Benedetto Vecchi
La grande corsa al social network 17.06.2011
Una ragazza che non nasconde di essere lesbica; che posta testi antiregime, ma anche le sue fantasie erotiche e che in breve tempo fa diventare il suo blog una delle fonti informative di riferimento dei giornalisti inglesi e statunitensi per capire cosa sta accadendo in Siria.
I testi della ragazza, al secolo A Gay Girl in Damascus, sono considerati eccentrici, ma forniscono informazioni non tanto sulla rivolta siriana, bensì su come è cambiata la società siriana. Inoltre, dichiara orgogliosamente di essere lesbica, un atto di coraggio in una realtà dove lo Stato e la società civile non brillano molto per tolleranza verso l’omosessualità maschile o femminile. Poi arriva la notizia: Amina Abdallah Arraf al Omari, questo il nome della ragazza, è stata forse arrestata dalle forze di sicurezza siriane. Tam-tam nella Rete; iniziano le forme di mobilitazione a suo favore, fino a quando un giornalista statunitense, Andy Carvin,avanza il dubbio che A Gay Girl in Damascus sia un’entità fittizia e che non esiste nessuna Amina Abdallah.
Per una settimana, in Rete comincia il lavoro d’indagine per verificare o meno i sospetti del giornalista statunitense. Infine, la notizia: una ragazza che ha quelle caratteristiche esiste, ma non vive stabilmente in Siria e che molti dei post arrivano dalla vecchia Scozia, da Edimburgo in particolare (a questo proposito il rinvio è all’articolo apparso sul sito del quotidiano torinese “La stampa”). A questo punto la parola passa ai “professionisti dell’informazione”, che recitano il mantra che non sempre la Rete è affidabile, perché non la comunicazione non è gestita dagli “intermediari istituzionali” tra la realtà e chi consuma informazioni.
Tesi ampiamente maggioritaria tra i giornalisti, che spesso usano la Rete come fonte di informazione, ma rivendicano alla propria categoria professionale il compito ultimo di decidere se un’informazione sia corretta o meno. Quello che invece evidenzia questa vicenda sono altri temi, centrali nel rapporto tra Rete, media tradizionali e movimenti sociali. A una domanda preliminare va data comunque risposta: quello che ha postato la ragazza è una bufala? Per chi scrive, no. La forza del suo blog non stava nell’adesione a una qualche deontologia professionale, bensì nella capacità di restituire il clima culturale, sociale, politico della realtà siriana.
La sua potenza comunicativa sta in questa operazione di svelamento, non se quello che scriveva era il risultato di un lavoro sul campo. Anche perché se questo è il criterio di giudizio sulla correttezza dell’informazione, gran parte di quello che viene trasmesso, diffuso, scritto dai media è il frutto di una continua elaborazione, manipolazione di chi siede a una scrivania e “certifica” quello che circola a colpi di click di un mouse.
Tolta di mezzo questa specificazione iniziale, va affrontato il cuore del problema, cioè che tipo di rapporto intercorre tra Rete, media e movimenti sociali. Per affrontarlo, parto da un incontro che si è tenuto a Roma venerdì 10 giugno sulle cosiddette “primavere arabe”. Organizzato da “il manifesto”, giornale in cui lavoro, contemplava una sessione su come la Rete ha contribuito alla rivolta tunisina, egiziana e come è utilizzata in Siria, Barhein, Yemen, Libia. Peccato che non si è riusciti a coinvolgere i mediattivisti iraniani,che negli anni scorsi hanno fatto conoscere l’”onda verde” in Iran usando accortamente e con perizia la blogsfera, Twitter e Facebook.
In ogni caso, interessantissime sono state le testimonianze di Nermeen Edress e Amira Al Hussaini. Ma su questo rinvio agli articoli di Marina Forti e Fausto della Porta, apparsi su il manifesto del 11 giugno. In ogni caso, la tesi di Nermeen Edress risulta la più provocatoria. Secondo la studiosa,attivista, giornalista la Rete è stata solo uno strumento informativo, perché la rivoluzione in Tunisia, Egitto è stata fatta nelle piazze,cioè fuori dallo schermo. E nelle strade si battono i libici che vogliono cacciare Gheddafi, i siriani che vogliono distruggere la gabbia d’acciaio del regime siriano, e così via.
Tesi condivisibile, ovviamente, ma tuttavia impermeabile e indifferente a un’altra tendenza che coinvolge la Rete. In primo luogo, il rapporto tra la vita dentro lo schermo e quella fuori non è raffigurabile secondo la dicotomia tra virtuale e reale. La Rete, infatti, è diventata parte integrante della vita reale. La connessione al World wide web non è una prerogativa di una minoranza, ma esperienza quotidiana per miliardi di persone. Anche perché si è on-line usando non un computer, ma un semplice telefono cellulare, manufatto usato tanto al Nord che nel Sud del Pianeta. A mo di esempio: molte delle immagini, racconti sulla mobilitazione iraniana di due anni fa sono stati veicolati da Twitter, cioè da un social network che ha fatto della convergenza tecnologica tra telefono e Rete il suo punto di forza. Dunque si è in Rete anche senza un computer.
Il venir meno del confine tra reale e virtuale non è esente da problemi. Infatti, entra in campo un altro fattore, cioè che i media tradizionali esercitano un potere sociale e politico che rende politicamente ancora efficace il vecchio adagio che l’opinione pubblica si esprime attraverso la Tv,la radio e i quotidiani.
E’ questa una vera e propria convenzione, seppur una convenzione legittimata attraverso un gioco di specchi tra sistema politico, potere economico e forme organizzate degli interessi, per restare al linguaggio algido del pensiero mainstream liberale. In altri termini i media sono legittimati in quanto produttori dell’opinione pubblica da chi quei media dovrebbe controllare.
Le primavere arabe, ma lo stesso discorso vale anche nella vecchia Europa e negli Stati Uniti, dove la tv, la radio e i quotidiani sono spesso indicati come una “fabbrica del consenso”, indicano che l’opinione pubblica si forma, sempre più, al di fuori dei media tradizionali. Certo, affermare l’evanescenza dei media in paesi come la Tunisia e l’Egitto, dove televisione e giornali sono stati sempre al servizio del potere, può sembrare un’ovvia banalità. Ma questo declino, meglio difficoltà dei media a produrre opinione pubblica, vale anche per il vecchio e il nuovo mondo occidentali.
I social network, la blogsfera veicolano sempre più informazioni, punti di vista che incontrano l’appeal e l’adesione di una società civile che punta a sottrarsi al potere manipolatorio dei media mainstream, attraverso modalità che fanno della condivisione il perno su cui fare leva per sviluppare una sfera pubblica autonoma da quella imposta dal potere politico, economico e delle corporation dell’informazione.
In un linguaggio a tratti oscuro, nella Rete si sviluppano nuvole di dati, informazioni che si diffondono, si restringono, sono elaborate dalla cooperazione sociale presente nel Web. Facebook, Twitter e la blog sfera sono le infrastrutture di questo cloud computing.
E’ su queste nuvole che Google, Facebook, Twitter,ma anche Yahoo!, Apple, Microsoft vogliono fare affari. Diventare l’infrastruttura del cloud computing significa accedere a quel settore che costituirà il mercato degli anni a venire. Tutte le imprese vogliono acquisire un vantaggio sulle altre, stabilendo così delle barriere di ingresso per i nuovi venuti.
Ma sono altrettanto consapevoli che le nuvole devono formarsi al di fuori di contesti professionali standardizzati. In altri termini, la cooperazione sociale deve mantenere la sua autonomia. La partita si gioca sulla riconduzione del bene comune conoscenza e informazione alla regola del libero mercato per questo la querelle sul diritto d’autore è così importante: non sono per garantire le rendite di posizione sul software, ma anche per effettuare l’enclosure del sapere diffuso. Anche in questo caso, un esempio.
La battaglia condotta dai media tradizionali per imporre a YouTube il rispetto del copyright ha due obiettivi. Uno di breve termine (il pagamento delle royalties sul sapere già codificato) e un altro di lungo periodo: far diventare il diritto d’autore il dispositivo per le nuvole di dati che verranno. E, fatto non irrilevante, rientrare in gioco.
Già, perché, e qui ritorno all’incontro sulle primavere arabe, e in particolare all’intervento di Donatella Della Ratta, ci sono anche altri protagonisti che vogliono occupare un posto di rilevo. Il riferimento è ai media arabi (Al Jaazeera, Al Arabya), ma anche a quei media globali (Cnn, Bbs, News Corporation) che sono consapevoli che l’egemonia nel campo dell’informazione e dell’intrattenimento si avrà solo se riusciranno a diventare il motore del cloud computing, cioè vincolare i singoli e i gruppi a un’impresa per stare in Rete, lasciando relativa autonomia e libertà alla produzione di contenuti.
La posto in gioco è dunque quel nuovo modo di produzione della pubblica opinione che oscilla tra autonomia e sussunzione, per evocare l’immagine marxiana del passaggio al capitalismo. Soltanto che in questo caso, il passaggio è da una forma di capitalismo ad un’altra, con un regime di accumulazione distinto da quello precedente, ma incentrato comunque su un lavoro vivo e una cooperazione sociale elementi centrali nella produzione della ricchezza e da ricondurre quindi alla legge del valore, e dunque del plusvalore relativo e assoluto.
Mi sembra questo l’elemento non secondario che emerge dalle primavere arabe. Tendenze, dirà qualcuno, che possono essere smentite dal divenire storico. Certo, come sempre. Ma oltre a stare dalla parte di chi ha cacciato dittatori e chi ancora non ci è riuscito (Libia, Siria, Yemen, etc.), occorre cominciare a riflettere su come viene prodotta l’opinione pubblica. E chi come l’opinione pubblica è una categoria buona, appunto, per normalizzare le rivolte nel Nord Africa. Perché i movimenti non sono opinione pubblica, ma spazi di politicizzazione dei rapporti sociali. Cioè lo strumento affinché il cloud computing creato dal conflitto sociale e di classe non diventi materia prima del capitalismo digitale.
ASCOLTA GLI INTERVENTI DELLA SESSIONE “NUOVE TECNOLOGIE, MASS MEDIA E GIOVANI” DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE ORGANIZZATO DAL MANIFESTO
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/06/articolo/4858/
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Il bancomat con macchina della verità incorporata 18.06.2011
Analizzando la voce stabilisce se l’utente sta mentendo, e nega il prestito.
La banca russa Sberbank sta testando un nuovo modello di bancomat in grado di capire se la persona che ha davanti mente.
Più che un bancomat in senso stretto, in realtà, è una sorta di impiegato virtuale: chi vi si avvicina pur senza essere cliente della banca può usare la macchina per aprire un conto, chiedere un prestito o farsi rilasciare una carta di credito senza che alcun dipendente umano intervenga.
Per poter ottenere tutto ciò il bancomat effettua una scansione del passaporto che l’utente deve fornire, poi registra le impronte digitali e esegue una scansione a tre dimensioni del volto, che sarà usata per il riconoscimento facciale.
Infine, quale ultimo passo, chiederà di rispondere a voce ad alcune domande come «Avete un lavoro?» e «Al momento avete altri prestiti in corso?» valutando le risposte tramite un software di analisi vocale.
Il programma, sviluppato da un’azienda che serve anche l’FSB (il servizio che ha sostituito il KGB) basandosi in parte sui dati raccolti durante gli interrogatori della polizia, rileva il tono della voce e la velocità con cui la persona esaminata parla stabilendo così il livello di stress emotivo e determinando in questo modo se davanti alla macchina vi sia qualcuno che tiene nascosta la verità.
Il sistema è stato ideato allo scopo di ridurre le frodi, necessità urgente specialmente in tempo di crisi finanziaria, e secondo Sberbank rispetta le leggi russe sulla privacy: per obbedire alla norma che vieta alle aziende di possedere i profili vocali dei clienti, questi saranno salvati sulle carte di credito personali di ognuno.
Il vicepresidente della banca sostiene infine che anche chi è conscio della presenza del sistema farà fatica ad aggirarlo, riuscendo a fare passare delle bugie per genuine, dato che il software misura risposte involontarie fornite dal sistema nervoso.
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=15113
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Titanic Europa. Ormai è a rischio anche la moneta unica* 19.06.2011
di Vladimiro Giacché
BCE: un rialzo dei tassi pericoloso
Cominciamo con l’istituzione più importante di tutte: la Banca Centrale Europea. Come è noto, la filosofia economica (meglio: l’ideologia) su cui si fonda l’Unione Europea prevede che la formula magica per la crescita sia rappresentata da mercato + politica monetaria. In altri termini: per ottenere benessere e progresso economico è sufficiente che al libero dispiegarsi delle “forze di mercato” (ossia dei capitali in competizione) si unisca l’apporto delle politiche monetarie, che hanno il compito esclusivo di combattere il rischio di inflazione.
Le scelte compiute in questi mesi dalla Banca Centrale Europea sono coerenti con questi presupposti. E in effetti la BCE il 7 aprile scorso ha portato i tassi d’interesse nell’eurozona dall’1% all’1,25%, e nel mese di giugno ha confermato l’intenzione di inasprire ulteriormente la politica monetaria con un ulteriore rialzo. Non si può dire che questa politica rappresenti una sorpresa. Jean-Claude Trichet, il presidente della BCE, l’aveva annunciata già a marzo, motivandola con i rischi d’inflazione legati all’aumento del prezzo del petrolio. E, tanto per non lasciare dubbi su quale fosse la sua principale preoccupazione, aveva sottolineato che “quando c’è uno shock petrolifero” la responsabilità della BCE è quella di evitare “un effetto-travaso” sui salari, ossia un aumento di questi ultimi.
I motivi per giudicare sbagliato il rialzo dei tassi d’interesse in Eurolandia sono numerosi. Vediamone qualcuno.
1. Nell’eurozona non c’è oggi alcun serio rischio di inflazione. Alla BCE sono terrorizzati perché l’inflazione ha superato di qualche decimale il 2%, ossia il cosiddetto “livello obiettivo” oltre il quale i templari della stabilità monetaria si sentono obbligati ad intervenire. Ora, anche senza voler abbracciare la proposta, avanzata un anno fa da Olivier Blanchard (capo economista del Fondo Monetario Internazionale), di elevare al 4% la soglia di inflazione considerata rischiosa, la verità è che oggi in Europa la cosiddetta inflazione core, ossia l’inflazione depurata dalle variazioni di prezzo dei prodotti energetici e di quelli alimentari, è appena all’1%. E probabilmente non si muoverà di molto, visto che la debolezza della domanda fa sì che le imprese non possano trasferire facilmente (e tanto meno automaticamente) gli aumenti dei prezzi delle materie prime sui prezzi al consumo. Non solo: nel Regno Unito, dove l’inflazione nel quarto trimestre del 2010 ha superato il 4%, la Banca d’Inghilterra per ora si è guardata bene dall’alzare i tassi d’interesse, che là sono allo 0,5%, ossia al livello più basso dal 1694 (anno di fondazione della Banca d’Inghilterra). E questo perché teme gli effetti depressivi che un rialzo avrebbe sull’economia, già indebolita dai tagli per 80 miliardi di sterline decisi dal governo Cameron. Del resto, neppure negli Usa, dove i tassi sono allo 0,25% e l’inflazione è al 3,2%, la Federal Reserve ha sinora reputato necessario rendere più restrittiva la politica monetaria. Insomma: l’ossessione dell’inflazione è una malattia che colpisce soltanto l’eurozona.
2. Ancora più remota è la possibilità di forti aumenti salariali. Quanto alla seconda ossessione di Trichet, essa è ancora più infondata della prima. Oggi infatti l’aumento dei prezzi non si sta traducendo in un aumento dei salari. Per diversi motivi. Il primo è che sono pochissimi i Paesi europei che mantengono strumenti per legare in qualche modo i salari all’andamento dei prezzi. Ma il motivo più importante è un altro: dati i livelli elevati di disoccupazione, il potere contrattuale dei lavoratori è oggi molto debole. E infatti gli stessi salari nominali stanno rallentando un po’ ovunque. Infine, nell’unico Paese in cui il potere di contrattazione dei lavoratori sta aumentando per il diminuire della disoccupazione, ossia la Germania, un aumento dei salari sarebbe benefico in quanto ridarebbe fiato alla domanda interna.
3. Il rialzo dei tassi colpisce le economie più deboli della zona Euro. L’aumento dei tassi d’interesse, se risponde a problemi immaginari, crea però diversi problemi reali. E non da poco. Il primo riguarda gli Stati già alle prese con la crisi del debito, ossia Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Infatti per questi Paesi ogni rialzo dei tassi d’interesse significa un aumento dei già onerosissimi interessi pagati sui titoli di Stato (vale la pena di ricordare che nei primi tre Paesi citati essi si collocano oltre il 10% e nel caso della Grecia superano il 20%). Si è calcolato che, per la sola Grecia, l’onere aggiuntivo possa risultare pari all’1,6% del prodotto interno lordo. Non minori saranno gli oneri in più per il debito privato, che in Irlanda, Portogallo e Spagna ha superato il 210% del pil. Questo peggiorerà la situazione delle sofferenze bancarie, che in questi Paesi sono già molto elevate. Insomma: un rialzo dei tassi d’interesse aggrava la crisi del debito degli Stati in questione, rallentandone ulteriormente i tassi di crescita e peggiorando il rapporto tra deficit e pil (sia a causa della riduzione del pil che delle conseguenti minori entrate fiscali).
4. Il rialzo dei tassi aumenta la divergenza tra le economie dell’area euro. Questo è il punto fondamentale. Oggi in Europa la divergenza tra le economie è già molto accentuata. Le stime ufficiali della Commissione Europea, ad esempio, prevedono per la Germania una crescita del 2,4%, circa tre volte quella della Spagna. Ma c’è un dato ancora più rivelatore di questa divergenza, e riguarda proprio i tassi d’interesse. Gli economisti del Crédit Suisse hanno provato a calcolare i tassi “giusti” in Europa secondo la “regola di Taylor” (una formula che consente di calcolare il tasso d’interesse ottimale di un Paese date l’inflazione e le previsioni di crescita). Bene, secondo questa regola i tassi corretti per Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia dovrebbero essere pari al -4,6%. In Germania, invece, dovrebbero essere al 4,5% (senza segno meno davanti). Queste simulazioni sono un esercizio teorico, ma ci fanno capire come le economie dei diversi Paesi dell’eurozona siano drammaticamente divergenti e come già oggi tassi d’interesse unici a rigore non vadano bene per nessuno. È questa divergenza, oggi, il problema maggiore per la stabilità e la sopravvivenza stessa dell’euro. Ad ogni aumento dei tassi la situazione è destinata ad aggravarsi. E questo precisamente a causa dei danni arrecati alle economie più deboli dell’eurozona, che oggi di tutto avrebbero bisogno tranne che di interessi più elevati da pagare ai loro creditori.
5. Inoltre, un aumento dei tassi comporta un rafforzamento dell’euro. Lo abbiamo visto nei giorni successivi al rialzo di marzo, con l’euro che si è portato ai massimi da oltre 15 mesi, superando la quotazione di 1,46 sul dollaro (a metà giugno non è molto distante: 1,44). Il punto è che l’euro non aveva bisogno di rafforzarsi, in quanto era già molto forte. Questo danneggia le esportazioni verso gli Stati Uniti e i Paesi asiatici.
6. L’errore più grande è però un altro: quello di ritenere che l’economia europea nel suo complesso stia riprendendosi e tornando alla normalità. Le cose, purtroppo, non stanno in questi termini. La situazione economica mondiale, infatti, è in questo momento piena di incognite. Non c’è che l’imbarazzo della scelta: dalla gravissima situazione degli Stati Uniti, dove a un debito pubblico fuori controllo si accompagna la disoccupazione più elevata da decenni, all’Inghilterra, presa tra la severità della manovra di bilancio e salari reali in forte calo a causa dell’inflazione; senza dimenticare il disastro tellurico e nucleare giapponese e le sue conseguenze sull’economia nipponica, che è tornata in recessione. E poi, senza andare tanto lontano, ci sono i Paesi della zona-euro intrappolati nella crisi del debito. Ma anche a questo proposito l’establishment europeo ha intrapreso una strada catastrofica.
L’Unione Europea vara il Fondo salva-Stati…
Quando, a marzo, i contorni del cosiddetto Fondo salva-Stati hanno cominciato a chiarirsi, qualche quotidiano ha avuto il coraggio di definirlo come una svolta storica: un entusiasmo decisamente eccessivo. I fatti sono questi: l’Unione Europea ha deciso di dotarsi di un Fondo per interventi di emergenza (dotazione: 440 miliardi di euro), che a partire dal 2013 si trasformerà in Meccanismo Europeo di Stabilità (la stessa cosa di prima, ma con una dotazione di 500 miliardi di euro). Al Fondo dovranno contribuire i Paesi membri della zona euro, in proporzione alla quota di partecipazione alla Banca Centrale Europea (quindi con un rilevante contributo italiano). Il Fondo potrà erogare prestiti ai Paesi in difficoltà, e anche comprare i loro titoli di Stato (oggi può farlo soltanto la Banca Centrale Europea).
Tutto bene, anzi male: infatti questo Fondo non funzionerà. Perché il concetto stesso di “prestiti” qui è fuori posto. I prestiti servono infatti soltanto a risolvere le crisi di liquidità e non quelle di solvibilità. Possono cioè risolvere soltanto condizioni di difficoltà momentanee di un Paese nel reperire denaro sul mercato dei capitali, quando, ad esempio, i titoli di Stato si deprezzano bruscamente a causa di un attacco puramente speculativo. Purtroppo, a dispetto della retorica ricorrente sugli speculatori – retorica che ad ogni tornante cruciale di questa crisi interviene per farci inseguire “colpevoli” di cartapesta e per impedirci di comprendere i processi reali – la situazione dei Paesi europei che oggi sono nell’occhio del ciclone non è questa. La loro crisi è infatti una cronica crisi di solvibilità, perché hanno un deficit strutturale nei confronti dell’estero (ossia consumano da anni più di quanto producano). Quando succede questo, è inevitabile che una o più categorie di agenti economici di quel Paese accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o anche di entrambi.
L’elenco dei Paesi europei che oggi si trovano in questa situazione contiene qualche sorpresa: vi troviamo infatti non soltanto Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, ma anche Regno Unito, Francia e Italia (la nostra bilancia commerciale si è chiusa nel 2010 in passivo per oltre 29 miliardi di euro). Tutti questi Paesi sono caratterizzati da un calo del peso dell’industria e da un peso rilevante, invece, di settori non rivolti all’esportazione (commercio al dettaglio, edilizia, trasporti, servizi al consumo e simili); in particolare, è relativamente bassa la loro quota di esportazioni verso i Paesi a crescita più elevata. La presenza nell’elenco di Francia, Regno Unito e Italia ci fa capire che il problema degli squilibri strutturali nei conti con l’estero non interessa soltanto i Paesi già andati in crisi, ma è molto più generale e potenzialmente dirompente.
Ma consideriamo ora gli Stati già investiti dalla crisi del debito. Nessun prestito potrà risolvere il problema sottostante all’indebitamento del loro settore pubblico, ossia la loro crisi di solvibilità. Anzi, potrà soltanto aggravarlo. E questo per almeno due motivi. Il primo è ovvio: i prestiti devono essere restituiti, e anche con gli interessi. Quindi, se i deficit strutturali non migliorano, i prestiti ricevuti non faranno che peggiorare la situazione. Il secondo motivo è rappresentato dalle condizioni che accompagnano questi prestiti. Esse prevedono sempre una forte riduzione della spesa pubblica e l’incitamento a riequilibrare i propri conti con l’estero (migliorando la competitività delle proprie merci e simili). Tutto molto ragionevole, in apparenza. Purtroppo però la richiesta di ridurre la spesa pubblica comporta una forte riduzione della domanda interna se i tagli riguardano le spese sociali, e un peggioramento in prospettiva della competitività di sistema se i tagli riguardano invece gli investimenti (ad esempio quelli in ricerca e sviluppo tecnologico, o in formazione, o in infrastrutture). Quanto alla richiesta di riequilibrare i conti con l’estero, visto che ormai per i Paesi che fanno parte dell’euro le svalutazioni competitive sono impossibili, è praticamente impossibile in tempi brevi aumentare le esportazioni in misura sufficiente a riequilibrare i deficit commerciali. C’è quindi un’unica strada: ridurre drasticamente le importazioni. Ma nel caso della Grecia esse andrebbero ridotte del 50%, in quello del Portogallo del 20%. Questo presuppone una riduzione anche molto violenta della domanda interna, che ha l’effetto di deprimere l’economia, e quindi di ridurre le entrate fiscali, accrescendo così il deficit statale. Sono misure impossibili: il primo ministro portoghese il 23 marzo si è dimesso proprio per questo. Dopodiché le elezioni hanno determinato un avvicendamento al governo, che però sarà assolutamente indifferente con riguardo alle misure imposte dall’Unione Europea e dalla BCE: le politiche di questi Paesi, ormai – in assenza di movimenti popolari in grado di imporre un radicale rovesciamento delle priorità politiche e delle “compatibilità” – si decidono infatti a Bruxelles.
…ma la Grecia va a fondo
L’assurdità di quanto viene richiesto è evidente nel caso della Grecia. Per capirlo basta ripercorrere per sommi capi quello che è accaduto negli ultimi anni.
Troppo spesso i nostri giornali negli ultimi mesi hanno rinchiuso la Grecia nel cliché ingiusto, e francamente anche un po’ ridicolo, di una sorta di paese di Bengodi, dove gli abitanti si sono dati alla pazza gioia per anni a spese dell’Unione Europea. La realtà è ben diversa. La Grecia è uno dei Paesi più poveri d’Europa. Dopo l’ingresso nell’euro i redditi diminuiscono, le famiglie si impoveriscono, le produzioni greche non riescono a sostenere la concorrenza dei Paesi più forti. Al tempo stesso, l’evasione fiscale è (con quella italiana) la più alta d’Europa, e le spese militari in proporzione alla ricchezza del paese sono addirittura le più alte d’Europa. Per restare nel club della moneta unica (anzi, già per entrarci) i conti vengono truccati: ma le istituzioni europee chiudono un occhio, perché così conviene agli Stati che esportano merci e prestano soldi alla Grecia, Germania e Francia in testa. La cosa sembra sostenibile negli anni di grande crescita (drogata) che precedono lo scoppio della crisi economica mondiale nel 2007-2008. Poi tutto salta per aria. A fine 2009 emergono i trucchi contabili e i problemi del debito pubblico. A maggio 2010, dopo mesi di tentennamenti, l’Unione Europea mette in piedi un piano di salvataggio: che in realtà salva soltanto le banche tedesche e francesi, che avrebbero perso un sacco di soldi se i titoli di Stato greci non fossero stati rimborsati al 100%. In cambio chiede un piano lacrime e sangue che finisce di distruggere l’economia greca: crollo della crescita, degli investimenti, dei salari (-20%), impennata della disoccupazione (+14%); crollo anche delle tasse (perché se non guadagno niente non pago le tasse): e quindi peggioramento della spirale debitoria.
In definitiva, la cura da cavallo imposta a questo Paese in cambio del “salvataggio” operato nel 2010 non solo non ha affatto sortito gli effetti sperati, ma ha peggiorato la situazione. Tanto da rendere praticamente certa almeno una ristrutturazione del debito pubblico greco. A marzo le probabilità che entro 5 anni la Grecia non sia in grado di onorare il suo debito sono stimate al 58%. Il Consiglio Europeo dell’11 marzo si decide quindi ad abbassare il tasso di interesse pagato dalla Grecia per il prestito ricevuto nel 2010, prorogando inoltre la scadenza del debito da 3 a 7 anni e mezzo. Di fatto, già questa è una ristrutturazione del debito greco, molto prossima a una dichiarazione di parziale insolvenza. Ma non basta. La situazione continua ad avvitarsi. A fine maggio, non un cittadino greco qualsiasi, ma il Commissario europeo per la pesca, Maria Damanaki, afferma che “lo scenario di una uscita della Grecia dall’euro ormai è sul tavolo”. Le probabilità di un default greco continuano a salire. L’11 giugno, infine, la cancelliera tedesca Angela Merkel – sino a quel momento assai ondivaga – rompe gli indugi e in un drammatico messaggio video afferma: “Bisogna salvare la Grecia, o una crisi molto peggiore di quella scatenata nel 2009 dal fallimento di Lehman Brothers si abbatterà sull’economia mondiale e travolgerà anche l’economia tedesca”. Le banche private tedesche e francesi si dicono disposte a cooperare, sottoscrivendo nuove emissioni di titoli di debito pubblico della Grecia per rimpiazzare le obbligazioni in scadenza. Si tratta a tutti gli effetti di una ristrutturazione del debito greco (in termini formali è un riscadenzamento: si allungano le scadenze per il rimborso del debito, anziché farsi pagare oggi di meno; ma concettualmente è la stessa cosa). In questo modo si apre una grave frattura con la Banca Centrale Europea, che si è sempre schierata contro una tale eventualità, perché teme di maturare perdite sui 45 miliardi di euro di titoli di Stato greci che ha ricomprato dalle banche europee in questi mesi, ma soprattutto perché ha paura di un effetto domino sui titoli di debito di tutti gli Stati in difficoltà dell’Eurozona. Il punto è che allo stato attuale l’unica alternativa ad una ristrutturazione è una vera e propria insolvenza, che avrebbe conseguenze ancora peggiori.
Con la Grecia, affonda il Titanic Europa. Italia inclusa
Quello che terrorizza la Merkel è però ancora un’altra eventualità: la possibilità che la Grecia alla dichiarazione di insolvenza accompagni l’uscita dall’Unione Europea, ossia dall’euro (il trattato in vigore infatti non prevede un’uscita volontaria dall’euro, ma soltanto dall’Unione Europea). È un terrore tardivo, ma giustificato. Probabilmente infatti sarebbe l’inizio di una serie di esplosioni a catena, che terminerebbero con la fine della moneta unica, di cui i tedeschi sono stati i principali beneficiari.
Il problema però è che, al punto a cui stanno oggi le cose, anche il riscadenzamento dei debiti della Grecia tardivamente sponsorizzato dalla Germania servirà a poco: da un lato abbiamo la depressione economica indotta dalle misure straordinarie di taglio della spesa pubblica e delle prestazioni di un anno fa, e quindi un crollo dell’attività economica, degli investimenti, dell’occupazione, ma anche il peggioramento dei conti pubblici (per via della diminuzione delle entrate fiscali) e la crescita del debito pubblico, che è ormai al 143% del prodotto interno lordo; dall’altro, il rialzo dei tassi di interesse della zona euro, che come abbiamo visto farà crescere gli interessi sul debito.
Nessuno nell’establishment europeo osa ammetterlo, almeno in pubblico, ma ormai l’uscita della Grecia dall’euro è la cosa più probabile. Molti analisti finanziari ormai danno la cosa per scontata. In questo modo la Grecia si riapproprierebbe, sia pure a caro prezzo, della propria sovranità monetaria. Ma i problemi non riguarderebbero soltanto la Grecia. Un elenco di quello che succederebbe se la Grecia dichiarasse insolvenza si trova in un articolo dell’economista inglese Andrew Lilico pubblicato sul Telegraph del 20 maggio scorso (What happens when Greek defaults):
1) tutte le banche greche immediatamente falliscono [perché hanno in portafoglio un terzo dei titoli di Stato greci]
2) il governo greco le nazionalizza e impedisce forzosamente prelievi dalle banche
3) per reprimere la rivolta dei risparmiatori, il governo dichiara il coprifuoco e la legge marziale
4) la Grecia inizia a stampare una nuova moneta e ridenomina il proprio debito in questa moneta (“nuova dracma”)
5) la nuova dracma svaluta del 50%, cancellando così metà del debito pubblico
6) il governo portoghese assiste all’evolvere della situazione greca e, se la ritiene sotto controllo dal punto di vista militare, dichiara insolvenza a propria volta
7) un buon numero di banche francesi e tedesche accumulano perdite tali da non rientrare nei requisiti minimi di capitale previsti dalla normativa
8) la Banca Centrale Europea è a sua volta insolvente, a causa della propria esposizione sul debito pubblico della Grecia e sulle banche greche e irlandesi
9) i governi francese e tedesco si incontrano per decidere se ricapitalizzare la BCE o permetterle di stampare moneta per recuperare la propria solvibilità: alla fine decidono di ricapitalizzarla (e di ricapitalizzare le proprie banche) ma dichiarano che è l’ultimo salvataggio
10) crollano le obbligazioni bancarie spagnole
11) poi l’attenzione degli investitori comincia a rivolgersi alle banche inglesi…
Ovviamente, a questo elenco si potrebbero aggiungere altre conseguenze plausibili. Tra le più probabili, va menzionato un forte rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato di tutti i Paesi considerati in difficoltà, inclusa l’Italia. Che tra l’altro sta già finendo sotto i riflettori degli investitori internazionali essenzialmente per due motivi:
1) il primo è rappresentato dalla sciagurata revisione delle regole di Maastricht decisa al Consiglio Europeo del 24 marzo, che impone ai Paesi ad alto debito manovre di rientro nella misura di un 1/20 del debito eccedente il 60% del prodotto interno lordo ogni anno. Questo obiettivo – accettato supinamente dal governo Berlusconi – comporta tagli alla spesa pubblica (e quindi degli investimenti pubblici) tali da colpire fortemente la domanda interna e anche la crescita della competitività (a cui sarebbe essenziale, ad es., un potenziamento delle infrastrutture);
2) il secondo è la bassa crescita (e il disavanzo commerciale), che rende impossibile diminuire il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo attraverso un’aumento del pil anziché attraverso una riduzione del debito.
È evidente che, se a questi problemi già sul tappeto si aggiungesse un forte rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato (ossia degli interessi che lo Stato deve pagare ai suoi debitori), la situazione diverrebbe assolutamente incontrollabile. E condannerebbe il nostro Paese, se si decidesse di accettare la linea di rigore cara alla BCE e alla Commissione Europea, a un destino greco: manovre lacrime e sangue per ridurre il debito, depressione economica e quindi aumento del debito; e in prospettiva, dopo altri anni di stagnazione, l’insolvenza.
Conclusioni
Proviamo a trarre qualche conseguenza da quanto abbiamo visto.
1. La strategia di attacco al debito voluta dall’establishment europeo (quindi Bruxelles e Francoforte, ma anche – ed è bene sottolinearlo – i governi nazionali che partecipano al Consiglio Europeo, incluso quello italiano) conduce inevitabilmente ad una riduzione della domanda.
Essa infatti prevede:
a. che il debito pubblico sia ridotto attraverso un surplus primario delle finanze pubbliche (e questo implica minore domanda legata alla spesa pubblica);
b. che il debito delle famiglie sia ridotto attraverso una crescita del tasso di risparmio;
c. che il debito delle imprese rientri almeno in parte, la qual cosa può avvenire solo attraverso l’effetto combinato di una crescita del saggio di profitto e di un calo del tasso di investimento, e quindi una crescita del tasso di autofinanziamento nella misura utile a ridurre il debito.
Tutti questi elementi concorrono a deprimere la domanda. È una strategia che può funzionare soltanto a patto che il Paese interessato abbia una forte vocazione esportativa e che esporti soprattutto al di fuori dell’Unione Europea. Questa condizione si applica soltanto alla Germania, e – in parte – ad Austria, Olanda e Finlandia. Non si applica a nessuno dei Paesi del Sud Europa (Francia e Italia incluse).
2. Pertanto la strategia europea di rientro del debito ha i seguenti caratteri:
a. è marcatamente di classe: il rientro dal debito pubblico, per tutti gli Stati che hanno impegnato ingenti risorse per salvare il sistema finanziario nel 2008 e 2009, significa che questi soldi ora si vanno a prendere riducendo il salario indiretto (le prestazioni sociali) e differito (le pensioni): a questo infatti nella sostanza si riduce gran parte delle manovre di rientro elaborate dai governi.
b. È discriminatoria nei confronti di alcuni Paesi europei, la cui struttura produttiva mal si adatta a questa strategia. Per questa via, le attuali strategie europee di rientro dal debito di fatto fanno sì che la distruzione di capacità produttiva necessaria per far riprendere i profitti avvenga principalmente a spese delle attività manifatturiere dei Paesi del Sud Europa, accentuando processi di deindustrializzazione già da tempo in atto in questi Paesi (tra cui il nostro).
3. Ma siccome gli effetti di queste manovre sono socialmente ed economicamente distruttivi per alcuni Stati, e siccome è praticamente scontato un effetto domino a livello europeo
a. per le ripercussioni che l’esplodere di crisi del debito nei Paesi del Sud avranno inevitabilmente sui sistemi bancari dei Paesi del Nord;
b. per le ripercussioni che tutto questo avrà sulla struttura stessa dell’Unione Europea, a partire dalla moneta unica;
c. per il possibile innesco di un’altra crisi simil-Lehman (ma l’esempio migliore sarebbe quello del Creditanstalt austriaco nel 1931);
allora la strategia europea ha un’altra caratteristica: non funziona in generale. Ossia, alla lunga, per nessuno. Neppure per la Germania.
4. Per quanto riguarda più in particolare l’Italia, un’intransigente opposizione ai tagli della spesa pubblica che si prospettano è obbligata dai seguenti punti di vista:
a. Si tratta di misure di classe, alle quali va contrapposta la possibilità concreta di recuperare sul piano delle entrate, attraverso lotta all’evasione fiscale (120 miliardi il gettito evaso ogni anno) e imposte patrimoniali ben calibrate, le somme sufficienti a manovre anche di entità significativa. Ovviamente il problema è la volontà politica: questo governo non può agire in tal senso perché eroderebbe in misura significativa la propria base elettorale.
b. Si tratta di misure che, in quanto imperniate sulla riduzione della spesa pubblica, per i motivi visti sopra non scongiurano la crisi del debito, ma la rendono più probabile e più catastrofica.
c. Si tratta di misure che comportano un sostanziale ridimensionamento del ruolo dello Stato nell’economia, riportando di fatto la situazione all’era del laissez faire dell’Italia pre-unitaria.
d. Infine, è il vincolo stesso alla riduzione del debito secondo le modalità viste sopra (di fatto un peggioramento dello stesso trattato di Maastricht) in una fase economica come l’attuale a risultare penalizzante oltre misura in particolare per l’Italia. Da questo punto di vista dev’essere denunciata la gravità sul piano della stessa sovranità nazionale dell’accettazione da parte del governo Berlusconi di queste norme-capestro dall’effetto potenzialmente devastante per il nostro Paese.
In questo contesto, è compito dei comunisti italiani
1. Consolidare i rapporti con tutti i partiti e i movimenti che in Europa si battono contro le manovre micidiali imposte dall’Unione Europea, a partire dai compagni del KKE in Grecia e del PCP in Portogallo.
2. Contrapporre all’Europa dei capitali, che sta implodendo sotto i colpi della crisi e per le proprie interne contraddizioni, un’Europa del lavoro: che non significa astrattamente “più diritti” nell’attuale contesto di mercato capitalistico (come in qualche cialtronesca “nuova narrazione” ci capita di sentire), ma – in concreto – un’Europa che unifichi verso l’alto gli standard salariali e di protezione dei lavoratori, difenda lo Stato sociale e allarghi la sfera di ciò che è pubblico, introducendo forme di orientamento e di controllo sociale della produzione.
3. Lanciare una grande battaglia per la democrazia in Europa: per restituire alla sovranità popolare tutti i poteri e le decisioni che in Europa sfuggono ad un controllo democratico.
*[l’articolo è in stampa per la rivista “Marx 21 – nuova serie de l’ernesto – rivista comunista”]
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Meglio la finestra – Liberarci dall’Euro, per un’altra Europa 17.06.2011
di Marino Badiale, Fabrizio Tringali – Megachip. [1]
1. Introduzione
Il tema dell’Europa diventerà uno dei punti cruciali della discussione politica in Italia nei prossimi mesi, perché le nuove regole europee in tema di finanza pubblica hanno conseguenze durissime per l’Italia. La discussione sul “che fare” di fronte a tali norme diventerà estremamente accesa quando il governo italiano comincerà ad agire secondo il loro dettato. Chi voglia combattere il degrado che attanaglia il nostro paese, e opporsi alla rovina cui ci porta l’attuale organizzazione economica e sociale, deve aver ben chiaro lo scenario che ci troveremo di fronte nel breve e medio periodo.
L’analisi che qui proponiamo inizia illustrando la recente riforma che il Consiglio europeo ha varato lo scorso 24-25 marzo. Gli accordi introducono nuove regole di governo delle finanze pubbliche dei paesi dell’Eurozona, con lo scopo di garantire la stabilità dell’Euro e di far ripartire la crescita del PIL nell’area Euro.
L’articolo è diviso in tre parti: nelle prima descriveremo i fatti, cioè spiegheremo le principali caratteristiche di questa riforma epocale, e le motivazioni che hanno spinto l’Europa a prendere tali decisioni.
Nella seconda ci soffermeremo sulle gravissime conseguenze sociali e politiche che i nuovi accordi comporteranno per il nostro Paese.
Nella terza discuteremo le possibili risposte politiche alla situazione descritta. In particolare affronteremo il tema di una possibile Europa diversa dalla attuale, cioè delle caratteristiche dell’Unione Europea di cui avremmo bisogno, che sono diametralmente opposte a quelle dell’attuale UE. Dopo aver discusso e criticato alcune proposte possibili, tireremo le logiche conclusione della nostra analisi, che anticipiamo qui: è necessario difendere il popolo italiano dall’attuale Unione Europea, promuovendo al più presto l’uscita del nostro Paese dall’Euro.
2. I fatti.
Il problema che le nuove regole europee si propongono di affrontare è quello del debito pubblico di alcuni paesi europei, i famigerati “PIIGS” (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). E’ noto che la crisi economica, iniziata nel 2007 negli USA e dilatatasi poi al mondo intero nel 2008, si è trasformata per questi paesi in possibilità di “crisi del debito sovrano”, cioè in una possibile incapacità di onorare il loro debito pubblico. I meccanismi di questo passaggio sono diversi nei vari paesi, perché diverse sono le situazioni di partenza e le loro storie rispettive.
Si può comunque genericamente affermare che la causa prossima dei problemi è rappresentata in primo luogo dalla trasformazione dei debiti privati in debiti pubblici, tramite le diverse forme di aiuto al settore finanziario adottate dai diversi paesi, e in secondo luogo dalla crisi dell’economia reale, con drastica riduzione del PIL e con la necessità di spese anticicliche.
Questa situazione ha generato una dinamica negativa del rapporto debito/PIL (in questa fase il parametro fondamentale) che si teme possa sfuggire al controllo. In questa realtà agiscono i timori degli investitori, che chiedono interessi sempre più alti per sottoscrivere le nuove emissioni di titoli di Stato dei paesi in difficoltà, uniti a manovre speculative che accentuano le difficoltà. Il risultato è che il debito continua a crescere, fino al rischio di insolvibilità.
Pertanto l’Unione Europea ha deciso di intervenire, promuovendo negoziati finalizzati alla stesura di un nuovo patto di stabilità e crescita.
I negoziati hanno portato alla riforma della governance europea, approvata il 24-25 marzo 2011. Ecco alcune delle novità principali:
A. Gli accordi stabiliscono obiettivi molto chiari, che i paesi membri sono tenuti a rispettare:
– pareggio di bilancio entro 5 anni
– riduzione del debito per un importo annuale pari ad un ventesimo della cifra eccedente il rapporto del 60 per cento fra debito e PIL
Il mancato rispetto di questi parametri darà luogo a sanzioni.
B. I Paesi in difficoltà potranno accedere a prestiti in base all’ European Stability Mechanism[2].
C. Viene introdotto l’“Euro Plus Pact”. Si tratta di un patto per la competitività di stampo fortemente liberista, che impone agli stati membri di rivedere diversi aspetti della legislazione nazionale, prevalentemente nel campo del lavoro. Flessibilità, contenimento dei salari e della spesa pensionistica sono i capisaldi di questo pacchetto.
D. Viene varato il “Six Pack”: si tratta di sei proposte di legge, di cui gli stati membri hanno già avviato l’iter legislativo. Contengono diverse norme, prevalentemente finalizzate ad aumentare le sanzioni in caso di sforamento dei parametri di stabilità, e a rendere automatica la loro applicazione, attraverso il reverse mechanism (la Commissione Europea attiva automaticamente le sanzioni, a meno che il Consiglio non si pronunci diversamente).
E. Viene confermato il cosiddetto “Semestre Europeo”, varato nel 2010. Si tratta di una procedura di sorveglianza multilaterale dei bilanci nazionali, affidata ad una task-force presieduta dal presidente del Consiglio europeo. Lo scopo è rafforzare il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri. Le raccomandazioni emesse devono essere recepite dagli stati membri. Prevalentemente si tratta di spinte alla liberalizzazione/privatizzazione, alla riforma del lavoro e al ridimensionamento della spesa per la previdenza sociale.
L’avvio del primo Semestre europeo quest’anno è stato segnato dalla ‘Annual Growth Survey’ della Commissione, pubblicata a gennaio, che ha messo in luce 10 azioni che l’Ue dovrà intraprendere nel 2011/2012. Tra di esse è prevista la riforma dei sistemi pensionistici[3].
L’insieme di queste norme garantisce agli organismi di Bruxelles una forte capacità di orientamento delle politiche economiche degli Stati nazionali, ai quali resta un margine di manovra molto ristretto.
Occorre inoltre notare che, accanto a queste misure già varate, si stanno elaborando misure ulteriori che toglierebbero agli Stati ogni residua forma di sovranità sull’economia. Il Presidente della BCE Jean-Claude Trichet ha recentemente proposto che le autorità dell’Eurozona possano avere “il diritto di veto su alcune decisioni di politica economica a livello nazionale”[4]. In particolare, secondo Trichet, Bruxelles dovrebbe poter bloccare qualsiasi decisione di uno Stato che riguardi “le principali voci di spesa del bilancio e gli elementi essenziali per la competitività del Paese”.
Per avere un quadro completo della situazione, occorre però chiedersi quali siano le reali motivazioni che hanno spinto l’Europa a prendere queste decisioni. Per dare una risposta serve sapere chi è che detiene la maggior parte del debito pubblico dei paesi PIIGS, e cosa comporterebbe l’eventuale insolvenza (default) di uno Stato membro dell’Euro.
La maggioranza del debito italiano è in mano a banche e governi esteri: in base ai dati raccolti dal New York Times, la Francia ne possiede oltre un terzo. Importanti quote sono in mano anche a Germania e Gran Bretagna[5].
La situazione della Grecia è simile: buona parte del suo debito è in mano a stranieri, fra i quali la regione Lombardia e la stessa BCE, che possiede un portafoglio di titoli greci per un valore nominale di circa 50 miliardi di euro. Ovviamente i creditori esteri hanno interesse ad evitare il default di uno Stato di cui detengono grosse quantità di titoli, per evitare le perdite relative alla conseguente ristrutturazione del debito. Dunque sia la BCE, che gli stati creditori, hanno interesse a garantire la solvibilità dei paesi a rischio default. Al massimo potrebbero accettare una “ristrutturazione soft” del debito, come ambienti tedeschi sembrano suggerire per quanto riguarda la Grecia. Il principale scopo delle nuove regole europee, e delle politiche draconiane che queste imporranno al nostro Paese (e agli altri PIIGS), è semplicemente quello di proteggere gli investimenti degli stati economicamente più forti, e della stessa BCE.
3. Le conseguenze.
Quali effetti produrranno per il nostro Paese i vincoli della nuova governance europea?
Il già citato quaderno di approfondimento dell’ISPI[6] ci ricorda che il nuovo patto di stabilità e crescita obbliga gli Stati ad azzerare il deficit di bilancio in cinque anni e a ridurre il rapporto debito/PIL seguendo un programma stringente.
“Per l’Italia, che ha un rapporto debito/PIL eccedente il 110%, questo implica una riduzione compresa fra due e tre punti percentuali di tale rapporto, almeno per i primi anni (…). Si tratta di un aggiustamento importante, pari in valore assoluto ad oltre 40 miliardi di euro l’anno”[7].
Tale importo potrebbe diminuire in presenza di una crescita significativa del PIL, mentre “minore sarà la crescita del PIL, maggiore sarà l’onere a carico della finanza pubblica, onere che potrebbe velocemente diventare insostenibile nell’ipotesi di un tasso di crescita non superiore all’1% annuo”[8].
Poche righe più avanti il quaderno ISPI citato smorza qualsiasi ottimismo, rilevando quanto sia poco credibile una previsione di crescita per l’Italia superiore all’1,5% annuo.
Dello stesso avviso è la Corte dei Conti, che nel rapporto 2011 sottolinea come, dopo la grande recessione del biennio 2008-2009, dal 2010 gli andamenti del PIL mostrano una tendenza al modesto aumento (+1.3%). Tuttavia
“La fine della recessione economica non comporta il ritorno ad una gestione ordinaria del bilancio pubblico, richiedendosi piuttosto sforzi anche maggiori di quelli finora accettati. Tanto più che va tenuto conto delle implicazioni dell’inasprimento dei vincoli europei, ed in particolare della nuova regola, assistita da apposita sanzione di tipo praticamente automatico, secondo la quale i paesi che registrano un rapporto fra debito pubblico e prodotto superiore al 60% dovranno ridurre lo scarto fra il dato effettivo e questo valore-soglia di un ventesimo all’anno (del 3% all’anno, pari, oggi, a circa 46 miliardi nel caso dell’Italia)”[9].
La Corte prosegue la sua analisi descrivendo uno scenario inquietante:
“Le simulazioni presentate nel Rapporto segnalano, a tal riguardo, come, con l’ipotizzata continuazione di tassi di crescita molto modesti, il rispetto dei nuovi vincoli europei richieda un aggiustamento di dimensioni paragonabili a quello realizzato nella prima parte degli anni novanta, per l’ingresso nella moneta unica. A differenza di allora, però, gli elevati valori di saldo primario andrebbero conservati nel lungo periodo, rendendo permanente l’aggiustamento sui livelli della spesa”.
Dunque le misure che si renderanno necessarie per il rispetto dei parametri europei possono essere paragonate a quelle che furono adottate per ottenere l’ingresso nell’Euro. Ma con una importantissima differenza: la fase di aggiustamento dei conti pubblici precedente all’ingresso nella moneta unica fu relativamente breve, temporalmente circoscritta. La fase nella quale stiamo per entrare, invece, si protrarrà per un tempo indefinito, sicuramente molto lungo.
Da questa dilatazione del periodo di difficoltà, emerge un problema cruciale, che molti studiosi mettono in rilievo: manovre di queste dimensioni, protratte per anni, avranno un profondo effetto depressivo. Andranno cioè a incidere negativamente sulla crescita del PIL, che già si prevede stentata. Se succederà questo, allora gli obiettivi fissati (che, ricordiamolo, riguardano il rapporto debito/PIL) potrebbero essere molto più lenti da raggiungere del previsto, o addirittura rivelarsi non raggiungibili: se diminuisce il debito ma contemporaneamente diminuisce anche il PIL, il rapporto fra i due può benissimo restare costante o anche aumentare. Sembra sia questo lo scenario che si profila per la Grecia: manovre durissime che abbattono il debito ma anche l’economia, cosicché il rapporto debito/PIL non diminuisce. Questo rende necessarie altre manovre, che a loro volta abbattono ulteriormente il PIL, e così via, in una spirale depressiva dalla quale non si vede via d’uscita[10].
E’ dunque probabile che le manovre di riduzione della spesa pubblica che l’UE intende imporci non avranno gli effetti previsti in termini di riduzione del rapporto debito/PIL.
Come se non bastasse le UE continuerà a spingere perché gli Stati assumano politiche di stampo iperliberista. E nel prossimo futuro potrà sostanzialmente imporle, tramite gli strumenti introdotti dalle nuove regole. Scorrendo diversi documenti prodotti da vari organismi dell’Unione, emerge che alcuni dei provvedimenti ritenuti necessari per il rilancio della crescita sono i seguenti:
A. Ancorare i salari alla produttività aziendale, cancellando o ridimensionando il peso dei contratti nazionali di lavoro.
B. Riformare ulteriormente le pensioni (aumentando l’età pensionabile e diminuendo ulteriormente il rapporto tra contributi versati e valore della pensione percepita).
C. Realizzare privatizzazioni.
Ricordiamo che in base all’European Stability Mechanism, in caso di rischio default l’eventuale prestito di salvataggio sarà vincolato ad un pacchetto di riforme decise dai tecnocrati europei.
Lo scenario che ci aspetta è quello di una progressiva perdita di sovranità nazionale a favore della UE, finalizzata all’implementazione delle fallimentari politiche liberiste da essa imposte.
E’ facile prevedere gli effetti sociali di tutto questo. Si tratta di misure che costringeranno a tagliare drasticamente la spesa destinata alla salute, alla scuola, ai servizi sociali. Gli enti locali subiranno ridimensionamenti ai bilanci ben maggiori di quelli già realizzati, trovandosi costretti a tagli draconiani ai servizi pubblici, con fortissime ricadute negative per le condizioni di vita di tutti noi. La scuola e l’Università subiranno ulteriori tagli, a partire da una situazione come quella attuale, nella quale esse sono già sostanzialmente al limite della sopravvivenza. L’attacco ai diritti dei lavoratori continuerà, secondo la linea scelta in Italia da Marchionne. Il lavoro sarà sempre più precario. La depressione economica rafforzerà il drammatico problema della disoccupazione, mentre le famiglie avranno sempre maggiori difficoltà a fungere, come hanno fatto finora, da sostituti del Welfare State.
La conseguenza sarà la cancellazione di ogni residua forma di Stato sociale, un ulteriore e drammatico aumento della disoccupazione e del lavoro senza diritti, la drastica diminuzione delle condizioni di vita di larghissimi strati della popolazione.
Una delle conseguenze dell’impoverimento materiale e culturale che ne risulterà, sarà che l’Italia non sarà più in grado di competere sui segmenti del mercato ad alta specializzazione.
Quale potrà essere il ruolo del nostro paese, di questa Italia impoverita e depressa, all’interno dell’Europa? Sarà probabilmente quello di fornire una riserva di forza lavoro dequalificata e sottopagata; di fungere da discarica per i rifiuti della parte più forte dell’Europa, e da fornitrice di servizi finanziari occulti tramite le nostre mafie.
Quello che stiamo delineando è lo scenario di una profonda involuzione che renderà il nostro paese in sostanza un paese del Terzo Mondo[11].
4. Reazioni possibili.
Dopo aver descritto la situazione e i suoi esiti più probabili, è naturale sollevare la questione del “che fare”. Come opporsi al degrado e alla decadenza che si prospetta per l’Italia? Se si assume di continuare a rimanere nella moneta unica, vi sono due possibilità: in primo luogo, impegnarsi per impostare una battaglia politica a livello europeo finalizzata a cambiare le direttive di politica economica dell’UE, in secondo luogo ottemperare a ciò che ci viene imposto cercando però di adottare misure di segno sociale opposto a quello che è probabile aspettarsi, per esempio aumentando le imposte che gravano sui ceti abbienti o recuperando risorse con la lotta all’evasione fiscale e all’economia sommersa. Discutiamo allora queste due possibilità.
4.1. La lotta per “un’altra Europa”. L’idea di lottare per una “Europa diversa”, un “Europa dei popoli” contrapposta all’attuale “Europa della banche”, rappresenta come è noto uno slogan molto diffuso nella sinistra dei vari paesi europei. Ma nonostante esso abbia rappresentato il riferimento generale di molti movimenti e partiti, fin dalla nascita dell’UE, in tutti questi anni non è stato fatto nessun passo significativo non solo nella costruzione della fantomatica “altra Europa”, ma neppure nella costruzione di un serio movimento dei popoli europei di opposizione all’Europa attuale.
Crediamo che sia tempo di chiedersi i motivi di questa assenza. Chi sostiene la possibilità di restare nell’UE per impostare una battaglia di cambiamento, ha il dovere di indicare quale sia il soggetto sociale di riferimento per tale battaglia.
Chi dovrebbe lottare per “un’altra Europa”? La risposta ovvia dovrebbe essere “i ceti subalterni dei vari paesi europei” (a seconda delle preferenze ideologiche, al posto dei “ceti subalterni” si possono ovviamente mettere “la masse popolari”, “i ceti dominati”, “il proletariato”, e così via). La questione fondamentale diventa allora la seguente: i ceti subalterni dei vari paesi europei hanno la capacità politica, l’unità culturale, la solidarietà ideale necessarie per una simile lotta comune a livello europeo? L’esperienza di quasi vent’anni di UE ci dice che la risposta è NO.
La questione fondamentale è appunto che non esiste un popolo europeo, esistono tanti popoli europei divisi fra loro prima di tutto dalla lingua e poi da culture e modi di vita. L’incapacità di una azione comune dei popoli europei appare in tutta la sua evidenza in relazione alla vicenda dell’attuale crisi economica greca. Non si vede nessuna forma di solidarietà popolare europea con il popolo greco, sottoposto in questi mesi ad un micidiale attacco che ne insidia i diritti e le condizioni di vita.
Una reazione popolare europea sarebbe ovvia, se i popoli europei fossero uniti da due legami fondamentali: in primo luogo un legame emotivo di solidarietà umana, in secondo luogo il senso di un interesse e di un destino comuni. Sono questi i due elementi che fanno di un insieme generico di persone un collettivo (“massa”, “popolo”, “classe”) capace di un’azione politica comune.
La crisi greca mostra con chiarezza come questi due elementi manchino totalmente ai popoli europei. Non c’è nessun moto spontaneo di solidarietà con il popolo greco. Nessun segnale di vicinanza al movimento popolare che in Grecia cerca di opporsi alle scelte imposte dalla UE e dal Fondo Monetario Internazionale, e che ha già prodotto diversi scioperi generali molto partecipati. Ciò significa che nessuno sente i greci come i propri simili e fratelli, nessuno percepisce una forma di empatia nei loro confronti. Sembra piuttosto prevalere l’indifferenza o addirittura la riprovazione per le “cicale greche” che hanno finora “vissuto al di sopra dei loro mezzi”.
Ma ciò che più colpisce è che, se manca l’elemento di “solidarietà empatica”, manca addirittura quello della considerazione dei propri interessi. Sappiamo che la crisi greca è solo il primo effetto dell’attacco complessivo ai ceti popolari di molti paesi europei (appunto i famosi PIIGS, ma non solo). La solidarietà nella lotta dovrebbe scattare, se non per empatia, almeno per freddo calcolo di opportunità: sarebbe infatti nell’interesse di tutti i popoli minacciati bloccare l’aggressione nella sua fase attuale, prima che inizi ad attaccare direttamente gli altri popoli. Il fatto che questo non succeda è la prova dell’incapacità di azione politica comune dei popoli europei in questa fase storica.
Chi auspica un movimento europeo che cambi il volto della UE non ha dunque un referente sociale per l’azione politica che chiede. O almeno, se ce l’ha, non è quello più ovvio, appunto i ceti subalterni dei vari paesi europei. Si potrebbe infatti pensare che un referente sociale dopotutto vi sia. Vi è infatti nella realtà europea uno strato sociale capace di azione politica e culturale a livello europeo: si tratta delle élites, dei ceti dirigenti. Per essi infatti non valgono le linee di divisione che impediscono ai popoli europei di essere un popolo: le élites hanno una lingua comune (l’inglese internazionale), stili di vita simili (dominati dai viaggi e dallo scarso radicamento in un singolo paese), ideologie comuni (l’accettazione del capitalismo come unica realtà pensabile, che può essere poi declinato in versioni più “di sinistra” o più “di destra”).
Sono quindi le élites, e solo esse, che in questa fase sono capaci di un’azione comune a livello europeo. E’ a queste élites che ci rivolgiamo, nei fatti, se proponiamo di riformare la UE. E allora si capisce bene il fallimento di quindici anni di slogan su “un’altra Europa”: questa Europa è esattamente quella voluta dalle élites, rivolgersi a loro per chiedere un cambiamento significa parlare a vuoto.
4.2. Risorse per pagare il debito. Un’altra possibile linea di azione potrebbe essere quella di ottemperare alle richieste che derivano dalle nuove regole europee in primo luogo scaricandone il peso sui ceti privilegiati, realizzando quindi quella giustizia fiscale che da molto tempo manca in Italia, e in secondo luogo colpendo l’evasione fiscale, le ricchezze della criminalità, gli sprechi e la corruzione che fanno sperperare denaro pubblico.
Si tratta di una proposta che ha una sua ragionevolezza. Certamente qualche decisione indirizzata ad una maggiore equità fiscale potrebbe essere presa. Per esempio è possibile che alcuni Paesi come l’Italia, che ancora non hanno una tassa sui grandi patrimoni, la introducano.
Altresì è possibile un recupero di risorse dall’evasione-elusione fiscale e dall’economia sommersa, fenomeni che nel nostro Paese riguardano circa il 15% della ricchezza prodotta, e causano un mancato gettito molto elevato, stimato intorno al 7% del PIL, pari a circa 100 miliardi di Euro[12]. Altri significativi risparmi si potrebbero ottenere tagliando drasticamente le spese militari.
Le prime osservazioni critiche su questa proposta sono le seguenti: ci si può chiedere se tali risorse sarebbero sufficienti ad ottemperare alle richieste europee, e occorrerebbe una discussione approfondita e l’intervento di studiosi competenti per approfondire la questione. Si può in secondo luogo osservare che né la UE, né le altre istituzioni internazionali sono particolarmente interessate a misure di questo tipo[13].
Ma l’obiezione principale che intendiamo svolgere a questa tesi è di un altro tipo. In primo luogo dobbiamo riprendere il tema dell’origine delle difficoltà attuali. E’ vero infatti, come dicevamo all’inizio, che la causa prossima è la crisi finanziaria ed economica iniziata nel 2008. Ma esistono cause più lontane. L’Italia mostra da tempo un andamento negativo di alcuni fondamentali indicatori economici, in particolare la crescita del PIL e quella della produttività[14].
Ciò significa in sostanza che l’Italia è poco competitiva nella lotta internazionale per i mercati. Ora, in questa situazione la creazione di un mercato unico per merci e capitali e la creazione di una moneta unica sono evidentemente mosse che danneggiano il nostro paese. La libera circolazione delle merci fa perdere alle nostre produzioni il mercato interno, l’aggancio alla moneta unica rende impossibile ricorrere alla svalutazione per recuperare competitività. Essere agganciati alla stessa moneta di economie tanto più forti e competitive, come quella tedesca, è un evidente svantaggio. La moneta che va bene alla Germania non può andare bene a paesi come l’Italia, la Grecia o il Portogallo[15]. La competitività dell’industria tedesca toglie spazio alle industrie dei paesi deboli, che, costretti dall’euro, non possono ricorrere alla svalutazione[16]. Si creano così squilibri che possono venire coperti per un certo tempo, soprattutto in presenza di una situazione economica internazionale positiva, ma che diventano esplosivi al sopraggiungere di una crisi. Come spiega bene lo studioso Vladimiro Giacché in una intervista[17], la crisi di paesi come Italia, Grecia e Portogallo,
“è infatti una cronica crisi di solvibilità, perché hanno un deficit strutturale nei confronti dell’estero, una bilancia commerciale pesantemente negativa.Detto in parole povere, consumano da anni più di quanto producono. Un deficit che per di più, invece di ridursi, aumenta. Quando succede questo, è inevitabile che una o più categorie di agenti economici (…) accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o anche di entrambi”.
Il deficit strutturale nella bilancia commerciale di cui parla Giacché è appunto legato al fatto che in presenza di una stessa moneta, le aree più forti inevitabilmente sottraggono mercati, anche interni, alle aree più deboli[18].
Ci sembrano chiare le conseguenze di tutto questo: se si vuole rimanere nell’UE non basta mobilitare tutte le risorse possibili per abbattere debito e deficit, occorre sopratutto un radicale rinnovamento della struttura produttiva del paese, dei rapporti di lavoro, delle realtà istituzionali, per rendere l’Italia competitiva rispetto alla Germania (e agli altri paesi del nordeuropa). Se non si fa questo i problemi si ripresenteranno, magari in altra forma. Ci sembra allora che questa realtà permetta di elaborare tre obiezioni contro la proposta che stiamo discutendo. Le mettiamo in ordine (crescente) di importanza:
A. In primo luogo le risorse da mobilitare diventano davvero ingenti, e diventa più pressante il problema se per ottenerle basti colpire i ceti privilegiati oppure non diventi necessario colpire anche i ceti subalterni.
B. In secondo luogo è chiaro che impostare un’opera di radicale trasformazione del paese del tipo indicato preclude qualsiasi altra possibilità. Noi siamo convinti che la società umana possa salvarsi dalle crisi epocali che ci aspettano solo uscendo dal dogma della crescita economica indefinita che ha dominato le società industriali negli ultimi due secoli. Riteniamo quindi che sia necessario avviare il nostro paese su un percorso di decrescita razionalmente controllata. Ma è chiaro che nell’ottica della proposta che stiamo discutendo, questa transizione è impossibile[19]. Se dobbiamo radicalmente ristrutturare il paese per competere con la Germania (e rimanendo nell’UE, come abbiamo spiegato, non c’è altra scelta, pena il ripresentarsi nel medio periodo di problemi simili agli attuali), è chiaro che non possiamo contemporaneamente avviare l’Italia sul percorso della decrescita, perché non ci saranno le risorse per fare entrambe le cose, e soprattutto perché non si può contemporaneamente fare una cosa e il suo contrario, lottare per la crescita e lottare per la decrescita.
C. In terzo luogo, è necessario sottolineare che l’estensione dei fenomeni da contrastare, nell’ottica della proposta che stiamo discutendo, è tale che un intervento strutturale in questo campo costituirebbe una vera e propria rivoluzione. Il nostro Paese necessita di serissime riforme in materia fiscale e tributaria, e in tema di trasparenza e controlli. Ma soprattutto occorre sottolineare che nessun risultato importante potrà essere raggiunto senza sciogliere i legami fra politica ed affari, rivedere le norme che regolano gli appalti, distruggere la criminalità organizzata, risolvere i conflitti di interesse. Conoscendo ciò che è la classe dirigente italiana, il suo sostanziale illegalismo, i perversi intrecci di affari e potere che la caratterizzano, è chiaro, ripetiamolo, che questo è il programma di una rivoluzione. Ma se si propone la rivoluzione bisogna avere chiaro il soggetto sociale al quale ci si rivolge e gli obiettivi che a questo vengono proposti. Il soggetto sociale dovrebbe essere l’insieme dei ceti subalterni italiani. Ma quale obiettivo ci si propone? In sostanza l’obiettivo che abbiamo delineato è quello di cercare di non rimanere indietro nella competizione globale che è tipica del capitalismo neoliberista globale che conosciamo da tre decenni. Ma sappiamo che questa competizione ha costi altissimi per i ceti subalterni, che devono rinunciare ai diritti conquistati nella fase precedente (quella socialdemocratico-riformista del secondo dopoguerra). La vicenda degli “strappi” al contratto nazionale dei metalmeccanici imposti dalla FIAT negli ultimi mesi è indicativa di cosa significhi competere sul mercato globale. Ne risulta che la conseguenza logica della proposta che stiamo discutendo è quella di chiedere ai ceti subalterni del nostro paese di impegnarsi in una lotta rivoluzionaria contro gli attuali ceti dirigenti, con tutti i rischi che questo comporta, per trovarsi poi, come adesso, a non avere nessuna garanzia e nessun diritto, perché tutti i diritti e tutte le conquiste possono essere revocate se diventano di ostacolo alla competitività. E’ chiaro che c’è qui una profonda contraddizione: si può chiamare un popolo alla rivoluzione solo prospettando un profondo cambiamento sociale, non la continuazione dello stesso modello “messo in sicurezza” dal punto di vista dei conti pubblici. Le rivoluzioni si fanno per cambiare la vita, non per fare contenti Trichet o Draghi.
5. Per un’altra Europa: uscire dall’UE.
La discussione precedente non lascia nessuno spazio a proposte politiche che permettano all’Italia di restare nell’UE evitando il massacro sociale che le nuove norme ci minacciano. La conclusione diventa inevitabile: se vogliamo evitare la degradazione irreversibile del paese, la sua “terzomondizzazione”, occorre uscire dall’euro e dall’UE, e contemporaneamente rinegoziare il nostro debito pubblico.
Non si tratta di scelte facili, lo sappiamo benissimo. L’uscita dell’euro comporterebbe problemi gravissimi. Ma si tratta di problemi che possono essere affrontati e superati. Il permanere nell’euro comporta invece la degradazione irreversibile del tessuto sociale e civile del paese.
Per capirci con una metafora, si pensi al supplizio medioevale della ruota: il condannato veniva legato ad una grande ruota e gli venivano spezzate le ossa a colpi di mazza. Veniva lasciato lì ad agonizzare fra sofferenze atroci per un po’, poi veniva finito con un colpo di mazza allo sterno. Ora, immaginiamo che un condannato a questo terribile supplizio abbia la possibilità di fuggire saltando da una finestra (sotto la quale lo aspettano persone amiche per portarlo in salvo) correndo però in questo modo il rischio di rompersi una gamba. Chiunque sceglierebbe di saltare. Il nostro paese si trova nella stessa situazione. Se rimaniamo nell’euro saremo sottoposti a un supplizio terribile, con pesantissimi e ripetuti colpi che ci spaccheranno le ossa. Se usciamo dall’euro corriamo il rischio di romperci una gamba. Il che non è piacevole, ma è cosa dalla quale si può guarire in tempi ragionevolmente brevi.
E’ ovvio quello che ci conviene scegliere: meglio la finestra.
L’uscita dall’Euro va naturalmente pensata a fondo. Le recenti esperienze di altri paesi possono aiutarci a ridurre di molto le difficoltà connesse alla ristrutturazione del nostro debito pubblico, e alla conseguente svalutazione della moneta. Andranno studiate le misure prese nel corso dell’attuale crisi dall’Islanda, che ha scelto di far fallire le banche private indebitate e di svalutare la propria moneta, e soprattutto le misure prese dall’Argentina all’inizio degli anni 2000, quando prese la decisione di sganciare la propria moneta dal dollaro.
Fra le misure che potranno essere prese, possiamo elencare, a titolo puramente indicativo: la temporanea limitazione della quantità di denaro contante prelevabile dai conti correnti, per evitare la “corsa agli sportelli”; programmi di austerità sui beni importati, in modo che l’inevitabile svalutazione abbia il minor effetto possibile; misure di protezione delle industrie esportatrici, per mantenere un buon settore dedito all’esportazione che permetterà di rendere meno dura la svalutazione[20].
La proposta di uscita dall’UE suscita in molte persone una certa resistenza. Sembra che si veda in questa idea una sorta di chiusura nei confronti del mondo globalizzato o il ritorno a un nazionalismo aggressivo o autarchico. Si oppone a questa idea la proposta di restare nell’UE per cambiarla e costruire “un’altra Europa”. Abbiamo già criticato questa idea. Siamo però d’accordo con l’idea che avremmo bisogno di “un’altra Europa”. Il che non è in contraddizione con la proposta di uscita dall’UE. Anzi, l’abbandono dell’attuale Unione Europea rappresenta la precondizione necessaria per la costruzione di un’Europa alternativa.
I rapporti internazionali, le relazioni politiche ed economiche fra Stati, esistono da quando esiste lo Stato, certamente da prima della costruzione della UE, che è una delle possibili forme di questi rapporti, non certo l’unica realizzabile. L’uscita dall’Unione quindi non implica automaticamente nessuna chiusura verso l’esterno.
Forse un paragone storico può chiarire ciò che intendiamo. E’ noto che i Partiti Comunisti del Novecento avevano una fortissima dimensione internazionale, tanto che la struttura che per un certo periodo li ha coordinati si chiamava “Terza Internazionale”. E’ noto altresì che l’ideologia comunista aveva come principio dogmatico quello che nella società comunista si sarebbe estinto lo Stato, e l’umanità comunista si sarebbe unita in un abbraccio fraterno al di là dei vincoli delle frontiere. D’altra parte, sappiamo che il movimento comunista del Novecento appoggiò fortemente le lotte di liberazione dei popoli del terzo mondo dal giogo degli imperi coloniali. Ora, è chiaro che tali lotte avevano come ovvio effetto pratico, se fossero risultate vittoriose come di fatto lo furono, la creazione di nuovi Stati, di nuove frontiere nazionali. Si potrebbe allora pensare che ci fosse una contraddizione nelle politiche dei partiti comunisti: partiti “internazionali” che avevano l’abolizione dello Stato fra i propri obiettivi, e lottavano però per far nascere nuovi Stati. E’ chiaro però che un simile rilievo appare molto ingenuo: gli ideali di fratellanza, di pace, di superamento della barriere, perdono ogni valore, e diventano una ignobile ipocrisia, in una situazione di sfruttamento e di sottomissione come è la situazione coloniale. In quella situazione la creazione di barriere nazionali era un necessario elemento di difesa della dignità e della cultura dei popoli colonizzati. Solo ripristinando una condizione di reale uguaglianza potevano essere resi concreti gli ideali di fratellanza. Il che passava anche attraverso la costruzione di nuovi Stati. La posizione dei partiti comunisti era dunque del tutto ragionevole, e ingenua e astratta l’obiezione che abbiamo indicato. Al pari dell’idea che uscire dall’attuale UE sia in contraddizione con la volontà di costruire una Europa alternativa. Abbiamo documentato che il permanere nell’UE comporta rischi gravissimi di distruzione del tessuto sociale e civile di questo paese. In questa situazione, come si può pensare di parlare di fratellanza fra i popoli europei? Un’Italia impoverita, incarognita, dove solo le mafie riusciranno a garantire un minimo di coesione sociale, come potrebbe dare un contributo di civiltà ad un’Europa diversa dall’attuale? Esattamente come i popoli colonizzati avevano bisogno di staccarsi dagli Imperi coloniali e di costruirsi i loro Stati, per cercare poi forme di collaborazione internazionale su basi di parità, allo stesso modo l’Italia deve staccarsi dall’UE per salvare il proprio tessuto sociale, e cercare poi forme di collaborazione con gli altri popoli europei su basi di parità.
6. I contorni dell’Europa che vogliamo.
E’ difficile disegnare nel dettaglio i contorni di un’Europa alternativa a quella attuale, tali da renderla davvero una libera ed indipendente unione dei popoli che la compongono. Tuttavia, senza nessuna pretesa di essere esaustivi, possiamo elencare alcune delle caratteristiche che ci sembra non possano mancare in un eventuale processo di integrazione europeo democratico e funzionale alle necessità dei cittadini.
Il primo elemento riguarda le istituzioni democratiche dell’Unione.
Ad oggi solo i membri del Parlamento Europeo vengono eletti dai cittadini, ed hanno ben pochi poteri reali. La maggior parte delle decisioni vengono prese dalla Commissione o da altri organismi, quali l’Eurogruppo, l’Ecofin o la BCE. Quel che manca è un sistema di checks and balances che garantisca un efficace controllo democratico sugli organismi esecutivi. Così come manca la garanzia che la BCE agisca in modo indipendente dagli interessi privati. Il capitale della BCE è distribuito fra le banche centrali nazionali, il cui capitale spesso è in mano privata, come in Italia. Dunque anche la BCE è di fatto privata.
Questi elementi sono in forte contrasto con qualsiasi idea di Europa democratica, che non sia mero strumento nelle mani di gruppi economicamente forti. Dunque una Unione che abbia a cuore gli interessi dei popoli che la compongono dovrà avere una Costituzione democratica, ed organismi assolutamente indipendenti dagli interessi privati.
Il secondo elemento riguarda la possibilità di operare liberamente e senza condizionamenti scelte in materia economica. Compresa la possibilità di optare per misure protezionistiche che consentano di salvaguardare le condizioni del mercato interno, al fine di rompere il circolo vizioso della concorrenza globale, che porta alla costante diminuzione dei salari e al peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita, in nome della competitività.
Un terzo elemento riguarda il raggiungimento da parte dell’Europa di una maggiore indipendenza energetica. Dipendere dalle importazioni di materie prime energetiche, vuol dire non essere liberi di implementare politiche economiche autonome, perché sarà sempre necessario scendere a patti con i fornitori. La situazione in questo campo è estremamente difficile. Per soddisfare il proprio fabbisogno, l’Europa dipende per oltre il 50% dalle importazioni di idrocarburi dall’estero, mentre l’Italia supera l’85%[21].
La soluzione non può essere la costruzione di centrali nucleari. Al di là dei gravissimi problemi derivanti della poca sicurezza degli impianti, dall’inquinamento e dello smaltimento delle scorie, l’energia atomica non risolve il problema della dipendenza dall’estero: i Paesi europei dispongono di pochissimo uranio, dunque la costruzione di nuove centrali nucleari comporterebbe un ulteriore aumento delle importazioni. Non resta che puntare fortemente sulle energie rinnovabili. Tutti i Paesi europei dovrebbero moltiplicare gli sforzi a favore dello sviluppo delle energie pulite e della ricerca nel campo delle tecnologie ad esse collegate. Tuttavia, anche se ciò avvenisse, le rinnovabili non potrebbero coprire l’attuale fabbisogno di energia, almeno nel medio periodo. E’ necessario impostare politiche in grado di realizzare una forte riduzione della domanda. Occorre consumare meno energia. Molta meno di quanta ne consumiamo oggi. Il che è necessario anche per abbattere le emissioni di CO2, ed uscire dall’emergenza ecologica che sta mettendo a rischio la stessa sopravvivenza del pianeta.
Il quarto elemento riguarda la Difesa. I Paesi europei hanno necessità di una alleanza politica e militare (difensiva) che garantisca la loro piena indipendenza dall’esterno. Un’Europa sufficientemente forte sul piano internazionale potrebbe anche svolgere un ruolo attivo per temperare le mire imperialiste e gli atteggiamenti guerrafondai delle potenze affermate (gli USA) e di quelle emergenti, come la Cina.
Perché l’Unione Europea possa svolgere questo ruolo sono necessari almeno due elementi. In primo luogo, occorre che l’Europa sia in grado di implementare una propria politica internazionale, unitaria ed indipendente. In secondo luogo, occorre che l’Europa non diventi essa stessa una potenza a carattere imperialista. Nel qual caso sarebbe sì autonoma, ma parteciperebbe al caos mondiale entrando in competizione con le altre potenze per l’accaparramento delle materie prime, in particolare energetiche.
Per quanto riguarda il primo punto, occorre sottolineare che l’attuale UE non è in grado di assumere nessun ruolo nello scacchiere internazionale. L’attuale assetto che caratterizza l’Europa è proprio quello di cui hanno bisogno le potenze: una tecnocrazia incentrata esclusivamente sulla dimensione economica, incapace di produrre una politica estera unitaria. La UE non ha un proprio sistema di difesa, né un esercito, e non a caso di fronte alle guerre degli ultimi tempi, i paesi europei si sono costantemente divisi, con geometrie sempre inedite, non mostrando mai la capacità di proporre soluzioni comuni alle controversie internazionali.
Per quanto riguarda il secondo punto, c’è davvero da augurarsi che questa Europa non diventi una potenza. Data l’enorme dipendenza di materie prime energetiche che la caratterizza, essa sarebbe tentata di risolvere il problema nel modo tipico delle potenze: la guerra. L’Europa diventerebbe l’ennesima potenza politico-militare presente sullo scenario internazionale, provocando un ulteriore aumento del rischio di conflitti terrificanti, finalizzati all’accaparramento delle limitate risorse energetiche disponibili (soprattutto petrolio e gas).
Riassumendo: l’Europa, per garantire la proprio sicurezza e per diventare capace di assumere un ruolo significativo sul piano internazionale, ha bisogno di implementare una politica estera comune. Ed ha bisogno di dotarsi di un proprio esercito e di un proprio sistema di difesa. Se però questo avvenisse all’interno dell’attuale UE, l’Europa si trasformerebbe immediatamente in una potenza militare aggressiva, affamata di materie prime energetiche. La dipendenza dalle importazioni di idrocarburi sarebbe la stessa di oggi, ma la forza militare di una Europa politicamente coesa e dotata di un esercito cambierebbe lo scenario internazionale in modo estremamente pericoloso.
Dunque è solo rimettendo in discussione i fondamenti dell’attuale UE che è possibile riaprire il confronto su una nuova forma di alleanza politica, economica e militare. Per pensare ad una Europa di pace e di cooperazione fra i popoli, è necessario liberarsi dai condizionamenti dell’Ecofin, del patto di stabilità e crescita, del “Semestre Europeo”. E’ necessario rompere i legami con l’Unione, e lanciare un progetto di aggregazione fra Stati radicalmente nuovo, basato sulla volontà di realizzare una comune politica estera di pace e cooperazione internazionale.
L’unica possibilità per farlo è abbandonare per sempre le politiche liberiste e l’inseguimento della “crescita”. Quel che serve è coordinare politiche decresciste, in particolare di forte diminuzione del fabbisogno di idrocarburi. Pace ed ecologia non possono essere separati. Sono entrambi aspetti di un unico disegno di equilibrio fra Stati, popoli e natura.
Ma tutto questo non può essere fatto all’interno dell’attuale UE, che è totalmente indirizzata verso la crescita economica, e che non può essere cambiata, per i motivi che abbiamo indicato.
In definitiva, chi voglia davvero un’Europa diversa, democratica, pacifica e indipendente, non può che chiedere l’uscita da questa Europa.
Genova, giugno 2011.
[1] Gli autori ringraziano Massimo Bontempelli per numerose conversazioni sui temi qui svolti. Ogni errore o imprecisione è ovviamente responsabilità degli autori.
[2] “L’ESM, di comune accordo con il Fondo monetario internazionale, sarà in grado di concedere dei prestiti ai paesi dell’Eurozona in difficoltà, ma a condizioni ben precise, ovvero a seguito di un piano di austerità e di riforma delle finanze pubbliche. […] L’ESM verrà attivato solo a seguito di una decisione unanime dei paesi e come ‘ultima ratio’, ovvero solo in caso in cui la stabilità dell’euro sia concretamente minacciata”. Citiamo da La riforma della governance economica europea, a cura di Carlo Altomonte, Antonio Villafranca e Fabian Zuleeg. Quaderno di approfondimento dell’ISPI n.27, aprile 2011.
[3] “Riformare i sistemi pensionistici: A sostegno del risanamento di bilancio, occorre riformare i sistemi pensionistici per aumentarne la sostenibilità.
• Gli Stati membri che non lo hanno ancora fatto devono innalzare l’età pensionabile e collegarla alla speranza di vita.
• Gli Stati membri devono ridurre in via prioritaria i piani di prepensionamento e utilizzare incentivi mirati per promuovere l’occupazione dei lavoratori anziani e l’apprendimento permanente.
• Gli Stati membri devono favorire lo sviluppo del risparmio privato per integrare il reddito dei pensionati.”
[Annual Growth Survey 2011, punto 5 – scaricabile a questo link: http://ec.europa.eu/europe2020/pdf/it_final.pdf ]
[4] http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2011-06-02/trichet-contro-crisi-debiti-124514.shtml?uuid=AaUcUecD
[5] http://www.nytimes.com/interactive/2010/05/02/weekinreview/02marsh.html
[6] La riforma della governance economica europea, a cura di Carlo Altomonte, Antonio Villafranca e Fabian Zuleeg. Quaderno di approfondimento dell’ISPI n.27, aprile 2011.
[7] La riforma della governance.., cit., pag. 12-13.
[8] Ibidem.
[9] http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sezioni_riunite/sezioni_riunite_in_sede_di_controllo/2011/delibera_28_2011_contr.pdf e http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sezioni_riunite/sezioni_riunite_in_sede_di_controllo/2011/delibera_28_2011_contr_allegato.pdf
[10] Lo fa notare fra gli altri un articolo del Sole24ore, dicendo che “nonostante uno straordinario sforzo compiuto nell’anno passato, il disavanzo di bilancio greco rimane alto, mentre l’economia è in grande sofferenza in parte anche a causa di quello sforzo [corsivo nostro, MB-FT]. Il risultato è che l’indebitamento di Atene continua ad aumentare invece di diminuire”, si veda http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-05-26/francoforte-tabu-grecia-063516.shtml?uuid=AabloVaD. Osservazioni simili le fa Mario Blejer, già presidente della Banca Centrale dell’Argentina, secondo il quale il programma imposta dall’UE alla Grecia “sarebbe basato sull’illusione che il debito sia sostenibile, ma ignora il fatto che il paese è in recessione e senza crescita diminuisce la possibilità di saldare i conti”, http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/6311-qgrecia-senza-soluzione-serve-un-defaultq.html
[11] Si tratta probabilmente di un processo che non riguarda solo l’Italia. Lo studioso francese Bernard Conte ha coniato il neologismo “Terzomondizzazione” per descrivere questo processo di portata mondiale. In Europa Occidentale i paesi mediterranei sembrano rappresentare i primi candidati per l’operazione di “Terzomondizzazione”.
[12] Si veda il Rapporto Istat “La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali” (Luglio 2010 , http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20100713_00/testointegrale20100713.pdf)
e la “Relazione concernente i risultati derivanti dalla lotta all’evasione fiscale”, (al 30 settembre 2007)
Camera dei Deputati – Doc. CCXXXVII n. 1
http://leg15.camera.it/_dati/leg15/lavori/documentiparlamentari/indiceetesti/237/001/INTERO.pdf
[13] Il recentissimo via libera al nuovo pacchetto di aiuti alla Grecia per scongiurare il rischio di default, dato dalla troika composta da Bce, Commissione europea e Fmi non le contempla nell’insieme di politiche economiche e finanziarie concordate in cambio del prestito. Quel che invece interessa sono le misure di compressione della spesa e le privatizzazioni. La nota ufficiale diffusa dalla troika specifica che l’accordo con il governo greco prevede la creazione di una “agenzia di privatizzazioni gestita in modo professionale e indipendente”, e la stesura di una lista di asset statali da privatizzare “entro la fine del 2015” pari ad un valore di “50 miliardi di euro”.
[14] Molti dati a questo proposito sono esposti in F. Carlucci, L’Italia in ristagno, Franco Angeli 2007.
[15] “Un atteggiamento che ha sostituito la retorica europeistica all’analisi economica ha imposto all’Italia l’ancoraggio della propria valuta a quella di Paesi con strutture economiche ben più forti, violando il principio secondo il quale il tasso di cambio deve rispecchiare il rapporto fra i fondamentali interni e quelli esteri”. F. Carlucci, op. cit., pag. 26.
[16] Commentando i dati sulla perdita di competitività italiana, Carlucci nota che “con questi dati i maliziosi potrebbero dimostrare che l’ancoraggio all’area del marco sia stata un’operazione chiaramente favorevole alla Germania e, in maniera perfettamente speculare, sfavorevole all’Italia”. F.Carlucci, op. cit., pag. 51.
[17] http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=21034. Si veda anche, per considerazioni analoghe a quelle di Giacché, l’articolo di Vincenzo Comito “Atene, l’euro e il consenso di Berlino”, http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Atene-l-euro-e-il-consenso-di-Berlino-8594
[18] L’importanza di questo tema è stata rilevata, con largo anticipo sulla crisi europea odierna, da Heiner Flassbeck. In un’intervista all’Espresso del 12 giugno 2008, Flassbeck sosteneva infatti che i differenziali di produttività nell’Eurozona avrebbero reso insostenibile la costruzione europea, e concludeva “in una unione monetaria questa situazione pone le premesse per il disastro. Prima o poi il sistema collasserà. In 5, 10 o 15 anni, non so. Ma il sistema monetario, con questi enormi divari fra aziende italiane e tedesche, cadrà di sicuro” (Heiner Flassbeck, economista tedesco, è direttore della divisione su globalizzazione e sviluppo delle Nazioni Unite, ed è stato viceministro delle Finanze del governo Schroder). Anche Nouriel Roubini, l’economista di origine iraniana divenuto famoso per aver predetto la crisi finanziaria, rileva come all’origine dell’attuale crisi vi siano le cruciali differenze economiche fra i vari Stati dell’Unione: “L’ approccio confusionario alla crisi dell’Eurozona non è riuscito a risolvere i problemi fondamentali sulla divergenza economica e di competitività nell’Unione. Andando avanti così l’euro si muoverà attraverso disordinati tentativi di soluzione, e alla fine arriverà a una spaccatura dell’unione monetaria stessa, con alcuni dei membri più deboli buttati fuori. L’Unione Economica e Monetaria non ha mai pienamente soddisfatto le condizioni di un’area valutaria ottimale. I suoi dirigenti speravano che la loro mancanza di politica monetaria, fiscale e di di cambio, avrebbe provocato un’accelerazione delle riforme strutturali che, si sperava, avrebbero visto convergere la produttività e i tassi di crescita. La realtà si è rivelata ben diversa” (http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/1422-nouriel-roubini-leurozona-si-avvia-al-crollo ).
[19] La transizione verso un sistema non più orientato alla “crescita” necessita di un ingente impiego di risorse pubbliche. Vedi, di Badiale e Bontempelli, “Una politica economica per la decrescita”: http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/6291-una-politica-economica-per-la-decrescita.html
[20] Pur non caldeggiandola, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman discute seriamente l’ipotesi di uscita dall’Euro, si veda il suo articolo http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-05-21/atene-buenos-aires-081002.shtml?uuid=AanIs8YD.
[21] Eurostat -“Energy – Yearly statistics 2008” scaricabile qui: http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-PC-10-001/EN/KS-PC-10-001-EN.PDF.
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Icann, parte la rivoluzione dei suffissi per i siti Web 20.06.2011
D’ora in poi, dopo il consueto punto, si potranno avere indirizzi personalizzati col nome della propria azienda o città. Aumenterà la confusione?
di Martina Saporiti
La nuova rivoluzione di Internet si chiama domini personalizzati. Dopo la 24 ore di prove generali per il lancio del nuovo protocollo IPv6, un’altra novità sconquassa il mondo della Rete e dei suoi utenti: presto sarà possibile creare domini con estensioni a piacimento. Che significa? Che accanto agli ormai noti .com, .net o .org potremo presto vedere domini personalizzati che finiscono, per esempio, con il nome della nostra città (.roma) o della nostra marca di macchine fotografiche preferita (.canon).
A deciderlo è stata l’ Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), l’ente internazionale no-profit che si occupa, tra l’altro, di assegnare gli indirizzi IP e gestire il sistema dei domini. La mossa dell’Icann, annunciata questa notte a Singapore nel corso di una riunione straordinaria, è frutto di una semplice considerazione: la Rete è sempre più globalizzata, e cresce il numero di utenti di ogni lingua e nazionalità. Da qui, la decisone di liberalizzare il mercato dei domini, che dal 12 gennaio 2012 potranno terminare con qualsiasi parola in qualsiasi lingua (anche nomi e cognomi, volendo). In realtà, a partire da questa data l’Icann comincerà a valutare le proposte che le arriveranno, ma servirà più tempo prima che vengano effettivamente formalizzate.
Lo spirito liberista dell’Icann era già emerso qualche mese fa, quando diede il via libera all’uso del suffisso.xxx per i siti porno (che in realtà non è stato accolto molto bene dall’industria pornografica). Continuando su questa strada, il consiglio di amministrazione dell’ente ha approvato, con 13 voti a favore, 1 contrario e 2 astenuti, il nuovo generic Top-Levels Domains (gTLDs), che presto renderà gli attuali 22 suffissi conosciuti, oltre ai 250 legati al paese di provenienza (.it, .de, .uk e così via), una piccolissima porzione di quello che sarà possibile trovare in Rete. “ L’Icann ha aperto il sistema degli indirizzi internet alle possibilità illimitate dell’immaginazione umana – ha detto alla Bbc il presidente e amministratore dell’ente, Rod Beckstrom – e nessuno ci saprà dire dove ci porterà questa storica decisione”.
Per ora, sappiamo che qualcuno ha già mostrato interesse, per esempio la città di Berlino per il suo dominio .berlin o la nota marca di macchine fotografiche Canon per il suo suffisso personalizzato. Naturalmente, per comprare un proprio dominio si dovranno sborsare quattrini ( 185mila dollari più 25mila ogni anno per mantenerlo) e dimostrare di avere tutto il diritto di appropriarsi del nome che si vuole utilizzare come suffisso. Ciò per evitare abusi di proprietà intellettuale, una delle principali preoccupazioni di chi critica la mossa dell’Icann. Se l’ente è convinto che domini illimitati si traducano in possibilità illimitate per chi li utilizza nonché una maggiore visibilità sul Web, c’è chi vede nella mossa di Singapore più problemi che vantaggi.
Oltre alla possibilità di appropriazioni indebite di nomi, c’è la possibilità che il nuovo gTLDs crei confusione negli utenti e li esponga a un maggior pericolo di phishing da parte di siti che sfruttino domini simili a quelli originali con l’obiettivo di rubare dati personali. C’è poi chi vede nell’operazione solo uno stratagemma per far arricchire le aziende che registrano e gestiscono gli indirizzi internet. “ Più domini ci sono, più nomi possono registrare e più soldi fanno”, ha detto al NYT Josh Bourne, il presidente della Coalition Against Domain Name Abuse. Insomma, come sempre le rivoluzioni non passano inosservate e servirà tempo per capire se e come saranno metabolizzate.
http://daily.wired.it/news/internet/2011/06/20/nuovi-domini-web-13090.html#content
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Antonio Di Pietro e la legittimazione del signoreggio 20.06.2011
di: E.C.
Antonio Di Pietro, con un’interrogazione a risposta scritta n.4-12113 presentata lunedì 30 maggio 2011, seduta n. 479, ha chiesto al ministro dell’Economia e delle finanze se ritenesse legittimo il signoraggio praticato dalle banche centrali di emissione.
Nella sua interrogazione, il leader dell’Italia dei Valori ricorda come “l’emissione della moneta è obbligatoriamente collegata alla generazione del signoraggio che è rappresentato dal guadagno e dal potere in mano al soggetto predisposto alla creazione della moneta.
Il signoraggio, dunque, è l’insieme dei redditi derivanti dall’emissione di moneta. Il premio Nobel Paul R. Krugman, nel testo di economia internazionale scritto con Maurice Obstfeld, lo definisce come il flusso di “risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi”. Storicamente, il signoraggio era il termine col quale si indicava il compenso richiesto dagli antichi sovrani per garantire, attraverso la propria effigie impressa sulla moneta, la purezza e il peso dell’oro e dell’argento”.
Sottolinea, nell’interrogazione al ministro Tremonti, come “oggi, invece, alcuni studiosi di economia imputano al moderno signoraggio una dimensione che va ben al di là di una semplice tassa, in quanto il reddito monetario di una banca di emissione è dato solo apparentemente dalla differenza tra la somma degli interessi percepiti sulla cartamoneta emessa e prestata allo Stato e alle banche minori e il costo infinitesimale di carta, inchiostro e stampa sostenuto per produrre denaro.
Apparentemente, in quanto, de facto, il signoraggio moderno è eclissato nella contabilità dall’azione di dubbia legittimità della banca emittente che pone al passivo il valore nominale della banconota.
In buona sostanza, la banca dichiara di sostenere per la produzione della carta moneta un costo pari al suo valore facciale (euro 100 per una banconota del taglio di 100 euro); le Banche centrali sono le istituzioni che raccolgono sia la ricchezza, sia il profitto da signoraggio che dovrebbero essere trasferiti, una volta coperti i costi di coniatura, alla collettività rappresentata nello Stato; tale signoraggio è il cosiddetto signoraggio primario poiché deriva dall’abilità che possiede la Banca centrale di emettere moneta stampandola e immettendola nel mercato”.
“Si tratta – rileva Di Pietro – del signoraggio che sta a monte di tutto il sistema monetario, poiché si colloca nel momento di emissione della moneta; questo processo non è però l’unico che permette l’aumento della massa monetaria in circolazione nel circuito economico”.
Esiste, infatti, un secondo meccanismo attraverso il quale cresce la base monetaria in circolazione, il cosiddetto signoraggio secondario o credit creation; il signoraggio secondario è il guadagno che le banche commerciali ricavano dal loro potere di aumentare l’offerta di moneta estendendo i loro prestiti sui quali ricevono interessi e, negli ultimi decenni, con l’introduzione di nuovi strumenti finanziari quali, ad esempio i derivati; con riferimento al sistema monetario attuale, da anni si discute sia in ambito accademico sia in ambito sociale sulle incongruenze relative alla proprietà del valore della moneta al momento della sua emissione: un valore che, in buona sostanza, non verrebbe riconosciuto in capo al suo creatore, ovvero la collettività, il popolo, ma che piuttosto le verrebbe sottratto; principio fermo di ogni democrazia è che la “sovranità” appartiene al popolo e la nostra Carta costituzionale sancisce chiaramente questo principio all’articolo 1; ne consegue che derivazione diretta di tale sovranità è anche la sovranità monetaria, che determina il potere di chi detiene il controllo della moneta e del credito; essendo il popolo a produrre, consumare e lavorare, la moneta, sin dal momento in cui viene emessa da una qualsiasi Banca centrale dovrebbe, in linea di principio, come affermato da molti studiosi, diventare proprietà di tutti i cittadini che costituiscono lo Stato, il quale però non detiene il potere di emettere moneta; la distorsione alla base della sovranità monetaria è stata oggetto di uno studio da parte del procuratore generale della Repubblica Bruno Tarquini che sul punto ha scritto il libro “La banca, la moneta e l’usura”, edizione Controcorrente, Napoli, 2001.
Secondo il procuratore generale Bruno Tarquini, lo Stato avrebbe avuto i mezzi tecnici per esercitare in concreto il potere di emettere moneta e per riappropriarsi di quella sovranità monetaria che avrebbe permesso di svolgere una politica socio-economica non limitata da influenze esterne, ma soprattutto liberandosi di ogni indebitamento; anche il professor Giacinto Auriti, docente fondatore della facoltà di giurisprudenza di Teramo, ha compiuto numerosi studi sulla sovranità monetaria e sul fenomeno del signoraggio; in particolare, il professor Giacinto Auriti ha sostenuto che l’emissione di moneta senza riserve e titoli di Stato a garanzia per la realizzazione di opere pubbliche non creerebbe inflazione in quanto corrisposto da un eguale aumento della ricchezza reale, e che le Banche centrali ricaverebbero profitti indebiti dal signoraggio sulla cartamoneta, dando origine in tal modo al debito pubblico; altra denuncia compiuta dal professor Giacinto Auriti è quella relativa alla totale assenza al livello giuridico di una norma che stabilisca in maniera univoca di chi sia la proprietà dell’euro all’atto della sua emissione.
Per tali ragioni, ad avviso del professor Auriti, risulterebbe impossibile individuare chi sia creditore e chi debitore nella fase della circolazione della moneta e i popoli europei non sapranno mai se siano “creditori” (in quanto proprietari) o “debitori” (in quanto non proprietari) per un valore pari a tutto l’euro che viene messo in circolazione.
Di Pietro conclude chiedendo “se alla luce di quanto descritto in premessa il Governo non intenda intervenire, anche nelle competenti sedi europee, per verificare la compatibilità delle teorie elaborate dal procuratore generale della Repubblica Bruno Tarquini e dal professor Giacinto Auriti con i Trattati dell’Unione europea e il principio costituzionale della sovranità monetaria, anche al fine chiarire di chi sia la proprietà dell’euro al momento della sua emissione, quale sia la natura giuridica della moneta emessa dalle banche commerciali e, infine, quale sia la reale efficacia degli strumenti di controllo a disposizione della Banca centrale sulla massa monetaria messa in circolazione dalle banche commerciali”.
http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=8979
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Le agenzie che anticipano il futuro. Moody’s minaccia declassamento società pubbliche italiane. Tremonti le privatizza? 20.06.2011
Moody’s, l’agenzia di rating che venerdì ha messo in guardia l’Italia su un possibile taglio, valuterà le principali partecipate e si pensa già ad un possibile downgrade. Le società coinvolte sono Enel, Eni, Finmeccanica, Poste e Terna. Chi è attento si sarà accorto che da qualche tempo mentre si lavora ai tagli di deficit, alla riduzione del debito pubblico e alle conseguenti finanziarie, le agenzie puntualmente intervengono e declassano, come se fossero d’accordo nell’accelerare i tempi e facilitare le manovre ‘lacrime e sangue’ e di privatizzazione. L’abbiamo visto con la Grecia e gli altri paesi periferici d’Europa.
Oggi tocca all’Italia, che con il super ministro Tremonti si appresta ad affrontare una delle stagioni più dure con manovre correttive di decine di miliardi di euro.
Forse siamo troppo sospettosi e al limite della paranoia, ma se nel pacchetto ‘tremontiano’ troveremo la forzata privatizzazione delle maggiori società pubbliche italiane non meravigliamoci.
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di Luciano Gallino
Democrazia e grande impresa 21.06.2011
«Tra noi sta crescendo una concentrazione di potere privato senza uguali nella storia». Nel 1938 Roosevelt lanciava l’allarme per le sorti di una democrazia messa in pericolo dallo strapotere della grande industria privata. Oggi quell’allarme si è avverato
La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. La possibilità di intervenire nel processo decisionale, di avere voce nelle decisioni che contano, si può realizzare sia con la partecipazione diretta, sia attraverso forme di rappresentanza.
In tema di decisioni che toccano l’esistenza del maggior numero di membri d’una collettività, di tutti noi, viene naturale includere diversi aspetti attinenti all’economia, o ad essi strettamente correlati. Tra le decisioni che incidono sulla nostra esistenza ritroviamo: il tipo di manufatti e di servizi che vengono prodotti; i luoghi della produzione degli uni e degli altri; le condizioni di lavoro in cui vengono prodotti nel nostro paese o all’estero; la possibilità per ciascuno di noi e per i suoi figli di trovare quanto prima un lavoro stabile, adatto al proprio talento e grado di istruzione. E ancora, la produzione degli alimenti di cui ci nutriamo, la loro provenienza, il modo in cui vengono distribuiti, dal negozio all’angolo all’outlet grande come un campo di calcio; il costo di ciascuno di questi beni e servizi; il tipo di mezzi di trasporto di cui dobbiamo servirci, insieme con la loro comodità e costo; la qualità dell’aria che respiriamo e dell’acqua che beviamo; gli abiti che indossiamo; il tipo di abitazione in cui viviamo, la sua collocazione e i mobili con cui è stata arredata; l’intensità fonovisiva nello spazio e nel tempo della pubblicità, cui sono esposti i nostri figli sin dai primissimi anni; il modo in cui il sistema finanziario si collega all’economia reale; il modo in cui sono gestiti i nostri risparmi a scopi previdenziali; e, per finire, la struttura sociale della comunità di cui facciamo parte.
Nelle condizioni che prevalgono da decenni nell’economia e nella società un’osservazione si impone: la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono nei campi ricordati sopra. Il soggetto che direttamente le prende o che indirettamente determina il corso delle decisioni stesse, è la grande impresa, industriale e finanziaria, non importa se italiana e straniera. Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia. A questo proposito un uomo politico di primo piano ebbe a dire tempo addietro: «La libertà di una democrazia non è salda se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un livello di vita accettabile. Oggi tra noi sta crescendo una concentrazione di potere privato senza uguali nella storia. Tale concentrazione sta seriamente compromettendo l’efficacia dell’impresa privata come mezzo per fornire occupazione ai lavoratori e impiego al capitale, e come mezzo per assicurare una distribuzione più equa del reddito e dei guadagni tra il popolo della nazione tutta».
L’uomo politico di cui ho appena citato un discorso era il presidente americano Franklin D. Roosevelt. Correva l’anno 1938. Roosevelt era preoccupato perché l’impresa privata creava sempre meno occupazione, e contribuiva a concentrare il reddito in poche mani anziché distribuirlo. Era ancor più preoccupato per le sorti della democrazia a fronte della crescita di un potere privato arrivata al punto di diventare più forte dello stesso Stato democratico. Dopo un interludio durato pochi decenni, la preoccupante visione di Roosevelt si è pienamente avverata, in tutti i sensi. Sia in campo industriale che in campo finanziario poche decine di corporation dalle dimensioni smisurate sono giunte a formare il vero governo del paese. Se non in tutti, in molti campi della vita civile la democrazia in Usa è stata svuotata di senso. Le leggi escono dal Congresso, ma le indicazioni per scriverle provengono notoriamente dalle corporation industriali e finanziarie. Le quali hanno speso tra l’altro 500 milioni di dollari per sostenere nel 2008 la campagna elettorale di ambedue i candidati alle presidenziali; 300 milioni per rendere il meno incisiva possibile la riforma di Wall Street del 2010; e altrettanti per tentare di bloccare la modesta riforma sanitaria voluta dal presidente Obama. Con la previsione che, essendo mutata nel novemnre 2010 la composizione del Congresso, quasi sicuramente vi riusciranno nel prossimo futuro.
Chi ha avuto la peggio sono stati i lavoratori americani. Lavorano almeno duecento ore l’anno più degli europei, e i loro salari, in termini reali, sono pressocché al livello del 1973 – quasi quarant’anni fa. Una delle cause è stato il trasferimento di interi settori manifatturieri dai paesi sviluppati a quelli emergenti, con la perdita di decine di milioni di posti di lavoro. Grazie alle delocalizzazioni gli Stati Uniti hanno praticamente smantellato buona parte della loro industria manifatturiera. Al presente negli Usa risulta quasi scomparsa la produzione di settori che pochi decenni fa dominavano con le loro esportazioni, oltre al mercato interno, gran parte dei mercati occidentali. Tra di essi figurano comparti di dimensioni gigantesche quali gli elettrodomestici; i televisori e l’alta fedeltà; i computer e i microprocessori; i telefoni cellulari; l’abbigliamento; i giocattoli.
In merito a tutto ciò, non risulta che quei lavoratori abbiano avuto la minima possibilità di fare sentire la loro voce, e meno che mai – salvo sporadici casi locali – di intervenire con qualche efficacia in decisioni che sconvolgevano la loro esistenza, le loro famiglie, la loro comunità. Pertanto è davvero arduo capire come il caso americano ci possa venire solennemente presentato da manager e politici italiani come una forma di modernizzazione delle relazioni industriali. È ancora più arduo capire – o forse sbaglio: è fin troppo facile – come, in Italia, tra le file dell’opposizione non si sia levata finora una sola voce per rilevare che il potere eserecitato dalle corporation sulle nostre vite configura un tale deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca.
Nell’Ue possiamo coltivare ancora per qualche tempo la nostra distrazione dinanzi allo svuotamento che il sistema economico e finanziario ha effettuato della democrazia reale, grazie al fatto che tra la fine della guerra e i secondi anni Settanta robuste iniezioni di democrazia nel sistema economico sono state effettuate per via di diversi fattori concomitanti. Tra di essi ricorderei le lotte dei lavoratori e il peso che avevano allora i sindacati anche come numero di iscritti; la presenza nei parlamenti europei di robusti partiti di sinistra; il peso nelle formazioni di centro dei cattolici progessisti; un certo numero di imprenditori e di manager pubblici che preferivano affrontare con i sindacati vertenze lunghe e aspre piuttosto che buttare sul tavolo documenti della serie «prendere o lasciare». Senza dimenticare che l’ombra dell’Orso sovietico a oriente tendeva a rendere più malleabili le confindustrie di tutti i paesi dell’Europa occidentale. I risultati si sono visti. Il sistema sanitario nazionale; lo sviluppo del sistema pensionistico pubblico; le riduzioni d’orario, a cominciare dal sabato interamente festivo; il miglioramento delle condizioni di lavoro; lo Statuto dei lavoratori, rappresentarono tutti pezzi di democrazia reale che furono estorti alla grande impresa, o che essa – se si preferisce – fu indotta a concedere.
Ora la grande impresa si sta battendo per riconquistare il terreno perduto tra il 1950 e il 1980. Di fronte le si aprono praterie senza confini. La preoccupante ombra dell’Orso è scomparsa. I partiti di sinistra sono peggio che scomparsi: anche quando si sforzano di dire qualcosa di sinistra si intravvede subito, in Italia come in Francia, nel Regno Unito come in Germania (in questo caso, bisogna dire, con l’eccezione della Linke), che sono diventati i migliori interpreti degli interessi della grande impresa ai tempi della globalizzazione. In tutti i paesi i sindacati sono indeboliti dal calo degli iscritti – in media oltre la metà, nell’industria manifatturiera – e dalla divisione tra chi propende alla collaborazione prima ancora di cominciare una vertenza, e chi preferisce invece ragionare in termini di composizione caso per caso di un conflitto che è storicamente strutturale, e strutturalmente irrisolvibile – salvo si preveda un’uscita dal capitalismo.
Quel che si configura nel nostro paese come in tutta l’Ue a 15 è un arretramento non solo delle relazioni industriali ma dell’intero processo democratico. Un arretramento di tale portata da essersi verificato, nella storia, soltanto quando un sistema politico democratico è stato sostituito da una dittatura. A guardarlo con occhio distratto, come un po’ tutti siamo inclini a fare, il percorso pare innocuo. La globalizzazione, si afferma, esige che si riducano i diritti, i salari, lo Stato sociale per fare fronte al potere economico dei paesi emergenti. La grande impresa contribuisce al percorso attribuendo ad esso un carattere di ineluttabilità: non esistono alternative; sono in gioco grandi investimenti e molti posti di lavoro; non possiamo far altro che adattarci alla logica dell’economia. In realtà, non di logica economica si tratta, bensì di potere politico. Il fatto di sottrarre progressivamente ai lavoratori ogni residua possibilità di partecipazione alla determinazione di orari, salari, condizioni di lavoro e altro preannuncia la sottrazione a tutti della possibilità di partecipare a qualsiasi decisione di qualsiasi rilevanza in qualsiasi ambito. Preannuncia, in altre parole, la sottomissione a un potere totale.
La privatizzazione di ogni cosa, dalla previdenza alla scuola e all’acqua, che sono uno degli ultimi campi da cui la grande impresa può puntare ad estrarre un valore elevato perché da noi sono campi ancora poco lavorati, è un altro passo intermedio significativo. Ed è stupefacente notare anche qui come il centro-sinistra lo consideri un tema economico, laddove si tratta di un vitale snodo politico. Privatizzare beni comuni, infatti, significa sottrarre ai cittadini un ampio terreno di partecipazione politica, di esercizio della disciplina democratica, per trasferirlo pari pari alla discrezione della grande impresa. Potrebbe quindi essere giunto il momento di discutere dei modi in cui il potere oggi debordante della grande impresa dovrebbe essere sottoposto a regole, al pari di qualsivoglia altro centro di potere. Avendo in vista un sommesso proposito: ridare vitalità, senso, contenuti quotidiani, motivi di attrazione culturale e morale all’idea di democrazia.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110621/manip2pg/15/manip2pz/305325/
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Storie di ordinaria rivoluzione: nessuna notizia dall’Islanda? 21.06.2011
di Marco Pala
Qualcuno crede ancora che non vi sia censura al giorno d’oggi?
Allora perchè, se da un lato siamo stati informati su tutto quello che sta succedendo in Egitto, dall’altro i mass-media non hanno sprecato una sola parola su ciò che sta accadendo in Islanda?
Il popolo islandese è riuscito a far dimettere un governo al completo; sono state nazionalizzate le principali banche commerciali; i cittadini hanno deciso all’unanimità di dichiarare l’insolvenza del debito che le stesse banche avevano sottoscritto con la Gran Bretagna e con l’Olanda, forti dell’inadeguatezza della loro politica finanziaria; infine, è stata creata un’assemblea popolare per riscrivere l’intera Costituzione. Il tutto in maniera pacifica. Una vera e propria Rivoluzione contro il potere che aveva condotto l’Islanda verso il recente collasso economico.
Sicuramente vi starete chiedendo perchè questi eventi non siano stati resi pubblici durante gli ultimi due anni. La risposta ci conduce verso un’altra domanda, ancora più mortificante: cosa accadrebbe se il resto dei cittadini europei prendessero esempio dai “concittadini” islandesi?
Ecco brevemente la cronologia dei fatti:
2008 – A Settembre viene nazionalizzata la più importante banca dell’Islanda, la Glitnir Bank. La moneta crolla e la Borsa sospende tutte le attività: il paese viene dichiarato in bancarotta.
2009 – A Gennaio le proteste dei cittadini di fronte al Parlamento provocano le dimissioni del Primo Ministro Geir Haarde e di tutto il Governo – la Alleanza Social-Democratica (Samfylkingin) – costringendo il Paese alle elezioni anticipate. La situazione economica resta precaria. Il Parlamento propone una legge che prevede il risanamento del debito nei confronti di Gran Bretagna e Olanda, attraverso il pagamento di 3,5 MILIARDI di Euro che avrebbe gravato su ogni famiglia islandese, mensilmente, per la durata di 15 anni e con un tasso di interesse del 5,5%.
2010 – I cittadini ritornano a occupare le piazze e chiedono a gran voce di sottoporre a Referendum il provvedimento sopracitato.
2011 – A Febbraio il Presidente Olafur Grimsson pone il veto alla ratifica della legge e annuncia il Referendum consultivo popolare. Le votazioni si tengono a Marzo ed i NO al pagamento del debito stravincono con il 93% dei voti. Nel frattempo, il Governo ha disposto le inchieste per determinare giuridicamente le responsabilità civili e penali della crisi. Vengono emessi i primi mandati di arresto per diversi banchieri e membri dell’esecutivo. L’Interpol si incarica di ricercare e catturare i condannati: tutti i banchieri implicati abbandonano l’Islanda. In questo contesto di crisi, viene eletta un’Assemblea per redigere una Nuova Costituzione che possa incorporare le lezioni apprese durante la crisi e che sostituisca l’attuale Costituzione (basata sul modello di quella Danese). Per lo scopo, ci si rivolge direttamente al Popolo Sovrano: vengono eletti legalmente 25 cittadini, liberi da affiliazione politica, tra i 522 che si sono presentati alle votazioni. Gli unici due vincoli per la candidatura, a parte quello di essere liberi dalla tessera di qualsiasi partito, erano quelli di essere maggiorenni e di disporre delle firme di almeno 30 sostenitori. La nuova Assemblea Costituzionale inizia il suo lavoro in Febbraio e presenta un progetto chiamato Magna Carta nel quale confluiscono la maggiorparte delle “linee guida” prodotte in modo consensuale nel corso delle diverse assemblee popolari che hanno avuto luogo in tutto il Paese. La Magna Carta dovrà essere sottoposta all’approvazione del Parlamento immediatamente dopo le prossime elezioni legislative che si terranno.
Questa è stata, in sintesi, la breve storia della Ri-evoluzione democratica islandese.
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Abbiamo forse sentito parlare di tutto ciò nei mezzi di comunicazione europei?
Abbiamo ricevuto un qualsiasi commento su questi avvenimenti nei noiosissimi salotti politici televisivi o nelle tribune elettorali radiofoniche?
Abbiamo visto nella nostra beneamata Televisione anche un solo fotogramma che raccontasse qualcuno di questi momenti?
SINCERAMENTE NO.
I cittadini islandesi sono riusciti a dare una lezione di Democrazia Diretta e di Sovranità Popolare e Monetaria a tutta l’Europa, opponendosi pacificamente al Sistema ed esaltando il potere della cittadinanza di fronte agli occhi indifferenti del mondo.
Siamo davvero sicuri che non ci sia “censura” o manipolazione nei mass-media?
Il minimo che possiamo fare è prendere coscienza di questa romantica storia di piazza e farla diventare leggenda, divulgandola tra i nostri contatti. Per farlo possiamo usare i mezzi che più ci aggradano: i “nostalgici” potranno usare il telefono, gli “appassionati” potranno parlarne davanti a una birra al Bar dello Sport o subito dopo un caffè al Corso. I più “tecnologicamente avanzati” potranno fare un copia/incolla e spammare questo racconto via e-mail oppure, con un semplice click sui pulsanti di condivisione dei Social Network in fondo all’articolo, lanciare una salvifica catena di Sant’Antonio su Facebook, Twitter, Digg o GoogleBuzz. I “guru del web” si sentiranno il dovere di riportare, a modo loro, questa fantastica lezione di civiltà, montando un video su YouTube, postando un articolo ad effetto sui loro blog personali o iniziando un nuovo thread nei loro forum preferiti.
L’importante è che, finalmente, abbiamo la possibilità di bypassare la manipolazione mediatica dell’informazione ed abbattere così il castello di carte di questa politica bipartitica, sempre più servile agli interessi economici delle banche d’affari e delle corporazioni multinazionali e sempre più lontana dal nostro Bene Comune.
In fede,
il cittadino sovrano Marco Pala
(alias “marcpoling“)
http://www.nexusedizioni.it/apri/Notizie-dal-mondo/Ultimi-articoli/Nessuna-notizia-dall-Islanda/
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Le specie marine? Vanno verso un’estinzione di massa 21.06.2011
Un rapporto spiega che pesci e cetacei rischiano di fare la fine dei dinosauri. Le cause? Inquinamento, pesca e surriscaldamento globale
di Martina Saporiti
Le notizie non sono affatto buone, anzi. Pesci, delfini, balene e altri animali marini sono in serio pericolo d’ estinzione, complici inquinamento, surriscaldamento globale e pesca indiscriminata. È la conclusione scioccante di uno studio condotto da 27 biologi marini, riunitisi a Oxford per scrivere un report sulle condizioni degli oceani di tutto il mondo per conto dell’ International Programme on the State of the Ocean (Ipso) e della International Union for the Conservation of Nature (Iucn).
“ I nostri risultati sono scioccanti – ha commentato in un articolo sull’ Indipendent Alex Rogers, biologo della conservazione all’ Università di Oxford e direttore scientifico dell’Ipso – se consideriamo tutto ciò che l’uomo ha fatto agli oceani, le implicazioni sono di gran lunga peggiori di quanto immaginato”. Le parole di Rogers non lasciano spazio al dubbio. La combinazione di una serie di stress sta minacciando la vita di intere comunità marine, che si trovano ad affrontare un pericolo che si pensava appartenere al passato, alla storia dei dinosauri e dei primi animali che popolarono la Terra: un’ estinzione di massa. Quello dei ricercatori, come qualcuno potrebbe pensare, non è un allarmismo privo di sostanza.
Nel report, si legge che quasi tutte le grandi estinzioni di massa del passato sono state caratterizzate da tre perturbazioni: innalzamento delle temperature, acidificazione degli oceani, mancanza di ossigeno atmosferico. Ebbene, secondo i ricercatori questo micidiale trio è in azione anche oggi, come fosse un triste presagio di ciò che potrà accadere. “ Ci sono forti evidenze a comprovare il fatto che questi tre fattori si stiano combinando nuovamente negli oceani, esacerbati da numerosi e duri stress. Per questo, i ricercatori affermano che una nuova estinzione di massa sarà inevitabile a meno che non si ponga rimedio a questo stato di cose”, si legge nel report.
Senza contare gli altri due grandi problemi che affliggono il mare e le sue creature, di cui si parla da tempo senza riuscire a trovare soluzioni. In primo luogo l’ inquinamento, un vecchio conoscente che oggi si sta armando di nuove, micidiali sostanze. Sono gli agenti chimici che troviamo nei saponi e nei prodotti industriali, capaci di interferire con il normale funzionamento del sistema endocrino e immunitario degli animali marini e le cui tracce sono state scovate persino nel corpo di orsi polari. E non dimentichiamo la plastica, ingerita dai pesci e usata come zattera dalle alghe (anche tossiche, ahimé) per disperdersi negli oceani. C’è poi il problema della pesca indiscriminata, che ha ridotto gli stock di pesci (sia quelli catturati per commercio sia quelli presi per sbaglio) di oltre il 90%.
I ricercatori concordano nell’affermare che se non si troverà il modo di fermare questa catastrofe in azione, l’ecosistema marino non riuscirà più a riprendersi.
La storia, se non la si cambia in tempo, è destinata a ripetersi: 450 milioni di anni fa la terza estinzione di massa più grande della storia si portava via quasi tutte le creature marine; 251 milioni di anni fa, il 96% degli animali del mare e quasi i tre quarti di quelli terrestri scomparivano; circa 65 milioni di anni fa un asteroide o l’eruzione di un vulcano cancellava i dinosauri dalla faccia della Terra. E la lista di catastrofi, purtroppo, potrebbe ancora allungarsi.
Proprio per evitarlo, il report termina con una serie di raccomandazioni (le solite) rivolte a paesi, istituzioni e persino alle Nazioni Unite, che sono chiamati a portare avanti politiche capaci di rimettere in sesto gli oceani. In attesa che il lavoro dei biologi sia presentato alle Nazioni Unite (questa settimana a New York), uno dei ricercatori coinvolti riassume in poche parole tutta la faccenda: “ I più esperti biologi marini sono sorpresi della magnitudo dei cambiamenti che stiamo osservando – ha detto Dan Laffoley, biologo della Iucn – le sfide che dobbiamo affrontare per salvare gli oceani sono enormi, ma al contrario di chi ci ha preceduto sappiamo cosa sta succedendo. È arrivato il tempo di proteggere il cuore blu del nostro pianeta”.
http://daily.wired.it/news/ambiente/2011/06/21/rischio-estinzione-mari-13126.html#content
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Un film contro l’Escherichia coli 22.06.2011
Immagini al link
Nuovi materiali a effetto battericida efficaci contro un ceppo di ‘escherichia coli’. È l’interessante risultato ottenuto dall’Istituto di chimica e tecnologia dei polimeri (Ictp) di Pozzuoli insieme con l’Istituto di chimica biomolecolare (Icb), entrambi del Cnr.
La ricerca, coordinata da Clara Silvestre dell’Ictp-Cnr, coinvolge otto istituzioni di Italia, Francia, Danimarca e Inghilterra nell’ambito del progetto europeo Cost action Fa0904 ‘Eco-sustainable food packaging based on polymer nanomaterials’. Obiettivo, lo sviluppo di nuovi materiali a base di polipropilene e di particelle di ossido metallico di dimensioni micrometriche per l’imballaggio alimentare.
Tra i risultati ottenuti il più importante è l’effetto battericida che questi materiali hanno evidenziato contro il ceppo di ‘escherichia coli’ Dsm498. “Come mostrato nelle foto, dopo quarantotto ore di contatto con i batteri, su un film di polimero puro (bianco di riferimento, foto a sinistra) la crescita batterica è avvenuta normalmente, mentre su un film di polimero contenente le microparticelle di ossido metallico (foto a destra) non avviene la crescita dei batteri, che muoiono a seguito del contatto”, afferma Donatella Duraccio dell’Ictp-Cnr. Oltre a lei, il gruppo di ricerca è composto da Sossio Cimmino, Clara Silvestre, Marilena Pezzuto, Antonella Marra (Ictp-Cnr) e Ida Romano (Icb-Cnr).
Fonte: Donatella Duraccio, Istituto di chimica e tecnologia dei polimeri, Pozzuoli, tel. 081/8675069, email donatella.duraccio@ictp.cnr.it
Fonte: Sossio Cimmino, Istituto di chimica e tecnologia dei polimeri, Pozzuoli, email sossio.cimmino@ictp.cnr.it
Per saperne di più: 1) C. Silvestre, D.Duraccio, S. Cimmino “Food Packaging based on polymer nanomaterials” Prog Polym Sci (2011) doi:10.1016/j.progpolymsci.2011.02.003 – http://www.ictp.cnr.it/index.php?option=com_content&view=article&id=108&Itemid=104
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Nanoparticelle in incognito per ingannare il cancro 21.06.2011
di Laura Berardi
Sono grandi poco più di qualche milionesimo di millimetro, all’incirca come un virus, e si mimetizzano nel sangue per aggirare il sistema immunitario: sono le nanoparticelle create dagli scienziati dell’Università della California a San Diego, piccole molecole sintetiche che potrebbero rappresentare un’innovazione nel trattamento dei tumori. La ricerca americana è pubblicata sulla versione online di Pnas.
Quello pensato dagli studiosi californiani è un vero e proprio travestimento: alcune nanoparticelle biodegradabili, alle quali vengono legate piccole molecole di farmaci antitumorali, vengono rivestite con membrane cellulari naturali, prelevate dai globuli rossi. In questo modo i ricercatori riescono a camuffare i corpuscoli in modo da evitare la reazione del sistema immunitario nei confronti di sostanze ritenute estranee all’organismo. Così i medicinali possono raggiungere senza problemi l’area colpita dalle cellule maligne.
“È la prima volta che membrane cellulari naturali vengono legate a nanoparticelle sintetiche per il trasporto di medicinali nell’organismo”, ha detto Linagfang Zhang, ingegnere alla Jacob School of Engineering dell’Università di San Diego, a capo del gruppo di ricerca. “Questo metodo – ha aggiunto Zhang – presenta un rischio molto minore di risposta immunitaria aggressiva”.
I corpuscoli sono infatti già usati con successo in trattamenti clinici del cancro, ma di solito sono avvolti in materiali sintetici (come il glicole polietilenico): si crea artificialmente una patina protettiva che dura qualche ora e che dà il tempo al farmaco di raggiungere i tessuti malati. Con il nuovo metodo di Zhang e del suo team, invece, i medicinali riescono a circolare nell’organismo malato per quasi due giorni senza essere aggrediti dal sistema immunitario.
I ricercatori dell’Università della California non sono gli unici ad aver visto nelle nanoparticelle dei possibili agenti in incognito. In una ricerca pubblicata il 19 giugno su Nature Materials, alcuni scienziati del MIT hanno dimostrato che è possibile creare in laboratorio dei corpuscoli che comunichino tra loro all’interno dell’organismo: questa abilità migliorerebbe la loro efficienza nel trasportare i medicinali.
I ricercatori hanno studiato un nuovo sistema di veicolazione dei farmaci che si basa su due fasi successive. La prima consiste nella “ricognizione”: parte dei micro corpuscoli arriva al tumore attraverso i vasi sanguigni danneggiati intorno ai tessuti malati. Una volta giunte nell’area colpita, le nanoparticelle riscaldano il tessuto circostante, simulando una lesione e innescando così un processo di coagulazione del sangue. Le altre nanoparticelle – in numero molto maggiore – sono legate a una proteina (fibrina) che le dirige verso il coagulo: queste sono le vere trasportatrici del farmaco, che così può raggiungere il tumore con una efficacia 40 volte maggiore rispetto ai metodi attualmente usati. Un’azione congiunta che ricorda quella di una squadra ben addestrata.
Entrambe le ricerche hanno bisogno di ulteriori test. Ma questi due nuovi metodi potrebbero rappresentare un modo di migliorare la qualità della vita dei malati di cancro, velocizzando e ottimizzando le loro cure.
http://www.galileonet.it/articles/4e005fda72b7ab154e00007a
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In Nebraska le acque assediano due centrali nucleari 22.06.2011
di Lorenzo Mannella
Le inondazioni tornano a minacciare le centrali atomiche sebbene, questa volta, non si tratti più di uno tsunami. Tutto è accaduto negli Usa, dove l’esondazione del fiume Missouri ha allagato una vasta area nello stato del Nebraska. È allarme, dunque, per due impianti nucleari (Fort Calhoun e Cooper) situati nella zona, entrambi esposti al serio rischio di allagamento nel caso in cui le piogge non dovessero cessare.
L’emergenza inondazione è scattata lo scorso 9 giugno, quando gli Army Corps of Engineers hanno aperto alcune dighe nel South Dakota. Le abbondanti nevicate invernali hanno infatti costretto i militari a ridurre il carico idrico sui bacini che raccolgono le acque provenienti dalle Rocky Mountains. L’apertura degli sbarramenti, però, ha causato un improvviso ingrossamento del Missouri, che ha letteralmente invaso le pianure circostanti.
Per fortuna, quando le acque hanno raggiunto la cittadina di Omaha, sede della centrale di Fort Calhoun, si sono infrante contro delle barriere gonfiabili pronte a contenerle. L’impianto, ora, sembra quasi un’isola in mezzo al mare: i tecnici della Omaha Public Power District (Oppd) si alternano sul luogo, turno dopo turno, per impedire che la struttura venga invasa dal fiume. Sebbene la centrale fosse stata spenta ad aprile per via di alcune procedure di rifornimento, c’è il timore che l’inondazione possa danneggiare le linee elettriche e lasciare l’impianto al buio.
Un caso del tutto paragonabile a quello di Fukushima, dove il blackout causato dallo tsunami ha messo fuori uso l’impianto di raffreddamento del combustibile nucleare. Sembra invece che a Fort Calhoun i generatori diesel di emergenza siano ancora operativi e che il combustibile esausto conservato nelle piscine di decantazione non corra gravi pericoli. Una situazione apparentemente sotto controllo, sebbene il 7 giugno si sia verificato un incendio che ha messo fuori uso gli impianti di raffreddamento per almeno 90 minuti.
Per la centrale di Cooper, invece, i rischi potrebbero essere assai più alti: infatti, questo impianto – un modello Boiling Water Reactor (Bwr) datato 1974 e molto simile a quello di Fukushima – è tuttora operativo a pieno regime. Il 19 giugno la direzione della centrale ha inviato un avviso di emergenza di livello I (il più basso rispetto al massimo livello IV) alla Nuclear Regulatory Commission (Nrc), l’ente americano per la sicurezza delle centrali. Il livello del fiume Missouri aveva infatti raggiunto la soglia critica di emergenza oltre cui si sarebbe potuto verificare l’allagamento dei reattori e l’avvio della procedura di spegnimento forzato del reattore: un’evenienza che tiene tutti con il fiato sospeso.
C’è, poi, un altro dato preoccupante che riguarda la centrale di Fort Calhoun: nel dicembre 2010 la direzione dell’impianto – un Pressurized Water Reactor (Pwr) classe ’73 – era stata ‘ammonita‘ dalla Nrc, che aveva riscontrato alcune gravi mancanze nei sistemi di prevenzione degli allagamenti adottati dalla Oppd. Il gestore avrebbe rimediato per tempo, ma i dubbi circa la trasparenza sulle informazioni trapelate ai media rimangono abbastanza diffusi. In un articolo pubblicato sul Bullettin of the Atomic Scientists, la giornalista Dawn Stover punta il dito contro l’alone di segretezza che circonda il reattore di Fort Calhoun.
In una nota di servizio, la Oppd ha infatti richiesto alla Federal Aviation Administration (Faa) di istituire una no fly zone al di sopra della centrale. Con la chiusura dello spazio aereo, i cronisti locali non possono più avvicinarsi a Fort Calhoun per raccogliere immagini. Sembra, per adesso, che non ci sia modo di vincere il vuoto di informazione causato dalle norme anti-terrorismo varate in seguito all’11 Settembre: molte informazioni riguardanti l’impianto sono state subito rimosse dal sito internet della Oppd. Una mossa non particolarmente gradita ai blogger, ancora memori di Three Mile Island, la centrale Usa che nel 1979 subì un grave incidente per via della fusione di un reattore Pwr.
A fronte degli ultimi aggiornamenti, non sembra che la situazione in Nebraska possa migliorare durante i prossimi giorni. I militari contano di dover tenere aperte le dighe per tutto il corso dell’estate, e le piogge non accennano a diminuire. Nella notte del 20 giugno, inoltre, una tempesta si è abbattuta su Ohama danneggiando alcune linee elettriche e lasciando al buio circa 12 mila persone.
http://www.galileonet.it/articles/4e019fb972b7ab1549000096
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Milioni con Assad. Perché? 22.06.2011
di Pino Cabras – Megachip.
Milioni di siriani sono scesi in piazza in tutto il paese, martedì 21 Giugno 2011. La folla era un oceano a Damasco, Aleppo, Homs e Tartus. Questo scenario, nei deboli richiami sui siti dei quotidiani nostrani, si riduce a «migliaia di lealisti». La notizia viene nascosta, ma sarà difficile farlo a lungo. Quale notizia? Che esistono basi di consenso reali per le riforme annunciate dal presidente Bashar al-Assad nel suo discorso all’università di Damasco. Nel registrare questo consenso non parliamo di favoriti del regime che difendono privilegi. Non ha senso ridurre un evento simile a una misura così meschina, quando le strade proprio non ce la fanno a contenere la massa umana.
Parliamo di una forte realtà popolare, di manifestazioni di una grandezza senza precedenti nella storia della Siria. Anziché raccattare testimonianze dai social network, i grandi media farebbero bene a chiedersi perché i loro rozzi schemini sulle rivolte arabe facciano cilecca. Nel dubbio, intanto, le manifestazioni per loro non esistono.
In termini puramente numerici, il confronto fra i milioni che appoggiano il presidente con le migliaia di manifestanti anti-Assad delle scorse settimane mostra un divario indiscutibile. Può non piacere, ma ignorarlo significa partecipare a una manipolazione sfacciata dell’informazione, e non fa sorgere domande corrette su cosa stia accadendo in Siria.
I familiari dei soldati, e sono tanti, hanno il polso della situazione. Non credono ai tentativi orwelliani dei grandi canali via satellite in lingua araba di raccontare bombardamenti di villaggi, massacri e fosse comuni perpetrati dal regime. In molti, persino fra quelli che conoscono le scomode prigioni del loro paese, ritengono che la Siria sia al centro di una campagna di destabilizzazione nello stile di quelle che subivano i paesi latinoamericani negli anni settanta, con gruppi armati foraggiati dall’estero, e un’escalation di misure diplomatiche in vista di un intervento militare, domani, della NATO.
I pochi giornalisti occidentali sul campo in questi mesi, e anche gli inviati di Al Jazeera prima che si dimettessero per protesta contro le false rappresentazioni della situazione in Siria e Libano, hanno tutti verificato la portata del consenso popolare al presidente, a dispetto degli innegabili problemi.
Lo schemino dittatura/libertà è in questo caso inservibile. I conti tornerebbero se si usasse lo schema sovranità/dipendenza, e magari un terzo schema: laicità/religione; e un quarto: conflitti interetnici.
Sembra che le masse siriane non vadano a consigliarsi da Rosy Bindi né da Napolitano. Hanno guardato per anni Al Jazeera, che – quando manipolava di meno le notizie e girava di più a raccoglierle – mandava quasi a morire i suoi reporter con il giubbotto antiproiettile, e quelli dimostravano come alla caduta di Saddam non sia seguito un eldorado di democrazia, ma il caos e gli eccidi in un paese usurpato, schiacciato, abusato, concretamente rovinato.
È per questo che finanche chi ha avuto la sventura di stare nelle celle riservate per anni agli oppositori, con pieno discernimento politico dice: non come in Iraq, prego. E si stringe intorno all’unica difficile, contraddittoria proposta di riforma davvero in campo, quella di Assad.
Il resto odora già di uranio impoverito, fosforo bianco e predatori sostenuti dalle aberrazioni sempre più indecenti dell’interventismo umanitario, ancora incapace di uno straccio di autocritica persino di fronte ai bombardamenti che fanno stragi di innocenti in Libia.
http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/6364-milioni-con-assad-perche.html
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Ancora privatizzazioni in arrivo? 22.06.2011
Da: “salvatorecamaioni” c.salvo@tin.it A: ListaSinistra@yahoogroups.com
In ListaSinistra@yahoogroups.com, “Alexis” <akilis@…>
Quella itaGliana non differisce molto dalle altre, anzi e’ identica, parliamo quindi di *Sinistra europeja* che garantisce il bipolarismo “esecutore” e di pura gestione del vero Gobierno.
[…]
Quando il vero Gobierno decidera’ di passare di mano le “carte” anche in Italia – e avvera’ presto – dalla gamba destra del Sultano a quella sinistra, allora ce ne accorgeremo di quanto e’ vicina la Grecia, come ci diceva pocc’anzi l’amico Salvatore :-)))
Alexis :-)))
______________
Vero. Penso anch’io che il “Gobierno” trovi molto più efficace far gestire alla cosiddetta sinistra la svolta ‘greca’ che riguarderà l’Italia quanto prima: è meglio che sia un governo di c.d. sinistra ad imporre le lacrime ed il sangue al popolo bue, anzicché un leader ormai impopolare, inetto, incompetente, inconcludente, interessato ad altro (processi, quattrini, bunga bunga). Il nano fetens è ormai diventato un impaccio per il Gobierno. Solo che la permanenza al governo è per il nano fetens una questione di libertà o galera, di floridità economica o di tracollo: se soltanto gli offrissero un salvacondotto che lo metta al sicuro nei suoi averi e nella sua impunità…
S.C.
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La rivoluzione in Europa: non pagare il debito 22.06.2011
di Giorgio Cremaschi
Perchè i lavoratori, i cittadini, il popolo greco dovrebbero impiccarsi alla corda degli strozzini di tutta Europa? Perchè la Grecia dovrebbe rinunciare a stato sociale, diritti, regole, sicurezza; vendere all’incanto i propri beni comuni, a partire proprio dall’acqua, per far quadrare i conti delle grandi banche europee e americane? Questa è la domanda di fondo che si pone oggi in quel paese e, a breve, in tutta Europa.
Si dice che i debiti devono essere sempre pagati, e così quello pubblico della Grecia. Tuttavia quando due anni e mezzo fa le principali banche occidentali rischiavano il fallimento, i governi stanziarono da 3.000 a 5.000 miliardi di euro, secondo le diverse stime, per salvare le banche private ed i loro profitti. Oggi si nega alla Grecia da un trentesimo a un cinquantesimo di quella cifra, se non vende tutto, comprese le sue belle isole come sostengono alcuni quotidiani economici tedeschi.
I banchieri e i grandi manager occidentali hanno visto, grazie al colossale intervento pubblico, aumentare del 36% in un anno i propri giù lauti guadagni, mentre il reddito medio dei lavoratori greci è calato del 25%. Questa è la realtà su cui sproloquiano gli innamorati dell’Europa delle banche e del rigore. Quei falsi profeti che con l’euro sono riusciti nella magica operazione di svalutare tutte le retribuzioni dei lavoratori europei e di rivalutare tutti i profitti dei loro padroni.
Sì, certo, nelle buone intenzioni l’euro doveva servire ad unificare l’Europa. Nella pratica concreta dei patti di stabilità, di Maastricht, delle politiche liberiste dei governi – di tutti i governi di destra e di sinistra – ha però in realtà distrutto l’unità sociale e persino quella democratica del Continente. Oggi i governi eletti dai cittadini non decidono nulla sull’economia. Sono i tiranni di Francoforte e di Bruxelles che decretano quello che si deve o non si deve fare. Questo è a tal punto vero che il Belgio sta sperimentando l’assenza di un governo democratico da quasi due anni. Ormai quel paese è direttamente amministrato dai commessi, dai funzionari, dai manager dei poteri europei.
Abbiamo già scritto che questa Europa fa schifo. Essa è in grado di fare la guerra in Libia, e su questo ha solo torto il Presidente della Repubblica a voler andare avanti, ma non di varare una politica sociale comune, nè per i migranti nè per i suoi più antichi cittadini. La più importante conquista civile e democratica dopo la sconfitta del fascismo, il patrimonio che l’Europa oggi potrebbe consegnare all’umanità – lo stato sociale, i diritti di cittadinanza, la partecipazione democratica – viene sacrificato sull’altare delle banche e della finanza.
Questa Europa va rovesciata. Non in nome delle piccole patrie razziste e xenofobe, delle ridicole padanie capaci solo di rivendicare targhette per i ministeri e spietatezza con i poveri, soprattutto se vengono da fuori. L’Italia ha cominciato a liberarsi di Berlusconi e di Bossi, ed è forse più avanti nel capire che non è il populismo razzista l’alternativa al potere liberista europeo, anzi, è semplicemente la faccia più sporca di quella stessa medaglia. L’Italia ha cominciato a liberarsi, ma questa liberazione sarà vera quando verrà rovesciato il potere degli usurai che in tutta Europa stanno imponendo il massacro sociale, con il ricatto del mercato selvaggio e della globalizzazione. Occorre una rivoluzione democratica e sociale dei popoli europei che rovesci l’Europa delle banche, della finanza, dei ricchi. Bisogna non pagare questo debito e far invece cadere, finalmente, i costi della crisi su chi l’ha provocata. Il piccolo popolo islandese ha già votato in un referendum il mandato ai propri governi di non pagare il debito per salvare la speculazione mondiale. Questo chiedono gli indignados spagnoli, così come i cittadini greci davanti al loro parlamento totalmente esautorato di ogni reale potere. Dalla Grecia, che ha inventato la parola democrazia, deve partire la riscossa democratica di tutti i popoli d’Europa.
Liberazione 22/06/2011
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di Giuliano Battiston – ROMA
ROBERT FISK – «Obama e l’Occidente non vogliono la democrazia nel mondo arabo, la loro unica ossessione è la stabilità»
Ciechi di fronte al risveglio arabo 22.06.2011
In Medio Oriente i dittatori hanno praticato un’operazione di infantilizzazione del popolo, tirato su a suon di giornali finti, con il minimo indispensabile per vivere
Quando aveva solo dodici anni, vedendo «Il prigioniero di Amsterdam», un film di Alfred Hitchcock, Robert Fisk decise di diventare giornalista. A cinquant’anni circa da quell’episodio, oggi è considerato il più autorevole corrispondente dal Medio Oriente. Perché si è sempre tenuto alla larga da quello che considera il pericolo peggiore per il giornalismo, «il rapporto osmotico e parassitario con il potere», e perché non ha mai smesso di leggere i fatti più recenti con uno sguardo da storico, come dimostra negli articoli che pubblica per il giornale inglese The Independent, e soprattutto nei suoi libri. Abbiamo incontrato Robert Fisk a Roma, prima della lezione che ha tenuto per il Corso «Informazione tra guerra e pace», organizzato dalla sezione Internazionale della Fondazione Basso.
Come giudica le rivolte arabe che hanno infiammato Nord Africa e Medio Oriente. Segnano un vero spartiacque storico o sono destinate a cambiamenti effimeri?
Piuttosto che «rivolte», preferisco definire gli avvenimenti recenti come un «risveglio arabo», adottando il titolo di un libro dello studioso George Antonius, che racconta il periodo delle rivolte arabe sotto Lawrence d’Arabia, negli anni Venti del Novecento. Quel libro include la documentazione delle promesse fatte dagli inglesi agli arabi, così come gli accordi stipulati segretamente tra inglesi e francesi per spartirsi il mondo arabo in mandati ed evitare la nascita di Stati arabi indipendenti. Considero gli eventi degli ultimi mesi come l’avvenimento più straordinario dagli anni Venti del Novecento, che avrà effetti duraturi. La parola «rivolta» non mi piace: può spiegare quel che è accaduto in Tunisia ed Egitto, non definire la guerra tribale in Yemen e Libia, né la potenziale guerra religiosa e settaria in Siria. In ogni caso, il risveglio nasce dal rifiuto del popolo di essere impaurito.
Già alcuni anni fa, in uno dei suoi articoli scriveva che nella regione c’era una novità: i cittadini, dai palestinesi ai siriani, non avevano più paura del potere, e quando non si ha più paura le cose sono destinate a cambiare…
All’epoca avevo percepito la novità, non le potenzialità. Le rivolte arabe non nascono oggi: la prima è quella libanese del 2005, quando migliaia di cittadini hanno condannato l’uccisione dell’ex primo ministro Rafiq Hariri, chiedendo l’uscita dal paese dei soldati siriani. Il secondo risveglio è quello iraniano, quando nel 2009 sono stati contestati i risultati delle elezioni presidenziali. Le radici del risveglio arabo vanno ricondotte dunque agli anni scorsi, ai tanti movimenti di scrittori, intellettuali e lavoratori che reclamavano diritti. E che si dicevano stufi di vivere in una situazione che definirei di perenne infantilismo, o, meglio, di infantilizzazione. In tutti i paesi della regione, a eccezione del Libano, i dittatori hanno praticato una deliberata operazione di infantilizzazione del popolo: trattavano i cittadini come bambini, scolaretti che venivano tirati su a suon di giornali finti, con il minimo indispensabile per vivere. Chi usciva da «scuola», lo faceva a suo rischio, finendo direttamente nelle prigioni, per essere torturato ed eventualmente ucciso. Di fronte a una gioventù con un crescente livello di alfabetizzazione, il gioco non ha più retto: i cittadini resi infantili hanno capito chi erano i veri bambini: i dittatori di turno, chiusi nel «mare di silenzio» in cui vivono i despoti. Una delle cose più tragiche è la reazione simile dei dittatori. Tutti pensano di essere i proprietari del paese, come se appartenga alla loro famiglia, lo pensava Mubarak come Assad. E tutti, anche per questo, accusano «interessi e mani straniere» dietro le quinte.
C’è stato un generale rimando al pericolo islamista (anche da parte delle cancellerie occidentali), anche se gli studiosi più avvertiti hanno subito definito le rivolte come post-islamiste. Lei cosa ne pensa?
Tutti hanno agitato lo spauracchio islamista. O addirittura quello di al Qaeda. La cosa curiosa è che la minaccia di al Qaeda veniva paventata proprio quando al Qaeda dimostrava di essere finita. La parabola di al Qaeda si è esaurita anni fa: ha promesso agli abitanti della regione che li avrebbe liberati dai dittatori e dall’occupazione americana, e ha fallito completamente, perché è stata la popolazione che ha rovesciato i regimi. Sono stato in Tunisia, Egitto, Barhein, a Tripoli, e non ho visto brandire un solo vessillo islamico, tanto meno qaedista. L’ipotesi islamista non regge, e non hanno retto e non reggeranno le aperture dei dittatori. Appena si apre uno spiraglio al popolo, il popolo pretende sempre di più. E’ un fenomeno inarrestabile.
E le cancellerie occidentali? Tartufesche come al solito, frutto della solita schizofrenia tra dichiarazioni di principio e realpolitik?
E’ la cosa più vergognosa: quando Ben Ali era ancora al suo posto, Hillary Clinton lo ha sostenuto, mentre Barack Obama non diceva niente, e non l’ha fatto neanche quando Ben Ali ha lasciato il paese. Nel caso dell’Egitto, c’è stato silenzio da parte della Casa Bianca, che ha continuato a considerare Mubarak un amico anche quando milioni di persone lo contestavano. Era proprio quello il momento giusto per Obama: avrebbe dovuto alzarsi in piedi e dire: «Il popolo americano crede nella democrazia, siamo con voi, Mubarak vattene!». Non l’ha fatto, ha aspettato. Se lo avesse detto per tempo, le strade del Cairo si sarebbero riempite di bandiere americane, e forse avrebbe pulito i muri insanguinati afghani e iracheni. La realtà è che l’Occidente non vuole veramente la democrazia in Medio Oriente, e ancora non ha capito nulla del risveglio arabo: soltanto alla fine ha compreso che non avrebbe più potuto sostenere gli Stati polizieschi. Non dimentichiamo che la polizia di questi Stati è stata addestrata alla tortura dai consulenti occidentali, gli americani hanno spedito propri «prigionieri» nelle carceri siriane. L’Occidente vuole la democrazia, ma fino a un certo punto. La vera ossessione, è la cosiddetta stabilità. In una recente conferenza stampa, Obama ha ammesso: a volte le aspirazioni ideali americane sono entrate in conflitto con gli interessi americani. Intendeva il petrolio, ma non l’ha detto!
Lei è critico nei confronti del presidente americano, e definisce come patetici e inutili i suoi recenti discorsi sul Medio Oriente, per poi contestare i «collassi linguistici» di Obama sulla questione israelo-palestinese. Dov’è che sbaglia Obama?
Prendiamo il famoso discorso del Cairo di due anni fa. In quell’occasione, ha parlato del trasferimento dei palestinesi nel 1948. Ci rendiamo conto? Trasferimento! Non esilio, pulizia etnica, catastrofe. E poi il discorso con cui ha accettato il premio Nobel per la pace: devo essere realista, ha detto, devo vivere nel mondo, non posso comportarmi come Gandhi e Mandela. Come se Gandhi non avesse dovuto combattere l’impero britannico e Mandela l’apartheid. Nel suo più recente discorso sul cosiddetto conflitto israelo-palestinese, prima ha parlato di «insediamenti», poi, dopo aver sentito Netanyahu che si riferiva a «certi cambiamenti demografici sul terreno» per giustificare l’occupazione illegale di terra palestinese, ha usato la stessa frase, allineandosi in pieno. E’ semplicemente un uomo e un politico debole, che aspira al secondo mandato. Non si rende conto di essere diventato irrilevante. Netanyahu invece continua a rivendicare l’alleanza con gli Stati Uniti, ma coltiva un incubo: se c’è stato un risveglio nei paesi arabi, ce ne potrà essere uno anche tra i palestinesi. Cosa farà Israele se centinaia di migliaia di persone dovessero decidere di tornare nella loro terra dai paesi confinanti? Quando la popolazione di Gaza deciderà di manifestare? Gli occidentali continuano ad adottare nei confronti degli arabi quell’atteggiamento colonialista che avevano gli inglesi con gli indiani. Senza rendersi conto che gli arabi non hanno più paura: sanno che non hanno bisogno di nessuna lezione. E di avere potere.
Un’ultima domanda sulla Libia, dove pare sia scattata proprio quella combinazione tra «sogni ideologici e pistole fumanti» che lei ha sempre criticato. Come se ne esce?
Pochi giorni fa, a Istanbul ho comprato una nuova biografia di Ataturk, che prima di diventare il padre della patria turca era un soldato ottomano. Gli ottomani lo mandarono in Libia per addestrare una tribù senussita contro gli italiani, la stessa tribù che oggi viene sostenuta dalla Nato. Qualche settimana dopo il suo arrivo, scrisse una lettera a un suo amico ufficiale in Bosnia, dicendo che quell’operazione era inutile: «addestriamo i senussiti, sono buoni combattenti, ma vogliono essere pagati, e noi lo facciamo. Il guaio è che tirano la guerra per le lunghe, per avere sempre più soldi». Qualcuno dovrebbe mandare a Sarkozy, Cameron e Obama una copia di quella lettera.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110622/manip2pg/09/manip2pz/305362/
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di Argiris Panagopoulos – ATENE
GRECIA – Decine di migliaia di persone assediano il parlamento mentre i deputati votano la fiducia al nuovo governo Papandreou : la ristrutturazione è l’unica alternativa alla macelleria sociale
«Via il debito!», l’urlo di piazza Syntagma 22.06.2011
Col via libera al voto accelerato i conservatori faciliteranno di fatto il varo dei tagli Per avere il secondo piano di salvataggio la camera sarà in seduta permanente fino alla fine del mese
I ricatti dell’Unione Europea e le sue promesse di finanziamento per lo sviluppo e quelle del governo greco per una revisione costituzionale non hanno convinto ieri sera le decine di miglia di persone che, con una lunga notte di protesta, hanno accompagnato il voto di fiducia al nuovo governo Papandreou.
Gli «Indignati» e il sindacato del settore pubblico Adedy non si accontentano nemmeno dei ritocchi ai duri tagli dell’ultima ora promessi dai ministri socialisti. Piazza Syntagma ieri sera pretendeva la ristrutturazione del debito, vista da una parte consistente della popolazione come unica soluzione per la crisi greca.
«Salvate le persone e non le banche», «Via il governo e il Fmi», «Atene, Madrid, Lisbona: tutta l’Europa a lottare nelle strade», «Venite voi a vivere con 500 euro», «Il debito non è dei popoli ma dei ricchi e dei primi ministri» erano alcuni degli slogan dei manifestanti nel cuore di Atene.
Il nuovo ministro delle Finanze Venizelos doveva presentare ieri sera, prima del voto di fiducia, il calendario delle prossime votazioni per approvare i tagli per ottenere il secondo pacchetto di «salvataggio».
Oggi pomeriggio il consiglio dei ministri voterà i tagli e le leggi per la loro applicazione, che subito passeranno al vaglio del parlamento per essere votati entro il 30 di giugno, visto che il 3 luglio la riunione straordinaria dell’Eurogruppo dovrà valutare se la Grecia ha compiuto i passi per guadagnarsi la quinta tranche da 12 miliardi di euro per evitare il fallimento.
Venizelos voleva chiedere ieri sera la procedura veloce in parlamento per i tagli e le leggi per la loro applicazione, nonostante molti deputati socialisti abbiano chiesto più tempo per dire la loro: un alibi per i loro elettori, per quando andranno a chiedergli il voto per essere rieletti.
I conservatori di Nuova democrazia hanno dovuto fare fronte alle dure critiche dei partiti di sinistra, per aver permesso ai socialisti di accelerare i tempi della votazione dei tagli nel parlamento. Il leader di Nuova democrazia Samaras è sotto pressione da parte dei partiti del Partito popolare europeo per accettare la formazione di un governo di unità nazionale. Il presidente del Ppe e i democristiani tedeschi aumenteranno le loro pressioni durante il summit del Ppe di giovedì, prima del Consiglio Europeo del 23 e 24 giugno.
Per i comunisti del Kke il consenso di Nuova democrazia alla «votazione express» dimostra che ha accettato i tagli non soltanto nella sostanza ma anche nella procedura. «Dovranno rispondere ai lavoratori e agli strati popolari. La condanna politica alla plutocrazia arriverà con lo sciopero di 48 ore» ha detto il Kke, che organizza per oggi una nuova manifestazione di piazza, di fronte alla sede del comune di Atene, dimostrando per l’ennesima volta la sua estraneità al movimento degli «Indignati».
Il Consiglio di Stato greco ha rifiutato ieri con voto unanime la domanda di incostituzionalità del Memorandum che sostenevano Gsee e Adedy, la centrale sindacale e il sindacato del settore pubblico. Il Consiglio di Stato greco ha sostenuto che il Memorandum non viola la carta fondamentale, il trattato europeo dei diritti dell’uomo e i trattati internazionali.
Adedy aveva convocato ieri sera una manifestazione a Syntagma, mentre gli «Indignati» avevano allestito un’urna nella piazza, per il «voto di sfiducia» al governo.
Alle cinque di ieri pomeriggio decine di miglia di manifestanti avevano già riempito il viale di fronte al parlamento, mentre gli «Indignati» si preparavano per una lunga notte di protesta.
La polizia aveva mobilitato ieri grandi forze intorno al parlamento e aveva ripristinato un recinto di vetro per garantite l’ingresso dei deputati, una misura utilizzata già dal governo Berlusconi, al G8 di Genova.
Il movimento «300 greci» continua a raccogliere firme per una referendum per la abolizione del Memorandum e l’uscita della Grecia dal Fmi, chiedendo la convocazione di un’assemblea costituzionale, l’abolizione dell’immunità parlamentare, una legge per la responsabilità dei ministri e la proclamazione della zona economica nel Mar Egeo, per proteggere i diritti della Grecia nei possibili giacimento di petrolio e gas naturale.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110622/manip2pg/07/manip2pz/305355/
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di Carla Ravaioli
«Bisogna ragionare su quale sviluppo. Sono necessarie tecnologie e innovazione, meno consumi di energia»
«La crescita? Dipende cosa cresce» 22.06.2011
Il demografo Massimo Livi Bacci: l’aumento di popolazione non è un problema globale ed è in frenata. Il vero problema è l’impatto ecologico, vanno frenati i consumi
Come tu ben sai la popolazione mondiale è aumentata enormemente negli ultimi tempi a partire dal secolo scorso. All’inizio eravamo un miliardo e mezzo di persone, oggi siamo quasi sette miliardi. Tu sei demografo, come leggi questo fenomeno?
Innanzitutto, alla radice di questa crescita senza precedenti c’è una rivoluzione nei comportamenti individuali, a sua volta determinata da una rivoluzione delle conoscenze. Fino alla metà dell’800 eravamo poveri di conoscenze scientifiche e poveri di risorse, la mortalità infantile era elevatissima, la vita media era intorno ai 30 anni. Durante quel secolo è iniziata una gigantesca rivoluzione di saperi, di tipo medico e epidemiologico in particolare, e insieme s’è verificato un progressivo aumento delle risorse pro-capite, che ha migliorato l’alimentazione, l’igiene, i comportamenti individuali, l’intera l’organizzazione della vita. E questo è stato un cambiamento sicuramente positivo alla radice degli enormi guadagni di sopravvivenza e longevità. Al quale però la componente riproduttiva, la natalità, si è adattata con molta lentezza. È passato parecchio tempo prima che le coppie si avvedessero del fenomeno, per cui si poteva “economizzare” anche sulla riproduzione visto che la mortalità infantile si era ridotta. E questo sfasamento ha creato l’accelerazione della crescita demografica. È passata qualche decina d’anni prima che la natalità cominciasse a flettere.
Con una grossa differenza tra il mondo occidentale e il Sud del mondo.
Ovviamente. Nel mondo ricco il fenomeno, comunemente chiamato “transizione demografica”, si è affermato nella seconda metà del XIX secolo, mentre nel resto del pianeta tutto ha avuto un andamento assai più lento: la flessione della natalità è iniziata dalla seconda metà dal secolo scorso, per accelerare negli ultimi decenni… A questo si deve quella moltiplicazione degli esseri umani che tutti conosciamo.
Nel sud del mondo però si verifica ancora una crescita della popolazione ben più elevata che in Occidente.
Intendiamoci, il Sud del mondo è molto diversificato. Dal punto di vista demografico è soprattutto l’Africa sub-sahariana ad avere ancora tassi di crescita elevatissimi. Mentre ad esempio in tutto il sud-est asiatico – Cina, Taiwan, Corea, Thailandia – oggi la natalità è al livello europeo. In India è ancora elevata, soprattutto nel nord, con un aggiustamento della natalità molto più lento che nella vicina Cina. E il mondo musulmano ha creato delle sorprese in questo campo, con transizioni fortissime, Iran in testa. L’Iran oggi ha una natalità simile a quella del mondo europeo di trent’anni fa: al di là di una ideologia che tende ancora a subordinare la donna, si sono fatti passi enormi e quindi anche nel mondo musulmano c’è una grande varietà di situazioni: altissima natalità nella penisola arabica, comportamenti “moderni” altrove . Anche nel Nord-Africa, Tunisia, Marocco, Algeria, hanno ormai tassi di natalità moderati; l’Egitto un po’ meno, la Turchia è ai livelli dell’Europa di trent’anni fa. Così in Sudamerica: ci sono paesi, come il Brasile, dove la natalità è caduta sotto i due figli per donna.
E tuttavia le previsioni mi pare annuncino un miliardo di persone in più entro questo secolo.
No, no, di più. Previsioni abbastanza plausibili parlano di un paio di miliardi in più verso il 2050. Dopodiché dovrebbe esserci una certa stazionarietà. E comunque la crescita dovrebbe rallentare fortemente dopo la metà del secolo, e raggiungere un’approssimativa stazionarietà, attorno ai 10 miliardi, alle soglie del XXII secolo.
Molti specialisti della materia sono preoccupati perché il processo comporterà un invecchiamento della popolazione.
Tutto dipende dai modi in cui il processo si verifica. Se il calo delle nascite è troppo rapido, si arriva a livelli di invecchiamento eccessivo della popolazione. Vedi il caso del Giappone dagli anni ’50 in poi. Per 20-30 anni il paese ha tratto notevoli vantaggi dalla fortissima riduzione della natalità, poi il vantaggio si è capovolto, con il rapido invecchiamento della popolazione complessiva. Che è quanto sta accadendo ora in Cina, creando problemi sociali enormi: aumentano rapidamente gli anziani, sprovvisti di protezione sociale, con scarso sostegno dai figli (o dal figlio unico), spesso emigrato lontano.
Forse bisogna però anche considerare il fatto che i vecchi sono più giovanili di una volta.
Questo è vero. E però, se cominci ad avere più ottantenni o novantenni che non ragazzi di dieci o quindici anni, è un problema non da poco. Tutto dipende dalle dimensioni dei fenomeni, e dalla loro velocità.
Il tema di questa inchiesta è “la crescita”, di solito calcolata in rapporto all’aumento del reddito, il famoso “Pil”, che ovviamente è correlato a tutta una serie di variabili, anche non direttamente identificabili con la produzione: tra cui la popolazione del mondo che, nel suo divenire, ne è certo per mille versi una determinante decisiva. Come sai, la crescita produttiva, data come obiettivo prioritario del nostro agire economico, s’è imposta come una sorta di vangelo, a cui tutti, secondo le loro possibilità, più o meno si attengono. Ma c’è un problema che in genere viene rimosso: la popolazione umana aumenta, e quindi aumentano i consumi individuali, mentre il mondo continua ad avere le stesse dimensioni. Per quanto si riesca a sfruttarlo al meglio, resta il fatto che il pianeta Terra appare sempre meno in grado di rispondere adeguatamente ai nostri bisogni: la crisi ecologica ne è la prova.
I fenomeni non vanno visti in maniera manichea. Sicuramente ci sono grossi problemi, in certe zone, connessi con la crescita demografica. Ci sono aree come il Bangladesh, popolate in maniera densissima, dove tutta la terra è stata messa sotto produzione e dove l’equilibrio ecologico è estremamente fragile e vulnerabile ad ulteriore crescita demografica. Oppure altre aree, nelle quali il popolamento avviene per intrusione, come ad esempio nel bacino amazzonico, di enorme valore ecologico, che risente pesantemente dell’aumento demografico. Sì, ci sono aree in sofferenza, comunque non lo vedrei come un problema globale. C’è invece, effettivamente, un problema globale per quanto riguarda i mutamenti climatici, l’effetto serra dell’attività umana. Questi fenomeni possono sintetizzarsi col prodotto di tre variabili dell’equazione: PxAxT = I, e cioè “Popolazione per Affluenza per Tecnologia uguale Impatto ecologico”. Sicuramente, se si vuole contenere I, cioè l’impatto ecologico, occorre moderare la crescita demografica, cioè P: ma questa è in frenata (anche se vorremmo che la frenata fosse più rapida). Ma è la crescita di A, cioè dell’affluenza, cioè dei consumi, cioè della materie prime e dell’energia, che va moderata, con l’aiuto di T, ovvero della della tecnologia. Sono soprattutto A e T che giocano la partita!
A prescindere dalla tua specializzazione, hai certo una tua opinione sulla crescita produttiva illimitata, che oggi è l’asse portante dell’economia attuale: si deve crescere. Rimuovendo il fatto che tutto quello che noi produciamo, comperiamo, usiamo, tocchiamo, ecc. ecc. è “fatto” di natura. Un tavolo, un abito, un aereo, un computer… sono tutti “fatti” di natura; straordinariamente trasformati dalla tecnica umana, sono comunque frammenti del pianeta Terra: che è grande, ma ha dei limiti. Come pensarlo capace di alimentare una crescita produttiva illimitata, come quella che tutti invocano?
Ma il fatto è che tutti vogliono la crescita, nessuno vuole la depressione. Anche gli ecologisti più intransigenti sarebbero incerti se io gli prospettassi uno scenario di decrescita del 3 o 4 per cento all’anno. La crescita è il risultato di una serie di fattori: il lavoro umano, la materia prima, l’energia, la tecnologia, la conoscenza incorporata. Un euro di prodotto è la combinazione di questi fattori: la risposta non è quella di non produrre, ma di produrre con un mix vantaggioso di fattori.
Ma è anche il risultato di una logica economica data come una verità di vangelo, e da nessuno praticamente messa in discussione…
A me non interessa la logica economica.
Purtroppo interessa molto a tutti quelli che “contano”. La Signora Marcegaglia invoca la «crescita» ogni tre parole.
Quello che a me interessa è ragionare su quale crescita. Io voglio una crescita nella quale contino sempre di più tecnologia e innovazione, e contino sempre di meno consumo di energia e di materia prima. Una crescita così avrebbe un impatto scarso, mentre invece una crescita che richiede tantissima materia prima, tantissima energia è una crescita che comporta un’impronta ecologica fortissima. Insomma la crescita io non la considero un tabù.Ma è ancora peggio considerarla il peccato originale! Mi interessa discutere su “quale” crescita, mentre la discussione teologica su crescita sì-crescita-no non m’interessa per niente.
Forse però occorrerebbe ascoltare anche la comunità scientifica mondiale, che a larga maggioranza accusa la crescente insostenibilità ecologica dei comportamenti umani. Per fare un solo esempio, a fine agosto scorso il famoso “Human Footprint Institute” annunciava che l’umanità aveva già consumato quanto, per non danneggiare gravemente gli ecosistemi, le sarebbe stato consentito consumare entro l’intero anno. E ricordava che lo sfasamento aumenta ogni anno…
Quanto dici ci riporta al discorso precedente. Con in più un’altra considerazione da fare. Metà della popolazione vive deprivata di quelle elementari risorse che rendono vivibile la vita (e a noi sembra impossibile che possa essere vissuta in quelle condizioni!). Quelle elementari risorse sono, appunto, beni che contengono molta materia prima e molta energia per essere prodotti: un utensile di acciaio, una bicicletta, un motore a scoppio per pompare l’acqua, un trattore per arare, cemento e mattoni per darsi un tetto… cibo per nutrirsi, gasolio per riscaldarsi. E se questi miliardi di persone debbono sollevarsi dalla povertà occorrerà che si forniscano di questi beni – tutti ad alto contenuto energetico e di materia prima, cioè con alto impatto ecologico. Noi ricchi possiamo anche in futuro “consumare” di meno, ma loro poveri, che sono tantissimi, vogliono e debbono consumare di più, molto di più.
Mi domando – e ti domando – se non si dovrebbe leggere il problema anche in un’altra chiave. Il nostro è un mondo in cui l’1% della popolazione detiene il 50% della ricchezza; in cui (secondo dati FAO) un miliardo di persone è sottoalimentato, mentre in Occidente più del 40% del cibo prodotto viene distrutto; in cui insomma la crescita del prodotto, se certo ha migliorato le condizioni di diversi popoli, non sembra però strumento capace di incidere sulla disuguaglianza come ineludibile proprietà costitutiva della nostra società.
Vero. Però ricordo che un mondo in cui tutti, proprio tutti, fossero affamati, sarebbe un mondo senza disuguaglianze! Il gioco, quindi, è etico e politico assieme: in che misura si può sostenere la crescita – per sfamare gli affamati – senza creare disuguaglianze barbare e insostenibili? In che modo attenuare e sconfiggere le disuguaglianze senza compromettere quella crescita la cui mancanza rischia di accentuare le disuguaglianze stesse? La Cuba egualitaria del castrismo ha trattenuto in livellatrice povertà dieci milioni di persone per 60 anni. Credo che si debba fare esercizio di grande umiltà, realismo storico e molta analisi scientifica per risolvere questi problemi.
Come valuti il comportamento della tua disciplina in presenza del problema ecologico? Ti pare che la scienza demografica si assuma adeguatamente le responsabilità che, sia pure certo in maniera indiretta e mediata, non possono non appartenerle?
Ho una risposta su due livelli. Da un lato le conoscenze scientifiche sui sistemi demografici, sulla relazione tra sopravvivenza, riproduttività e mobilità col mondo fisico e sociale, sono enormemente cresciute, e con queste la capacità di inserire i temi della demografia in un quadro generale. La consapevolezza cioè che la demografia è parte integrante di un sistema. Su un altro piano, la demografia come molte altre scienze umane empiriche, rischia di sperdersi nei propri tecnicismi – o meglio, di specchiarsi troppo nei propri tecnicismi – perdendo di vista il contesto, il mondo intorno, gli apporti di altre discipline. Si rischia di conoscere tantissimo sul piccolo particolare, e di trascurare il quadro generale. E’ una malattia di cui soffrono in maniera acuta altre discipline – per esempio l’economia: la demografia ha la fortuna di occuparsi di nati, morti, migranti, famiglie, genere, ciclo di vita – argomenti che riportano sempre al cuore dei problemi dell’umanità. Sicuramente si può fare molto di più, ma è anche vero che la disciplina è viva e cosciente.
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