La Biennale di Venezia rende omaggio a Tullio Kezich Intitolato al grande critico il concorso online per giovani saggisti di cinema
17.08.2009
Il Presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta, a nome di tutta la Biennale, nel rendere omaggio alla figura di Tullio Kezich, maestro indimenticabile della critica cinematografica e per oltre 60 anni autorevolissimo recensore alla Mostra del Cinema, ha annunciato che il concorso per giovani saggisti di cinema, lanciato online per la prima volta quest’anno per premiare un saggio su uno dei film della Mostra, rivolto ai giovani per sollecitarne l’interesse e valorizzarne le capacità e i potenziali nel campo della critica cinematografica, sarà intitolato a Tullio Kezich: “Sarà questo un modo per averlo con noi in tutte le future Mostre del Cinema di Venezia”.
Per rafforzare il legame fra i giovani studiosi e appassionati di cinema e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – e per favorire fra di essi la riflessione e l’analisi approfondita sui film – la Biennale di Venezia, attraverso il suo nuovo canale Biennale Channel (www.labiennalechannel.org), indice un concorso nazionale per un saggio di critica cinematografica “Tullio Kezich”. Gli aspiranti critici di cittadinanza italiana fra i 18 e i 26 anni dovranno inviare entro il 30 ottobre 2009, all’indirizzo mail saggidicinema@labiennale.org, un saggio riguardante uno dei film presentati nella Selezione Ufficiale alla prossima 66. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica (2-12 settembre 2009).
La giuria, composta da tre esperti e presieduta dal Direttore Marco Müller, individuerà i migliori 10 saggi. I primi 3 classificati saranno invitati con ospitalità completa alla 67. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2010, con accredito e catalogo gratuiti e possibilità di assistere alle conferenze stampa dei film selezionati. I successivi 7 classificati avranno la possibilità di ricevere l’accredito e il catalogo gratuiti della 67. Mostra. I 10 saggi premiati, nonché altri valutati a discrezione della giuria per il particolare valore critico, saranno pubblicati sul sito web http://www.labiennalechannel.org.
Tullio Kezich è stato giornalista e critico accreditato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per 62 anni, dal 1946 al 2008. Ha fatto parte della Commissione di selezione dei film della Mostra negli anni ’60 sotto la direzione di Luigi Chiarini. Ha sceneggiato il film Leone d’oro 1988 di Ermanno Olmi La leggenda del santo bevitore.
Per ulteriori informazioni:
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www.labiennale.org
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Primo dossier per il neo ambasciatore. Brown furioso per l’accoglienza a Megrahi
Gheddafi a New York il 24 settembre Le famiglie delle vittime di Lockerbie pronte alla protesta
Il premier a Tripoli
i dubbi della Casa Bianca
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
NEW YORK – La visita di Berlusconi da Gheddafi è il primo dossier delicato che attende il nuovo ambasciatore americano in Italia. Il 64enne David Thorne pochi giorni fa ha concluso la “cerimonia del giuramento” a Boston, sotto lo sguardo affettuoso del suo sponsor politico più importante: il cognato John Kerry, ex candidato presidenziale e presidente della commissione Esteri al Senato, che ha convinto Obama a sceglierlo come rappresentante a Roma.
Imprenditore di successo, grande conoscitore del nostro paese dove visse dall’età di 8 anni (suo padre amministrava gli aiuti del Piano Marshall nel dopoguerra), Thorne parla correntemente l’italiano: gli sarà utile per trasmettere con precisione le perplessità e i timori di Washington sulla questione libica. Un tema diventato scottante dopo l’accoglienza trionfale organizzata a Tripoli per Abdel Basset Ali al-Megrahi, il terrorista colpevole della strage di Lockerbie in cui undici anni fa morirono 189 americani. Condannato all’ergastolo, al-Megrahi è stato rilasciato dalla Scozia per ragioni umanitarie, perché sarebbe malato di cancro. Oltre a “deplorare” la decisione scozzese, Obama aveva subito ammonito la Libia: “Che al suo arrivo non sia trattato da eroe”. Come è puntualmente accaduto, suscitando orrore in America. Le famiglie delle vittime di Lockerbie preparano manifestazioni di protesta per il 24 settembre, quando Gheddafi verrà a New York all’assemblea dell’Onu. E la Casa Bianca non può sottovalutare il loro dolore.
Ieri il premier britannico Gordon Brown si è allineato con Washington, si è detto “furioso” e “disgustato”. Era il primo commento fatto da Brown, ed è chiaro che le sue parole erano soppesate per tamponare lo sdegno degli Stati Uniti. Il premier ha spiegato che a luglio aveva detto a Gheddafi che il governo britannico non poteva avere alcun ruolo nella liberazione di al-Megrahi, decisione presa dall’esecutivo scozzese. “Sono arrabbiato e provo repulsione per l’accoglienza ricevuta al suo ritorno in Libia da un attentatore colpevole di un enorme crimine terroristico”, ha detto Brown. Il premier ha aggiunto che l’impegno della Gran Bretagna contro il terrorismo resta “assoluto”, e ha negato che la vicenda possa danneggiare i rapporti con gli Usa.
Brown ha sentito il bisogno di una condanna così netta dopo che la Libia era riuscita a coinvolgere Londra, ringraziando per il presunto ruolo della famiglie reale ed altre connessioni altolocate che avrebbero facilitato la liberazione. Altrettante ragioni di irritazione a Washington, dove adesso si guarda con apprensione agli “usi” politici che Gheddafi potrà fare della visita di Berlusconi. Non che la squadra di Obama voglia ripudiare il disgelo iniziato nel 2003 tra l’Amministrazione Bush e la Libia. Ma Gheddafi viene considerato poco affidabile. Mantenere i patti non è il suo forte, soprattutto se i patti includono clausole di riservatezza. Così al G8 dell’Aquila il portavoce di Obama sentì il bisogno di precisare che l’abbandono del programma nucleare libico fu “una decisione assolutamente volontaria”. Per sgomberare il campo da “rivelazioni” su presunte contropartite. Dell’Italia, Washington teme la fragilità strutturale, legata all’eccessiva dipendenza energetica da poche fonti, geopoliticamente ad alto rischio. E nessuno dimentica che a Roma a giugno Gheddafi definì l’America “terrorista come Bin Laden”. Cosa potrà accadere con Berlusconi a Tripoli? Più delle Frecce Tricolori si temono scivoloni di sostanza, come accadde un anno fa quando il Trattato di pace Italia-Libia parve contenere una clausola di protezione per Tripoli contro l’uso delle basi Nato. Casa Bianca e Dipartimento di Stato non vogliono rilasciare dichiarazioni, anche per non pregiudicare i primi passi del neo-ambasciatore. Ma che il viaggio di Berlusconi giunga in un momento inopportuno, se lo lasciano strappare.
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Helga Zepp LaRouche ammonisce contro l’ingovernabilità e lancia il volano spaziale per la ripresa (ah! Sono più o meno dell’idea di Lucia Annunziata).
Ad una manifestazione elettorale a Berlino il 21 agosto, trasmessa live in internet, il candidato alla Cancelleria del BüSo, Helga Zepp LaRouche, ha rilanciato i moniti del consorte Lyndon LaRouche sul punto di rottura previsto dopo le prime settimane di ottobre nell’economia USA. “C’è chi si rallegra di un collasso degli USA”, ha detto, ma una cosa è chiara: un tale collasso “non lascerebbe nessun paese integro, e condurrebbe al caos mondiale”.
Negli Stati Uniti è in corso una rivolta di massa, “dal carattere completamente diverso da quanto si legge o si sente nei media”. La popolazione ha riconosciuto che c’è un abisso tra ciò che il Presidente Obama dice e ciò che egli fa. I media europei ci raccontano che Obama vuole allargare l’assicurazione sanitaria ai 50 milioni di americani che non ce l’hanno, ma “che significa ciò quando, allo stesso tempo, si vuole ridurre i costi della sanità del 30 per cento?”
Gli stessi media raccontano che la rivolta è organizzata dal partito repubblicano e dalla destra, e pagata dall’industria farmaceutica. “La verità è che tutti gli strati della popolazione hanno rotto con il governo, e specialmente gli anziani e i pensionati”. La disoccupazione reale è al 30 per cento, 48 stati su 50 sono in bancarotta, 2-3 milioni di famiglie hanno perso la casa e per quest’anno si prevedono altri 2,4 milioni di pignoramenti. Tutta la rabbia accumulata è ora esplosa sulla riforma sanitaria.
Lyndon LaRouche, che è riconosciuto essere il leader intellettuale della rivolta, “temuto dagli uni, osannato come eroe dagli altri”, ha anticipato le proposte per uscire dalla crisi. Queste si riassumono nel disegno di riorganizzazione fallimentare del sistema e nel progetto del Ponte Eurasiatico di Sviluppo.
La signora Zepp LaRouche ha sottolineato che l’Africa deve essere parte importante del piano di sviluppo mondiale. “Sono sempre stata convinta che lo sviluppo dell’Africa sia il test di moralità per l’Europa”, ha detto. “Se non riusciamo a sviluppare quel continente, riparando all’ingiustizia che esso ha subito nei secoli con il traffico degli schiavi e il colonialismo, la nostra indifferenza morale pregiudicherà anche il successo per quanto riguarda noi stessi”.
Ma come è possibile cambiare gli assiomi sbagliati nella mente della popolazione? “Abbiamo bisogno di ciò che il grande scienziato Krafft Ehricke chiamava ‘l’imperativo extraterrestre’. Se vogliamo allontanare la gente dal pensiero lineare e monetaristico, non esiste mezzo migliore dell’esplorazione umana dello spazio, perché essa ispira sia la mente che l’immaginazione”. Se Kennedy non fosse stato assassinato, il programma spaziale sarebbe continuato “e il mondo oggi sarebbe totalmente diverso. Avremmo risolto tutti i problemi sulla terra, perché le ricadute di questo programma spaziale sono enormi. Allora, un centesimo investito nel programma Apollo produsse 14 centesimi di profitto nell’economia civile. Grazie all’effetto volano di queste tecnologie rivoluzionarie, la produttività crebbe in tutti i settori”.
La signora Zepp LaRouche ha quindi proposto un nuovo programma Luna-Marte, e lo sviluppo di tecnologie che permettano di compiere il viaggio su Marte non in 200 ma in 4-5 giorni. Ciò significa sviluppare l’energia di fusione nucleare e l'”economia degli isotopi”. “Allora, il tema della scarsità delle risorse sarebbe risolto. Scompare l’idea che le risorse siano limitate e che debbano essere gestite dai mercati finanziari”.
Ne segue che il progetto del Ponte Eurasiatico, dei corridoi di sviluppo infrastrutturale eurasiatici, deve includere anche un impegno per l’esplorazione dello spazio. “Per uscire dalle rovine degli ultimi 40 anni di politiche neo-liberiste, necessitiamo di alti tassi di progresso scientifico, e ciò si ottiene al meglio con un volano scientifico come l’esplorazione dello spazio”.
Scacco matto al Trattato di Lisbona
Come avevamo anticipato, la sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 30 giugno ha reso virtualmente impossibile una ratifica generale del Trattato di Lisbona da parte di tutti i membri dell’Unione. Come prontamente osservò il prof. Giuseppe Guarino, il Parlamento tedesco, incorporando le prescrizioni della sentenza nella nuova legge di ratifica, approverà un testo diverso da quello approvato dagli altri stati membri dell’UE, e questo ne sancirà l’incostituzionalità, sicuramente secondo la legge italiana e verosimilmente anche per gli altri paesi.
Uno dei principali sostenitori del Trattato, il capogruppo democristiano tedesco al Parlamento Europeo Hans-Gert Pöttering, ha ammesso proprio ciò in un attacco pubblico al proprio partito, dopo che questi ha raggiunto un accordo con il partito-fratello, la CSU, sul testo della nuova legge di ratifica. La CDU-CSU propone di allegare al testo una risoluzione in cui si chiede di comunicare alla Commissione, al Consiglio Europeo e a tutti gli stati membri, che la Germania considera costituzionale il trattato solo “in conformità con le motivazioni” della sentenza costituzionale.
Il capogruppo democristiano al parlamento tedesco, Volker Kauder, ha scritto una lettera al collega socialdemocratico Peter Struck chiedendo sostegno alla risoluzione. Per la ratifica del trattato c’è bisogno dei voti di CDU e SPD, per cui i socialdemocratici ora sono in una difficile situazione: se respingono la risoluzione, salta la ratifica; se l’accettano, sottoscrivono quella che è una riserva sostanziale, anche se non formale.
La corrente filo-Lisbona è sotto scacco. Lo ha ben riconosciuto Pöttering, il quale ha affermato che se la risoluzione verrà approvata, ciò significherà che anche tutti gli altri membri dell’EU dovranno accettarla. Pöttering l’ha definita “un diktat verso gli altri stati membri”, ammettendo implicitamente che la Corte Costituzionale tedesca ha cambiato il testo del trattato.
Nel frattempo nella Repubblica Ceca, un gruppo di senatori del partito ODS (Democrazia Civica) pianifica un ricorso costituzionale per chiedere la sospensione della ratifica del trattato fino a quando non sia cambiata la normativa per le leggi di ratifica. I senatori sostengono che un trasferimento di poteri come quello sancito nel trattato debba essere approvato da una maggioranza costituzionale, e cioè da almeno il 60 per cento di Camera e Senato, mentre la legge di ratifica è stata approvata con una maggioranza semplice.
I senatori preparano anche un ricorso contro il trattato stesso, le cui sorti sono legate al risultato del referendum irlandese del 2 ottobre prossimo. Il Presidente ceco Vaclav Klaus ha ripetutamente affermato che egli non intende firmare la ratifica prima dell’esito del referendum. Inoltre, le elezioni anticipate nella Repubblica Ceca, previste per il 9 e 10 ottobre, comporteranno un ulteriore ritardo.
LaRouche: dichiarare la bancarotta della Federal Reserve, creare una terza banca nazionale
Alcune delle domande poste a LaRouche durante la sua webcast del 1 agosto (accessibile anche in lingua italiana sul sito www.movisol.org) sono giunte da alcuni economisti della Stanford University. Essi hanno sottolineato nella domanda che la politica di rifinanziamento delle banche della Federal Reserve ha “sbigottito, confuso e fatto infuriare” molte persone, soprattutto perché i governatori hanno deciso di “stampare soldi dal nulla” senza alcuna autorizzazione del Congresso. Se non sia ora di smantellare la Federal Reserve, hanno chiesto.
“Prima di tutto”, è stata la risposta di LaRouche, “dobbiamo riconoscere il fatto che il sistema della Federal Reserve è in bancarotta. È una società privata creata sotto Woodrow Wilson. È in bancarotta. Chi pagherà i suoi debiti? Tutto il denaro emesso rappresenta debito. Chi deve pagarlo? Chi l’ha contratto?”
Il sistema della Federal Reserve maschera la propria insolvenza stampando denaro. “Mi ricorda la Germania del 1923. Deve dimostrare di avere degli attivi per coprire l’emissione. Altrimenti deve essere sottoposto ad una riorganizzazione fallimentare”.
A quel punto “svilupperemo la Terza Banca Nazionale degli Stati Uniti”, che sarà un ente assegnato al Tesoro ma non ne sarà un’estensione. Avrà un rapporto col Tesoro, che la autorizza, esattamente come prescrisse Alexander Hamilton per la prima National Bank. E “nei sottoscala della Third National Bank terremo i libri contabili della Federal Reserve, solo ai fini di una revisione”.
In questo modo sarà possibile gestire il rapporto tra il sistema della Federal Reserve, le banche ordinarie dei vari stati e a livello nazionale che vale la pena di salvare, ricorrendo ad una procedura come quella prevista dalla legge Glass-Steagall, che sanciva una netta distinzione tra banche commerciali e banche d’affari, e che fu abrogata nel 1991 da Larry Summers, attualmente consigliere economico di Obama. “Dovremo creare del credito per tenere in funzione queste banche, molte delle quali sono in bancarotta, ma che sono essenziali per le comunità. Dovremo usare queste banche, salvarle, per generare la distribuzione del credito in modo da creare una vera ripresa economica”.
LaRouche propone di lanciare progetti ispirati alla Tennessee Valley Authority di Roosevelt. Quel progetto, prosegue, fu ideale perché aveva uno scopo primario e altri aspetti funzionali “a raggiungere lo scopo primario”.
In questo periodo abbiamo bisogno “di un orientamento ad una missione nazionale, come quella di Roosevelt ed Henry Wallace. Pensiamo allo sviluppo infrastrutturale del paese, come un’economia vivente, pensata come un posto in cui la gente vive e lavora, ha una casa, scuole, strutture mediche. Su questa base potrà essere attuato un piano di riorganizzazione del trasporti negli Stati Uniti”, affiancato da un piano per la gestione delle acque e per creare falde acquifere tramite la riforestazione.
Programmi come un programma spaziale nazionale ed internazionale “fungeranno da volano, l’importante è avere un orientamento per il futuro, nella direzione in cui vogliamo andare. Dobbiamo pensare in termini di due generazioni a venire. Voi giovani: come saranno i vostri nipoti? Che vita avranno? Chi andrà su Marte per primo? Chi riuscirà a tornarci?”
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Giancarlo Bosetti
Religione e politica, una nuova agenda
26-08-2009
Argomenti: Finestra sull’Italia
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano la Repubblica di lunedì 24 agosto, pagina 21, con il titolo “Pluralismo e ora di religione”
La pluralità dell´insegnamento si potrà realizzare almeno in due modi: o con una «ora delle religioni» in chiave storico-antropologica o con opzioni differenziate per fede. Nel primo caso occorre introdurre subito nelle università un corso di laurea di teologia multi-confessionale (e avremo così insegnanti pronti tra una decina d´anni). Nel secondo bisogna mettere mano all´organizzazione concreta delle alternative. Il cambiamento sarà comunque inevitabile: l´immigrazione ha portato già ora in Italia cinque milioni (cinque, ripeto) di persone di varia provenienza, cultura e religione – Asia, Africa, Europa dell´Est, Medio Oriente; al Nord superano il 15% della popolazione e la tendenza ne prevede un aumento nei prossimi anni: gli arrivi andranno a colmare il vuoto che si allarga a causa del pensionamento della generazione post-bellica. E con loro ci sono, e sempre più ci saranno, i bambini.
L´Italia sta cambiando, anche se gli italiani ne parlano solo quando qualche leghista propone di introdurre la segregazione nei trasporti pubblici o ai giardinetti. La situazione la conosce bene quella realistica categoria che sono gli insegnanti. E come potrebbero altrimenti, visto che nelle scuole del Nord-Est i piccoli forestieri sono il 9%, il 13% a Piacenza, Reggio e Modena, il 14% a Mantova, l´11% a Vercelli e Alessandria? (tutti i dati in Nuovi Italiani, di Dalla Zuanna, Farina, Strozza, Il Mulino ed. 2009) Un quinto o poco più di tutta l´immigrazione è di origine musulmana. Lasciando da parte i genitori, ci sono in Italia, residenti, 117mila ragazzi albanesi (maggioranza musulmana), più di 100mila marocchini (maggioranza musulmana), 35mila cinesi (non credenti, taoisti, buddisti), 25mila tunisini (maggioranza musulmana), 19mila serbi (maggioranza ortodossa), 17mila macedoni (due terzi ortodossi, un terzo musulmani), 11mila egiziani (maggioranza musulmana), 17mila indiani (induisti, musulmani). Di quale Italia, di quale religione, di quale scuola stiamo dunque parlando?
Le schermaglie giuridiche tra Tar, Consiglio di Stato, ministero, intorno all´ordinanza del ministro ulivista Fioroni (era il 2007) continueranno perché siamo in una situazione ambigua e inevitabilmente transitoria. E non si potrà non mettere mano a una diversa regolazione dell´insegnamento della religione, soprattutto dando attuazione (e risorse, dunque) agli insegnamenti alternativi. È vero che questo concretamente non è semplice, perché l´immigrazione in Italia non ha elevate concentrazioni omogenee, come accade per i turchi in Germania, ma la «polverizzazione» sta assumendo dimensioni di massa e già ora dunque le minoranze sparse per l´Italia potrebbero far ricorso alle vecchie intese, come quelle già esistenti con ebrei, valdesi, luterani e altri, e alla stessa legge del ´29 sui «culti ammessi», per ottenere dallo Stato insegnamenti diversificati in alternativa al cattolico. Quella legge prevedeva che «quando il numero degli scolari lo giustifichi e quando non possa esservi adibito il tempio, i padri di famiglia possono ottenere che sia messo a loro disposizione un locale scolastico per l´insegnamento religioso dei loro figli». Con i musulmani, che non hanno un´organizzazione centralizzata del culto, occorre promuovere una rappresentanza italiana con la quale realizzare quell´intesa che ancora non c´è. I lavori erano in corso, ma poi il governo Prodi cadde. E ora la Lega ne sta cancellando anche le tracce.
Sorprende la sordità e la cortezza di visione della politica italiana: la destra al governo è o leghista (ovvero del partito che organizza il maiale day in onore della sua visione del mondo, diciamo così, non pluralista) o berlusconiana (e perciò priva di autorità e credibilità nei confronti della Chiesa). Le due componenti hanno elevato inni in campagna elettorale contro la «multietnicità», che è peraltro un dato di fatto. La sinistra è divisa e non riesce a manifestare una visione chiara e coerente di quel che l´Italia è diventata anche in campo religioso, culturale, etnico. Si capisce perché in questa occasione si stia manifestando quella path-dependence lamentata da Giuliano Amato sul Sole-24Ore, ovvero quel riflesso condizionato che assegna ruoli fissi, integralisti clericali contro laicisti, oscurantisti contro biechi illuministi, ripetendo sempre le stesse parti nella stessa commedia. Un surrogato di politica, perché il cammino nuovo è faticoso e la svolta di cui la politica dovrebbe essere capace non è alle viste. Eppure un´intera nuova agenda è da aprire. La discussione sullora di religione ne è parte. Andrebbe assunta come una sfida positiva e bene accolta da tutti. C´è da temere che su entrambi i versanti prevalga il peggio, ma non è detto. Dipende.
Si tratta di vedere se da parte laica si è disposti a rinunciare a una linea di sistematica diffidenza verso la religione: nell´epoca del pluralismo forzato dalla globalizzazione capiterà sempre più spesso che i principi liberali si affermino insieme alle religioni, anziché in contrasto con esse. Strano, vero? Sempre più nel mondo, dall´India all´Europa, si manifesta il contrasto tra un polo progressista, liberale e pluralista (da Sonia Gandhi a Obama) e un polo cultore della purezza delle origini, anti-immigrati, conservatore (dalla destra induista del Bharatiya Janata Party alla Lega di Bossi). E da parte della Chiesa vedremo se la sfida di un mondo interdipendente e plurale, al quale la Caritas in veritate apre le braccia offrendo il suo capitale di solidarietà, sarà accolta come una benedizione del cielo o se prevarrà il riflesso difensivo della minoranza assediata che si rifugia nella sua dottrina esclusiva e dichiara il dialogo impossibile. Come Papa Ratzinger ha fatto l´anno scorso, scrivendo una malaugurata lettera al titolare italiano del «liberalismo etno-cattolico», Marcello Pera.
(ASCA-AFP) – Kandahar, 26 ago – E’ salito ad almeno 40 morti e 65 feriti il bilancio dell’attentato con camion-bomba di ieri a Kandahar. Lo ha reso noto la polizia, accusando i talebani di aver compiuto l’attacco, il piu’ sanguinoso in Afghanistan da quello suicida contro l’ambasciata indiana a Kabul che il 7 luglio 2008 provoco’ la morte di 60 persone.
La grande citta’ di Kandahar e la sua regione sono la culla dei combattenti islamisti e una delle loro roccaforti.
La bomba e’ esplosa poco dopo le 19 in una strada molto affollata in un momento in cui gli abitanti si preparavano a rompere il digiuno del Ramadan, nei pressi di un vasto complesso composto da una sala ricevimenti per matrimoni, boutique, un albergo e degli edifici amministrativi.
Almeno dieci abitazioni sono state distrutte dall’esplosione, molto forte secondo i testimoni, e durante la notte i soccorritori si sono sforzati di estrarre i civili sepolti sotto le macerie.
mlp/cam/rob
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Pervenuto da rossana@comodinoposta.org (25.08.2009)
Sull’intreccio di egemonia-democrazia-internet
Se tramonta il concetto di egemonia
Uno dei paradossi degli ultimi decenni è la riscoperta di Gramsci da
parte degli accademici americani. Li affascina il concetto di «egemonia»
che – nella misura in cui supera l’ opposizione fra struttura economica
e sovrastruttura ideologica – rappresenta forse il contributo più
originale di Gramsci al marxismo. Invece il sociologo canadese Richard
J. F. Day, nel saggio Gramsci è morto (Elèuthera, pp. 247, Euro 20),
invita la sinistra a rinunciare alle aspirazioni egemoniche. La svolta,
scrive, si impone sia perché non esiste più un «soggetto di classe» che
possa promuovere il superamento del capitalismo, sia perché gli attuali
movimenti hanno assunto una prospettiva «minoritaria». Neo femministe,
gay, verdi, pacifisti, neo anarchici rifiutano le pretese
«universaliste»; si aggregano a partire dal riconoscimento reciproco di
affinità; respingono ogni gerarchia e cercano di cambiare la vita «qui e
ora». Day boccia l’ idea di «rovesciare» un sistema capace di integrare
ogni «differenza». Ma resta da vedere se questa strategia del «carpe
diem» abbia qualche chance, se non di cambiare il mondo, di cambiare
qualcosa nel mondo. Carlo Formenti
Se questa è democrazia: intervista a Carlo Formenti
http://www.comunicatoripubblici.it/mobile/index.html?id=165&n_art=4744
Quando le persone scendono in piazza, non è mai semplicemente perché
qualche «outsider» le sta manipolando.
di Immanuel Wallerstein
storie – TEHERAN VISTA DALLA SINISTRA MONDIALE
IRAN INFINITO
Il dibattito sull’esito delle recenti elezioni continua a dividere. Tra
sostenitori e detrattori del regime, le posizioni intermedie sono molte.
Ma non sarà facile giungere a una strategia coerente
Le recenti elezioni in Iran, e le riserve successivamente avanzate sulla
loro legittimità, sono state l’oggetto di un enorme conflitto interno in
Iran e di un dibattito apparentemente infinito nel resto del mondo – un
dibattito che minaccia di protrarsi ancora per parecchio tempo. Tra le
sue conseguenze più affascinanti vi sono le profonde divisioni, in
questo dibattito su scala mondiale, tra persone che si considerano tutte
facenti parte della sinistra mondiale. Le loro opinioni spaziano: si va
dai sostenitori virtualmente incondizionati dell’analisi della
situazione di Ahmadinejad/Khamenei ai detrattori virtualmente
incondizionati, con molteplici posizioni intermedie. Questo ci dice
qualcosa sullo stato della sinistra mondiale, oltre che sullo stato
iraniano.
Cosa è accaduto in Iran? Si sono tenute le elezioni. A quanto pare, la
partecipazione dell’elettorato è stata molto ampia. Il governo ha
annunciato una vittoria schiacciante per il presidente in carica,
Mahmoud Ahmadinejad. I sostenitori degli altri tre candidati hanno
denunciato brogli elettorali. Queste accuse si sono basate
principalmente su due elementi: la rapidità e la mancanza di trasparenza
del conteggio delle schede, e la non plausibilità di alcuni risultati
elettorali se analizzati in relazione alle diverse aree del paese.
L’autorità suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha dichiarato
senza mezzi termini che i risultati del voto erano sostanzialmente
corretti e che quindi le elezioni erano del tutto legittime. Khamenei ha
intimato a tutti di riconoscere la validità dei risultati e di cessare
le contestazioni.
Immediatamente dopo le elezioni, moltissime persone sono scese in strada
per contestare i risultati annunciati e per chiedere un nuovo conteggio
o nuove elezioni. Man mano che le proteste montavano, Ahmadinejad e
Khamenei rispondevano con misure repressive sempre più severe. Le
guardie rivoluzionarie e i cosiddetti Basiji (una sorta di milizia
popolare) hanno fatto pesantemente ricorso alla forza per scacciare i
manifestanti dalle strade, uccidendone alcuni e arrestandone molti altri.
Ad oggi, i personaggi più importanti dell’opposizione – il candidato
alla presidenza Mir-Hossein Mousavi e due suoi sostenitori chiave, gli
ex presidenti Akbar Hashemi Rafsanjani e Mohammad Khatami – continuano
ad affermare che il risultato elettorale non è «legittimo». In questo
sono sostenuti dagli altri due candidati nella corsa alla presidenza,
che hanno ottenuto un numero inferiore di voti.
Che cosa vogliono questi personaggi importanti? Tutti loro si dichiarano
fedeli sostenitori della rivoluzione del 1978-79 e devoti alla
conservazione della Repubblica Iraniana esistente. In breve, non
chiedono un cambiamento di regime. Al contrario, affermano di essere
sostenitori più fedeli dello spirito originale della Rivoluzione
Iraniana rispetto al gruppo attualmente al potere.
Come ha interpretato tutto questo la sinistra mondiale? La situazione
attuale in Iran non è affatto un caso isolato. Dopo tutto, ci sono state
massicce proteste popolari in molti paesi del mondo, in momenti diversi,
per molto tempo. Così, la sinistra mondiale ha a disposizione infinite
analogie per fare raffronti con la situazione iraniana. Per cominciare,
c’è la rivoluzione iraniana del 1978-79. Ma ci sono anche Piazza
Tienanmen in Cina nel 1989, le rivoluzioni del 1968 in infiniti paesi,
le recenti rivoluzioni cosiddette colorate nei paesi ex comunisti, un
gran numero di avvenimenti in diversi paesi latino-americani, e gli
scioperi generali in Francia nel 1995. Volendo, si può andare indietro
fino alla rivoluzione russa e a quella francese.
Di certo, la «sinistra mondiale» – qualunque cosa essa sia – non ha una
visione unitaria sulla maggior parte di queste proteste popolari. Anzi,
si potrebbe dire che uno dei principali problemi della sinistra mondiale
contemporanea è la sua incoerenza collettiva di fronte alla quantità e
alla notevole varietà in concreto di queste proteste popolari.
Una lunga storia di disillusioni
La ragione dell’incoerenza collettiva è triplice. In primo luogo, c’è la
lunga storia delle disillusioni rispetto ai risultati di queste proteste
popolari, specialmente negli ultimi 50 anni. Secondo, c’è l’obiettiva
debolezza organizzativa odierna dei tradizionali movimenti della
sinistra in quasi tutti i paesi. (Le voci principali della sinistra
mondiale oggi tendono in massima parte a essere principalmente o di
intellettuali indipendenti, o di attivisti che si collocano in
organizzazioni molto piccole). In terzo luogo, c’è il fatto che le
analisi della cosiddetta sinistra differiscono fondamentalmente in cosa
si ritiene di dover guardare quando si analizzano situazioni concrete.
Alcune di esse guardano soprattutto alle relazioni tra stati. Quali
sarebbero le conseguenze, in termini geopolitici, se un particolare
governo fosse rimpiazzato da un diverso gruppo di governanti, o se un
regime fosse addirittura trasformato in un diverso tipo di regime? Nel
caso dell’Iran in questo momento, tutti sanno che è in forte conflitto
con gli Usa (e in misura minore con l’Europa occidentale),
principalmente ma niente affatto esclusivamente sulle questioni
nucleari. Il presidente Ahmadinejad è identificato con una posizione
iraniana forte nei confronti degli Stati Uniti. Sia lui sia Khamenei
hanno ripetutamente dichiarato che gli Usa e la Gran Bretagna stanno
dietro le proteste popolari per defenestrare Ahmadinejad a favore di
qualcuno più malleabile dal punto di vista degli Usa. Hugo Chavez ha
offerto il suo sostegno totale ad Ahmadinejad principalmente per questi
motivi.
Questo è un modo plausibile ma limitato di analizzare una situazione.
Dopo tutto, in pochi nella sinistra sosterrebbero l’attuale regime in
Myanmar – che recentemente ha soppresso brutalmente le dimostrazioni dei
monaci buddisti – solo perché il governo Usa assisterebbe con gioia a un
cambio di regime in questo paese.
Oppure è possibile guardare piuttosto alle divisioni di classe
all’interno dell’Iran. Alcune persone, autonominatesi esponenti della
sinistra mondiale, obiettano che i sostenitori di Mousavi sono in larga
misura benestanti e appartenenti alla classe media, mentre i sostenitori
di Ahmadinejad provengono dagli strati popolari. Perciò, dicono, chi è
di sinistra dovrebbe sostenere Ahmadinejad. Altre persone della sinistra
analizzano la situazione diversamente, osservando che questa è solo una
lotta tra due varietà di gruppi privilegiati, e che il consenso di cui
gode Ahmadinejad nelle zone più povere di Tehran è in larga misura il
risultato di un populismo dall’alto (o, ancor peggio, di panem et
circenses alla Berlusconi). Altre ancora sottolineano le realtà etniche
negli strati più poveri, affermando che le aree rurali dove non si parla
il farsi, e/o non sciite, sono tagliate fuori dalla distribuzione
populista, oppresse e ostili a Ahmadinejad, che rappresenta, dicono,
solo il gruppo etnico dominante.
Inoltre molti, nella sinistra, sono fondamentalmente anticlericali, e
rifiutano di riconoscere la legittimità di qualunque regime basato su un
ruolo centrale del clero. Essi ci ricordano anche che l’attuale regime
iraniano ha sistematicamente eliminato tutti i partiti di sinistra non
islamici negando loro qualunque ruolo: anche quei partiti che
sostenevano la defenestrazione dello Shah. Il Tudeh, il Partito
comunista iraniano, ha condannato i risultati elettorali e ha appoggiato
le richieste di Mousavi nonostante le sue riserve su di lui.
Ci sono due cose da dire sulle sollevazioni popolari, ovunque esse si
verifichino. La prima è che non è mai facile per la popolazione scendere
in piazza per chiedere a un governo di cambiare la sua politica. Tutti i
governi sono disposti a usare la forza contro queste richieste, alcuni
più prontamente di altri. Perciò, quando le persone scendono in piazza,
non è mai semplicemente perché qualche «outsider» le sta manipolando.
Quando la Cia, nel 1953, ha organizzato un colpo di stato in Iran, non
lo ha fatto inducendo gli iraniani a scendere in piazza. Lo ha fatto
lavorando dietro le quinte con i militari. Bisognerebbe rispettare
l’autonomia politica dei gruppi che, scendendo in piazza, rischiano in
prima persona. È troppo facile chiamare in causa agitatori esterni.
La seconda cosa da dire sulle sollevazioni popolari è che esse sono
sempre e inevitabilmente il prodotto di una commistione di molti
elementi. Alcuni dei manifestanti esprimono rivendicazioni immediate e
specifiche. Alcuni mirano a cambiare il gruppo di governo, ma non il
regime in quanto tale. Alcuni vogliono cambiare il regime, cioè
rovesciarlo. Raramente le dimostrazioni popolari sono state composte da
un gruppo di persone ideologicamente coerente. Le sollevazioni
normalmente si verificano solo in presenza di simili commistioni. Ma
questo significa sempre che l’esito successivo alla sollevazione è di
per sé incerto. Perciò la sinistra mondiale deve fare attenzione,
nell’offrire sostegno morale e politico alle sollevazioni popolari.
I tempi in cui viviamo sono molto caotici. Una strategia coerente per la
sinistra mondiale non è impossibile. Ma non sarà facile. E non è stata
ancora raggiunta. Le conseguenze mondiali della lotta interna all’Iran
non sono chiarissime. La sinistra mondiale non deve restare in silenzio,
ma deve essere prudente.
Copyright Immanuel Wallerstein, distribuito da Agence Global
OLANDA
Legami con Ahmadinejad, licenziato Ramadan
Per incompatibilità con il suo programma «Islam and life», trasmessa
dall’emittente filogovernativa iraniana PressTv, il comune di Rotterdam
ha deciso ieri di licenziare l’islamologo svizzero di origini egiziane
Tariq Ramadan, che da due anni era consulente speciale per
l’integrazione dei musulmani. L’accusa è di aver dedicato una puntata
alla discriminazione nelle università europee nel giorno in cui la
protesta divampava a Tehran e Neda Agha Soltan veniva uccisa. Lui ha
sempre sostenuto che PressTv gli lascia «la libertà di affrontare
qualsiasi argomento», che «non ha mai avuto a che fare con il governo» e
che «la repressione e l’assassinio dei cittadini vanno condannati». In
una lettera inviata ieri al quotidiano «Nrc-Handelsblad» Ramadan
aggiunge: «Più che sulla mia persona la polemica la dice lunga sulle
allarmanti condizioni della politica olandese».
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05.08.2009
Altinum, la Venezia romana
I ricercatori dell’Università di Padova hanno trovato l’antico porto del I secolo a.C, ancora sepolto alle spalle della laguna. Le immagini agli infrarossi su Science
http://www.flickr.com/photos/34146259@N04/sets/72157621961510450/show/
Una città invisibile, alle spalle di Venezia, riportata alla luce dalle telecamere a infrarossi dei ricercatori del Dipartimento di geografia dell’Università di Padova guidati da Andrea Ninfo. Il nome della città è Antinum, un antico porto romano risalente al primo secolo a.C., le cui immagini sono ora su Science.
I ricercatori italiani erano certi che la città fosse proprio lì dove è stata trovata ma non riuscivano a vederla perché, come si vede nelle fotografie, tutta l’area è ricoperta da piantagioni di mais e soia. È stata la siccità del 2007 a permettere che le fotografie aeree scattate nell’infrarosso vicino e nel visibile rivelassero le strutture presenti nel sottosuolo, mostrando il volto della città scomparsa.
L’insediamento romano, all’intersezione delle antiche via Annia e Augusta, appare nelle foto come una piccola Venezia. Nelle immagini appaiono i contorni dettagliati delle mura della città, monumenti, teatri, edifici e strade, oltre a una complessa rete di fiumi e canali, prova dell’ingegno degli antichi abitanti per dominare la laguna. “È l’insediamento romano più vasto dell’Italia settentrionale e tra i pochi in Europa a non essere stato sepolto da città medioevali o da costruzioni moderne”, sottolinea Ninfo.
Questa città, grande quanto Pompei (circa un chilometro quadrato), è stata abbandonata tra il quinto e il settimo secolo d.C quando gli abitanti colonizzarono le isole più a nord per fuggire dai barbari. Nel corso del tempo, le pietre e i mattoni di Altinum sono serviti per la costruzione dei palazzi e delle chiese di Venezia e le rovine sono state progressivamente sommerse dalla laguna (qui il link al video pubblicato dalla BBC)
Riferimento:Science DOI: 10.1126/science.1174206
Credit immagini: A. Ninfo, Università di Padua
di Alessandro Desgus
http://www.galileonet.it/multimedia/11778/altinum-la-venezia-romana
Draghi: “Dal 2010 si torna a crescere”
Il governatore della Banca d’Italia: “Crisi alla fine, ma resta l’incertezza e molte imprese rischiano di fallire”. Al governo: alzare età delle pensioni
RIMINI
La crisi economica, che non è finita ma «sta rientrando», lascia per l’Italia «un’eredità pesante». Soprattutto per quelle imprese che «rischiano la sopravvivenza». Ma il Paese può farcela, puntando sulle riforme strutturali che agiscano sul capitale umano, sul mercato del lavoro e sul divario nord-sud. Perchè «non partiamo da zero» e, anzi, «possiamo muovere da posizioni di vantaggio». Il Governatore della Banca d’Italia, dal palco del meeting di Cl di Rimini, lancia un messaggio di “ragionato” ottimismo. Supportato anche dalle previsioni macroeconomiche, con il pil che «seppur di poco, tornerà a crescere nel 2010».
Il numero di Via Nazionale, che incassa ripetutamente gli applausi della platea dei ciellini, invita comunque alla cautela: «Ci sono ancora segnali di incertezza» a livello globale e «l’uscita dalla crisi per noi è difficile», osserva, prima di chiarire: «non direi che la crisi è passata perchè è passata quando si torna al punto di prima», come ha sostenuto la cancelliera tedesca Angela Merkel. «Abbiamo qualche rondine ma attenzione a non scambiare la prima rondine per primavera», avverte il Governatore. Per Draghi sono tre i fattori chiave per portare l’Italia fuori dalle secche: la stabilità finanziaria, le riforme strutturali e la crescita. «Senza stabilità finanziaria non si va da nessuna parte» perchè «una buona tenuta dei conti è indispensabile per la crescita» e «senza la crescita non si esce dalla situazione di alto debito pubblico», osserva il numero uno di Via Nazionale. Che cita il dato sul rapporto debito/pil: «nel 2010 sarà al 118% a causa della caduta del denominatore, cioè il prodotto».
Dalla crisi, insiste Draghi, «non si esce aumentando le tasse ma con la crescita». Un concetto che ricorre nelle analisi del Governatore, almeno quanto il richiamo alle riforme. «Con la crisi i problemi di struttura della nostra economia si sono fatti più urgenti. Un mero ritorno ai deboli ritmi di crescita degli anni precedenti ci condannerebbe a un arretramento ancora più netto nel novero dei paesi avanzati. È necessario muoversi nella prospettiva di una ricostruzione della struttura economica del Paese», afferma il numero uno di Via Nazionale. I problemi strutturali della nostra economia, spiega, «numerosi e noti da tempo, si annidano nei campi più vari: formazione del capitale umano, efficienza della pubblica amministrazione, infrastrutture materiali e immateriali, concorrenza, squilibri territoriali, mercato del lavoro; se ne trovano anche in ambiti non economici ma fortemente in grado di influenzare la performance del sistema economico, come la protezione sociale, la giustizia, la criminalità organizzata».
Poi, Draghi ne individua tre, di «grande rilevanza», su cui «ci sono analisi molto recenti che arricchiscono la nostra conoscenza, anche sotto il profilo della policy». Sono il capitale umano e il sistema dell’istruzioni, in cui «occorrono merito, competizione, informazione, qualità», il mercato del lavoro e la protezione sociale, e Draghi chiede «una riforma organica del sistema degli ammortizzatori che elimini l’attuale frammentazione delle tutele», gli squilibri nord-sud, per cui «occorrono politiche generali specie nei campi della sanità, giustizia e servizi pubblici». Parlando del capitale umano, il Governatore fa riferimento alla necessità di puntare sul merito e l’equità. In Italia, osserva, «si è creato un circolo vizioso, un cattivo equilibrio: i limitati rendimenti scoraggiano l’investimento e impediscono di raggiungere i livelli dei paesi più avanzati; a sua volta ciò frena la capacità di innovare e di adottare quelle tecnologie complementari al capitale umano che ne accrescono la domanda e i rendimenti». E, rileva il numero uno di Via Nazionale, «una delle ragioni di fondo di questo stato di cose è la qualità insufficiente del sistema dell’istruzione in Italia e, in particolare, la sua scarsa capacità di segnalare il merito degli studenti in termini di talento, motivazione, applicazione. Il fenomeno è più accentuato nel Mezzogiorno. È necessario che il voto sia un segnale affidabile dei livelli di apprendimento».
Quanto al mercato del lavoro, Draghi non si sottrae al dibattito di stretta attualità sugli assetti contrattuali. «Non si tratta di imporre vincoli aggiuntivi al processo di determinazione dei salari con il ripristino delle cosiddette gabbie salariali, ma al contrario di conseguire gradi più elevati di decentramento e di flessibilità nella contrattazione», spiega, evidenziando che «le parti sociali si sono progressivamente orientate in questo senso, da ultimo con l’accordo recente che prevede un maggior peso della contrattazione di secondo livello». Con riferimento alla necessità di una maggiore corrispondenza fra retribuzioni e condizioni di impresa, «credo che oggi stiano maturando le condizioni per compiere progressi importanti», prosegue Draghi, aggiungendo che «si è recentemente discusso sulle possibili implicazioni per il sistema di contrattazione salariale dell’esistenza di divari fra Nord e Sud nel livello dei prezzi e nei salari; secondo le nostre stime nel settore privato i livelli dei salari reali non sarebbero peraltro molto discosti». Il tema della tenuta del mercato del lavoro è poi strettamente legato alla a quello della salute delle aziende. E, su questo fronte, Draghi suona un campanello d’allarme: «non poche imprese, soprattutto quelle più esposte verso gli intermediari finanziari, che avevano avviato prima della crisi una promettente ristrutturazione, colte a metà del guado dal crollo della domanda, potrebbero veder frustrato il loro sforzo di adeguamento organizzativo, tecnologico, di mercato e rischiano la stessa sopravvivenza». Se così fosse, avverte il numero uno di Via Nazionale, «si aggraverebbe la perdita di capacità, potenziale e attuale, del sistema». E «un deterioramento prolungato del mercato del lavoro potrebbe compromettere la ripresa dei consumi e depauperare il capitale umano».
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/200908articoli/46713girata.asp
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27.08.2009
Immigrati, risorsa che va governata
MARIO DRAGHI
Nell’azione di ricostruzione non partiamo da zero. Possiamo anzi muovere da alcune posizioni di vantaggio. Molte imprese sono state capaci di avviare un processo di ammodernamento tecnologico e organizzativo, anche migrando dal comparto originario per entrare in segmenti connotati da più elevata intensità tecnologica dei prodotti, come hanno mostrato le indagini della Banca d’Italia.
Il ritardo di competitività che si è accumulato dalla metà degli Anni Novanta è ancora ampio, ma il quadro che emerge è dinamico. Ciò indica che non pochi imprenditori sanno ancora far bene il loro mestiere. […]
Disponiamo poi di una altra risorsa, potenzialmente di grande rilevanza per la nostra economia, la disponibilità di lavoro straniero; ma potremo utilizzarla solo se saranno governati i gravi problemi che essa pone sotto il profilo della integrazione sociale e culturale. Fino agli Anni Ottanta il saldo migratorio dell’Italia è stato negativo; negli ultimi venti anni il numero di stranieri residenti è progressivamente salito fino a 3,4 milioni all’inizio del 2008 (il 6 per cento della popolazione). Tenendo conto delle persone presenti ma non iscritte alle anagrafi e di quelle che non dispongono di un permesso di soggiorno, il numero complessivo dovrebbe essere pari alla stessa data a circa 4,3 milioni.
I cittadini stranieri in Italia sono in media più giovani e meno istruiti degli italiani ma partecipano in misura maggiore al mercato del lavoro e svolgono mansioni spesso importanti per la società e l’economia italiane, anche se poco retribuite. Non si rilevano d’altra parte conseguenze negative apprezzabili sulle prospettive occupazionali degli italiani, un risultato che emerge dalla grande maggioranza degli studi svolti nei Paesi a elevata immigrazione. Affinché la nostra economia colga appieno l’opportunità offerta dal lavoro straniero occorre combattere la tendenza alla marginalizzazione degli studenti stranieri in atto nel sistema di istruzione italiano. La segnalano i ritardi di apprendimento, significativi già nella scuola primaria, e gli elevati tassi di abbandono nei gradi scolastici successivi; vi contribuisce solo in parte l’esposizione a contesti familiari meno favorevoli. Esercizi basati su recenti proiezioni demografiche dell’Istat suggeriscono che entro il 2050 circa un terzo delle persone residenti in Italia con meno di 24 anni avrà almeno un genitore straniero, un valore in linea con quello registrato oggi negli Usa e in Canada. Questo significa che la componente straniera della popolazione contribuirà in misura significativa a determinare il livello e la qualità del capitale umano su cui si fonderà la nostra economia, condizionandone il ritmo di crescita.
Un terzo punto di forza discende dai primi interventi messi in cantiere negli ultimi anni. Sono stati compiuti passi significativi per avviare riforme nel settore del mercato del lavoro e dell’istruzione nonché nella direzione di rafforzare la concorrenza in alcuni settori tradizionalmente «protetti», generando benefici apprezzabili per i consumatori e per l’occupazione. La recente riforma della pubblica amministrazione s’incentra su un largo spettro di interventi e pone al centro importanti principi quali la trasparenza e il collegamento fra retribuzione e performance; gli effetti sulla qualità dell’azione amministrativa dipenderanno naturalmente dalle modalità di attuazione.
Una riforma ancora più impegnativa, il federalismo fiscale, avrà riflessi diretti su tutti i problemi strutturali italiani, in particolare sui tre di cui ho brevemente detto: capitale umano e sistema di istruzione, mercato del lavoro e protezione sociale, gli squilibri Nord-Sud. Essa può contribuire in misura decisiva a una allocazione più efficiente dei compiti affidati ai vari livelli dell’amministrazione pubblica. La Banca d’Italia ha sottolineato più volte come la condizione necessaria affinché il federalismo fiscale produca i benefici che se ne attendono è che esso sia effettivo e non virtuale, cioè che si stabilisca un collegamento stretto fra decisioni di spesa e decisioni di entrata, fermo restando il principio di solidarietà. […]
L’apertura alle capacità, ai talenti, al merito, alla concorrenza è un valore oggi condiviso da una grande maggioranza; è il mezzo principale per contrastare corporazioni, rendite, clientele che gravano sulla crescita del Paese.
L’eguaglianza delle opportunità è uno strumento che avvantaggia anche i meno capaci, grazie all’incremento di efficienza conseguito dal sistema nel suo complesso. Essa implica però il rischio che vantaggi e svantaggi sociali siano generati dalla distribuzione naturale dei talenti o dalle diverse possibilità di sviluppo di questi ultimi determinate da contesti sociali e familiari disomogenei. Occorre quindi una istanza compensativa di natura etica, ispirata all’ideale di solidarietà.
Il rapporto fra la ricerca umana di benessere materiale e la carità cristiana, affrontato da ultimo anche dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI, percorre la dottrina sociale della Chiesa cattolica. Valutazioni di natura etica compaiono sempre più spesso anche nella ricerca teorica in economia.
I tre problemi di struttura dell’economia italiana che ho prima evocato richiedono allo stesso tempo apertura al merito e solidarietà, ricerca dell’efficienza e equità. […]
Le opzioni di politica economica che abbiamo di fronte si situano in un terreno comune, condiviso: un bene di grande valore per uscire dalla crisi con slancio e riprendere quella crescita che il Paese ha saputo sostenere nell’arco di un trentennio dopo la guerra.
* Questo è uno stralcio del discorso che il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha tenuto ieri al Meeting di Rimini
http://www.telesurtv.net/noticias/secciones/nota/56489-NN/hondurenos-convocan-jornada-mundial-contra-el-golpe-de-estado/
Il faro dell’Antitrust si punta su Google Italia
Già avviata un’istruttoria per possibile abuso di posizione dominante
ROMA
Google Italy è sotto indagine per possibile abuso di posizione dominante. L’Authority ha deciso infatti «di avviare un’istruttoria nei confronti di Google Italy per verificare se i comportamenti della società, in considerazione della sua indiscussa predominanza nella fornitura di servizi di ricerca online, siano idonei a incidere indebitamente sulla concorrenza nel mercato della raccolta pubblicitaria online e a consolidare la sua posizione nella intermediazione di spazi pubblicitari».
Il procedimento, spiega l’Antitrust, «notificato oggi alla società nel corso di un’ispezione condotta in collaborazione con le unità speciali della Guardia di finanza, è stato avviato alla luce di una segnalazione della Fieg relativa al servizio Google News Italia, con il quale Google aggrega, indicizza e visualizza parzialmente notizie pubblicate da molti editori italiani attivi online».
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27.08.2009
Beppe Grillo
I giornali contro Google
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, attivata dalla Federazione Italiana Editori Giornali (FIEG) in merito a Google News Italia, vuole: “verificare se i comportamenti della società, in considerazione della sua indiscussa predominanza nella fornitura di servizi di ricerca online, siano idonei a incidere indebitamente sulla concorrenza nel mercato della raccolta pubblicitaria online e a consolidare la sua posizione nella intermediazione di spazi pubblicitari“. Google impedirebbe agli editori di scegliere le modalità di pubblicazione delle notizie su Google News e chi non vi vuole comparire per sua scelta sarebbe escluso dal motore di ricerca. Corrado Calabrò, presidente dell’Authority da maggio 2005 non si è ancora accorto della “posizione nella intermediazione di spazi pubblicitari” di Mediaset. Forse non sa che dispone di TRE frequenze nazionali per la cui concessione paga meno di una cippa allo Stato? E che lo psiconano possiede anche la Mondadori e come presidente del Consiglio influenza radio e televisioni di Stato? E che i giornali della FIEG vivono solo grazie ai finanziamenti pubblici dello Stato fregandosene di ogni legge di mercato? Diamogli tempo…
http://www.beppegrillo.it/2009/08/i_giornali_contro_google.html?s=n2009-08-27
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09.04.2009
Google è alleato dei giornali
Il CEO Eric Schmidt propone agli editori un patto per costruire insieme i giornali di domani. Mountain View ribadisce che i link non sono nocivi
Roma – Il suo era l’ultimo – e il più atteso – degli speech in programma al meeting annuale degli editori americani. Ed Eric Schmidt lo ha gestito con grande equilibrio. Ha lodato il ruolo dei giornali, li ha invitati a raccogliere le sfide poste dall’innovazione ma, soprattutto, ha confermato l’intenzione di Mountain View di cooperare con loro per rinnovare il giornalismo.
Nel corso del discorso, tenutosi nella mattinata di martedì, Schmidt ha toccato diversi temi. Ha parlato di innovazione tecnologica – dilungandosi in particolare sul cloud computing e sui contenuti generati dagli utenti – ma si è soffermato anche sull’esigenza di ripensare i modelli di business della carta stampata per fare i conti con la rete. “Il punto vero – ha detto senza mezzi termini – è capire cosa i vostri lettori vogliano realmente. Perché se li fate arrabbiare, li perderete tutti in un batter d’occhio”.
Secondo Schmidt i giornali avrebbero bisogno di mettere a punto dei prodotti editoriali di tipo nuovo. Che coinvolgano maggiormente i lettori e li spingano ad andare oltre la lettura delle poche righe di uno snippet. E Google, ha affermato subito dopo intende porsi come alleato dei giornali in questa partita: “Pensiamo – ha spiegato – di poter lavorare insieme con voi per costruire un nuovo modello di giornalismo. Questa è l’unica soluzione che vedo come praticabile”.
A livello pratico il CEO di BigG ha preconizzato un modello di business “stratificato”, che si sostenga attraverso una combinazione di contenuti gratuiti, sottoscrizioni e micro-pagamenti. Anche se, ha aggiunto Schmidt subito dopo, la chiave per raggiungere i grandi numeri è e resta la raccolta pubblicitaria.
Questa è stata la prima apparizione di Schmidt al meeting annuale della Newspaper Association of America, la potente associazione degli editori statunitensi. E il momento non era dei più semplici. Solo il giorno prima, infatti, Associated Press aveva ufficialmente e pesantemente attaccato Google e gli altri aggregatori Internet, accusandoli di rubare traffico ai giornali.
E anche su questo punto, l’uomo venuto da Mountain View non si è sottratto al confronto. Rispondendo ad una delle domande provenienti dal pubblico ha chiarito che BigG si ritiene un alleato (e non un avversario) dei giornali: “Abbiamo un accordo da molti milioni di dollari con AP. Un accordo che non riguarda soltanto la distribuzione ma anche l’hosting delle notizie. Ragion per cui le notizie delle ultime 24 ore mi hanno lasciato un po’ confuso”.
La posizione ufficiale di Google in proposito è stata ulteriormente chiarita in un post comparso sul blog aziendale di Mountain View. Il Consigliere Generale per i Prodotti e la Proprietà intellettuale Alexander Macgillivray, conferma che “Google e gli altri siti del nostro gruppo portano gli utenti sui siti dei giornali con numeri che superano il miliardo di click mensili. E questi click arrivano a tutti i tipi di giornali – grandi come piccoli, nazionali come internazionali – ed arrivano ventiquattr’ore al giorno”.
Giovanni Arata
http://punto-informatico.it/2597677/PI/News/google-alleato-dei-giornali.aspx
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I dati confermano la fine del declino
La matematica fa di nuovo sognare
Odifreddi: «Le facoltà scientifiche rispondono a una domanda di verità». E aprono al mercato estero
Le citazioni da cui far partire un discorso sull’aritmetica sarebbero ovviamente infinite come i numeri, ma diciamo che Galileo riassume il concetto per tutti: «La filosofia contenuta nel grandissimo libro dell’Universo è scritta in lingua matematica, senza i cui mezzi è impossibile intenderne umanamente parola». Ora, è certamente verosimile pensare che il formidabile aumento degli iscritti a Matematica registrato presso le università italiane negli ultimi anni (più 70 per cento dal 2004 a oggi) sia dovuto a molto più di un singolo fattore. Magari c’entrano gli incentivi che il ministero ha varato sin dal 2006 per la promozione delle facoltà scientifiche, Fisica e Chimica comprese: ci mancherebbe. E può darsi pure che tutto quanto è «scientifico », forse, oggi ispiri a un giovane più prospettive di lavoro rispetto a ciò che invece è «umanistico»: chissà. E infine una laurea scientifica, probabilmente, viene sempre più vista da un certo numero di studenti come il passaporto migliore per scappare all’estero il giorno in cui proprio non ne potranno più di star qui. Ma fermatevi un attimo. Aggiungete a tutte queste riflessioni un pensiero su quanti libri di argomento matematico, in questi anni, hanno scalato e scalano le classifiche. E ancora: ricordate il successo di un film come A beautiful mind, sulla vita del premio Nobel John Nash? E avete presente una serie poliziesca come Numb3rs, addirittura vincitrice del «National Science Board’s Public Service Award»? Ecco, forse adesso si può ritornare ai numeri universitari di cui sopra e chiedersi se dietro questa sete di scienza e soprattutto di matematica, ancor più evidente se accostata al calo- record delle matricole italiane nel loro insieme (312 mila in tutto, mai così poche da sette anni), non ci sia anche qualcosa d’altro.
La risposta di Piergiorgio Odifreddi, che matematico lo è per mestiere e alla matematica dedica da tre anni un intero Festival (60 mila studenti presenti all’ultima edizione in marzo), è molto netta: «La matematica oggi attrae perché risponde a una domanda di verità. Perché nel Medioevo la chiave di interpretazione del mondo era la teologia, e oggi la teologia non risponde più a quelle domande». La matematica sì? «Ripeto anch’io Galileo: la matematica è la lingua dell’Universo. Ci offre punti fermi per capire. E l’uomo ne ha bisogno, di punti fermi. Oggi più che mai». Intendiamoci: proprio matematica, non semplicemente scienza o tecnologia. E, del resto, il fatto che «dimostrazione matematica» e «prova scientifica» non fossero sinonimi era ben spiegato proprio in uno dei bestseller aritmetici di quest’era, L’ultimo teorema di Fermat (Bur) con cui Simon Singh ha trasformato una formula in un caso letterario: le dimostrazioni matematiche — diceva il protagonista — si reggono su un procedimento logico e restano vere fino alla fine dei tempi, mentre la prova scientifica si fonda su osservazione e percezione, entrambe fallibili, pertanto fonti di verità provvisorie e comunque approssimate. Se il punto è davvero questo, la domanda o anche solo la curiosità di verità matematiche è aritmeticamente provata dalle vendite. Il mago dei numeri di Hans Magnus Enzensberger (Einaudi), nato come libro per bambini, è divenuto un cult da 100 mila copie, lette più che altro dai loro genitori; l’astrofisico israeliano Livio Mario, dopo il volumetto dedicato a L’equazione impossibile (Rizzoli) nel 2006, ha quindi trovato nel 2008 migliaia di ammiratori della «sua» Sezione aurea (in realtà di Pitagora prima e di Fibonacci poi), edita dalla Bur, sino ad affermare con l’ultimo titolo appena tradotto in Italia che Dio è un matematico (Rizzoli). E d’altronde Umberto Eco, che è arrivato a consigliare come «libro da spiaggia» L’enigma dei numeri primi (Bur) scritto nel 2004 dal matematico americano Marcus du Satoy, in qualche modo aveva concordato in anticipo: «Trovare la regola per prevedere la successione dei numeri primi — affermò nella sua recensione—sarebbe l’unico modo per provare non dico l’esistenza ma almeno la possibilità di Dio». Odifreddi, da sempre, è ancora più categorico: «Se la matematica e la scienza prendessero il posto della religione il mondo diventerebbe un luogo più sensato». Insiste: «È la matematica la vera religione, il resto è superstizione». Borges forse lo avrebbe espresso in modo più elegante: «La teologia è un ramo della letteratura fantastica».
Detto questo, non è che la matematica non abbia i suoi problemi. «L’insegnamento della matematica — dice Odifreddi — andrebbe completamente ristrutturato a partire dalle elementari: se malgrado tutto ci sono tante persone che hanno una tale avversione per i numeri, qualche motivo ci sarà. Non a caso nel nostro Festival abbiamo sempre inserito una componente notevole di giochi e curiosità destinate specificamente ai bambini». Giulio Giorello, docente di Filosofia della scienza e prima filosofo che matematico, lo segue a ruota in toni persino più ruvidi: «Se alle persone normali non interessa la scienza — dice citando John Stuart Mill — eliminiamo le persone normali e promuoviamo solo le esperienze di vita eccezionali». Fa una pausa e riprende: «Scherzi a parte, è chiaro che bisogna iniziare dai bambini. E il processo che non passa tanto dalla scuola quanto dai libri, dai giornali e anche dai fumetti». Il che riporta al punto di partenza: fossero solo le cifre dell’università sarebbe un discorso, ma il contesto testimonia qualcosa di più. «La divulgazione scientifica — dice Giorello — quando è fatta bene è un atto politico».
Fine dell’umanesimo allora? E come rispondere a chi per anni ha ripetuto che proprio le civiltà ipertecnologiche hanno grande bisogno di umanisti, perché «la scienza spiega i come ma solo la filosofia cerca i perché?». Odifreddi in realtà non vede la contrapposizione: «La cultura è una, non è fatta a compartimenti stagni. E forse, al limite, sono tradizionalmente alcuni umanisti a considerare la scienza come semplice accessorio. In genere è l’umanesimo che tende a monopolizzare il dibattito, matematici e scienziati sono spesso più aperti». Perché in fondo, ricorda in conclusione, la matematica è davvero «parte » di tutto: un quadro è fatto di proporzioni e prospettiva, i tempi della musica sono definiti in frazioni, il «penso dunque sono» di Cartesio fu partorito dalla mente di un matematico. Così come matematico era Leibniz, il filosofo secondo cui «amare è mettere la nostra felicità nella felicità di un altro»: come si fa a sostenere, se è così, che la matematica è una materia arida?
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Energia-Fonti rinnovabili
26.08.2009
Un pieno di cocomero
Il frutto più amato dell’estate è anche un’insospettabile fonte economica ed ecosostenibile di biocombustibili
Questa volta la sorpresa non è racchiusa nel tradizionale uovo di Pasqua, ma nei cocomeri che ricoprono i campi durante l’estate. Wayne Fish e il suo gruppo di ricerca del South Central Agricultural Research Laboratory di Lane (Oklahoma, Usa) è riuscito a produrre etanolo a partire dai frutti che vengono esclusi dal commercio perché di forma imperfetta. Un procedimento che, secondo gli autori dello studio pubblicato sulle pagine della rivista “Biotechnology for Biofuels”, permetterà di ottenere i biocombustibili a partire da scarti delle coltivazioni non utilizzati nell’alimentazione umana e animale.
Ogni anno, negli Usa, i cocomeri che non vengono messi in commercio perché imperfetti sono circa il 20 per cento della produzione: nel 2007 questo ha significato ben 360 mila tonnellate di frutta, il cui succo potrebbe essere un’importante fonte di bioetanolo. Infatti, l’anguria è formata per il 60 per cento da una polpa ricca in zuccheri (dal 7 al 10 per cento di glucosio, fruttosio e saccarosio) da cui è possibile ricavare un succo facilmente fermentabile. Il prodotto di questa fermentazione è proprio l’etanolo; gli autori della ricerca sono riusciti a ottenerne fino a 220 litri per ogni ettaro di terreno coltivato a cocomeri.
“Il succo di anguria, inoltre, può essere facilmente integrato ad altre materie prime più concentrate, per cui sarebbe un diluente e una fonte supplementare di materiale e di azoto”, viene spiegato dai ricercatori. Infatti altre fonti di zuccheri fermentabili, come le melasse e la canna da zucchero, devono essere diluite prima della fermentazione; dallo studio emerge che farlo con il succo di cocomero, anziché con acqua, migliora il processo perché aggiunge al materiale di partenza un’ulteriore quantità di zuccheri e un’importante fonte di amminoacidi. Questi ultimi servono da nutrimento al lievito responsabile della fermentazione ed evitano l’aggiunta di altri integratori, abbattendo i costi del procedimento. Infine, prima della fermentazione i ricercatori sono riusciti a ottenere dal succo due importanti nutrienti, il licopene e la citrullina. Il succo che rimane dopo questa estrazione, però, è ancora utilizzabile per la produzione di bioetanolo, ma solo come diluente.
A questo punto, resta solo da scegliere se fermentare il succo raccolto direttamente nei luoghi di coltivazione per produrre etanolo o estrarre i nutrienti e utilizzare il succo rimanente per diluire le melasse e la canna da zucchero. (si.sol.)
http://www.galileonet.it/news/11790/un-pieno-di-cocomero
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26.08.2009
Dottor Twitter
La salute entra nel mondo dei social network. Sempre più medici, ospedali e organizzazioni sanitarie usano piattaforme online per raggiungere colleghi e pazienti
Un tweet per segnalare un’emergenza in arrivo al pronto soccorso, uno per ricordare ai pazienti di prendere le medicine e uno per segnalare la pubblicazione di uno studio importante. Dopo la politica, anche la medicina ha fatto il suo ingresso nel mondo del social networking. Ad analizzare il fenomeno un articolo della rivista “Telemedicine and e-Health”, che mostra come l’uso delle nuove piattaforme online sia ormai diffuso a diversi livelli della comunità medica: individuale, ospedaliero e istituzionale.
Dal punto di vista del singolo medico, per esempio, twitter può essere utile per comunicare con i membri del proprio staff (come con un’email o un istant message), per essere informati di meeting e conferenze o per scambiarsi informazioni mediche e consulenze con colleghi. “È un ottimo mezzo per restare aggiornato su particolari argomenti relativi alla pratica quotidiana”, ha spiegato Michael Lara, psichiatra e neurologo di Belmont in California.
La caratteristica principale dei social network, e quella più apprezzata dagli ospedali, è però quella di riuscire a raggiungere un gran numero di persone contemporaneamente. Attualmente sono 255 gli ospedali negli Stati Uniti che adoperano una piattaforma e 167 quelli che hanno un account su twitter. Uno degli obiettivi principali di questo utilizzo è creare una rete tra ospedale, medici che ci lavorano, pazienti, altri ospedali e centri sanitari nella regione. Altre finalità sono aggiornare il pubblico sui servizi, inviare link ad articoli e studi interessanti, rispondere alle domande degli utenti. Non tutti gli ospedali però dispensano consigli on line: l’uso dei nuovi media da parte di istituzioni simili necessita di un alto livello di precauzioni in termini di privacy, per il trattamento di informazioni riservate.
A servirsi dei social network sono anche organismi come i Centers for Disease Control & Prevention (deputati a controllare la sanità pubblica negli Stati Uniti), per fornire informazioni attendibili e utili al grande pubblico in momenti di emergenza, come è successo nel caso della febbre suina. Durante il pericolo di epidemia i tre account twitter del centro erano costantemente aggiornati con informazioni sullo stato della diffusione del virus e con suggerimenti e consigli.
Twitter però è solo la più famosa di queste piattaforme sul web. Ne esistono diverse altre forse ancora più utili in ambito medico-sanitario, ma meno note. È il caso di TrialX, un servizio che aiuta i pazienti a trovare studi clinici online e a entrare in contatto con gli autori delle ricerche e con altri pazienti.
Fonte: Telemedicine and e-Health DOI: 10.1089/tmj.2009.9955
http://www.galileonet.it/news/11789/dottor-twitter
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26.08.2009
Lo Shuttle inciampa su una valvola
Ai tecnici servirà del tempo per capire la natura del guasto del Discovery. Nel frattempo resta ancora a terra mentre fallisce il lancio di un satellite coreano
Roma – Una valvola difettosa ha tenuto a terra per la seconda volta lo Shuttle Discovery, impegnato nella missione STS-128 che dovrebbe portare sulla ISS il modulo Leonardo.
Il problema è stato rilevato dai tecnici durante le normali procedure di controllo: dopo aver azionato il comando della valvola del comparto motori gli strumenti non ne hanno rilevato la chiusura. Secondo il capo del controllo missione Mike Moses il problema potrebbe essere relativo a un guasto elettrico, che richiederebbe poco tempo per essere sistemato.
Tuttavia per esaminare la valvola, al fine di verificarne l’integrità, è necessario vuotare il serbatoio del carburante per motivi di sicurezza. Pertanto il lancio non potrà avvenire prima di venerdì.
Due astronauti dell’equipaggio hanno esternato il proprio disappunto su Twitter, seguendo la moda lanciata da Astro Mike lo scorso maggio, durante la missione dello Shuttle Atlantis.
Dall’altra parte del mondo, precisamente in Corea Del Sud, i tecnici che supervisionavano il primo lancio di un razzo dalla penisola asiatica hanno definito l’esordio del vettore Naro un successo a metà.
Il lancio è stato perfetto, ma il satellite custodito all’interno del razzo non è stato posizionato correttamente: il distacco doveva avvenire ad un’altitudine di 302 km per farlo entrare nell’orbita prestabilita. Tuttavia per una causa su cui i tecnici asiatici stanno indagando il satellite starebbe fluttuando a 360 km di altezza.
Giorgio Pontico
http://punto-informatico.it/2697743/PI/News/shuttle-inciampa-una-valvola.aspx
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Il robot del MIT fa il pesce
E’ pronto a colonizzare i sette mari. L’obiettivo è fare il lavoro sporco dell’uomo, controllando il livello di inquinamento delle acque
Roma – È un robot ma sembra un pesce, e si muove anche alla stessa maniera. Al MIT proseguono sulla strada del robo-zoo sviluppando un prototipo di robo-pesce innovativo, idealmente utilizzabile in quegli anfratti sottomarini in cui gli altri underwater autonomous vehicle (UAV) non arrivano e tra le tante sporcizie riversate nel mare dalla razza umana.
Il design del robo-pesce del MIT è stato pensato con in mente principi di economicità, ma anche con la possibilità di replicare il movimento proprio dei pesci in carne e spine: il drone è composto da un corpo unico ricoperto di un materiale polimerico flessibile, la qual cosa permette all’unità di muoversi in libertà senza pericoli di tensioni eccessive allo “scafo” con conseguenti danni irreparabili all’elettronica interna.
Il movimento del drone mima quello dei pesci reali, capaci di contrarre i muscoli delle due estremità del corpo per solcare le acque: al centro del robot è presente un singolo motore, da cui si irradia un impulso che si diffonde per tutto il corpo spingendolo in avanti. Composto da appena 10 parti, l’UAV subacqueo è caratterizzato dal vantaggio (tra gli altri) di avere un costo di produzione più basso rispetto alle soluzioni concorrenti.
Tra le possibili applicazioni per un robo-pesce al MIT citano il monitoraggio delle condutture sottomarine, dei relitti di navi e dell’inquinamento. L’attuale prototipo misura circa 30 centimetri ed è meno veloce della sua controparte animale, con un consumo energetico di 2,5-5 watt e l’obbligo di una fonte di alimentazione esterna. Le batterie interne, dicono i ricercatori, arriveranno quanto prima.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2697467/PI/News/robot-del-mit-fa-pesce.aspx
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25.08.2009
Neve nel deserto e vetro sul Gran Canyon
di Samuele de Leo
Link estivi: neve e piste da sci in pieno (rovente) deserto mediorientale e un ponte di vetro sospeso nel vuoto del Gran Canyon statunitense. Milioni di dollari e quasi 3 anni di lavori sono serviti per[…]
Link estivi: neve e piste da sci in pieno (rovente) deserto mediorientale e un ponte di vetro sospeso nel vuoto del Gran Canyon statunitense. Milioni di dollari e quasi 3 anni di lavori sono serviti per realizzare in una zona desertica dove la temperatura media e’ sempre superiore ai 30 gradi, una straordinaria e immensa stazione sciistica dove niente manca e nulla e’ stato lasciato al caso (compresa una temperatura che impone un’abbigliamento nordica): dagli skilift fino alla scuola di sci dove imparare a scendere in pista anche con lo snowboard, col tobo e via di questo passo. A diverse migliaia di chilomentri di distanza, vicino a Las Vegas, c’e’ invece un ponte di vetro chiamato SkyWalk. E’ sospeso sui 1200 metri d’altezza del baratro del Gran Canyon ed e’ stato portato a termine dalla tribu’ indiana della riserva Hualapai. La vista e’ mozzafiato e non e’ consigliato a chi soffre di vertigini…
http://guide.supereva.it/guida_netlife/interventi/2009/08/neve-nel-deserto-e-vetro-sul-gran-canyon
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Dibattito nel giorno della morte dell’autore. La rabbia di storici e politologi: “Non si può tornare a elogiare un dittatore”
Anche in Russia polemica sull’inno
“Rimettiamo la frase sul culto di Stalin”
DAL nostro corrispondente LEONARDO COEN
MOSCA – Proprio nel giorno in cui muore il novantaseienne poeta Serghej Mikhalkov, padre dei due grandi e popolari registi Nikita Mikhalkov e Andrej Koncialovskij, soprattutto celebre autore del testo dell’inno sovietico ma anche di quello (abbastanza simile) dell’attuale Federazione Russa, scoppia a Mosca una furiosa polemica relativa appunto all’inno dell’Urss che per molti nostalgici dell’Impero sovietico resta il “vero” inno nazionale.
La strana e gelida estate moscovita – mai visto un freddo così come in questo turbolento agosto russo – rischia finalmente di riscaldarsi al fuoco delle virulenti discussioni che pigliano spunto da un verso dell’inno composto nel 1941 e riapparso, dopo tantissimi anni di oblìo e di esilio, sul muro di una bella stazione della metropolitana, la Kurskaja-Circolare, nell’identica originaria collocazione, quella dalla quale era stato espiantato dopo la destalinizzazione alla fine degli anni Cinquanta: “Ci ha fatto crescere Stalin e ci ha educati a essere fedeli al popolo, al lavoro e alle grandi eroiche imprese”.
In realtà, non è l’inno sovietico il fulcro del rovente scontro dialettico e politico, bensì la figura di Stalin e la sua strisciante riabilitazione (in funzione patriottica), sistematicamente in atto ormai da un paio di anni. Dunque, un soggetto ideologicamente delicato, in tempi che vedono il Cremlino a rimettere i puntini sulle i della Storia. Per esempio, cominciando a restituire a Stalin i connotati di grande statista, in sintonia con la mitologia nazionale che gli attribuisce il merito della vittoria contro la Germania nazista. In un recente gioco televisivo, Stalin si è piazzato al terzo posto nella lista dei più grandi eroi russi, e lo stesso Putin sta pilotando il revisionismo storico relativo all’Unione Sovietica e alle sue “conquiste”. La Duma lo scorso 7 luglio ha approvato un documento in cui si riafferma la “volontà indefettibile delle autorità russe di difendere la nostra storia sovrana contro ogni attacco esterno”. Era la risposta ad una risoluzione adottata quattro giorni prima dall’Osce in cui si mettevano sullo stesso piano nazismo e stalinismo.
Un discorso complesso e controverso, perciò, quello della memoria collettiva rispetto allo stalinismo e agli anni delle purghe, dei gulag, degli stermini condotti dal regime del dittatore comunista: “Non si può tornare a elogiare Stalin”, gridano i difensori dei diritti umani, “non si può dimenticare che è stato un boia”. Così la pensa anche gran parte della comunità degli storici e dei politologi russi. Beninteso, esclusi quelli che si sono legati al carro del Cremlino. Quando qualche giorno fa è stato riaperto l’atrio esterno della stazione Kurskaja e i passeggeri moscoviti con sorpresa hanno letto sul muro il verso dell’inno sovietico in cui si elogia Stalin non è che l’abbiano presa bene. Le proteste sono state moltissime e Dmitrij Gaev, direttore della metropolitana di Mosca, negando ogni velleità di ridare fiato al culto della personalità, ha dichiarato che in questo modo è stata ripristinata fedelmente “la giustezza storica strutturale della stazione, così come era stata concepita nel 1949”.
“Ma quale Storia – ha replicato duramente Oleg Orlov, direttore di “Memorial”, la più nota ong russa – spero che sia soltanto un lapsus linguae. Vorrei vedere, che cosa succederebbe in Germania, se restaurando qualche monumento architettonico avessero ripristinato il nome di Hitler o la svastica”. La sezione russa del Gruppo di Helsinki reclama la rimozione della scritta, “è vergognosa”, ha commentato la direttrice Ljudmila Alekseieva. Gli fa eco Sergej Mitrokin, il leader del partito liberale Jabloko: “E’ scandaloso, ed è l’indizio dello stalinismo dilagante che sta infettando la Russia”. E che fa fischiettare i versi dell’inno sovietico. Tanto, la musica è sempre la stessa, quella composta da Alexander Alexandrov ed approvata personalmente da Stalin.
(28 agosto 2009)
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La Repubblica del 28.08.09 invita a pubblicare le dieci domande a Berlusconi
– da pubblicare sul proprio sito/blog
che prontamente fa loro causa.
Stendo un velo pietoso.
Piut/tosto, qui il link (antico) sulle domande di Bossi:
Berlusconi mafioso? 11 domande al Cavaliere per negarlo:
http://www.alain.it/silvio-berlusconi-su-la-padania-anno-1998/
Altro pietosissimo velo.
Il ministro Zaia ai giovani disoccupati: «Presto vi daremo le terre dello Stato»
«In primavera i bandi per assegnare le aree agricole: prezzi contenuti per i progetti degli under 40»
NAPOLI — «I terreni dello Stato potranno aiutare anche i giovani della Campania a trovare una valida e qualificata alternativa alla disoccupazione. Badate, non intendiamo dare ai ragazzi, e mi riferisco soprattutto quelli che non hanno un impiego, una campagna e una zappa per coltivarla; l’idea, anzi la legge che abbiamo voluto fortemente, apre le porte su un percorso professionale che potrà coniugare agricoltura di qualità con l’avvio di una microimpresa. E siccome proprio nei giorni scorsi tutti abbiamo letto la graduatoria che fotografa questa regione come area ad altissima propensione per l’avvio di piccole aziende…». Luca Zaia, ministro leghista delle Politiche agricole, «promuove» così al Sud il progetto Terra e Giovani avviato dal suo stesso dicastero. Il piano, contenuto nel decreto anticrisi, prevede che l’Agenzia del demanio ceda in affitto i terreni, i beni agricoli di proprietà dello Stato e degli enti pubblici ai giovani aspiranti agricoltori. Per monitorare l’andamento dell’iniziativa sarà anche predisposta una relazione annuale in vista di un possibile futuro acquisto delle terre affittate.
Ministro, ci spiega come funzionerà nel dettaglio il progetto?
«Stiamo realizzando il censimento dei terreni demaniali coltivabili in tutta Italia (naturalmente il lavoro riguarda quelli non vincolati come parchi o aree di pregio) e ritengo che già per l’inizio della prossima primavera saremo in grado di attivare un bando a progetto per assegnarli, con canoni particolarmente vantaggiosi, agli under 40».
In che modo si assegneranno le campagne?
«I ragazzi che intendono affrontare quest’avventure dovranno presentare, sottoforma di microaziende, business plan specifici che potranno riguardare progetti di varia natura: agricoltura biologica, produzioni tipiche da recuperare e così via. Noi, a quel punto, valuteremo l’iniziativa e, se ritenuta valida, affitteremo a prezzi contenuti piccoli appezzamenti. Terreni che, comunque, secondo le previsioni potranno e dovranno fruttare un buon reddito. Quindi potranno rappresentare anche un’alternativa più che interessante alla disoccupazione».
Qual è lo spirito del progetto?
«In Italia ci sono molti ragazzi di città che vorrebbero impegnarsi in agricoltura, ma neppure il 10% delle aziende del settore è guidata o formata da imprenditori con meno di 40 anni. E uno dei motivi che frenano i ragazzi è rappresentato proprio dai prezzi per acquistare il terreno agricolo: spesso sono costi da capogiro. Al Nord come in Campania. Dunque, con l’affitto agevolato abbiamo deciso di dare un’opportunità che riteniamo importante. L’idea va nel solco del rafforzamento delle identità locali; una linea, credetemi, che non divide ma aggrega».
A proposito di identità locali, martedì su questo giornale Peppe Barra ha sostenuto che gli unici dialetti che potrebbero essere insegnati ai giovani sono quello napoletano e quello veneto. Che ne pensa?
«Conosco e stimo Barra ma non lo condivido in pieno. Il napoletano e il veneto sono di sicuro due lingue importanti, ma come dimenticare il friulano, il ladino, il sardo…? Bisogna superare le visioni che contrappongono tradizioni nazionali e locali».
Restando in tema di tradizioni, lei ha trasferito le immagini di tutti i suoi predecessori all’Agricoltura dal Piano nobile del dicastero alla Sala ministri. Sostituendole con foto dei ragazzi impegnati nelle aziende del settore che ha incontrato in questo primo anno di attività…
«Sì, e ne vado fiero. Prima c’erano tutti i ritratti, da Cavour in poi. Ora nel Piano nobile ci sono ragazzi di tutta Italia che ho incontrato in questi mesi. Tra l’altro voglio ricordare che la mia prima trasferta ufficiale, da ministro, è stata a fine maggio 2008 nel Casertano, dove ho partecipato a una riunione di produttori di mozzarella di bufala».
Un amico del Sud, dunque, al quale però piacciono le gabbie salariali…
«Le gabbie salariali servono perché c’è la necessità di commisurare il reddito dei lavoratori al costo della vita delle loro comunità. Non è uno scandalo; potrebbe anzi essere il segno di una grande riscossa delle regioni meridionali. Del resto legare i redditi al costo della vita, anche nel Pubblico, costringerà il Sud a imparare a camminare con le proprie gambe. Basta tabù».
Lunedì sul «Corriere della Sera» Angelo Panebianco ha ripreso e rilanciato la proposta dell’istituto Bruno Leoni di trasformare il Sud una «no tax area». È d’accordo?
«Non entro nel merito della proposta. Tengo però a ricordare che anni fa, quando a Manfredonia fu attivato un importante programma di incentivi per le aziende interessate ad investire nell’area, alcuni amici imprenditori del Nord si imbarcarono nell’iniziativa. Molti di loro, però, furono costretti a fare macchina indietro a causa della solite diseconomie di contesto che frenano lo sviluppo al Sud: presenza della criminalità e burocrazia nella migliore delle ipotesi lumaca. Ecco, se non si risolvono prima questi due problemi, direi la madre e il padre di tutti i problemi, non ci sarà incentivo o progetto — sia pure valido come era certamente quello pugliese — che regga».
Paolo Grassi
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