta di cancellare gli sprechi in nome dell’equità; no, ha preteso che il Nord, o meglio, il bacino del proprio elettorato, ottenesse le stesse forme di elemosina statale del Sud. Non diritti, ma concessioni di appartenenza.
Pensioni di invalidità e Cassa integrazione sono due colonne importanti del “consenso” in Italia. E, manco a dirlo, costano molto di più del salario di disoccupazione europeo, producendo in più degli effetti disastrosi non solo sul piano civile, ma anche su quello economico. Mentre il salario di disoccupazione europeo crea maggiore disponibilità al rischio d’impresa, la cassa integrazione e le pensioni di invalidità producono parassitismo, furbizia e corruzione.
È facile capire che se si parla poco della differenza tra Italia ed Europa nel gestire la disoccupazione è perché i partiti, i sindacati, e anche parte dell’economia, ne traggono vantaggi.
Non è assolutamente vero che in Italia la crisi è stata più dolce che in altri paesi. È vero invece che la crisi è stata più dolce con il ceto politico. Per le ragioni dette.
In Italia la crisi crea “consenso”, perché l’unica salvezza alla miseria è il clientelismo. Del resto, il modello del consenso basato sul bisogno è quello secolare della Chiesa cattolica, grande ispiratrice, culturale e non solo, della politica italiana.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-false-virtu-della-cassa-integrazione/
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Andrea Luchetta
La crisi travolge la coop Basaglia, 18.04.2010
A due mesi dalle celebrazioni per il trentennale della «Legge Basaglia», la cooperativa fondata dal più importante riformatore della psichiatria italiana è stata costretta a entrare in cassa integrazione. Un duro colpo per i suoi 220 dipendenti, il 43 per cento dei quali proveniente dall’area del disagio psichico. Il centro della vicenda non può che essere Trieste, capitale dell’azione basagliana oggi afflitta dall’onda lunga della crisi e gravata da un sistema degli appalti quantomeno discutibile, capace di fomentare una guerra di prezzi fra le cooperative sociali.
Adriano Sincovich, della Funzione Pubblica Cgil, sottolinea la particolarità del capoluogo giuliano. «Due terzi dell’economia cittadina si regge sul settore dei servizi, perciò siamo entrati più tardi nel vivo della crisi. Adesso, però, paghiamo un conto persino più salato che altrove: basti pensare che gli avviamenti lavorativi a tempo indeterminato sono crollati quasi del 70 per cento».
Roberto Colapietro è il presidente della Cooperativa Basaglia. Il suo sportello costituisce un osservatorio privilegiato per comprendere la gravità del momento. «Ogni settimana, si presenta da noi una cinquantina di persone in cerca di lavoro, e spesso si tratta di laureati». Difficile credere che in altri momenti avrebbero fatto la fila per una cooperativa che vive di pulizie, ristorazione, manutenzioni edili, trasporti e logistica. Un caso meglio di altri si presta a descrivere la situazione: «Poche settimane fa, si è presentata una donna che era stata assunta con un contratto a progetto per lavare scale. Un contratto a progetto: ma ci rendiamo conto? La volontà, evidentemente, è quella di esasperare la flessibilità dei rapporti di lavoro. Noi non abbiamo potuto assumerla, e adesso lavora in nero».
Un caso tutt’altro che eccezionale, frutto della guerra fra poveri che sta opponendo le cooperative sociali del capoluogo giuliano. «Noi siamo dovuti ricorrere alla Cig per una ragione ben precisa – sottolinea Colapietro – Abbiamo perso degli appalti in cui, semplicemente, non potevamo competere. In un caso, il nostro concorrente ha presentato un’offerta inferiore del 30-35 per cento. Un prezzo del genere si spiega in due modi: o non riusciranno a garantire il servizio promesso, oppure non vedo proprio come potranno rispettare i diritti dei lavoratori. Inutile sottolineare che sarebbe necessario stringere la rete dei controlli, per garantire una concorrenza corretta e sostenibile».
Il problema, insomma, è costituito dallo stesso sistema degli appalti, capace di esasperare la competizione fra cooperative che, per loro natura, svolgono un ruolo sociale di primaria importanza. «È un meccanismo che incentiva la flessibilità, estraneo a qualsiasi logica di sviluppo del territorio. Se l’amministrazione pubblica persegue il solo obiettivo di ridurre i costi, attua una politica miope. Cooperative come la nostra generano reddito per delle persone che, altrimenti, graverebbero in maniera ben più consistente sulle finanze pubbliche». Difficile allontanare il sospetto, poi, che la nuova fase politica sia estranea alle difficoltà di soggetti tradizionalmente vicini ad altre aree politiche. In Friuli Venezia Giulia il vento è cambiato, e pure più pesantemente che altrove. Basta pensare a Franco Rotelli, basagliano di ferro ed ex dirigente dell’Azienda Sanitaria, rimpiazzato nonostante la Regione avesse certificato il raggiungimento del 100% degli obiettivi fissati dalla stessa Giunta Tondo.
Colapietro, da parte sua, assicura che sarà fatto il possibile per evitare che i lavoratori «in disagio» siano coinvolti dalla sospensione del lavoro. Se questo non avvenisse, però, le conseguenze rischierebbero di diventare drammatiche. Mario Reali, psichiatra dell’equipe Basaglia, mette in guardia dai pericoli di una simile eventualità: «Il lavoro rappresenta lo strumento principe per il reinserimento e la guarigione dei soggetti più deboli. Se la crisi finisse per colpire anche loro, l’intero percorso terapeutico risulterebbe in pericolo».
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/04/articolo/2623/
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Saviano, il Cavaliere e la cosmesi universale, 20.04.2010
di ADRIANO SOFRI
Mi piace che Sebastiano Vassalli abbia qui descritto due Italie secondo l’antitesi fra Berlusconi e Saviano: più esattamente, chiamando Saviano l'”anticorpo” di Berlusconi, e forse l’antidoto. Piuttosto che un vaccino contro il berlusconismo, malattia senile del qualunquismo, il nome di anticorpo incarna, alla lettera, una figura imprevistamente opposta. Roberto Saviano è entrato nelle rose di candidati a governare un giorno un’altra Italia, anche quelle fabbricate per amor di sondaggi.
Lupo spelacchiato, Berlusconi ha sentito odore di bruciato, e ha anticipato il suo sondaggio personale. Così, l’autore più venduto della sua casa editrice, il giovane di talento cui poco fa dichiarava “civile gratitudine”, è diventato ora un malaugurato promotore di cosche. Domanda Saviano: “Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine, o da chi commette il crimine?”. Già: si può davvero discutere una cosa così?
Cose da pazzi: ma c’è un metodo in questa follia. Perché si tratta di azzannare il lupacchiotto che corre forte fuori dal branco e non mette in piega le sue idee. E perché si tratta di difendere, col proprio titolo di capobranco, un’intera etologia minacciata. Non direi che Berlusconi abbia pensato di mettere a tacere Saviano. Intanto perché non direi che Berlusconi abbia pensato: non gli succede spesso, è il suo segreto vincente. Gli è scappato, ma così la sua sortita è più rivelatrice. Per far tacere Saviano del resto c’è un modo solo, e per questo ha una scorta e fa, lui e loro, una vita dolorosa. Il suo cammino ha superato da tempo, e, temo, irreversibilmente, la soglia oltre la quale non esiste più ritirata o compromesso. L’ha voluto in parte, in un’altra parte gli è successo – è uno dei significati, dei più veri e amari, della parola “successo” – e non è più in discussione.
Dunque, anche Marina Berlusconi ha scritto: “Credo che nessuno si sogni nemmeno lontanamente di pensare che sulle mafie si debba tacere”. Si può prenderla in parola. In effetti, Berlusconi non ha proclamato che della mafia non si debba parlare: piuttosto, che non se ne debba parlare tanto. Non ha detto che non si debbano vendere libri intitolati Gomorra: che non se ne debbano vendere tanti milioni. Berlusconi è ottimista. Non vuole un’Italia di cui ci si debba vergognare. Ho citato una volta il pensiero di Carlo Ginzburg secondo cui ci si accorge di avere una “patria”, di appartenere a un paese, soprattutto quando si è costretti a provarne vergogna. Ha appena detto qualcosa del genere, del proprio paese, lo scrittore spagnolo Javier Marias. Lo stesso Marias concluse così, nel 2002, un ritratto di Berlusconi per El Pais: “… Una persona che non sente mai vergogna di alcun tipo, né personale, né pubblica, politica, estetica. E nemmeno narrativa. In realtà egli non sa cos’è la vergogna”.
Berlusconi ha un sorriso stampato in volto, non resiste alla tentazione di raccontare barzellette, e le giudica irresistibili. Colto in fallo, se ne rallegra, come un attore nell’intervallo. Saviano non è tipo da barzellette, e tiene seria la faccia. Molti italiani vorrebbero assomigliare a Berlusconi. Altri italiani si mettono sulla faccia la maschera di Saviano, per aiutarlo a non essere isolato. Il segreto di Berlusconi non è la tabula rasa, ma il ritocco. La cosmesi. La cosmesi personale, da capo a piedi, capelli e tacchi, e quella universale, la filosofia della cosmesi. Vi ricordate le fioriere di Genova? Anche allora, rovinate dai disfattisti che andarono a dormire alla scuola Diaz, che si fecero torturare alla caserma di Bolzaneto. La cosmesi funziona – il verbo “funzionare” riassume bene la cosa. I rifiuti dalle strade di Napoli spariscono. È quel guastafeste di Saviano, e altri come lui, a mostrare in che tasche vanno a finire. La storia è antica, del resto. Ha una proverbiale versione russa, probabilmente falsa, ma meravigliosa, i Villaggi Potjomkin. Nel 1787 Caterina II e il suo seguito di ambasciatori stranieri, in visita in Crimea, furono incantati da villaggi lustri e felici, reparti militari agguerriti e greggi innumerevoli, che il principe Potjomkin aveva fatto costruire alla vigilia in cartapesta e popolare di attori e comparse e girotondi di pecore. Si fa così, se si ama il proprio paese e lo si vuol far ben figurare con gli ambasciatori stranieri, alla Maddalena o all’Aquila o a Secondigliano: altro che Gomorra. Cosmesi: a maggior ragione quando la chirurgia estetica sa applicarsi a un doppio mento, a una Grande Opera, a una intera Costituzione.
Che sia questo il cuore della cosa, è evidente se si consideri che Berlusconi non accusa Saviano di aver scritto o detto il falso. Gli spiega che non dovrebbe dire il vero – non troppo. Anch’io quando ho visto una bruttezza nuova delle persone nel film “Gomorra” – e l’avevo già vista, altrettanto nitidamente, nelle pagine del libro – ho sperato che non fosse vera: che scrittore e regista avessero calcato la mano. Voglio bene a Napoli, infatti. Invece è proprio così, e Saviano la racconta com’è, perché vuole bene a Napoli. Non è un caso che Saviano faccia un uso pregnante della parola “bellezza”. La cosmesi berlusconista è la contraffazione della bellezza. Intendiamoci: è probabile che Berlusconi non possa nemmeno figurarsi qualcosa di diverso. Date tempo al tempo, si dirà, e lo stesso Saviano imparerà la lezione – stavo per scrivere, vergogna, la lozione. Ma appunto, il tempo corre, e bisogna sbrigarsi. Saviano dice: “Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare”. Frase che deve suonare minacciosa all’egoqualunquismo di Berlusconi: è lui, quello di “né destra, né sinistra”. Non immagina che si tratti d’altro. E non solo del fatto che uomini come Ambrosoli o Borsellino fossero di educazione e sentimenti “di destra” – che non è poco. Ma che, a complicare le cose dopo i muri, e però a renderle più fondate, c’è un’inversione, e quello che si fa viene prima di quello che si crede di essere, e questo vale soprattutto per le mafie.
Saviano ha riconosciuto, quando gli è sembrato giusto, i risultati dell’azione di polizia o giudiziaria contro le mafie. Che Berlusconi vanta al suo governo, in una peculiare analogia con quel Giulio Andreotti che per spiegare l’inveterato rapporto dello Stato democristiano con la mafia coniò la graziosa formula del “quieto vivere”. Come Berlusconi oggi, Andreotti vantò le misure del suo ultimo governo contro la mafia. Come Berlusconi oggi, si aspettò – e ottenne, lui senza legittimo impedimento – la prescrizione giudiziaria e civile sul quietissimo vivere del passato. La tenacia di Saviano, che gli viene imputata come una mania o un affarone, non riguarda del resto il passato, ma soprattutto la presente espansione universale dell’economia e dell’etologia mafiosa, che nessuna politica e nessuna opinione pubblica può evitare di guardare negli occhi.
Un luogo comune vuole che gli italiani si compiacciano autolesionisticamente di denigrare il proprio paese e invidiare gli altri: lo trovate ricapitolato nello studio di Silvana Patriarca, “Italianità”, appena uscito per Laterza. Lo schema dell’opposizione fra antitaliani (che comprenderebbero, del resto, Dante e Machiavelli e Leopardi) e arcitaliani, non è dei più utili, e nemmeno le frasi desolate di un dopoelezioni sugli italiani che assomigliano a Berlusconi e Berlusconi che assomiglia agli italiani. L’Italia non è mai fatta del tutto, e per giunta corre il rischio d’esser disfatta. Gli italiani devono farsi e rifarsi continuamente. Assomigliare a qualcuno, al corpo di Berlusconi o all’anticorpo di Saviano, non è la più alta delle ambizioni. Imparare a essere se stessi, e sapere da che parte stare, è la premessa per fare buoni incontri. C’è tanto posto.
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Corte dei Conti boccia laurea breve
“I risultati sotto le attese”, 19.04.2010
Secondo la magistratura contabile promesse disattese sia in termini di aumento dei laureati sia in termini di miglioramento della qualità dell’offerta formativa
ROMA – La laurea breve, percorso “specialistico” affiancato a quello della laurea tradizionale dalla riforma universitaria, è da bocciare. Lo sostiene la Corte dei Conti in un Referto sul sistema universitario appena pubblicato, motivando un giudizio tanto netto con una spiegazione semplicissima: la laurea breve “non ha prodotto i risultati attesi” né in termini di aumento dei laureati né in termini di miglioramento della qualità dell’offerta formativa.
In più, sostiene la magistratura contabile, la laurea breve ha generato un sistema incrementale di offerta “con un’eccessiva frammentazione e una moltiplicazione spesso non motivata dei corsi di studio”. La Corte stima che dopo le riforme del 2004 e del 2007, solo dall’anno accademico 2008-2009, c’è stata un’inversione di tendenza.
Da segnalare poi “il rilevante fenomeno dell’incremento delle sedi decentrate e il peso via via crescente assunto dai professori a contratto esterni ai ruoli universitari”.
Il sistema, prosegue la Corte, non ha migliorato la qualità dell’offerta formativa “anche in termini di più efficace spendibilità del titolo nell’ambito dello spazio comune europeo”. Per la magistratura contabile, “gli effettivi sbocchi occupazionali che offrono i diversi corsi di laurea dovrebbero guidare l’andamento delle immatricolazioni e l’orientamento degli studenti verso le differenti tipologie di crisi”.
http://www.repubblica.it/scuola/2010/04/19/news/corte_dei_conti_laurea_breve_da_bocciare-3466433/
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16/04/2010 – A 100 ANNI DALLA MORTE
Mark Twain profeta d’America
L’autore di Huck Finn e Tom Sawyer: ridotto a scrittore per ragazzi, è stato ed è coscienza critica del Paese, raccontando il mito della Frontiera, oggi impersonato da Obama
GIUSEPPE CULICCHIA
In America c’è un autore di libri per ragazzi che si è permesso di fare dell’ironia in merito alle origini cristiane degli Stati Uniti. «Anche l’Inferno ha origini cristiane», ha detto, rimarcando poi come il paradosso del Paradiso consista nel fatto che quest’ultimo non contempli la più grande delle delizie terrene, il sesso: «E’ come se dopo essersi perduto in un deserto infuocato, uno mezzo morto di sete si senta dire da chi lo soccorre: puoi avere qualsiasi cosa desideri, tranne l’acqua». Questo stesso scrittore ha anche affrontato la questione dell’uso della tortura da parte di un Paese che da sempre si autodefinisce civile, salvo poi venire smentito dalle fotografie che testimoniano il trattamento riservato dalle sue truppe ai prigionieri. E ha denunciato ben prima di Amnesty International e in modo esplicito l’uso del «water-boarding» o affogamento simulato nel corso degli interrogatori. «Che cosa confessa così un prigioniero? La verità? O bugie? Chi può dire che cosa racconta? Se sottoposto a un dolore insopportabile, un uomo confessa qualsiasi cosa».
Nato nel profondo Sud, l’autore in questione non si è tirato indietro neppure di fronte alla questione razziale. Per dire: pur essendo un bianco, nei suoi libri usa senza remore di sorta la parola «negro», perché questa parola viene adoperata normalmente nella vita di tutti i giorni, e dal suo punto di vista mettere in bocca qualcos’altro ai personaggi dei suoi romanzi non avrebbe davvero senso. Proprio per questo motivo, tuttavia, molte biblioteche hanno infine deciso di non tenere in catalogo alcune sue opere, perché in base al loro metro di giudizio queste sono, non da oggi, «politicamente scorrette».
L’autore, che si chiama Samuel Langhorne Clemens, a sua difesa non può certo ribattere di avere votato per Obama, ammesso che voglia davvero difendersi da simili sciocchezze: è morto infatti giusto cent’anni fa, il 21 aprile 1910, in concomitanza con il passaggio della cometa di Halley, la stessa che l’aveva portato sulla Terra nel 1835. Non poteva certo immaginare che un giorno gli Stati Uniti avrebbero avuto per presidente un «negro». E nemmeno che nel proclamare una guerra mediorientale combattuta per esportare la democrazia in cambio di petrolio i medesimi potessero fare appello alle famose «origini cristiane». E neppure che nel Duemila e rotti gli stessi alfieri della democrazia usassero metodi assai simili a quelli adottati più di un secolo prima dall’esercito del Belgio colonialista di Leopoldo I in Congo. E neanche che i soldati con la bandiera a stelle e striscie cucita sulla manica dell’uniforme praticassero ancora oggi negli interrogatori le medesime tecniche usate dai loro colleghi nei confronti dei ribelli filippini nell’ormai lontano 1902, anno in cui andava gà di moda la «water-torture».
Ma soprattutto, non si sarebbe mai sognato che un giorno, in un luogo chiamato Disneyland, un battello a vapore avrebbe portato il nome che lui aveva adottato in veste di scrittore, Mark Twain. Nome che si era scelto in omaggio al grido «Mark, twain!», comune tra i marinai imbarcati sui natanti che solcavano il Mississippi per indicare in tese la profondità delle acque durante la navigazione: «Dal segno, due!». Del resto, su quel fiume aveva fatto il marinaio anche lui. Di Mark Twain un altro sudista ingombrante, William Faulkner, disse senza esitazioni che era stato «il primo vero scrittore americano». Quanto a Ernest Hemingway, uno che certo non era molto tenero nei confronti dei colleghi, in Verdi colline d’Africa scrisse: «Tutta la letteratura americana moderna viene da un libro di Mark Twain intitolato Huckleberry Finn. Tutta la narrativa americana deriva da lì… Non c’era niente prima. Non c’è stato niente di altrettanto buono dopo».
Ecco: malgrado il «politicamente corretto» di cui sopra cerchi da tempo di ridimensionare anche il vecchio Papa a causa del machismo e delle corride e dei safari eccetera, il suo giudizio su Mark Twain a cent’anni dalla scomparsa pare ancora attuale. Che cosa c’è stato di meglio rispetto a Le avventure di Huckleberry Finn? Quale altro romanzo ha saputo raccontare con maggiore felicità narrativa il perdurante mito della Frontiera oggi impersonato da un pronipote dello schiavo Jim? Quale altro autore ha saputo innovare in modo altrettanto radicale l’immaginario di un Paese e la sua letteratura, se pensiamo per esempio che durante il viaggio lungo il corso del Mississippi di Huck Finn e compagni ci s’imbatte in decine di gerghi diversi, da quello parlato dai marinai a quello usato dagli schiavi, passando per quelli di banditi, mandriani, giocatori d’azzardo, imbonitori, borghesi…
Come ha fatto fa notare qualche anno fa uno dei suoi tanti biografi, Ron Powers, Mark Twain, il padre di Huck Finn e di Tom Sawyer e di Il principe e il povero, ma anche di testi sulla religione e sull’imperialismo e sulla scienza, lo scrittore che tra le altre cose anticipa una certa fantascienza in Un americano alla corte di Re Artù, l’autore «per ragazzi» che tale non era, è stato a tutti gli effetti anche la prima rock-star americana, con le sue celebri tournée che all’indomani della guerra civile (da lui combattuta con i sudisti, prima di darsi alla macchia come avrebbe fatto il più famoso dei suoi eroi) lo portarono dapprima a viaggiare da un teatro all’altro in lungo e in largo per il suo Paese, dove si fece conoscere come conferenziere brillante dalle straordinarie doti umoristiche, e poi, complici i rovesci finanziari dovuti anche all’idea di fondare una propria casa editrice, a riempire altri teatri in giro per il mondo. Fosse in circolazione oggi, che cosa non leggeremmo sulla sua pagina su Twitter!
Sia come sia: in un mondo assai diverso da quello attuale, il mondo di qualche era geologica fa, per semplificare il mondo di prima della tivù commerciale e della Playstation, Mark Twain, autore «per ragazzi», veniva regalato in quanto tale più o meno a chiunque avesse imparato a leggere. Si trattava di un errore in buona fede. Che, se non altro, ha contribuito a farcelo amare.
http://www3.lastampa.it/libri/sezioni/news/articolo/lstp/189682/
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ALLEGRETTO
Vi prego, salvate la Biosfera, 20.04.2010
di STEFANO BENNI
UN preistorico vulcano islandese erutta e tutto il modernissimo traffico aereo è bloccato. Ma l’Italia sembra far parte di un’altra galassia e pensa solo alle sue piccole beghe. Il fifone schiva-processi dice che la mafia è un’invenzione dei media e Dell’Utri è un cartone animato. Bossi dà la colpa della nube alla crisi monetaria islandese e reclama le banche del Polo Nord.
Bertone è alla ricerca di un’analogia tra i crateri e i sodomiti. Bersani dice, si sciolgano pure i ghiacciai, basta che non si vada al voto. E alla fine il ministro Matteoli se ne esce con una proposta geniale: nessuno viaggi. Abbiamo capito perché è ministro.
Il terremoto di Haiti dopo una settimana è sparito dai media, ma al suo posto impazza una catastrofe ben peggiore: Minzolini e colleghi che si accapigliano sul milione di telespettatori perduti. Intanto abbiamo nuovi sismi in Nuova Guinea Afghanistan e Cina, ma l’argomento è logoro, non interessa più.
E dire che di problemi ambientali ne abbiamo anche noi. La penisola italica sembra snella ma è obesa. Con l’Alta Velocità possiamo schizzare da Roma a Milano in tre ore e due pacchetti di biscottini. Ma attraversarla per il largo da Roma a Cesena è come affrontare il Sahara. I cantieri della Salerno-Reggio Calabria sono patrimonio archeologico, al posto degli autogrill potrebbero avere dei nuraghi. Le autostrade a pagamento sfavillano di asfalto drenante, ma quando piove un terzo delle strade normali frana o è inagibile.
L’acqua sarà il business del futuro, è già pronta la privatizzazione con relativa spartizione. Ci sarà l’acqua Padana, metà Po metà Tevere, perché la Lega ha il cuore a nord ma l’esofago a Roma. Poi avremo Pidiella, l’acqua che combatte la renella e gli avvisi di garanzia. L’Acquafini che fa digerire i magoni e ripristina l’obbedienza. L’acqua Centrorosso, con lieve percentuale alcolica per far finta che le elezioni siano state un trionfo. Infine l’Acqua del sud, che essendo la mafia un’invenzione televisiva, sarà imbottigliata da Maria De Filippi.
In quanto all’aria le nostre città sono avvelenate dallo smog ma è tutto un fiorire di Ecomaratone, Vivilabici, Corricheseisano, Domenica Respira. Una o due volte all’anno migliaia di cittadini in tuta e scarpette testimoniano la loro volontà di sopravvivere. Ma il giorno dopo Domenica Respira c’è già Lunedì Ansima e poi Martedì Strozzati. È uscito anche un decalogo “per attraversare bene una città”, come a dire, la colpa non è dell’inquinamento, ma dei cittadini idioti che non sanno respirare. In quanto alla Fiat, ha le auto elettriche pronte ma finché c’è il petrolio mancano le prolunghe.
E tra poco riavremo il nucleare. Verranno costruite solo centrali della moderna terza generazione. Vuole dire che ci devono guadagnare almeno tre grosse industrie. Nessuno ha proposto di costruire una nuova generazione di edifici scolastici, non si guadagna abbastanza.
Tutto questo testimonia che, di fronte a un emergenza ambientale senza precedenti, l’Italia continua a mostrare scarsissima conoscenza e coscienza ecologica. Ci sono singoli parlamentari, associazioni benemerite, comitati di cittadini, qualcuno come Grillo o Vendola che ci sta provando. Ma il partito verde italiano è sempre stata la cenerentola dei partiti verdi europei.
Tutti sentiamo parlare di pale eoliche e pannelli solari, ma le pale restano ferme, e sul fotovoltaico c’è un caos di leggi, di certificazioni improvvisate e di confusione sui costi. Sui nostri tetti l’unica cosa che trionfa è la parabolica.
Camion e navi con rifiuti tossici non hanno smesso un istante di attraversare i nostri territori e il nostro mare. Basta pagare una multa e si riparte. E la nostra prevenzione incendi è al livello di quella degli eschimesi.
Forse c’è una spiegazione. Forse l’Italia si è affezionata all’immagine di qualcosa di sporco, franante, disordinato, e guasto. Le nostre bellezze devono avere un contrappunto fetente, per venire incontro alle aspettative ai turisti. Che infatti fotografano con la stesso interesse i nostri quadri e la spazzatura per strada.
Eppure la parola “pulito” salta fuori in ogni nuovo slogan, iniziativa, e palingenesi. Berlusconi si è promozionato ripulendo una parte di Napoli, poco importa che adesso tutto stia tornando come prima. Le gallerie ferroviarie “ecostabili” della Roma-Bologna hanno distrutto i torrenti dell’Appennino, ma non sentirete mai un’amministrazione rossa protestare per questo scempio. Andate sullo Jonio e vedrete che per un ecomostro abbattuto, un altro sta spuntando.
Chi ci difende da questo massacro mafioso-cementizio? I geologi, i sismologi, i metereologi sono ormai post-esperti. Nel senso che vengono ascoltati solo dopo i disastri. Sarebbe bellissima una trasmissione televisiva in prima serata col titolo “Io l’ho visto” in cui si denunciano i pericoli e i guasti del dissesto idrogeologico e si indica come intervenire subito. Ma i disastrologi devono constatare, non inquietare. E i più furbi tra loro hanno un argomento rassicurante, che garantisce un nuovo passaggio in televisione: dicono “è vero, è un disastro ma è già successo nel 1937”. Verrebbe voglia di farsi trovare a letto con la loro moglie dicendo “quello che lei pensa è vero ma non si arrabbi, è già successo nel 1998”.
Il vulcano, dicono gli scienziati, non è una malvagia anomalia, ma un motore della biosfera. In questo caso il prefisso “bio” viene usato seriamente: ma ormai non c’è prodotto che non esibisca queste tre lettere come pennacchio. Da biogas si è passati a bioyogurt, biomassaggio, biodentifricio e anche biopannolino per bioculi grandi e piccini. Quando si tratta di vendere, sono tre lettere magiche. Quando però si parla di biosfera, cioè di un organismo che non si può vendere, ma che si dovrebbe difendere dalla sfrenatezza economica, il discorso cambia. Ogni istanza ecologica diventa biochiacchiera apocalittica. E i giapponesi con cinica serietà scientifica ci informano che la crisi totale della biosfera è già in atto, e scommettono chi sul 2013 chi sul 2050. Non è un dubbio cosmico come “chi vincerà lo scudetto”, ma varrebbe la pena di rifletterci.
Fortunatamente per i dirigenti italiani le tre lettere sacre non sono bio, ma “mio”, la miosfera del privilegio e dell’impunità. Quel vulcano è un rompiballe, che probabilmente ha dentro al cratere un ritratto di Che Guevara. Dimentichiamolo in fretta.
Recentemente Obama ha detto che entro il duemilatrenta l’uomo deve assolutamente andare su Marte. Ci viene un dubbio: lo ha detto per desiderio scientifico o sta preparando un’arca di Noè? Sarebbe bello se l’inevitabile nube islandese ci spingesse a pensare alle nubi evitabili del nostro futuro. Ma la fine del mondo sembra ormai l’ultimo grande spettacolo che ci è rimasto. Non conviene rinviarla, abbiamo già venduto tutti i biglietti.
http://www.repubblica.it/ambiente/2010/04/20/news/vi_prego_salvate_la_miosfera-3473510/
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