IL “FIUME ROSSO”
Il fango tossico raggiunge il Danubio
Sull’Ungheria la minaccia ambientale 07.10.2010
Il rischio è la contaminazione dell’intero ecosistema fluviale
Il primo bilancio è di 4 morti, oltre 120 feriti e 3 dispersi
BUDAPEST
La marea dei fanghi tossici, dal caratteristico solore rosso, causata da un incidente industriale ad Ajka, nell’ovest dell’Ungheria, si sta avvicinando da questa mattina al Danubio. Questo rischia di minacciare l’intero ecosistema del grande fiume, con un tasso alcalino leggermente al di sopra delle norma. Lo ha annunciato un responsabile del controllo delle acque ungheresi.
Secondo il responsabile, i campioni di acqua prelevata alla confluenza del fiume Raab con il Danubio evidenziano «un tasso alcalino leggermente superiore alla norma, tra l’8,96 per cento e il 9,07 per cento». Il livello normale è l’8 per cento. Il flusso tossico generato da questi fanghi rossi fuoriusciti da un serbatoio di una fabbrica di bauxite-alluminio della città ,a 160 chilometri a ovest di Budapest, è passato dal Raab al Danubio poco dopo le 8.30 ora italiana, a Gyor.
La catastrofe ecologica che ha colpito tre giorni fa l’Ungheria minaccia tutto l’ecosistema del secondo fiume più lungo d’Europa dopo il Volga, in particolare la fauna e la flora. Questo incidente industriale senza precedenti nel Paese ha già provocato quattro morti, fra i quali una bambina di 14 mesi, e più di 120 feriti, mentre tre persone ritenute disperse.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201010articoli/59184girata.asp
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La legge 40 torna alla Consulta
Nicola Del Duce, 06.10.2010
La prima sezione del Tribunale civile di Firenze solleva il dubbio di costituzionalità sulla parte della legge sulla fecondazione artificiale con la quale si vieta alle coppie sterili di accedere alla fecondazione eterologa con ovuli o semi donati, dopo un ricorso di una coppia di coniugi. E’ il secondo rinvio alla Consulta dopo l’eliminazione degli obblighi del limite di tre embrioni. Il governo reagisce: “Si vuole il ritorno al Far west”. Il Pd: “La legge 40 va modificata”
Scoppia la polemica sulla legge 40. Sì perché questa mattina, la prima sezione del Tribunale civile di Firenze ha sollevato il dubbio di costituzionalità sulla norma della legge sulla fecondazione artificiale (legge 40) con la quale si vieta alle coppie sterili di accedere alla fecondazione eterologa, con ovuli o seme donati da persone esterne alla coppia. Lo hanno reso noto gli avvocati Filomena Gallo e Gianni Baldini, che assistono i coniugi che hanno presentato la richiesta. E’ il secondo rinvio alla Consulta sulla legge 40, sempre del Tribunale di Firenze, che già due anni fa si rivolse ai giudici costituzionali i quali accolsero il rilievo eliminando l’obbligo di produzione di soli tre embrioni in ogni ciclo di fecondazione, l’obbligo del loro contemporaneo impianto, e annullando anche il divieto di congelamento degli embrioni in sovrannumero. In questo caso invece, per la prima volta, un giudice ordinario ritiene quindi costituzionalmente illegittimo il divieto di procreazione assistita di tipo eterologo, sospende il processo, e rimette gli atti alla Corte.
E le reazioni non si sono fatte attendere a partire dai più accesi difensori della legge 40 come Eugenia Roccella che ha immediatamente dichiarato: “Si vuole il ritorno al far west”. Per l’attuale sottosegretario alla salute, “‘E’ ormai evidente che nei confronti della legge 40 c’è un attacco di alcuni tribunali. Non su punti marginali ma puntando alla struttura della legge per smontarla”. E dal Pd è arrivata una stoccata decisa sia da parte del senatore chirurgo Ignazio Marino che, rispondendo proprio a Eugenia Roccella, ha dichiarato, “il far west c’è già”. “La confusione regna nei centri per la riproduzione assistita e tra le coppie – aggiunge Marino – che infatti vanno all’estero per essere assistite. Se il sottosegretario Roccella fosse più lungimirante si renderebbe conto da sola dei danni che la legge ha causato e proverebbe a porvi qualche rimedio”.
Anche il Presidente del Gruppo al Senato, Anna Finocchiaro è intervenuta sul tema sempre rispondendo alle invettive di Eugenia Roccella: “Credo che sia ora di finirla con i toni alti e di propaganda che giungono da maggioranza e governo attorno ad un tema così delicato e serio quale e’ la procreazione assistita. E’ evidente a tutti che la legge 40 va modificata perché confusa e intrisa di ideologia, indifferente alle esigenze reali delle coppie e alla salute delle donne”. Pronta la controreplica dell’Associazione Scienza e Vita: “Vogliono stravolgere la legge 40”, dichiara in una nota il copresidente Lucio Romano che poi aggiunge, “era prevedibile che dopo l`assegnazione del premio Nobel (a Edwards, padre della procreazione assistita ndr) lo si usasse come strumento mediatico per presentare istanze quali la fecondazione artificiale eterologa. Richieste ampiamente rifiutate anche dalla consultazione referendaria popolare. Il tentativo reiterato di tornare alla situazione antecedente alla legge 40 è chiaro”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15919
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7/10/2010 – IL NEGOZIATO SOSTENUTO DALL’ARABIA SAUDITA, SALE LA TENSIONE NEI TERRITORI DELL'”AFPAK”
Karzai tratta in segreto con i leader dei taleban
Il Washington Post: dopo il ritiro Usa potrebbero entrare nel governo
Maurizio Molinari
I leader taleban di Quetta hanno iniziato a dialogare con il governo Karzai, prendendo in considerazione una possibile entrata nell’esecutivo in coincidenza con il ritiro delle truppe della Nato, ipotizzato nel 2014. A svelare i contatti è il Washington Post, spiegando che si tratta di capi taleban della Shura di Quetta, in Pakistan, che fa capo al Mullah Omar. A spingerli ad accettare le offerte avanzate dal presidente Karzai sarebbe l’evoluzione della situazione militare in Afghanistan, che vede da un lato l’intensificarsi della pressione Usa dopo l’arrivo dei rinforzi e dall’altro l’affermarsi di una nuova generazione di mujaheddin, molto violenti, che punta a rovesciare gli equilibri interni strappando a Quetta la guida dei taleban. A sostenere la ripresa dei negoziati c’è l’Arabia Saudita, che già lo scorso anno ospitò i primi infruttuosi tentativi, e la scelta di Obama di puntare su un’accelerazione della soluzione politica in risposta all’impegno preso da Karzai di garantire con le truppe nazionali la sicurezza dell’Afghanistan entro il 2014, aprendo così la strada al possibile ritiro dell’Alleanza.
«Siamo entrati in un anno decisivo» assicura Staffan De Mistura, rappresentante dell’Onu a Kabul, ma dal governo Karzai trapela malumore per i tentativi del Pakistan di avere voce in capitolo. Tali indiscrezioni aggiungono un ulteriore motivo di tensione fra Washington e Islamabad, che si somma a quanto sta avvenendo sul fronte della guerra contro Al Qaeda. Un rapporto di intelligence, recapitato dalla Casa Bianca al Congresso e trapelato sul Wall Street Journal, contiene dure critiche al presidente Asif Ali Zardari per il fatto che le truppe pachistane «evitano il conflitto» con Al Qaeda nelle aree tribali lungo il confine afghano. Vi sarebbe tale inattività militare pakistana dietro la decisione della Cia di intensificare la campagna di bombardamenti con i droni sulle aree del Waziristan controllate dal gruppo taleban di Haqqani, che protegge le basi dalle quali Al Qaeda continua a pianificare attacchi come quelli che avrebbero dovuto insanguinare il Vecchio Continente. A complicare le relazioni fra Washington e Islamabad c’è la protratta chiusura di alcuni posti di confine con l’Afghanistan – a cominciare dal Khyber Pass – che blocca sulle strade centinaia di camion di rifornimenti per l’Alleanza, esponendoli agli attacchi jihadisti. Da giovedì tali assalti si susseguono senza interruzione e ieri altre 25 cisterne di benzina sono state incendiate.
Lo scenario di guerra nell’Afpak – come l’amministrazione Obama ha rinominato l’area afghano-pachistana – vede dunque Washington sostenere Karzai nel dialogo con i taleban di Quetta mentre preme su Zardari al fine di attaccare i taleban di Haqqani. E’ una strategia che ricorda quanto fatto in Iraq fra il 2005 e il 2007 dal generale David Petraeus riuscendo a separare i capi sunniti da Al Qaeda. Petraeus oggi è al comando delle truppe americane in Afghanistan e usa i 30 mila rinforzi ricevuti per mettere sotto pressione i taleban irriducibili.
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Vodafone: abbiamo un piano per il digital divide 06.10.2010
Con l’HSDPA e in futuro LTE punta a fornire 2 megabit ad un comune al giorno. Senza abbandonare il piano per la fibra. Mille centri abitati non saranno più digital divisi
Roma – Vodafone ha presentato un nuovo piano per sconfiggere il digital divide: l’intenzione è quella di coprire in 3 anni 1.000 comuni italiani. Grazie un miliardo di euro di risorse da investire.
La tecnologia su cui vuole scommettere Vodafone, per tirare la volata per sbrogliare la questione delle infrastrutture di connessione, è la banda larga mobile via radio: l’offerta di connessione per questi comuni inizialmente interessati arriverà con Vodafone station (con chiavetta) per collegamento immediato WiFi o lan.
Nella presentazione dell’amministratore delegato italiano Paolo Bertoluzzo si parla dell’intenzione da parte della telco di raggiungere un comune al giorno con almeno 2 mbps medi in casa: oggi, ha spiegato l’AD, il 3G copre circa l’80 per cento della popolazione indoor, l’ADSL l’88 per cento. Con la nuova iniziativa si punta quindi a quel 20 per cento senza 3G e quel 12 per cento senza xDSL.
In totale si tratta di circa 1800 comuni isolati. Su cui Vodafone ha ritagliato questo sorta di corsia preferenziale da portare avanti accanto al progetto Fibra per l’Italia e al futuro sviluppo LTE: accanto al miliardo di investimento nelle case non verranno abbandonati i progetti previsti negli altri settori.
In tutto nei prossimi 3-4 anni la telco dovrebbe implementare circa 10mila nuove antenne tra le zone ancora non raggiunte dalla banda larga mobile (aree rurali, comuni medio-grandi e grandi città) e in quelle nelle quali i servizi Internet sono già disponibili.
Il progetto prevede l’utilizzo delle frequenze attualmente disponibili e il refarming dei 900 mhz. Gli investimenti nelle aree scoperti riguarderanno le tecnologie HSDPA, protocollo che lavora nello standard UMTS.
Il piano è in avvio: chiesti già 300 permessi ai comuni interessati. Vodafone manifesta l’intenzione di voler dare la precedenza alle amministrazioni più sensibili alla tematica, cioè a quelle che non metteranno particolari ostacoli allo sviluppo delle nuove infrastrutture. A disposizione, inoltre, un sito dedicato e un numero verde per raccogliere le segnalazioni dei comuni scoperti.
Il tutto, peraltro, non è in sostituzione della fibra, ma semplicemente complementare nelle aree disagiate: il progetto Fibra per l’Italia, insomma, va avanti. Un po’ più sfumata, invece la questione Wimax: per Vodafone non è una tecnologia vincente, ma un buono stimolo per lo sviluppo di altre soluzioni. In quest’ottica la scommessa per il futuro è LTE, per cui occorrerà trovare le frequenze adatte (una notizia, l’operatore sembra interessato a intavolare un discorso di questo tipo con i ministeri interessati) e che si punta ad implementare a partire dal 2013.
Claudio Tamburino
http://punto-informatico.it/3004748/PI/News/vodafone-abbiamo-un-piano-digital-divide.aspx
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Stoccarda, si fermano le ruspe 05.10.2010
Il controverso progetto “Stuttgart 21” è stato sospeso
BERLINO – Il controverso maxi-piano di sviluppo urbano in corso a Stoccarda – denominato “Stuttgart 21” – che prevede anche la costruzione di una nuova stazione ferroviaria, è stato sospeso in parte dalle autorità del Land, il Baden-Wuerttemberg, sulla scia dell’ondata di proteste ormai quotidiane contro il progetto.
A dare l’annuncio, è stato lo stesso governatore della regione, Stefan Mappus, con un intervento sull’Handelsblatt, il quale ha confermato così la notizia data ieri sera in tv dal suo ministro dei Trasporti, Tanja Goenner. In particolare, quest’ultima ha detto che verranno sospesi i lavori di demolizione dell’ala Sud della vecchia stazione poiché – ha spiegato – «non sono necessari al proseguimento» del progetto. Venerdì scorso, tra 50 mila e 100 mila persone avevano manifestato pacificamente per l’ennesima volta davanti alla stazione di Stoccarda dopo violenti scontri tra dimostranti e polizia durante la notte precedente. E la stessa cancelliera tedesca Angela Merkel aveva lanciato un appello alla calma.
ats/ansa
http://www.cdt.ch/mondo/cronaca/32116/stoccarda-si-fermano-le-ruspe.html
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L’Aquila, migliaia di “nuovi poveri” dopo il terremoto 09.09.2010
Senza casa, senza lavoro e in alcuni casi senza cibo. Oltre agli edifici, il sisma del 2009, ha spazzato via molti posti di lavoro e nel capoluogo la ripresa è diventata una chimera. Mentre c’è chi aspetta la defiscalizzazione delle attività economiche
Difficile tornare a sorridere a L’Aquila se a mancare è soprattutto una cosa: il lavoro. A oltre un anno dal sisma che ha colpito l’Abruzzo la situazione economica del capoluogo è sempre più difficile. Se fino ad oggi sono riaperti solo 30 negozi su 2000, come ha raccontato Sky.it pochi giorni fa, non va meglio per quanto riguarda le altre attività economiche e il mercato del lavoro in generale. Sono molte le famiglie in difficoltà e alla mensa dei poveri il numero dei pasti che vengono distribuiti è raddoppiato rispetto al 2009, prima del terremoto. L’assessore alle Politiche sociali del Comune, Stefania Pezzopane, non ha dubbi: “Ci sono nuovi poveri che prima non si sognavano minimamente di diventarlo”.
Leggi anche:
A L’Aquila hanno riaperto solo 30 negozi su 2000
Lo storico Bar Gran Sasso, chiuso da un anno e mezzo
Il Panettiere che non vuole lasciare l’Aquila
http://tg24.sky.it/tg24/cronaca/2010/09/09/l_aquila_migliaia_di_nuovi_poveri_dopo_il_terremoto.html
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Il federalismo lampo
Francesco Scommi, 07.10.2010
Un Consiglio dei ministri durato mezz’ora dà il via libera all’ultimo decreto legislativo della delega sul federalismo fiscale. Il testo accorpa fisco regionale, provinciale e fabbrisogni del sistema sanitario. La parola ora alle commissioni parlamentaro e alla Conferenza unificata. Il presidente della Conferenza delle regioni Errani parla di “metodo sbagliato”, per Nichi Vendola “la Lega vuole quello che le interessa un attimo prima di staccare la spina”
Una riunione lampo: è bastata mezz’ora al Consiglio dei ministri per dare il via libera all’ultimo decreto legislativo della delega sul federalismo fiscale. Il provvedimento – annunciato ieri dal premier Silvio Berlusconi – accorpa i tre testi che avrebbero dovuto riguardare il fisco regionale, quello provinciale e i costi e fabbisogni del settore sanitario. Ora il decreto sarà esaminato dalle commissioni parlamentari e dalla Conferenza unificata per poi tornare a Palazzo Chigi.
Soddisfatto il leader della Lega, Umberto Bossi. “L’ok al federalismo – dice – è un buon segno per il prosieguo della legislatura”. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ci tiene invece a sottolineare che “l’obiettivo è non aumentare la pressione fiscale generale e introdurre meccanismi di controllo della spesa pubblica”.
Ma a fare da contraltare alle voci che arrivano dal governo, ci pensa il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, che sottolinea come sia stato usato “un metodo sbagliato”. “Non condividiamo ciò che è stato fatto: non più di 48 ore fa – spiega – avevamo definito insieme un metodo di lavoro che non prevedeva la riunificazione dei due decreti”.
Critiche arrivano anche dal Pd. “Se non si risponde su alcuni punti dirimenti – sostiene il segretario Pier Luigi Bersani – si fanno solo chiacchiere e si attiva un meccanismo che non si sa dove va”. All’attacco va anche l’Udc, da sempre contraria al provvedimento. “Si mettono le mani nelle tasche degli italiani” afferma Pier Ferdinando Casini che annuncia una ‘campagna verità’ dei centristi nelle province d’Italia. Per il leader dell’Italia dei Valori (che aveva appoggiato il provvedimento nel percorso parlamentare) Antonio Di Pietro “il governo si è assunto la responsabilità – ha di decidere senza dare la parola al Parlamento, in spregio alle sue prerogative”. Di Pietro parla di “scatola vuota, peraltro anche pericolosa”. Il leader di Sinistra ecologia e libertà Nichi Vendola offre un’altra lettura: “La Lega è il dominus nel centrodestra, scandisce l’agenda politica. Ed è evidente che è intenzionata ad ottenere quello che le interessa un attimo prima di staccare la spina”.
Ecco alcune novità del testo licenziato oggi dal governo.
– Il gettito Iva andrà, fino al 45%, alle Regioni. E’ il livello attuale: il governo puntava più sulle addizionali Irpef perché politicamente più visibili. Ma è stata accolta la richiesta delle stesse Regioni. La compartecipazione all’Iva sarà assegnata con criteri di territorialità che si baserà sui consumi nelle diverse regioni.
– L’addizionale Irpef potrà salire progressivamente fino al 3% (0,9% l’aliquota generale e fino al 2,1% l’aumento possibile delle Regioni). E non si potrà ridurre l’Irap se si è superato un aumento dello 0,5%. Gli aumenti partiranno dal 2013 e le Regioni potranno esercitarli solo su alcuni scaglioni di reddito. Il primo aumento potrà essere dello 0,5% (nel 2013), poi dello 0,9% (nel 2014) e infine a regime, nel 2015, del 2,1% (3% complessivo).
– Verrà introdotto un meccanismo, probabilmente con la riforma fiscale, che renderà neutri gli aumenti dell’addizionale per i contribuenti. Una via potrebbe essere quella di alleggerire le aliquote ‘centrali’ all’aumento delle addizionali locali.
– Arriva un fondo di solidarietà tra le regioni per il finanziamento integrale della sanità, dell’istruzione, dell’assistenza e del trasporto pubblico.
– Dal 2014 via sei micro tasse che finanziano le Regioni, alle province andranno alcune tasse, dalla Rc auto alla compartecipazione alla tassa di circolazione, fino all’accisa sulla benzina.
– Per l’individuazione dei costi e dei fabbisogni standard per la spesa sanitaria le regioni si dovranno adeguare al modello di tre regioni “benchmark”, scelte dalla Conferenza Stato – Regioni in base a una rosa di cinque “virtuose” indicate dal ministero della Salute di concerto con il Tesoro.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15928
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Montezemolo non può essere il salvatore della sinistra
Alfonso Gianni*, 07.10.2010
Goffredo Bettini propone al Pd di affidarsi alla leadership dell’ex presidente della Confindustria in vista delle elezioni anticipate, quotate in primavera. Ma è un proposito sbagliato e intrinseco di contraddizioni: non si può affidare il risanamento della nostra economia a chi per anni a fatto da sponda a Berlusconi, né si può puntare su di lui, allergico alle regole della democrazia sindacale, per riformare le istituzioni. La sinistra, poi, ha tutto l’interesse che si formi un terzo polo
E’ iniziato il nuovo tormentone autunnale. Si chiama Montezemolo, in quanto chiamato a leader di uno schieramento politico dagli incerti confini che dovrebbe sfidare Berlusconi nelle prossime probabili elezioni anticipate di primavera. Per la sinistra sarebbe una specie di punizione basata sulla dantesca legge del contrappasso. Avete presente quando Lenin diceva che anche una cuoca avrebbe potuto gestire il potere? Non fu così neppure ai tempi suoi. Oggi invece dovrebbe bastare un imprenditore. Non è servita – si parva licet… – l’esperienza di un Calearo eletto nelle liste del Pd e pronto a cambiar bandiera. Sembra prevalere una logica perversa: chiunque si dichiari digiuno e persino schifato della politica viene per ciò stesso investito della carica politica più rilevante. Tanto – questo è il sottinteso fin troppo evidente – i poteri veri e forti stanno altrove e continueranno a fare come gli pare, senza neanche l’impiccio di un rendiconto.
Sorprende che sia proprio Goffredo Bettini a imboccare questa strada. L’articolo che il Riformista ha pubblicato ieri è costruito su una clamorosa contraddizione, non dialetticamente risolvibile. Bettini afferma che la sinistra dovrebbe reagire alla subalternità ai paradigmi conservatori, considerati fin qui come naturali, e al linguaggio dei suoi avversari per imporre un “racconto” alternativo. Lodevole e condivisibile proposito. Ma l’analogia con il fraseggio vendoliano dura solo un attimo. Siccome il tempo da qui a primavera è breve – già, è quello che è, non è un grande argomento – l’opposizione non avrebbe altra strada che affidarsi alla leadership di Luca di Montezemolo, addirittura per dare vita a una legislatura costituente. Montezuma il salvatore in ultima istanza, quindi, più ancora che un papa straniero. Temo non si tratti di uno scherzo e che parti consistenti del Pd, mi auguro minoritarie, la pensino in questo modo. Se una simile tesi dovesse prevalere, la sconfitta sarebbe sicura e il berlusconismo sopravviverebbe sotto altre spoglie all’inevitabile declino umano e politico del suo ideatore e primo incarnatore.
In primo luogo perché la sconfitta del berlusconismo richiede la ricostruzione di un senso della società e della cosa pubblica e non semplicemente la raccolta di consensi già formati. Non credo quindi si possa affidare il risanamento della nostra economia nella terribile crisi mondiale a chi ha diretto per anni una Confindustria che non solo ha fatto da sponda a Berlusconi, ma ha stolidamente accompagnato il declino economico e industriale del nostro paese, mentre nell’economia mondiale era ancora tempo di vacche grasse, ed ora vuole imporre un modello Pomigliano basato su ritmi di lavoro impossibili, imponendo la rinuncia preventiva all’esercizio del conflitto sindacale. Né si può pensare che chi prova idiosincrasia per l’esercizio della democrazia sindacale nei luoghi di lavoro, sia credibile nel ruolo di rinnovatore delle nostre istituzioni democratiche. Un simile messaggio renderebbe impossibile un’alleanza elettorale con la sinistra di alternativa, ma, ciò che è ancora più grave, amplierebbe l’area dell’astensione popolare.
In secondo luogo la sconfitta di Berlusconi e l’inizio di quella del berlusconismo comincia dalla rottura di un suo paradigma fondante: il bipolarismo ridotto a bipartitismo. In altre parole anziché anelare al mostruoso connubio con Fini e compagnia, l’opposizione parlamentare ed extraparlamentare – e più ancora il nostro paese – ha tutto l’interesse che si determini un terzo polo, capace di opporsi alla deriva anticostituzionale delle destre e di favorirne l’isolamento politico e elettorale, riportando il voto moderato in un ambito più naturale. Questo esito non è ovviamente nelle mani della sinistra, che ha tutt’altri compiti a cominciare da quello di essere effettivamente tale, ma almeno bisognerebbe evitare di mettere in atto comportamenti opposti. In uno scontro a due e soprattutto nei tempi brevi il cavaliere è ancora il più forte. Se poi fosse il terzo polo a invocare la leadership di Montezemolo, niente da dire, se non che a quel punto tutte le palle finirebbero in buca.
*Articolo pubblicato dal “Riformista” del 07/10/2010
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15925
Sì, è veramente ridicolo.
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di Joseph Halevi
WEN JIABAO IN ITALIA
Pechino d’Europa 07.10.2010
La visita europea di Wen Jiabao, da ieri sera in Italia, avviene mentre si aggrava lo scontro tra la Cina e gli Stati uniti sullo yuan e -in misura meno chiassosa – tra la Cina e la zona dell’Euro. E’ inoltre emersa una forte tensione con il Giappone per via dell’acquisto da parte di Pechino di buoni giapponesi che, in talmodo, spingerebbe al rialzo la moneta nipponica.
L’estendersi del conflitto sui tassi di cambio significa che ciascuno cerca di risolvere la crisi accaparrandosi fette di mercato in altri
paesi. Il cuore del mercantilismo si trova in Europa e in Giappone. In quanto alla Cina, la dinamica dell’export di Pechino non è assimilabile al tentativo euro-tedesco e nipponico di aggirare la crisi interna cercando di esportare altrove. Il 55% delle esportazioni di Pechino sono connesse amultinazionali che hanno investito e subappaltato in Cina, felicissime di utilizzare il basso costo di produzione sull’interagammaindustriale per ottenere profitti riesportando verso i paesi di origine. La rapida integrazione della Cina nelle istituzioni del capitalismo globale(Fondo Monetario, Banca Mondiale, Wto) si è basata sul patto tra Partito comunista cinese (Pcc) e capitalismo monopolistico mondiale. Su questa base il Pcc sta costruendo una classe capitalistica nazionale integrata allo stato. Il rafforzamento strutturale di questa classe, elemento essenziale del patto Pcc-capitale globale, si basa su un alto tasso di investimento a scapito della quota, tuttora calante, dei salari sul reddito nazionale.
Il patto la Cina e il capitale mondiale si fonda pertanto su un perdurante esercito industriale di riserva. La crescita capitalistica cinese continuerà dunque a poggiare sul binomio investimenti ed esportazioni. La crisi in corso fa risaltare la cesura tra stati nazionali e gli interessi di ampi settori di capitale globale il quale non vuole assolutamente mutare il ruolo della Cina.
Per buona parte del capitale statunitense la Cina è sempre fonte di profitti. Per l’Europa il quadro è piú variegato. L’insieme delle industrie meccaniche, elettroniche e di mezzi di produzione europee, italiane incluse, ottengono un saldo positivo con Pechino.
Tuttavia i comparti che ne beneficiano maggiormente sono quelli della Germania e dei paesi scandinavi. Il deficit complessivo con la Cina non preoccupa questi paesi perchè i settori che sostengono la loro posizione mondiale non ne sono intaccati. Mentre per Francia ed Italia i comparti avanzati non sostengono i loro conti esteri globali. Quindi il deficit con Pechino, destinato peraltro a crescere, morde concretamente.
Nei confronti della Cina le faglie intraeuropee emergono lucidamente. Assente ogni politica economica europea, eccetto i tagli ai bilanci pubblici, rimane solo la bagarre sul tasso di cambio. Anche Pechino opera nelle contraddizioni europee. La gestione del debito pubblico da parte della Bce e della Germania, apre la possibilità di diversificare i buoni in possesso della Banca centrale cinese sostenendo simultaneamente il tasso cambio dell’euro che si sta rivalutando nei confronti del dollaro cui è legato lo yuan. Questo è il senso del prospettato acquisto di buoni greci. La Grecia fa inoltre parte della strategia cinese di creare dei solidi punti di sbarco delle merci dirette alla zona mediterranea ed all’est. Le società marittime statali di Pechino hanno già acquistato parte del porto di Napoli. Ora stanno investendo nel porto del Pireo.
Sono tutte strategie volte a potenziare fortemente le esportazioni verso l’Unione europea. La Turchia, a sua volta visita ta da Wen Jiabao, entra peinamente in tale ottica. Ankara, che ha uno status di libero scambio con l’Ue, ha cominciato ad importare auto cinesi precedute da una vasta pubblicità sui principali canali televisivi. Queste importazioni sono in concorrenza con i localmente dominanti marchi Fiat e Renault.
A gennaio una foltissima delegazione ministeriale cinese aveva stipulato ad Ankara accordi che vanno dal commercio ad investimenti diretti in Turchia come base di espansione verso il resto dell’Europa. La Turchia diventerà un tassello importantissimo nel connettere esportazioni ad investimenti esteri cinesi alla maniera del Giappone e della Corea meridionale.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20101007/pagina/01/pezzo/288463/
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Battaglia per i diritti civili e umani
Nobel a un dissidente, schiaffo alla Cina
L’ira di Pechino: «È un’oscenità»
Il premio per la pace a Liu Xiaobo, che sta scontando una condanna a 11 anni di carcere. La polizia nella sua casa
le motivazioni: «simbolo della battaglia per i diritti civili e umani»
Nobel a un dissidente, schiaffo alla Cina
L’ira di Pechino: «È un’oscenità»
Il premio per la pace a Liu Xiaobo, che sta scontando una condanna a 11 anni di carcere. La polizia nella sua casa
OSLO – Il premio Nobel per la pace va al dissidente cinese Liu Xiaobo. Confermate dunque le previsioni della vigilia, nonostante le pressioni di Pechino. Del resto, prima dell’annuncio ufficiale, lo stesso comitato norvegese aveva affermato che si sarebbe trattato di una «scelta da difendere». Secondo le motivazioni che hanno accompagnato la decisione, Liu rappresenta «il simbolo della campagna per il rispetto e l’applicazione dei diritti umani fondamentali» in Cina. Non si è fatta attendere la reazione di Pechino: la polizia si è subito recata nell’abitazione di Liu, per impedire alla moglie di rilasciare dichiarazioni alla stampa, e le trasmissioni della Bbc sull’annuncio del Nobel sono state interrotte. Poco dopo, è arrivato anche il commento ufficiale del governo, che parla di «oscenità». Secondo il ministero degli Esteri, Liu Xiaobo è «un criminale» che è stato condannato «dalla giustizia cinese». La decisione, prosegue la nota, è destinata a «nuocere alle relazioni tra la Cina e la Norvegia».
I COMMENTI – Tra le prime reazioni internazionali alla notizia c’è quella della Francia: il ministro degli Esteri, Bernard Kouchner, ha chiesto l’immediata liberazione del dissidente. Anche Berlino si «augura» che Liu Xiaobo sia rimesso in libertà e possa ricevere il premio Nobel per la pace assegnato. L’Unione europea si felicita per l’assegnazione del Nobel, ma non chiede esplicitamente la sua liberazione. Per il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, il riconoscimento a Liu Xiaobo è un premio a quanti nel mondo «lottano per la libertà e i diritti della persona». Significativa anche la dichiarazione del Dalai Lama: «Premiare con il Nobel per la pace Liu Xiaobo è il riconoscimento della comunità internazionale all’innalzamento della voce tra il popolo cinese per premere la Cina attraverso riforme politiche, legali e costituzionali».
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Grandi imprese/12 di Vincenzo Comito
Il dinosauro e il leone di Trieste 05.10.2010
Nella puntata precedente, dedicata a “un dinosauro nel salotto”, abbiamo parlato dell’effetto domino provocato dal ribaltone in Unicredit in Mediobanca. Qui passiamo al caso Generali, gigante assicurativo, e del suo rapporto con il “nuovo” asse di potere
Quest’articolo prosegue il ragionamento iniziato a proposito di Mediobanca, passando ad analizzare la situazione – assai connessa, come si capirà nel testo – delle Assicurazioni Generali
Le Assicurazioni Generali – notizie di base
La società, fondata nel 1831 a Trieste, ha sin dai primi tempi, grazie alla sua stessa posizione geografica, una presenza importante su molti mercati. Essa è oggi il quinto gruppo assicurativo mondiale per raccolta premi, senza considerare peraltro quelli cinesi, nonché il terzo gruppo europeo, dopo la tedesca Allianz e la francese Axa. Oggi è il leader di mercato in Italia, il secondo gruppo in Francia e in Spagna e il primo assicuratore straniero in Cina (Righi, 2010). E’ molto presente anche nei paesi del suo insediamento tradizionale, in Germania, in Svizzera, in Austria ed in quelli dell’Europa centro-orientale. Sembra puntare ora ad una presenza più importante in America Latina, in particolare in Brasile.
Con le sue ultime mosse in direzione dell’Asia e dell’America Latina la società tende a diventare un’impresa a carattere globale. L’istituto, che governa circa 100.000 dipendenti, è cresciuto di recente sul mercato italiano grazie anche ad acquisizioni di altre compagnie, quali Toro e Ina-Assitalia; la Fonsai di Ligresti rappresenta il secondo gruppo italiano, ma essa è in qualche modo legata a Mediobanca, che ha sottoscritto ingenti prestiti subordinati della stessa Fonsai, che partecipa poi a vari patti di sindacato ed accordi con il raggruppamento Mediobanca-Generali.
Oggi la società ha nel nostro paese una quota di mercato del 28% nel ramo vita e del 20% in quello danni. Essa realizza in Italia solo un terzo dei suoi 70,5 miliardi di premi nel 2009, ma ne trae circa la metà dei suoi margini (Bennewitz, 2010), grazie anche alla sua posizione di maggiore oligopolista del paese.
La concentrazione del mercato assicurativo in Italia è molto alta ed essa è anche cresciuta di recente. Il livello elevato della concentrazione ha favorito, almeno in passato, le intese di cartello; così l’Antitrust, che pure non ha fama di grande severità di controlli, alla fine degli anni novanta ha comminato una multa di 700 miliardi di lire proprio ai primi gruppi assicurativi, colpevoli di intese restrittive della concorrenza. L’Antitrust italiano e anche quello europeo sono poi intervenuti diverse volte, in casi di fusione-acquisizione, obbligando la società che nei vari casi guidava la fusione a cedere dei rami d’azienda per evitare situazioni di limitazioni della concorrenza (Bonafede, 2010, a).
La società è soprattutto concentrata sul ramo vita, che genera circa i due terzi dei premi totali.
Un confronto con i concorrenti europei
L’impresa, che ha attraversato sostanzialmente illesa la crisi, ha chiuso il 2009 con un utile di circa 1,3 miliardi di euro, valore in crescita del 52,1 % sull’anno precedente. I profitti della francese Axa sono stati nello stesso anno di 3,6 miliardi, mentre quelli della tedesca Allianz di 4,3 miliardi. Le differenze appaiono anche maggiori se i risultati economici vengono rapportati al totale dei premi raccolti nello stesso esercizio; essi sono stati, rispettivamente per le tre compagnie, di 70, 84, 93 miliardi (Mucchetti, 2010, b). Così la proporzione tra utili e totale premi è dell’1,85% per le Generali, del 4,28% per la Axa, del 4,62% per Allianz. Per il 2010 la società prevede un volume di affari e degli utili ancora in crescita.
Comunque, da sempre i conti economici della Generali si presentano come non brillantissimi, a causa degli alti costi di gestione –la società presenta, tra l’altro, una struttura organizzativa inefficiente, pletorica, fatta di tante repubbliche autonome-, nonché dei bassi rendimenti degli investimenti, in relazione sostanzialmente all’influenza di ragioni “politiche” nelle scelte relative; temiamo anche peraltro che non tutte le minusvalenze sulle stesse partecipazioni in cui la società è incappata negli ultimi anni abbiano ancora visto la luce in bilancio.
La capitalizzazione di borsa a metà marzo 2010 vede un valore complessivo di 40,7 miliardi per Allianz, di 36,4 per Axa, di 27,1 per Generali; il rapporto capitalizzazione/risultato netto è rispettivamente quindi di 9,5, di 10,1, di 21,2 volte. Il mercato valuta proporzionalmente molto di più le azioni Generali, in relazione alla maggiore stabilità nel tempo degli andamenti del gruppo, stabilità mostrata anche nel corso della crisi – con la capacità della società del Leone di tenersi fuori dai guai speculativi- , per la sua gestione prudente nella contabilizzazione dei costi, nonché per avere sempre pagato un dividendo (Mucchetti, 2010, b).
Per altro verso, le Generali presentano un rapporto tra debiti e patrimonio che è dell’84%, contro ad esempio il 47,7 % di Alianz; ma la società non può aumentare il capitale sociale, come sarebbe necessario, perché esso diluirebbe il controllo di Mediobanca sull’istituto. Così dal 2001 ad oggi essa ha registrato un solo aumento di capitale per 2,6 miliardi, mentre nello stesso periodo Axa ed Allianz lo hanno rispettivamente incrementato di 11,1 e di 18,5 miliardi (Bonafede, 2010, b).
Forza economica e debolezza politica
Si deve registrare una grande contraddizione tra la forza economica e finanziaria del gruppo- si pensi soltanto al fatto che esso possiede alla fine del 2009 un portafoglio di investimenti pari a 341 miliardi di euro – un’enormità- e contemporaneamente la sua tradizionale debolezza politica, essendo soggetto, almeno sino a ieri, ai voleri di Mediobanca e, sia pure in minore misura, di altri soci importanti. Ma con Geronzi ora molte cose potrebbero cambiare.
Una quota rilevante degli investimenti azionari, per circa 28 miliardi di euro, è stata a suo tempo utilizzata per affiancare Mediobanca nella sua attività di sostegno ai grandi gruppi nazionali. Qualcuno dei responsabili della società ha affermato tempo fa che le Generali, nella sostanza, era “Il bancomat di Mediobanca”.
La blindatura
L’accordo che ha portato Geronzi alla presidenza di Generali fa gli interessi di molti attori:
1) intanto dei vari gruppi facenti parte di quello che è rimasto del salotto buono, da Caltagirone, a Ligresti, a Tronchetti Provera, a Benetton, a Impregilo;
2) di Berlusconi, che continua a conquistare posizioni nella galassia e di cui Geronzi è un amico molto stretto. Da considerare, in specifico, che il cavaliere è presente nel patto di sindacato di Mediobanca attraverso la Fininvest con 1% del capitale, mentre un altro 3,3% è controllato attraverso Mediolanum –ricordiamo poi che Berlusconi, controlla direttamente molte imprese, da Mediaset a Mondadori e, attraverso il suo ruolo di presidente del consiglio, anche le imprese a predominante partecipazione pubblica, da Eni ad Enel a Finmeccanica-; ora, con l’estromissione di Profumo da Unicredit la strada appare abbastanza sgombera per ulteriori, importanti, conquiste;
3) dello stesso Geronzi, inseguito dalle sue molteplici vicende giudiziarie; le normative in merito nel settore bancario sono più rigide ed impegnative di quelle del settore assicurativo e quindi trasferendosi in quest’ultimo comparto egli spera di essere più protetto.
Ma, con queste operazioni, l’establishment cerca di blindarsi dalle minacce esterne giocando in difesa. Una caratteristica di questo sistema, che meraviglia in particolare la stampa estera, è il permanere e l’estendersi nel nostro paese di una gerontocrazia tenace e inamovibile (Lex, 2010), che non appare certo in grado di portare la nostra economia e la nostra società fuori dalle secche in cui si è cacciata.
Va rimarcato che la parte più dinamica e internazionalizzata del capitalismo italiano, in particolare i gruppi Fiat e Unicredit, così come un numero rilevante di imprese medio-grandi, stavano nella sostanza fuori, sia pure in forme diverse, dall’accordo; peraltro, con i nuovi scenari che si profilano, almeno in Unicredit le cose potrebbero cambiare.
La Fiat non ha più se non qualche debolissimo legame con Mediobanca-Generali, con gli Agnelli e Marchionne del tutto disinteressati alla partita.
La situazione di Unicredit appare diversa. La banca ha una partecipazione molto importante in Mediobanca, ma, sotto la guida di Profumo, la sua azione nei confronti del gruppo di potere guidato da Geronzi, sembrava eminentemente di tipo difensivo, di tutela dei propri interessi azionari, nonché di una immagine più dignitosa di imprenditorialità e di una strategia aziendale più rivolta all’innovazione e alla gestione interna. Ora però lo scenario potrebbe ribaltarsi.
Il futuro del gruppo Mediobanca-Generali
Così Generali si trova ora ad un bivio. Essa opera intanto in un mercato globale sempre più competitivo e difficile, con regole tendenzialmente più severe anche per il settore assicurativo, con la necessità anche, tra l’altro, di maggiori livelli di capitale. L’istituto avrebbe inoltre bisogno di un salto imprenditoriale, con l’individuazione di possibili acquisizioni e alleanze societarie, di un forte aumento di capitale finalizzato all’espansione, di una ristrutturazione organizzativa, mirata a semplificare e professionalizzare la struttura e a ridurre i costi; e noi pensiamo che il management della compagnia stia probabilmente analizzando ipotesi di questo genere.
Invece, Geronzi – che non ha, tra l’altro, alcuna esperienza del settore assicurativo- e gli imprenditori e politici suoi associati pensano alle ristrutturazioni del potere, con un’eventuale fusione Mediobanca-Generali, che potrebbe assumere varie forme societarie, la più probabile delle quali è che essa possa avvenire sotto il ruolo guida delle stesse Generali – azienda sino a ieri invece sostanzialmente sotto il controllo di Mediobanca- e lo spostamento dell’asse di comando del gruppo in quest’ultima struttura. Per il momento ci sono le smentite dei principali interessati sull’eventualità di una tale operazione, ma esse lasciano il tempo che trovano. La dimensione internazionale e i problemi di gestione interna interessano molto di meno il nuovo gruppo di comando. L’ipotesi della fusione presenterebbe dei problemi tecnici di qualche peso (Mucchetti, 2010, a), ma la fantasia giuridico-societaria e il potere di influenza del gruppo di potere che sembra controllare il gioco potrebbero sormontarle presumibilmente senza gravi difficoltà.
Testi citati nell’articolo
-Bennewitz S., Generali, l’agenda del dopo-Bernheim, La Repubblica, Affari & finanza, 15 marzo 2010
-Bonafede A., Concentrazioni, i magnifici cinque gruppi, La Repubblica, Affari & finanza, 26 aprile 2010, a
-Bonafede A., Il nuovo ciclo di Generali, La Repubblica, Affari & finanza, 31 maggio 2010, b
-Comito V., Storia della finanza d’impresa, Utet libreria, Torino, 2002, 2° volume
– De Cecco M., Ferri G., Le banche d’affari in Italia, Il Mulino, Bologna, 1996
-Giannini M., Geronzi verso le Generali, il potere economico si blinda, La Repubblica, 1 febbraio 2010, a
-Giannini M., La mossa del gattopardo, La Repubblica, 27 marzo 2010
-Giannini M., Fusione Mediobanca-Generali, Geronzi prepara la nuova battaglia, La Repubblica, 4 aprile 2010,
-Lex, Generali/Mediobanca: gerontocratic Italy, www.ft.com, 18 febbraio 2010
-Manacorda F., Generali, l’era Geronzi, più poteri agli azionisti, La Stampa, 24 aprile 2010
-Mucchetti M., Il potere dei manager e la nuova Mediobanca, Corriere della sera, 20 maggio 2010, a
-Mucchetti M., Polizze, la grande sfida con Allianz e Axa, Corriere della Sera Economia, 22 marzo 2010, b
-Righi S., Generali, la potente ragnatela del Leone, Corriere della Sera Economia, 22 marzo 2010
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Il-dinosauro-e-il-leone-di-Trieste-6506
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Donzelli, Gaslini, Rugafiori, storia di Lia Fubini
Rockefeller di Genova. Storia di Gaslini 05.10.2010
Imprenditore spregiudicato, filantropo generoso. In una biografia di Gerolamo Gaslini, una illuminante storia italiana. Con giallo finale
La storia di Gerolamo Gaslini, della sua attività di imprenditore accorto e spregiudicato, filantropo ed evasore fiscale, solleva questioni quanto mai attuali sul rapporto fra mondo degli affari, etica, e politica. La sua biografia, “Rockefeller d’Italia. Gerolamo Gaslini imprenditore e filantropo”, di Paride Rugafiori (edita da Donzelli), narra della vita dell’industriale genovese, delle vicende delle sue imprese e dell’ospedale da lui fondato, dei suoi legami con il mondo politico ed ecclesiastico, attraverso una ricostruzione storica attenta e rigorosa, che pure appare scorrevole e appassionante come un romanzo.
C’è un giallo nella vicenda di questa biografia. Il libro si apre con un’avvertenza in cui si spiega che la stesura del libro è stata ultimata nell’estate 2006, dopo un’impegnativa ricerca affidata all’autore dalla Fondazione Gerolamo Gaslini di Genova. La Fondazione decide di non promuoverne la pubblicazione, pur non muovendo alcun rilievo al lavoro dello storico e senza giustificare tale decisione. Il libro esce così tre anni dopo per autonoma iniziativa dell’autore e dell’editore. Va notato che al momento della consegna del lavoro i vertici della Curia e della Fondazione, che alla Curia appartiene, è mutato. Cardinale di Genova è Bagnasco, che succede a Bertone e a Tettamanzi. Non sappiamo altro; è noto tuttavia che la posizione di Bagnasco e Bertone sono assai più conservatrici di quella del predecessore. Certo è che il libro di Rugafiori rimane in un cassetto e l’intenzione dei vertici della Fondazione è evidentemente quella di nascondere al pubblico questa vicenda davvero interessante e accuratamente documentata. Perché il committente non ha voluto pubblicarlo? In assenza di chiarimenti possiamo solo fare delle ipotesi. Forse perché la figura di Gaslini non ne esce del tutto limpida? Dalla biografia in questione apprendiamo che Gerolamo Gaslini, abile imprenditore e filantropo, fondatore e finanziatore del più importante ospedale pediatrico d’Italia, è un grande evasore che tiene accuratamente la contabilità nera, è uno speculatore sui cambi e sui prezzi delle materie prime, un industriale che si guadagna la benevolenza e i favori dei politici e della chiesa attraverso “donazioni” e tangenti, un personaggio che abilmente si lega in politica al carro del vincitore. Luci ed ombre dunque, che non permettono di far emergere il ritratto di un personaggio “senza peccato” che forse avrebbero preferito i nuovi vertici della Curia e della Fondazione e che apre interrogativi anche sui comportamenti della Chiesa. Chissà, forse esisteva il timore che si aprisse il dibattito su un passato non del tutto limpido e che il discorso scivolasse sulle analogie col presente. Ma queste sono illazioni; l’autore non ce ne parla.
Sarebbe stato un vero peccato se questa biografia non fosse stata resa pubblica.
La figura di Gaslini imprenditore era stata finora ignorata dalla storiografia e la sue vicende per lo più erano sconosciute al pubblico, quasi fosse stato come un imprenditore di scarso rilievo. Scopriamo invece che si trattava del fondatore di un gruppo conglomerale decisamente importante nel panorama economico italiano dagli anni trenta ai sessanta del secolo scorso. La sua impresa, avviata col fratello nel 1907 con un modesto capitale iniziale e “avente per oggetto l’esercizio del commercio e della rappresentanza di olii” cresce rapidamente, passa all’attività produttiva e inizia un processo di diversificazione. Negli anni trenta Gerolamo Gaslini guida un vasto gruppo che include imprese alimentari, chimiche, agricole, immobiliari, e perfino una banca di medie dimensioni, si destreggia abilmente nel commercio estero e nella speculazione sulle materie prime anche in un momento in cui il protezionismo è di ostacolo agli scambi internazionali. Per sviluppare la sua attività tesse una rete di relazioni politiche, si guadagna i favori di Mussolini e finanzia le iniziative sociali del fascismo, tant’è che diventa senatore del Regno. Ma quando vede delinearsi la caduta del regime cambia rapidamente bandiera. Dopo la guerra si lega a De Gasperi e al Cardinale Siri.
Gaslini riesce con abilità a creare un mercato quasi monopolistico degli oli vegetali attraverso processi di integrazione, accordi e fusioni. Il suo gruppo entra in crisi alla metà degli anni cinquanta per l’intrecciarsi di varie cause legate in larga misura al mutamento del quadro economico del dopoguerra, quali l’incapacità di adeguarsi all’apertura dei mercati internazionali e di utilizzare le nuove strategie di marketing e pubblicità che si affacciano nell’Italia del dopoguerra. Probabilmente ha giocato un ruolo importante l’età avanzata di Gaslini che, dopo aver mantenuto per decenni sotto il suo controllo le molteplici attività del gruppo, non ha saputo circondarsi di un management competente e assicurarsi una successione.
Personaggio meticoloso, Gaslini tiene accuratamente la contabilità reale in parallelo a quella ufficiale. Grazie alla documentazione raccolta da Rugafiori e presentata nell’appendice del libro ci troviamo di fronte uno dei casi rarissimi in cui è possibile confrontare per un lungo periodo la differenza fra gli utili ufficiali e utili effettivi ed evidenziare così le pratiche di manipolazione dei bilanci. Scopriamo così che dal 1929 al 1942 gli utili dichiarati sono circa il 7% di quelli effettivi, che negli anni trenta l’indice di redditività del patrimonio reale si attesta su valori fra 9 e 10 volte quelli ufficiali. Si tratta quindi di una frode colossale ai danni del fisco.
Gaslini spende una cifra ben inferiore agli enormi utili non dichiarati per l’ospedale infantile di Genova da lui fondato e intitolato alla figlia Giannina morta undicenne. Questo dato sembra ridimensionare la figura di Gaslini filantropo. Ma nel 1949, costituisce la Fondazione Gaslini, un ente di diritto pubblico a cui cede l’intero suo patrimonio. Si tratta di una fondazione holding gestita in modo innovativo, che sostiene l’attività non profit dell’Istituto Giannina Gaslini a tutela della salute infantile, che usa i profitti delle imprese Gaslini per svolgere le sue attività. Anche la gestione dell’ospedale pediatrico sembra essere per Gaslini una nuova sfida imprenditoriale. Ma il suo gesto non chiede contropartite neppure indirette, come spesso appaiono le azioni imprenditoriali paternalistiche che comportano forme di controllo aziendale e sociale volte a evitare situazioni di conflitto. È invece un comportamento puramente altruistico orientato a offrire senza discriminazioni il diritto a un’assistenza sanitaria che non era prevista a quel tempo in Italia.
Si evidenzia così un’apparente contraddizione fra la figura dell’industriale e quella del filantropo.
La figura di Gaslini industriale appare rappresentativa di una classe imprenditoriale italiana del secolo scorso che si è fatta da sé in modo spregiudicato con mezzi leciti e illeciti, che non esita a pagare tangenti e a frodare il fisco, che cresce all’ombra di importanti protezioni politiche.
Viceversa la figura di Gaslini filantropo è del tutto anomala, non cerca riconoscimenti e non ha ricadute positive sulla sua attività di imprenditore, il suo altruismo è autentico. La sua decisione di cedere ancora in vita tutto il suo patrimonio è ancora più radicale di quella di Rockefeller che alla sua fondazione benefica destinò solo parte dei suoi averi.
Paride Rugafiori, “Rockefeller d’Italia. Gerolamo Gaslini imprenditore e filantropo”, Donzelli, 2009
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Rockefeller-di-Genova.-Storia-di-Gaslini-6507
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I biocarburanti e i silenzi della Banca Mondiale 05.10.2010
Era il più atteso rapporto della Banca Mondiale. Finalmente una panoramica sull’accaparramento delle terre in Africa e Asia, ovvero sulle acquisizioni in massa di milioni di ettari di terra coltivabile da parte di Paesi come la Cina e l’Arabia Saudita, ma anche di governi e aziende europei che stanno investendo sulla produzione di biocarburante. Invece il rapporto “Rising Global Interest in Farmland” è diventato interessante più per quello che non dice che per quello che dice.
“Grab”. Voce del verbo “arraffare”, traduce il dizionario. È con il termine “land grabbing” che almeno da due anni molte associazioni della società civile e di agricoltori denunciano la corsa all’accaparramento delle terre, soprattutto in Africa ma anche in alcuni Paesi del sud-est asiatico e dell’America Latina. Fece scalpore a marzo del 2009 il caso della Daewoo Logistic, che in Madagascar affittò per 99 anni un territorio grande come la metà del Belgio, 1, 3 milioni di ettari, per seminare mais e palme da olio.
L’accordo non prevedeva il pagamento di nessun affitto, si basava solo sulla promessa da parte del grande gruppo industriale sudcoreano di investire in infrastrutture e creare nuovi posti di lavoro in cambio del diritto a coltivare. Il caso è stato al centro della rivolta che ha rovesciato il presidente Marc Ravalomanana e l’èlite al governo, accusata di svendere la terra dei contadini in cambio di tangenti.
Il rapporto più volte annunciato dalla Banca Mondiale (doveva essere pubblicato ad aprile) è finalmente uscito a settembre dopo aver suscitato forti aspettative. Ma il risultato è “una delusione e un fallimento”, così ha commentato senza mezzi termini GRAIN, organizzazione che supporta i contadini e i movimenti sociali perché le comunità locali possano dire la loro sull’uso delle terre che abitano. Il sito di GRAIN è diventato una preziosa fonte di informazione sul land grabbing grazie a farmlandgrab.org, il suo database online che documenta tutte le acquisizioni di terra riportate dai media dal 2008 ad oggi. Ed è proprio al database di GRAIN che ha attinto la Banca Mondiale per stilare il suo rapporto.
“La Banca aveva detto che avrebbe documentato le acquisizioni di terre raccogliendo informazioni sul campo in 30 Paesi, invece ne ha indagati solo 14” scrive GRAIN sul suo sito. “Per di più le aziende si sono rifiutate di fornire informazioni sui loro investimenti, e così hanno fatto i governi”. E allora cosa ha fatto la Banca Mondiale? E’ andata sul sito di GRAIN e ha scaricato la documentazione relativa a 14 Paesi, poi ha mandato dei consulenti per verificare se gli episodi riportati dai media erano reali o no. “E’ quanto di meglio la Banca Mondiale può fare?” si chiede GRAIN.
Il rapporto conferma che fra il 2008 e il 2009 sono stati acquisiti di oltre 45 milioni di ettari di terreni per uso agricolo, contro appena quattro milioni fra il 1998 e il 2008. E parla di una vera e propria “corsa” all’accaparramento di terra, avvenuta principalmente in Africa.
Ma questo si sapeva già, dicono in coro le ong. Quello che la Banca poteva fare e non ha fatto è sollevare il velo su chi sono gli investitori. Per esempio rispondendo alle seguenti domande: Chi sono? Di cosa si occupano? Quanti di questi investimenti sono privati e quanti pubblici? “Senza questo tipo di informazioni non si può analizzare un granché” afferma GRAIN. “Per esempio alcune aziende hanno detto in diverse occasioni che i loro investimenti non tengono in conto la sicurezza alimentare. Che sono business, puro e semplice. Capire chi è coinvolto nelle acquisizioni di terre e per quale scopo sarebbe stato molto utile”.
Le comunità hanno il diritto di avere accesso ai termini dei contratti stilati tra i loro governi e le aziende che acquisiscono la terra, rivendicano da tempo le associazioni della società civile. “Un’altra cosa utile che la Banca avrebbe potuto fare è rendere di pubblico dominio i contratti. E invece non l’ha fatto” denuncia ancora GRAIN. E questo nonostante la sua direttrice generale Ngozi Okojo-Iweala, a commento del rapporto, abbia sottolineato “la necessità di rendere più trasparenti gli acquisti di terreni”.
“Forse la BM non era più di tanto interessata a sollevare il velo” è il dubbio sollevato da GRAIN. Il ramo della Banca che si occupa degli investimenti commerciali, l’International Finance Corporation, è uno dei principali investitori in fondi di private equity che stanno acquistando i diritti sulle terre, e la sua agenzia for profit che promuove gli investimenti esteri nei Paesi in via di sviluppo, la Multilateral Investment Guarantee Agency (MIGA), sta fornendo una copertura assicurativa ai progetti agricoli delle aziende. MIGA, per esempio, ha garantito 50 milioni di dollari a copertura di un investimento di 300 milioni di dollari di Chayton Capital in Zambia e Botswana. In altre operazioni, come quelle compiute in Africa dall’hedge fund britannico Silver Street Capital, il ruolo della MIGA è stato cruciale.
Emanuela Citterio
http://www.unimondo.org/Notizie/I-biocarburanti-e-i-silenzi-della-Banca-Mondiale
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Silwan: un enorme progetto di colonizzazione tra scavi e turisti 04.10.2010
“Tutto quello che accade a Gerusalemme ha uno sfondo politico, anche l’archeologia. E questo sito rappresenta un caso di studio estremo.” E’ questo il punto di partenza per Yonathan Mizrachi e gli altri archeologi che come lui aderiscono all’associazione Emek Shaveh e accompagnano turisti e interessati nei tour alternativi all’interno di uno dei siti archeologici più discussi di tutta Israele: la città di David.
“I siti archeologici appartengono a tutti, non solo ai coloni o a Israele. Inoltre crediamo che il governo abbia la responsabilità di preservare i siti archeologici in qualunque luogo si trovino, in modo che possano essere accessibili alla comunità intea”, spiega la nostra guida. Il sito in questione, situato nel villaggio di Silwan a Gerusalemme est, è, infatti, gestito da un’organizzazione di coloni, la Elad Association, che secondo Yonatahn non amministrerebbe i reperti in maniera neutrale.
“Per noi è importante riflettere da un lato sulla relazione che intercorre tra l’archeologia e il conflitto, ma anche tra l’archeologia e la comunità, la popolazione locale. Il rapporto tra la gestione dei luoghi turistici e i residenti è molto importante affinchè questi possano trarne beneficio.” Questione particolarmente cruciale nella Città di Davide, che si trova a pochi passi dal Monte del Tempio e dalla moschea al-Aqsa, in piena Gerusalemme est.
Ma dalla quale la popolazione locale, gli abitanti palestinesi del villaggio di Silwan, risultano totalmente esclusi. “Camminando qui ci si rende immediatamente conto che si tratta di una cosa completamente estranea al villaggio di Silwan. Ma non lo è, è tantomeno dovrebbe essere gestita in questo modo: quella che i coloni chiamano Città di David è parte del villaggio di Silwan e anche la popolazione dovrebbe poterne trarre dei benefici. Noi ci opponiamo all’idea che dei coloni gestiscano un qualsiasi sito archeologico e crediamo che il Governo non debba permettere che queste cose accadano: il modo in cui viene percepita l’archeologia e vengono classificati gli scavi e i reperti, infatti, spinge e condiziona poi le decisioni di sovranità su determinati luoghi.”
Particolari non del tutto irrilevanti in una città dove ogni pietra evoca memorie e identità storiche e culturali. “Ovviamente i resti del periodo dell’antica sinagoga o del secondo tempio saranno di maggior interesse per gli ebrei, come allo stesso modo i resti bizantini lo saranno per i cristiani. Ma oggi non ci si può sentire legittimati a conquistare una terra basandosi su una cultura che è vissuta qui 2000 o 3000 anni fa.” Proprio questo é, invece, il problema a Silwan e in particolar modo nella Città di David, dove il ritrovamento di reperti archeologici sembrerebbero legittimare la presenza dei coloni.
“Nella Città di David, insegne e tour suggeriscono solo un’interpretazione biblica: la gente e i turisti vengono qui e pensano che ciò che vedono sia stato il palazzo di re David, nonostante non ci siano prove che lo confermino. L’archeologia e i libri di storia non concordano necessariamente, e come archeologo devo ammettere che non tutto ciò che viene ritrovato in un sito conferma le scritture bibliche. Non neghiamo l’importanza di libri storici come la Bibbia, ma l’archeologia, che dovrebbe aiutare la comprensione di culture passate, dovrebbe andare oltre. Non importa, infatti, che si creda nella Bibbia oppure no, l’archeologia non cambierà la propria opinione personale.”
In Israele i parchi nazionali in generale sono gestiti dalla Israel Nature and Parks Authority: la Città di David ne è l’unica eccezione. Ma cosa comporta il fatto che gli scavi vengano realizzati con i soldi dei coloni? Secondo Jonathan ciò rappresenterebbe un pericolo: “Sono loro che scelgono e decidono che scavi eseguire e cosa preservare per le generazioni future”, spiega. “Secondo la nostra opinione, quando si eseguono degli scavi in una zona di conflitto, si prende parte al conflitto stesso, a prescindere dalle proprie idee politiche. Se vengono eseguiti degli scavi con il denaro dei coloni, si contribuisce ad un enorme progetto di colonizzazione”.
A Silwan di coloni non ne vivono poi così tanti: circa 300, mentre i palestinesi residenti sono circa 40.000. Ma grazie al parco archeologico vengono attratti ogni anno milioni di turisti. Turisti che, secondo Emek Shaveh, verrebbero solo a conoscenza della versione israeliana della storia. “In aggiunta a tutto ciò, gestendo questo sito i coloni possono sostenere che non stanno semplicemente colonizzando come avviene in Cisgiordania o a Gerusalemme Est, bensì stanno preservando il sito. Eseguono scavi, investono denaro in una causa a sfondo culturale e in qualcosa che potrà apportare benefici in futuro.”
Michela Perathoner (inviata di Unimondo)
Continua con i links agli articoli dell’autrice
http://www.unimondo.org/Notizie/Silwan-un-enorme-progetto-di-colonizzazione-tra-scavi-e-turisti
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Africa: 50 anni d’indipendenza? 30.09.2010
A che punto è l’Africa, 50 anni dopo il processo formale di indipendenza che coinvolse ben 17 Stati, in gran parte ex colonie francesi? Qual è stato il significato e l’esito di quell’evento che pur aveva suscitato grandi speranze nel continente nero? Tentare di rispondere a questi interrogativi aiuta di certo a capire l’Africa di oggi. Il 1960 segna l’inizio dell’indipendenza dal colonialismo, una ventata di ottimismo si diffondeva nella consapevolezza che era forse la prima volta che gli africani avevano la possibilità finalmente di avere in mano il loro destino.
Oggi molti esempi ammirevoli di autosviluppo di piccole comunità e qualche tentativo statale di riscatto nazionale cercano – nel contesto di un’Africa che non riesce a trovare coordinate di unione d’intenti – di contrastare una deriva economica e sociale che fa strame dei più elementari diritti ad una vita minimamente dignitosa per sterminate masse umane.
Il 1960 segna l’inizio dell’indipendenza dal colonialismo, una ventata di ottimismo si diffondeva nella consapevolezza che era forse la prima volta che gli africani avevano la possibilità finalmente di avere in mano il loro destino. I leader dei movimenti di decolonizzazione, che avevano favorito quel momento storico, erano delle figure di grande levatura intellettuale e morale, che avevano sacrificato spesso il loro tornaconto personale a favore del bene comune, persone che avevano ben preciso in mente quale poteva e doveva essere poi il cammino per avviare i loro Paesi ad una vera, sostanziale, liberazione dal giogo delle potenze europee.
Patrice Lumumba, primo premier della Repubblica democratica del Congo; Thomas Sankara, militare democratico del Burkina Faso; Leopold Senghor, figura di spicco della prima esperienza di democrazia, in Senegal. E ancora Jomo Kenyatta, capace di dare al Kenya l’istruzione gratuita e di massa; Kwame Nkrumah in Ghana; Houphouet-Boigny che in Costa d’Avorio si era battuto contro il lavoro forzato di schiavitù e per i diritti dei contadini immiseriti.
Personaggi che avevano dedicato forze fisiche ed energie intellettive per i loro popoli, statisti nel senso più pregno e autentico. Che davvero pensavano che oltre all’indipendenza formale era necessario costruire una solida, concreta, incisiva liberazione dai bisogni e dalle necessità più stringenti per dare dignità e coscienza alla loro gente. Alcuni di loro furono assassinati quasi subito (Lumumba), altri qualche anno dopo (Sankara).
Quasi tutti avevano studiano nelle missioni europee e nei college delle potenze coloniali di riferimento. Pensavano giustamente che non era sufficiente essersi riappropriati delle istituzioni per cambiare veramente lo status quo ante e il lascito coloniale.
L’economia doveva assumere una svolta radicale a favore degli impoveriti; la cultura essere il grimaldello per un’autentica emancipazione delle masse nere; la rivisitazione delle radici ancestrali la condizione per riscoprire una storia, le tradizioni, la sapienza atavica che il colonialismo aveva alterato, misconosciuto se non addirittura tentato di distruggere.
Quei generosi tentativi di dare contenuti “africani” all’ottenuta indipendenza furono quasi subito soffocati dalle stesse potenze europee per niente disposte a rinunciare ai loro corposi e consolidati interessi.
In pratica, l’Europa continuò ad agire per interposta persona: tramite le multinazionali, le lobbie economiche, il soffocamento sul nascere di qualsiasi tentativo di vera indipendenza (nell’assassinio di Lumumba fu subito acclarato il coinvolgimento dei servizi segreti belgi!).
Con il venire a mancare delle diverse carismatiche leadership indipendentiste si è afflosciato di conseguenza anche il progetto di una fuoriuscita strutturale dal mondo occidentale (i modelli di riferimento, i condizionamenti culturali, sovente anche le religioni e le fedi imposte). Anzi, si è finito, per mutuare, sic et simpliciter, quanto il colonialismo aveva importato negli anni della dominazione.
I peggiori dittatori africani (i Bokassa, i Didi Amin che esportano i tesori nazionali nelle banche svizzere!) emergono ed hanno la possibilità di imporre manu militari le loro feroci satrapie proprio in assenza di ogni alternativa. Laddove invece l’indipendenza ha avuto l’avvento dopo una lunga lotta di liberazione (Mozambico, Angola, Guinea Bissau e – in altro contesto – Eritrea ed Etiopia), decennali guerre civili hanno continuato a dilaniare quelle martoriate popolazioni.
Le politiche di “aggiustamento strutturale” del Fmi e della Banca Mondiale hanno sortito il resto: l’impossibilità di avere una propria politica sociale (accesso universale alla sanità e alla scolarizzazione), la mancata redistribuzione del reddito, il conseguente impoverimento crescente.
Un fenomeno particolarmente preoccupante è quello in atto da qualche anno. Riguarda l’accaparramento delle terre agricole più fertili da parte di compagnie straniere (attivissimi i cinesi), fondi sovrani di Stati con ingenti liquidità, fondi di investimento e altri truffaldini strumenti finanziari. Continua così l’esodo devastante dalle campagne alle periferie urbane, rigonfie, prive di tutto, invivibili. Il quadro che ne esce non è confortante, le migrazioni epocali attestano il bisogno innato delle donne e degli uomini di cercare altrove una vita migliore.
Oggi molti esempi ammirevoli di autosviluppo di piccole comunità e qualche tentativo statale di riscatto nazionale cercano – nel contesto di un’Africa che non riesce a trovare coordinate di unione d’intenti – di contrastare una deriva economica e sociale che fa strame dei più elementari diritti ad una vita minimamente dignitosa per sterminate masse umane.
Roberto Moranduzzo da Vita Trentina
http://www.unimondo.org/Notizie/Africa-50-anni-d-indipendenza
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ACTA, in versione elasticizzata 07.10.2010
Apparsa online quella che dovrebbe risultare la formula definitiva del trattato globale anti-contraffazione. Nessuna responsabilità per i provider, meccanismi flessibili di DRM. Chi ha apprezzato, chi no
Roma – Una nuova versione circola online, ad illustrare ulteriori dettagli di quella che dovrebbe ormai essere la stesura definitiva del famigerato Anti-Counterfeiting Trade Agreement (ACTA). Ovvero del trattato che estenderà a livello globale la tutela della proprietà intellettuale, mostrando il pugno duro a fenomeni illeciti come la pirateria online e la contraffazione dei beni.
Un testo consolidato, frutto dell’ultimissimo round di negoziazioni tra i vari paesi membri tenutosi a Tokyo. La nuova formulazione di ACTA è questa volta sembrata flessibile, più vicina alle regole della World Intellectual Property Organization (WIPO) che alle misure imposte in terra statunitense dal Digital Millennium Copyright Act (DMCA). Il testo ha sorpreso certi osservatori in almeno due punti fondamentali.
Primo. Il sostanziale abbandono di ogni responsabilità a carico degli Internet Service Provider (ISP), che dovrebbero dunque rimanere dei semplici intermediari. Si è però parlato dello sviluppo di un contesto di cooperazione, in particolare tra i vari fornitori di connettività e le diverse aree dell’industria. Quello che resterà è l’obbligo imposto ai provider di consegnare ai detentori dei diritti i dati identificativi di tutti quegli utenti colti in flagrante tra i marosi del torrentismo.
Dovranno però esserci motivi fondati prima che le forze armate del diritto d’autore ottengano un’ordinanza per costringere i vari fornitori a consegnare i dati. Dovrebbe inoltre essere stato escluso ogni meccanismo basato sui three strikes, che avrebbe in pratica sbattuto fuori dalla Rete quegli utenti beccati a violare il copyright a mezzo file sharing.
Secondo. Una maggiore flessibilità nelle strategie di tutela contro l’aggiramento delle tecnologie anti-copia, nell’implementazione dei vari sistemi di DRM. I vari stati membri – e le varie società interessate nella protezione delle proprie opere – potranno dunque adottare meccanismi diversi di tutela legale, come peraltro già stabilito dagli stessi principi della WIPO.
La nuova versione di ACTA rappresenterebbe un grande progresso nella lotta alla pirateria e alla contraffazione, almeno secondo l’alto rappresentante dell’Office of the United States Trade Representative (USTR) Ron Kirk. Giudizi positivi anche da Enzo Mazza, presidente di FIMI Confindustria. “L’accordo ACTA, che è stato oggetto di un acceso dibattito pubblico spesso basato su pregiudizi e radicalismi poco produttivi, alla fine conferma alcuni significativi impegni che la comunità internazionale assumerà per combattere la pirateria in tutte le sue forme, anche digitale”.
“È fondamentale – ha aggiunto Mazza – la consapevolezza degli stati che la lotta alla pirateria digitale deve coinvolgere i service provider e che debbano essere assunte misure più incisive che costituiscono un messaggio fondamentale per i governi che si apprestano ad affrontare il problema di come limitare la pirateria digitale”.
Al coro si è poi aggiunto Gigi Sohn, co-founder dell’organizzazione non profit Public Knowledge. Il testo di ACTA rappresenterebbe una vittoria per tutti coloro che si impegnano quotidianamente in difesa dei diritti dei consumatori nel mondo. La maggiore elasticità mostrata dalla versione di Tokyo farebbe dunque ben sperare, in particolare per l’abolizione della responsabilità a carico di provider e search engine.
Non proprio d’accordo quelli di La Quadrature Du Net, che hanno invece parlato di previsioni disastrose per lo stesso ecosistema di Internet. Si teme in particolare l’estensione del “capitolo digitale” di ACTA a tutti quegli sfruttamenti illeciti dei più diversi mezzi di diffusione delle informazioni e dei contenuti. Oltre alla trasformazione dei detentori dei diritti in veri e propri poliziotti della Rete.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/3005934/PI/News/acta-versione-elasticizzata.aspx
Commento di The Real Gordon:
Trovata una fala spaventosa nella legge francese che istituisce hadopi:
http://yro.slashdot.org/story/10/10/08/0051245/Fre…
In sostanza, la legge francese impone agli ISP di dare all’hadopi i nomi degli utenti che condividono musica illegalmente, ma dice anche che gli utenti per esere sanzionati devono essere avvisati dal loro ISP, che però NON è obbligato ad avvisarli.
Legge da rifare.
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Una nuova comunità mondiale 11.10.2010
MIKHAIL GORBACIOV
In Russia come negli Stati Uniti il «reset» nelle relazioni Usa-Russia, a cui i leader dei due Paesi avevano promesso di dedicarsi oltre 18 mesi fa, è ora in corso di valutazione. Alcuni, spesso per ragioni di politica interna, stanno cercando di sminuire ogni risultato. Altri si chiedono se è veramente iniziata una nuova fase del rapporto o se questa è solo un’altra oscillazione positiva del pendolo seguita inevitabilmente da un passo indietro.
Per valutare a che punto siamo è utile riandare alla storia delle nostre relazioni. Ancora più importante, dobbiamo considerare quelle relazioni in un contesto più ampio, come parte dei cambiamenti nel nostro mondo globalizzato.
Nei primi Anni 90 le aspettative russe sulla cooperazione con gli Stati Uniti erano così grandi, il clima era euforico. Un po’ di quell’euforia era basata su illusioni e su una visione idealizzata degli Stati Uniti – un sentimento particolarmente diffuso tra gli intellettuali. Eppure, quelle aspettative riflettevano anche la solida convinzione che le nostre nazioni insieme avrebbero potuto fare grandi cose, sia nel proprio interesse sia per il bene comune.
L’euforia ben presto lasciò il posto alla disillusione. Più avanti nel decennio, quando l’economia russa era minata da riforme inefficaci e mentre milioni di russi erano ridotti alla povertà, gli Stati Uniti applaudivano i leader russi.
Molti russi non potevano fare a meno di chiedersi se una Russia debole, ridotta all’angolo fosse quello che gli Usa volevano.
Sempre negli Anni 90 la Nato fu ampliata mentre gli Stati Uniti proclamavano la loro vittoria nella Guerra Fredda e l’intenzione di mantenere la superiorità militare.
Che cosa valeva allora l’impegno preso dal presidente Ronald Reagan al vertice di Ginevra del 1985, quando si unì a me nel dichiarare solennemente che le nostre due nazioni non avrebbero mai cercato di prevalere militarmente? E come si poteva costruire un rapporto di fiducia sulle fondamenta poste negli Anni 90?
Il periodo in cui gli Stati Uniti potevano considerarsi l’unica superpotenza rimasta e persino una «iperpotenza», capace di creare un nuovo tipo di impero, si rivelò relativamente breve. La crisi finanziaria globale – iniziata stavolta negli stessi Stati Uniti piuttosto che alla periferia del mondo – ha stimolato il processo di riallineamento globale in favore di nuovi centri di potere e influenza. Gli Stati Uniti hanno dovuto adeguarsi a questo cambiamento, e non è facile.
La proposta di «resettare» le relazioni con la Russia rifletteva il riconoscimento che la politica precedente era fallita. E riconosceva il grande potenziale di un partenariato tra le due nazioni. Tuttavia, le obiezioni sorsero fin dall’inizio. Gli oppositori hanno sottolineato che le nostre nazioni erano troppo diverse per essere in grado di costruire un rapporto «organico» sostenibile a lungo termine. Inoltre, sia in Russia che negli Stati Uniti è apparso chiaro come alcune persone credano ancora che i nostri Paesi sono potenziali avversari.
Né la Russia né gli Stati Uniti possono permettersi un altro scontro. Anche se molto diverse, stanno entrambe attraversando una transizione. Stanno cercando di creare nuove relazioni, spesso difficili da configurare, con poteri emergenti. Anche l’Unione europea affronta questa sfida – resa ancora più difficile dai problemi nati dal frettoloso allargamento e dall’integrazione monetaria.
L’area intercontinentale da Vancouver a Vladivostok affronta problemi simili e stanno emergendo molti interessi comuni. Così come devono emergere potenti forze di reciproca attrazione. Il reset tra Usa e Russia e il «partenariato per la modernizzazione» deciso tra l’Ue e la Russia dovrebbero segnare l’inizio della strada verso una nuova comunità intercontinentale.
Solo lavorando insieme Stati Uniti, Europa e Russia possono assicurarsi una posizione di leadership e di influenza in un mondo globale in rapido cambiamento.
Sto forse chiedendo un’associazione del «Nord» contrapposto al «Sud», al mondo islamico o forse alla Cina? Niente affatto.
Sarebbe la ricetta per un vero scontro di civiltà, qualcosa che nel mondo di oggi è totalmente inaccettabile. Nei rapporti con gli altri Paesi dobbiamo sempre cercare la cooperazione, la soluzione condivisa dei problemi e i modi per superare le difficoltà – sia quelle già emerse sia quelle che verranno.
Il mondo islamico, la cui presenza si fa sentire non solo all’esterno ma anche in Europa e negli Stati Uniti, è alle prese con la sfida dell’adattamento alla modernità, cercando allo stesso tempo di proteggere la sua identità culturale e la sua peculiare civiltà.
In conseguenza di questo processo doloroso le tendenze estremiste all’interno dell’Islam politico si oppongono alle tendenze moderate e ai regimi che non sono contrari alla modernizzazione e sono pronti al dialogo. Una comunità di civiltà condivisa, con radici culturali comuni ed esperienze di vario tipo, capace di interagire con il mondo islamico, deve essere parte di tale dialogo. Un tal genere di comunità potrebbe svolgere un ruolo altrettanto importante nel dialogo con la Cina.
L’importanza politica della Cina aumenterà indubbiamente con la sua popolazione e il suo potere economico. Questo sarà un test importante per la comunità internazionale così come per la Cina, soprattutto perché l’evoluzione storica di una nazione non è sempre lineare. Ci sono snodi che richiedono decisioni difficili. La Cina prima o poi dovrà affrontare una scelta politica – o, per chiamare le cose col loro nome, il problema della democrazia. L’impegno e la collaborazione con una grande nazione che è diventata non solo la «fabbrica del mondo», ma anche un gigante economico e un «laboratorio» politico sarà un altro compito fondamentale per la comunità intercontinentale da me sostenuta.
Non è ancora chiaro come si formerà questa comunità e quale sarà il suo assetto finale. Ciò che è chiaro è che dobbiamo iniziare a costruire un’architettura di sicurezza durevole, in primo luogo in Europa, con Stati Uniti e Russia come partner. Le recenti dichiarazioni politiche degli Stati Uniti suggeriscono che, finalmente, anche i leader degli Stati Uniti riconoscono che la sicurezza non può essere raggiunta unilateralmente, richiede collaborazione.
La proposta del presidente russo Dmitry Medvedev di concludere un trattato di sicurezza pan-europeo si applica alla stessa area, che si estende dal Nord America all’Europa e a tutta la Russia.
Sono convinto che in futuro emergerà un’associazione intercontinentale di nazioni con un destino comune.
I grandi obiettivi possono sembrare eccessivamente ambiziosi o astratti, soprattutto in un momento in cui la Russia e gli Stati Uniti non sono d’accordo nemmeno sulla questione del pollame importato, nonostante il loro impegno pubblico a un nuovo rapporto, e l’Ue continua a negare ai cittadini russi l’ingresso senza visto.
Eppure sono convinto che la mia proposta non sia un sogno irrealizzabile. La portata del cambiamento globale è così vasta, e il potenziale contributo delle nazioni attraverso lo spazio intercontinentale di Russia, Europa e Nord America è così enorme, che la loro stretta associazione dovrebbe essere vista come un imperativo. Dobbiamo passare dal resettare e dal collaborare a una riconfigurazione delle relazioni politiche globali.
© 2010 Mikhail Gorbachev Distributed by The New York Times Syndicate
Traduzione di Carla Reschia
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Palestina – Inquinamento a Gaza: la crisi dell’acqua 06.10.2010
Quasi il 95% dell’acqua pompata nella Striscia non e’ potabile. E Israele continua a impedire l’ingresso dei materiali per riparare i depuratori.
REPORTAGE di CARLO SORDO OLIVE’* , Gaza City, 4 ottobre 2010 – La Striscia di Gaza e’ la prigione a cielo aperto piu’ grande al mondo. I suoi confini segnano 41 km di frontiera che la separano dai suoi vicini, Israele e Egitto. All’interno del carcere di Gaza sono rinchiusi un milione e mezzo di palestinesi, per lo piu’ rifugiati, precedentemente cacciati dalla loro terra natia in Haifa o nelle aree dove oggi sorge Tel Aviv, durante la Nakba del 1948. Spogliati delle loro case e della loro terra, e oggi confinati all’interno di un carcere progettato da diversi carnefici e complici, tra cui Israele, l’Egitto e la nostra cara comunita’ internazionale.
Senza voler entrare in un dibattito politico approfondito, ho voluto indagare in dettaglio le condizioni di degrado ambientale che esistono e persistono dentro Gaza. L’equilibrio ideale dei cicli naturali e’ stato distrutto gia’ molto tempo fa e poco o non abbastanza è stato detto circa lo stato attuale delle condizioni ambientali all’interno di questa gabbia di cemento. Non giudicatemi frivolo se desidero parlare di ambiente e inquinamento, in un luogo come Gaza dove oltre l’80% della popolazione vive in condizioni di estrema povertà.
Non e’ mio obiettivo lasciare a margine la situazione socio-economica, ne’ sottovalutare le azioni concrete [1] che permetterebbero di ridurre o eliminare le condizioni di estrema poverta’ e vulnerabilità, create in modo vergognoso, principalmente dalle politiche adottate da Israele. Al contrario, questo breve articolo si propone proprio di metter in relazione il tema dell’ambiente con la povertà e la vulnerabilità dei palestinesi che vivono nella prigione di Gaza.
Il ciclo naturale comincia dall’uso della terra e dal consumo giornaliero dell’acqua, acqua da bere, per lavarsi, per l’irrigazione, per gli animali. Il 95% dell’acqua pompata a Gaza e’ inquinata, non adatta a essere bevuta. Come e’ facilmente immaginabile, un milione e mezzo di persone generano quotidianamente una quantita’ enorme di rifiuti. Ma a Gaza esistono solo tre depuratori di acque reflue, depuratori che ricevono ogni giorno tra i 40.000 e i 50.000 metri cubi di acque impure. Succede cosi che i depuratori sono costretti ad operare al di sopra delle effettive capacita’, e che di conseguenza solo una minima parte delle acque impure venga effettivamente trattata [2], quindi parte delle acque residue inquinanti e nocive vengono scaricate direttamente in mare. In poche parole, più di 80.000 m3 di acque reflue parzialmente trattate vengono rilasciate in mare ogni giorno a Gaza [3].
La costa di Gaza, anch’essa occupata e controllata dalla marina israeliana, ha una vasta riserva di gas naturale, della quale i legittimi proprietari, i Gazaui, vengono privati. Lasciando la popolazione in una situazione di dipendenza energetica totale da parte di Israele. L’energia che entra a Gaza e’ di due tipi, mediante cioe’ l’importazione di carburante da Israele, carburante che viene trasformato in energia termica (circa il 20% del totale di energia nella Striscia di Gaza) o importando energia elettrica direttamente da Israele. Entrambe le fonti sono come rubinetti che Israele mantiene aperti a suo totale piacimento. |Non e’ pertanto cosi difficile rendersi conto che, come le altre infrastrutture di base, gli impianti di trattamento delle acque reflue funzionano solo se e quando Israele lo permette.
Le acque reflue scaricate in mare minacciano la vita marina mare, eliminando e riducendo il numero delle specie marine. Con conseguenze drammatiche per la vita di 3.700 pescatori che sopravvivono – insieme alle loro famiglie- pescando. Le acque impure rilasciate in mare hanno progressivamente indebolito e impoverito tale gruppo sociale e un intero mercato dal quale dipendono oltre 6.000 lavoratori e le loro famiglie. Un mercato che e’ stato vivo per centinaia di anni, fino a quando il blocco di Israele non e’ iniziato; la zona di accesso ai pescatori e’ stata progressivamente e illegalmente ridotta da Israele a partire dal 2002: da 20 miglia nautiche concordate dagli Accordi di Oslo alle attuali 3 miglia nautiche, tanto che oggi i pescatori palestinesi non possono avventurarsi a pescare oltre 3 miglia (e anche meno), senza rischiare di essere colpiti, arrestati e imprigionati nelle carceri israeliane. Le loro barche vengono confiscate e i motori, che hanno anche un valore in alcuni casi di 4000 dollari, requisiti nei porti israeliani e rivenduti successivamente.
Va ricordato che durante il suo ultimo assalto militare denominato “Piombo fuso”, nel quale sono state uccise 1.326 persone [4] (di cui 540 erano donne e bambini), l’esercito israeliano ha distrutto deliberatamente parte degli impianti di trattamento delle acque reflue (oltre a ospedali, centri medici, ambulanze, ecc) [5].
L’intera popolazione Gazaui estrae dal Sistema Acquifero – attraverso pozzi – l’acqua potabile per il consumo quotidiano. Tale acqua proviene da una falda acquifera che si trova immediatamente sotto il suolo di Gaza [6]. L’ammontare annuo dell’acqua pompata e’ ben al di sopra (circa il doppio) di quella che nella falda refluisce (acqua dolce, pioggia e altri affluenti sotterranei). Cosi ogni volta c’e’ sempre meno acqua nel sottosuolo di Gaza, e a causa della sovraestrazione, vi e’ stata una progressiva intrusione di acqua salata marina proveniente dalla costa, dal momento che la pressione marina e’ maggiore rispetto a quella del bacino interno sotterraneo. La maggior parte della superficie di Gaza contiene più di 500 ppm [7] di cloruro di sodio (comunemente noto come sale da cucina e mescolato con altri sali in piu’ basse concentrazioni), cosi che la maggior parte della popolazione Gazaui consuma acqua con quantita’ eccessive di sale (la concentrazione di sale nell’acqua potabile raccomandatoa dall’OMS è di 20 ppm) [8] e, cosa ancora piu’ incredibile, la popolazione consuma acqua nella quale in precedenza sono state scaricarte le acque reflue.
Inoltre l’elevata concentrazione di sale permette di coltivare solamente quei prodotti agricoli che gia’ contengono elevate concentrazioni saline, come i pomodori (Gaza era famosa in passato per l’export di pomodorini ciliegia di alta qualita’ fino a quando Israele non ha chiuso tutti i confini, impedemdo l’export.) Il risultato e’ un suolo ad alte concetrazioni saline che ha raggiunto livelli di pH compresi tra 8 e 9 [9], con una conseguente diminuizione in quantita’ e qualita’ delle coltivazioni agricole, che non soddisfano la necessita’ di una dieta varia per la popolazione, costringendo i residenti ad importare generi alimentari da Israele. [10]
La autorita’ israeliane impediscono qualsiasi azione di desalinizzazione dell’acqua marina, inoltre vietano l’entrata degli strumenti e materiali da costruzione per riparare i depuratori, non distribuiscono acqua alla popolazione occupata [11] come invece dovrebbero fare in virtu’ del diritto internazioanale e come il diritto umanitario prevede che avvenga da parte del potere occupante sul territorio occupato.Risoluzione della corte internazionale di Giustizia. [12]
All’inizio del testo, mi sono chiesto, quali sono le ripercussioni ambientali nel carcere di Gaza? Le condizioni di degrado ambientale si legano all’estrema poverta’ in cui vivono i detenuti Gazaui.
Perdonatemi l’espressione, ma esistono pochi carceri al mondo dove i prigionieri sono obbligati a bere acqua contaminata dalle proprie feci, in modo pubblico, sotto gli occhi di tutti e con immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo. E ‘evidente che Gaza è diventata un grande tappeto colorato dove si possono sperimentare tutti i giochi possibili (come fanno i bambini quando sono piccoli), ma in questo caso giochi di occupazione militare; un tappeto sotto il quale nascondere, letteralmente, le nefandezze degli autori, le élite dei politici, le elite economiche e militari di Israele, senza pero’ che ci si dimentichi delle responsabilita’ della comunità internazionale e dell’Egitto, e in ultima analisi, dell’Autorità Palestinese e di Hamas, creando una situazione che nessuno vuole sia portata alla luce del sole.
* Carlos Sordo Olive’ e’ un cooperante spagnolo che coordina diversi progetti all’interno della Striscia di Gaza . L’articolo, in versione originalein spagnolo, e’ stato pubblicato su www.ruedasdemolino.periodismohumano.com
tratto da Nena-News
Note
[1] Quando dico concrete, reali, mi riferisco a vere azioni di pressione internazionale e non certo a un presunto processo di riabilitazione che segue la distruzione condotta da Israele.
[2] La DBO, la domanda complessiva di ossigeno dell’uscita dal depuratore di Gaza City e’ di un valore medio compreso tra 50 e 80.
[3] Secondo le informazioni fornite dal laboratorio di depurazione di Gaza City, l’eliminazione di agenti patogeni e residui organici delle acque reflue parzialmente depurate e’ tra il 70% e il 90% (tra i mesi di ottobre 2009 e gennaio 2010).
[4] Secondo dati ONU “Occupied Palestinian Territory, Gaza Flash Appeal
[5] Secondo report ONU e dati pubblicati da Amnesty internacional del 2009 con il titolo “Israel-Gaza, Operation Cast Lead, 22 days of death and destruction.
[6] Limite al di sopra della zona di saturazione, a partire dalla quale su puo’ estrarre acqua dalla falda.
[7] Ppm e’ l’unita’ di misura di concentrazione di una soluzione. Si riferisce alla quantita’ di mg (milligrammi) in un kg di soluzione.
[8] Secondo il documento intitolato “Background document for development of WHO guidelines for drinking water Quality” edito da OMS: in gemerale i cloruri non sono tossici, grazie al fatto che vengono espulsi dal sistema dei reni. Tuttavia effetti dannosi e anche morte sono statu riportati in seguito a ingestión accidentali di dosi eccessive di cloruro di sodio. Tra gli effetti. nausea, vomito, convulsioni, spasmi e rigidita’ muscolare, edema polmonare e cerebrale. Un consumo excesivo di sale peggiora qualsiasi insufficienza cardiaca e genra effetti negativi dovuti dagli alti livelli di sodio nell’acqua potabile.
[9] Come dato comparativo, le zone piu’ aride del planeta sono caratterizzate da valori alti di pH tra 8 e 8,5.
[10] La maggior parte della frutta e verdura nella Striscia viene importata da Israele
[11] Permettono pero’ l’entrata di acqua imbottigliata israeliana a prezzi superiori a quelli di mercato.
[12] Risoluzione della corte internazionale di Giustizia. Vedi anche “Apartheid contro il popolo palestinese” di David Bondia (www.alcor.palestina.cat)
http://www.yabasta.it/spip.php?article1341
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La sicurezza sul lavoro è uno spot «Vergogna» 11.10.2010
«Quella notte c’erano ragazzi con davanti molti anni di vita e con l’unico peccato di dover lavorare per vivere. E si volevano bene. A se stessi e ai loro familiari. C’era Antonio (Schiavone, ndr) di 35 anni con un figlio di 2 mesi, a cui voleva così bene da voler solo tornare a casa per prenderlo in braccio». Antonio Boccuzzi, operaio sopravvissuto al rogo dell’acciaieria torinese Thyssenkrupp in cui morirono 7 colleghi, che Veltroni ha voluto in Parlamento con il Pd, è tra i firmatari dell’appello contro lo spot governativo anti-incidenti sul lavoro: «È vergognoso. Una sconfitta per il lavoratore, offensivo per i familiari, una presa in giro per precari e manovali in nero».
Nel video, pochi frame. Scritta iniziale: «Quando lavori pensa a chi ti ama e attende il tuo ritorno». Immagini: un agricoltore extracomunitario solleva il figlio, un capo cantiere torna a casa dalla famiglia, una giovane operaia abbraccia il fidanzato. Scritta finale: «Sicurezza sul lavoro. La pretende chi si vuole bene».
Appello «ipocrita», lo boccia Carlo Lucarelli, che alle morti bianche ha dedicato una puntata della prossima serie di Blu Notte, «il governo da un lato non mette il lavoratore in grado di pretendere nulla e dall’altro lo colpevolizza». Messaggio «ambiguo» anche per Mimmo Calopresti, che alla tragedia Thyssen ha dedicato il docufilm La fabbrica dei tedeschi: «È un problema complesso e vasto, di democrazia. Dipende da quanto potere ha un operaio sul lavoro, quanto può organizzarsi sindacalmente, essere protagonista. Sem<CS9.8>bra che sia sempre colpa del lavoratore. alla Thyssen non è stato così. La responsabilità principale è di chi ti mette in certe condizioni».
Partita ad agosto (e prevista fino a maggio 2011) la pubblicità progresso radiotelevisiva del ministero del Lavoro e Politiche Sociali è già molto contestata. Ha raccolto circa 400 firme un appello al ministro Sacconi per il ritiro dello spot. Medici del lavoro, operai, sindacalisti, impiegati, studenti, ricercatori, precari, pensionati, volontari civili. Tra i nomi Corrado Guzzanti, Nicola Tranfaglia, il giornalista del Tg3 Santo Della Volpe, il ferroviere Dante De Angelis, Federico Orlando, Beppe Giulietti. Una campagna «vergognosa», si legge nel testo promosso dagli operatori del settore Andrea Bagaglio, Leopoldo Pileggi, Marco Bazzoni e Daniela Cortese. Slogan «inutili, costati 9 milioni e dannosi per l’immagine di chi rischia la vita ogni giorno, non perché ami gli sport estremi. Spot che colpevolizzano sottilmente il lavoratore nascondendo che… ha poche possibilità di ribellarsi a condizioni sempre più precarie» e che «sottovalutano i rapporti di forza e non dicono nulla su chi deve garantire la sicurezza, ovvero il datore di lavoro». E la nota ministeriale esplicativa della campagna chiarisce che «dalle statistiche emerge che la maggior parte degli incidenti sul lavoro possono definirsi di natura “comportamentale”» il che però non porta «certo a imputare la responsabilità del fenomeno al lavoratore». Freddina anche la formulazione del traguardo: ridurre gli infortuni del 25% «non solo in relazione ai costi che il fenomeno produce… ma principalmente per l’attenzione dedicata alla dimensione sociale e umana del problema».
Boccuzzi è preoccupato: «È molto pericoloso che si stia mettendo al centro il lavoro e non il lavoratore. Questo spot non sottintende: dice che ci si infortuna perché non ci si attrezza, non si mette al centro della missione lavoro la propria incolumità. Un precario ha una bomba a orologeria in tasca, non può pretendere alcunché da un datore di lavoro non virtuoso». Altrettanto grave è «la frantumazione del sistema di norme voluto dal governo Prodi, con la riduzione drastica delle sanzioni per i datori di lavoro e l’aumento di quelle a carico dei lavoratori». Invece: «Servono controlli che facciano rispettare le norme. Alla Thyssen gli operai hanno fatto attenzione: è dimostrato che le colpe sono altre».
D’accordo lo scrittore Lucarelli: «Per pretendere sicurezza devi essere in grado di farlo: se hai bisogno di lavorare un sacco per arrivare a fine mese… ». Poi: «Una cosa è l’italiano, magari specializzato, altra il marocchino magari clandestino. Che fa, si mette a chiedere il casco? E chi controlla?». Lapidario Beppe Giulietti, firmatario con Articolo 21, che ricorda come molte misure degli ex ministri Turco e Damiano siano state congelate dall’esecutivo in carica: «Spot melenso fatto per salvarsi l’anima mentre bisogna fare leggi per salvare vite».
http://www.unita.it/news/italia/104497/la_sicurezza_sul_lavoro_uno_spot_vergogna
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SE VINCE SOLO LA GERMANIA
Chi è ostaggio dell’euro forte 11.10.2010
Da qualche giorno il problema più grave non sembra essere la disoccupazione, o un’economia americana sull’orlo di una nuova recessione, ma i tassi di cambio fra le monete. I ministri finanziari del G7 hanno dedicato gran parte della giornata di venerdì al problema di che fare per «stabilizzare» i cambi, senza concludere alcunché. Qual è il tasso di cambio «giusto» fra l’euro e il dollaro? La parità cui le due monete si stavano avvicinando prima dell’estate, o 1,4 dollari per un euro, il cambio della scorsa settimana? Nessuno lo sa. I tassi di cambio non sono il toccasana che può sostituirsi alla politica economica: sono prezzi che riflettono le scelte dei governi e i loro limiti. Ogni giorno sui mercati si scambiano valute per 4 mila miliardi di dollari, un quarto di quanto produce l’America in un anno.
La debolezza del dollaro è il riflesso dell’impotenza di Obama che non riesce a convincere le famiglie americane a spendere. Se i consumi interni non riprendono, l’unico modo per evitare una nuova recessione è aumentare le esportazioni: il dollaro debole serve proprio a questo. Cercare di arrestarne la caduta sarebbe una sciocchezza.
L’euro forte è il riflesso del dilemma in cui si dibatte la Banca centrale europea (Bce). La ripresa dell’economia tedesca consiglierebbe di aumentare i tassi. Ma la debolezza di molte banche non consente di farlo. L’euro forte risolve il dilemma della Bce: rallenta la Germania e non obbliga Trichet a tagliare i finanziamenti alle banche. Anche in questo caso intervenire sarebbe, oltre che inutile, sciocco.
Il guaio è che l’euro forte risolve il dilemma tedesco ma condanna la periferia dell’Europa. I sub-fornitori della Germania oggi si trovano a Est e sempre meno in Italia. A Varsavia la qualità del lavoro è simile a quella di Modena, ma il costo è una frazione di quello italiano. Sempre meno la crescita tedesca si tramuta in ordini per le nostre aziende. Per recuperare i livelli di produzione pre-crisi (siamo ancora 15% sotto) possiamo contare solo su noi stessi. Poiché da anni i consumi ristagnano, avremmo bisogno, come l’America, di un euro debole. Ma siamo troppo piccoli ed è la Germania a determinare il valore della moneta comune.
Come risolvere il nostro dilemma? Riducendo le tasse sul lavoro per far crescere il potere d’acquisto delle famiglie; tagliando le rendite con una «botta di concorrenza» per ridurre i prezzi; aumentando la produttività per ridurre il costo del lavoro senza tagliare i salari. Servirebbe un governo pienamente impegnato sullo sviluppo e l’occupazione ma questi punti non appaiono al centro del programma di Berlusconi.
Da tre anni la Federal Reserve, la banca centrale americana, e la Bce creano un’enorme quantità di liquidità: questo consente alle banche di riprendere a concedere prestiti, ma è anche una miccia che può da un giorno all’altro alimentare la speculazione, soprattutto verso i Paesi dove il debito è elevato. Non fare nulla, confidare sulla nostra «buona stella» e sperare di averla fatta franca mi pare una scelta azzardata.
Francesco Giavazzi
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La Russia si apre alle rinnovabili 08.10.2010
di Katy Mandurino
Mosca cerca partnership con l’Italia in materia di energie rinnovabili. Lo stato russo ha una altissima concentrazione di gas naturale e petrolio, ma non ha né tecnologia né know-how sul versante delle energie rinnovabili e delle fonti alternative, su cui chiede aiuto al nostro paese.
// L’approccio alle rinnovabili è recentissimo nel gigante euroasiatico, ma molto deciso. Dopo anni di regolamentazione esasperata e controllo centralizzato, ora lo stato sta snellendo la normativa in materia, ha varato una legge che spinge sullo sviluppo del settore e sta lavorando anche sulle intricate norme doganali per favorire l’entrata di capitale privato e la formazione di joint venture con le aziende italiane. «Nessuno ha risorse a volontà – ha spiegato il viceministro dello Sviluppo economico russo Alexandra Levitskaya – e abbiamo necessità di risparmio e di utilizzo oculato. Per questo il nostro governo ha promosso ampie aperture all’intervento dei privati».
L’argomento è stato affrontato durante il forum italo-russo sull’efficienza energetica organizzato a Verona da Eurasia, una due giorni (ieri e oggi) di colloqui e confronti tra gli esponenti delle istituzioni e delle società pubbliche e private dei due paesi. «Efficienza e risparmio energetico fanno parte del programma di modernizzazione lanciato dal presidente Medvedev l’anno scorso – ha aggiunto Alexei Meshkov, ambasciatore della federazione –. Se arriviamo al livello di efficienza prevista, il risparmio sarà sufficiente a coprire il fabbisogno del paese per un anno. Non si tratta di fare scelte altruistiche, è un calcolo economico che favorisce lo sviluppo».
Sul fronte delle partnership è già alto il livello di collaborazione tra Italia e Russia. Collaborazione che rientra nell’intesa siglata a Roma lo scorso dicembre dai rispettivi governi e dalle due agenzie nazionali per la tecnologia e lo sviluppo sostenibile (Enea e Rea). Alcuni esempi: il contratto tra Eni e Gazprom per la fornitura di gas durerà fino al 2030 (Gazprom sta inoltre pensando di aprire una filiale in Italia); la realizzazione del super jet 100 Sukhoi (primo velivolo ad altissima efficienza energetica) da parte di Finmeccanica sta già portando ad una serie di ordinazioni da parte di compagnie aeree; Fiat sta lavorando con la casa produttrice di auto Severstal Afte; numerosi sono i progetti che legano aziende del manifatturiero alle olimpiadi di Sochi del 2014. Non solo: pochi giorni fa è entrata in funzione, dopo decenni di fermo, la linea ferroviaria turistica Mosca-Bolzano. A fine anno l’interscambio commerciale tra Russia e Italia sfiorerà i 45 miliardi di dollari , il 40% in più rispetto al 2009.
«Molto ancora si può fare – dice fiducioso Andrea Bolla, presidente di Confindustria Verona –, ad esempio sviluppare reti di impresa sull’esempio di quanto succede in Veneto, dove lo scorso luglio è nata Energy for life, rete tra imprese di consulenza, dell’eolico, fotovoltaico, e caldaie. Dobbiamo sviluppare le nostre filiere, farle evolvere, come è successo in Germania con il solare, ed esportarle come modello». «La Russia sta andando nella direzione giusta, cioé quella del cambio di mentalità – aggiunge Giovanni Milani, ad di Enipower –, dobbiamo far conoscere i nostri modelli vincenti, come ad esempio i sistemi di cogenerazione». Oggi il contributo delle rinnovabili sulla produzione di energia conta meno dell’1%, ma nel 2020 il 60% circa del contenimento delle emissioni di Co2 nell’atmosfera sarà dovuto al risparmio energetico.
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La discussione sull’armamento dei caccia italiani da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org l’11.10.2010
Forze Disarmate – L’Espresso 30-04-2010 ed “Ecco perché il ministro La Russa ha riaperto la discussione sull’armamento dei caccia italiani”.
L’articolo di Gianluca Di Feo sull’Espresso ci racconta di forze armate italiane disorganizzate e poco trasparenti, “le scelte cruciali di politica di difesa, di procurement, di organizzazione e dimensionamento dello strumento militare vengono prese nelle “segrete stanze”, raramentesono comunicate all’opinione pubblica, mai sono dibattute in Parlamento o nel Paese” e senza una cabina di regia strategica capace di comunicare
con l’industria della difesa. Insomma la situzione è disastrosa anche si spendono milioni e milioni di euro.
Evidentemente al ministro della difesa La Russa tutte queste spese non bastano, vuole più soldi, tanti soldi per le sue guerre fuori e dentro l’Italia.
Vuole la mini-naja, vuole i corsi paramilitari nelle scuole, vuole farsi vedere qui e là vestito in tuta mimetica.
Oggi, dopo la morte di 4 alpini in Afghanistan, il ministro riaccende la polemica circa l’uso dell’armamento in dotazione ai velivoli italiani come se le stesse bombe fossero in grado di salvare i soldati a terra. Salvano i soldati americani, inglesi o tedeschi? No. Nel 2010 i morti sono quasi raddoppiati rispetto al 2009 eppure il “surge”, più truppe e mezzi da combattimento, è aumentato così come la spesa complessiva di
questa guerra.
I Lince sono sotto accusa. Il veicolo tattico dell’Iveco (Fiat) venduto a più paesi per un totale di circa 2.692 esemplari non basta per salvare i soldati dalle IED. L’azienda investe molto su questo programma per
aumentare la protezione e il carico anche se è già dotato di sensori optronici e intercettori ad energia diretta per distruggere bersagli, e di un sistema di protezione per la difesa contro RPG, missili e
proiettili anticarro. La Russa vuole i Freccia, altro Iveco (Fiat) costruito con la Oto Melara.
Tricarico non vuole caccia armati ma UAV, affermando che le bombe non sono così precise, eppure le GBU-38 e le GBU-54 che utilizzano il GPS sono definite “bombe intelligenti” perchè dovrebbero colpire
selettivamente il bersaglio. Così non è, ma così non è anche per quelle dei Predator che uccidono più civili che postazioni nemiche.
Intanto in America si è dimesso un altro generale, il generale James Jones, consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama.La decisione è legata alle sue critiche sulla politica del presidente in Afghanistan e Pakistan.
Forze Disarmate – L’Espresso 30-04-2010
http://www.fondazioneicsa.it/UserFiles/File/completo(3).pdf
Ecco perché il ministro La Russa ha riaperto la discussione sull’armamento dei caccia italiani 10.10.2010
di Gianandrea Gaiani
La decisione del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, di riaprire la discussione sull’armamento degli aerei italiani schierati in Afghanistan rappresenta un importante passo verso la rimozione dell’ultimo caveat di rilievo che limita l’impiego delle forze militari italiane. Finora i cacciabombardieri Amx (e prima di loro i più grandi Tornado) non sono autorizzati a imbarcare bombe e missili per evitare il rischio di colpire involontariamente i civili. I jet italiani vengono quindi impiegati solo come ricognitori e possono eventualmente intervenire contro i talebani impiegando esclusivamente il cannoncino a tiro rapido.
Nel caso dei velivoli teleguidati, Predator, anch’essi disarmati, l’assenza dei missili Hellfire come quelli imbarcati dagli stessi velivoli utilizzati dagli statunitensi, impedisce agli italiani di colpire i gruppi di talebani individuati mentre posizionano ordigni lungo le strade.
Ci sono molte ragioni operative ed economiche per le quali è importante eliminare questo “caveat” imposto ai militari dalla politica nazionale. Con l’imminente ritiro dei 6 Tornado tedeschi schierati a Mazar-i-Sharif, che hanno limitazioni simili, i jet italiani resteranno gli unici tra le forze alleate a non poter bombardare i talebani. Ciò significa che le truppe italiane, quando cadono nelle imboscate talebane e chiedono l’intervento dei jet (come è accaduto anche ieri nella battaglia che ha visto la morte di quattro alpini in Gulistan), vengono soccorsi dagli aerei alleati ma non italiani. Al tempo stesso i nostri aerei non sono in grado di “ricambiare il favore” soccorrendo con interventi risolutivi truppe alleate in difficoltà.
L’impiego del cannoncino di bordo obbliga poi gli aerei a volare a quote molto basse esponendo i velivoli e i piloti al fuoco delle armi leggere talebane. Inoltre il cannoncino non ha la stessa precisione di una bomba a guida laser o Gps e del resto il rischio di provocare danni collaterali non viene scongiurato dall’assenza di bombe a bordo dei velivoli, come dimostra la battaglia combattuta a Bakwa (Farah) il 17 settembre nella quale morì il tenente Alessandro Romani. Il drone disarmato Predator non poté colpire i talebani mentre piazzavano un ordigno sulla strada, in campo aperto e lontano dai civili ma quando intervennero le forze speciali e gli insorti si erano barricati in un edificio (all’interno del quale avrebbero potuto esserci anche civili) che venne raso al suolo dagli elicotteri Mangusta.
Per ammodernare i cacciabombardieri l’Aeronautica ha speso decine di milioni di euro e altri 34 per acquistare da Boeing 500 Small Diameters Bombs , ordigni a basso potenziale concepiti proprio per ridurre i danni collaterali. Soldi spesi inutilmente se in Afghanistan i velivoli volano disarmati e le bombe restano nei depositi in Itala. Sulla questione è intervenuto oggi anche il generale Leonardo Tricarico, ex cappo di stato maggiore dell’Aeronautica oggi membro della Fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analys) sostenendo l’impiego di bombe sugli Amx pur “tenendo in massima considerazione la salvaguardia della vita umana quando si pianificano le missioni”. Circa i droni Tricarico ha definito «incredibile non aver ancora fornito di armamento di precisione i nostri aerei senza pilota considerato anche che il 30-40% degli ordigni sono oggi individuati dagli Uav, in alcuni casi mentre vengono piazzati».
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Il primo nemico dell’Umanita’ 10.10.2010
Qualche giorno dopo l’11 settembre si scopri’ che alcuni misteriosi speculatori finanziari avevano scommesso sul crollo delle aziende che furono colpite dagli attentati: linee aeree e compagnie assicurative.
Una scommessa che frutto’, dissero alcuni, piu’ di 7 miliardi di dollari.
Anche le teste di legno dell’FBI capirono che dietro quella speculazione c’erano gli organizzatori degli attentati. Solo loro potevano sapere in anticipo cosa sarebbe successo.
Quindi dissero: se vogliamo battere il terrorismo dobbiamo abolire il segreto bancario e i paradisi fiscali. Dissero: la forza del nuovo terrorismo e’ nel suo enorme potere finanziario.
Poi se ne dimenticarono e non se ne fece niente.
Isole Vergini Britanniche delle Antille. Caraibi. Un tempo erano rifugio dei pirati. Oggi e’ la grotta di criminali ben peggiori. Sono capaci di uccidere centomila bambini scommettendo sul prezzo di quello che mangeranno. E’ un governatorato britannico. Cioe’ e’ un’emanazione del sistema di potere mondiale. Come e’ possibile che la Regina sia invischiata in simili storie?
Nell’800 la corona britannica mando’ le navi a bombardare Nanchino, in Cina. Vinsero cosi’ due guerre con le quali riuscirono a imporre ai cinesi il loro diritto di commerciare oppio. Cioe’ di venderlo ai cinesi. Spacciatori di droga a livello industriale con cannoniere al seguito. Non e’ cambiato molto. Un po’ si’ ma non molto.
In un anno nelle isole Vergini Britanniche delle Antille sono state registrate 70mila nuove societa’. Vi sono complessivamente 350mila societa’, 19 societa’ per abitante, gestite da 90 studi legali specializzati.
Ci sono 72 paradisi fiscali nel mondo. Si stima che siano nascoste li’ decine di migliaia di miliardi di dollari.
Da dove vengono questi soldi?
Da diverse fonti: un uomo ruba, uccide, riduce in schiavitu’, vende droga, vende armi al mercato nero e poi nasconde i soldi in un paradiso fiscale, intasca bustarelle e poi le nasconde in un paradiso fiscale, da li’ i soldi escono in maniera anonima e, ripuliti vengono investiti in attivita’ legali.
Cosi’ la criminalita’ organizzata mette le sue mani sull’economia. E non e’ un bene.
Oppure compri banane in Nigeria a 1 euro e le rivendi a 10. Dovresti pagare le tasse su 9 euro. Allora le banane vengono comprate da una societa’ domiciliata in un paradiso fiscale a due euro e poi rivendute in Europa a 8 euro a una societa’ che ha lo stesso proprietario. Vendono a se stessi e poi rivendono a 10 euro. Cosi’ pagano le tasse su 1 euro in Nigeria e su 2 euro in Europa. In totale pagano le tasse su 3 euro invece che su 9. Il grosso del guadagno lo fa la societa’ domiciliata in un paradiso fiscale dove non si pagano tasse.
Ci sono poi quelli che fanno affari in nero nel loro paese, truffano il fisco. Magari mettono su un sistema di societa’ finte che emettono fatture false per decine di milioni di euro. Ingegnoso. Poi i soldi li nascondono in un paradiso fiscale.
Infine ci sono i terroristi che usano i meccanismi finanziari per speculare sugli sbalzi del mercato determinati dai loro attentati. E usano il segreto bancario per finanziare con tranquillita’ ed efficienza la loro rete di killer.
Quel che voglio dire e’ che non ci sono brave persone che mettono i loro soldi nei paradisi fiscali.
O comunque sono molto rare. Generalmente non metti in un paradiso fiscale del denaro pulito.
Dovresti avere dei motivi molto contorti per farlo.
Nei paradisi fiscali ci sono le ricchezze rubate, le tasse evase, le mazzette.
Il crimine organizzato, le guerre, le grandi speculazioni sulle materie prime che affamano i popoli hanno li’ le loro radici. Li’ ci sono le ricchezze del mondo.
Se non c’e’ nessun posto dove nascondere i soldi, che rubi a fare?
Ci sara’ un grande cambiamento quando manderemo delle belle cannoniere a riprendere i nostri soldi e chiuderemo cosi’ i paradisi fiscali.
Non e’ legale?
Beh, per una volta faremo uno strappo all’etica….
(Lo so che oggi come oggi pare utopistico parlare di cancellazione dei paradisi fiscali e del segreto bancario. Ci vorra’ tempo. Ma possiamo star sicuri che prima o poi succedera’. Intanto e’ importante spargere la voce che e’ questo il nostro obiettivo strategico a lungo termine. Sapere che prima o poi dovranno restituire tutto li demotiva e quindi li indebolisce)
Jacopo Fo
http://www.jacopofo.com/primo-nemico-umanita-segreto-bancario-paradisi-fiscali-terrorismo-droga
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America alla rovescia
Stefano Rizzo, 08.10.2010
La democrazia statunitense, in questa fase, lascia emergere molte contraddizioni che rivelano, basta fare pochi esempi, le incertezze e le imperfezioni del sistema. Dalla politica sulle armi da fuoco ai mancati interventi per rimodernare le reti viaria e ferroviaria, dalle reazioni al sostegno alle banche e alle imprese fino al rischio che la situazione, dopo le elezioni di mid – term, si impantani ancora di più al Senato, il sistema politico a stelle e strisce non dà una buona dimostrazione di efficienza
Diceva Winston Churchill che “la democrazia è un pessimo sistema di governo, eccetto che tutti gli altri che sono stati provati sono peggiori.” Non sappiamo se quello americano sia un pessimo sistema; certamente, almeno in questo frangente storico, non sembra dare il meglio di sé. In ogni caso il suo funzionamento (o non funzionamento) lascia spesso sbalorditi. Facciamo alcuni esempi tratti dalla cronaca politica di questi mesi.
Gli Stati Uniti sono il paese dove si verificano ogni anno 12.000 omicidi, oltre a 8000 suicidi e decine di migliaia di feriti, provocati da armi da fuoco. Sono cifre di gran lunga superiori a qualsiasi altro paese democratico, paragonabili a quelle di un paese in guerra (anzi in un solo anno di questa “guerra” muoiono quattro volte i caduti dei nove anni di guerra in Afghanistan e in Iraq). Sono omicidi singoli e sono stragi: più volte in un anno qualcuno si presenta a scuola, in un supermercato, o al lavoro armato fino ai denti e ammazza tutti quelli che gli stanno intorno; poi per lo più si suicida. Logica vorrebbe che ci fosse un robusto movimento di protesta per regolamentare la vendita e il possesso di armi da fuoco, che ci fossero proposte di legge, che se ne parlasse in campagna elettorale. E invece no. Per la verità se ne parla, ma in senso contrario: i candidati repubblicani chiedono più libertà nel commercio e nel possesso delle armi; i democratici tacciono perché si tratta di “un argomento delicato”. Intanto ha preso piede un altro movimento: quello che rivendica il diritto di presentarsi in un bar o in un ristorante armati e sempre più stati approvano. Allo stesso tempo se qualche stato o città proibisce il possesso di armi – se non per fondati motivi – interviene la corte suprema e dichiara illegali le restrizioni.
Cambiamo argomento. Si ricorderà che alcuni anni fa a Minneapolis crollò all’improvviso un ponte metallico provocando la morte di una diecina di persone. A quell’incidente ne seguirono altri ad un ritmo allarmante. A fine 2009 una commissione di studio bipartisan ha presentato il suo rapporto sullo stato delle migliaia e migliaia di ponti e di viadotti degli Stati Uniti stabilendo che la maggior parte di loro sono vecchi, soffrono di “fatica da materiale” e potrebbero crollare da un momento all’altro. Il fatto è che l’attuale rete stradale è stata costruita oltre cinquanta anni fa sull’onda del New Deal ed è ormai fatiscente, mentre quella ferroviaria risale addirittura all’ ‘800. Barack Obama era ben consapevole della necessità di intervenire per mettere in sicurezza i ponti e ammodernare la rete dei trasporti (gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo tra quelli industrializzati che non ha una rete ad alta velocità) e così nel suo discorso sullo stato dell’Unione di un anno fa ha annunciato uno stanziamento straordinario a favore dei singoli stati per la manutenzione e ricostruzione di ponti e strade. Alle parole sono seguiti i fatti, nel senso che i soldi sono stati messi a disposizione degli stati, che però in molti casi hanno deciso di non spenderli perché ritengono che si tratti di un’indebita ingerenza del governo federale sui poteri statali.
Spostiamo lo sguardo all’economia e alla finanza pubblica. All’inizio del 2009, mentre la crisi economica si stava abbattendo sul paese, il governo federale approvò un gigantesco pacchetto (quasi 900 miliardi di dollari) denominato TARP di aiuti e incentivi per evitare che banche e imprese fallissero a catena (come stava cominciando ad avvenire). Le polemiche furono asprissime, anche se nella maggior parte dei casi non si trattava di elargizioni a fondo perduto, ma di prestiti, che le imprese si impegnavano a restituire con gli interessi una volta risanati i bilanci. E’ dell’altro giorno il primo rapporto sulla gestione del TARP che dice che i soldi stanno tornando indietro, che banche e aziende hanno ricostituito la propria base finanziaria e che probabilmente alla fine i contribuenti non ci rimetteranno un dollaro. Al momento grandi imprese come IBM e Microsoft navigano nell’oro, solo che non investono perché – dicono -aspettano che la congiuntura migliori. Il risultato è che gli elettori (repubblicani, ma anche democratici) invece di prendersela con le aziende che non creano posti di lavoro utilizzando la liquidità messa a disposizione dal governo, se la prendono con Barack Obama che in un sistema ad economia di mercato ha fatto tutto quello che poteva per stimolare l’economia (forse poteva fare di più, come sostiene Paul Krugman, ma in ogni caso si è trattato di un intervento enormemente superiore a quelli dei governi europei).
E passiamo alla politica. Due anni fa Barack Obama è stato eletto con un ampia maggioranza per realizzare un programma di riforme. Anche al Congresso, alla Camera e al Senato, arrivò una maggioranza democratica; quindi si sarebbe potuti marciare a passi spediti verso il cambiamento promesso. E invece non è stato così. Le poche riforme approvate (quella sanitaria e quella bancaria) hanno richiesto mesi di trattative e ne sono uscite abbastanza compromesse. La ragione? Al Senato c’è una piccola norma che consente di bloccare qualsiasi provvedimento se non c’è una maggioranza di almeno 60 senatori su 100 e i democratici al momento ne hanno solo 58. E’ sempre il 58 per cento dei senatori, ma non vale nulla. Cosa dovrebbero fare i cittadini che due anni fa hanno eletto entusiasticamente Barack Obama? Dovrebbero tornare massicciamente alle urne e non solo confermare la maggioranza alla Camera, ma cercare di dare una maggioranza a prova di ostruzionismo al senato. C’è in ballo la riforma dell’immigrazione (cui gli ispanici tengono moltissimo), la riforma dell’ambiente fortemente voluta dai liberal delle città, c’è anche il trattato di non proliferazione nucleare con la Russia. Dopotutto sono passati solo due anni e non è possibile che si siano già dimenticati quello che volevano e per cui moltissimi si erano battuti. E invece sì: gli ultimi sondaggi dicono che tra i democratici si annuncia un fortissimo astensionismo e particolarmente tra quelle categorie – giovani, ispanici, afroamericani, donne, abitanti delle coste – che costituiscono la spinta innovativa del partito democratico. Sono delusi e molti di loro non andranno a votare, con la conseguenza che i democratici non avranno la maggioranza necessaria per contrastare l’ostruzionismo repubblicano e Obama non potrà governare. Il risultato sarà ancora una volta (non è la prima) un sistema paralizzato. Insomma, forse la democrazia non è il peggior sistema di governo, ma quella americana ci si avvicina molto.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15937
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STACCARE» E PUNTARE SULLA FORMAZIONE
Arriva in Italia l’anno sabbatico 08.10.2010
Ecco le aziende che lo concedono, da Accenture a Ibm e T-Systems
Il periodo sabbatico? Si fa anche in Italia. Di sicuro, le aziende cominciano a strizzare l’occhio all’idea. Le multinazionali del mondo consulenziale sono in prima fila. Accenture, solo per fare un nome, da anni accetta con favore le candidature alla “pausa”, soprattutto se legate alla formazione.
Ma il fenomeno è trasversale. Per esempio T-Systems Italia, società del gruppo Deutsche Telekom, prevede la possibilità di 12 mesi di break retribuiti al 30% per chi ha almeno due anni di servizio. E, addirittura, il “Gigante Blu” Ibm concede Sabbatical anche superiori all’anno a tutti i dipendenti che lo richiedono, con remunerazioni che arrivano al 35% dello stipendio. Ma non è finita qui. Nella community di compravendita online eBay vige, a livello globale, il principio del mese sabbatico (con busta paga full) ogni cinque anni. Il discorso vale pure per il team italiano di PayPal ed eBay Annunci. Lo sa bene Roberto Tucci, responsabile sviluppo e comunicazione di quest’ultima, che ha da poco sfruttato l’opportunità per praticare la Capoeira a Salvador de Bahia. Mentre, in campo servizi finanziari, American express guarda con benevolenza ai congedi per formazione: storicamente ha accolto tutte le domande dei suoi collaboratori su questo fronte. E non è sicuramente da meno, passando alle utility, Enel che, oltre all’aggiornamento professionale, pone forte attenzione ai temi del volontariato: più di 350 dipendenti (solo in Italia) negli ultimi tre anni hanno usufruito di aspettative lunghe per occuparsene.
Certo, siamo lontani dall’America. Là le company aperte ai Sabbatical (pagati e non) sono centinaia. Non solo: l’offerta di servizi nell’ambito è decisamente ampia. Si parte da siti divulgatori di “travel advice and inspiration” come “Briefcase to Backpack” (www.briefcasetobackpack.com) fino ad arrivare a consulenti per aziende e lavoratori come “YourSabbatical” (www.yoursabbatical.com) che, tra l’altro, organizza programmi disegnati sulle esigenze più diverse: il menu contiene tanto di opzioni Green, per gli attenti alla responsabilità sociale, Innovation per chi (parole loro) vuol “dar benzina alla linfa creativa” e, persino, Hybrid per i career breaker che preferiscono puntare su più “benefici”.
Una cosa è certa: riguardo al salutare effetto della “pausa di riflessione” sulla carriera, Oltreoceano si nutrono pochi dubbi. “Può avere enormi vantaggi sul lungo termine” ha ribadito, anzi, proprio di recente “Forbes”. Ma è vero anche con la crisi? Sempre dalle colonne dell’autorevole magazine, Dan Clements, autore di “Escape 101: Sabbaticals Made Simple”, rassicura al proposito: “Se molti credono che questo sia il peggior momento per prendersi un sabbatico – afferma – io sono convinto esattamente del contrario, specialmente per chi ha lavorato bene”.
Ciò detto, qualche sana precauzione è meglio prenderla. Almeno le due più raccomandate dagli esperti: prima di partire assicurarsi di aver lasciato veramente “buoni ricordi” in azienda; in seguito, tenersi tenacemente in contatto con il capo.
Iolanda Barera
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Nikandrov Nil :::: 8 ottobre, 2010
Elezioni in Brasile e intelligence statunitense
Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2010/10/07/elections-in-brazil-and-the-us-intelligence-community.html 07.10.2010
Sembrava sospetto recentemente che Washington, che tende a denigrare senza ritegno come “immature” le democrazie dell’America Latina e dei Caraibi, abbia fatto seri sforzi per dimostrare rispetto verso il Brasile. L’Amministrazione di G. Bush bollò come “immaturi” gli Stati latino-americani con regimi populisti e, in generale, tutti i paesi che mostrano un atto di sfida, difendendo i loro interessi nazionali dalla pressione degli Stati Uniti. Il Brasile non ha mai permesso di mettere il suo diritto alla sovranità e a una posizione indipendente nella politica internazionale in discussione, negli otto anni della presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva, ed era ampiamente previsto che l’amministrazione di G. Bush, alla fine, avrebbe perso la pazienza e cercato di domare il leader brasiliano. Nulla del genere è successo, però, evidentemente perché gli USA si sentivano troppo gravati dai problemi con il Venezuela per rimanere bloccati in un conflitto supplementare in America Latina.
Parlando ai diplomatici e agli agenti dei servizi segreti presso l’Ambasciata degli Stati Uniti in Brasile, nel marzo 2010, la Segretaria di Stato Usa H. Clinton ha sottolineato: “Nell’Amministrazione Obama stiamo cercando di approfondire e ampliare i nostri legami con un certo numero di Paesi strategici, e Brasile è in cima alla lista. Questo è un paese che ha molta importanza. Ed è un paese che sta cercando disperatamente di mantenere la promessa fatta al suo popolo di un futuro migliore. E così, insieme, gli Stati Uniti e Brasile devono aprire la strada per i popoli di questo emisfero“.
È interessante notare che H. Clinton ha accreditato il Brasile con niente di meno che il diritto di indicare la strada alle altre nazioni, anche se alla pari con Washington. Per quest’ultima, la strada è quella di sopprimere qualsiasi iniziativa socialista in tutto il continente, di astenersi dall’unirsi ai progetti di integrazione regionale, a meno che siano patrocinate dagli Stati Uniti, di opporsi agli sforzi dei populisti volti a formare un blocco della difesa latino-americano, e di ostacolare la crescente espansione economica cinese.
Gli USA hanno nominato l’ex capo del Dipartimento di Stato dell’Ufficio Affari dell’Emisfero Occidentale e diplomatico di peso con una reputazione di falco, Thomas A. Shannon, a nuovo ambasciatore in Brasile, alla vigilia delle elezioni nel paese. Ha cercato di convincere il presidente del Brasile ad allineare il paese agli Stati Uniti e ad adottare una politica internazionale meno indipendente. Washington ha offerto dei vantaggi al Brasile, come una cooperazione più ampia per la produzione di combustibile rinnovabile, acconsentire a stabilire una divisione della Boeing nel paese, e ha firmato una serie di accordi con le industrie della difesa brasiliane, compresa la Commissione di 200 aerei Tucano per l’aviazione degli Stati Uniti.
Il Presidente da Silva non ha dato seguito. Ha testardamente mantenuto la partnership con H. Chavez e E. Morales, è andato a L’Avana e a Teheran, ha condannato il colpo di Stato pro-USA in Honduras, e si è anche impegnato a sviluppare un settore energetico nucleare nazionale. Ha proposto Dilma Rousseff – una candidata che ci si aspetta segua allo stesso modo un corso indipendente- come suo successore. Allarmante per Washington, la Rousseff è usa essere vicina al partito comunista ed è stata membro della Vanguardia Armada Revolucionaria – in particolare, con lo pseudonimo di Giovanna d’Arco – negli anni ’70. Fu tradita da un agente del governo, arrestata, torturata con i metodi che la CIA ha insegnato presso la Scuola delle Americhe, e ha dovuto passare tre anni in carcere. Di conseguenza, anche decenni dopo, la Rousseff non è una persona che realisticamente dovrebbe essere una grande fan degli Stati Uniti.
La campagna della Rousseff ha gradualmente acquistato slancio e i sondaggi cominciano a darle il vantaggio nella gara col candidato di destra José Serra. I giornalisti amici degli USA e gli agenti della CIA, hanno sondato la sua disponibilità a stringere un accordo segreto con Washington e, prevedibilmente, hanno scoperto che non vi è alcuna possibilità per il piano, avendo la Rousseff fermamente giurato fedeltà al corso del presidente da Silva. La CIA ha reagito tentando di screditare la Rousseff, e immediatamente è riemerso il mito sul suo estremismo. Hanno riportato alla luce degli informatori della polizia, che hanno proposto come “testimoni” del suo coinvolgimento nelle rapine in banca, con l’intendo di prendere i soldi per sostenere il terrorismo in Brasile. I media conservatori hanno iniziato una guerra dei sondaggi e propagandato con un coro pro-USA José Serra, come un candidato incontestato e la Rousseff – come una rivale puramente nominale. La situazione tuttavia si è stabilizzata e la Rousseff, infine, è emersa come leader grazie alla personale campagna di sostegno del presidente da Silva.
Il punteggio della Rousseff è sceso del 3-4%, impedendole di essere la vincitrice al primo turno delle elezioni. L’esito del ballottaggio dipenderà in gran parte dai sostenitori di Marina Silva Vaz de Lima, del Partito Verde, che è uscita terza alle elezioni con il 19% dei voti. La battaglia sui sostenitori del partito dei Verdi è in corso, e l’oscura squadra di Shannon, senza dubbio, farà del suo meglio per sostenere un’alleanza tra Serra e Silva.
Il gruppo della Rousseff ha visibilmente temperato il suo trionfalismo iniziale – il ballottaggio è un gioco difficile, e gli avversari del loro candidato sono implicitamente sostenuti dal potente impero, pieno di risorse, che è noto per avere regolarmente spinto dei candidati senza speranza verso la vittoria. I media del Brasile – l’azienda O’Globo media, l’editore Abril, giornali autorevoli come Folha de Sao Paulo, e la rivista Veja – sono impegnati nel lavaggio del cervello degli elettori del paese.
Il team di Shannon si trova ad affrontare la missione di aiutare le “forze fresche“, meno incline alla sfida nel trattare con Washington, ad ottenere il controllo sul potere in Brasile. Da questo punto di vista, proprio il giocatore giusto è il Partito dei Verdi, in cui gli agenti della CIA hanno da tempo acquisito posizioni importanti, con gli Stati Uniti tradizionalmente interessati ai problemi ecologici del bacino amazzonico. Al momento la CIA sta corteggiando i leader e gli attivisti Verdi, parallelamente esigendo promesse di posizioni per loro, presso il futuro governo provenienti, per i manager dalla campagna della Serra. Washington deve compiere un lavoro urgente, visto che Silva e il suo entourage pianificano di decidere, il 10 ottobre, su quale piatto della bilancia gettare il loro peso, per il ballottaggio. La Rousseff, d’altro canto, ha anche il potenziale per attrarre i sostenitori del partito dei Verdi, visto che la Serra era un membro del governo del presidente da Silva, fino al 2008.
La Cia impiega ex poliziotti brasiliani licenziati dai loro incarichi per vari motivi, per fare il lavoro sul campo, come sorveglianza, penetrare negli appartamenti, furti di dati informatici, e ricatti. Nella maggior parte dei casi, questi sono individui con tendenze di ultra-destra che considerano la Serra come loro candidata. I ministeri, servizi segreti, e il complesso militare-industriale del Brasile sono pesantemente infiltrati dagli agenti statunitensi. Il personale dell’Ambasciata e dei consolati degli Stati Uniti in Brasile, comprende circa 40 agenti di CIA, DEA, FBI e dell’intelligence dell’esercito, e Washington prevede di aprire 10 nuovi consolati nelle principali città del Brasile, come Manaus, in Amazzonia.
Mentre il Dipartimento di Stato USA riduce la rappresentanza diplomatica a livello mondiale, nello sforzo di tagliare la spesa del bilancio, il Brasile rimane un’eccezione alla regola. Il paese ha il potenziale per affermarsi come contrappeso geopolitico degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale, nei prossimi 15-20 anni, e le Amministrazioni degli Stati Uniti – sia repubblicane che democratiche – sono preoccupate dal compito di impedirle di prendere il ruolo.
Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/
http://www.eurasia-rivista.org/6379/elezioni-in-brasile-e-intelligence-statunitense
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USA-Arabia Saudita: nuovo corso, o ricorso storico?
Giovanni Andriolo :::: 7 ottobre, 2010
La notizia, diffusa a metà settembre scorso, della conclusione di un affare da sessanta miliardi di dollari per l’acquisto, da parte del Regno dell’Arabia Saudita, di armamenti e mezzi militari statunitensi ha rianimato il dibattito sulle relazioni particolari tra i due Paesi, spingendo diversi analisti ad affermare la teoria secondo cui Stati Uniti ed Arabia Saudita, dopo un periodo di rottura a seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001, avrebbero posto le prime basi per la ricostruzione di una politica comune di sicurezza in Medio Oriente.
Sulle intenzioni da parte dell’amministrazione Obama di riedificare la struttura di sicurezza poggiante per gran parte sul Regno dei Saud, non ci sono dubbi. I dubbi sorgono, piuttosto, a proposito della gravità della crisi nelle relazioni tra i due Paesi dall’11 settembre ad oggi e, soprattutto, riguardo alla scelta di costruire sicurezza armando un regime come quello al potere nella Penisola Araba, anche alla luce di esempi analoghi nella storia recente.
La connection statunitense-saudita
Fin dal 1931, anno in cui gli Stati Uniti riconobbero ufficialmente il Regno dell’Arabia Saudita, i rapporti tra i due Paesi hanno assunto caratteristiche di particolarità. A partire dal 1933, infatti, compagnie statunitensi iniziarono a trivellare il territorio saudita alla ricerca di petrolio, in cambio del pagamento di somme di denaro e royalties al Regno Saudita.
Negli anni ’40, la Seconda Guerra Mondiale e il sentore dei primi segnali di guerra fredda avevano reso chiaro all’amministrazione Roosvelt come le riserve di petrolio saudite fossero una risorsa strategica fondamentale per la sicurezza e la difesa della posizione di un paese, gli Stati Uniti, che si apprestava ad imporsi sempre più come superpotenza mondiale.
I rapporti tra Stati Uniti ed Arabia Saudita non si limitarono alla collaborazione in campo petrolifero. Sul versante militare, nel 1951, gli Stati Uniti stabilirono una missione permanente di addestramento in territorio saudita, fornendo alle forze armate del paese supporto logistico e informativo sull’uso delle armi e sui servizi di sicurezza, e assistendo con i propri ingegneri la costruzione di installazioni militari nel Regno. Nei decenni successivi, gli Stati Uniti si sarebbero impegnati nella vendita, a più riprese, di potenti armamenti e mezzi militari al Regno Saudita, garantendo la sopravvivenza di quel rapporto particolare che tanto interessa entrambi i paesi.
Fin dagli anni ’30, dunque, gli Stati Uniti hanno trovato nell’Arabia Saudita un alleato strategico fondamentale, la cui difesa risultava, secondo le parole di Roosvelt, “vitale” per la difesa statunitense.
In effetti, il posizionamento dell’Arabia Saudita può essere definito di capitale importanza strategica per diversi motivi: innanzitutto, il suo territorio si estende sopra la riserva di petrolio più ingente al mondo; inoltre, essa occupa una posizione geografica esclusiva, a cavallo tra Asia ed Africa, è bagnata dalle acque, fondamentali per il commercio internazionale, del Mar Rosso e del Golfo Persico, confina a Nord con il Medio Oriente caldo di Siria, Israele, Palestina, Libano, si affaccia con le sue coste orientali sulle coste occidentali dell’Iran, si trova a mezza via (a livello geografico e in un’ottica tipica del periodo della guerra fredda) tra il mondo occidentale e il mondo orientale, ed è in grado, infine, di influire sui paesi arabi della regione con un soft power di matrice religiosa e l’uso combinato di ingenti somme di petrodollari. Tutte queste ragioni rendono l’Arabia Saudita unica in più dimensioni: la orizzontale, a causa della sua posizione geografica; la verticale, a causa del tesoro nero che si trova sotto le sue sabbie; e, infine, la terza dimensione, magari meno evidente nelle sue forme, ma di certo forte nelle sue conseguenze, del potere economico e culturale di influenza su tutta la regione.
Ai tempi della guerra fredda, diventava quindi fondamentale per una superpotenza mondiale, ingaggiata in uno scontro con una superpotenza analoga, l’appoggio da parte di chi controllava questo territorio e le sue risorse. D’altra parte, anche l’Arabia Saudita trovava negli Stati Uniti un alleato insostituibile: da un lato, infatti, il moderno paese occidentale garantiva al Regno un trasferimento di denaro, di mezzi e di know how tecnico-militare che nessun altro poteva offrire. In secondo luogo, la stretta alleanza con una superpotenza mondiale permetteva all’Arabia Saudita di contare sulla difesa del proprio territorio dalle mire dei paesi limitrofi, arabi e non arabi, la cui vicinanza da un lato rendeva il territorio del Regno strategicamente fondamentale, dall’altro lo rendeva fortemente vulnerabile e allettante per diversi attori regionali. Le paure del Regno saudita, quindi, trovavano nell’apparato difensivo statunitense una sicurezza in cui rifugiarsi quando il mondo circostante si faceva troppo pericoloso. Il caso più evidente, in questo senso, fu la richiesta di difesa militare statunitense, da parte del Regno, in occasione dell’invasione irachena del Kuwait.
I lati oscuri della connection
Tuttavia, malgrado la dipendenza reciproca, i rapporti tra Stati Uniti ed Arabia Saudita non sono apparsi, nei decenni, sempre idilliaci. Troppe differenze di struttura tra i due paesi li rendono per molti versi incompatibili. Innanzitutto, un’Arabia Saudita retta da una dinastia reale che è emanazione di una corrente religiosa rigorosa e intransigente, lo Wahabismo, e che sola ha accesso al potere, che perpetua il proprio insediamento alla guida del paese distribuendo le massime cariche del paese, politiche ed economiche, ai propri discendenti, che intasca i proventi delle risorse petrolifere nazionali, che impone ai propri cittadini leggi ferree di derivazione religiosa, diventa in molti casi un alleato alquanto imbarazzante per un paese, gli Stati Uniti, che da decenni si propone come principale modello, difensore e, da qualche anno, esportatore di democrazia nel mondo. Inoltre, un terzo incomodo difficilmente superabile che ostacola l’idillio tra Stati Uniti e Arabia Saudita è costituito dalla questione palestinese, da sempre spina nel fianco nei rapporti tra i due paesi e causa di diversi fratture, seppur temporanee.
Così, fin della seconda metà degli anni ’30, quando iniziarono gli scontri tra arabi ed ebrei in Palestina, il supporto statunitense alla causa ebraica prima, e allo Stato israeliano poi, ha creato un certo disappunto in Arabia Saudita. Inoltre, non bisogna dimenticare come il rapporto esistente tra i due paesi, e la presenza statunitense nel paese dove sorgono le città sante di La Mecca e Medina, abbia fatto infuriare Osama Bin Laden, soprattutto da quando, in occasione dell’invasione irachena del Kuwait, i sovrani sauditi preferirono essere difesi dall’esercito statunitense piuttosto che affidarsi ai suoi mujaheddin. Questa scelta attirò l’ostilità di al-Qaeda verso i Saud, il cui paese ha subito, prima e dopo l’11 settembre, diversi attentati.
D’altra parte, il partenariato con i sauditi da un lato e con Israele dall’altro ha in altrettante occasioni creato ingenti difficoltà agli Stati Uniti, che da decenni si trovano, pur essendo una superpotenza mondiale, ad essere in un certo senso “ostaggio” dei propri alleati, che, a loro volta, dipendono comunque dal supporto statunitense. Questo intricato meccanismo ha rischiato più volte, nei decenni, di implodere e di collassare: tuttavia, i reciproci interessi in gioco tra i tre paesi hanno fatto sì che le alleanze incrociate resistessero agli scossoni portati dalla storia.
L’esempio più evidente fu la crisi del 1973, quando, in seguito al supporto statunitense ad Israele durante la cosiddetta guerra del Kippur tra le forze di difesa israeliane e l’esercito egiziano, l’Arabia Saudita decise di partecipare all’embargo petrolifero contro gli Stati Uniti ed altri paesi indetto dai principali stati esportatori di petrolio, causando così una crisi petrolifera a livello globale.
11 settembre 2001: la fine della connection?
La crisi più dura che la connection statunitense saudita si è trovata ad affrontare è senza dubbio quella dell’11 settembre 2001. La scoperta che ben 15 dei 19 esecutori degli attacchi di quel giorno fossero di nazionalità saudita non ha lasciato indifferente l’amministrazione e l’opinione pubblica statunitense. Un conseguente raffreddamento nei rapporti sembra essere seguito, con gli Stati Uniti che, oltre ad aver diminuito il flusso di armi verso l’Arabia Saudita, iniziarono a rivolgere maggiore attenzione verso altri paesi della regione, come l’Iraq post-Saddam, la Turchia, il Pakistan e, al contempo, potenziarono ulteriormente il legame con Israele.
Il governo saudita, da parte sua, cercò fin dall’inizio di dissociare l’immagine del proprio paese da quella dei dirottatori dell’11 settembre, collaborando con gli Stati Uniti nella cosiddetta “Guerra al Terrore” e attuando una serie di nuove politiche anti-terrorismo in Arabia Saudita e internazionalmente. Inoltre, poco dopo l’11 settembre, l’Arabia Saudita firmò un contratto da 14 milioni di dollari con Qorvis, un’agenzia di Public Relations di Washington, affinché lanciasse una campagna volta a riabilitare l’immagine del paese negli Stati Uniti, attraverso spot televisivi preparati ad hoc, che evidenziavano i legami dei governanti sauditi con quelli statunitensi, così come i “valori condivisi” di Stati Uniti e Arabia Saudita.
In realtà, se molti analisti dimostrano come i rapporti tra i due paesi, dopo l’11 settembre, siano crollati drasticamente, essi non sono mai stati interrotti. Un’interessante inchiesta sviluppata dal giornalista Gerald Posner1 racconta come i servizi segreti statunitensi avrebbero interrogato, dopo averlo catturato, Abu Zubaydah, un membro di al-Qaeda vicino a Bin Laden, ottenendo da questi i numeri di telefono privati del principe Ahmed Bin Salman Bin Abdul Aziz, il nipote del re saudita Fahd, di altri due principi sauditi, nonché del capo dell’aeronautica pakistana, Mushaf Ali Mir. Dopo circa tre mesi dalla divulgazione di tali rivelazioni, Posner racconta come tutti i personaggi denunciati da Zubaidah siano morti in misteriosi incidenti. Tali fattori, tuttavia, sembrano essere stati, secondo Posner, trascurati dalle indagini sull’11 settembre, tanto che la più completa indagine ufficiale, effettuata dalla statunitense National Commission on Terrorist Attacks upon the United States, non soltanto non si perita di azzardare un giudizio sulla veridicità delle rivelazioni di Zubaidah, ma non racconta nemmeno delle morti sospette ad essa seguita. Secondo Posner, l’amministrazione Bush avrebbe all’epoca bloccato un’inchiesta della CIA su questi fatti, con l’intento di coprire il possibile coinvolgimento di alcuni membri della famiglia reale saudita negli attacchi dell’11 settembre.
L’esempio portato da Posner dimostra come da un lato l’amministrazione Bush si sia trovata, dopo l’11 settembre, nella situazione di dover dimostrare pubblicamente un certo distacco nei confronti del partner saudita, mentre dall’altro essa non abbia mai inteso recidere i legami con l’Arabia Saudita, né abbandonare la struttura economica e difensiva che con i Saud ha costruito in decenni di attività. Ne sono ulteriore prova le tre visite diplomatiche che dal 2002 al 2008 il re saudita Abdullah ha effettuato negli Stati Uniti, e le due visite di George W. Bush nel regno saudita del 2008, che rappresentano il primo caso di una duplice visita, da parte di un presidente statunitense, allo stesso paese in meno di quattro mesi.
L’amministrazione Obama e le sfide dei prossimi decenni
L’amministrazione Obama non sembra aver abbandonato la politica precedente nei riguardi dell’Arabia Saudita.
Inoltre, il fatto che quasi dieci anni siano passati dagli attacchi dell’11 settembre e che nel frattempo l’opinione pubblica si sia concentrata su altre questioni, come l’Afghanistan o l’Iraq, permette all’amministrazione Obama una maggiore libertà di avvicinamento, anche pubblico, al tradizionale partner saudita.
D’altra parte, gli Stati Uniti che Obama si trova a dover governare sono profondamente diversi da quelli del 2001: da un lato, le ingenti operazioni militari in Afghanistan e Iraq hanno messo a dura prova le casse del governo statunitense; dall’altro, la crisi globale iniziata nel 2008 proprio negli Stati Uniti ha fiaccato ulteriormente l’economia del paese. Inoltre, la crescente esuberanza iraniana nella regione, unita allo sviluppo di potenze asiatiche regionali sempre più alla ricerca di petrolio per carburare la crescita delle rispettive economie, sembrano non aver lasciato agli Stati Uniti altra scelta che un accelerazione nel riavvicinamento al Regno saudita in chiave strategico- difensiva, come nella migliore tradizione della storia dei due paesi.
Così, alle metà di settembre del 2010 gli Stati Uniti hanno concluso un affare da circa sessanta miliardi di dollari per la vendita all’Arabia Saudita di armamenti e mezzi militari. L’accordo prevede, nell’arco dei prossimi dieci anni, la fornitura di 84 nuovi caccia da combattimento F-15, che assicureranno la superiorità dell’aeronautica saudita su quella iraniana per circa un decennio, oltre ad un maggior livello di interoperabilità con le forze aeree statunitensi; la fornitura di circa 150 elicotteri da combattimento Apaches, Black Hawks e Little Birds; il riassetto e l’aggiornamento di alcuni mezzi aerei già in dotazione all’aeronautica saudita; la fornitura di razzi aerei ad alta precisione; la fornitura di diverse navi da guerra che dovrebbero monitorare le coste saudite e gli impianti di estrazione petrolifera offshore.
Una tale mossa si rivela al momento vantaggiosa per gli Stati Uniti in più direzioni: da un lato, le entrate assicurate da una tale vendita serviranno a ridare vigore all’economia statunitense, ravvivandone le esportazioni e l’afflusso di denaro nel mercato interno; dall’altro, l’armamento dell’esercito saudita consentirà di delegare all’Arabia Saudita le attività di difesa, fornendole una maggiore indipendenza e risparmiando così al Governo americano ulteriori futuri dispendi a tale fine, anche nell’ipotesi di un attacco iraniano al di fuori dei propri confini.
Inoltre, la conclusione dell’affare sembra voler sancire la volontà, anche da parte dell’amministrazione Obama, di fondare il sistema di sicurezza in Medio Oriente ancora sull’Arabia Saudita, oltre che sullo storico alleato Israele, alla luce dell’instabile situazione irachena e della perdita di affidabilità da parte dell’altro alleato tradizionale, il Pakistan. Infine, un riavvicinamento alla maggiore riserva petrolifera del mondo servirà da ammonimento alle nuove potenze emergenti, sempre più assetate di petrolio e sempre più intenzionate a circuire i paesi esportatori.
Di converso, la notizia dell’accordo commerciale tra Stati Uniti ed Arabia Saudita sembra essere stata accolta in Israele con apprensione. Secondo il quotidiano Haaretz, fonti dell’apparato di difesa nazionale avrebbero rivelato la preoccupazione che le armi in dotazione all’Arabia Saudita possano essere usate, in futuro, contro il territorio israeliano. Malgrado le rassicurazioni da parte del Governo statunitense, secondo cui gli armamenti avranno la sola funzione di contenimento nei confronti di eventuali azioni ostili dell’Iran, il Ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha chiesto agli Stati Uniti di garantire che i mezzi venduti all’Arabia Saudita non saranno più avanzati di quelli in dotazione alle forze israeliane, in modo tale da non perdere la superiorità militare. Anche in questo caso, come in passato, gli Stati Uniti si sono trovati a dover mediare tra due alleati importanti, Israele ed Arabia Saudita, in contrasto tra loro.
Malgrado queste complicazioni, la scelta di scommettere sull’Arabia Saudita appare probabilmente obbligata in un tale scenario. In realtà, pur essendosi verificato un certo raffreddamento temporaneo, i rapporti tra i due paesi non sono mai stati interrotti. D’altra parte, la storia della connection statunitense saudita non era, nemmeno prima dell’11 settembre, connotata da una perenne sintonia, quanto piuttosto da una serie di accordi intervallati da scossoni di disappunto.
Quello che più stupisce, a mio avviso, nella notizia del nuovo accordo commerciale con l’Arabia Saudita, non è tanto il riavvicinamento degli Stati Uniti con il Regno dei Saud, quanto piuttosto le modalità con cui questo è avvenuto.
Infatti, appare quantomeno controverso il fatto che un Presidente come Barak Obama, che ha formato la propria immagine sulla promessa di un cambiamento nelle direzioni politiche statunitensi, che ha dimostrato in diversi interventi ufficiali una volontà di approccio nuovo alle crisi mediorientali, intenda costruire un sistema di sicurezza basato sul potenziamento dell’arsenale militare di un paese che difficilmente si può considerare equilibrato e totalmente distaccato dall’islamismo organizzato. La politica statunitense di armamento in chiave difensiva di paesi alleati contro potenze ostili risale ai tempi della guerra fredda, e ha creato, nei decenni, alcuni mostri come l’Afghanistan dei Talebani o il Pakistan nucleare.
La scelta di ricorrere ad una tale soluzione strategica risulta oggettivamente assai vantaggiosa nelle contingenze attuali, ma appare poco lungimirante e mina, a mio avviso, quella promessa di innovazione e di nuovo corso della politica statunitense su cui Barak Obama ha costruito la propria immagine e la propria fortuna. Se ad una politica difensiva cautelativa, come quella appena descritta, l’amministrazione Obama sarà in grado di associare la costruzione di un dialogo con l’Iran basato su trattative e su negoziati, piuttosto che su deterrenze muscolari, allora potrà dirsi veramente compiuto il nuovo corso della politica estera statunitense.
* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)
1 Gerald Posner, Secrets of the Kingdom. The inside story of the Saudi-U.S. connection, Random House Trade Paperbacks, New York 2005.
http://www.eurasia-rivista.org/6367/usa-arabia-saudita-nuovo-corso-o-ricorso-storico
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Stati Uniti: nei primi sei mesi dell’anno le rinnovabili hanno prodotto la stessa energia del nucleare 08.10.2010
Al link il grafico statistiche
Secondo gli ultimi dati dell’Energy Information Administration, ente americano che dipende dal Dipartimento dell’Energia (Doe), nei primi sei mesi del 2010 la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è stata praticamente pari a quella da fonte nucleare. Il Monthly Energy Review, infatti, fotografa la produzione di energia mese per mese e per semestri e, nel suo ultimo bollettino, conferma la crescita delle rinnovabili a fronte di una stasi del nucleare.
Le rinnovabili, nel complesso, hanno prodotto in questi sei mesi 4.106 miliardi di Btu (British Thermal Unit, unità di misura utilizzata per l’energia nel Regno Unito e negli Stati Uniti) mentre il nucleare ha prodotto 4.129 miliardi di Btu.
Tra le energie verdi il grosso della produzione (2.065 miliardi di Btu) proviene dalla biomassa (rifiuti compresi, circa 200 miliardi di Btu) e dall’idroelettrico (1.337). Segue l’eolico (448), il geotermico (186) e il fotovoltaico (54).
Interessanti, come accennato, i trend di crescita negli ultimi anni: nucleare praticamente fermo come le fonti fossili (che restano, comunque, lo zoccolo duro della produzione elettrica americana) mentre tra le rinnovabili cresce abbastanza lentamente il fotovoltaico e molto più rapidamente l’eolico. La biomassa cresce più veloce di tutti grazie alla legna e ai biocombustibili.
Tutti i dati si possono leggere nel rapporto Monthly Energy Review.
Via | Eia-Doe
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Il giornalismo davanti a un incrocio 10.10.2010
Barbara Spinelli
Se apocalisse significa letteralmente ritiro del velo che copre le cose, quella che viviamo in Italia è l’apocalisse del giornalismo: è giornalismo denudato, svelato. È giornalismo che si trova davanti a un incrocio: se si fa forte, rinasce e ritrova lettori; se si compiace del proprio ruolo di golem della politica, perde i lettori per il semplice motivo che non ha mai pensato a loro. Diciamo subito che il male oltrepassa la piccola storia del Giornale di Sallusti e Feltri, nonostante la piccola storia sia tutt’altro che irrilevante: se la redazione è stata perquisita come fosse un covo di banditi, è perché da tempo il quotidiano si conduce in modo tale da suscitare sospetti, apprensione.
I suoi vertici orchestrano campagne di distruzione che colpiscono uno dopo l’altro chiunque osi criticare i proprietari della testata (la famiglia Berlusconi, il cui capo è premier): prima vennero le calunnie contro Veronica Lario, poi contro Dino Boffo direttore dell’Avvenire, poi per mesi contro Fini, adesso contro il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia. Il male oltrepassa questa catena di operazioni belliche perché tutti i giornali scritti sono oggi al bivio.
La crisi è mondiale, i lettori si disaffezionano e invecchiano, i giovani cercano notizie su altre fonti: blog, giornali online. Philip Meyer, professore di giornalismo all’Università della Carolina del Nord, sostiene che l’ultimo quotidiano cartaceo uscirà nel 2040.
Viviamo dunque gli ultimi giorni della stampa scritta e vale la pena meditarli in un Paese, l’Italia, che li vive così male. Per questo le aggressioni a Fini e alla Marcegaglia sono decisive, vanno studiate come casi esemplari. Si dirà che è storia antica, che da sempre il giornalismo sfiora il sensazionalismo. Alla fine dell’800, chi scriveva senza verificare le fonti veniva chiamato yellow journalist, e i primi giornalisti-liquidatori innamorati del proprio potere politico furono Joseph Pulitzer e William Hearst (Citizen Kane nel film di Orson Welles).
Perché giornalismo giallo? Perché un vignettista di Pulitzer aveva dato questo nome – yellow kid – al protagonista dei propri fumetti. Ma quelli erano gli inizi del grande giornalismo, fatto anche di preziose inchieste. Perfino il compassato Economist apprezzava la cosiddetta furia mediatica. Negli Anni 50, il direttore Geoffrey Crowther prescrisse ai redattori il motto seguente: «Semplifica, e poi esagera» (simplify, then exaggerate).
Ora tuttavia non siamo agli inizi ma alla fine di una grande avventura. Per ogni giornale stampato è apocalisse, e a ogni giornalista tocca esaminarsi allo specchio e interrogarsi sulla professione che ha scelto, sul perché intende continuare, su quel che vuol difendere e in primis: su chi sono gli interlocutori che cerca, cui sarà fedele. Nel declino gli animi tendono a agitarsi ancora più scompostamente, e questo spiega lo squasso morale di tante testate (e tante teste) legate al magnate dei media che è Berlusconi. Se quest’ultimo volesse davvero governare normalmente, come pretende, dovrebbe interiorizzare le norme che intelaiano la democrazia e non solo rinunciare agli scudi che lo immunizzano dai processi ma ai tanti, troppi mezzi di comunicazione che possiede. Lo dovrebbe per rispetto della carica che ricopre. Aiuterebbe l’informazione a rinascere, a uscire meglio dalla crisi che comunque traversa.
Chi scrive queste righe, si è sforzato di avere come sola bussola i lettori: non sempre con successo, ma sempre tentando una risposta alle loro domande. Ritengo che il lettore influenzi il giornalista più di quanto il giornalista influenzi il pubblico: in ogni conversazione, l’ascoltatore ha una funzione non meno maieutica di chi parla. Per un professionista che ami investigare sulla verità dei fatti, questo legame con chi lo legge prevale su ogni altro legame, con politici o colleghi. Una tavola rotonda fra giornalisti, senza lettori, ha qualcosa di osceno.
Tanto più sono colpita dalla condotta di esponenti del nostro mestiere che sembrano appartenere alle bande mafiose dei romanzi di Chandler. Nella loro distruttività usano la parola, i dossier o le foto alla stregua di pistole. Minacciano, prima ancora di mettersi davanti al computer.
Soprattutto, gridano alla libertà di stampa assediata, quando il velo cade e li svela. Hanno ragione quando difendono il diritto alle inchieste più trasgressive, e sempre può capitare l’errore: chi non sbaglia mai non è un reporter. Quel che non si può fare, è telefonare alla persona su cui s’indaga e intimidirla, promettendo di non agire in cambio di qualcosa. In tal caso non è inchiesta ma ricatto, seguito semmai da vendetta. È qui che entriamo nel romanzo criminale, nella logica non dell’articolo ma del pizzino. Il giornalista Lonnie Morgan dice a Marlowe, nel Lungo Addio: «Per come la penso io, bloccare le indagini su un omicidio con una telefonata e bloccarle stendendo il testimone è solo questione di metodo. La civiltà storce il naso in entrambi i casi».
Conviene ascoltare e riascoltare le parole pronunciate dai vertici del Giornale, perché inaudita è la violenza che emanano. Sentiamo quel che il vicedirettore Porro dice al telefono, pochi minuti dopo aver spedito un minatorio sms, a Rinaldo Arpisella, portavoce della Marcegaglia: «Ora ci divertiamo, per venti giorni romperemo il c… alla Marcegaglia come pochi al mondo. Abbiamo spostato i segugi da Montecarlo a Mantova». Perché? «Perché non sembra berlusconiana,… e non ci ha mai filati». Porro s’è presentato tempo fa in tv come «volto umano» del quotidiano (la «belva umana» è secondo lui Sallusti). Il presidente della Confindustria, come Boffo o Fini, ha criticato il premier: questo peccato mortale, non altri ritenuti veniali, indigna i giornalisti-vendicatori.
Il turpiloquio non è perseguibile: alla cornetta si dicono tante cose. Quel che è scandaloso viene dopo la telefonata. Spaventata dai malavitosi avvertimenti, la Marcegaglia telefona a Confalonieri, presidente di Mediaset e consigliere d’amministrazione del Giornale. Confalonieri telefona a Feltri, direttore editoriale. Si ottiene un accordo. Si parlerà della Marcegaglia, ma con cura: pubblicando magari articoli, fin qui ignorati, di altri giornali. È così che il giornalista si tramuta in smistatore di pizzini, e demolitore della propria professione.
Quello del giornalista è un bel mestiere con brutte abitudini, e tale doppiezza gli sta accanto sempre. È qui che l’occhio del lettore aiuta a star diritti, a non farsi usare: è il lettore il suo sovrano, anche se la maggior parte dei giornali dipende purtroppo, in Italia, da industriali e non da editori. Berlusconi ha reso più che mai evidente un vizio ben antico. Così come lui carezza la sovranità del popolo senza rispettarlo, così rischiamo di fare noi con i lettori. Rispettarli è l’unica via per lottare contro la nostra fine, e le opportunità non mancano: è il resoconto veritiero, è smascherare le falsità. È servire la persona che ancora acquista giornali. Ci vuole qualcuno che trattenga l’apocalisse, cioè l’avvento dell’anomia, dell’illegalità generalizzata: un katéchon, come nella seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi (2,6-7).
Il giornalista che aspira a «trattenere» lo squasso è in costante stato di Lungo Addio, come il private eye di Chandler. Il suo è un addio alle manipolazioni, alle congetture infondate, alla politica da cui è usato, ai tempi del Palazzo, a tutto ciò che lo allontana da tanti lettori che perdono interesse nei giornali scritti, troppo costosi per esser liberi. Chi vive nella coscienza d’un commiato sempre incombente sa che c’è un solo modo di congedarsi dalle male educazioni del mestiere: solo se il Lungo Addio, come per Philip Marlowe, ignora le bombe a orologeria ed è «triste, solitario e finale».
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=40
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Le nefaste conseguenze dell’attuazione del federalismo fiscale
Domenico Moro, 10 ottobre 2010
Aumenterà il gap tra salari e profitti; Aumenterà il gap tra regioni del Sud e del Nord; La sanità pubblica sarà gravemente ridotta. La destra ha messo le mani nelle tasche degli italiani. Va smascherata. Ci sarà una spinta a diminuire le tasse alle imprese, che è il vero obiettivo del federalismo, ed è per questa ragione appoggiato da Confindustria. Di conseguenza, si compenserà il taglio alle aziende con la riduzione dei servizi e/o con l’aumento delle tasse ai lavoratori
La questione fiscale è centrale negli Stati moderni, sia per la gestione del debito pubblico che per la costruzione del consenso. Lo sanno bene Lega e Forza Italia (ora PdL), che della riduzione della pressione fiscale e delle tasse hanno fatto uno slogan: “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani”. Il centro-sinistra, e la sinistra soprattutto, hanno pagato duramente la sottovalutazione della questione fiscale alle elezioni del 2006 e del 2008. Nel 2006 il margine di vantaggio del centro-sinistra si ridusse ad una inezia anche perché, nell’ultimo confronto Tv tra Prodi e Berlusconi, mentre il primo fece capire che avrebbe aumentato le tasse, il secondo dichiarò che avrebbe eliminato la tassa sulla prima casa. Ne venne fuori una vittoria monca: soli 24mila voti di scarto a favore del Centro-sinistra. Una maggioranza esigua che favorì la rapida fine del governo Prodi.
D’altro canto, anche l’aumento dell’Irpef sui redditi dei lavoratori da parte del governo Prodi ebbe qualche responsabilità, insieme ad altri fattori (legge elettorale, mancato ritiro della Legge 30, Afghanistan, ecc.), sul tracollo della sinistra alle elezioni del 2008. Tuttavia, non è vero che la destra diminuisca le tasse, è vero anzi il contrario. Durante il precedente governo Berlusconi si registrò un aumento delle tasse indirette, quelle sui consumi. Queste appaiono più “neutre” e sono meno evidenti agli occhi di chi le subisce rispetto alla tassazione diretta, sui redditi. E, soprattutto, pesano ugualmente su tutti, su Montezemolo e su Cipputi, che, quando comprano un prodotto o un servizio, pagano la stessa tassa (l’Iva), pur avendo redditi, diciamo così, diversi. Il risultato è una tassazione fortemente ingiusta dal punto di vista sociale e anticostituzionale. Infatti, la Costituzione all’articolo 53 dice che le tasse devono essere progressive, cioè devono aumentare all’aumentare del reddito. Oggi, con il decreto attuativo sul federalismo fiscale approvato dal governo assistiamo al “capolavoro” della destra italiana che coglie tre e non i due classici “piccioni con una fava”.
Vediamo quali sono:
· Aumento delle tasse. Il governo prevede di aumentare ancora la tassazione diretta con l’innalzamento del tetto dell’addizionale regionale Irpef dall’1,4% al 3%;
· Redistribuzione del reddito nazionale a favore delle imprese. Mentre le tasse sui redditi da lavoro dipendente, l’Irpef, aumenteranno, è prevista la riduzione e finanche l’azzeramento dell’Irap, la “tassa” pagata dalle aziende per la salute di chi lavora. È da notare, inoltre, che l’Irap in realtà non è propriamente definibile una tassa. Rappresenta il vecchio contributo alla assistenza sanitaria dei lavoratori che il governo Prodi nel 1997 incluse, insieme ad altre voci, nell’Irap. Si tratta in pratica di una parte del salario, quella indiretta, pagata in servizi pubblici.
· Riduzione della progressività della tassazione. Il governo ha aumentato la tassazione indiretta, introducendo nuovi balzelli. Particolarmente iniquo quello sul passaggio sulle tangenziali e i raccordi urbani, che, sospeso dal Tar, è stato nuovamente decretato dal governo. Inoltre e soprattutto, col federalismo fiscale aumenterà il peso dell’Iva nel finanziamento delle regioni.
Quali saranno le conseguenze sociali del federalismo fiscale? Saranno devastanti da almeno tre punti di vista:
· Aumenterà il gap tra salari e profitti.
· Aumenterà il gap tra regioni del Sud e del Nord. Non solo in termini di servizi e di infrastrutture. C’è un altro aspetto che non è stato considerato: la riduzione e ancor di più l’abolizione dell’Irap faciliteranno l’attrazione degli investimenti. E, dal momento che solo le regioni con bilanci in attivo, cioè quelle più ricche del Nord, potranno farlo, il Sud subirà un’ulteriore riduzione dell’afflusso dei capitali e una accentuazione della fuga già consistente della produzione verso il Nord. Il Pil del Mezzogiorno, sceso nel 2009 al livello minimo dall’Unità d’Italia (23,2% sul totale nazionale), rischia un ulteriore tracollo.
· La sanità pubblica sarà gravemente ridotta. Con il federalismo si potrà ridurre l’Irap solo se i conti sono in regole e/o in presenza di tagli massicci alla spesa, ovvero con la riduzione del servizio. Già oggi si stanno chiudendo ospedali e reparti, con il federalismo fiscale ci sarà una vera ecatombe. Interi territori di provincia saranno costretti a fare capo alle strutture sopravvissute lontane decine di chilometri, con tutto ciò che ne consegue. Molti lavoratori rimarranno senza assistenza, con il non trascurabile effetto che la sanità privata avrà più spazi.
La destra ha messo le mani nelle tasche degli italiani. Va smascherata, anche se si arrampica sugli specchi per negarlo, parlando di macchinose “clausole di invarianza fiscale” e di fantomatiche “conferenze di coordinamento governo-regioni”. Ci sarà una spinta a diminuire le tasse alle imprese, che è il vero obiettivo del federalismo, ed è per questa ragione appoggiato da Confindustria. Di conseguenza, si compenserà il taglio alle aziende con la riduzione dei servizi e/o con l’aumento delle tasse ai lavoratori.
Inoltre, l’aumento della pressione fiscale sui lavoratori è tanto più intollerabile in quanto è sospinto dall’aumento del deficit e del debito pubblico, che in gran parte è causato dal sostegno ai profitti e le rendite di imprese e banche. Il vero nodo della fiscalità italiana è la più alta evasione fiscale d’Europa, 100 miliardi di euro, ovvero il 7% del Pil, un dato superiore al deficit pubblico, che ammonta al 5,2%.
Il governo Berlusconi-Lega è il meno adatto a combattere l’evasione: i maggiori responsabili dell’evasione sono gli industriali (32%), e l’incremento maggiore degli evasori nel 2010 si è registrato al Nord, in particolare nelle virtuose Lombardia (+10,1%) e Veneto (+9,2%), le regioni dove c’è la base elettorale di PdL e Lega. A sinistra, oltre ad aver sottovalutato la questione fiscale, ritenuta secondaria rispetto a quella salariale, si è finora affrontato il federalismo in modo poco deciso, pensando che fosse eminentemente questione di unità nazionale e non sociale e di classe. Si tratta di un errore, in primo luogo perché la questione fiscale rientra nella questione del salario complessivo, riguardando il salario indiretto. In secondo luogo, perché, con il permanere della crisi e la pressione dei mercati finanziari a ridurre deficit e debiti pubblici, la spinta ad aumentare le tasse sarà sempre più forte. Quindi, decidere chi e in che misura deve pagare le tasse sarà decisivo.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15940
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USA, laser anti-tumore 11.10.2010
Un nuovo dispositivo chirurgico promette di ridare la speranza ai malati di cancro impossibili da operare. Il laser abbrustolisce le cellule tumorali nascoste mentre lascia intatti i tessuti sani
Roma – La nuova speranza per i malati di cancro con quadri clinici complessi arriva dal Barnes-Jewish Hospital, dove per la prima volta è stato usato un dispositivo avveniristico in grado letteralmente di “cuocere” a fuoco veloce le cellule tumorali. Lo strumento si chiama Monteris AutoLITT, è dotato di una precisione mai sperimentata prima ed è già stato approvato dalla Food and Drug Administration statunitense.
Monteris AutoLITT è un dispositivo laser ad alta intensità guidato attraverso la tecnica nota come imaging a risonanza magnetica (MRI): la sonda laser è in grado di colpire in maniera selettiva le cellule cancerogene, cuocerle dall’interno e farle coagulare mentre i dati radiologici forniti in tempo reale dalla MRI fanno sì che la sonda vada sempre a bersaglio lasciando nel contempo intatti i tessuti sani.
Non si tratta di una semplice ricerca di laboratorio, ma di una realtà medica già usata in un contesto reale: presso la Washington University School of Medicine hanno già operato con successo un paziente malato di cancro cerebrale recidivo.
A causa degli interventi chirurgici precedenti e della profondità a cui era localizzato il nuovo tumore, il paziente era stato considerato non più operabile: l’uso della nuova sonda laser ha previsto l’applicazione di un foro sulla calotta cranica non più grande della punta di una matita, foro attraverso cui è stato fatto passare il laser che ha liberato fasci di energia concentrati in presenza delle cellule cancerogene.
Quanto occorrerà per vedere all’opera il nuovo dispositivo su tutto il territorio statunitense e magari in altri paesi del mondo? Non esistono tempistiche né piani a riguardo, e al momento gli ospedali USA equipaggiati con un esemplare di Monteris AutoLITT ammontano a tre soltanto.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3003249/PI/News/usa-laser-anti-tumore.aspx
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