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Archive for 17 gennaio 2009

Mediattivismo 036

La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 01.12.2009

Le aperture

La Repubblica: “La Lega: referendum sui minareti. Maroni: ‘La voce del popolo va sempre ascoltata’. La maggioranza si divide. Gli ex di An: non facciamo regali al fanatismo. Ue e Vaticano: allarme per il voto svizzero. Croce sul Tricolore, è battaglia”.

A centro pagina la giustizia: “Mancino avverte: ‘A rischio processi per omicidio’”.

La Stampa: “Minareti, allarme dell’UE. E’ polemica dopo il divieto deciso in Svizzera. La Lega auspica una consultazione popolare per il nostro Paese. Il Vaticano: così non si aiuta la libertà religiosa. Fini: un regale al fanatismo”. In prima anche un commento di Michele Brambilla (“La conversione dei Celti”) che sottolinea il fatto che negli ultimi tempi i “più pugnaci difensori della cristianità” sono esponenti della Lega che “non hanno fama di baciapile, e neppure di cattolici praticanti”. A centro pagina. “Da Guantanamo all’Italia. Obama spedisce due tunisini sotto inchiesta”. In evidenza anche la visita di Berlusconi a Misk, durante la quale il premier avrebbe ottenuto “migliaia di dossier” dagli archivi del KGB. “Morti in Russia, tornano in Italia migliaia di dossier”, il titolo.

“A Milano due da Guantanamo” è il titolo di apertura del Corriere della Sera. “I detenuti di nazionalità tunisina consegnati dagli Usa. Pm polemico sulla fuga di notizie. Obama sull’Afghanistan: rinforzi e strategia per il ritiro”. In evidenza anche la visita del premier in Bielorussia: “Berlusconi: elogio di Lukashenko”. A centro pagina le polemiche sul referendum svizzero sui minareti: “Il Vaticano difende i minareti”. E poi le proteste dell’UE, che parla di “segnale negativo”.

Il Foglio: “La Svizzera e il tabù della reciprocità con l’Islam. Dove si muore per la fede”. In prima pagina anche una conversazione con il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri: “Vogliono distruggere il Cav imprenditore? Confalonieri, capo di Mediaset, risponde alla domanda di Ostellino. Sì, il vero scontro è con il partito di Repubblica, non c’è un establishment pro ribaltone”. In prima pagina il quotidiano di Ferrara si interroga anche sulla crisi finanziaria: “Una Dubai in Europa? La Grecia al collasso scommette sulle buone intenzioni di Berlino. Contri pubblici pericolanti, Bruxelles si prepara a un richiamo”. E poi: “La stampa di Dubai minimizza al Maktoum non sembrava preoccupato. Volatili le Borse”.

Il Riformista dedica l’apertur a quella che il quotidiano definisce “la settimana terribile del Presidente del Consiglio”. E il titolo d’apertura è: “L’agenda nera del Cav”: oggi l’udienza per decidere sulla sospensione della sentenza che condanna Fininvest a risarcire alla Cir di Debenedetti circa 750 milioni di Euro, venerdì la deposizione del pentito Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri e sabato la kermesse dipietrista del No B Day. Ma la settimana si è aperta con “l’intoppo” delle ultime dichiarazioni di Fini sulle questioni di mafia. Ma sulla prima pagina, Focus anche sulla “morsa del giustizialismo” che “schiaccia Bersani”: cosa dirà di fronte ad un eventuale procedimento giudiziario che coinvolga il premier per reati di mafia? Cosa succederà in Parlamento se il centrodestra insisterà sul processo breve? Come si comporterà alla vigilia del No B day cui parteciperanno militanti e dirigenti del suo stesso partito?

Il Giornale: “Il brutto guaio della Mussolini” il titolo. “L’onorevole è vittima di una tentata estorsione attraverso un video hard che è stato offerto persino a Palazzo Chigi. Sono gli effetti di una deriva sessuale che va fermata. Ma non certo prendendosela con i giornalisti anziché con i ricattatori”, dice Vittorio Feltri.

Il Sole 24 Ore: “Tagliati consigli e giunte. Controlli straordinari del fisco su chi si autoriduce le imposte. Tra gli emendamenti alla finanziaria il governo inserisce la riduzione degli amministratori in comuni e province”. A centro pagina la situazione della finanza a Dubai, che “ristruttura i debiti ma senza garanzie statali”.

Berlusconi

Libero sottolinea come Berlusconi si sia mostrato sorpreso, quando il Presidente bielorusso Lukashenko gli ha offerto come regalo una parte dell’archivio del KGB (In Bielorussia si chiama ancora così). Il premier non se l’aspettava e si è detto commosso “nel ricevere queste carte che mi giungono senza preavviso”, e ha ringraziato Minsk anche “a nome delle famiglie dei prigionieri politici dell’Urss e delle vittime della seconda guerra mondiale”. E forse, scrive Libero, la documentazione non riguarda solo i prigionieri italiani in Russia, ma anche la fitta rete di spionaggio e informatori che l’Urss aveva nel nostro Paese. Quanto a Lukashenko, il Cavaliere ha sottolineato che “l’amore del popolo” per lui “è sotto gli occhi di tutti, visti i recenti risultati elettorali”.

La Repubblica sottolinea che le elezioni in Bielorussia sono state definite “non democratiche” dall’Osce. Hanno consacrato Lukashenko con l’82,6% dei voti e non hanno dato ai partiti d’opposizione neanche un seggio.

La Stampa scrive che si tratta di una “occasione per far luce su rapporti Italia-Kgb”. Considerando che gli ultimi sopravvissuti furono rimpatriati dall’Urss nel 1954 si potrebbe scoprire chi erano i loro carcerieri, quelli che avevano guadagnato la considerazione dei sovietici. Dalla Bielorussia potrebbero insomma arrivare quelle rivelazioni che sono mancate da Mitrokhin. Lukashenko, consegnandogli le carte, ha detto a Berlusconi: “Ho studiato personalmente questo dossier, e sono convinto che Berlusconi rimarrà molto colpito”. Magari, scrive La Stampa, salterà fuori la collusione di qualche esponente politico italiano con i servizi dell’est o la destinazione vera dell’oro di Russia. Lukashenko ha detto che il Paese ha raccolto “informazioni sugli italiani perseguitati per ragioni politiche durante le purghe staliniane negli anni 30 del secolo scorso”.

Giustizia

La Repubblica apre un nuovo fronte nella guerra contro Berlusconi: con una inchiesta firmata da D’Avanzo sull’atto di nascita di Forza Italia e quelle che considera le bugie di Berlusconi, che nel 1994 annunciò la nascita del suo partito, ma il progetto partì nel 1992. già nell’aprile del 1993 “quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro, Roma (14 maggio), via dei Georgofili, Firenze (27 maggio) è matura la volontà di Berlusconi di ‘mettersi alla testa di un nuovo partito”. Ci sono documenti notarili, secondo D’Avanzo, che retrodatano la creazione del partito. E non basta: oggi il quotidiano focalizza l’attenzione sul fatto che l’ex procuratore di Caltanissetta Tinebra informò Berlusconi che la Procura di cui era a capo stava archiviando l’accusa a carico di Berlusconi stesso e di Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Erano indagati dal luglio 1998 e furono prosciolti il 2 marzo 2001. L’allora pm di Caltanissetta Luca Tescaroli, che sulle stragi di Capaci e via D’Amelio aveva indagato, denunciò ai colleghi catanesi il comportamento “anomalo” del suo capo Tinebra.

Minareti e tricolore

Secondo Il Riformista il no svizzero ai minareti sta contagiando mezza Europa: un effetto domino che sta prendendo piede in Olanda, dove Geert Wilders, leader del partito liberale di estrema destra, ha già dichiarato che chiederà al governo di organizzare un referendum simile a quello svizzero; e tira aria di referendum anche in Danimarca, dove la bionda Pia Kjaersgaard, leader del partito Popolare, condivide la scelta di consultare il popolo; in Francia il segretario generale della UMP di Sarkozy ha detto di non esser certo che ci sia bisogno di minareti per praticare l’Islam, mentre il ministro dell’immigrazione Besson assicura che “i minareti non sono un tema politico”.

“Ora l’Europa teme l’ondata estremista” titola anche La Stampa, scrivendo che i partiti della destra radicale e le formazioni xenofobe in Austria, Belgio, Danimarca e Olanda rialzano la testa e chiedono referendum ovunque.

Il Sole 24 Ore offre ampio spazio al caso dei minareti, che accende uno scontro anche in Italia. Il Ministro dell’interno Maroni sembra chiedere un referendum anche in Italia: “E’ sempre utile in democrazia ascoltare ciò che vuole il popolo e non elites più o meno illuminate. UE e Santa Sede sono invece preoccupate per il voto svizzero e Berna teme impatti sull’economia. Stefano Folli scrive che più che alle guerre di religione, la Lega pensa a qualche voto extra in vista delle regionali, mentre Marco Alfieri analizza la conversione cattolica del Carroccio: da partito ultra-pagano a forza neo-cristiana. La svolta cattolica della Lega incrocia la questione settentrionale e il terzo ciclo leghista, che è noglobal e identitario. Dopo la malattia “l’Umberto è cambiato. E a casa sua ora ci sono anche immagini sacre”, assicura il fido Giuseppe Leoni, presidente dei cattolici padani. Più prosaicamente , il 39 per cento dei leghisti è cattolico praticante.

Karima Moual ricorda invece che il ruolo dei minareti in Europa è solo simbolico, poiché non c’è nessun muezzin che chiama con il megafono i fedeli alla preghiera.

Roberto Castelli aveva proposto di mettere una croce nel Tricolore, ma nel Pdl molti la considerano una “fesseria”, come sottolinea La Repubblica, utilizzando una frase del ministro delle Politiche comunitarie Andrea Ronchi. Sullo stesso quotidiano Filippo Ceccarelli ricorda i tempi in cui per i lumbard il vessillo era il simbolo dell’oppressione (Bossi disse che con la bandiera italiana ci si sarebbe pulito…, anche perché la Padania ne aveva una ed era bianca e verde).

Sulla Stampa: “Bossi ‘rivaluta il tricolore’ per sedurre gli elettori cattolici”.

E poi

“Leggere Tocqueville a Mosca” è il titolo che Il Foglio dà alla “orazione funebre” pronunciata da Gaetano Quagliariello nella Sala delle colonne della Luiss per lo storico Victor Zaslavsky, morto venerdì scorso. “L’esule russo che ha fatto scuola in occidente. Aveva previsto il crollo dell’Urss”.

Su La Repubblica un articolo sul “flop delle confische ai mafiosi”: non utilizzato il 75 per cento dei beni, e fallisce un terzo delle aziende affidate alle associazioni. I dati emergono dalla relazione annuale del Commissario Straordinario sui beni confiscati alle mafie Antonio Maruccia.

Oggi pomeriggio Obama annuncerà all’Accademia di West Point la nuova strategia sull’Afghanistan. Secondo il Corriere verrà annunciato l’invio di 30 mila nuovi soldati Usa a Kabul, ma a condizione di una precisa exit strategy. Ieri il Presidente Usa ha inviato una lettera al suo omologo pakistano Zardari proprio alla vigilia dell’annuncio della nuova strategia in Afghanistan. Ne parla La Stampa con il titolo: “Obama al Pakistan: basta trame. ‘Usa gruppi terroristi a fini politici’. Colloqui con Berlusconi sui rinforzi a Kabul”.

Dalla newsletter di http://www.movisol.org/ del 01.12.2009

La crisi di Dubai è la crisi del sistema dei “salvataggi” centrato a Londra

Quella che viene chiamata la “crisi di Dubai” è in realtà il crollo del sistema monetario globale centrato a Londra. Lungi dall’essere un luogo periferico, Dubai svolge un ruolo chiave nell’organizzazione di riciclaggio dei proventi criminali dell’impero.

La cosiddetta crisi è diventata ufficiale il 25 novembre, quando Dubai World, l’azienda della famiglia reale dell’Emirato, ha chiesto una moratoria sui debiti di sei mesi. Dubai World ha circa 60 miliardi di dollari di debiti, la metà dei quali verso le banche europee. L’annuncio ha ovviamente provocato una frana nei mercati azionari di tutto il mondo, colpendo particolarmente i titoli bancari.

I debiti di Dubai World hanno finanziato una delle fantasie più bizzarre dell’attuale bisca finanziaria: trasformare il Dubai in un centro ricreativo internazionale creando isole artificiali, centri commerciali, hotel di lusso e torri vertiginose piene di ogni amenità, tranne che il buon gusto. Il sistema è sembrato funzionare per un po’, ma poi il sistema finanziario è scoppiato, e i valori immobiliari sono crollati del 50%.

Ma l’ammontare del debito e dei valori immobiliari è quasi triviale, paragonato ai flussi di denaro sotterranei che formano l’economia di Dubai. Questo piccolo emirato è il centro del mercato nero dell’impero, la capitale finanziaria del flusso di denaro sporco della droga e di altre attività illecite. Dubai oggi svolge un ruolo simile a quello di Hong Kong all’inizio dell’Impero Britannico, e ospita nei suoi grattacieli i più potenti narcotrafficanti, tra cui i signori della droga dell’Afghanistan. Questo è il segreto della sua fortuna come centro finanziario.

Dubai è gestito completamente da Londra, costruito con soldi della City e da imprese di costruzione del Regno Unito. La maggior parte degli enti governativi ha un membro della famiglia reale come titolare, e un suddito britannico come vice e vero manager. Non dovrebbe sorprendere che lo sceicco Mohammed, il sovrano di Dubai, si è recato a Londra per incontrare la Regina Elisabetta, il Primo ministro Gordon Brown e altri dignitari della City nei giorni immediatamente precedenti all’annuncio di moratoria. Come ha poi dichiarato lo stesso sceicco, la cosa è stata “accuratamente pianificata in anticipo”.

LaRouche: il fatto cruciale nel caso di Dubai

In un articolo intitolato “La crisi finanziaria europea di Dubai: l’orrore di Copenhagen”, Lyndon LaRouche ha ammonito a non ignorare “il fatto cruciale nel caso di Dubai”, perdendosi negli aspetti “decorativi” della crisi. È cruciale, ha scritto LaRouche, la reazione della monarchia britannica a questo nuovo sviluppo nel contesto della crisi da collasso mondiale.

“La monarchia britannica sta reagendo istericamente e stupidamente, anche se con cattiveria, al fatto essenziale della crisi di Dubai. Essenzialmente, l’attuale sistema monetario mondiale è nel processo né di una semplice recessione, né di una depressione, ma di una crisi da collasso di un tipo che non ha precedenti nella storia europea se non risalendo al quattordicesimo secolo”.

“L’effetto politico di ciò che attualmente appare come la ‘crisi di Dubai’ che investe l’Europa occidentale, è affiorato in contemporanea con una crisi politica in Germania [le vicende attorno alle dimissioni dell’ex ministro della Difesa, ndr.]. Una successiva riflessione ha mostrato che non solo tutta l’Europa occidentale era immediatamente coinvolta, e ha subito gravi contraccolpi dalla minaccia di bancarotta degli interessi finanziari infestati dalla droga di Dubai e dell’Afghanistan. Il ruolo della Germania come terzo attore sulla scena della guerra anglo-americana in Afghanistan ha dato i segni premonitori di ciò che stava per scoppiare politicamente ed economicamente; la Regina britannica, come di prammatica, è stata preparata in anticipo”.

“Ora, diamo uno sguardo sotto le lenzuola e i burka della stessa crisi centrata sul Dubai del traffico di droga. Lo sviluppo odierno punta a ciò che deve essere considerato seriamente come potenziale detonatore di un collasso monetario a catena, non solo dell’Europa occidentale ma coinvolgente sia gli interessi finanziari di Wall Street sia la stessa amministrazione Obama”.

“Attualmente – spiega LaRouche – la traccia migliore da seguire per un’inchiesta sulla fase della crisi scatenata dal Dubai, è capire il parallelo globale della situazione attuale con la Germania del 1923, il che significa concentrarsi sulla cosiddetta crisi dei ‘salvataggi’ centrata sia sul Regno Unito che negli Usa, una crisi che continua dal settembre 2007 e che ora ha raggiunto il punto di una minaccia di collasso generale, alimentata da Obama, dello stesso sistema finanziario-monetario USA”….

«Spatuzza può aprire scenari da bomba atomica». Il pdl: «Chiarisca le sue frasi»

Fini e il fuori onda su Berlusconi: «Confonde consenso con immunità» 1-2.12.2009

Registrata a Pescara una conversazione privata tra il presidente della Camera e il procuratore Trifuoggi

MILANO – Berlusconi «confonde il consenso popolare, che ovviamente ha e che lo legittima a governare, con una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi altra autorità di garanzia e di controllo: magistratura, Corte dei Conti, Cassazione, Capo dello Stato, Parlamento. Siccome è eletto dal popolo…». Lo ha detto Gianfranco Fini, in un fuori onda (realizzato da Vincenzo Cicconi di Pacotvideo e rilanciato da Repubblica.tv) registrato all’insaputa del presidente della Camera. Fini parla con il procuratore di Pescara Nicola Trifuoggi, seduto accanto a lui, in occasione della giornata conclusiva del Premio Borsellino, il 6 novembre scorso a Pescara, non sospettando minimamente che i microfoni del tavolo della presidenza siano aperti e stiano registrando la conversazione privata.

«IN PRIVATO GLI HO DETTO: “STATTE QUIETO”» – Nella conversazione con Trifuoggi Fini si riferisce ancora a Berlusconi quando dice: «Io gliel’ho detto. Confonde la leadership con la monarchia assoluta. Poi in privato gli ho detto: ricordati che gli hanno tagliato la testa a… quindi “statte quieto” » replica il presidente della Camera a una battuta del procuratore che si riferisce a Berlusconi con queste parole: «È nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l’imperatore romano».

SPATUZZA – Con Trifuoggi Fini parla anche delle ultime rivelazioni del pentito di mafia Gaspare Spatuzza. «Il riscontro delle dichiarazioni di Spatuzza, può aprire scenari… speriamo che lo facciano con uno scrupolo tale da… perché è una bomba atomica» afferma. «Lei lo saprà – dice il numero uno di Montecitorio al suo interlocutore – ma Spatuzza parla apertamente di Mancino, che è stato ministro degli interni…Uno è vicepresidente del Csm, l’altro è presidente del Consiglio». E al suo procuratore che osserva che comunque le indagini vanno fatte, la terza carica dello Stato risponde: «No, ma ci mancherebbe altro». Dopo la diffusione del video, però, Fini telefona proprio a Mancino per chiarire l’equivoco da lui commesso tra le dichiarazioni del pentito Spatuzza e quelle di Massimo Ciancimino. Il presidente della Camera spiega di aver fatto confusione attribuendo a Spatuzza quanto aveva detto in un primo tempo il figlio del sindaco di Palermo a proposito della presunta trattativa tra lo Stato e la Mafia.

BATTUTE SULL’IMMORTALITÀ – Seduto accanto a Trifuoggi, Fini scherza anche con il suo interlocutore. L’occasione gliela dà un passaggio del discorso di Aldo Pecora, portavoce del movimento antimafia “Ammazzateci tutti”: «Noi siamo di passaggio, qua nessuno è eterno, non si vive in eterno», dice il giovane. Allora Fini commenta: «Se ti sente il presidente del Consiglio si incazza…». «Qualche giorno fa – aggiunge ancora il presidente della Camera nel “fuori onda” – rileggevo un libro sull’Italia giolittiana e a Giolitti, che era considerato il ministro della malavita, un oppositore disse: ‘”ei rappresenta lo stato… participio passato del verbo essere”. Efficace, no?». «Potrebbe essere riesumata», replica il magistrato. «Infatti non escludo di farlo, citando la fonte… prima o poi lo faccio», conclude il presidente della Camera.

Al link anche il video

http://www.corriere.it/politica/09_dicembre_01/fuorionda-fini-berlusconi_be0b721c-de7f-11de-b977-00144f02aabc.shtml

UE, ecce ACTA 01.12.2009

Emergono nuovi dettagli sul famigerato piano segreto per estendere la difesa del copyright in tutto il mondo. L’Europa si allarma e accusa l’amministrazione Obama: volete regole a senso unico

Roma – Più se ne parla e più crescono le preoccupazioni per il livello di enforcement della difesa del copyright previsto da ACTA, il trattato segreto che gli Stati Uniti stanno “cucinando” con un nutrito gruppo di paesi con l’obiettivo finale di inasprire ed estendere un certo tipo di misure a tutela del diritto d’autore.

L’ultima rivelazione su ACTA arriva dall’analisi del trattato fatta dalla Commissione Europea, un’analisi finita online grazie al partito politico tedesco Die Linke e che secondo commentatori esperti del settore come il canadese Michael Geist conferma le peggiori prospettive legali sin qui ipotizzate.

Dalle poche pagine dell’analisi della UE, dice Geist, si apprende come il trattato miri al semplice obiettivo di introdurre ai quattro angoli del globo misure come la risposta graduale per la cancellazione del diritto alla rete in caso di infrazione reiterata e senza il minimo bisogno di passare prima per i tribunali. Ma non è tutto: il mondo intero dovrebbe adeguarsi alle norme statunitensi sul copyright come il Digital Millennium Copyright Act (DMCA), con la stringente proibizione di violare le tecnologie di protezione dei contenuti, l’estensione di concetti come “l’incitamento” all’infrazione del copyright e l’attribuzione della responsabilità a soggetti terzi in legislazioni che ne sono attualmente sprovviste.

Si tratta, nota Geist, nota la UE e notano un po’ tutti quanti, di misure restrittive senza precedenti che in Europa (così come in Canada e altrove) andrebbero largamente oltre le attuali normative e garanzie di equilibrio tra tutela dei consumatori, del bene comune e dell’industria dei contenuti.

Parallelamente alla pubblicazione del lavoro di analisi della UE su ACTA, poi, non manca chi sottolinea ancora una volta la fallacità delle misure coercitive che il trattato vorrebbe estendere ovunque nel mondo, una totale incapacità a raggiungere l’obiettivo dato (cioè la lotta alla “pirateria” digitale) che ha come spiacevole effetto collaterale la regressione dello sviluppo di Internet e la creazione di anomale distorsioni sul piano sociale ed economico.

E quanto alla presunta validità delle indagini tra i tracker BitTorrent e le reti di P2P, che l’industria vorrebbe far assurgere a prova e strumento incontestabile di denunzia e cancellazione del diritto alla connessione, il professor Mike Freedman della Princeton University prova con dovizia di documentazione che le agenzie investigative vecchie e nuove sono sin troppo sbrigative nel tracciare, individuare indirizzi IP un tanto al chilo e far partire minacce legali un po’ alla rinfusa.

Alfonso Maruccia

http://punto-informatico.it/2764270/PI/News/ue-ecce-acta.aspx

Berlusconi e Lukashenko, relazioni pericolose 01.12.2009

Aldo Garzia

Sul sito della presidenza del Consiglio non ci sono informazioni sul viaggio del premier Silvio Berlusconi in Bielorussia. Eppure si tratta del primo viaggio di un leader dell’Unione europea a Minsk negli ultimi quindici anni. Alexander Lukashenko, presidente bielorusso, è stato infatti messo all’indice dall’Unione europea e dalla comunità internazionale per il sospetto di brogli elettorali e per il non rispetto delle regole democratiche in politica interna

Nell’incontro tra Lukashenko e Berlusconi il presidente della Bielorussia ha avuto parole di riconoscenza per il suo interlocutore: “Ringrazio il presidente Berlusconi per la sua puntualità: aveva promesso di venire ed è venuto. Noi comprendiamo bene il significato di ciò e ce lo ricorderemo”. Poi ha aggiunto: “Vediamo la sua visita non solo nel contesto bilaterale, ma anche in un contesto più largo come un gesto eloquente di sostegno e appoggio del nostro paese sulla scena internazionale”.
Da parte sua il premier italiano ha usato nella conferenza stampa di rito espressioni che hanno subito scatenato l’ennesima polemica: “Tanti auguri a lei e al suo governo. E alla sua gente che so che la ama. E questo è dimostrato da tutti i risultati delle elezioni che sono sotto gli occhi di tutti, che noi conosciamo e apprezziamo”.
Berlusconi ha poi ringraziato Lukashenko per le rassicurazioni sul problema delle adozioni di bambini bielorussi da parte di famiglie italiane e “sulla possibilità di lavorare insieme su questo tema”. Lukashenko ha confermato che nel corso dei colloqui si è parlato di adozioni internazionali, sostenendo di aver avuto precise “garanzie dalla Santa Sede e dallo Stato italiano”.

La prima a polemizzare con il viaggio a Minsk di Berlusconi è stata Emma Bonino, vicepresidente del Senato: “A me sembrano abbastanza misteriose tutte queste trasferte all’estero. A parte i famosi tre giorni con Putin, dei quali ancora non si sa molto e già questo non è normale, poi abbiamo avuto la visita in Arabia Saudita con il suo socio Tarak Ben Ammar, in seguito la visita in Turkmenistan e poi quella in Bielorussia”.
Per la senatrice radicale, mentre la politica estera di altri paesi ha come centro l’Afghanistan e l’Iran, quella italiana “oltre ad avere come minimo comune denominatore lo sdoganamento dei dittatori, è poco chiara a meno che non si tratti di una politica estera-energetica”.
La replica è di Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio: “Ma quale giallo internazionale si inventa la Bonino? Per parlare di Afghanistan il presidente Berlusconi è stato chiamato giovedì scorso dal presidente Obama. Nel viaggio in Arabia Saudita e in Qatar il premier ha parlato del processo di pace in Medio Oriente, ma anche di Iran e Afghanistan. La Bonino si consoli, non c’entra niente Agatha Christie”.

Si è appreso che il presidente bielorusso ha aperto gli archivi del Kgb al premier italiano, parlando di un regalo che si fa “agli amici importanti”. La consegna di alcuni dossier a Berlusconi dovrebbe permettere di stabilire la sorte dei cittadini italiani prigionieri durante la seconda guerra mondiale in Russia e in Bielorussia. “Se l’Italia è interessata a approfondire l’argomento, noi forniremo altri documenti”, ha detto Lukashenko ringraziando l’Italia per l’accoglienza fornita ai bambini di Chernobyl (la località colpita da un incidente nucleare nel 1986).
Il premier Berlusconi ha ringraziato a sua volta per il gesto di amicizia: “E’ con commozione che ricevo queste carte che sono un omaggio veramente imprevisto. Approfondiremo tutte le notizie di questi documenti e posso interpretare il sentimento delle famiglie italiane nel rivolgerle un ringraziamento cordialissimo”.

Questo risultato della visita non è sufficiente a placare le polemiche. Dice Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, che ha chiesto che il presidente del Consiglio riferisca alla Camera sui contenuti della sua visita ufficiale a Minsk: “Aveva destato in me già profonda meraviglia il fatto che il nostro sia stato il primo capo di un governo occidentale ad andare in visita ufficiale in Bielorussia da quando è al potere il dittatore Lukashenko. Ma la mia meraviglia era niente in confronto allo sbigottimento di oggi nel leggere gli elogi del nostro premier a Lukashenko”.
La pensa cosi’ pure Piero Fassino, Pd: “Con la visita a Minsk, Berlusconi mostra ancora una volta una sconcertante manifestazione di superficialità e di non conoscenza dello scenario internazionale, che rischia di confermare l’immagine di una politica estera italiana oscillante e confusa”.

http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13660

banche, crisi, finanza di Vincenzo Comito

Riforma delle banche: qualcosa si muove? 01/12/2009

Le proposte in campo sulla ristrutturazione del mondo bancario potrebbero regolare la finanza selvaggia. Ma il timore è che i governi frenino

“…mai nel settore finanziario in così pochi hanno dovuto così tanto denaro a così tanti… e, per il momento, con quasi nessuna riforma… ” (Mervyn King)

“…una banca deve fare credito all’economia, raccogliere dei depositi, gestire dei conti. Le altre attività sono parassitarie…” (J. P. Pollin, in Gatinois, Roche, 2009)

Premessa

Uno dei punti di forza dell’economia capitalistica è rappresentato, come è noto, dalla sua grande flessibilità di funzionamento e da una rilevantissima capacità di adattamento alle circostanze; questo appare un aspetto molto importante della sua indubitabile resistenza al mutare degli eventi e della sua potenzialità a svilupparsi nel tempo. Meraviglia quindi che, di fronte alle palesi difficoltà di andare avanti e alle contraddizioni manifestatesi con la crisi, l’opposizione a quelli che appaiono i profondi mutamenti necessari per poter continuare in maniera adeguata il cammino interrotto si sia mostrata alla luce del giorno in maniera così netta.

In particolare, il settore finanziario ha bisogno di grandi trasformazioni perché l’economia e la stessa finanza riprendano a muoversi in maniera sicura, almeno per un po’ di tempo. In un precedente articolo apparso su questo stesso sito, in data 21 settembre, elencavamo tutte le principali possibili misure che erano state pensate a tale proposito da un numeroso gruppo di studiosi ed operatori di vari paesi, mentre in un successivo intervento, in data 12 ottobre, registravamo alcuni sviluppi del dibattito. Ma la gran parte dei gruppi dirigenti del settore ha mostrato sino ad oggi una scarsissima volontà di cambiare ed è anzi riuscita a frenare qualsiasi tentativo di riforma –tramite in particolare una feroce attività di lobbying nei confronti del mondo politico, per la quale nei soli primi sei mesi del 2009 il settore ha speso 224 milioni di dollari (Associated Press, 2009)-, tanto che molti, ed anche chi scrive, si erano convinti che probabilmente nulla sarebbe cambiato e che si sarebbe tranquillamente tornati, con il benestare dei politici, all’allegra gestione di prima, almeno sino alla prossima crisi.

Ma negli ultimi tempi sembra che qualcosa, forse, si cominci a muovere sul serio ed in questo scritto segnaliamo le principali proposte che stanno cercando di farsi strada almeno sul fronte delle banche.

Il dibattito tra gli esperti

Come segnalano le ultime analisi disponibili (Saft, 2009), il settore bancario, in Europa come negli Stati Uniti, continua a tenere stretti i cordoni della borsa per quanto riguarda i prestiti sia alle imprese che ai privati. Intanto comunque, qualche settimana fa, è stato lanciato un sasso nelle acque stagnati delle discussioni sulle possibili riforme e dei dibattiti politici finti sul tema; i colpevoli di tale atto sono due figure tra le più reputate nel mondo della finanza anglosassone, Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra e Paul Volckler, già presidente della FED dal 1979 al 1987 e attualmente consigliere economico della Casa Bianca. I loro interventi hanno avuto il potere di aprire delle brecce nel muro di consenso che l’establishment politico, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, aveva costruito intorno al circolo dei banchieri (Johnson, 2009).

Ambedue le persone, con significativa coincidenza di idee, hanno giudicato come sia indispensabile, per riportare le banche a più sani propositi di normale gestione, ritornare ad una divisione netta tra le attività di raccolta di depositi e di prestiti ai privati e alle imprese da una parte e quelle di trading e di speculazione in proprio ad alto rischio dall’altra, secondo lo schema noto come quello del narrow banking; ci si rifà, nella sostanza, alla situazione che prevaleva negli Stati Uniti prima dell’abbandono – sotto la gestione Clinton e con il supporto dell’allora responsabile del tesoro, L. Summers, oggi il principale consigliere economico della casa Bianca- del precedente Glass-Steagall Act. Naturalmente, solo le narrow bank sarebbero regolate e garantite dal settore pubblico, mentre le altre attività, sia pure ponendo alcuni paletti, sarebbero lasciate alla disciplina del mercato.

Le banche hanno l’obiettivo di servire il pubblico, ha affermato in particolare Volckler, ed esse si devono concentrare su tale attività. La proposta accennata comporterebbe ovviamente anche la riduzione delle dimensioni delle banche too big to fail (TBTF) e impedirebbere che se ne creassero di nuove. Alcuni hanno sottoscritto all’idea; così, J, Kay (Kay, 2009, a), già tra i primi a indicare la rotta su questo fronte (Kay, 2009, b), ha affermato “…alcuni credono che i maiali possano volare; il governatore della Banca d’Inghilterra …ha mostrato che essi non lo possono fare…”. Anche N. Roubini ha aderito con decisione alla proposta.

Ma il progetto, al di là del sostegno di alcuni studiosi, è stata sostanzialmente respinta sul piano politico e si è comunque prestata ad obiezioni sul piano tecnico. Così, per quanto riguarda il primo fronte, in Gran Bretagna Gordon Brown, il primo ministro, e Alistair Darling, il cancelliere dello scacchiere, hanno immediatamente manifestato la loro opposizione allo schema. Il responsabile del tesoro Usa, Tim Geithner, ha avuto anch’egli una reazione simile. Nella sostanza i due governi, il gruppo del G-20, il comitato di Basilea preferiscono, in via alternativa, la meno drastica misura di alzare il livello dei mezzi propri delle banche.

Per quanto riguarda i dubbi sul piano tecnico, intanto sembra impossibile, a detta di molti, tirare una linea di confine netta tra la banca al servizio dell’economia e quella di tipo casinò. Perché prestare alle famiglie e alle imprese sarebbe una cosa buona e cartolarizzare tali prestiti no? Come distinguere tra operazioni di copertura dai rischi e operazioni di speculazione? Si sottolinea inoltre che, con la crisi in atto, sono entrati in difficoltà anche degli istituti che nella sostanza erano delle narrow bank, come la britannica Northern Rock. Il modello di banca universale, per alcuni, rappresenterebbe un punto di forza; mettendo insieme due mestieri differenti, quelli di banca commerciale e di banca di investimento, si registrerebbero delle sinergie importanti e una attività supporterebbe nel tempo l’altra. Inoltre, si offrirebbe ai clienti una gamma di servizi più completa. L’attività di banca d’investimento, peraltro, sempre secondo tali critici, non dovrebbe essere necessariamente votata alla pura speculazione.

A nostro parere, peraltro, molte di queste obiezioni si potrebbero superare, ma bisogna ricordare che, sulla base anche delle presunte debolezze del progetto King-Volckler, è stata messa a punto una proposta alternativa, apparentemente anch’essa potenzialmente abbastanza rigorosa; tale progetto è quello avanzato, ad esempio, da M. El-Erian (El-Herian, 2009) e, con accenti sostanzialmente simili, da M. Wolf (Wolf, 2009).

Le proposte specifiche di El-Erian puntano in ogni caso verso regole molto più stringenti di prima nei confronti delle banche; in particolare si propongono contemporaneamente cinque tipi di misure:1) il livello di capitale degli istituti deve essere – e molto, aggiunge Wolf- aumentato; 2) in particolare, bisognerebbe pensare a misure anticicliche, con la previsione di livelli di capitale più alti nei tempi buoni, per costituire dei cuscinetti per i tempi cattivi; 3) la regolamentazione prudenziale delle banche deve essere integrata da una migliore protezione dei consumatori; 4) le istituzioni più grandi dovrebbero essere soggette ad un livello ulteriore di regolamentazione prudenziale; 5) devono essere previsti dei migliori meccanismi di liquidazione per le banche che vanno in crisi.

Wolf aggiunge alla lista anche la necessità di proibire le attività bancarie fuori bilancio e quella, di carattere più generale, di cessare di favorire il finanziamento a debito in tutta l’economia.

Cosa sta succedendo a livello politico

Intanto la politica appare molto più indietro. Lasciamo da parte i progetti di riforma complessiva del settore bancario avanzate dalle autorità pubbliche delle due aree e di cui la stampa ha già parlato qualche mese fa e concentriamoci sugli sviluppi delle ultime settimane. A tale proposito, le novità più recenti, in Europa e negli Stati Uniti, sono sostanzialmente due.

In Europa non sono stati i governi, ma il commissario alla concorrenza dell’Unione, N. Kroes, ad imporre alle grandi banche che hanno ottenuto dei rilevanti aiuti pubblici, in particolare alle britanniche RBS e Lloyd’s e alla olandese ING, di ridurre le loro dimensioni in media del 40%; qualche mese fa l’intervento aveva già riguardato in qualche modo le tedesche Commerzbank e WestLB, mentre prossimamente dovrebbe essere il turno anche alla belga Dexia e della tedesca Hypo Real Estate.

Il provvedimento della Kroes appare ben lungi, comunque, dall’essere perfetto; così, un problema importante risiede nel fatto che, nella sua pura logica liberista, esso non impone alle banche di ridimensionare le attività più problematiche e rischiose, ma semplicemente di rimpicciolirsi; così, almeno in alcuni di questi casi, le banche coinvolte cederanno ad altri attori delle attività poco rischiose e che generano magari dei profitti, mantenendo invece quelle più a rischio (The Economist, 2009).

Negli Stati Uniti la novità più recente appare quella rappresentata da un progetto di ristrutturazione del sistema finanziario messo a punto dal presidente del comitato bancario del Senato, C. J. Dodd, progetto che innova in misura rilevante rispetto a quello già proposto a suo tempo dal governo; sono inoltre da ricordare anche delle proposte avanzate da alcuni altri membri dello stesso Senato.

In particolare, il testo del progetto Dodd prevede (Labaton, 2009; Masters, Braithwaite, O’Connor, 2009) che le quattro agenzie che attualmente controllano il settore bancario siano ridotte ad una sola, contro le tre previste nella proposta del governo. Tale schema, tra l’altro, ridimensionerebbe fortemente la possibilità di intervento della Banca Centrale, che invece nel progetto del governo sarebbe centrale, mentre accrescerebbe invece lo status della SEC. La bozza prevederebbe inoltre, come nel progetto governativo, la regolazione del rischio sistemico attraverso la creazione di un’altra agenzia, di nuovo con un ruolo subordinato per la FED, nonché una ulteriore entità per la protezione del consumatore. Non sono trascurati altri interventi, in generale a nostro parere abbastanza blandi, per quanto riguarda i derivati, gli hedge fund, le agenzie di credit rating. Per quanto riguarda le banche too big to fail, sono previsti più stretti livelli di capitale e di liquidità.

Ma si può osservare che l’architettura dei controlli è secondaria rispetto alla sostanza delle cose; il punto più importante rispetto ai vari progetti sarà quello di capire i poteri effettivi dei vari organismi, le risorse che essi avranno a disposizione, la forza del sistema sanzionatorio, la qualità del personale dell’agenzia, il livello di supporto politico.

Nel frattempo, comunque, il senatore indipendente B. Sanders (Rithholtz, 2009), quello democratico E. Perlmutter e quello repubblicano E. Kaniorsky (Scheiber, 2009) hanno presentato, ognuno dei tre in via separata, delle proposte che, sulla linea degli interventi di Kyng e di Volckler sopra citati, chiedono, sia pure in forme un po’ varie, la separazione in due del sistema bancario statunitense.

Naturalmente ci si dovrà poi confrontare con il progetto che uscirà fuori dalla Camera e che per molti aspetti si presenta come molto differente da quello del Senato; su di esso, comunque, non ci intratteniamo per mancanza di spazio e per il suo minore interesse.

Conclusioni

Le due proposte sulla ristrutturazione del mondo bancario, quella King-Volckler e quella El-Erian- Wolf, se portate avanti con decisione, appaiono potenzialmente, nella sostanza, ambedue in grado di raggiungere importanti risultati nella lotta alla finanza selvaggia. Temiamo invece che i governi, pur costretti ormai a intervenire più di quello che pensavano di fare sino a qualche settimana fa, si fermeranno inesorabilmente al di qua di quanto sarebbe necessario; comunque pensiamo che alla fine, tra tanti progetti, si delineerà una soluzione pasticciata.

Anche per quanto riguarda il nuovo sistema di supervisione del sistema finanziario statunitense stimiamo che i vari progetti in essere troveranno probabilmente un punto di incontro abbastanza poco adeguato alle necessità.

Anche se sembra di intravedere una grande confusione di idee, di obiettivi, di proposte operative, la situazione appare comunque in movimento rispetto soltanto a qualche settimana fa. Alcuni argomenti continuano ad essere tabù, quale quello di una possibile ordinata nazionalizzazione del sistema bancario di base, la messa a punto di nuovi rapporti tra l’operare delle banche centrali e i governi, nonché le necessarie modalità di superamento, almeno su alcuni fronti, della sovranità nazionale, mirando ad un assetto nuovo del sistema finanziario internazionale che tenga anche conto delle ragioni dei più deboli.

Staremo molto attenti agli sviluppi delle cose nelle prossime settimane, perché appare plausibile che le decisioni che verranno prese condizioneranno in maniera molto rilevante le prospettive dell’economia e della finanza nei prossimi anni, almeno in Occidente.

Testi citati nell’articolo

-Associated Press, Lobbyists influence financial reform, www.nyt.com, 17 ottobre 2009

– El-Erian M., The two-stage de-risking of banks, www.ft.com, 22 ottobre 2009

– Gatinois C., Roche M., Faut-il interdire aux banques de speculer ?, www.lemonde.fr, 29 ottobre 2009

– Johnson S., The consensus on big banks is beginning to crack, www.tnr.com, 21 ottobre 2009

– Kay J., “Too big to fail” is too dumb an idea to keep, www.ft.com, 27 ottobre 2009, a

– Kay J., Narrow banking, www.csfi.org.uk, 2009, b

– Labaton S., Senate plan would expand regulation of risky lending, www.nyt.com, 11 novembre 2009

– Masters B., Brathwaite T., O’Connor S., Senator plan radical reform for US banks, www.ft.com, 11 novembre 2009

– Saft J., Banks show no signs of easing credit, The New York Times, 13 novembre 2009

– Scheiber N., Today in “too big to fail”: more shrinkage momentum, www.tnr.com, 10 novembre 2009

– Wolf M., Why curbing finance is hard to do, www.ft.com, 22 ottobre 2009

– Ritholtz B., Senate bill would break up TBTF banks, www.rgemonitor.com, 9 novembre 2009

The Economist, The muscles from Bruxelles, 5 novembre 2009

http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Riforma-delle-banche-qualcosa-si-muove

La macchina “ricicla CO2” 24.11.2009

Primo test per il prototipo di CR5 dei Sandia Lab: il sistema è in grado di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera. Ma serviranno almeno 15 anni per migliorarne l’efficienza

Usare l’energia solare per riciclare l’anidride carbonica e ottenere vettori energetici e combustibili. L’idea è dei ricercatori dei Sandia National Laboratories (California), che hanno appena testato il primo prototipo della macchina “converti-CO2”.

Si chiama CR5 (da Counter-Rotating-Ring Receiver Reactor Recuperator) ed è un cilindro metallico diviso in due camere, in grado di innescare delle reazioni termo-chimiche su una superficie di ossido di ferro. Il concetto su cui si basa il sistema è semplice: quando l’ossido di ferro è esposto a temperature molto alte si innescano reazioni che portano alla liberazione di molecole di ossigeno, che vengono poi “riprese” quando il materiale si raffredda. Dov’è il vantaggio?  Nel fatto che i due processi avvengono in aree separate, e che l’ossigeno recuperato è quello sottratto all’anidride carbonica contenuta in una delle due camere; in questo modo la CO2 diventa CO (monossido di carbonio).

La macchina è infatti disegnata con le camere poste ai due lati. Nella parte centrale si trovano, in serie, 14 dischi di ossido di ferro che ruotano su loro stessi compiendo un giro al minuto. I ricercatori sono riusciti a concentrare i raggi del Sole per portare una delle camere a 1.500 gradi centigradi, in modo che la parte dei dischi che si trova in quell’area liberi le molecole di ossigeno. Ruotando, i dischi portano la loro “zona calda” nella camera opposta e il raffreddamento induce l’ossido di ferro a “rubare” molecole di ossigeno alla CO2, lasciando nella camera il monossido di carbonio. Questo può essere poi combinato con l’idrogeno per dare syngas da usare come vettore energetico.

Finora il sistema, inventato dall’ingegnere Rich Diver, era stato testato in piccoli step; l’esperimento completo prova ora che la macchina lavora come da copione. “Pensiamo che questo sistema sia un’alternativa al sequestro di CO2 sottoterra”, ha spiegato James Miller, ingegnere chimico ai Sandia Lab: “Invece che pompare il gas sotto il suolo (vedi Galileo), è possibile usare il Sole per ottenere una “combustione inversa” che trasforma l’anidride carbonica in molecole energetiche”. Serviranno comunque tra i 15 e i 20 anni prima di vedere una versione commerciale di questo prototipo. Intanto, l’obiettivo è costruire una nuova macchina ogni tre anni con efficienze sempre maggiori (che dovrebbero almeno raggiungere il 10 per cento). Parte delle innovazioni necessarie verranno dalle nuove ceramiche composite che rilasciano ossigeno a temperature più basse dell’ossido di ferro. (t.m.)

Riferimento: Technology Review

http://www.galileonet.it/news/12096/la-macchina-ricicla-co2

2/12/2009 – SUCCESSO DELLA RICERCA ITALIANA, NATO DALLA COLLABORAZIONE TRA CAMPUS BIOMEDICO DI ROMA E SCUOLA SANT’ANNA DI PISA

Una mano per il cyber-uomo

E’ attivata direttamente dal cervello e permette una vita normale VALENTINA ARCOVIO Stringere il pugno con la sola forza del pensiero non è mai stato così emozionante come per Pierpaolo Petruzziello, ventisettenne italobrasiliano. A tre anni da un terribile incidente che gli è costato parte del braccio sinistro, ora può sperare di riavere una mano tutta nuova, che si muove con i comandi che impartisce il suo cervello.

Al momento, infatti, il nuovo arto è stato collegato al moncherino per soli 30 giorni, giusto il tempo di verificarne la funzionalità e la risposta dell’organismo al corpo estraneo. A realizzare questa prima assoluta mondiale è stata l’Università Campus Biomedico di Roma (Ucbm) con il contributo bioingegneristico dei padri dell’arto robotico, gli scienziati della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Al progetto, chiamato «LifeHand», hanno partecipato anche altri importanti istituti di ricerca europei grazie ai circa 2 milioni di euro investiti dalla Commissione Europea, oltre che dall’Inail e dal ministero dell’Istruzione dell’Università.

Dopo cinque anni di lavoro, gli scienziati sono riusciti a ottenere una protesi intelligente che funziona sugli esseri umani. Una mano bionica direttamente controllata dal sistema nervoso del paziente grazie a 4 elettrodi realizzati dall’azienda tedesca Ibmt e impiantati nei nervi mediano (all’altezza del polso) e ulnare (nell’avambraccio). Grazie agli elettrodi è stata creata un’interfaccia che permette al sistema nervoso del paziente di «dialogare» con la mano artificiale. In questo modo diventa possibile trasmettere, tra mano e paziente, comandi di movimento e sensazioni tattili.

«La difficoltà principale – ha spiegato Paolo Maria Rossini, neuroscienziato e responsabile scientifico del progetto per l’Ucbm – è stata quella di individuare e isolare i nervi del braccio responsabili dei movimenti da impartire alla mano. Una volta effettuato questo lavoro certosino, abbiamo impiantato gli elettrodi al tungsteno che hanno fatto da ponte tra gli impulsi del cervello e i movimenti della mano». Gli elettrodi «Tf-Life», grandi quanto un capello, sono stati scelti come mezzo attraverso il quale il cervello e i nervi periferici del paziente hanno potuto inviare e ricevere informazioni alla protesi di mano, senza utilizzare nessun muscolo né alcun organo di senso. Il sistema di comunicazione tra cervello e mano bionica è piuttosto semplice: il cervello invia il comando tramite un impulso, un microchip registra ed elabora i segnali neurali, che vengono poi tradotti in linguaggio digitale.

Il risultato? «La mano biomeccatronica – spiega Vincenzo Denaro, chirurgo ortopedico del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico e responsabile del team che ha operato il paziente – si muove come se fosse normale. Effettua i movimenti impartiti dal cervello in pochi millesimi di secondi». Dopo un primo periodo di addestramento, Pierpaolo è riuscito a controllare fino a 3 differenti tipi di prese con la mano robotica, con una percentuale di successo superiore all’85%. La possibilità di effettuare queste prese significa che il paziente può svolgere la quasi totalità delle attività della vita quotidiana e lavorativa.

Ora il «cyber-uomo» sta bene e non vede l’ora che la mano robotica, sperimentata soltanto per un mese, possa finalmente diventare tutta sua. «Passeranno però almeno 3 anni – spiega Rossini – prima che il paziente possa avere definitivamente la mano robotica. Prima infatti di pensare a un impianto permanente o quasi dobbiamo ottenere tutte le autorizzazioni necessarie». Al momento, comunque, gli scienziati sono molto ottimisti. Tant’è che ora hanno iniziato a lavorare su elettrodi e protesi ancora più sofisticate e più leggere. Gli scienziati di Pisa hanno appena realizzato una nuova mano superleggera: avere raggiunto questi risultati rappresenta una vittoria schiacciante della ricerca italiana, per una volta davvero all’avanguardia mondiale.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/scienza/grubrica.asp?ID_blog=38&ID_articolo=1540&ID_sezione=243&sezione=

di Vera Pegna

Potere vaticano nel Trattato di Lisbona 29.11.2009

Nell’indifferenza generale, il 1° dicembre entra in vigore il Trattato di Lisbona. Dire che è stata un’operazione di vertice è dire poco. Che la si sia voluta tale, lo ha confermato Giuliano Amato secondo il quale i capi dell’Ue avevano «deciso» di rendere il nuovo trattato «illeggibile» per evitare che le riforme chiave fossero riconosciute ad una prima lettura e magari seguite da proposte di referendum nei singoli stati membri.
C’è chi invece indifferente non è stato ma anzi ha aspettato con trepidazione l’ultima firma necessaria al completamento della ratifica del trattato apposta dal ceco Vaclav Klaus. Senza quella firma, senza l’entrata in vigore del Trattato, l’attività tenace svolta dalla Santa Sede per assurgere a un riconoscimento istituzionale da parte dell’Ue avrebbe potuto essere annullata da futuri dirigenti dell’Unione, meno propensi a cedere alle pressioni vaticane.
Nel 1996 il Consiglio europeo di Torino aveva respinto la richiesta della Comece (Commissione dei vescovi europei) di riconoscere un ruolo pubblico alle chiese con la motivazione che la Santa Sede non era uno stato membro dell’Unione. Né poteva diventarlo dato che – unico stato in Europa – questa non è firmataria della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Ciò nonostante, negli ultimi otto anni, da quando fu messa mano alla elaborazione del trattato costituzionale europeo, la richiesta delle gerarchie vaticane ha fatto grandi passi in avanti.
Insistendo sulla «morale naturale» e sui «valori universali» della dottrina cattolica e, soprattutto, mettendo i suoi servitori più fedeli nei posti chiave all’interno della Commissione, la Chiesa cattolica ha ottenuto ciò che le era stato rifiutato nel 1996, ovvero la menzione delle chiese in un documento legislativo europeo. Nel trattato di Amsterdam, nonostante le insistenze affinché lo status delle chiese fosse accolto nel corpo del testo, il Vaticano ottenne solo una dichiarazione aggiuntiva annessa al Trattato. Invece, ecco che qualche anno dopo, nella bozza del Trattato costituzionale europeo, appare un articolo sullo status delle chiese, questa volta all’interno del trattato stesso, nonostante un folto gruppo di parlamentari, fra cui gli italiani Lamberto Dini e Elena Paciotti, ne avessero chiesto la soppressione per vari motivi ma soprattutto perché l’Unione non ha, e la Convenzione non ricerca, una competenza nel settore della teologia o della filosofia.
La tattica seguita dalle gerarchie cattoliche per arrivare a tanto è stata duplice: chiedere due cose per ottenerne una e alzare un gran polverone su quella rinunciabile – la menzione delle radici cristiane – in modo da far passare quella irrinunciabile contenuta nell’art. 17 del nuovo trattato, difficile da far ingoiare ad una popolazione secolarizzata come quella europea.
L’articolo 17 rassicura il Vaticano circa tre obiettivi prioritari. Primo: il riconoscimento della dimensione istituzionale della libertà religiosa. Secondo il Vaticano, la dimensione religiosa si estende a tutto ciò che riguarda l’essere umano e siccome la chiesa si proclama «esperta in umanità» è giusto che le sia riconosciuto uno status specifico, diverso da quello attribuito alle associazioni della società civile. Secondo: la facoltà per le chiese di intervenire su quei progetti di legge europei considerati di loro competenza prima che tali progetti arrivino in aula. Con ciò la chiesa cattolica, ente privato i cui rappresentanti non sono eletti dai propri fedeli, entra a far parte del processo legislativo europeo provocando un duplice danno: la delegittimazione del parlamento, poiché i membri eletti non bastano più a rappresentare le istanze degli elettori e l’inquinamento del sistema di democrazia rappresentativa, pilastro dello stato di diritto.
Terzo: l’esenzione da quelle leggi e normative europee che sono in contrasto con la dottrina morale cattolica. Ciò riguarda in particolare la facoltà per le organizzazioni cattoliche che gestiscono servizi pubblici quali scuole, ospedali, ecc. di discriminare i propri dipendenti in base alla loro religione e scelte di vita. È ciò che accade già in Italia per gli insegnanti di religione la cui assunzione o permanenza in servizio possono essere bocciate dalla diocesi di appartenenza qualora questa consideri che non si attengono alla morale cattolica.
Per Papa Benedetto XVI l’articolo 17 garantisce i «diritti istituzionali» delle chiese. Che cosa ne pensano i nostri rappresentanti che hanno votato a favore del Trattato di Lisbona non ci è dato sapere.

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20091129/pagina/10/pezzo/265893/

Unione europea, cambio di partita 01.12.2009

Ida Dominijanni

Data storica, oggi, per l’Unione europea: insieme con il Trattato di Lisbona entra in vigore anche la Carta europea dei diritti, siglata nove anni fa, dicembre 2000, dopo un percorso non poco accidentato, e accolta, nella sinistra italiana, con alterne valutazioni. Festeggiamo l’evento con Stefano Rodotà, che della Carta è stato fra gli estensori ed è convinto sostenitore.

Rispetto al 2000, quando la Carta fu licenziata, il contesto europeo in cui oggi entra in vigore è migliorato o peggiorato, dal punto di vista della politica dei diritti?

Fra allora e oggi c’è di mezzo l’11 settembre 2001, con le tensioni securitarie che ha scatenato in tutto il mondo, Europa compresa. D’altra parte, sulla politica dei diritti ha pesato in Europa positivamente la spinta di Zapatero. Complessivamente direi che c’è un lieve peggioramento, per questo e a maggior ragione la Carta diventa più importante. Oggi comincia una nuova partita, con una doppia sfida, politica e culturale.

In un’Europa che va visibilmente a destra, e che si è data un vertice evidentemente di basso profilo?

Dal punto di vista degli assetti politici e di governo, l’avvio della nuova stagione europea non è certo esaltante. Resta vero che l’Europa è un gigante economico e un nano politico, che l’Unione «non ha un numero di telefono» e non è una potenza militare. Ed è vero che la coppia Van Romuy – Lady Ashton è debole – la situazione non sarebbe stata migliore con Blair, che sulla Carta dei diritti ha sempre espresso pesanti riserve e come inviato in Medioriente ha dimostrato una capacità politica pari a zero, mentre sarebbe stata certamente migliore con D’Alema, che nel ruolo di Mr. Pesc sarebbe riuscito a dare un segno positivo alla politica estera dell’Unione.

Nomine a parte, pensare che nella temperie internazionale di oggi l’Europa possa ambire a un ruolo politico e militare di peso rispetto alle vere superpotenze è del tutto irrealistico. Ma se ha una chance, questa sta proprio nella cultura e nella politica dei diritti. L’Europa è la regione del mondo dove la tutela dei diritti è più alta, e questa è una risorsa da giocare e far valere sulla scena internazionale, dove infatti la Carta è già diventata un punto di riferimento. Oggi che le grandi narrazioni novecentesche sono finite, l’unica narrazione che percorre il mondo globale è quella dei diritti fondamentali. Il dissidente birmano, il ragazzo cinese, la donna africana che rivendicano diritti vecchi e nuovi sono i protagonisti di un universalismo tendenziale che si afferma a partire dalla lotte sul campo. In questo processo, un’Europa che sappia mantenere e giocare la sua cultura del diritti oltre l’impronta eurocentrica che storicamente li connota può avere sì un ruolo importante.

Nella sinistra radicale italiana molti hanno obbiettato in questi anni, anche sul ‘manifesto’, che la Carta europea, soprattutto in materia di diritti sociali, istituisce tutele inferiori a quelle della nostra Costituzione.

Ora che la Carta entra in vigore, spero che queste polemiche ce le lasceremo alle spalle. Certo, possiamo decidere di continuare a rimarcare che sui diritti sociali la Carta è più debole della Costituzione, o viceversa, che è più forte e più avanzata nel campo dei diritti afferenti alla biopolitica (sovranità sul corpo, sui dati sensibili etc.). Ma ci conviene continuare con questa contabilità, o c’è un’altra strada da prendere? Io dico che c’è. Il fatto stesso che la Carta esista, che siamo riusciti a vararla contro le resistenze dei paesi più conservatori e più liberisti, ha profondamente intaccato il principio di legittimazione originario della Ue, che era incardinato solo sulla logica di mercato. Con la Carta si è stabilito che tutti gli atti normativi della Ue devono essere ad essa conformi.

Lo sono stati, in questi nove anni?

Sì e no. Ma intanto, le corti l’hanno presa a riferimento, e proprio sui diritti sociali: il primo caso su cui è stata invocata riguardava la retribuzione delle ferie di un lavoratore inglese. Comunque, se fino a oggi si poteva scrivere impunemente «conforme alla Carta dei diritti» su una direttiva Ue non conforme, da oggi in poi diventa possibile invocare il controllo della corte di giustizia. Lo so anch’io che il campo dei diritti sociali è quello meno risolto nella Carta, e sono il primo a soffrire, ad esempio, della mancanza di una affermazione della funzione sociale della proprietà. Ma sia su questo, sia sulla limitazione dell’iniziativa privata, sia sulla qualità dello sviluppo, la struttura assiologica della Carta, che comprende i principi della dignità, dell’uguaglianza, della libertà e della solidarietà, consente ottimi sviluppi. E certamente apre un campo di battaglia: purché la sinistra ci creda e sia pronta a giocare la partita, senza trincerarsi dietro l’assioma che il liberismo ha vinto. Io non gliela voglio dare vinta, voglio combattere, le condizioni ci sono. Finora i giuristi sono stati i più aperti al cambiamento, ora tocca anche agli altri.

Dicevi dei nuovi diritti «biopolitici». Avranno delle conseguenze sulla legislazione italiana?Per cominciare, la tutela dei dati personali metterà dei paletti alle norme securitarie, in Italia e altrove. L’articolo che recita «il corpo e le sue parti non possono costituire oggetto di profitto» è carico di conseguenze. Altro esempio, l’articolo sul vincolo familiare, che elimina la superiorità del matrimonio rispetto alla convivenza, nonché il requisito dell’eterosessualità: l’Italia e gli altri stati nazionali potranno solo «disciplinare l’esercizio» di questa norma, non violarla. Non a caso contro questo articolo la pressione del Vaticano è stata durissima, come pure su quello che limita l’obiezione di coscienza.

L’Europa è attraversata da conflitti di ogni tipo sulla religione e il suo esercizio. Da una parte c’è la sentenza della corte di Strasburgo contro l’esposizione del crocifisso nelle scuole, dall’altra in Svizzera (che non fa parte della Ue, ma dà pur sempre un’indicazione di clima) votano contro i minareti e in Italia la Lega vuole la croce sulla bandiera …

Per la sentenza sul crocefisso la corte non a caso ha fatto riferimento alla Carta. Che rubrica la libertà di religione e di manifestazione individuale e collettiva, pubblica e privata del culto assieme alla libertà di pensiero, senza conferire alla prima alcun piedistallo. Come pure il rispetto delle diversità religiose sta assieme a quello delle diversità culturali e linguistiche. C’è insomma un riconoscimento laico, secolarizzato, della religione. Alcuni vedono un cedimento sul terreno della laicità non nella Carta ma nel Trattato, che all’art.. 17 parla di dialogo fra le chiese e le istituzioni. Ma la Carta fornisce il quadro normativo necessario per contenerlo nei limiti di una Europa laica e secolarizzata. Purché, lo ripeto, alle norme segua la politica. Il diritto può disegnare un quadro di agibilità, ma poi sta alla cultura politica raccoglierne l’opportunità e la sfida.

http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2009/mese/12/articolo/1931/

di Paolo Gerbaudo – LONDRA
MICHAEL HARDT: SUL CLIMA UN NUOVO MOVIMENTO
Il verde E IL NO-GLOBAL 01.12.2009
In vista della Conferenza di Copenhagen i movimenti si preparano a dare battaglia, mentre i negoziatori cercano di aprire la strada a un accordo «politicamente vincolante». Perché di trattato con forza di legge per ora non si parla
Dieci anni dopo le grandi proteste contro la riunione dell’Organizzazione mondiale del commercio a Seattle, un nuovo movimento globale potrebbe nascere sulle strade gelate di Copenhagen, dove tra 6 giorni comincerà una conferenza Onu sul clima che sarà assediata da decine di migliaia di manifestanti. Reduce dalla recente pubblicazione di Commonwealth, libro che completa la trilogia di Impero e Moltitudine, scritta a quattro mani con Toni Negri, e che parla della necessità di costruire nuove istituzioni per gestire i beni comuni, Michael Hardt guarda con fiducia a una mobilitazione che, secondo l’autrice no-global Naomi Klein, segna il passaggio all’età adulta del movimento anti-globalizzazione. Tuttavia non nasconde le difficoltà che la questione del cambiamento climatico pone alla sinistra anticapitalista. «Bisogna trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche di benessere per tutti e i limiti delle risorse naturali. E non si tratta di un compito facile».

Pensi che il movimento che si sta organizzando per Copenhagen sia una continuazione del movimento no-global?
Il ciclo cominciato a Seattle e continuato a Goteborg, Praga e poi Genova, che era caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di gruppi e di conflitti è terminato con l’inizio della guerra contro l’Iraq e l’Afghanistan. Copenhagen è qualcosa di nuovo in cui, penso, si vedranno alcune delle qualità che hanno caratterizzato il movimento contro la globalizzazione neoliberista, tra cui la presenza di forme di organizzazione orizzontale. Però, al momento, non è ancora chiaro se si tratta dell’apertura di un ciclo di dimensione simile a quello «no-global».
Questa volta, le proteste prendono di mira una conferenza che sulla carta punta a salvare l’ecosistema piuttosto che a fare del mondo un grande mercato comune
Diverso è anche l’atteggiamento dei movimenti. A Seattle eravamo contro il capitale globale e bisognava bloccare a tutti i costi quella riunione. In questo caso invece ci confrontiamo con un problema vero che in qualche modo bisogna risolvere e su cui si deve prendere una decisione, ma la si deve prendere in maniera autentica e giusta.

Dall’antagonismo del ciclo no-global a un orientamento più riformista?
Non penso che le due cose si escludano. È vero che è urgente riformare l’economia globale e il rapporto con l’ambiente, perché le riforme sono necessarie e quelle proposte finora sono insufficienti. Ma in questo ambito non vedo una incompatibilità tra riforme e antagonismo. E neppure capisco chi storce il naso se uno chiede riforme sul clima anche a livello statale, e poi vuole costruire una politica radicalmente diversa che guardi oltre lo stato e oltre il mercato.

Qual è secondo te la principale differenza tra gli attivisti che andranno a Copenhagen e quelli che manifestarono a Seattle?
Mi sembra che la gente che si sta mobilitando per Copenhagen sia di due tipi diversi. Da un lato ci sono gruppi anticapitalisti come quelli che andarono a Seattle, dall’altro ci sono gruppi ecologisti. Entrambi questi fronti fanno riferimento a un’idea del bene comune, ma per altri versi sono ancora distanti. Nelle lotte anticapitaliste c’è l’idea dell’illimitatezza dei beni comuni. Invece nel movimento ecologista c’è una coscienza del limite. E in verità la terra, l’acqua, l’ambiente pongono dei limiti. È un conflitto interessante, che non può essere risolto a tavolino dagli intellettuali ma dev’essere risolto all’interno del movimento.

In alcune parti della sinistra anticapitalista sembra esserci una certa allergia verso un modo di affrontare la questione del cambiamento climatico considerato regressivo, perché cozza contro le richieste di benessere e si sposa invece con l’austerità.
È un istinto giusto quello di non fidarsi di coloro che insistono sull’austerità. Tuttavia, sono convinto che in questo ambito bisogna confrontarsi una buona volta sulla questione dei limiti. Questo non vuol dire che bisogna lasciar perdere la nostra battaglia per il benessere per tutti, il «vogliamo tutto» di Balestrini. Ma bisogna pure trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche e i limiti delle risorse naturali. Sono convinto che sia possibile tenere insieme l’illimitata creatività sociale umana e i limiti delle risorse naturali.

Spesso nel dibattito sul cambiamento climatico sentiamo riferimenti all’idea di «dovere»: dovere verso le generazioni future, dovere verso il terzo mondo, o dovere verso il pianeta. Sono discorsi che sembrano fare a pugni con quel concetto di desiderio che sta al centro del filone filosofico su cui tu e Toni Negri avete lavorato. Non è urgente recuperare a sinistra un’idea di dovere?
All’interno della sinistra anticapitalista il rifiuto del concetto di «dovere» viene da una diffidenza verso l’autorità e quindi dal rifiuto dell’autorità del padrone o del partito. Il dovere nel senso di contratto sociale dovrebbe essere distinto dal dovere come «responsabilità» verso la natura ad esempio. Sicuramente confrontare i limiti del desiderio è un compito molto alto. Purtroppo non è un compito facile.

In questi ultimi anni si è parlato molto di decrescita, e questo è un filone di discussione che acquista nuova forza alla luce dell’emergenza clima. Pensi che sia una proposta utile?
Io penso che il discorso che si è sviluppato attorno al concetto di decrescita sconti due grossi equivoci. Prima di tutto bisogna chiarire cosa si intende per crescita, se si intende quella della grande industrializzazione, della produzione di merce materiale, oppure se si intende la crescita di conoscenze, immagini e codici. Questo è un tipo di crescita che secondo me è illimitata e che non produce necessariamente danni all’ecosistema. L’altro equivoco è che non si fa differenza tra mondo dominante e mondi subordinati. Prova a dire in un foro sociale mondiale ai sindacalisti indiani e indonesiani che non devono crescere e quelli ti mandano a quel paese. E a ragione. Perché la questione della crescita è una questione che si pone in maniera diversa per diverse economie. In ogni caso, credo che l’idea di decrescita sia parte di una discussione che è necessario fare e sono felice che nell’avvicinamento a Copenhagen si stia sviluppando un dibattito intenso attorno a questa ed altre questioni.

Che connessione c’è tra crisi finanziaria e crisi climatica? È il cambiamento climatico il sintomo che l’esaurimento delle risorse naturali sta inverando la caduta tendenziale del tasso di profitto prevista da Marx?
Sicuramente c’è un nesso tra la scarsità delle risorse e la difficoltà del capitale globale, ma non mi sembra convincente vedere il motivo principale della crisi economica attuale nei problemi ecologici come fanno alcuni. Di certo, entrambe queste crisi vedono sia il capitale che i governi nazionali in difficoltà, perché i problemi in campo sembrano al di fuori della loro portata e della loro capacità di azione.

Il neoliberismo dato più volte per morto non vuole saperne di tirare le cuoia, mentre non sembra esserci un’alternativa coerente capace di scalzarlo. In un’era segnata dal cambiamento climatico il pensiero ecologista può costituire la base per una tale alternativa? È il verde il nuovo rosso?
È vero che nessuna alternativa al momento è in grado di sostituire il neoliberismo. D’altro canto, ciò che esiste al momento è una sorta di ideologia keynesiana-socialista, che è però di fatto un altro morto che cammina. Io non sono convinto che il conflitto ecologista offra una nuova alternativa teorica, né che il verde sia il nuovo rosso. Credo piuttosto che la questione del cambiamento climatico sia un campo di battaglia dove sviluppare una nuova forma di governo dell’economia alternativa al capitalismo.

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/ricerca-nel-manifesto/vedi/nocache/1/numero/20091201/pagina/07/pezzo/265964/?tx_manigiornale_pi1[showStringa]=SUL%2BCLIMA&cHash=e767823baf

Medvedev: «Contiamo sull’Italia per un trattato con l’Unione europea» 03.12.2009 (visti i tanti accordi fatti)

«Vorrei arrivare a firmare un nuovo trattato fra Russia e Unione Europea» e su questo «contiamo sull’assistenza dell’Italia nel dialogo con l’Unione europea e per la risoluzione dei problemi». Lo ha detto il presidente russo, Dmitri Medvedev, nel corso della conferenza stampa congiunta con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al termine del sesto vertice intergovernativo fra Italia e Russia, tenutosi a Villa Madama. «Sono sicuro che con l’aiuto dell’Italia possiamo sviluppare nuovi rapporti con l’Ue», dopo che «abbiamo aggiustato i nostri rapporti con la Nato, nello spirito di Pratica di Mare, merito del Governo italiano».

Nel corso del vertice italo-russo in corso a Villa Madama sono stati siglati 17 accordi intergovernativi e commerciali: si va dalle energie rinnovabili, alla collaborazione in campo agricolo e al ricoproco riconoscimento dei titoli di studio. Raggiunta un’intesa anche per favorire lo sviluppo delle piccole e medie imprese, sia russe che italiane. Firmati accordi anche nel campo della giustizia, dei beni culturali, dei trasporti e del turismo. Per quanto riguarda le intese commerciali sono stati siglati accordi da Eni, Alitalia, Finmeccanica, Pirelli e Mediobanca.

Berlusconi: «South Stream non è in competizione con Nabucco»
«Continua la collaborazione molto attiva tra Gazprom ed Eni; abbiamo già realizzato Blue Stream, ci apprestiamo a realizzare South Stream che sarà un’opera d’avanguardia» ha detto inoltre il presidente del Consiglio durante la conferenza stampa con il presidente russo Medvedev. Berlusconi ha tenuto a chiarire che «il progetto non é incompetizione con altri gasdotti, ho sentito dire ad esempio il Nabucco. Si tratta solo di opere che servono a garantire a tutti i cittadini europei una fornitura di gas sicura e continua». Medvedev, parlando di South Stream ha detto che «si lavora a pieno titolo sul progetto, la dinamica é molto buona e oggi abbiamo firmato un accordo speciale con gli italiani. La cosa che conta di più é che dobbiamo rispettare il calendario che ci siamo dati».

«Se Putin non esclude di ricandidarsi anch’io non escludo di ricandidarmi» nel 2012 alla guida del Cremlino. Lo ha detto Medvedev nella conferenza stampa che ha chiuso il vertice intergovernativo tra Italia e Russia. Da Mosca in mattinata Il premier russo Vladimir Putin ha annunciato che penserà se partecipare come candidato alle elezioni presidenziali del 2012. È la risposta a una domandadella sua annuale maratona televisiva per la “diretta” con il Paese.

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2009/12/Italia-Russia-Berlusconi.shtml?uuid=3ac6e4e8-e011-11de-bb10-a6c8fe24412b&DocRulesView=Libero

Gli indignati a senso unico 14.12.2009

MARIO CALABRESI

Ci sono momenti in cui bisognerebbe abolire due parole: ma e però. L’aggressione di un uomo, in questo caso di un primo ministro, è uno di quelli. Di fronte alla violenza non possono essere accettate subordinate, ammiccamenti o tantomeno giustificazioni. Il giorno che la politica italiana tutta lo avrà compreso fino in fondo, allora sarà davvero matura.

Il volto ferito e pieno di sangue di Silvio Berlusconi non può che lasciare sgomenti, non riesco ad immaginare una persona seria o che ami definirsi democratica e perbene che possa avere una reazione diversa.

Se invece la prima cosa che passa in testa è pensare che se la sia cercata o meritata, allora siamo entrati in uno spazio in cui la dialettica politica è degenerata.

Abbiamo ricevuto numerose lettere di persone che spiegano l’accaduto e lo comprendono come reazione ad un governo che definiscono «xenofobo», «antidemocratico» o «razzista». Sono persone che mostrano di essere solidali con gli immigrati e i più deboli, sconvolte per gli attacchi di Berlusconi ai magistrati e preoccupate per la democrazia, ma non toccate da ciò che è accaduto ieri sera. Questo modo di ragionare mi fa paura: come è possibile mostrare sensibilità a senso unico, battersi contro le violenze e poi giustificare un’aggressione, essere democratici e pacifisti e provare soddisfazione per il volto tumefatto di Berlusconi. Significa che l’ideologia continua a inquinare le coscienze, ad oscurare le menti.

Si può pensare che il presidente del Consiglio sia inadatto a governare, essere convinti che le sue esternazioni contro gli altri poteri dello Stato così come contro gli organi di garanzia siano allarmanti e sbagliate, essere preoccupati per quelle leggi «ad personam» che rischiano di peggiorare lo stato della giustizia italiana, ma niente di tutto ciò può giustificare la violenza. C’è una linea che in democrazia non si può passare, un discrimine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è a cui non si può derogare. E dire che sembrerebbe essere chiaro a tutti: tanto che anche a sinistra si invita alla mobilitazione democratica in seguito ad ogni aggressione o violenza. Questo deve valere anche per il leader di un governo di centrodestra, anche per Silvio Berlusconi.

Da ieri sera i blog e Internet sono invasi da battute, ironia, festeggiamenti e dai deliri di chi ci spiega che se l’è cercata. Su Facebook sono già nati decine di gruppi di fans dell’aggressore, Massimo Tartaglia, che in poche ore hanno raccolto migliaia di sostenitori. La rete, purtroppo, mostra ancora una volta di raccogliere il peggio di noi, ma politici e giornali hanno il dovere di non dare sponde, di essere seri e di capire che le giustificazioni ci portano su strade senza ritorno e che non si può continuare ad alzare il livello dello scontro.

E questo riguarda non solo la sinistra ma anche il premier, la sua maggioranza e i giornali che gli sono più vicini. Da mesi quasi nessuno sembra capace di sottrarsi alla tentazione di alimentare il clima terribile in cui viviamo, l’Italia somiglia sempre più ad uno stadio in cui si sente solo la voce degli ultras che gridano mentre incendiano le curve. In questo scontro continuo, in cui si parla soltanto dei destini del premier, si è persa di vista qualunque considerazione sullo stato del Paese e sui suoi bisogni.

Il presidente del Consiglio, a cui va la nostra solidarietà sincera, speriamo sia così saggio da capire che proprio lui – l’aggredito – ora può fare la differenza: può abbassare i toni e aprire la strada per un confronto più civile e rispettoso. C’è da augurarsi che anche tutta l’opposizione lo capisca e sia capace di isolare chi delira.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6734&ID_sezione=&sezione=

Scott Lucas: “È l’ultimo avvertimento” 14.12.2009

«Ma la Guida Suprema non ha ancora deciso la stretta finale»

CLAUDIO GALLO

Scott Lucas, 47 anni, è professore di Studi americani all’Università di Birmingham, il suo blog Enduring America è uno dei punti di osservazione più precisi e aggiornati sulla politica iraniana. Se il presidente Obama gli chiedesse un consiglio, risponderebbe di non farsi imbrigliare nella realpolitik del nucleare ma di riconoscere il peso politico dell’opposizione al regime.

Professor Lucas, qualche agenzia, riportando il discorso di Khamenei di ieri, gli ha fatto dire che dopo il sacrilegio del rogo dell’effigie di Khomeini avrebbe «spazzato via» l’opposizione. Ha detto proprio così?
«No, non mi sembra che abbia usato quelle parole. È stato l’ultimo di una serie di avvertimenti all’opposizione. Bisogna tenere conto che il governo ha fallito il suo tentativo di imbavagliare il dissenso, lo dimostrano i video che riprendono le proteste di ieri nelle università di Teheran, Shiraz e altre città».

Il video dove ancuni giovani bruciano il ritratto di Khomeini è vero oppure è una fabbricazione del Grande Fratello di Teheran?
«Non ho gli strumenti per dire con certezza che sia falso, ma vedo che la gente in Iran tende a diffidare, a non crederci. D’altra parte ancora nelle proteste odierne si vedono studenti portare i ritratti di Khomeini. Il movimento verde ha sempre mostrato rispetto per il padre della rivoluzione: oggi l’ex presidente Khatami ha smentito che l’opposizione abbia mai mostrato ostilità verso Khomeini e nello stesso tempo ha rivendicato il diritto alla protesta».

Su Twitter la Guida Suprema ha esortato i suoi a «mantenere la calma». Che cosa significa?
«Potrebbe significare che non ha ancora deciso il da farsi, che si riserva una decisione. Posso sbagliarmi, ma non credo che nelle prossime ore arresteranno Mousavi e gli altri leader. Siamo alla vigilia dell’anno nuovo islamico e specialmente della festa dell’Ashura, il 27 dicembre, centrale nel mondo sciita. Khamenei teme che possano ripetersi le proteste del giorno di Gerusalemme, a settembre, e allora manda un segnale forte».

E’ possibile che questa accelerazione della repressione sia dovuta al fatto che il regime sente avvicinarsi nuove sanzioni internazionali?
«Non credo che questo legame sia realistico. Anche se non c’è accordo, l’Iran continua a tenere aperto il tavolo nucleare. Oggi il ministro Mottaki ha avanzato la proposta di scambio di una quantità limitata di uranio. Gli Usa hanno subito rifiutato ma il colloquio in qualche modo prosegue, costituendo il maggiore diversivo ai gravi problemi politici interni».

Il presidente Ahmadinejad ha ricevuto ieri una delegazione di Hamas guidata da Khaled Meshaal ma è apparentemente assente sul fronte degli ultimi sviluppi interni, come mai?
«Ahmadinejad si muove a suo agio sul terreno del nucleare e della politica estera ma sulle vicende interne ha un ruolo secondario. Tutti ricordano che nei momenti turbolenti dopo la sua discussa rielezione era praticamente sparito. È chiaro che le decisioni sulla sicurezza interna sono prese direttamente da Khamenei con i ministri dell’Intelligence, dell’Interno e i Pasdaran».

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200912articoli/50357girata.asp

CINA

Il cielo è nero sopra Linfen città più inquinata del mondo 14.12.2009

Non si distinguono il giorno e la notte, né l’inseguirsi delle stagioni. Tutto è sempre al buio

GIAMPAOLO VISETTI

LINFEN – Nella città più inquinata del mondo il sole si ferma, per qualche ora, tre giorni all’anno. Il resto della vita trascorre al buio. Non si distingue la notte da un mezzodì, o l’inseguirsi delle stagioni. Il cielo nero di un temporale è lo stesso di quello azzurro di un ottobre splendente. I condannati di Linfen, senza potersi chiedere troppi perché, si sono adattati. Quasi tutti, specialmente i bambini, vestono di nero. Fuori di casa, infilano le scarpe dentro sacchetti di plastica.

Nessuno gira senza cappello. Sopra le vie non pende alcun panno steso. Il nemico più visibile è la polvere.
Qui però non c’è la polvere volante che conosciamo. È, piuttosto, un muro nero di sabbia, terra, lapilli, una coltre spessa di cenere che senza sosta si accumula e ricopre ogni cosa, come una nevicata all’inferno. La gente preferisce confondersi con la tenebra, rinunciare ai colori e figuriamoci al bianco, per non vedere il veleno che la uccide.

Questo universo scuro e soffocante, cuore morente dei giacimenti di carbone della Cina, è l’immagine di come può diventare il pianeta, in pochi anni, se l’amore per la natura continuerà ad essere una bugia. È una tragedia sapere che al mondo è possibile che esista un luogo come Linfen: forse l’unico dove gli scolari non sanno come si disegna una luna, o un pugno di stelle.

Fino alla metà del secolo scorso, in Cina Linfen era conosciuta come “la città della frutta e dei fiori”. Quattromila anni fa, fu la capitale del leggendario regno dello Yao, ricco di grano e di carpe che dal Fiume Giallo risalivano le acque del Fen. Oggi sulla superficie popolata da quattro milioni di persone, nella regione dello Shanxi, non c’è un albero e anche i crisantemi per le feste sono di plastica. La sua ricchezza è stata la sua rovina. Le colline attorno alla città custodiscono 260 miliardi di tonnellate di carbone.

In un decennio sono state aperte 2.598 miniere, grandi, piccole, autorizzate o illegali. Ogni anno vengono estratte 650 milioni di tonnellate di carbone, due terzi del fabbisogno nazionale. In un Paese dove il 70 per cento dell’energia elettrica deriva dal carbone, il serbatoio della crescita si è trasformato in uno spaventoso palcoscenico dell’annientamento.

Attorno alle miniere sono sorte raffinerie, stabilimenti siderurgici, fonderie, ogni genere di fabbriche e addirittura industrie alimentari che consumano 50 milioni di tonnellate di carbone all’anno. La popolazione è fatta di povera gente: minatori, operai, ex contadini invecchiati, famiglie di figli unici. Sono ammassati in case rotte che commuovono, nascoste tra montagne di detriti. Chi resta qui non ha alternative, ma sa che la sua vita durerà, per i più robusti, dieci anni in meno della media cinese.

Solo i proprietari delle miniere, o gli alti funzionari del partito, amano un posto così. Ci vengono un paio di volte alla settimana, per fare i conti di profitti favolosi. Non è la polvere, a spaventarli, ma l’invisibile. Nell’aria e nell’acqua sono disperse oltre 200 sostanze tossiche, in concentrazioni. pericolose per la vita. Ceneri, monossido di carbonio, azoto, arsenico, piombo. Tre milioni di individui risultano contaminati. Due bambini su tre soffrono di malattie respiratorie. Il tasso di neonati malformati e di cancro ai polmoni è il più alto del pianeta.

Il 52 per cento delle falde acquifere è “irreversibilmente compromesso”. Miniere e industrie consumano una tale quantità d’acqua, che le abitazioni comuni ne sono sprovviste. L’arsenico, in dieci anni, ha bruciato ogni genere di coltivazione. Chi non muore avvelenato, scompare nelle miniere. In Cina, in cinque anni, le vittime di incidenti sono state poco meno di ventimila. A Linfen, negli ultimi tre anni, 470 in 49 disastri. Una mattina, un autunno fa, 128 persone sono state sepolte dal fango di detriti di ferro accumulati sopra un quartiere. Mai un colpevole.

Solo negli ultimi mesi la “città morta” ha iniziato a preoccupare il governo. Lu Guang, fotografo di coraggio straordinario, ha ritratto per la prima volta l’orrore. Miniere, nuvole di gas, fiumi rossi, campi inceneriti, aria nera. Ma soprattutto migliaia di volti, gli “spettri del mondo”: bambini e adulti mangiati dai tumori, o stravolti da trombosi cerebrali per il consumo di acqua avvelenata, o mutilati nei crolli. Ventimila persone, sotto choc, in poche ore hanno espresso online il loro dolore, la vergogna, la rabbia di consumare la vita per un piatto di riso.

A Pechino il potere si è allarmato. L’inquinamento, assieme alla povertà, è la vera emergenza nazionale, la sola che possa innescare una rivolta di massa. Su venti capitali mondiali dei veleni, sedici si trovano in Cina. La popolazione inizia a non accettare il baratto tra crescita economica e distruzione dell’ambiente.

Un mese fa il governatore dello Shanxi ha così annunciato che entro fine anno le società minerarie della regione saranno ridotte da 2.200 a 100, le miniere da 2.600 a 1000. Privatizzazioni, misure elementari contro gli infortuni, regole anti-corruzione. Lo scandalo di Linfen però continua. Anche adesso, qui. Oltre una nebbia che pare lava, passa una scolaresca: adolescenti già decrepiti, stesi su lettini con le ruote, con la pelle sollevata dalle suppurazioni, la testa che ciondola su un lato. Vanno al prelievo settimanale del sangue e ripetono il passaggio più bello di un poema.

http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/ambiente/conferenza-copenaghen-2/linfen-cielo-nero/linfen-cielo-nero.html

Eternit, lo scandalo del secolo

Red.,   10.12.2009

Più di duemila vittime, cinque paesi coinvolti, migliaia di parti civili al processo contro il gruppo diventato famoso nel mondo per gli ondulati di cemento e amianto, e oggi per la strage ancora in corso di lavoratori e cittadini che hanno inalato la fibra. L’inchiesta è stata condotta dal procuratore Raffaele Guariniello, che commenta: “Serve una giustizia europea sulla salute e la sicurezza”

I primi ad arrivare a Palazzo di Giustizia sono stati i francesi. Indossano giacche a vento leggere arancioni oppure giubbotti salvavita dello stesso colore, e i caschi bianchi antinfortuni. E’ la prima linea di quella multinazionale delle vittime, dal Belgio, alla Svizzera, all’Olanda, alla Francia appunto, che si è radunata oggi a Torino assieme ai familiari delle vittime dei quattro stabilimenti italiani, in occasione dell’avvio del dibattimento del processo Eternit contro il miliardario svizzero convertito all’ecologia Stephen Schmideiny, e il barone belga Jean Louis De Cartier de Marchienne, titolari del gruppo diventato famoso nel mondo per gli ondulati di cemento e amianto, e oggi per la strage ancora in corso di lavoratori e cittadini che hanno inalato la fibra. Sono 2889 le vittime per questo processo per il quale gli imputati sono accusati di disastro ambientale colposo. Di queste oltre 2000 sono i morti, che aumentano di giorno in giorno.

Come testimonia tristemente Rina Ruga, di Casale Monferrato, il cui marito Piero Ferraris si è ammalato ed è morto nel breve spazio di tempo tra l’avvio dell’udienza preliminare nell’aprile scorso, e oggi. Gli hanno diagnosticato un mesotelioma pleurico nel maggio scorso, è morto il 12 novembre, racconta la signora tra le lacrime davanti al tribunale. “Nell’ultima settimana si è chiuso nel silenzio – dice la donna – non ha mai più parlato”. E riferendosi agli imputati: “Bisognerebbe vederli in un letto come i nostri malati”. Storie drammatiche descritte a volte con emozione, a volte in modo asciutto perché ripetute tante volte. Ognuno ha il suo carico di drammi. I minatori di Merlebach, nella Lorena ai confini con la Germania, hanno avuto nella loro miniera di carbone 300 morti e 1500 malati dichiarati ufficialmente, dice il loro rappresentante Franco Dosso, nato a Udine, immigrato in Francia da giovanissimo. E sui cartelli neri sollevati ed esposti dalla delegazione francese durante la manifestazione che attorno a Palazzo di Giustizia ha raccolto alcune centinaia di persone, ci sono le foto di Gilbert, di Pierre, ma anche di Carlo, a testimoniare una mescolanza senza confini di lutti e di disastri. Da Para Y Le Monial, vicino Digione dove ancora è in funzione un impianto Eternit, con 150 dipendenti, sono venuti in 52, in rappresentanza delle 94 vittime accertate dal 1997. Il titolare Guy Cuvelier per la prima volta in Francia, è stato sottoposto a un procedimento penale per omicidio involontario.

I francesi sono venuti soprattutto per questo. Lo spiega Attilio Manerino, per l’associazione Andeva, che riunisce le vittime d’amianto, parlando dal palco improvvisato su via Falcone: “Questo processo è un esempio che renderà dignità alle famiglie e alle vittime”. L’obiettivo dell’accusa, spiegano i pubblici ministeri, è quello di dimostrare che il reato è permanente, perché esistono tuttora contaminazioni di amianto nelle strade, nelle infrastrutture, nelle case e edifici pubblici dei paesi colpiti, a partire da Casale Monferrato e Cavagnolo. Se raggiungeranno il loro scopo, il reato sarà imperscrittibile.

Gli svizzeri diffondono un volantino nel quale spiegano di Niederumen, sede di uno stabilimento del gruppo, diventata la Casale Monferrato elvetica a causa dell’alto numero di perone colpite dalla malattia da amianto. E poco dopo le nove del mattino arrivano anche loro, i testimoni più riconosciuti di questa tragedia, i familiari di Casale Monferrato, la città più colpita dal disastro dell’amianto. Portano cartelli, ma anche un tricolore con una semplice scritta “Eternit giustizia”.

Il procuratore Raffaele Guariniello che ha condotto l’inchiesta dirà a margine dell’udienza pochi minuti più tardi: “Serve una giustizia europea sulla salute e la sicurezza. Colpisce che certi paesi si facciano nel nostro paese e non in altri”. In strada ci sono anche i rappresentanti del sindacato autonomo Sll che ha costituito una rete tra i familiari delle vittime sul lavoro, di qualche collettivo comunista, ma anche dell’associazione Legami d’acciaio, quella nata dopo l’incidente della Thyssenkrupp a Torino. Palazzo di Giustizia intanto e’ quasi totalmente assorbito da questo maxi processo, dove le parti civili sono già 700, 1500 si costituiscono oggi, altre si aggiungeranno in seguito. Tre maxiaule dedicate, la uno dove si celebra l’udienza davanti alla prima sezione del tribunale presieduta da Giuseppe Casalbore, lo stesso che oscurò negli anni 80 le tv di Berlusconi e che a fianco di questo sta conducendo il processo Ifil – Exor, la due e la cinque. Più l’aula magna, più l’auditorium della provincia di Torino messo a disposizione per il pubblico. Sono le dieci quando Casalbore entra in aula, i due imputati come previsto, non sono in aula. Il presidente avverte “E’ lunga la giornata”. Solo l’appello delle parti civili prende molte ore. “Il processo sarà giusto e i suoi tempi saranno quelli necessari per dare giustizia alle vittime e agli imputati”, commenta ancora Guariniello.

http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13747

Grecia-Lombardia che correlazione hanno?? 10.12.2009
articolo di Marya Longo

Chiamatelo effetto boomerang della finanza. O dei conflitti d’interesse. Chiamatela casualità. O anche sfortuna. Sta di fatto che la crisi della Grecia rischia di creare seri problemi anche ad uno dei più virtuosi Enti locali italiani: la Regione Lombardia. Poco importa che il Pirellone si trovi a migliaia di chilometri dal Partenone. Se la repubblica ellenica finisse malauguratamente in default, a pagarne le conseguenze sarebbe proprio la Lombardia. Motivo: a garanzia del prestito obbligazionario emesso dalla Regione nel 2002 c’è, per 115 milioni di euro, proprio un bond della Grecia. Se Atene salta, dunque, la Lombardia soffre. Magia della finanza, che per anni ha concatenato i destini di migliaia di debitori l’uno all’altro. «Il Sole 24 Ore» è in grado di documentarlo.

Il “filo rosso” che lega Lombardia e Grecia nasce nel 2002, quando la Regione guidata da Roberto Formigoni decide di emettere un prestito obbligazionario da un miliardo di dollari con scadenza nel 2032. A curare questa operazione ci sono due banche estere: la svizzera Ubs e l’americana Merrill Lynch. La legge consente ad una Regione di indebitarsi a lungo termine, ma – per evitare di far gravare solo sulle generazioni future il peso del rimborso – prevede che venga creato un piano di ammortamento. Di fatto la Regione deve costruire un grosso “salvadanaio” in cui poco a poco deve mettere da parte i soldi che serviranno, nel 2032, per rimborsare l’intero prestito obbligazionario da un miliardo di dollari.

Il problema è che tra la legge e i giusti propositi ci si è messa la finanza a complicare le cose. Così questo gigantesco “salvadanaio”, chiamato dagli addetti ai lavori sinking fund, è stato creato (come accade per prassi) dalle stesse banche che hanno curato l’emissione obbligazionaria: cioè Ubs e Merill Lynch. Il contratto funziona così: la Lombardia paga le rate alle due banche e loro mettono i soldi in questo grosso fondo, con l’impegno a restituirglieli nel 2032. Ovviamente le due banche non tengono i soldi fermi, ma li investono in altre obbligazioni secondo una lista preconcordata. E qui si arriva alla vera magia del sinking fund: dato che alla Regione questo “salvadanaio” deve solo garantire il rimborso del bond da un miliardo di dollari nel 2032, tutto il rendimento aggiuntivo va alle banche. Per contro, se il fondo fa investimenti sbagliati, la perdita grava sulla Regione Lombardia. Insomma: le banche hanno rendimenti senza rischi, la Regione ha rischi senza rendimenti.

E qui arriviamo al punto: Ubs e Merrill Lynch hanno investito i denari che la Lombardia ha già versato in vari titoli obbligazionari. Uno di questi – il più pesante in termini di importo escludendo i BTp – è della Repubblica ellenica: Ubs ha messo nel sinking fund della Regione Lombardia 115 milioni di euro di obbligazioni greche. A provarlo sono i documenti sul sinking fund in mano al «Sole-24 Ore», aggiornati al 30 settembre 2008 (ma da allora nulla è cambiato). Ecco perché oggi la crisi finanziaria di Atene diventa un serio problema per la Lombardia: nel caso (seppur improbabile) di default greco, la Regione perderebbe una cospicua parte dei soldi inseriti nel “salvadanaio”.

Ma c’è dell’altro. Il bond della Grecia inserito nel sinking fund della Lombardia non è un titolo di Stato qualunque, ma un bond che la stessa Ubs aveva anni prima collocato per conto della Grecia. Nell’aprile del 2000 la Repubblica aveva infatti emesso un prestito obbligazionario da 200 milioni di euro con l’aiuto dell’allora Warburg Dillon Read (oggi diventata Ubs). Ebbene: la stessa Ubs due anni dopo ha deciso di mettere più della metà di quei 200 milioni nel sinking fund della Lombardia, che lei stessa ha creato. Così oggi ci si trova nel paradosso: Ubs ha realizzato i profitti (commissioni da Grecia e Lombardia) e la Regione italiana si trova i rischi. Ieri «Il Sole 24 Ore» ha chiesto un commento sia a Ubs sia alla Regione, ma non ha avuto risposte.

Bene inteso: che questa vicenda si concluda a lieto fine è altamente probabile. Va anche ribadito che nessuna legge è stata infranta. Ma questo non cambia il vero problema: per anni la finanza ha legato i debitori di tutto il mondo l’uno all’altro, creando il rischio di un potente effetto domino. La stessa globalizzazione finanziaria che ha portato i mutui subprime in giro per il mondo, oggi ha messo il rischio greco dentro la Lombardia.

Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
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Con il nikel, l’idrogeno costa meno 09.12.2009

Il metallo potrebbe sostituire il platino nei catalizzatori utilizzati per produrre idrogeno dall’acqua. Uno studio su Science

Se in un futuro non più remoto guideremo macchine con motori a idrogeno o ascolteremo radio alimentate con celle a combustibile, forse sarà anche merito di Alan Le Goff e dei ricercatori del Commissariato per l’Energia Atomica di Parigi. Gli studiosi francesi, infatti, hanno trovato il modo di abbassare il costo di produzione dell’idrogeno a partire dalle molecole d’acqua: fabbricare i catalizzatori necessari alla generazione del gas utilizzando nikel al posto del prezioso platino.

Per scindere molecole d’acqua in ossigeno e idrogeno vengono comunemente usati gli  elettrolizzatori, che spesso sono alimentati con energia solare o eolica, così da essere totalmente “green”. Nelle celle a combustibile, poi, avviene il processo contrario: l’idrogeno si combina nuovamente con l’ossigeno in un processo che genera elettricità. Sia negli elettrolizzatori sia nelle celle a combustibile, le reazioni chimiche sono favorite da catalizzatori metallici, il più diffuso dei quali è il platino, costoso e poco reperibile.

Secondo quanto Le Goff riporta su Science però, esistono dei degni sostituti di questo elemento nobile. I ricercatori li hanno costruiti applicando il nikel su dischetti di nanotubi di carbonio. Il metallo, che favorisce la scissione delle molecole d’acqua (promuovendo la conversione reciproca degli ioni idrogeno in idrogeno molecolare), possiede la stessa reattività chimica del platino ma è molto più abbondante e costa circa il 20 per cento in meno. Per costruire i nuovi catalizzatori, i ricercatori ammettono di aver “copiato” il mondo naturale, ispirandosi al funzionamento delle idrogenasi – una famiglia di enzimi responsabile del metabolismo dell’idrogeno nelle alghe e nei batteri.

Esistono dei “però”. La rigenerazione dei catalizzatori di nikel è infatti molto più lenta di quella degli elettrodi al platino, forse a causa dei forti legami tra il metallo e il carbonio. Inoltre, la densità di corrente ricavata dalle celle a combustibile che utilizzano nikel è più bassa di quella dei dispositivi al platino.  (m.s.)

Riferimento: DOI: 10.1126/science.1179773

http://www.galileonet.it/news/12164/con-il-nikel-lidrogeno-costa-meno

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Mediattivismo 035

I drammatici sms dalle Twin Towers: “Ti prego, dimmi che stai bene” 25.11.2009

Il sito Wikileaks pubblica i messaggi inviati dalle persone coinvolte nel più devastante attacco agli Stati Uniti

TORINO
A partire dalle 9 del mattino di oggi fino alla stessa ora di domani il sito Wikileaks – specializzato nella pubblicazione di documentazione secretata – manderà online oltre un milione e mezzo di sms intercettati l’11 settembre 2001, proprio durante i devastanti attacchi terroristici a New York e Washington. «In questo modo le persone hanno la possibilità di ripercorrere le tappe della tragedia minuto dopo minuto, ora dopo ora, e di capire realmente che cosa accadde», si legge sul sito. E ancora: «Speriamo che con questa rivelazione si arriverà a una comprensione più approfondita dell’evento e delle sue tragiche conseguenze».

Il primo messaggio immesso nel web risale alle 3 del mattino (ora americana) dell’11 settembre, cinque ore prima dell’attacco. I pagers, da cui vengono presi i messaggi di testo, vengono in genere utilizzati da funzionari pubblici e infatti quelli che si possono leggere su WikiLeaks comprendono anche gli scambi tra dipendenti del Pentagono e agenti del Dipartimento della polizia di New York, fino alle comunicazioni sui malfunzionamenti delle reti informatiche man mano che il World Trade Center crollava.
Il sito è già stato inondato di commenti, con contestazioni per la “violazione della privacy digitale”, ma molti altri invece ringraziano WikiLeaks per l’opportunità di scandagliare ancora quel che accadde in quelle tragiche ore.

WikiLeaks, nato nel 2006, si propone di promuovere la libertà di informazione su temi sensibili, siano essi collegati alle politiche dei governi, delle compagnie private, delle confessioni religiose. «Vi aiutiamo a far emergere la verità in sicurezza», recita lo slogan del sito, che assicura l’anonimato a coloro che mettono online materiale sensibile.

Ecco il contenuto di alcuni degli sms pubblicati da WikiLeaks:
7: 05: 57 AM : “Please don’t leave the building. One of the towers just collapsed! Please, please be careful”
“Per favore non abbandonate l’edificio. Una delle torri è appena crollata. Per favore, per favore, fate attenzione”.

8: 51: 31 AM: “World Trade Center – Possible explosion World Trade Center Building – Level 3 mobilization to church”.
“World Trade Center – Possibile esplosione nel World Trade Center – Livello 3 – Dirigersi verso la chiesa”.

11:29:13 AM “I’m OK. I saw the whole thing. Was on the roof looking at the first fire when I saw the second plane plow into the second tower. Unbelievable, literally…I was inside when they collapsed. Still in my apt, nowhere to go…This is the end of the world as we know it… “.
“Sto bene. Ho visto tutto. Ero sul tetto a guardare la prima esplosione quando ho visto il secondo aereo schiantarsi nella seconda torre. Letteralmente incredibile. Ero dentro quando sono crollate. Sono ancora in casa. Non so dove andare…Questa è la fine del mondo…”.

9:25: 16 AM “Call your son when you get a chance. Calling to see if you’re allright”.
“Chiama tuo figlio appena puoi. Ti sto chiamando per sapere se stai bene”

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200911articoli/49741girata.asp

Ambiente, impegno di Obama: taglio delle emissioni del 17% entro il 2020

A Copenaghen gli Usa proporranno una riduzione del 42% entro il 2030

WASHINGTON 25.11.2009
Barack Obama andrà alla conferenza sul clima di Copenaghen e metterà sul tavolo dei negoziati una proposta concreta sul taglio delle emissioni di CO2. Una decisione che apre la strada al raggiungimento di un nuovo accordo internazionale che sostituisca il protocollo di Kyoto. «È decisivo che il presidente americano partecipi al summit», ha commentato il responsabile dell’Onu per i cambiamenti climatici, Yvo de Boer, spiegando che la comunità internazionale aspettava che fossero gli Stati Uniti a fare il primo passo.

Obama spera che con la sua partecipazione alla conferenza sul clima si possa imprimere una «svolta» ai negoziati e, secondo quanto riferito dalla Casa Bianca, non si presenterà a mani vuote, ma con una proposta di taglio delle emissioni di CO2 del 17% entro il 2020 – rispetto ai livelli del 2005 – del 30% entro il 2025 e del 42% entro il 2030, per arrivare a un taglio dell’83% entro il 2050. Un traguardo, quello previsto dagli Usa per il 2020, considerato insufficiente dalle associazioni ambientaliste, ma forse l’unico per trovare il consenso di tutta la comunità internazionale. L’agenzia energetica internazionale ha spiegato che il taglio del 17% entro il 2020 è certamente un passo nella giusta direzione, ma da parte dei Paesi più inquinatorì al mondo (Cina e Usa in testa) è necessario fare di più.

Pechino ha ribadito che non intende sacrificare il suo sviluppo per tagliare le emissioni di CO2. Per questo, è necessario che i Paesi ricchi decidano di stanziare finanziamenti per quelli in via di sviluppo al fine di ottenere il via libera al taglio delle emissioni. Il numero che Obama porterà sul tavolo dei negoziati è quello già approvato dalla Camera dei Rappresentanti americana e che deve andare ancora al vaglio del Senato.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200911articoli/49749girata.asp

Vaticano, spy story da 180 milioni di euro 26.11.2009

I soldi fatti transitare in modo anonimo su Unicredit. Bankitalia e Procura aprono un’inchiesta: riciclaggio

GIACOMO GALEAZZI

CITTÀ DEL VATICANO
Un fiume di denaro gestito dalla banca vaticana, operazioni finanziarie «anomale», fondi intestati allo Ior e privi di proprietari dichiarati. Ora la procura di Roma vuol conoscere chi si cela sotto l’acronimo «Istituto per le opere di religione» che dal 2003 ha aperto alcuni conti nella filiale Unicredit di via della Conciliazione, al confine con le Mura Leonine. Depositi creati quando la filiale era ancora della Banca di Roma, prima del passaggio a Unicredit.

Il mistero è racchiuso soprattutto in un tesoro da 180 milioni di euro i cui veri titolari sono per ora sconosciuti e «protetti» dallo «schermo opaco», come lo hanno definito gli investigatori, costituito dallo Ior. Per statuto la banca d’Oltretevere, che si è sempre ritagliata un ruolo autonomo al punto da non figurare nemmeno nei bilanci della Santa Sede, può avere come clienti enti ecclesiastici, sacerdoti e laici residenti in Vaticano, stranieri purché destinino parte dei fondi a opere di bene. L’incognita, però, è a monte: la titolarità dei conti Ior, «top secret» e non sottoposti a tassazione.

Gli accordi con lo Stato italiano consentono all’Istituto vaticano (in passato protagonista di scandali clamorosi come la maxitangente Enimont ed il crack dell’Ambrosiano), un’operatività da banca offshore. La clientela riceve discrezione totale nelle operazioni utilizzando una banca che gestisce transazioni finanziarie fuori dagli accordi interbancari e dai filtri internazionali. Con il rischio che diventi una «lavanderia», un paradiso fiscale che non risponde a nessuna legislazione. Dietro il conto all’Unicredit può esserci chiunque, osservano in procura.

Quella provvista poteva servire a coprire qualunque tipo di attività: una sorta di bacino finanziario che assicurava flussi di denaro da e per i correntisti protetti dalla discrezione propria della finanza d’Oltretevere. Lì sono transitati dal 2003 circa 60 milioni di euro all’anno. Per ora i magistrati hanno aperto un fascicolo ipotizzando la violazione della legge 231 del 2007 che disciplina, per gli istituti di credito, una serie di norme antiriciclaggio, tra cui la trasparenza della titolarità, sul deposito di conti correnti.

L’indagine è appena agli inizi e per il momento è focalizzata sui rapporti tra Ior e Unicredit. Ma l’inchiesta, che ha creato non pochi imbarazzi in Vaticano, riguarderebbe anche altri conti correnti, nella titolarità dello Ior, aperti nella stessa filiale. Depositi di differente importanza: sia di grande entità sia di valore più contenuto. La segnalazione alla Procura della «non trasparenza» della titolarità dei conti è stata fatta dalla «Unità di informazione finanziaria» (la struttura di «financial intelligence» della Banca d’Italia) al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza che indaga su delega del procuratore aggiunto della Capitale Nello Rossi e del pubblico ministero Stefano Rocco Fava.

Il sospetto di chi indaga è che dietro la sigla Ior si possano celare persone fisiche o società che abbiano costituito un canale per il flusso di risorse tra la banca del Papa e l’Italia. Per l’indagine non sarà necessario attivare richiesta di rogatoria con lo Stato vaticano. Del resto, il nuovo presidente dell’Istituto, l’economista Ettore Gotti Tedeschi, intende assicurare trasparenza e collaborazione con la magistratura rispetto ad operazione riconducibili alla precedente gestione. Unicredit, secondo le indagini, ha emesso assegni e bonifici intestati sempre e solo alla banca vaticana. Anche su questo sono in corso indagini della Finanza per risalire ai beneficiari delle operazioni: il gruppo milanese fa sapere di essersi adeguato da tempo alle normative collaborando con le autorità di vigilanza.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200911articoli/49759girata.asp

Dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/

“Depositi creati quando la filiale era ancora della Banca di Roma, prima del passaggio al gruppo Unicredit”

Nel documento riservato dito puntato anche contro un sacertote belga e uno ruandese

Onu, accuse a due preti italiani «Soldi ai guerriglieri hutu in Congo» 26.11.2009

Il rapporto denuncia il fallimento della missione di pace: denaro alle milizie responsabili di stupri e massacri

MASSIMO A. ALBERIZZ

NAIROBI – Due sacerdoti italiani, un ruandese naturalizzato italiano che celebra nella diocesi di Lucca e un prete belga premiato con un milione di dollari dall’Opus Dei, sono accusati dal rapporto degli esperti nominati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di finanziare i gruppi hutu responsabili di efferati massacri nella repubblica Democratica del Congo. Il documento, che è ancora riservato ma di cui il Corriere è riuscito a procurarsi una copia e la cui lettura tiene incollati come un avvincente romanzo d’azione, è durissimo e accusa senza mezzi termini i caschi blu dell’Onu di non essere in grado di mantenere la pace, l’Uganda di continuare a sfruttare le risorse minerarie, la Cina di giocare un ruolo equivoco e contraddittorio, e alcune organizzazioni non governative spagnole di aver abbandonato la loro attività umanitaria per finanziare sanguinari ribelli ruandesi hutu, che combattono contro il governo di Kigali dominato dai tutsi.

SACERDOTI SOTTO ACCUSA – La relazione non perdona sacerdoti cattolici impegnati a combattere la loro guerra privata. Il gruppo di esperti – c’è scritto nel rapporto – ha ottenuto le mail originali che mostrano i collegamenti tra il missionario saveriano Piergiorgio Lanaro, che vive a Kasongo in Congo, e il presidente dell’Fdlr (Fronte democratico per la liberazione del Ruanda), Ignace Murwanashyaka, arrestato in Germania il 17 novembre accusato di stupro, crimini di guerra e contro l’umanità. Secondo gli investigatori dell’Oonu, l’Fdlr è coinvolto nello sfruttamento delle risorse minerarie del Congo orientale, dove operano i suoi miliziani, soprattutto oro. Lanaro avrebbe deliberatamente deviato fondi raccolti in Europa a fini umanitari verso i combattenti dell’Fdlr, cosa che avrebbe fatto con la complicità di padre Franco Bordignon, tesoriere regionale dei saveriani, residente a Bukavu. Padre Bordignon, raggiunto per telefono a Bukavu, ha dichiarato di essere a conoscenza del documento degli esperti, ma di non volerlo commentare perché non ufficiale. Gli investigatori, per altro, sostengono le loro ragioni citando una mail con cui lo stesso padre Piergiorgio racconta della sua abilità nel raccogliere danaro per sostenere la causa del Fdlr. In un messaggio di risposta Murwanashyaka conferma il suo desiderio di ricevere questo finanziamento.

RIFUGIATO IN ITALIA – Sul banco degli accusati per relazioni con i ribelli hutu anche Jean-Berchmans Turikubwigenge, prete rifugiato ruandese che ha preso la cittadinanza italiana. Secondo un rapporto di Rakiya Omar, consulente del governo ruandese per la demobilizzazione e la reintegrazione e anima del gruppo di difesa ei diritti umani, African Right, padre Jean è stato ordinato sacerdote nel 1990 da Papa Giovanni Paolo II. Divenuto cappellano militare durante il genocidio del 1994 e scappato dal suo Paese per non subire rappresaglie. Esule a Roma, si è laureato all’università gregoriana e ora è vice direttore dell’ufficio missionario e direttore per l’immigrazione della diocesi di Lucca.

PREMIATO DALL’OPUS DAY – L’accusa più grave viene rivolta a un sacerdote cattolico belga fiammingo: Constant Goetschalckx, leader dell’organizzazione religiosa Brothers of Charity (fratelli della carità) con rappresentanze in tutto il mondo, con lo statuto di membro consultivo del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, la cui missione è sostenere progetti per aiutare i profughi ruandesi che vivono nei campi di Kigoma, in Tanzania. Per il suo impegno caritatevole padre Constant – che lavorava nel campo – ha ricevuto il premio Opus Prize: un milione di dollari stanziati dall’Opus Dei. Costant Goetschalckx, è imputato per aver finanziato i guerriglieri hutu ruandesi responsabili di aver bruciato villaggi, ammazzato gli uomini, violentato le donne e rapito i bambini: venivano a ritirare il denaro direttamente a casa sua.

I SIGNORI DELLA GUERRA – Accuse specifiche sono rivolte a organizzazioni umanitarie spagnole, basate nelle Baleari, come la Fundaciò S’ Olivar e la Inshuti,,entrambe con sede nelle Baleari e finanziate del governo locale dell’arcipelago. Il rapporto articola le accuse meticolosamente. Cita testimonianze, messaggi mail e conversazioni telefoniche, ricevute di pagamento e di trasferimento di denaro che svelano connessioni all’apparenza assurde. Al capezzale delle ricchissime regioni orientali del Congo siedono i sanguinari signori della guerra, accusati di spietati eccidi, le grandi multinazionali, che si spartiscono le risorse minerarie, le potenti diplomazie di tutto il mondo, con il loro cinismo che non si cura di stragi, carneficine e macelli, e organizzazioni non governative che parlano di l’assistenza umanitaria ma invece aiutano e armano feroci miliziani e guerriglieri. L’ex colonia belga è ancora una volta sull’orlo del disastro.

(malberizzi@corriere.it)

http://www.corriere.it/esteri/09_novembre_26/congo-accuse-sacerdoti-italiani-ribelli-hutu_5957453a-da5b-11de-a7cd-00144f02aabc.shtml

Grazie a particolari specchi e ad altri macchinari si produce energia elettrica

Firenze: ecco la macchina che cattura e concentra l’energia del Sole 24.11.2009

Giovedì il Cnr inaugura all’Osservatorio di Arcetri il «Concentratore solare con specchi adattivi rotanti»

FIRENZE – Visto da vicino il prototipo del Cnr ti spedisce lontano nel tempo. Un ritorno al passato con le tecnologie del futuro. E non è strampalato pensare al grande Archimede, ai suoi specchi ustori, alle meraviglie di una pre-tecnologia così sofisticata da sembrare mitica. E invece l’oggetto misterioso che sarà inaugurato giovedì all’Osservatorio di Arcetri, sulle colline di Firenze, è un esempio di altissima tecnologia, unica al mondo. Si chiama «Concentratore solare con specchi adattivi rotanti» ed è capace di sviluppare energia elettrica pulita e a basso costo, circa tre volte in meno rispetto a quanto si spende per l’energia prodotta da un impianto fotovoltaico e a ridurre l’impatto paesaggistico.

LA TECNOLOGIA – «Con questa tecnica si possono realizzare impianti capaci di arrivare a 1500 gradi di calore – spiega Francesco D’Amato, primo ricercatore all’Istituto nazionale di ottica applicata del Cnr di Firenze – e produrre 200 chilowatt elettrici capaci di alimentare energia in una sessantina di appartamenti». Un impianto del genere deve avere una grandezza di 2500 metri quadrati, ed ha una forma di un cerchio di 50 metri di diametro. Il prototipo (funzionante) che sarà mostrato giovedì ad Arcetri è invece un semicerchio ed formato da otto metri quadrati di specchi. Perché proprio come l’invenzione di Archimede, anche il Concentratore funziona con gli specchi. Qual è il suo cuore meccanico? «Un binario semicircolare di 25 metri di diametro dove si muove un carrello – continua D’Amato – e su questo carrello è stato montato un telaio di 8 metri quadri di specchi. Il carrello segue il movimento del sole e rimanda luce su un altro specchio speciale collocato al centro binario. Da qui, grazie a un motore Stirling, cioè un sistema che trasforma energia termica in elettrica, si crea l’energia». Un concentratore solare è in via di sperimentazione da parte dell’Enel in Sicilia, ma quello fiorentino è realizzato con una tecnologia all’avanguardia capace di produrre maggiore energia, ameno sulla carta.

DIFETTI – I difetti? Se c’è poco sole funziona male, dunque è per ora un ottimo impianto da utilizzare soprattutto al Sud. Il progetto è stato elaborato dagli Istituti nazionali di ottica applica e di biometereologia del Cnr, e dalla Ronda Hight-Tech, un’azienda di Vicenza. I progetto è stato firmato anche dalla Regione Toscana. «Abbiamo sostenuto la realizzazione del concentratore con grande convinzione – dice Fabio Roggiolani, presidente della Commissione sanità della Regione Toscana – anche perché siamo la prima Regione in Italia che sta riconvertendo a energia pulita tutti gli ospedali e il parco auto del servizio sanitario che tra poco sarà elettrico. Il progetto di Arcetri può ridurre di tre quarti la superficie occupata dal fotovoltaico. E questo per una regione dove il paesaggio è così importante, come la Toscana, può essere decisivo per la svolta ecologica. Dopo il solare termodinamico e fotovoltaico, ecco dunque il solare ottico. Insomma, abbiamo messo gli occhiali ai pannelli solari».

Marco Gasperetti

http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/09_novembre_24/concentratore-raggi-solari-marco-gasperetti_217f42d4-d90c-11de-a7cd-00144f02aabc.shtml

Perché i porti italiani contano per la Cina

Gabriele Catania,   23.11.2009

L’Italia, al centro del Mediterraneo, può tornare a essere un grande hub commerciale, se riesce a rendere più competitivi i suoi porti. La geografia sta dalla nostra parte. La storia anche

Tutti sanno che l’economia cinese è basata sull’export, che rappresenta il 40% del suo PIL. Di questo passo il nomignolo “Exportweltmeister” (campione mondiale delle esportazioni), coniato naturalmente per la Germania, dovrà passare alla Repubblica Popolare Cinese, “la fabbrica del mondo” già terzo esportatore mondiale dopo Germania e Stati Uniti.

Pechino è il maggior fornitore dell’Europa, e i sedici paesi dell’eurozona rappresentano per gli imprenditori cinesi un mercanto assai più importante del vicino Giappone, che pur essendo la seconda potenza economica del mondo non certo può competere con mezzo miliardo di consumatori europei.

Secondo la Commissione Europea le importazioni dalla Cina sono cresciute attorno al 21% annuale dal 2003 al 2007, e soltanto nel 2007 l’Unione Europea ha importanto merci cinesi per oltre 230 miliardi di euro. È ovvio che i beni cinesi possono essere venduti ai ricchi consumatori del Vecchio Continente solo se riescono materialmente a raggiungere i suoi negozi e i suoi centri commerciali. Ecco perché i porti italiani sono importanti per la prosperità cinese.

Attualmente le società cinesi preferiscono inviare la loro merce nei più efficienti porti del Nord Europa, a cominciare da quello di Rotterdam, nei Paesi Bassi. In realtà il Benelux è da sempre al centro dei commerci europei: a ovest, oltre la Manica, c’è la Gran Bretagna, a est la Germania e l’Est Europa, a sud la Francia e a nord la Scandinavia (non stupisce che per secoli le principali potenze europee si siano azzuffate per il controllo dei porti di Anversa, Rotterdam e Amsterdam).

Comunque la distanza tra i principali porti cinesi e Rotterdam è assai maggiore di quella tra gli stessi e quelli italiani: dopo il canale di Suez le navi della Repubblica Popolare devono attraversare il Mediterraneo, passare lo stretto di Gibilterra, costeggiare Portogallo, Spagna, Francia e Belgio prima di intravedere le banchine di Rotterdam. E un viaggio più lungo non richiede solo più tempo, ma anche più carburante, più rischi e, in una sola parola, più soldi.
Come ha riconosciuto lo stesso governo italiano, i porti della nostra penisola hanno il vantaggio di poter essere raggiunti dalle navi che passano il canale di Suez una settimana prima di quelli nordeuropei.

Gli armatori cinesi però stanno sempre più puntando sul Pireo, il grande porto di Atene famoso sin dai tempi di Pericle. Secondo l’ex primo ministro greco Costas Karamanlis i porti del suo paese “possono fungere da centri di transito per i prodotti cinesi destinati all’Unione Europea, ma anche per gli stati dell’Europa sudorientale e del Mediterraneo Orientale”.
Certo, la Grecia è vicina alla Turchia, alla Bulgaria, ai Balcani. Tuttavia le economie della regione non sono paragonabili a quelle di Germania, Francia o Italia, e la stessa Grecia è un paese di scarso peso economico, e con una forte instabilità sociale e politica: gli attentati terroristici e le violenze, sia di destra che di sinitra, ad Atene sono all’ordine del giorno; e i portuali del Pireo non sembrano molto contenti di lavorare per i cinesi.

Inoltre l’Austria, “la porta dell’Occidente”, dista dal Pireo assai più che dall’Italia meridionale, e per raggiungerla un camionista greco deve attraversare paesi come la FYROM (Macedonia), la Serbia, la Bosnia e la Croazia. Inoltre questi paesi, fino a ieri in gravissime condizioni politiche ed economiche, non sono ancora membri dell’Unione Europea, né lo saranno a breve (con l’eccezione della Croazia) e pertanto bisogna attraversare almeno cinque frontiere prima del sospirato confine austriaco.

Il governo italiano, dal suo canto, è particolarmente desideroso di rendere l’Italia la prima fermata europea della nuova “Via della Seta” tra la Cina e l’Europa.
I porti italiani giocano già ora un ruolo importante negli scambi tra la Repubblica Popolare e il Vecchio Continente: nel porto di Napoli, dove opera la COSCO, entrano ogni anno 1,6 milioni di tonnellate di beni cinesi; e la Evergreen Marine Corp., di Taiwan, opera a Taranto.
Senza contare che il porto di Gioia Tauro e quelli liguri o dell’Italia centrale hanno un potenziale immenso, mentre il porto di Trieste, un tempo il più grande del Mediterraneo, dista meno di duecento chilometri dall’Austria.

Naturalmente per rendere più competitivi i porti italiani servono grandi investimenti, sia nazionali che internazionali. Ma sarebbe tragico se l’Italia perdesse l’occasione di tornare a essere un hub commerciale mondiale, come nel Quattrocento. E i cinesi dovrebbero ricordare che puntare tutto su un solo grande porto, sia esso quello di Rotterdam o di Atene, comporta rischi e costi che una superpotenza economica non può sottovalutare.

http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13579

I palestinesi che usano come arma la nonviolenza

di Richard Boudreaux*
Los Angeles Times, 19 novembre 2009

Bil’in, Cisgiordania – Ogni venerdì, le forze di Mohammed Khatib si radunano per combattere la loro battaglia contro l’esercito israeliano, e preparano le loro armi: un megafono, degli striscioni – e la forte convinzione che la protesta pacifica possa portare alla creazione di uno stato palestinese.

A centinaia  marciano verso la barriera israeliana che separa la piccola comunità agricola di Bil’in dalla maggior parte delle sue terre. Cantano e gridano. Alcuni teenager lanciano pietre.

Khatib ha contribuito a dare il via a questo rito settimanale cinque anni fa, nel tentativo di “dare un nuovo carattere” alla lotta palestinese, spesso associata agli attacchi con i razzi e agli attentati suicidi.

“La non violenza è la nostra arma più potente”, dice il ‘mediatico’ segretario del consiglio del paese di Bil’in. “Se non ci possono accusare di terrorismo, non possono fermarci. Il mondo ci sosterrà”.

Il problema è che questo progetto non gode di molto sostegno all’interno della comunità palestinese. Dopo due rivolte in venti anni (la prima e la seconda Intifada), i palestinesi sembrano essere in gran parte indifferenti di fronte al suo donchisciottesco invito ad intraprenderne una terza.

Il suo messaggio è difficile da ‘vendere’: Khatib, 35 anni, è un Gandhi moderno in una cultura che contempla il linguaggio delle armi, benché la maggior parte dei palestinesi non ne abbia mai usata una. E i rischi del suo attivismo sono enormi.

L’esercito israeliano lo ha preso di mira. Quest’estate, nel corso di una serie di raid notturni nel paese venne arrestato, malmenato brutalmente e minacciato di morte. Fu liberato a condizione che ogni venerdì si presentasse ad una stazione di polizia israeliana all’ora della protesta settimanale.

Sebbene il villaggio abbia continuato a compiere le sue marce e sia diventato un simbolo di disobbedienza civile largamente acclamato, il suo progetto di esportare il modello “Bil’in” in tutta la Cisgiordania non si è materializzato.

Solo alcune migliaia di attivisti palestinesi negli ultimi cinque anni hanno ricevuto training sui principi e le tattiche della resistenza nonviolenta, secondo l’indipendente “Holy Land Trust”, con sede a Betlemme, che gestisce il corso. Le loro sporadiche iniziative hanno portato ad un miglioramento molto limitato delle restrizioni imposte da Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Ma questi sforzi non si sono concretizzati in un movimento di massa, tanto meno hanno costretto Israele a muoversi in direzione di un accordo su uno stato palestinese.

Gli attivisti dicono di essere ostacolati dagli attacchi israeliani, dalla rassegnazione diffusa tra i palestinesi, e da una profonda spaccatura della leadership politica, divisa tra la difesa della lotta armata, caldeggiata da Hamas, e la speranza dell’Autorità Palestinese in una rinascita dei colloqui di pace con Israele sotto l’egida degli Stati Uniti.

Nei territori palestinesi prevale una calma relativa, ma secondo Khatib questa impasse diplomatica non potrà durare a lungo.

Quest’uomo calvo, distinto e raffinato, assorto nei suoi pensieri,  irradia una forte intensità. In una lunga conversazione, parla dei suoi idoli – Mohandas Gandhi, Martin Luther King e Nelson Mandela – mentre riceve telefonate riguardo alla prossima mossa del suo progetto, volta a sfidare legalmente la barriera di separazione.

Egli crede che Israele stia cercando di schiacciare gli attivisti non violenti, perché preferirebbe piuttosto affrontare un’insurrezione armata.

“Questo non ci aiuta a convincere la gente che il nostro percorso di resistenza sia quello giusto”, afferma Khatib. “E sarà un processo lento. Finora non si sono visti molti successi”.

Khatib ha conosciuto la militanza da adolescente durante la prima Intifada, la rivolta che ha avuto inizio nel 1987. Bloccò le strade per cercare di tenere l’esercito fuori dal suo paese, dipinse slogan sui muri e sventolò la bandiera palestinese (allora un’azione illegale) alle manifestazioni.

La partecipazione di massa e lo svolgimento relativamente pacifico di quella rivolta, quando pochi erano i palestinesi armati non soltanto di pietre, ottenne la simpatia dell’opinione pubblica internazionale e portò ad una grande concessione: nei primi anni novanta Israele riconobbe l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e cominciò a prendere in considerazione la creazione di uno stato palestinese.

Le iniziative nonviolente di oggi derivano dalla nostalgia per la prima Intifada – quella che Khatib definisce una sobria reazione alla rivolta armata che ha insanguinato la prima metà di questo decennio, dopo che erano falliti i colloqui di pace. Sono morti più di 4 mila palestinesi e milla israeliani.

Khatib, che abbandonò la resistenza quando le cose stavano per farsi violente, ricorda gli omicidi che lo cambiarono.

Era il 2001. Khatib vide con orrore dei soldati israeliani che sparavano ad un amico disarmato presso un posto di blocco. Due settimane più tardi, i militanti delle brigate dei martiri di  Al-Aqsa si vendicarono al posto di blocco, uccidendo sette soldati.

“La mia prima reazione fu “bravi!”, dice Khatib. Poi si accorse che i soldati uccisi appartenevano ad un’altra unità, distinta da quella in servizio quando fu ucciso il suo amico.

“E mi sono chiesto: come possiamo rompere questo ciclo di morte, di azione e reazione violenta?”

La sua risposta è stata di organizzare un movimento contro l’eredità lasciata dall’Intifada: la barriera che Israele ha costruito per proteggersi contro gli attacchi dei militanti, ma che, al tempo stesso, divide profondamente la Cisgiordania in più parti, isolando i palestinesi dall’ 8% del loro territorio. La serie di panelli di cemento, recinzioni e strade di pattugliamento si estende per oltre 280 miglia.

Khatib ha coinvolto attivisti israeliani e internazionali perché marciassero ogni venerdì a fianco dei residenti di Bil’in fino alla recinzione, che qui è alta 4 metri. Essa protegge una parte del tentacolare insediamento ebraico di Modiin Illit, che si erige sulle terre del villaggio palestinese.

Egli ha fatto in modo che i manifestanti potessero servirsi di videocamere per documentare l’uso di gas lacrimogeni e proiettili di gomma da parte dell’esercito israeliano per tenerli lontani. Ha sempre applicato una tolleranza zero nei confronti dell’uso della violenza da parte degli attivisti, fallendo solamente nel caso di qualche ragazzo che lanciava pietre e, occasionalmente, colpiva i soldati.

Michael Sfard, un avvocato israeliano ingaggiato dal paese, attribuisce a Khatib il merito della “brillante” idea che, due anni fa, trasformò il trend avviato dal movimento in una vittoria giuridica storica.

Col favore dell’oscurità, Khatib portò una squadra di costruzione clandestina al di là della barriera, e costruì una capanna di fortuna sulle terre del villaggio che erano state usurpate per costruire un nuovo quartiere appartenente all’insediamento ebraico. (Questa manovra clandestina si ispirava alla strategia espansionistica di Israele, volta a creare “fatti sul terreno”).

Quando l’esercito minacciò di demolire la capanna, il villaggio si rivolse alla Corte Suprema di Israele denunciando la costruzione del nuovo quartiere, che non possedeva l’autorizzazione formale da parte del governo. Il tribunale ordinò allo stato di Israele di fermare la costruzione del quartiere, spostare la barriera di separazione, e ripristinare circa la metà dei 575 ettari di uliveti che gli agricoltori di Bil’in avevano perso.

Khatib poi istituì un’alleanza con 11 villaggi della Cisgiordania, perché condividessero le sue strategie, e in qualche caso questo ha portato dei frutti. Sei comunità hanno denunciato con successo il percorso della barriera costruita sulle loro terre. Gli attivisti si sono messi in comunicazione con alcuni sostenitori esterni per introdurre di nascosto camion che trasportavano acqua alle comunità isolate dall’esercito, e per proteggere i raccoglitori di olive dalle molestie dei coloni israeliani.

Ma a Bil’in, la vittoria legale ha incontrato molti ostacoli.

L’esercito non si è ancora conformato alla sentenza, e non ha ancora spostato la barriera, il cui nuovo itinerario è oggetto di dispute. Nel frattempo, i soldati hanno cominciato a reagire alle proteste con maggior forza, e la maggior parte degli israeliani, che considerano la barriera come uno scudo contro la violenza, è rimasta indifferente.

Nel mese di aprile, Khatib si trovava a pochi metri di distanza, quando un suo compagno, Bassem Abu Rahma, è stato ucciso da una granata di gas lacrimogeno ad alta velocità sparata sulla folla dei manifestanti.

La morte di Abu Rahma lo ossessiona ancora. Per ben due volte, afferma, i soldati lo hanno avvertito che avrebbe fatto ” la stessa fine di Bassem”, se avesse continuato ad opporsi alla loro presenza in Cisgiordania.

Khatib e altri 27 compagni, tra leader della protesta e altri partecipanti, sono stati arrestati nelle loro case durante i raid notturni che hanno avuto inizio nel mese di giugno. Diciassette sono tuttora detenuti. Khatib è accusato di incitamento alla violenza.

Interrogato sul motivo della repressione, un comandante israeliano ha affermato che erano stati fotografati e arrestati alcuni manifestanti che stavano provocando danni alla recinzione. Ma dopo una settimana di inchieste, l’esercito non ha presentato alcuna prova di danneggiamento.

Uno degli ultimi venerdì, gli abitanti del villaggio hanno lasciato un segno visibile sul recinto, una bandiera palestinese appesa al filo spinato. Dopo che i manifestanti erano andati a casa, un soldato l’ha tirata giù, ci si è pulito le mani e se l’è messa in tasca.

(Traduzione a cura di Medarabnews)

L’articolo in lingua originale

* è stato corrispondente da più di 50 paesi in America Latina, in Europa, nell’ex Unione Sovietica e in Medio Oriente; vive a Gerusalemme

http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=8523

http://www.medarabnews.com/2009/11/19/i-palestinesi-che-usano-come-arma-la-non-violenza/

Barbara Spinelli

Chi vogliamo essere 22.11.2009

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.

Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati ­ parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia ­ profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».

In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.

Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.

Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.

Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».

È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.

Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (…) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).

Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.

Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.

Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti ­ nel regime, nei giornali ­ interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.

Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).

Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».

Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo»

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/grubrica.asp?ID_blog=40&ID_articolo=183&ID_sezione=55&sezione=

Il Bilderberg Club dietro la nomina di Van Rompuy a presidente Ue 20.11.2009

Designato a una cena del gruppo tenutasi il 12 novembre nel Castello di Hertoginnedal, alle porte di Bruxelles

La decisione di nominare presidente permanete della nuova Unione europea disegnata dal Trattato di Lisbona il premier belga Herman Van Rompuy – membro del partito dei Cristiani Democratici Fiamminghi e appassionato di poesia giapponese – è stata presa la sera del 12 novembre in una cena a porte chiuse nel Castello di Hertoginnedal, alle porte di Bruxelles.
A organizzare la cena, cui ha parteciapto lo stesso Van Rompuy, il famoso Bilderberg Club: il più potente, riservato e discusso organo decisionale privato del mondo che dal 1954 riunisce i vertici politici, finanziari, industriali, militari e mediatici dei paesi occidentali.
Secondo la indiscrezioni apparse sulla stampa belga, in particolare sul quotidiano De Tijd (poi riprese anche dal Times di Londra), durante la cena il futuro presidente europeo ha dichiarato che una volta in carica si sarebbe fatto promotore di una tassa europea.
Proprio nel Castello di Hertoginnedal, di proprietà della famiglia reale belga e in passato sede di un antico priorato religioso femminile, nel 1956 si tennero i primi negoziati per la creazione della Cee e dell’Euratom, embrioni dell’odierna Unione europea.
Van Rompuy, nonostante il suo apparente basso profilo, è da tempo un frequentatore sia del Bilderberg Club che della Commissione Trilaterale, altro potente organismo sovranazionale fondato e presieduto da David Rockefeller.

http://it.peacereporter.net/articolo/19039/Mister+Bilderberg

Banche cinesi in difficoltà 26.11.2009

Dopo la crisi senza precedenti che ne ha eroso il capitale, le cinque principali banche cinesi hanno presentato alle autorita’ di regolamentazione dei piani per raccogliere denaro e aumentare le proprie basi patrimoniali. Lo scrive Bloomberg citando fonti vicine agli istituti. La Industrial & Commercial Bank of China, China Construction Bank, Bank of China, Agricultural Bank of China e Bank of Communications hanno illustrato alla China Banking Regulatory Commission, la commissione di controllo sul settore bancario, gli interventi attraverso i quali possono innalzare i propri ratios patrimoniali. I programmi per gli aumenti di capitale sottoposti all’autorita’ dalle banche in questione sono comunque informali e soggetti ad essere modificati.

Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
www.lamiaeconomia.blogspot.com

http://lamiaeconomia.blogspot.com/2009/11/banche-cinesi-in-difficolta.html?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+LaMiaEconomia+(Lamiaeconomia)

Francia/ La morte annunciata del museo di Montmartre 26.11.2009

Roma, 26 nov. (Apcom) – Il comune di Parigi deve fare economia e a farne le spese sono i piccoli musei: in rosso da diversi anni, quello di Montmartre – scrive oggi il sito online del Journal du Dimanche – potrebbe addirittura essere chiuso entro la fine dell’anno. Gestito dalla società “Vieux Montmartre” il museo ritraccia la vita del quartiere più celebre di Parigi e dei suoi artisti. Ma il Comune ha deciso, a fine ottobre, di tagliargli tutte le sovvenzioni, comprese quelle per il 2009. Le sovvenzioni ammontano a 124.000 euro l’anno ma sono sempre le stesse da dieci anni, mentre l’affitto è aumentato. Inaugurato nel 1960 e inserito nel 2003 dal Ministero dei beni culturali nella lista ufficiale dei Musei di Francia, il museo si trova al numero 12 di rue Cortot, in una delle case più vecchie di Montmartre. La dimora di Rosimond, amico di Moliere, che qui ha vissuto nel XVII secolo, è stata poi trasformata in atelier nel XIX secolo dove hanno lavorato fior di artisti, da Renoir a Suzanne Valadon e suo figlio, Maurice Utrillo. La casa appartiene alla citta di Parigi che l’ha affittata al museo. Nonostante gli oltre 50mila visitatori l’anno, il museo è in deficit cronico di almeno 150mila euro l’anno da diversi anni. Ospita le opere di oltre 6.000 artisti che illustrano la storia del quartiere.

http://www.apcom.net/newsesteri/20091126_112300_4acf1b2_77123.html

La crisi di Dubai spaventa le Borse – Bankitalia: nessun problema per l’Italia

ROMA (27 novembre) – Borse europee di nuovo giù dopo il tonfo di giovedì e anche l’Asia sconta l’effetto Dubai. Bankitalia però rassicura: nessun problema per l’italia.

Il Msci Asia Pacific Index (-3%) accusa la flessione più grande in tre mesi sui timori di un crack di Dubai World, il conglomerato pubblico dell’emirato che mercoledì ha chiesto una moratoria sul debito di 59 miliardi di dollari, dando il via a una nuova fase di turbolenze sulle piazze finanziarie internazionali.

Tokyo oggi ha perso il 3,22%, Hong Kong scivola di oltre il 5% e Shanghai arretra del 2%. In calo in avvio anche le piazze europee. Milano, dopo aver registrato una flessione superiore al 2% in avvio, recupera ora terreno e perde meno di un punto percentuale.

I settori più colpiti dalla vendite sono assicurazioni, auto, banche e materie prime. I cali più consistenti a Piazza Affari sono di Banco Popolare, Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Il Governo di Dubai prova intanto a rassicurare i mercati. L’economia del Paese è «durevole» e «i fondamentali economici, le infrastrutture e il nostro centro finanziario permetteranno a Dubai di restare un posto attrattivo nella regione», sostiene in una nota il presidente del comitato fiscale, lo sceicco Ahmed ben Said Al Maktoum. Ma i mercati hanno i nervi scoperti e il timore di un eventuale crack della holding dell’Emirato, che ha chiesto alle banche di sospendere per sei mesi i pagamenti sul debito di 59 miliardi, per ora sulle Borse fa prevalere il pessimismo.

Nessun problema per il sistema finanziario italiano. Lo ha assicurato il direttore generale della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni. «Per quanto riguarda il sistema Italia non ci sono problemi – ha detto – l’esposizione è molto contenuta, non c’è alcuna preoccupazione». In merito alla possibile
estensione su scala mondiale delle ripercussioni del crac di Dubai World, Saccomanni si è limitato a rispondere che «bisognerà vedere cosa succede».

Tra i creditori di Dubai World ci sono una settantina di banche: in testa l’Abu Dhabi Commercial Bank con 1,9 miliardi di dollari. Coinvolte, Credit Suisse, Hsbc, Lloyds e Rbs (nota: ilsole24ore cita anche Deutsche Bank e marginalmente Impregilo). Tra le italiane Unicredit ha un’esposizione «non rilevante», ha commentato un portavoce. Per gli analisti di Goldman Sachs, Hsbc avrebbe una perdita potenziale di 611 milioni di dollari, Standard Chartered di 177 milioni di dollari.
Sumitomo Mitsui Financial potrebbe essere esposta per 225 milioni e Mizuho Financial per 100 milioni di dollari.

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=82017&sez=HOME_ECONOMIA

Se nascono nuove bolle 27.11.2009 (oltre a quelle che ormai sono la norma, pensando ai futures)

Le difficoltà finanziarie di Dubai rischiano di configurare un caso di grave insolvenza. Le ripercussioni internazionali possono mettere a tacere le fragili prospettive di ripresa sulle quali si esercita da qualche tempo l’ottimismo di non pochi operatori e politici. Oltre all’impatto diretto sulle banche creditrici, molte delle quali europee, il pericolo può diramarsi al sistema finanziario globale e a settori più o meno direttamente collegati all’economia degli emirati e al mondo immobiliare. Le Borse e i premi di assicurazione sui titoli di debito, compresi quelli «sovrani», cioè garantiti dai governi, hanno subito registrato la gravità del problema.

Il quale però non si limita alla potenziale diffusione del danno causato dal caso specifico di Dubai e dei suoi progetti in difficoltà. E’ vero che si tratta di un caso per molti versi particolare e davvero costruito sulla sabbia. Ma, per quanto gravi siano i suoi riflessi, limitandosi a guardarlo in sé e per sé si sottovaluta il significato di quanto sta succedendo. Lo scenario diventa più buio se il fatto di Dubai viene interpretato come un sintomo del permanere di squilibri e distorsioni nei mercati monetari e finanziari del mondo le cui malattie, emerse con la crisi cominciata nel 2007, sono ancor lungi dalla guarigione.
Purtroppo viene in mente che, per molti mesi, anche le gravi disavventure del mercato dei prestiti sub-prime americani sono state considerate un «caso particolare».

Un grave incidente con possibili conseguenze diffuse ma pur sempre un incidente specifico a quell’angolo del sistema economico-finanziario globale. E’ occorso molto tempo per capire che si trattava invece del sintomo di un vastissimo malessere radicato nell’eccesso di indebitamento dei più svariati tipi di operatori economici privati e pubblici, collocati un po’ dovunque nel mondo. Un incauto indebitamento incentivato da anni di politiche economiche imprudenti, soprattutto quelle monetarie, di carenze nelle regole dei mercati finanziari e nelle vigilanze delle autorità nazionali e internazionali. Il mondo non è stato contagiato da un virus fabbricato dagli ingegneri dei sub-prime: il mondo era già globalmente infetto e la crisi dei sub-prime era un sintomo.

Anche Dubai rischia di rendere più evidente quello che prima dicevamo in pochi ma negli ultimi tempi vanno dicendo in molti: che la crisi finanziaria iniziata nel 2007 è stata curata male e lentamente. Si è fatto troppo conto sulle iniezioni di liquidità e sui tassi di interesse superbassi. Gli intermediari e i mercati finanziari ne hanno approfittato per tornare a cercar rischi speculativi alimentati con fondi a basso costo. A questo atteggiamento, che ha gonfiato bolle di vario genere e spiega in parte notevole la ripresa dei corsi azionari e obbligazionari di questi ultimi mesi, va ricondotta anche la mancata cautela nei confronti dei pasticci di Dubai e delle autorità preposte a quella regione. Le iniezioni di liquidità e di debito pubblico e i tassi bassi dovevano servire a «comprare tempo» per fare le riforme delle regole e dei controlli finanziari, ristrutturare e ricapitalizzare banche e imprese, accelerare la centralizzazione regionale e mondiale della vigilanza finanziaria, rimettere le politiche macroeconomiche e l’economia mondiale su un sentiero di crescita più sostenibile. Sono passati due anni e mezzo dall’inizio della crisi e c’è un diffuso parlare di ripresa. Ma il processo di riforma, anche se ben abbozzato sul piano tecnico, stenta a trovare la forza politica e la cooperazione necessaria per venir messo in atto. Tutto è troppo lento, sta sparendo il senso dell’urgenza, il tempo comprato con la droga della liquidità a buon mercato e l’ingigantirsi dei deficit pubblici non viene usato con la dovuta intensità. Come ha osservato due settimane fa il presidente del Financial Stability Board, Mario Draghi, «il miglioramento della situazione accresce la forza dei gruppi di interesse che sono contrari a qualunque riforma sostanziale».

Bisognerebbe sperare che il guaio di Dubai rinfocoli la consapevolezza dell’urgenza di riforme, di nuove regole, di vertici internazionali più concreti nelle loro deliberazioni, di politiche economiche meno legate all’effimero miglioramento degli indici congiunturali. Ma ci sono due rischi. Il primo è che quel guaio ne faccia emergere altri, fabbricati in questo periodo di «ripresa» o residuati tossici rimasti nascosti dai tempi prima della crisi. Il secondo è che ci si limiti a reagire comprando ancora tempo con nuovi salvataggi, nuovi debiti, altra liquidità, tassi vicini allo zero per chissà quanto: che Dubai venga presentato come un incidente specifico in una piazza d’affari screditata, del quale occuparsi mettendo toppe a un sistema che non si fa toccare nella sostanza delle sue regole e dei suoi assetti di potere.
franco.bruni@unibocconi.it

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6666&ID_sezione=&sezione=

USA – La discriminazione genetica bandita dalle aziende 21.11.2009

Il 21 novembre entra in vigore in Usa Genetic Information Nondiscrimination Act (GINA). Ciò significa che le aziende non potranno più pretendere dal personale o dai clienti il prelievo del sangue, il Dna, e nemmeno porre domande sugli precedenti familiari. “Un’immensa vittoria per tutti gli americani che non sono nati con i geni perfetti, vale a dire per tutti noi”. E’ in questi termini trionfanti che la rappresentante democratica di New York , Louise Slaughter, ha salutato l’entrata in vigore del provvedimento. Oggetto di trattativa aperta in Congresso per tredici anni e firmata dal presidente Bush nel 2008, la legge proibisce alle società di oltre 15 dipendenti di chiedere informazioni sul loro profilo genetico e di usarle per assumere, licenziare, promuovere o decidere della copertura sanitaria. La legge riguarda anche le assicurazioni (tranne le polizze vita). Il New York Times considera GINA come “la legge antidiscriminazione più importante degli ultimi vent’anni”.

http://www.aduc.it/notizia/discriminazione+genetica+bandita+dalle+aziende_114041.php

Privatizzano l’acqua? e allora compriamocela

Post n°1413 pubblicato il 23 Novembre 2009 da kudablog

Il decreto Ronchi, ormai diventato legge, di fatto rende impossibile la gestione pubblica delle risorse idriche. Come sinistra, ambientalisti, possiamo incazzarci, raccogliere firme per cancellare la legge tramite referendum, provare a patteggiare con la Lega una nuova leggina, oppure, oltre a queste cose, scendere sul campo del capitalismo e batterlo dal di dentro.

Quella che sto per scrivere è un’idea che mi frulla in testa da questa mattina e sulla quale vorrei raccogliere i pareri di quanti ne sanno più di me. La legge Ronchi manda in soffitta tutte le gestioni in house entro il 31 dicembre 2011 a meno che entro questa data la società che gestisce il servizio non sia per il 40% affidata a privati. E qui sta il punto.

Il 40% privato potranno essere le grandi multinazionali come la Nestlè o la Coca Cola, che sta assetando la Basilicata, oppure potremmo essere noi. Sì, sto proprio proponendo ai partiti di sinistra, al PD, ai Verdi, a Sinistra e Libertà, al movimento etico solidale, ai gas di creare un fondo di investimento che faccia da partner privato alle aziende pubbliche. (non so se è la forma finanziaria giusta, ma adesso mi interessa il concetto).

Questo si sarebbe un bel colpo alle multinazionali dell’acqua che contavano di fare grandi affari sulla nostra sede. In queste nuove società avremo un doppio controllo, con il voto e con il portafoglio, perchè saremo noi, soci, a determinare chi siederà in consiglio di amministrazione e quindi ad impostarne le politiche. E questo farebbe davvero girare le balle a molti, ve li immaginate, costretti ad usa l’acqua venduta da un fondo di sinistra?

Ho provato a fare due conti, giusto per verificare la fattibilità o meno della proposta. Ho preso a modello Amiacque, la società che fornisce acqua a 242 comuni lombardi e che nel 2008 ha avuto un attivo netto di 370.947 €. Questa società ha un capitale sociale di 23.667.606 €, dovrà privatizzarne il 40%, cioè circa 9 milioni e mezzo di euro. Basta trovare 100.000 lombardi disposti ad investire 100 € e diventiamo azionisti della società. Cosa ci vuole?

Basta trovare 414 persone per comune (compreso Milano, per capirci)
Alle primarie del PD hanno votato, solo in Lombardia 300.000 persone. Gli iscritti sono circa 50.000 la metà della cifra da raggiungere.
Alle ultime europee Sinistra e Libertà ha preso 106.000 voti, l’Italia dei Valori 349.000, il PD 1.146.000.

E scommetti che solo vedendo organizzare una cosa di questo tipo, i cari parlamentari correranno ai ripari riscrivendo per benino la legge? Abbiamo due anni per organizzarci, troviamoci, parliamone, verifichiamo se l’ipotesi è percorribile perchè mi sono stancato di liberarmi la coscienza firmando appelli, sono pronto a mettere mano al portafoglio!

Vorrei capire chi siede in consiglio regionale, provinciale, comunale cosa ne pensa? e Chi sta organizzando la Costituente Ecologista? e chi è già pronto a raccogliere le firme per un referendum minato dal quorum? e chi va nei palazzetti a sentire grillo? e chi fa parte del più grande partito d’opposizione?

http://blog.libero.it/KudaBlog/8035120.html

La rassegna stampa di http://www.caffeeuropa.it/ del 30.11.2009

“No della Svizzera ai minareti”, titola Il Corriere della Sera. Si è votato infatti in Svizzera un eferendum proposto dai partiti della destra populista e della destra cristiana che proponeva la messa al bando dei simboli religiosi musulmani. E’ passato con il 57 per cento dei voti. “Passa il referendum anti-islam. Proteste nel mondo musulmano. Preoccupati i vescovi. Esulta la Lega. Castelli: ora la croce sulla bandiera italiana”. A centro pagina le polemiche di politica interna: “Berlusconi all’attacco: contro di me accuse ignobili. Dell’Utri: vanno cambiate le regole sui pentiti”.

Sulle accuse al premier apre La Repubblica: “Mafia: Berlusconi all’attacco. Continua la polemica dopo le critiche alle fiction e ai libri su Cosa Nostra. Il Pdl respinge le condizioni di Bersani per il dialogo. ‘Ho fatto tanto contro le cosche’. E il premier querela Repubblica”. In prima anche un commento di Adriano Sofri dal titolo: “Chi si vergogna della piovra”. A centro pagina (con la foto del minareto di una moschea a Zurigo) la notizia dalla Svizzera: “La Svizzera dice no ai minareti. La Lega: ora la croce nel tricolore”. Commento di Renzo Guolo: “Adesso l’Europa teme il contagio”.

La Stampa: “Berlusconi contro la mafia mai nessuno più duro di me. La rabbia del Cavaliere dopo la smentita dei Pm di Firenze: attacco ignobile, un indegno killeraggio. Dell’Utri difende il premier in tv: ‘Lo stalliere Mangano? Era un eroe”. Il titolo di apertura del quotidiano torinese è per l’Iran: “Nucleare, l’Iran rilancia la sfida. Sì ad altri dieci impianti. Obama: si isolano dal mondo”. Il governo di Teheran ha deciso di costruire cinque nuovi impianti nucleari e di trovare la collocazione di altri cinque nei prossimi due mesi. Dura la replica di Washington”. A centro pagina, oltre alla notizia del referendum svixxero, una foto-notizia sugli Usa. “Un piccolo su quattro mangia con i buoni del governo. Usa, record di bimbi poveri”. Tra le notizie di prima pagina anche un approfondimento su un rapporto “choc” del Senato Usa sulla guerra in Afghanistan: “Così ci scappò Bin Laden”. Nel 2001 era possibile catturare il capo di Al Qaeda, “ma il Pentagono mandò pochi uomini”, scrive il quotidiano torinese.

Il Giornale: “Berlusconi, due patacche di Repubblica”. Si parla delle “origini dei capitali Fininvest”, oggetto di rinnovato interesse da parte del quotidiano di Ezio Mauro. “Il quotidiano di De Benedetti per inventare soci occulti del premier si aggrappa a una perizia del 1997 e a un libro inchiesta. Peccato che il perito due anni fa ammise di essersi sbagliato e l’autore del saggio oggi dica: mai scritto di soldi mafiosi”.

L’Unità torna sul terremoto in Abruzzo: “Come marcisce L’Aquila. Dilettantismo, incuria, speculazione. Dopo più di otto mesi mosaici, arredi, organi delle chiese giacciono tra i ruderi esposti alle intemperei”.

Italia

Secondo La Repubblica, che ne parla in un retroscena, “Il Pdl accelera sul concorso esterno”, sulla legge ad hoc per “neutralizzare” questo reato. “Doveva essere la carta segreta da giocar esubito dopo aver chiuso la partita del processo breve”.

Sullo stesso quotidiano la lettera del direttore comunicazioni della Fininvest per contestare il contenuto degli articoli pubblicati nei giorni scorsi, che sono costati a La Repubblica la querela per diffamazione. E la risposta dei giornali Bolzoni e D’Avanzo, autori dell’articolo contestato.

Il Corriere della Sera offre una sintesi delle dichiarazioni di Marcello Dell’Utri, ieri ospite da Lucia Annunziata: “Io ho un evidente conflitto di interessi ma dico che la legge sui pentiti dovrebbe essere modificata. Lo chiedo a nome delle migliaia di persone che hanno avuto la vita rovinata dai collaboratori e che poi sono state assolte. I pentito sono utili ma vanno regolamentati”. Dell’Utri ha anche confermato il suo aggettivo “eroe” per Vittorio Mangano, il mafioso che fu assunto come stalliere dal premier negli anni 70, perchè “fu invitato a parlare di me e di Berlusconi con la promessa di andare a casa” e non lo fece.

Lo stesso quotidiano offre una intervista al vicesegretario del Pd Enrico Letta che – a proposito di Berlusconi – dice che, come ha detto Bersani, “consideriamo legittimo che, come ogni imputato, Berlusconi si difenda ‘nel’ processo e ‘dal’ processo. Certo, legittimo non vuol dire né opportuno né adeguato al comportamento di uno statista”. Il titolo dell’intervista è: “Il Pd eviterà scorciatoie per far cadere il governo”.

Svizzera

Gli elettori svizzeri hanno votato ieri contro la costruzione di nuovi minareti: il 57 per cento dei cittadini ha deciso che ci si fermerà ai 4 attualmente esistenti nel Paese. I sondaggi indicavano invece una facile vittoria dei no alla proibizione dei minareti, che invece si sono fermati al 42,5 per cento. Il Corriere della Sera sottolinea l’affluenza “record”, che è stata del 54 per cento. I musulmani svizzeri sono circa 400 mila, la maggior parte dei quali non praticanti, scrive il quotidiano milaese. Secondo L’Unità la maggior parte dei musulmani arriva da Bosnia, Kosovo, Macedonia e Turchia. Una popolazione giovane: nel 2000 uno su due aveva meno di 25 anni. Esistono tra i 130 e 160 centri di cultura o di preghiera islamici.

A commentare questi risultati su La Repubblica sono il sociologo dell’islam Renzo Guolo (che sottolinea “i timori del contagio”) il ministro leghista Roberto Calderoli (“messaggio all’Europa, fermiamo i loro simboli”) e il politologo ginevrino Tariq Ramadan (“Un risultato scioccante, è il trionfo della paura”).

La Stampa evidenzia nei titoli le dichiarazioni del viceministro italiano Castelli, che parla di “lezione di civiltà” e promette una legge costituzionale per mettere “la croce nel tricolore”.

L’Unità ricorda che ieri i cittadini elvetici si sono anche espressi su un altro referendum che prevedeva il divieto di export di armi, che è stato respinto dal 68 per cento dei votanti. I promotori del referendum sui minareti erano politici del Udc, il più grande partito svizzero, destra populista, insieme all’Unione democratica federale, destra cristiana. Walter Wobmann, presidente del comitato promotore, dice: “Noi vogliamo fermare l’islamizzazione della svizzera. I musulmani possono continuare a praticare la loro religione”, “vogliamo fermare i futuri sviluppi, dai minareti alla sharia”. Preoccupata la chiesa dei cattolici elvetici: il presidente della conferenza espiscopale svizzera ha fatto invece notare che il referendum è stato bocciato a Basilea e a Ginevra, dove vive il maggior numero di musulmani.

Sul Corriere della Sera, opinioni a confronto sui risultati del referendum: Vittorio Messori sottolinea che “così si riscoprono le radici cristiane e la nostra cultura”, mentre Pier Luigi Battista dice che è stata “bocciata la libertà religiosa”.

Iran

La Stampa parla di una triplice sfida venuta da Teheran nelle ultime 36 ore alla comunità internazionale: ha deciso dieci nuove centrali nucleari, ha minacciato di ridurre la collaborazione con l’agenzia atomica dell’Onu, ha approvato aiuti per venti milioni di dollari a imprecisati militanti anti-americani e anti-britannici. I fondi sono stati assegnati alle Guardie della rivoluzione e al ministero della cultura, ma il destinatario finale non è stato reso pubblico, anche se sono noti i finanziamenti a gruppi come Hezbollah, Hamas e Jihad Islamica palestinese. Sullo stesso quotidiano un ritratto del nuovo capo dell’Aiea, che rimpiazzera l’egiziano El Baradei: è un diplomatico giapponese, si chiama Yukiya Amano, e La Stampa lo descrive come “il mastino atomico che piace agli americani”. Non dispiace a Mosca, ha detto che è necessario trattare con l’Iran “con rispetto” ed ha dichiarato di sentirsi in sintonia con l’approccio di Obama tanto su Teheran che sulla necessità di fermare la proliferazione nucleare. Soprattutto, si sente un interprete del radicato rifiuto nipponico per le armi atomiche, frutto dello choc di Hiroshima e Nagasaki.

E poi

Su La Repubblica una inchiesta sugli “sprechi di Stato”. L’attenzione è focalizzata sul Cnel, “l’Ente dei pareri inutili finanziato per sopravvivere”. Più dell’ottanta per cento dei fondi serve a pagare stipendi e indennità.

Su tutti i quotidiani ampi resoconti dei risultati cui è arrivata la commissione del Senato Usa, presieduta dal democratico John Kerry: il rapporto documenta errori ed omissioni della guerra in Afghanistan ed evidenzia che nel 2001, soprattutto per responsabilità della gestione militare del segretario alla Difesa Rumsfeld, ci si è lasciati sfuggire il capo di Al Qaeda Bin Laden. Il rapporto si riferisce alla battaglia di Tora Bora, sottolinea La Stampa: il comando centrale per le operazioni speciali mandò solo un piccolo contingente di un centinaio di agenti, tra uomini della Cia e militari, per fronteggiare un migliaio di militanti islamici che stavano proteggendo la fuga di Bin Laden in Pakistan.

Su Il Giornale il verdetto della commissione di Kerry è un vero e proprio “aiutino”, nel senso che è una sentenza di assoluzione per le imminenti decisioni del nuovo Presidente, poiché vi si legge, tra l’altro, che “la nostra incapacità di portare a termine il lavoro, alla fine del 2001, ha contribuito a un conflitto che mette a rischio non solo le nostre truppe e quelle dei nostri alleati ma la stabilità dell’intera regione”.

Domani il Presidente Obama terrà all’accademia di West Point un discorso per illustrare la svolta strategica della guerra in Afghanistan. Secondo La Stampa verrà raddoppiata la presenza americana nelle zone da riconquistare come Kandahar, la principale città del sud, e verrà raddoppiata la presenza americana nella provincia dell’Helmand, la regione del sudest dove i taleban hanno le proprie roccaforti. Saranno i marines a farsene carico.

Geotermico per tutti 26.11.2009

Una nuova sonda facilita la costruzione di impianti che sfruttano il calore del sottosuolo. Una ricerca delle Università di Urbino, delle Marche e di Camerino

di Roberta Pizzolante

Ha impatto zero sull’ambiente, è sicuro perché non utilizza gas metano o gpl e non pone problemi di integrazione architettonica perché non è visibile. Il geotermico ha numerosi vantaggi. Eppure, mentre da oltre 30 anni in molti paesi europei gli impianti con sonde e pompe di calore geotermico hanno trovato un loro spazio, in Italia stentano a decollare. Perché? Uno dei motivi è rappresentato dai costi delle perforazioni necessarie per rendere operativo un impianto.

Come rendere allora la geotermia alla portata di tutti? Ci si sta provando con una speciale sonda a spirale sviluppata dall’azienda Energy Resources e già brevettata a livello internazionale, che trasporta il calore del sottosuolo per riscaldare gli ambienti (o viceversa per raffreddarli) in modo molto più efficiente delle sonde tradizionali. L’innovazione trova supporto scientifico nello studio “Sistemi avanzati di produzione per geotermia” condotto da Università Politecnica delle Marche, Università di Urbino, Università di Camerino e laboratorio di ricerca Eta.

La nuova sonda ha la forma di una molla e può essere inserita in perforazioni che vanno da 8 a 25 metri di profondità, con diametro di 60-80 centimetri. Un bel vantaggio se si pensa che il modello standard, cosiddetto “ad U”, deve arrivare fino ad 80-120 metri (sebbene bastino 15-20 centimetri di diametro). Rispetto a quella tradizionale, inoltre, la sonda a spirale consente una perforazione più veloce e permette di estrarre maggiore energia termica dal terreno a parità di lunghezza di perforazione. In termini di costi ciò si traduce in un abbattimento del 50 per cento delle spese di impianto. Già applicata nella nuova sede della Rainbow a Loreto (la casa di produzione creatrice delle famose fatine Winx) e nell’eco-resort Ca’ Virginia a San Giorgio di Montecalvo in Foglia, nel pesarese, la sonda promette di essere conveniente anche nelle normali abitazioni. In un impianto domestico di medie dimensioni, grazie alla detrazione fiscale del 55 per cento e ad altri incentivi disponibili, è possibile recuperare l’investimento iniziale in 1-3 anni, e il risparmio annuo ammonta a circa 1.500-2.000 euro rispetto al sistema tradizionale.

Per il resto, il sistema funziona come quello tradizionale, sfruttando il sottosuolo come serbatoio di calore. Nei mesi invernali il calore viene trasferito in superficie, viceversa in estate il calore in eccesso presente negli edifici, viene fornito al terreno. Un’ operazione resa possibile dalle pompe di calore che, abbinate a sonde collocate nel sottosuolo, sfruttano la temperatura costante che quest’ultimo ha durante tutto il corso dell’anno: “Già a partire dai 5-7 metri di profondità la temperatura del sottosuolo non risente più delle condizioni atmosferiche stagionali o delle escursioni nelle 24 ore, e si possono avere temperature costanti, tra 13 e 15 gradi centigradi: più della media invernale e di gran lunga al di sotto di quella estiva”, spiega Alberto Renzulli, docente di petrologia e vulcanologia dell’Università di Urbino, che ha partecipato allo stuudio.

La sonda a spirale consente di ottenere questo scambio termico già a pochi metri di profondità. Ma se è vero che ciò la rende più conveniente e alla portata di tutti, è anche vero che il suo utilizzo deve essere valutato caso per caso. “Ogni terreno ha le sue caratteristiche e per sfruttare al meglio la resa termica è sempre necessario effettuare dettagliati studi geologici e idrogeologici prima di decidere quale tipo di sonda installare, se a spirale o di tipo tradizionale”, continua Renzulli: “Questa sonda ha notevoli potenzialità in terreni dove è presente una falda superficiale, con circolazione di fluidi e continua rigenerazione termica del sottosuolo, come avviene nelle pianure alluvionali. Inoltre, è necessario che l’impianto funzioni a pieno regime sia in estate che in inverno per evitare che il terreno si raffreddi dopo qualche anno”.

Aumenta la convenienza, dunque, ma resta la complessità, anche perché lo strumento assorbe più o meno calore in base alla distanza delle spire. “Per questo sarebbe auspicabile realizzare una cartografia tematica del potenziale geotermico in regioni come le Marche, che ha in programma la costruzione di nuovi impianti con pompe di calore geotermico. Se disponessimo di carte del sottosuolo della predisposizione naturale allo scambio termico, si potrebbero progettare piani energetici ad hoc su scala provinciale e regionale”, conclude Renzulli.

http://www.galileonet.it/primo-piano/12112/geotermico-per-tutti

Raggi gamma dal Cigno 27.11.2009

Cyg X-3 della costellazione del Cigno, all’interno della nostra galassia, è il primo microquasar identificato come sorgente di queste radiazioni ad alta energia. La conferma su Nature e Science

Trent’anni alla ricerca di una conferma e poi, a distanza di soli cinque giorni, ne arrivano persino due dalle riviste scientifiche più importanti, Nature e Science. Il microquasar Cyg X-3 (cioè il piccolo sistema binario formato da una stella risucchiata da un oggetto compagno molto compatto, qui il video) è senza più ombra di dubbio una sorgente di raggi gamma ad alta energia (gamma ray burst).

La scoperta, importante perché è la prima volta che un microquasar viene identificato come fonte di questo tipo di “violente” emissioni, porta la firma italiana, grazie alla grande partecipazione dei ricercatori dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn).

Cyg X-3 si trova nella nostra galassia ed è visibile nell’emisfero boreale all’interno della costellazione del Cigno (detta anche Croce del Nord). Il sistema è stato identificato negli anni Sessanta come sorgente di raggi X, la cui emissione varia con un periodo di 4,8 ore (la ciclicità indica che si tratta di due corpi che ruotano l’uno intorno all’altro, oscurandosi in modo alterno; la radiazione X viene emessa dal corpo più compatto, che si “nutre” della materia della grande stella vicina). Una caratteristica lo distingue però dagli altri sistemi binari: la produzione random di spettacolari emissioni radio, tipiche dei grandi quasar che si trovano al centro delle lontane galassie, che gli hanno valso la definizione di microquasar.

Tali potenti emissioni radio si verificano solo quando vi sono particelle accelerate ad elevate energie, stessa condizione a cui si possono produrre anche i gamma ray burst. Fino ad oggi però, nessuno strumento era stato in grado di stabilire che Cyg X-3 fosse anche una sorgente di questi raggi. La certezza è arrivata grazie agli avanzati strumenti gamma che si trovano sul satellite Agile (Astrorivelatore gamma ad immagini ultra leggero) dell’Asi e sul Fermi Gamma-ray Space Telescope della Nasa.

I dati raccolti da Agile e pubblicati lo scorso 22 novembre su Nature rivelano che, subito prima delle emissioni radio, vi è anche un’emissione variabile di raggi gamma ad alta energia. Le rilevazioni del satellite Fermi, riportate oggi su Science, forniscono la prova del nove, stabilendo che queste radiazioni gamma variano con un periodo di 4,8 ore, firma inconfondibile di Cyg X-3.

Per Enrico Flamini, responsabile dei programmi di osservazione dell’Asi, la scoperta è un premio per quasi quindici anni di studi e di investimenti italiani nella fisica delle alte energie, dal momento che Fermi deve buona parte dei suoi risultati a tecnologie nate nel nostro paese e che dietro la scoperta vi è il lavoro di molti ricercatori italiani. (t.m.)

Riferimenti: doi:10.1038/nature08578; DOI: 10.1126/science.1182174

http://www.galileonet.it/news/12114/raggi-gamma-dal-cigno

Dubai: l’insostenibile leggerezza della finanza

Nane Cantatore,   28.11.2009

Le grandi banche europee, con l’eccezione dei soliti volponi britannici, sembrano in gran parte al riparo dalla crisi di Dubai. Il crollo finanziario dell’emirato, però, ha valenze di sistema che vanno ben al di là del livello di coinvolgimento degli istituti di credito, e che mettono in questione il modello del cosiddetto turbocapitalismo

La fretta con cui si sta cercando di archiviare la crisi finanziaria del fondo Dubai World desta qualche sospetto. Se è certamente vero che le banche italiane, e in generale quelle dell’area euro, non sono particolarmente esposte verso l’emirato, se è altrettanto vero che anche gli istituti asiatici e americani non dovrebbero soffrire troppo, se infine è certo che i meno di 100 miliardi di debito difficilmente solvibile non sono, al di là delle apparenze, una così gran cosa, va detto che la caduta di Dubai non è un semplice episodio come altri, un esempio di gestione poco oculata o una vittima un po’ più illustre della crisi mondiale.

Dubai, infatti, non è un posto qualsiasi, ma è il laboratorio più importante del modello di capitalismo globale che ha dominato il mondo negli ultimi dieci o quindici anni, e come tale è stato magistralmente raccontato in un celebre saggio di Mike Davis (http://www.newleftreview.org/?view=2635). L’emirato del Golfo ha messo a punto la massima sintesi tra l’assoluta libertà di movimento del capitale, la totale flessibilità legislativa, la rigorosa autocrazia familistica e il completo asservimento di ogni essere umano, convenientemente disposto in una gerarchia fatta tutta di servi, dal manovale immigrato al manager americano, giapponese o europeo. La fortuna di Dubai si è costruita, in questi anni, su una sola cosa: la garanzia che tutti i capitali sufficientemente grandi da essere presi in considerazione avrebbero ottenuto tutto ciò di cui avevano bisogno. In poche parole, niente tasse, niente controlli, niente vincoli, niente diritti per i lavoratori: insomma, il tutto del turbocapitalismo che si traduce in un nulla rigorosamente protetto, dove i capitali avrebbero potuto crescere indefinitamente.

La massima espressione di questo modello si trova nella zona franca di Jebel Ali, l’immenso parco industriale alle porte della vera e propria città di Dubai, dove ogni settore di impresa può contare sulla massima libertà di azione, anche grazie a una straordinaria innovazione nel campo dell’asservimento del pubblico al privato: le cosiddette “bolle normative”, che definiscono porzioni di spazio in cui vigono le leggi più vantaggiose per le aziende che vi operano, come l’assenza di censura nell’area dei media, la mancanza di controlli per i provider web nella zona delle imprese internet, e così via. In altre parole, le leggi dell’emirato di Dubai non sono fatte per i cittadini ma per le imprese, e le persone giuridiche hanno soppiantato nel principio di cittadinanza le persone fisiche, realizzando un approccio ben indagato da Richard Sennet. Il simbolo di questa evoluzione perversa è il capo di tutto, lo sceicco Al-Maktoum che preferisce il titolo di amministratore delegato a quello di emiro.

Il grande fallimento dell’emirato si gioca proprio sulla falsità dell’aspettativa della crescita indefinita, e il fatto che esso si manifesti in primo luogo nel mercato immobiliare ne è la prova migliore. A Dubai si costruiva quello che si voleva, con la certezza che tutto sarebbe già passato di mano diverse volte nel percorso dal progetto iniziale alla realizzazione dell’opera, a prezzi ogni volta maggiori: questo modello di investimento ha attirato capitali da tutto il mondo, che finanziavano il progetto potendo contare su ampi ritorni di profitti fin da subito. È ovvio che, in un sistema fondato integralmente su un fabbisogno di capitali sempre crescente, prima o poi si sarebbe arrivati al redde rationem, e che tutto quanto si sarebbe trasformato in un gioco del fiammifero su scala titanica.

È facile prevedere che lo stesso avverrà anche per Jebel Ali, in cui la scommessa è del tutto analoga: mettere al centro di tutto le imprese significa dare per scontata una crescita continua, indefinita e quasi automatica del capitale, prescindendo totalmente dalla realtà esterna. La crisi dei mercati priva le aziende del bisogno di crescere e le costringe a ripensare la loro sostenibilità economica e sociale, svuotando completamente di attrattiva un luogo che campa esclusivamente di capitali esterni.
Se, a queste condizioni, è chiara la portata simbolica del fallimento di Dubai, il suo valore reale sembra smorzato dalle rassicurazioni delle banche e dalla ripresa dei mercati finanziari. In realtà non è così, anche se non c’è da stupirsi per l’allegra incoscienza con cui gli operatori del mercato danzano verso un nuovo baratro.

Dubai è un modello perché le sue soluzioni hanno trovato, in diversi gradi, applicazioni in tutto il mondo, per cui il meccanismo esplicito della gestione dei capitali globali si basa su un doppio sfruttamento della grande massa di lavoratori e consumatori, che prima vengono pagati con salari troppo bassi rispetto ai livelli di produttività e poi sono spinti all’indebitamento per accedere ai beni offerti sul mercato. Sfruttamento che produce profitti i, quali tendono ad accumularsi nei punti specifici del globo in cui viene assicurata la maggior crescita possibile, garantita a sua volta dal continuo afflusso di capitali prodotto da questo sistema di sfruttamento. Ma il giocattolo si è rotto a Dubai, e non c’è posto al mondo dove si possa ripararlo.

http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13639

Con i resistenti in Honduras 29.11.2009

Assalti ai media partecipativi e alle associazioni sospettate di favorire il boicottaggio proclamato dalla Resistenza delle elezioni farsa benedette dal Dipartimento di Stato. Mentre in Uruguay, contemporaneamente, le elezioni sono davvero una festa della democrazia in un altro punto della “Patria grande latinoamericana”, l’Honduras, le elezioni sono la fine della democrazia.

di Gennaro Carotenuto

Tegucigalpa si sveglia oggi in un’alba tragica nella quale ancora una volta, nella piena logica alla George Bush di esportazione della democrazia, ed esattamente come è avvenuto in Afghanistan, si svolgono “elezioni pur che siano”. Con brogli, senza opposizione, senza osservatori internazionali, mentre si violano i diritti umani. Non importa.

Se qualcuno va a votare, vedremo quanti saranno, allora il simulacro di democrazia è mantenuto anche se ad imporlo sono gli squadroni della morte. Era la filosofia di Donald Rumsfeld e lo rimane per Hillary Clinton.

Le elezioni di oggi, tra golpisti e per i golpisti, che ricordano quelle in Argentina negli anni ‘60 dove al partito che avrebbe vinto non era permesso partecipare, vanno ripudiate per due motivi.

In primo luogo perché sono la forma trovata da chi manovra il dittatore di Bergamo Alta Roberto Micheletti per essere un colpo di spugna sulle almeno 4.000 documentate violazioni dei diritti umani (dai 30 ai 100 morti) negli ultimi cinque mesi e per rilegittimare il colpo di stato stesso come strumento per la risoluzione di conflitti in America.

In secondo luogo perché sono la forma trovata dalle oligarchie, dai narcotrafficanti, dagli interessi delle grandi compagnie bananiere e dal Dipartimento statunitense di far tramontare anche quella pallidissima speranza di cambiamento rappresentata da Mel Zelaya, impedire il referendum per l’assemblea costituente e assicurare che in Honduras, il secondo paese più disgraziato, dopo Haiti, nel Continente, tutto resti uguale.

Zelaya non è Jacobo Arbenz. Se il golpe in Guatemala nel 1954, quando la sola promessa di una riforma agraria bastò a rovesciare tutti i cannoni della guerra fredda sul presidente, è di gran lunga ancora l’esempio principale per capire i fatti honduregni, sicuramente non vale la pena di “morire per Mel”. Ma solo quella “quarta urna” per chiedere un’Assemblea costituente, all’origine della quale vi fu il golpe, avrebbe potuto mettere in marcia progressiva il cambiamento dell’Honduras. Quella “quarta urna” era l’inizio del cambio che il golpe e adesso queste elezioni farsa hanno fatto deragliare.

Adesso, comunque vada oggi, la speranza violata non torna nelle catacombe in Honduras. Esiste un movimento popolare forgiato da cinque mesi (e cinquecento anni) di lotta contro il golpe. Ma soprattutto la speranza si chiama ancora una volta integrazione latinoamericana. L’attitudine dignitosa del governo brasiliano, che al contrario di quello statunitense, non riconoscerà la farsa di oggi, dà tutta la misura di quello che sta succedendo: o si sta con i paesi integrazionisti o si sta con la reazione dei Micheletti, degli Álvaro Uribe e dei Felipe Calderón.

http://www.gennarocarotenuto.it/11549-con-i-resistenti-in-honduras/

Uruguay, America latina: Pepe Mujica presidente, “il mondo alla rovescia” 30.11.2009

Pepe Mujica, l’ex guerrigliero Tupamaro, per 13 anni prigioniero della dittatura fondomonetarista, per nove anni rinchiuso in un pozzo e torturato continuamente, è il nuovo presidente della Repubblica in Uruguay. Ha ottenuto il 51,9% dei voti, superando il 50.4% con il quale Tabaré Vázquez era stato eletto cinque anni fa. Il suo rivale, Luís Alberto “Cuqui” Lacalle, del Partito Nazionale, si è fermato al 42.9% dei voti.

E’ uno scarto di nove punti, superiore a tutte le aspettative e, con un’affluenza alle urne superiore al 90% in uno dei paesi dal più alto senso civico al mondo, conferma che quella del presunto rifiuto per la figura popolana e popolare e dal passato guerrigliero di Mujica era una menzogna cucinata e venduta a basso costo dal complesso disinformativo-industriale di massa.

di Gennaro Carotenuto

Il trionfo di Mujica (nella foto incredibilmente in giacca, ma senza cravatta) è espressione di quello che negli anni del Concilio Vaticano II si sarebbe definito “segno dei tempi”. Come ha detto lo stesso dirigente politico tupamaro, emozionatissimo nel suo primo discorso sotto la pioggia battente a decine di migliaia di orientali che hanno festeggiato con i colori del Frente Amplio, quello che lo porta alla presidenza è proprio “un mondo alla rovescia”.

Un mondo nuovo i contorni del quale non sono ancora del tutto visibili nella prudenza dei grandi dirigenti politici che rappresentano il fiorire dei movimenti sociali, indigeni, popolari del Continente ma che si tratteggia in due grandi temi di fondo: uguaglianza tra i cittadini e unità latinoamericana.

Mujica è stato chiarissimo: il primo valore della sua presidenza sarà il mettere l’uguaglianza tra i cittadini al primo posto e il primo ringraziamento è andato oltre che al popolo orientale “ai fratelli latinoamericani, ai dirigenti politici che li stanno rappresentando e che rappresentano le speranze finora frustrate di un continente che tenta di unirsi con tutte le sue forze”.

Proprio il trionfo di Mujica, la quarta figura che viene dal basso, plebea se preferite, e non espressione delle classi dirigenti, illuminate o meno, a divenire presidente in appena un decennio, testimonia che l’America latina sta riscrivendo la grammatica politica della rappresentanza democratica in questo inizio di XXI secolo in una misura perfino insospettabile e incomprensibile in Europa.

Mujica, nonostante la militanza politica di più di mezzo secolo, è un venditore di fiori recisi nei mercati rionali. E’ uno che quando è diventato deputato per la prima volta e fino a che non ha avuto responsabilità di governo ha accettato dallo Stato solo il salario minimo di un operaio e, siccome questo non è sufficiente per vivere, ha continuato a vendere fiori nei mercati rionali. Per campare. Indecoroso per un parlamentare, ma solo così, solo dal basso, oggi Mujica può permettersi a testa alta di rappresentare il popolo e proporre a questo “un governo onesto”.

Non è un medico, come Tabaré Vázquez o Salvador Allende o Ernesto Guevara, né ha un dottorato in Belgio come l’ecuadoriano Rafael Correa. Non ha studiato dai gesuiti come Fidel Castro né proviene dalla classe dirigente illuminata come Michelle Bachelet in Cile o i coniugi Kirchner in Argentina. Non è, soprattutto, un pollo di batteria, allevato per star bene in società come tanti burocratini dei partiti politici della sinistra europea, che infatti passa di sconfitta in sconfitta e di frammentazione in frammentazione mentre invece in America l’unità delle sinistre è un fatto.

Pepe il venditore di fiori recisi nei mercatini rionali è un uomo del popolo come l’operaio Lula in Brasile, come il militare di umili origini Hugo Chávez in Venezuela e come il sindacalista indigeno Evo Morales in Bolivia. Non a caso sono tre uomini politici che hanno mantenuto un rapporto privilegiato con la loro classe di provenienza, che non hanno tradito e che sono ricompensati con alcuni tra i più alti indici di popolarità al mondo, nonostante siano costantemente vittime di campagne ben orchestrate di diffamazione da parte dei complessi mediatici nazionali e internazionali.

Non è un caso che da questi dirigenti politici venga posto sul piatto dell’agenda politica lo scandaloso problema dell’uguaglianza che trent’anni di retorica neoliberale avevano umiliato, vilipeso e cancellato e che invece è più che mai l’unico motore dell’unico futuro possibile non solo in America latina.

L’America latina integrazionista, dove diventa presidente un ex-guerrigliero venditore di fiori recisi nei mercatini dei quartieri popolari di Montevideo, è davvero “il mondo alla rovescia”, ma è anche la speranza di un “mondo nuovo”, di un nuovo inizio e un futuro migliore in pace e in democrazia. Questa speranza non poteva che venire dal Sud del mondo, da quella “Patria grande latinoamericana” che sta riscrivendo la Storia.

http://www.gennarocarotenuto.it/11563-uruguay-america-latina-pepe-mujica-presidente-il-mondo-alla-rovescia/

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