Neda la prima martire, 22.06.2009, LUCIA ANNUNZIATA | |
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Cade con un solo colpo al cuore, il sangue che sgorga prima dalla bocca poi dalle orecchie e dal naso, gli occhi rovesciati verso il cielo. Le è scivolato il velo dalla testa, le si è aperto l’abito nero che la ricopriva, rivelando blue jeans e scarpe da ginnastica. Il video dell’agonia di questa ragazza di Teheran, vittima dei soldati dell’esercito iraniano, sta facendo il giro del mondo su YouTube.Ma prima di entrare nel significato di questa morte, vorrei condividere tutto quello che ho trovato sulla ragazza. Per darle intanto un nome, e per capire in che circostanza è morta. In assenza di giornalisti, persino queste semplici informazioni potrebbero andar perse. Potenti messaggi quelli che ci arrivano dai blog in Iran: «Sì, questa è la ragazza persiana colpita a morte da uno sparo, il suo nome è Neda e stava partecipando alla protesta contro Ahmadinejad e l’intero governo che pretende di essere musulmano mentre non ha alcun rispetto di cosa significhi lavorare per Dio, è davvero il più tirannico dei governi».Questa è la disperata testimonianza del medico che ha assistito la ragazza nei suoi ultimi momenti; testimonianza subito cancellata, ma ritrovabile come il link sul blog cui è stata inviata: «I “Basij” hanno sparato e ucciso una giovane donna in Teheran, il 20 giugno mentre protestava. Alle ore 19:05. Posto: Carekar Ave., all’angolo con la strada Khosravi e la strada Salelhi. La giovane donna era accanto al padre ed è stata sparata da un Basij che si nascondeva sul tetto di una casa civile. Ha avuto una vista perfetta della ragazza, e dunque non avrebbe potuto mancarla. Ha sparato diritto al cuore. Sono un dottore e mi sono precipitato immediatamente a cercare di salvarla. Ma l’impatto del proiettile è stato così forte che è esploso nel suo petto e la vittima è morta in meno di due minuti. Il video è stato girato da un amico che mi stava accanto. Per favore, fatelo sapere al mondo».Sì, qui siamo infatti, il mondo che guarda questa rivolta iraniana, per molti versi come tutte le altre rivolte, e per certi versi assolutamente unica. Un tiratore scelto prende la mira su una ragazza accanto al padre e con freddezza le spappola il cuore. E’ qui tutta la storia della rivolta iraniana in corso. Il regime di Teheran spara a freddo a una donna, alle donne. Confessando tutta la sua debolezza ma anche la natura della paura che corre nelle vene dell’establishment religioso iraniano.La novità che ci svela è questa. Ahmadinejad ha lanciato un attacco alle donne. Ieri è stata arrestata Faezeh Rafsanjani, la figlia dell’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani. Faezeh, ex deputata, attivista, editore della rivista «Donna», fosse la più famosa delle tante donne che animano l’attuale rivolta popolare. Ma una seconda umiliazione è nascosta in questo attacco a lei: arrestare una figlia vuol dire in Iran portare vergogna sull’intera famiglia. Il messaggio va dunque a tutti i padri della nazione: se non tenete a posto le vostre donne, non ci fermeremo davanti a nessuno. E qui parliamo di ben altro che un signor nessuno.Rafsanjani, infatti, oltre a essere uno dei principali sostenitori di Hossein Mousavi, è anche uno degli uomini più ricchi dell’Iran. Forbes lo ha incluso nella lista degli uomini più ricchi del mondo, è dunque forse il più ricco del suo Paese, grazie alla sua partecipazione in molte imprese, incluse quelle petrolifere. Una potenza che gli ha guadagnato il nomignolo di Akbar Shah. La famiglia Rafsanjani possiede inoltre interessi nel commercio con l’estero, ampi possedimenti di terra, e la più vasta rete di università private, conosciuta come Islamic Azad University, 300 campus in tutto il Paese e circa 3 milioni di iscritti. Attaccare un uomo così potente, che da solo gioca un ruolo decisivo, arrestandone la figlia è un’intimidazione ridicola. Ma rivelatrice del timore che anima il governo di Ahmadinejad.Questa provocazione è infatti direttamente proporzionale al peso acquisito da mogli e figlie di politici nella campagna elettorale prima e negli avvenimenti della rivolta oggi. La moglie di Mousavi, Zahra, è scesa in campo a fianco del marito, per la parità fra uomini e donne, sfoggiando colorati veli al posto di quello nero. Va ricordato anche un episodio di aggressione, forse meno noto ma non meno significativo, nei confronti della vedova di Mohammed Ali Rajai, il primo ministro assassinato nei primi anni della rivoluzione Khomeinista. La vedova si è recata a Qom, la città Santa, per sollecitare l’appoggio dei Mullah al movimento riformatore, e in risposta è stata arrestata.E torniamo così alla uccisione della ragazza, l’assassinio da parte di un occupato della Santa Rivoluzione di una donna è il segno di tutto quello che è cambiato in Iran. Con quell’uccisione viene dissacrata una donna per tutte. La donna. L’oggetto (è il caso di dirlo) sacro dell’Islam, il luogo della custodia, il simbolo e il metro della purezza degli umani. Inattaccabile. Almeno finora. Ma che una rivolta animata dal senso di libertà e dei diritti, democratici e individuali abbia fra i suoi martiri una giovane in jeans senza velo è la perfetta metafora di quel che sta succedendo in Iran.Qui: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6096&ID_sezione=&sezione=
— Incursioni Faranheit 451 Da Daniela Degan, per la lista “decrescita”ALLE CARE MINORANZE (E OLTRE) Leggere è un atto di secessione, leggere è un gesto di relazione. La forza di un testo come quello di Bradbury, intatta nelle sue metamorfosi dalla letteratura al cinema e ora al teatro, sta nell’evocare questa ambivalente ricchezza della lettura, la continua e preziosa oscillazione dalla sfera privata e solitaria a quella pubblica e condivisa. La resistenza in una società quasi totalmente addomesticata all’idiozia mediatica, quella che trasforma ogni spettatore – come Mildred e le sue amiche – in agente attivo e “creativo” della società dello spettacolo, non può che essere individuale: implica un rifiuto, qualcosa come un piccolo esodo, il prezzo della separazione. Ma conservare una memoria puramente personale e testimoniale non ha senso. Il passaparola – dimostra Clarisse con Montag – aggira i pompieri e i loro mastini con la seduzione del contatto faccia a faccia, in un mondo in cui più nulla sembra immediato (e cioè privo di media e libero da autorità che mediano). E nel memorabile finale, gli uomini-libro, una volta ricavato il loro mondo a parte, una specie di grande stanza tutta per sé, non restano muti a rimuginare in silenzio e in isolamento i loro amori letterari: recitano, scambiano, connettono letture. La trasgressione, come è ovvio, nasce da un’inquietudine: Montag si pone domande che lo allontanano dall’acquiescenza conformista: è “la fine del desiderio di sapere come accadono le cose, e l’inizio del desiderio di sapere perché”. E’ un comportamento antisociale che genera la più intensa forma di socializzazione. Quella ispirata dall’esempio oltranzista della donna che decide di restare in una casa che brucia, con i suoi volumi: “Ci deve essere qualcosa nei libri, cose che non riusciamo neanche a immaginare”. E’ così che Montag capisce che “dietro ogni libro c’era una persona”. Questo farà di lui un disobbediente, un disertore, un lettore. “Basta pillole. Basta musica. Basta andare a letto presto. C’è una cosa che si chiama ascoltare”. E – ma è lo stesso – c’è una cosa che si chiama leggere. Un’attività dietro la quale ci sono altre persone, appunto. E’, o sembra, possibile salvare questa passione. Ma è, dice Bradbury, facile perderla. Si comincia col rifiutare la complessità delle cose, la loro ricchezza che è anche il loro peso (“Più cose mi cacciavo in testa, più aumentava la confusione”, dice Beatty, lettore pentito e perciò acerrimo nemico). E allora alleggerire, ridurre i classici “a exploit radiofonici di quindici minuti”, la politica in una battuta, le chiusure lampo al posto dei bottoni, Poi “svuota i teatri. Chiudi i cinema.” E brucia i libri. Si farebbe torto attribuendo a Fahrenheit 451 un valore profetico e una intenzione predittiva. Ma certamente questi passi sulla semplificazione e la velocizzazione del mondo impressionano. Tanto più se si pensa come l’utopia negativa della trasparenza obbligata dalle pareti di vetro degli schermi televisivi – evocate nelle pagine più apocalittiche del testo di Bradbury, dove parla una Mildred terrificante ed esaltata: “Quanto mi piacerebbe se avessimo due pareti-tv invece di una, o tre pareti come i Murty, o un giorno, addirittura quattro. Non sarebbe magnifico? Circondata!” – ha effettivamente frantumato la privatezza delle sfere di vita individuali. Appare perciò mirabilmente esatta l’enumerazione delle tre cose scomparse, inghiottite dai roghi dei libri, “forse per sempre”: la qualità, l’ozio, l’indipendenza di pensiero e di azione. Un’anatomia dello stato di salute, o meglio delle patologie individuali e collettive delle nostre società “sviluppate”, non potrebbe essere più precisa. Senza feticismi, in un libro che solo con qualche imperdonabile forzatura potrebbe apparire un vangelo per bibliofili e un inno alle bibliomanie: “Non è dei libri che hai bisogno, ma di alcune cose che un tempo erano nei libri”. Non di libri si vive ma con i libri. E qualche tecnologia può aiutare. Forse il mio sguardo partigiano mi fa velo quando Faber inserisce nell’orecchio di Montag una piccola conchiglia, la sua reinvenzione, la “Radio auricolare Faber con garanzia a vita”. Da allora, ovunque andrà, Melville, Shakespeare, Platone, e Shelley e Frost, lo accompagneranno: “viaggeranno con te ovunque… ti parleranno nelle tue notti febbricitanti”, restaureranno la compagnia della lettura. Non è un libro apocalittico, dunque. Per tutto il testo la lettura appare come un insuperabile elemento di relazione e di comunicazione reale, ha una natura virale che viene combattuta tentando di isolare l’infezione. Il fuoco ha la temperatura giusta per purificare la perversione e impedire l’epidemia. Ma questa si trasmette al di là di ogni possibile contenimento, la contaminazione procede ugualmente, il destino trasgressivo della lettura è di essere trasmessa per strade segrete, inafferrabili e inattese – come quando il capo dei vigili del fuoco, ebbene sì, proprio lui, confessa la sua passione, magari delusa, e la sua biblioteca. Con una rivelazione che colpisce perché diventa esplicita – mi sembra – solo nella versione teatrale di Fahrenheit 451. E c’è una notevole sottigliezza nella parabola di Beatty, il ragazzo “che amava i libri, che avrebbe fatto tutto per loro” per poi scoprire che di fronte alle ferite della vita quelle pagine sembravano non avere più nulla da dire: “Il vuoto! Il vuoto assoluto!”. E c’è una certa verità nel fastidio per i lettori, con “quello sguardo insopportabile che sembra dire: ‘Io sono più intelligente di te. Io sono una spanna sopra a chiunque altro!’”. Qui Bradbury sembra confermare che tra le qualità di chi ama davvero i libri e senza spocchia né fanatismo ne difende il destino, c’è una singolare predisposizione autocritica, ironica o tragica che sia. Il primo eroe della lettura, l’hidalgo Don Chisciotte, ne è del resto la manifestazione ancora insuperata. Ma qui si torna a quella tensione tra la folle solitudine della lettura (la sola in grado di conservarne la potenza) e le molteplici connessioni che instaura. Che sono, per così dire, anzitutto verticali, tra epoche, storie, generazioni diverse: letture, scritture e riscritture, testimonianze, memorie e interpretazioni depositate nel tempo che ogni lettore presente più o meno consapevolmente raccoglie. Ma la trama della lettura intreccia anche infiniti legami orizzontali, di confronto, di comunicazione, di generosa condivisione tra le “care minoranze” e oltre. La profondità con cui descrive questo movimento continuo, l’audacia che richiede e i rischi che comporta, resta ad ogni rilettura l’incandescente ricchezza di Fahrenheit 451. Marino Sinibaldi |
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Perù, “The Independent”: “le immagini rivelano tutto l’orrore della Tienanmen amazzonica”
Il quotidiano britannico “The Independent” titola stamane in prima pagina: “le immagini rivelano tutto l’orrore della Tienanmen amazzonica”. Di seguito l’agenzia APCOM con tutta la storia. Dove sono i politici e i giornali sempre pronti a bacchettare i governi integrazionisti latinoamericani non per i crimini che (eventualmente) commettono ma per le spoliazioni che impediscono?
Apc-* Peru’/ Pubblicate immagini choc della Tiananmen amazzonica
Scattate da due operatori belgi: “Almeno 60 i morti”
Roma, 19 giu. (Apcom) – Due operatori umanitari belgi hanno spezzato il silenzio di informazioni e di immagini che circondava la “Tiananmen dell’Amazzonia”, ossia il massacro avvenuto nella parte peruviana della foresta pluviale il 5 giugno quando, a Bagua Grande, poliziotti avevano attaccato gli indigeni che da settimane stavano bloccando fiumi e strade per protestare contro la decisione del governo di espropriare le loro terre per lo sfruttamento di legname, gas e petrolio.
The Independent ha pubblicato solo alcune delle foto di Marijke Deleu e Thomas Quiryneen, i due volontari di Catapa, un’organizzazione fiamminga che si batte per i nativi di Peru’, Bolivia e Guatemala, perche’ il contenuto violento di questi scatti non permette la loro visione su un quotidiano. Ma tutte le immagini saranno mostrate lunedi’ alla Camera dei Comuni, in Gran Bretagna, per far capire cosa sia veramente successo quasi due settimane fa. “Inizialmente abbiamo visto la polizia sparare e tirare gas lacrimogeni contro i manifestanti”, dice Deleu a The Independent. “Poi abbiamo visto che li picchiavano, prendevano a calci quelli buttati a terra e sparavano nella schiena di chi cercava di scappare”, ha aggiunto. Secondo il bilancio ufficiale, gli scontri si sono conclusi con 32 morti di cui 23 poliziotti, ma secondo diverse organizzazioni umanitarie i morti sarebbero una sessantina, molti dei quali disarmati, e centinaia di persone risultano ancora disperse. L’organizzazione Survival International chiede che venga aperta un’inchiesta indipendente per far luce su cosa sia realmente successo.
Le foto escono proprio quando il governo del presidente Alan Garcia ha finalmente revocato i due decreti che favorivano lo sfruttamento delle foreste dell’Amazzonia, il 1090 e il 1064, conosciuti anche come ‘leyes de la selva’. Uno dei principali capi indio, Daysi Zapata, vicepresidente della confederazione degli indiani d’Amazzonia, ha quindi chiesto ai suoi sostenitori di togliere i blocchi a strade e fiumi. Intanto, il leader delle proteste, Alberto Pizango, presidente della Confederazione, e’ arrivato in Nicaragua dove aveva chiesto asilo politico. La settimana scorsa Pizango era stato accusato di “sedizione, cospirazione e ribellione”.
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Nasce in Canada la batteria del futuro
Può fornire tre volte l’energia di una normale batteria agli ioni di litio, mantenendo lo stesso volume, ma con minor peso e minor costo di produzione. L’hanno realizzata i ricercatori dell’Università Canadese di Waterloo, minacciando così di veloce obsolescenza gli accumulatori ai polimeri o agli ioni di litio, che potranno essere sostituite da una nuova generazione di batterie, costituite da litio e zolfo come materiale per l’accumulo della carica energetica.
La differente struttura atomica della batteria e la conoscenza della nanotecnologia sono i fattori che la rendono speciale e rivoluzionaria. La ricerca canadese, infatti, ha dimostrato che attraverso lo zolfo come elettrodo secondario insieme a carbonio mesoporoso che agisce come una sorta di catalizzatore, è possibile ottenere fino all’84% di potenziale di carica per una capacità fino a 1200 Wh/Kg (1,2 KWh per Kilogrammo), ovvero tre-quattro volte rispetto a batterie tradizionali (mediamente in grado di accumulare 200-300 Wh/kg).
Il principio di funzionamento resta il medesimo delle batterie agli ioni di litio, ma è differente la reazione chimica interna: la carica elettrica è stoccata in un elettrodo durante la fase di ricarica, per poi essere rilasciata all’altro elettrodo nella fase di scarica. In questo caso la differente struttura atomica dei materiali coinvolti implica una serie di sostanziali differenze nelle reazioni chimiche reversibili necessarie per il funzionamento, e alcune difficoltà per realizzare una batteria che sia realmente efficiente. Pertanto, al fine di ottenere una batteria a elevate prestazioni, lo zolfo deve restare in stretto contatto con un conduttore, come il carbonio. Il gruppo di ricercatori ha ideato un modo per risolvere il problema impiegando il carbonio mesoporoso applicato in sottilissimi strati, su scala nanoscopica.
Il team ha assemblato una nanostruttura di steli di carbonio separati da canali vuoti, lo zolfo è stato quindi colato per riempire i piccoli vuoti: tutto lo spazio disponibile è stato uniformemente riempito con lo zolfo, andando così a massimizzare la superficie in diretto contatto con il carbonio e incrementando l’efficienza della batteria.
La combinazione di litio e zolfo fornisce molta più densità di energia permettendo, al contempo, di ridurre il costo dei materiali impiegati. Secondo alcuni test eseguiti dai ricercatori, il materiale composito sintetizzato è in grado di fornire circa l’84% della capacità teorica dello zolfo, ovvero tre volte tanto la densità di energia dei catodi di litio. Il risultato è quello di una batteria che può essere più efficiente e leggera allo stesso tempo.
Il team ha stimato che la densità di energia del solo elettrodo positivo possa arrivare a circa 1200 Wh/kg: a seconda degli altri componenti impiegati per la realizzazione della cella si può così arrivare ad una densità complessiva, per cella, di circa 500Wh/kg, ovvero dalle 3 alle 5 volte di quanto possibile con una convenzionale batteria agli ioni di litio.
Vi sono comunque alcuni problemi che devono essere risolti, in particolare dal punto di vista della sicurezza. La batteria litio-zolfo impiega un elettrodo negativo composto da litio metallico e pertanto è necessario utilizzare un’adeguata copertura atta a passivizzare l’elettrodo ed evitare che si inneschino reazioni non volute e potenzialmente dannose. L’ostacolo pare comunque essere facilmente superabile, dal momento che, altre realtà hanno già avuto modo di sviluppare tecnologie di passivazione che potrebbero essere impiegate per questo scopo.
Circa i costi di produzione, il team di ricerca precisa che i materiali grezzi impiegati per la realizzazione di questa batteria (carbonio e zolfo) sono meno dispendiosi rispetto a quelli impiegati per la realizzazione delle batterie di litio, ma che è comunque difficile poter avere una stima realistica dei costi di produzione complessivi in quanto molto dipende anche da altri elementi e processi coinvolti, a loro volta legati all’ottimizzazione dei materiali e alla configurazione della batteria.
Fonte, Università di Waterloo, Canada
Qui: http://www.scienzaegoverno.org/n/063/063_01.htm
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Dalla LuciaStove al biochar: un processo virtuoso
Migliaia di esemplari sono già stati spediti in Uganda, Indonesia, Zaire, Cameroon, Malesia, Mongolia e Costa d’Avorio. Praticamente sottocosto o a prezzi bassissimi, grazie alla formula del microcredito. E questo grazie alla fruttuosa commercializzazione in paesi come il Canada o la Finlandia, dove sono già presenti in numerose migliaia di pezzi. Ci tiene a precisarlo Nathaniel Mulcahy, l’ingegnere americano che oggi vive a Tortona e che ha inventato e brevettato “LuciaStove”, semplice sistema di gassificazione e pirolisi (in base alla potenza dell’impianto che può variare dal kW al MW), la cui materia prima è costituita da scarti vegetali e organici, con tasso di umidità non superiore al 30%, con rendimenti energetici compresi tra l’85 e il 90% e un rendimento di combustione superiore al 93%. Vale a dire: rese straordinariamente alte a fronte di costi esigui.
“LuciaStove” è, infatti, una stufa a bassissimo costo originariamente pensata per i mercati poveri del terzo mondo e realizzata con cinque pezzi di alluminio, ma che con adeguati accorgimenti e modifiche potrebbe diventare anche uno strumento rivoluzionario per i mercati occidentali, in grado di produrre energia e di rilasciare pochissimo monossido di carbonio (una delle principali cause di morte nelle cucine del terzo mondo), partendo da materie come foglie, rami o scarti agricoli. Pur funzionando con fiamma a cielo aperto il sistema non emette fumi e rilascia in atmosfera quantità minime di polveri sottili e di emissioni di gas a effetto serra: si parla del 6% delle emissioni rispetto a una comune caldaia a metano da appartamento. Inoltre, in una scatola da scarpe possono essere imballati ben quindici esemplari, ancora da assemblare, della LuciaStove in versione “fornelletto da campeggio”. Un ulteriore punto a favore che ha contribuito alla sua diffusione già in 27 paesi in via di sviluppo, con progetti di cooperazione, che continuano a crescere di numero ed entità, anche grazie a finanziamenti in microcredito.
Non basta. Il processo virtuoso vanta anche altri vantaggi particolarmente importanti, soprattutto dal punto di vista ambientale. Parallelamente alla produzione di energia termica, come residuo del fenomeno pirolitico si ottiene, infatti, il prezioso biochar: il carbone vegetale, parte costituente della ben nota “Terra Preta” tra gli Indios dell’America Latina, che non solo sequestra per secoli la CO2 nel suolo, sottraendola all’atmosfera (partecipando quindi alla mitigazione del cambiamento climatico, nonché al raggiungimento degli obiettivi stabiliti dal Protocollo di Kyoto) ma anche migliora significativamente la fertilità dei terreni coltivati, trattenendo l’acqua e riducendo il dilavamento dei nutrienti e la necessità di ricorrere a fertilizzanti di origine sintetica.
Per capire quanto lo “scarto” di combustione si trasformi in risorsa preziosa è utile osservare qualche numero: una piccola caldaia produce mediamente 67 ton di biochar/anno; 1 tonnellata di biochar fissa 3 tonnellate di carbonio, per intervalli di tempo che vanno dalle centinaia alle migliaia di anni. Già con 3 ton/ha di carbone vegetale si ottiene un miglioramento della resa colturale e il tasso di incremento continua a crescere a mano a mano che si aumenta la quantità utilizzata per unità di superficie fino a stabilizzarsi intorno alle 60 ton/ha di carbone vegetale.
Una ventina di aziende già producono, in diverse parti del mondo, pirolizzatori di varie dimensioni e presto se ne aggiungeranno altre, ma LuciaStove è diversa, perché sfrutta attentamente la dinamica dei fluidi per ottenere una combustione con un’efficienza del 93%, contro il 7-12% di un fuoco aperto. Tutti i pirolizzatori del mondo, infatti, sono chiusi, per tenere fuori l’ossigeno. Invece, la LuciaStove è aperta in alto: basta gettarci dentro della biomassa, accenderla e, dopo pochi secondi, il calore prodotto innesca la pirolizzazione, aiutata da un piccolo ventilatore laterale. Dagli ugelli in alto – disegnati in modo da sfruttare tre diversi vortici che si creano all’interno – esce un gas sintetico, fatto di idrogeno, metano e monossido di carbonio. Il quale, bruciando forma una specie di cappa che consuma l’ossigeno impedendogli di entrare, ma al tempo stesso esercita un “tiraggio” verso il basso che fa entrare l’azoto: tre etti di biomassa bruciano per quasi un’ora e mezzo, regalando energia termica e, alla fine, lasciando come residuo un etto di biochar.
La WorldStove, l’azienda fondata da Mulcahy per commercializzare la sua invenzione, sta già discutendo con importanti aziende italiane dell’agroalimentare per adottare il procedimento su scala industriale. Si tratta di aziende che spendono fino a 30 euro a tonnellata per smaltire i propri scarti e che in questo modo, avrebbero energia gratis per i propri bisogni produttivi (o per venderla alla rete sotto forma di elettricità), nonché un fertilizzante naturale da reimmettere nel ciclo.
Dopo questa lunga sequenza di vantaggi, ecco anche un inconveniente: LuciaStove deve essere affiancata da un ventilatore, che richiede corrente elettrica. Ma Mulcahy ha pensato anche a questo, proponendo diverse soluzioni. Una di queste sfrutta la gassificazione coassiale del fornello, autogenerando l’elettricità per la ventola. Ne produce addirittura in eccesso, tanto che su questo mirabolante fornello ci si può anche ricaricare il cellulare.
Fonte: Fonte Energoclub
Qui: http://www.scienzaegoverno.org/n/063/063_02.htm
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La certificazione energetica degli edifici, finalmente!
Entra in vigore il 25 giugno 2009 il regolamento nazionale sulla certificazione energetica degli edifici, recentemente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 10 giugno 2009 e che, nonostante valga per tutto il territorio nazionale, dovrà essere applicato solo dalle regioni sprovviste di disposizioni regionali in materia (Veneto, Abruzzo, Calabria, Lazio, Molise, Sardegna e Sicilia).
Dal 1° luglio 2009 invece, entrerà in vigore l’obbligo di dotare di attestato di certificazione energetica le singole unità immobiliari, anche sotto i 1000 mq, vendute o affittate (sia esistenti, sia di nuova costruzione). Comunque non si prevede l’obbligo di allegare l’attestato energetico all’atto di compravendita degli immobili e al contratto di locazione (cosa che la legge regionale della Valle d’Aosta ha mantenuto e per cui l’Italia è sottoposta a procedura d’infrazione dall’UE).
Il regolamento è, infatti, uno dei tre decreti attuativi che il Governo avrebbe dovuto emanare entro il 6 febbraio 2006 (il testo del decreto legislativo 192/05 di attuazione della direttiva comunitaria prevedeva che entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore i decreti dovevano essere formulati ed emanati) per completare l’attuazione delle disposizioni sul rendimento energetico. Prevede i criteri generali, le metodologie di calcolo e i requisiti minimi per le prestazioni energetiche degli edifici e degli impianti termici per la climatizzazione invernale e per la preparazione dell’acqua calda per usi igienici sanitari. Prevede poi i requisiti professionali e i criteri di accreditamento per assicurare la qualificazione e l’indipendenza degli esperti o degli organismi cui affidare la certificazione e l’ispezione (che comunque ogni cinque anni devono essere rivisti e “aggiornati” in funzione dei progressi della tecnologia).
Dato il ritardo, però, alcune regioni hanno già affrontato il tema dell’efficienza energetica degli edifici accogliendo le disposizioni comunitarie con propri provvedimenti. Per questo il regolamento nazionale non dovrà essere applicato dalla Provincia autonoma di Bolzano (la prima in Italia ad affrontare il tema del rendimento energetico e quella che ha introdotto lo standard CasaClima che è obbligatorio in provincia dal 2005) e di Trento, dalla regione Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Marche, Valle d’Aosta (che, fra l’altro si è dotata di un catasto energetico degli edifici), Puglia, Basilicata, Umbria, Friuli Venezia Giulia, Campania e Toscana.
In merito alle metodologie di calcolo, il regolamento adotta le norme della serie UNI/TS 11300 e loro successive modificazioni; definisce inoltre norme precise da adottare in sede progettuale per la determinazione dell’indice di prestazione energetica per la climatizzazione invernale. Inoltre, introduce – per la prima volta – anche i valori massimi ammissibili della prestazione energetica per il raffrescamento estivo dell’involucro edilizio, per nuove costruzioni e ristrutturazioni di edifici residenziali di cui alla classe E1, che deve essere inferiore ai seguenti limiti:
1) 40 kWh/m2 anno nelle zone climatiche A e B;
2) 30 kWh/m2 anno nelle zone climatiche C, D, E, e F;
Per tutti gli altri edifici ai seguenti valori:
1) 14 kWh/m3 anno nelle zone climatiche A e B;
2) 10 kWh/m3 anno nelle zone climatiche C, D, E, e F.
Nei casi di ristrutturazione o manutenzione straordinaria, impone una valutazione sul possibile utilizzo di sistemi schermanti o filtranti per le superfici vetrate ai fini di contenere l’oscillazione termica estiva negli ambienti; inoltre è prevista la verifica della massa superficiale o della trasmittanza termica periodica delle pareti verticali.
Inoltre, tutti i calcoli e le verifiche necessarie dovranno essere riportati in una specifica relazione da inserire nel progetto per attestare la rispondenza alle prescrizioni per il contenimento del consumo di energia degli edifici e relativi impianti termici; inoltre prevede che il proprietario dell’edificio, o chi ne ha titolo, deve depositare presso le amministrazioni competenti insieme alla denuncia dell’inizio dei lavori riguardanti le opere di cui agli articoli 25 e 26 della legge 10/1991.
Nel caso di nuova installazione e ristrutturazione d’impianti termici o sostituzione di generatori di calore, si deve procedere al calcolo del rendimento globale medio stagionale dell’impianto termico e alla verifica che lo stesso risulti superiore a un determinato valore limite. Nel caso poi d’installazioni di potenze = 100 kW, sarà anche obbligatorio allegare alla relazione tecnica una diagnosi energetica dell’edificio e dell’impianto nel quale si possano individuare gli interventi di riduzione della spesa energetica, i relativi tempi di ritorno degli investimenti, e i possibili miglioramenti di classe dell’edificio nel sistema di certificazione energetica in vigore, in base al quale sono state determinate le scelte impiantistiche operate.
La nuova normativa si apre anche ad altri metodi di calcolo dei rendimenti energetici, purché i risultati raggiunti siano equivalenti o addirittura conservativi, a proposito dei seguenti parametri:
lo scambio termico per trasmissione tra l’ambiente climatizzato e l’ambiente esterno;
lo scambio termico per ventilazione (naturale e meccanica);
lo scambio termico per trasmissione e ventilazione tra zone adiacenti a temperatura diversa;
gli apporti termici interni;
gli apporti termici solari;
l’accumulo del calore nella massa dell’edificio;
l’eventuale controllo dell’umidità negli ambienti climatizzati;
le modalità di emissione del calore negli impianti termici e le corrispondenti perdite di energia;
le modalità di distribuzione del calore negli impianti termici e le corrispondenti perdite di energia;
le modalità di accumulo del calore negli impianti termici e le corrispondenti perdite di energia;
le modalità di generazione del calore e le corrispondenti perdite di energia;
l’effetto di eventuali sistemi impiantistici per l’utilizzo di fonti rinnovabili di energia;
per gli edifici di nuova costruzione del settore terziario con volumetria maggiore di 10.000 mc, l’influenza dei fenomeni dinamici, attraverso l’uso di opportuni modelli di simulazione, salvo che si possa dimostrare la scarsa rilevanza di tali fenomeni nel caso specifico.
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Cieli neri D’AFRICA
di Sergio Finardi, Peter Danssaert, 23.06.2009
Uno strano incidente rivela un traffico di armi provenienti dalle porte girevoli dell’Europa, per la dittatura petrolifera del generale Teodoro Objang in Guinea equatoriale
Il 16 giugno, alle due del mattino, un Antonov 12, aereo da carico che può trasportare circa 20 tonnellate di materiale, effettua uno scalo di emergenza per problemi tecnici all’aeroporto internazionale «Mallam Aminu Kano», nel nord della Nigeria, scalo frequentemente utilizzato per il rifornimento di carburante di aerei provenienti dall’Europa e diretti verso l’Africa Centrale.
Qualcosa non va nel verso giusto nelle relazioni tra l’equipaggio dell’aereo e le autorità aeroportuali, o forse i servizi di sicurezza nigeriani (Sss) vengono allertati da qualche informativa e procedono ad ispezionare il carico. Trovano a bordo 18 cassse contenenti consistenti quantità di munizioni, in particolare da 60 e 80 millimetri per mortaio, insieme a fucili mitragliatori e lanciarazzi. Il carico e l’aereo vengono sequestrati e cominciano gli accertamenti. I media nigeriani riportano che le armi proverrebbero dall’Ucraina e sarebbero state destinate ai «ribelli» del «Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger». Una fotografia mostra invece che l’Antonov 12 era a Zagabria, Croazia, il 14, il giorno prima di partire per Malabo, sull’isola di Bioko, ove – 250 km a Nordovest del territorio continentale – ha sede la capitale della Guinea Equatoriale.
L’aereo, con numero di registrazione Ur-Cak (Ur: sta per Ucraina) è proprietà della compagnia aerea «Meridian Aviation Enterprise of Special Purpose», basata a Poltava, nel nordest dell’Ucraina. Il 18, il governo ucraino e Ukrspetsexport, la società che controlla le esportazioni di armi ucraine, smentiscono d’aver a che fare con quel carico (secondo Izvestia e Kommersant).
L’inchiesta passa nel frattempo ai servizi di intelligence militare nigeriani (Mdi) e il Kommersant riporta che l’Mdi avrebbe stabilito origine delle armi (il ministero della Difesa croato) e destinazione (il ministero della Difesa della Guinea Equatoriale). Le armi sarebbero state effettivamente caricate a Zagabria e una compagnia di Nicosia (Cipro), la Infora Limited, avrebbe organizzato l’affare. Secondo il direttore di Infora, Velimin Chavdarov, e il direttore della Meridian, Nikolay Minyajlo, tutti i documenti sarebbero in ordine e il sequestro dell’aereo non si giustificherebbe. Tutto regolare dunque? Dipende dal tipo di regolarità di cui si parla, a cominciare da destinatario e fornitore.
Il destinatario. Repubblica presidenziale multipartitica in teoria, la Guinea Equatoriale è di fatto una delle più corrotte dittature «petrolifere» africane, sotto l’egida del presidente Objang (al potere dal 1979), della sua coorte di cleptocrati, e delle compagnie petrolifere estere che lo sostengono. Concessioni petrolifere (le controlla uno dei figli di Objang con la GEPetrol), e altri contratti energetici sono stati, tra altre, assegnati alle compagnie statunitensi Exxon Mobil, Marathon Oil, ChevronTexaco e a Dno (Norvegia), Nnoc (Nigeria), Petrobras (Brasile), Shell Oil (Olanda), Tullow Oil e Lornho Africa (Regno Unito), a compagnie cinesi (2 miliardi di dollari di investimenti negli ultimi tre anni), Gazprom (Russia), Mitsui e Marubeni (Giappone), Galp Energia (Portogallo), Union Fenoso e Repsol (Spagna), E.ON (Germania). La Guinea Equatoriale «siede» su una ricchezza di circa 1,1 miliardi di barili di petrolio in riserve provate offshore, è settimo produttore africano e terzo dell’Africa Subsahariana, nonchè tra i cinque maggiori esportatori africani di gas naturale liquefatto. Ha inoltre cospicue riserve di titanio, ferro, manganese, uranio e oro. Quasi tutti gli introiti petroliferi finiscono direttamente nei conti bancari controllati da Objang e dalla sua coorte. Il 73% della popolazione (1,3 milioni, secondo l’IMF) non ha accesso a fonti di elettricità e il 57% ad acqua potabile sana.
Il paese ha un esercito di 2.500 soldati e una Gendarmeria con 300 effettivi, ma le importazioni di armi e materiale militare sono state negli ultimi anni (2004-2008) abbastanza considerevoli: dall’Ucraina aerei militari per decine di milioni di dollari; dalla Repubblica Ceca blindati e munizioni (3 milioni); dalla Serbia munizioni (più di un milione); dalla Bulgaria munizionamento pesante; dalla Francia aerei militari e munizioni; dal Regno Unito blindati e parti. Aerei leggeri per 63 milioni di dollari sono stati importati da Francia e Stati Uniti nel 2007 e 2008; elicotteri leggeri da Italia, Stati Uniti e Sudafrica (2007).
La Guinea Equatoriale ospita inoltre da anni un Registro aereo di «convenienza», dove sono iscritti aerei e compagnie che non amano supervisioni e controlli.
Il fornitore. Se le informazioni sono, come sembra, corrette, la Croazia avrebbe dunque autorizzato l’esportazione di 10/15 tonnellate di armamenti verso una delle peggiori dittature di fatto, se non di nome, del continente africano. E non è detto che quelle tonnellate siano state le sole, poichè non vi sono ancora dati sulle esportazioni di armi per il 2009. La Croazia dovrebbe diventare membro dell’Unione Europea a tutti gli effetti dal 2010. Come inizio del suo ultimo anno da candidata non c’è male, anche se dalla Croazia non è certo la prima volta che partono armi per operazioni «coperte» dei paesi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti (dal porto meridionale di Ploce, per esempio).
Il mediatore e Cipro. La società Infora Ltd è un broker che tratta molte cose diverse, tra cui materiale militare. Con una particolarità: il suo indirizzo principale è a Cirpo: «Stasinou 1, Mitsi Building 1, 1st floor, Flat/Office 4, Plateia Eleftheria, P.O. Box 21294, P.C. 1505». Lo stesso Flat/Office 4 è dato come indirizzo di numerose altre società, ma è in realtà lo studio di un avvocato, forse semplicemente un domicilio per imprese che si registrano nell’isola ma in essa hanno solo una casella postale. L’avvocato dice però di non aver mai sentito della Infora. La Infora ha anche una rappresentanza in Ucraina, a Kiev. Interpellati, i rappresentanti della società non hanno risposto.
L’aereo e il trasportatore. L’aereo – numero di fabbrica 6343707, entrato in servizio con l’aviazione militare ucraina nel 1966 – passa alla ucraina Meridian nel giugno del 2007 (che ne cambia la registrazione da Er-Aci, Moldova, a Ur-Cak, Ucraina), dopo essere stato sotto vari operatori (l’ucraina Icar, le moldove Jet Line International, Aero-Nord Group e Aerocom, quest’ultima coinvolta in traffici d’armi per la Sierra Leone e, nel 2004, in spedizioni statunitensi «coperte» di armi dall’aeroporto musulmano-bosniaco di Tuzla). Molto attivo in particolari aeroporti europei (Ostenda, Maastricht, Budapest, Varsavia, Glasgow-Prestwick, Luga-Malta) e in Afghanistan, il 28 maggio di quest’anno è a Larnaca, Cipro, e Francoforte, prima di volare a Zagabria.
La Meridian è stata formata nel 1999, come Poltava Universal Avia e ribattezzata Meridian nel 2007, ha una flotta cargo composta da 5 An-12 e 2 An-26. Secondo la radio ucraina Nrcu, la compagnia sarebbe stata messa in vendita alla fine di gennaio 2009 dal proprietario, il Fondo Ucraino delle Proprietà Statali, e avrebbe dovuto essere ceduta nel Maggio. Anche Meridian non ha risposto alla richiesta di ulteriori informazioni. Sarà tutto regolare, ma certo mancano un po’ di pezzi.
Qui: http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090623/pagina/16/pezzo/253112/
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I piani genocidi per l’Africa nel campo energetico e dei biocarburanti
In un appello mandato al 13mo Vertice dell’Unione Africana, che si terrà dal 24 giugno al 3 luglio a Sirte, nella Libia, la Commissione Africana dello Schiller Institute chiede ai paesi membri di respingere le trappole neocoloniali rappresentate dall’energia solare e dai biocarburanti, che sottraggono terreni che dovrebbero essere utilizzati per lo sviluppo economico e la produzione alimentare, per gli africani stessi.
Il numero del 16 giugno del settimanale tedesco Der Spiegel ha svelato un piano scandaloso che occuperebbe vaste distese di terra nel Nord Africa allo scopo di produrre energia. per l’Europa! Un consorzio guidato dal Club di Roma e comprendente 20 società (tra le quali il colosso assicurativo tedesco Munich Re, la Siemens, la Deutsche Bank e la società di energia elettrica RWE) ha annunciato un progetto da 400 miliardi di euro per installare una serie di grandi impianti solari nel deserto nordafricano. Il piano, di nome Desertec, si basa sull’energia termica a basso livello tecnologico, con l’utilizzo di specchi parabolici per riscaldare l’acqua e poi alimentare le turbine di una centrale elettrica in loco.
Il materiale promozionale che si trova sul sito web della Fondazione Desertec, pagato dai maltusiani del Club di Roma, non fornisce alcun dettaglio sulle dimensioni degli impianti solari, né sul numero di impianti che servirebbero per raggiungere lo scopo dichiarato di fornire almeno il 15% del fabbisogno europeo. L’unica conclusione logica è che la vera intenzione non è di produrre energia elettrica, tanto meno per l’Africa, ma piuttosto di creare una nuova bolla finanziaria. Gli impianti solari previsti nel piano hanno un fattore di capacità del 25% circa, il che significa che la produzione di energia avverrebbe soltanto per un quarto del tempo in cui sono in funzione; per converso, gli impianti nucleari producono energia il 95% del tempo. Inoltre, gli impianti solari a concentrazione utilizzano quattro volte l’acqua utilizzata da un impianto a gas naturale – un’idea folle per il deserto nordafricano dove c’è un bisogno disperato di risorse idriche.
Contemporaneamente, oltre ai terreni già riservati alle “riserve naturali”, le società multinazionali acquistano piantagioni per la produzione di biocarburanti, grandi quanto interi paesi europei. Le multinazionali britanniche quali la BP, e le società di “energia rinnovabile” come la Sun Biofuels e la Kavango Bio Energy, possiedono o hanno preso in affitto migliaia di ettari di terreni in Angola, Etiopia, Mozambico, Nigeria, Tanzania e Namibia settentrionale. La società norvegese Biofuel Africa detiene i diritti d’utilizzo di 38.000 ettari di terra nel Ghana, mentre la tedesca Prokon utilizzerà 200.000 ettari in Tanzania – un territorio grande quanto il Lussemburgo!
Nel Mozambico, il progetto ProCana ha destinato 75.000 ettari (cinque volte l’isola di Manhattan) per la coltivazione di canna da zucchero, da destinare alla produzione di etanolo. La BioEnergy Africa, che ha sede nelle Isole Vergini Britanniche, possiede il 94% di ProCana, e dal 2007 gli investitori nel settore dei biocarburanti hanno richiesto l’utilizzo di 5 milioni di ettari nel paese – l’equivalente di un settimo di tutti i terreni arabili nel territorio. Nel febbraio del 2009 il Kenia ha annunciato che destinerà 200.000 ettari alla produzione del biodiesel, mentre nella Repubblica Democratica del Congo 2,8 milioni di ettari saranno utilizzati per una piantagione cinese di olio di palma. L’Etiopia ha addirittura disposto 27 milioni di ettari per la produzione di biocarburanti. E la lista continua. L’unico paese che ha bloccato un contratto del genere, che avrebbe concesso alla sudcoreana Daewoo l’utilizzo di 1,3 milioni di ettari per la produzione di bioetanolo per 99 anni, è il Madagascar. Il nuovo presidente Andy Rojoelina è intenzionato a porre fine a tutti i negoziati di questo tipo.
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Risposte a “esperimento scientifico seconda puntata, e
ultima” di Franco Berardi
Io sono arrivata tardi a Rekombinant e non ci ho mai scritto niente,
ma tanto
ho preso/appreso, cercando di tradurlo in pratica nei campi in cui
opero, che
non sono quelli del coinvolgimento diretto nell’esperienza elettorale,
ma
quelli di un lavoro che ha forte impatto sulla crescita culturale e
sociale e
quelli dell’attività sindacale, in difesa del lavoro, dei lavoratori e
dei
precari, categoria questa alla quale, a 49 anni, ancora appartengo in
parte,
essendo o0bbligata a un tempo indeterminato a part-time nella Pubblica
Amministrazione (settore beni culturali).
Sono arrivata a Rekombinant e a Bifo partendo da un incontro
“intellettuale”
con le opere di Deleuze e Guattari, ritenendolo un luogo importante di
riflessione culturale e progettualità politica.
Io credo che non abbia ancora perso questo senso. Si tratta di aiutare
Rekombinant a superare il conflitto tra l’orizzonte limitato di chi
detiene
il capitale e quello inevitabilmente più ampio della società. Bisogna
forse
ri-calcolare il lungo-termine e non mollare e questo ti chiedo: non
mollare.
I movimenti falliscono perchè i ruoli al loro interno diventano
“professioni”
e “poltrone”, e perchè non sono capaci di trovare una “strategia di
confine”,
di articolazione con ciò che è fuori dei movimenti, non conoscono i
significati del confine e la loro impermeabilità diventa un limite
strutturale.
E’ un problema culturale anche questo, ma ci si può ancora lavorare
sopra. Io
lo faccio ogni giorno nella mia attività, anche quella sindacale. Sono
una
sola eppure tutto un “movimento” siede con me ai tavoli contrattuali,
combatte, elabora, vince e perde. Se accogliamo questa modalità come
opzione
e la pratichiamo diffusamente, forse una speranza di creare un “nuovo
piano
di consistenza dei valori” si può ancora averla.
Non so se questa mia speranza può essere ancora anche la tua. Io lo
spero…
–
Caro Franco, bentornato fra gli umani. Francesco Panichi
–
caro Franco,cari rikombinanti,
Io considero riuscito l’esperimento scientifico.Perchè di questo si
trattava.
Noi siamo un laboratorio e costruiamo esperimenti di ricombinazione su
diversi piani: da quello genetico a quello estetico a quello individuale
personale a quello psicosociale e così via fino ai mille e più piani.
Il tuo, come hai giustamente detto è stato un esperimento di
ricombinazione
sul piano politico. Un piano difficile, un piano che implica
personalmente
che mette in gioco la propria immagine. Ci vuole coraggio per
sperimentare
nel campo politico la ricombinazione.
Io ritengo riuscita questa esperienza. Diverse identità del novecento
si sono
mescolate, il processo è ancora allo stato embrionale. Questa è stata
l’intuizione di Franco quando ha proposto il laboratorio della
ricombinazione.Era un esperimento che avrebbero dovuto fare altre
forze dopo
il movimento di Seattle nel 1999, li c’è stata l’apertura del nuovo
secolo.
Ma in italia le forze politiche non sono state all’altezza di quel
movimento
che secondo me ha prodotto il concetto della ricombinazione.
Per questo a distanza di tempo c’è stato l’esperimento Bolognese,
quell’esperimento, per me, è l’emergente nel piano politico del
paradigma
della ricombinazione.
L’esperimento è stato una applicazione alla politica del ready made e
dunque
non va valutato dal punto di vista della “politique
politicienne” ( non ha
preso abbastanza volti per esprimere un consigliere) ma per lo spazio
mentale
che ha aperto. Questo esperimento ha dimostrato che è possibile( un
possibile) costruire il momento politico della ricombinazione. Un
momento non
è la stessa cosa di una situazione, un momento è più profondo ed ha
maggiore
durata, un momento politico non si valuta per l’esito elettorale. Bob
Dylan è
stato fischiato quando è passato dall’acustico
all’elettrico.L’esperimento
dimostra il possibile.
Noi siamo il possibile
Adelante companeros hasta la victoria siempre
Leonardo Montecchi
–
ripubblico quanto ho messo su walden.splinder.com – che non sta
funzionando.
Saluti,
Wolf
Su Rekombinant,
parlando del risultato deludente di Bologna Città Libera, Bifo insiste
sull’impossibilità di trovare le forme della ricomposizione tra lavoro
precario, lavoro migrante e lavoro cognitivo, incapaci di riconoscersi
come soggetto collettivo: sul piano sociale ed affettivo il cervello
sociale appare incapace di ricomporsi, di trovare strategie comuni, di
condividere narrazioni, incapace di solidarietà materiale. Ma se questa
frammentazione è in qualche modo costitutiva della città nel
neoliberismo, la provincia profonda sembrerebbe fuori da queste linee
di frattura.
Le nostre Vergato e Grizzana, dove abbiamo cercato un risconto
elettorale
(con le liste a
mio parere più radicali tra quelle nate autonomamente nei comuni della
provincia), presentano in apparenza un quadro sociale più omogeneo,
almeno in questa fase conclamata ma non ancora agonica di crisi. Il
lavoro, in terra di pendolari, resta in gran parte fuori dal discorso
elettorale; e d’altra parte i soli a parlare di rilocalizzazione
(filiera corta etc.) eravamo noi. Tutto si giocava sulla gestione del
territorio (la nostra crescita zero vs. i nuovi insediamenti,
“sostenibili” ca va sans dire, degli altri) e sulla capacità di
garantire servizi pubblici alla collettività, temi su cui gli altri
contendenti (cementificatori, e nel caso del PD, sindaci dipendenti
strictu senso di Hera) avevano tutte le carte sbagliate in mano; e
quindi abbiamo creduto (ho creduto, quantomeno) che sulla base delle
esperienze di riappropriazione del territorio fiorite dalla Val di Susa
in giù, su questi temi si potesse intercettare una sensibilità in
qualche modo già matura.
Invece
ho sbagliato, e l’11 e rotti per cento su tre liste a Grizzana non mi
pare molto diverso dall’1,66 di Bologna Città Libera nel capoluogo.
Andrei
dunque oltre l’ipotesi di Bifo, e direi che non solo non si afferma un
general intellect emancipato dal macchinismo tecno-sociale
capitalistico, ma addirittura non c’è la capacita di articolare e
collocare nel campo politico la diffusa consapevolezza dell’impasse
sociale (ed esistenziale) in cui siamo sprofondati – quella che sempre
lui chiama, opportunamente, senescenza. E quindi l’elettore, pur avendo
– quando ce l’ha – coscienza dell’irrilevanza di un’ennesima grande
opera (Bretella Reno-Setta, o Passante Nord) o della metanizzazione
delle frazioni più sperdute pagata a prezzo di un consumo smisurato di
suolo, finisce per votare come se questi diversivi contassero – in una
finzione reciproca che premia chi tiene un profilo basso e si candida
ad articolare quotidianamente la piatta e nociva governance (vedi
nota).
Quindi,
mi si dica pure che è sovrastrutturale rispetto alla questione della
frammentazione sociale del lavoro (è così!), ma il muro contro cui
abbiamo sbattuto è quello solidamente costruito negli ultimi
trent’anni, ovvero quello del restringimento progressivo del campo del
politico. Come non è infatti più pensabile una politica del lavoro che
non sia sfruttamento e divisione, non lo è più paradossalmente neanche
un’amministrazione comunale che non sia espressione di compromessi
costitutivi con i poteri forti. E non dico che non sia auspicata da
qualcuno – semplicemente è ritenuta una fola.
D’altronde era chiaro a tutti come quella elettorale fosse la ricerca
di una
scorciatoria, kwisatz haderach – ma, come ci insegna la storia e anche
la
fiction
(Dune) difficilmente questa arriva al momento giusto: troppo presto per
la Bene Gesserit, non ancora per noi. La via è ancora tutta da
tracciare, e le cose adesso ricominciano a essere (più) complicate,
opache e sempre e ancora ineludibili.
Wolf Bukowski
–
Da Claudio Botticelli
Noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo
non possiamo vincere, perché è il potere che vince sempre
(perché è sempre il potere che vince).
Noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui
convinciamo, vinciamo, cioè determiniamo una sitazione di
trasformazione difficile da recuperare”.
Franco Basaglia 1924 – 1980
I fautori di una società capace di porsi dei limiti non hanno bisogno
di riunire una maggioranza. In democrazia una maggioranza elettorale
non si fonda sull’adesione esplicita di tutti i suoi membri a
un’ideologia
o a un valore determinato. Una maggioranza elettorale favorevole alla
limitazione delle istituzioni sarebbe molto eterogenea: comprenderebbe
le vittime di un particolare aspetto della sovrapproduzione, gli esclusi
dalla
festa industriale e coloro che rifiutano in blocco i caratteri della
società
totalmente razionalizzata.
Quando le cose continuano ad andare per il loro verso, l’assoggettare a
limiti una istituzione dominante mediante un voto di maggioranza assume
sempre un senso reazionario.
Ma una maggioranza può invece sortire un effetto rivoluzionario nel
momento
di una crisi che colpisca la società in maniera radicale. La crisi non
può
tardare.
E’ già cominciata. Il disastro che seguirà mostrerà chiaramente che la
società
industriale in quanto tale, e non soltanto i suoi vari organi, ha
oltrepassato
i limiti. Man mano che la crisi totale si avvicina, diventa chiaro che
lo
Stato-nazione
moderno è un conglomerato di società anonime in cui ogni attrezzatura
mira a promuovere il proprio prodotto, a servire i propri interessi.
L’insieme
produce -del benessere-, sotto forma di educazione, salute, eccetera,
e il
successo
si misura in base alla crescita del capitale di tutte le suddette
società.
Quando
è il momento, i partiti politici radunano la massa degli azionisti per
eleggere
un consiglio d’amministrazione. Essi sostengono il diritto
dell’elettore a
pretendere un più alto livello di consumo individuale, il che
significa un più
alto grado di consumo industriale. La popolazione può sempre reclamare
trasporti più rapidi, ma il giudizio sulla convenienza di un sistema di
trasporto basato sull’automobile oppure sul treno, e che assorbe una
larga
parte del
reddito nazionale, è lasciato alla discrezione degli esperti. I partiti
sostengono uno
Stato il cui scopo dichiarato è la crescita del Prodotto interno
lordo: è
inutile
contare su di essi quando arriverà il peggio.
Finché gli affari procedono normalmente, la procedura a
contraddittorio per
dirimere un conflitto tra l’impresa e l’individuo finisce con il dare
ulteriore
crisma di leggittimità alla dipendenza di quest’ultimo. Ma nel momento
della
crisi strutturale neppure la riduzione volontaria della
sovraefficienza potrà
risparmiare
le istituzioni dominanti di andare in rovina. La perdita di
leggittimità
dello Stato
come società per azioni non infirma ma rafforza la necessità di una
procedura
costituzionale. La perdita di credibilità dei partiti divenuti fazioni
rivali
di azionisti
non fa che sottolineare l’importanza del ricorso a procedure
contraddittorie
in
politica. La perdita di credibilità delle rivendicazioni
antagonistiche per
ottenere
maggior consumo individuale sottolinea l’importanza del ricorso a queste
stesse
procedure, quando si tratta di armonizzare serie opposte di limitazioni
concernenti
l’insieme della società. La medesima crisi generale può sancire un
contratto
sociale
che consegni al dispotismo tecnoburocratico e all’ortodossia
ideologica il
potere
di prescrivere il benessere, oppure può essere l’occasione per
costruire una
società
conviviale, in continua trasformazione all’interno di un quadro
materiale
definito da
proscrizioni razionali e politiche.
Nella loro struttura, la procedura politica e quella giuridica si
integrano
reciprocamente.
Entrambe modellano ed esprimono la struttura della libertà nella
storia. Se
si ammette
questo, la procedura formale può costituire il migliore strumento
drammatico
e simbolico
per l’azione politica. Il Diritto conserva tutta la sua forza anche
quando
una società
riservi a dei privilegiati l’accesso alla macchina giuridica e
mascheri il
dispotismo sotto
il mantello dei finti tribunali. Anche quando colui che si appella al
linguaggio ordinario e
alla procedura formale viene irriso e messo sotto accusa dai suoi
compagni di
rivoluzione,
anche allora il ricorso dell’individuo alla struttra formale iscritta
nella
storia di un popolo
resta lo strumento più potente per dire il vero, per denunciare
l’ipertrofia
cancerosa e il
dominio del modo di produzione industriale come l’ultima forma di
idolatria.
Ivan Illich 1926 – 2002
23. PO – LO SGRETOLAMENTO
Lo sgretolamento.
Non è propizio andare in qualche luogo.
È
un tempo nel quale gli ignobili si stanno spingendo avanti
e sono
proprio in procinto di rimuovere gli ultimi forti e nobili.
Siccome ciò
è inerente al corso del tempo, per il nobile,
in tali circostanze, non
è propizio imprendere qualche cosa.
In ciò sta il suggerimento di adattarsi ai
tempi cattivi e di star fermi.
Qui non si tratta di macchinazioni
umane, ma di condizioni del tempo
le quali mostrano anche un alternarsi
di aumento e diminuzione, di pienezza e di vuoto.
Non è possibile agire contro queste condizioni del tempo.
Non
è quindi viltà, bensi saggezza, se ci sI arrende evitando di agire.
24. FU – IL RITORNO (IL TEMPO DEL VOLGIMENTO)
Dopo un tempo di decadimento viene il tempo del volgimento.
Riappare la
forte luce che prima era stata scacciata. Vi è movimento.
Questo
movimento non ha, però, nulla di forzato.
Il segno superiore Kkunn ha
per carattere la dedizione.
Si tratta dunque di un movimento naturale,
generato spontaneamente.
Perciò, trasformare il passato è facilissimo.
Cose vecchie vengono eliminate, cose nuove introdotte;
e tutto
corrisponde al tempo senza perciò recare alcun danno.
Si formano
associazioni di persone delle medesime idee.
E questa unione avviene
pubblicamente,
essa corrisponde alla situazione del tempo e perciò ogni
aspirazione politica particolaristica è esclusa;
tali unioni non danno
luogo ad alcun errore.
Il ritorno è inerente al corso della natura.
Il
movimento è circolare. La via è chiusa in se stessa.
Non c’è quindi mai
bisogno di agire con precipitazione.
Tutto viene da sè non appena il
suo momento è giunto.
Quest’è il senso di cielo e terra.
Tutti i
movimenti si compiono in sei gradi. Il settimo grado reca, poi, il
ritorno.
I Ching
“Quello che nel 1908 era un un gruppo di qualche centinaio di militanti
in pochi circoli semiclandestini, nel 1917 era il partito di milioni
di operai
e contadini”.
Vladimir llich Ulyanov 1870 – 1924
–
sulla funzione ‘vicaria’ di Rekombinant [last message!]
di Matteo Pasquinelli
Caro Franco,
care iscritte e iscritti alla lista,
care compagne e compagni,
da molto tempo mi prometto di scrivere questo messaggio, d’accordo con
Franco che Rekombinant abbia esaurito la sua funzione. Nata come lista
di discussione sulla cultura della rete, le nuove forme dei movimenti,
la dissoluzione della sinistra tradizionale, prime analisi sul lavoro
‘cognitivo’, ecc. dopo 9 anni credo ci si debba prontamente fermare,
qui.
Complice la pigrizia, impegnati in altri progetti off-line e
sicuramente più solidi, non vi abbiamo investito tutte le nostre
energie, ma abbiamo visto stranamente il numero degli iscritti
continuare a crescere di mese in mese per arrivare a quota 1813 oggi
23 giugno 2009, di fatto la mailing list di movimento (?) più grande
in lingua italiana, ma chiaramente senza più quel sostrato che fu
l’energia post-Seattle e le prime sperimentazioni radicali legate alla
rete. Abbiamo temporeggiato un po’ troppo.
Lungi dal voler accreditare alcun ruolo di agorà centrale, di sicuro
RK cominciò ad un certo punto a diventare uno spazio di comunicazione
per eventi, comunicati, volantini, appelli di varia natura, svolgendo
una funzione ‘vicaria’ troppo ampia che non le apparteneva, coprendo
energie nuove e progetti nobilissimi ma al tempo stesso perdendo una
dimensione di ricerca, o meglio non mettendo a fuoco un orizzonte
politico e dando spazio ad iniziative da mercatino equo-solidale o da
ecologismo piccolo borghese, per essere onesti.
Oggi ci sono mille altre piattaforme di comunicazione ben più solide e
ricche di contenuti che questa lista, e ancorate a progetti reali e
concreti. A quelle dovremmo dedicare le nostre energie. I siti di
movimento sono diventati blog dinamici con traffici elevatissimi, che
fanno impallidire il primo umile blog di RK in Phpnuke, che cominciò
nel lontano 2001, uno dei primi in Italia. La rete si è espansa, oggi
gli strumenti sono altri.
In questi anni due diverse letture hanno separato me e Franco e a
volte ne abbiamo parlato di persona o in rari incontri al telefono tra
Amsterdam e Bologna: l’idea cioè che la rete non precede le forze e le
energie della cooperazione sociale e l’idea che la rete possa invece
instaurare meccanismi virtuosi al di la’ del politico e del sociale.
La vertigine del digitale: l’idea che il virtuale possa fondare
politicamente il reale, detta semplificando. Non e’ questo il luogo
per riaprire dibattiti ormai sopiti e archiviati a tutte le
latitudini. Per me si dovrebbe ripartire da plusvalore e ‘spiriti
animali’, ma non mi metto certo a discuterne ora. Come non sto ad
entrare nel merito delle elezioni bolognesi, che rappresentano un
esperimento politico come tanti passati per RK (che non è mai stata
una mailing list locale).
Se il problema è la ‘ricomposizione’ del lavoro cognitivo, come dice
Franco, non è detto che tale ricomposizione ‘politica’ dei lavoratori
in rete debba seguire la forma della sua composizione ‘tecnica’,
ovvero di quella rete che li ha forgiati. Tentazione cruciale. Questo
è il vero motivo per cui abbiamo bisogno di una lunga pausa, non tanto
le disfatte elettorali.
Una nota sul moderatore: in tutti questi anni la lista è stata
‘editata’ da me, giornalmente, anche da location improbabili e
condizioni climatiche avventurose. E’ stato divertente, ma avrei
bisogno di riposare i polsi. E’ stato di sicuro necessario per salvare
il nostro tempo di attenzione da innumerevoli forme di spam:
commerciale, fascistoide, i mercatini equo-solidali di cui sopra, ex-
parlamentari che cercavano di farsi belli pure su questi server, ecc.
ecc. Nulla che scaldasse i cuori. Non ci poteva essere altra soluzione
per un livello di comunicazione decente tra 1800 iscriti.
Di certo non si finisce così, brutalmente: proporrei di mettere la
lista in modalità stand-by, di aspettare i prossimi eventi come il G8
e di chiudere definitivamente nei mesi estivi. Invece di fomentare
dibattiti nostalgici, vi invito a forgiare progetti nuovi. Ma evitiamo
l’accanimento terapeutico: per quanto riguarda Rekombinant si deve
chiudere.
Quindi ora io passerei educatamente al graduale spegnimento dei motori.
Un ultimo saluto e ringraziamento a tutti coloro @ comodino.org che
hanno permesso di ospitare RK e di farla girare senza problemi per
così lungo tempo.
A presto, le occasioni non mancheranno
Matteo
—
Una senzatetto ad Harvard
In 18 anni non ha mai avuto una casa. Studiava in mezzo ai rifiuti e ai topi
E’ nera, è povera, è figlia di una ragazza madre ed è senza tetto, ma tutti la conoscono come «la ragazza di Harvard» o semplicemente «quella intelligente». Khadijah Williams sta per partire per Harvard, che l’ha appena ammessa dopo che ha superato brillantemente tutti i test. La famosa Università del Massachusetts sarà anche la prima casa che la ragazza avrà nei suoi 18 anni di vita: nonostante l’aria serissima con gli occhialoni spessi, da secchiona vera, finora ha vissuto nelle discariche, per strada, nei rifugi per senzatetto o in camere di motel di periferia.
Con la madre – che l’ha avuta a soli 14 anni, da un uomo di cui Khadijah non sa nulla – e la sorella minore Jeanine, era in vagabondaggio perenne, in tutta la California, mai più di pochi mesi nello stesso posto, mai più di poche settimane di scuola, 12 istituti in 12 anni, interi semestri saltati. Ma Khadijah sapeva di essere speciale: a soli 9 anni aveva superato un test scolastico con un risultato raro, «solo uno su diecimila aveva un punteggio simile». E così aveva proseguito tenacemente gli studi, in mezzo ai topi e ai rifiuti, circondata da barboni, spacciatori e prostitute. Ogni mattina si puliva, per non puzzare in classe, non voleva si sapesse che dormiva in strada. Viveva in mezzo a due mondi, che entrambi non l’accettavano. A scuola la prendevano in giro perché era povera e «leggeva sempre», a casa – quella che chiamava casa, per strada – i barboni ridevano: «Non vorrai mica andare all’università».
E invece è proprio quello che Khadijah voleva, incoraggiata dalla madre vagabonda: «Hai un dono speciale, sei come Oprah», diceva. Così questo piccolo genio, oltre a imparare a setacciare i rifiuti, cercare i rifugi e le mense per senzatetto e riuscire a attraversare mezza California tenendo a mente tutte le coincidenze degli autobus, ha fatto la maturità e superato brillantemente i test di ammissione di oltre 20 migliori università americane, tra cui la Columbia e Amherst. Ha scelto il meglio, Harvard, dove solo pochi professori sanno che è una senzatetto: «Sono orgogliosa della mia intelligenza, non voglio che la gente pensi che vengo favorita per pietà». Altro che pietà: Julie Hilden, l’esaminatrice che l’ha accettata ad Harvard, la considera «la candidata migliore, se non la prendevamo rischiavamo di perderci la prossima Michelle Obama».
in controtendenza, rispetto al *graduale spegnimento dei motori* vi giro
questa recensione del volume che potete trovare qui:
http://www.agenziax.it/?pid=29&sid=30
poi vorrei mandare 2 righe sulle note di Matteo e il nostro futuro
post/trans-RKs, ma non è una minaccia;-)
abbracci
peppe
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090618/pagina/12/pezzo/252708/
È con gioia divertita e attenta che salutiamo la pubblicazione di *Anarchy
in the EU*. L’autore è Alex Foti agitatore politico e culturale, ricercatore
sociale, che sul crinale del secolo/millennio ha attraversato creativamente
il globo, immaginando e sperimentando le molteplici forme di sovversione
della *next generation *precaria, meticcia, migrante e metropolitana. Sono
gli occhi di un fratello maggiore, irriducibile agli stili di vita di una
maturità ottusa e integrata, che si riconosce negli sguardi carichi di
rabbia creativa di una nuova generazione, disposta a mettersi in gioco nella
palude di una società sorda e attonita. È la scommessa di un’alleanza
generazionale tra chi ha vissuto la prima ondata di precarietà di massa e
chi affronta ora la seconda, in un’epoca di crisi economica globale.
Da queste irriducibili esperienze nasce la voglia di Foti di mappare i
sommovimenti sociali dell’ultimo decennio, quindi provare a narrare in prima
persona la partecipazione e il protagonismo di questi *nuovissimi* movimenti
dell’era globale, per concludere con uno slancio analitico e teorico di
fuoriuscita dalla *Grande recessione* in cui ci troviamo. E così il libro si
articola in tre parti: una mappa cromatologica delle quattro stelle
red-comunista, pink-queer, black-anarchica and green-ecologista
dell’EuroMayDay per arrivare ad un “atlante dell’eresia politica in Europa”;
quindi un vero e proprio diario a *mille piani* dall’”Europa eretica e
sovversiva”; per concludere con la presentazione di un modello analitico
che, partendo dalla *Grande Depressione* degli anni ’30 dello scorso secolo,
ci invita a uscire dalla attuale *Grande Recessione*.
L’incontenibile vena creativa dell’autore ci impedisce di rendere
minimamente la ricchezza del volume, a cominciare dalla impossibilità di
descrivere gli adesivi rosso-rosa-nero-verde che illustrano al meglio le
quattro tendenze dell’attivismo sociale degli *anni zero*. È un libro
scritto con una grande capacità narrativa, riuscendo a tenere insieme
narrazione *pop* dei nostri tremendi tempi postmoderni, analisi e
riflessione da godibile saggio di storia sociale ed economica, immaginifiche
visioni del mondo che verrà. Il tutto con l’abilità poliedrica di
un’impostazione da pragmatismo anglosassone, coniugata alla rielaborazione
del pensiero critico continentale e al suo dialogo produttivo tra teoria e
prassi. È quindi un libro da leggere tutto d’un fiato e rileggere a
frammenti: solo così le intuizioni, a volte provocatorie, altre illuminanti,
altre ancora visionarie, trovano il tempo di sedimentarsi.
In questo scorcio di fine primo decennio *zeroista* Foti scommette
sull’avvenuta contaminazione dei *nuovissimi* movimenti dell’era globale,
tra Seattle, Genova e *no war*, con le sensibilità *pink* del femminismo
queer, il *green* dell’ecologismo urbano e post-capitalistico, il
*black* antiautoritario,
tra nuove forme di autonomia e anarchismo degli *squat* e dei centri sociali
delle metropoli europee. Sono gli eventi che dalle *MayDay* degli “european
flexworkers let’s unite” di inizio secolo portano ai precari *riots*francesi
*anti-cpe* e delle *banlieues* tra il 2005 e il 2006, alla Copenhagen
dell’inverno successivo, alla Rostock della primavera seguente, a Malmö
dell’autunno scorso e al natale infuocato di Salonicco e Atene, mentre la
recessione* *inizia a dispiegare i suoi devastanti effetti. È la *European*
*Next Generation* che batte il proprio tempo facendo *tabula rasa* di un
mondo che vorrebbe condannarla alla solitudine di una società impaurita e
rancorosa: sono i *Children of the Revolution*, come ebbe a chiamarli anche
*The Guardian*. La narrazione di un conflitto generazionale contro la
gerontocrazia politico-istituzionale, ma anche contro le idiosincrasie della
vecchia sinistra partitica e sindacale. Foti rintraccia germi di una *Next
Left* *a venire*, che fa i conti con i dogmi novecenteschi di una sinistra
costretta alla conservazione paternalistica, piuttosto che al cambiamento
progressivo di condizioni economiche e sociali intollerabili per la dignità
di un paio di generazioni e non solo!
Può sembrare azzardato che proprio dinanzi agli attuali effetti della crisi
economico-finanziaria globale Foti proponga, nella parte conclusiva del suo
libro, un modello di fuoriuscita dalla recessione interpretando i grandi
cicli della storia economica e sociale del Novecento. Non volendo ridurre la
complessità del modello, come negli anni ’30/’40 del secolo scorso si
assiste alla *prima biforcazione* tra Grande Depressione, *New Deal*
statunitense,
guerra mondiale e riformismo post-keynesiano degli anni ’50 e ’60, così
negli anni Dieci del Duemila si può ripresentare una *seconda
biforcazione*da “futuro antidistopico”, progressista ed ecosolidale,
che prevalga su
quello “reazionario, fascista, ecocida”. È l’ottimismo inguaribile di chi
intravede una possibilità nella riforma *obamita* dall’alto e nel
protagonismo dei *nuovissimi* movimenti dal basso. Questa capacità di tenere
sapientemente insieme nuova linfa politica dei movimenti sociali europei e
prospettiva di trasformazione globale dei destini dell’umanità è il pregio
solare e accattivante di un volume che parla a chi lotta quotidianamente per
stravolgere l’esistente: *Fight for your right (to party)*!
Rispondendo *per le rime* all’allusione *Sex Pistols* del volume notiamo che
spesso *The World Won’t Listen*, come titolavano i profeti
dell’*indie-pop*disincantato e radicale
*The Smiths* capitanati da quel Morrissey che avrebbe voluto vedere *Margaret
on the guillotine*, assurta al trono neo-liberista proprio trenta anni fa e
ora definitivamente spodestata, come i suoi eredi. Ma quest’anno ricorre
anche il ventennale di una casa discografica cara a tutti i *ravers* europei
degli anni ’90 e oltre: la WARP Records, che annovera Aphex Twin e
Squarepusher, tra gli altri, e pare debba il suo acronimo a *Weird And
Radical Projects*: “progetti misteriosi e radicali”. Questo libro può
aiutarci a immaginarne di nuovi e a rintracciare qualche arnese per
costruirli.
IGOR MAN, 25.06.09 | |
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Grazie a quella che Gandhi chiamava «la prepotenza della notizia», veicolata da Twitter, il sito Internet che raccoglie e diffonde stringati messaggi, un po’ tutti nel mondo seguiamo gli accadimenti iraniani. Il «no» degli iraniani di buona coscienza alla truffa elettorale che ha ribaltato il responso delle urne, e la protesta popolare che ha provocato una repressione spietata, entrano nelle nostre case tranquille col loro corteo di sangue, di morte. Giorno dopo giorno, ora per ora. I lettori, la gente, l’opinione pubblica mondiale (chi per un verso chi per l’altro) si interrogano, ansiosamente: riusciranno gli iraniani che si riconoscono nel «moderato» Mir Hossein Mousavi (il grande truffato) a cancellare la frode elettorale, ad avere giustizia, insomma?La risposta niente affatto elegante è «ni». Non pochi commentatori hanno scritto che laggiù, in Iran, «qualcosa s’è rotto». Vale a dire che quella sorta di complicità che regnava pro bono pacis nella camera dei turbanti, fra gli ayatollah ortodossi, fermi al dettato di Khomeini, e i «riformisti» alla Khatami, per intenderci, è andata in pezzi. Lasciando solitari arbitri della situazione i militari. Un esercito bene addestrato che aspetta solo l’atomica per guardare oltre i confini del cosiddetto «arco della crisi»: dal Golfo all’Indonesia passando per l’Africa afflitta da due orchi: l’Aids e la corruzione. Le ambizioni dei militari, il loro disegno strategico, si coniugano con il sogno dei turbanti khomeinisti.La oramai remota ma sempre esaltata vittoria elettorale di Khatami svelò del tutto la realtà nascosta dalle speranze, dagli slogan degli studenti, dei commercianti del bazar (generosi sovvenzionatori di Khomeini). E cioè: in Iran può dichiararsi ed essere un presidente davvero operativo il politico che goda dell’appoggio dei pasdaran (le milizie di regime), che abbia dalla sua i rapaci bassji (polizia mobile e senza misericordia, quella che ha ucciso la giovinetta Neda, sotto gli occhi del padre), ma soprattutto chi possa contare sull’appoggio delle forze armate, oggetto di cure e premure del mistico presidente Ahmadinejad. Il New York Times ha scritto che «la frattura è al top» (non tutti i grandi religiosi sono con Khamenei) e nel frattempo la rivolta popolare è diventata un «movimento di base».
Sappiamo per esperienza storica e per la frequentazione con persiani cultori della pace, delle buone letture, «gente come noi», che i veri «moderati» sono i borghesi e gli studenti: sono loro, in queste giornate terribili, a tener vivo il braciere della protesta. Ma è solo un braciere, poiché a ravvivare la protesta sono giustappunto (relativamente) pochi iraniani. Di più: un movimento come quello che sconvolge un grande Paese indoeuropeo con la sua protesta, con i suoi animatori schiaffati in galera, un movimento così lo spegni solo col sangue. Molto sangue. Nessuno dei contendenti vuol sopprimere l’antagonista sicché dietro le quinte c’è un grande lavorio di intelligence. Nell’attentato suicida al mausoleo di Khomeini potrebbe esserci la chiave di lettura della crisi che sta massacrando l’Iran. Se gli autori del sacrilego attentato risultassero i «fedayn dell’esterno», quelli scesi subito in campo contro Khomeini, il contestato governo avrebbe spianata la via d’una repressione ad alzo zero per radere al suolo la meglio gioventù di Teheran. Ma chi ha profanato il mausoleo dell’imam? Agenti provocatori, «fedayn dell’esterno» o James Bond che scaldano i muscoli per un blitz punitivo sui siti nucleari dell’Iran? Dalla natura della risposta dipende il destino d’un Paese antico che ha sempre guardato all’Europa, all’Italia in particolare. —
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Non scrivete piu’ cosi’
Nel corso della diciottesima assemblea dell’Alleanza delle agenzie di stampa del Mediterraneo (Aman) e’ stato deciso di non utilizzare piu’ il termine “clandestino” o “clandestinita’” (sans papier in francese) nei mezzi di informazione. D’ora in poi si parlera’ di “migrazione irregolare”.
“Visto l’impatto dei media sull’opinione pubblica – ha spiegato il presidente dell’Alleanza – le agenzie hanno il dovere di selezionare i termini adeguati nel quadro del rispetto dei diritti umani”.
(Fonte: misna.org)
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L’umanita’ potrebbe vivere sfruttando solo l’energia eolica
E’ quanto rivela uno studio, teorico ma molto scientifico, condotto da Xi-Lu, Michael McElroy e Juha Kiviluoma, docenti della School of Engineering and Applied Sciences alla Harvard University di Boston e pubblicato sulla rivista dell’Accademia americana delle Scienze Pnas.
Grazie a un complicatissimo modello matematico i ricercatori hanno calcolato in 3,4 miliardi di Megawatt il potenziale complessivo dei venti che soffiano sul nostro pianeta.
Con una rete di turbine da 2,5 MW di potenza (non e’ specificato il numero esatto), disposte solo negli USA e funzionanti al 20% della loro capacita’, si potrebbe generare energia rinnovabile pari a 5 volte il consumo globale.
E ci sarebbe anche un surplus di produzione che potrebbe finalmente aprire la strada, ad esempio, alle auto elettriche.
Ovviamente le turbine dovrebbero essere disposte in luoghi appropriati, lontano dai centri abitati, dalle rotte migratorie degli uccelli, dai ghiacciai e dalle foreste.
Nel 2008 l’eolico negli Stati Uniti ha costituito il 42% di tutta la nuova capacita’ elettrica installata, in Italia siamo al 1,1%.
(Fonte: Corriere.it)
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Marocco, per la prima volta una donna sindaco di Marrakesh
Fatima Zahra Mansouri è il nuovo sindaco di Marrakesh, città tra la più importanti del Marocco. E’ la prima volta nella storia della monarchia marocchina che una donna diventa sindaco di una città così importante.
Avvocato, 33 anni, Zahra Mansouri è stata eletta con 54 voti dopo aver superato le elezioni comunali del 12 giugno nelle file del Partito dell’Autenticità e della Modernità (Pam) creato nel 2008 da Fuad Ali El Himma, molto vicino al sovrano marocchino Mohammed VI. Figlia di un ex pascià, Zahra Mansouri ha seguito gli studi di giurisprudenza in Francia. Nelle elezioni comunali del 12 giugno il Pam si èaggiudicato 6015 dei 27.795 seggi in palio superando con il 21,7 percento dei suffragi l’Istiqlal, il partito del primo ministro Abbas El Fassi.
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Ergastolo al killer di Pippa Bacca
e uccise l’artista milanese nel 2008
Condannato all’ergastolo l’assassino di Pippa Bacca, l’artista milanese di 33 anni violentata e uccisa nell’aprile del 2008 in Turchia. Murat Karatash, 38 anni, ha ricevuto la massima pena al termine dell’ottava e ultima udienza del processo, svoltosi ad Ankara.
La notizia è stata confermata dal quotidiano turco Milliyet. Pippa Bacca, nome d’arte di Giuseppina Pasqualino di Marineo, era un’artista milanese, nipote di Piero Manzoni. Lo scorso anno si era recata in Turchia in compagnia di un’amica, per una performance itinerante. Le due donne viaggiavano indossando un abito da sposa, per promuovere la pace nei Paesi martoriati dai conflitti. Giunte insieme a Istanbul, le due artiste si separarono, dandosi appuntamento a Beirut.
Ma in Libano, Pippa non arrivò mai. Il 31 marzo venne violentata e uccisa da Murat Karatash, a cui aveva chiesto un passaggio in auto. Il suo corpo venne ritrovato alcuni giorni dopo e l’assassino, reo confesso, venne rintracciato perchè utilizzò il cellulare della vittima. Karatesh aveva prima confessato e poi ritrattato sostenendo che le dichiarazioni gli erano state estorte. Nell’agosto 2008 il pm aveva chiesto la condanna all’ergastolo.
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