La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 01.12.2009
Le aperture
La Repubblica: “La Lega: referendum sui minareti. Maroni: ‘La voce del popolo va sempre ascoltata’. La maggioranza si divide. Gli ex di An: non facciamo regali al fanatismo. Ue e Vaticano: allarme per il voto svizzero. Croce sul Tricolore, è battaglia”.
A centro pagina la giustizia: “Mancino avverte: ‘A rischio processi per omicidio’”.
La Stampa: “Minareti, allarme dell’UE. E’ polemica dopo il divieto deciso in Svizzera. La Lega auspica una consultazione popolare per il nostro Paese. Il Vaticano: così non si aiuta la libertà religiosa. Fini: un regale al fanatismo”. In prima anche un commento di Michele Brambilla (“La conversione dei Celti”) che sottolinea il fatto che negli ultimi tempi i “più pugnaci difensori della cristianità” sono esponenti della Lega che “non hanno fama di baciapile, e neppure di cattolici praticanti”. A centro pagina. “Da Guantanamo all’Italia. Obama spedisce due tunisini sotto inchiesta”. In evidenza anche la visita di Berlusconi a Misk, durante la quale il premier avrebbe ottenuto “migliaia di dossier” dagli archivi del KGB. “Morti in Russia, tornano in Italia migliaia di dossier”, il titolo.
“A Milano due da Guantanamo” è il titolo di apertura del Corriere della Sera. “I detenuti di nazionalità tunisina consegnati dagli Usa. Pm polemico sulla fuga di notizie. Obama sull’Afghanistan: rinforzi e strategia per il ritiro”. In evidenza anche la visita del premier in Bielorussia: “Berlusconi: elogio di Lukashenko”. A centro pagina le polemiche sul referendum svizzero sui minareti: “Il Vaticano difende i minareti”. E poi le proteste dell’UE, che parla di “segnale negativo”.
Il Foglio: “La Svizzera e il tabù della reciprocità con l’Islam. Dove si muore per la fede”. In prima pagina anche una conversazione con il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri: “Vogliono distruggere il Cav imprenditore? Confalonieri, capo di Mediaset, risponde alla domanda di Ostellino. Sì, il vero scontro è con il partito di Repubblica, non c’è un establishment pro ribaltone”. In prima pagina il quotidiano di Ferrara si interroga anche sulla crisi finanziaria: “Una Dubai in Europa? La Grecia al collasso scommette sulle buone intenzioni di Berlino. Contri pubblici pericolanti, Bruxelles si prepara a un richiamo”. E poi: “La stampa di Dubai minimizza al Maktoum non sembrava preoccupato. Volatili le Borse”.
Il Riformista dedica l’apertur a quella che il quotidiano definisce “la settimana terribile del Presidente del Consiglio”. E il titolo d’apertura è: “L’agenda nera del Cav”: oggi l’udienza per decidere sulla sospensione della sentenza che condanna Fininvest a risarcire alla Cir di Debenedetti circa 750 milioni di Euro, venerdì la deposizione del pentito Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri e sabato la kermesse dipietrista del No B Day. Ma la settimana si è aperta con “l’intoppo” delle ultime dichiarazioni di Fini sulle questioni di mafia. Ma sulla prima pagina, Focus anche sulla “morsa del giustizialismo” che “schiaccia Bersani”: cosa dirà di fronte ad un eventuale procedimento giudiziario che coinvolga il premier per reati di mafia? Cosa succederà in Parlamento se il centrodestra insisterà sul processo breve? Come si comporterà alla vigilia del No B day cui parteciperanno militanti e dirigenti del suo stesso partito?
Il Giornale: “Il brutto guaio della Mussolini” il titolo. “L’onorevole è vittima di una tentata estorsione attraverso un video hard che è stato offerto persino a Palazzo Chigi. Sono gli effetti di una deriva sessuale che va fermata. Ma non certo prendendosela con i giornalisti anziché con i ricattatori”, dice Vittorio Feltri.
Il Sole 24 Ore: “Tagliati consigli e giunte. Controlli straordinari del fisco su chi si autoriduce le imposte. Tra gli emendamenti alla finanziaria il governo inserisce la riduzione degli amministratori in comuni e province”. A centro pagina la situazione della finanza a Dubai, che “ristruttura i debiti ma senza garanzie statali”.
Berlusconi
Libero sottolinea come Berlusconi si sia mostrato sorpreso, quando il Presidente bielorusso Lukashenko gli ha offerto come regalo una parte dell’archivio del KGB (In Bielorussia si chiama ancora così). Il premier non se l’aspettava e si è detto commosso “nel ricevere queste carte che mi giungono senza preavviso”, e ha ringraziato Minsk anche “a nome delle famiglie dei prigionieri politici dell’Urss e delle vittime della seconda guerra mondiale”. E forse, scrive Libero, la documentazione non riguarda solo i prigionieri italiani in Russia, ma anche la fitta rete di spionaggio e informatori che l’Urss aveva nel nostro Paese. Quanto a Lukashenko, il Cavaliere ha sottolineato che “l’amore del popolo” per lui “è sotto gli occhi di tutti, visti i recenti risultati elettorali”.
La Repubblica sottolinea che le elezioni in Bielorussia sono state definite “non democratiche” dall’Osce. Hanno consacrato Lukashenko con l’82,6% dei voti e non hanno dato ai partiti d’opposizione neanche un seggio.
La Stampa scrive che si tratta di una “occasione per far luce su rapporti Italia-Kgb”. Considerando che gli ultimi sopravvissuti furono rimpatriati dall’Urss nel 1954 si potrebbe scoprire chi erano i loro carcerieri, quelli che avevano guadagnato la considerazione dei sovietici. Dalla Bielorussia potrebbero insomma arrivare quelle rivelazioni che sono mancate da Mitrokhin. Lukashenko, consegnandogli le carte, ha detto a Berlusconi: “Ho studiato personalmente questo dossier, e sono convinto che Berlusconi rimarrà molto colpito”. Magari, scrive La Stampa, salterà fuori la collusione di qualche esponente politico italiano con i servizi dell’est o la destinazione vera dell’oro di Russia. Lukashenko ha detto che il Paese ha raccolto “informazioni sugli italiani perseguitati per ragioni politiche durante le purghe staliniane negli anni 30 del secolo scorso”.
Giustizia
La Repubblica apre un nuovo fronte nella guerra contro Berlusconi: con una inchiesta firmata da D’Avanzo sull’atto di nascita di Forza Italia e quelle che considera le bugie di Berlusconi, che nel 1994 annunciò la nascita del suo partito, ma il progetto partì nel 1992. già nell’aprile del 1993 “quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro, Roma (14 maggio), via dei Georgofili, Firenze (27 maggio) è matura la volontà di Berlusconi di ‘mettersi alla testa di un nuovo partito”. Ci sono documenti notarili, secondo D’Avanzo, che retrodatano la creazione del partito. E non basta: oggi il quotidiano focalizza l’attenzione sul fatto che l’ex procuratore di Caltanissetta Tinebra informò Berlusconi che la Procura di cui era a capo stava archiviando l’accusa a carico di Berlusconi stesso e di Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Erano indagati dal luglio 1998 e furono prosciolti il 2 marzo 2001. L’allora pm di Caltanissetta Luca Tescaroli, che sulle stragi di Capaci e via D’Amelio aveva indagato, denunciò ai colleghi catanesi il comportamento “anomalo” del suo capo Tinebra.
Minareti e tricolore
Secondo Il Riformista il no svizzero ai minareti sta contagiando mezza Europa: un effetto domino che sta prendendo piede in Olanda, dove Geert Wilders, leader del partito liberale di estrema destra, ha già dichiarato che chiederà al governo di organizzare un referendum simile a quello svizzero; e tira aria di referendum anche in Danimarca, dove la bionda Pia Kjaersgaard, leader del partito Popolare, condivide la scelta di consultare il popolo; in Francia il segretario generale della UMP di Sarkozy ha detto di non esser certo che ci sia bisogno di minareti per praticare l’Islam, mentre il ministro dell’immigrazione Besson assicura che “i minareti non sono un tema politico”.
“Ora l’Europa teme l’ondata estremista” titola anche La Stampa, scrivendo che i partiti della destra radicale e le formazioni xenofobe in Austria, Belgio, Danimarca e Olanda rialzano la testa e chiedono referendum ovunque.
Il Sole 24 Ore offre ampio spazio al caso dei minareti, che accende uno scontro anche in Italia. Il Ministro dell’interno Maroni sembra chiedere un referendum anche in Italia: “E’ sempre utile in democrazia ascoltare ciò che vuole il popolo e non elites più o meno illuminate. UE e Santa Sede sono invece preoccupate per il voto svizzero e Berna teme impatti sull’economia. Stefano Folli scrive che più che alle guerre di religione, la Lega pensa a qualche voto extra in vista delle regionali, mentre Marco Alfieri analizza la conversione cattolica del Carroccio: da partito ultra-pagano a forza neo-cristiana. La svolta cattolica della Lega incrocia la questione settentrionale e il terzo ciclo leghista, che è noglobal e identitario. Dopo la malattia “l’Umberto è cambiato. E a casa sua ora ci sono anche immagini sacre”, assicura il fido Giuseppe Leoni, presidente dei cattolici padani. Più prosaicamente , il 39 per cento dei leghisti è cattolico praticante.
Karima Moual ricorda invece che il ruolo dei minareti in Europa è solo simbolico, poiché non c’è nessun muezzin che chiama con il megafono i fedeli alla preghiera.
Roberto Castelli aveva proposto di mettere una croce nel Tricolore, ma nel Pdl molti la considerano una “fesseria”, come sottolinea La Repubblica, utilizzando una frase del ministro delle Politiche comunitarie Andrea Ronchi. Sullo stesso quotidiano Filippo Ceccarelli ricorda i tempi in cui per i lumbard il vessillo era il simbolo dell’oppressione (Bossi disse che con la bandiera italiana ci si sarebbe pulito…, anche perché la Padania ne aveva una ed era bianca e verde).
Sulla Stampa: “Bossi ‘rivaluta il tricolore’ per sedurre gli elettori cattolici”.
E poi
“Leggere Tocqueville a Mosca” è il titolo che Il Foglio dà alla “orazione funebre” pronunciata da Gaetano Quagliariello nella Sala delle colonne della Luiss per lo storico Victor Zaslavsky, morto venerdì scorso. “L’esule russo che ha fatto scuola in occidente. Aveva previsto il crollo dell’Urss”.
Su La Repubblica un articolo sul “flop delle confische ai mafiosi”: non utilizzato il 75 per cento dei beni, e fallisce un terzo delle aziende affidate alle associazioni. I dati emergono dalla relazione annuale del Commissario Straordinario sui beni confiscati alle mafie Antonio Maruccia.
Oggi pomeriggio Obama annuncerà all’Accademia di West Point la nuova strategia sull’Afghanistan. Secondo il Corriere verrà annunciato l’invio di 30 mila nuovi soldati Usa a Kabul, ma a condizione di una precisa exit strategy. Ieri il Presidente Usa ha inviato una lettera al suo omologo pakistano Zardari proprio alla vigilia dell’annuncio della nuova strategia in Afghanistan. Ne parla La Stampa con il titolo: “Obama al Pakistan: basta trame. ‘Usa gruppi terroristi a fini politici’. Colloqui con Berlusconi sui rinforzi a Kabul”.
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Dalla newsletter di http://www.movisol.org/ del 01.12.2009
La crisi di Dubai è la crisi del sistema dei “salvataggi” centrato a Londra
Quella che viene chiamata la “crisi di Dubai” è in realtà il crollo del sistema monetario globale centrato a Londra. Lungi dall’essere un luogo periferico, Dubai svolge un ruolo chiave nell’organizzazione di riciclaggio dei proventi criminali dell’impero.
La cosiddetta crisi è diventata ufficiale il 25 novembre, quando Dubai World, l’azienda della famiglia reale dell’Emirato, ha chiesto una moratoria sui debiti di sei mesi. Dubai World ha circa 60 miliardi di dollari di debiti, la metà dei quali verso le banche europee. L’annuncio ha ovviamente provocato una frana nei mercati azionari di tutto il mondo, colpendo particolarmente i titoli bancari.
I debiti di Dubai World hanno finanziato una delle fantasie più bizzarre dell’attuale bisca finanziaria: trasformare il Dubai in un centro ricreativo internazionale creando isole artificiali, centri commerciali, hotel di lusso e torri vertiginose piene di ogni amenità, tranne che il buon gusto. Il sistema è sembrato funzionare per un po’, ma poi il sistema finanziario è scoppiato, e i valori immobiliari sono crollati del 50%.
Ma l’ammontare del debito e dei valori immobiliari è quasi triviale, paragonato ai flussi di denaro sotterranei che formano l’economia di Dubai. Questo piccolo emirato è il centro del mercato nero dell’impero, la capitale finanziaria del flusso di denaro sporco della droga e di altre attività illecite. Dubai oggi svolge un ruolo simile a quello di Hong Kong all’inizio dell’Impero Britannico, e ospita nei suoi grattacieli i più potenti narcotrafficanti, tra cui i signori della droga dell’Afghanistan. Questo è il segreto della sua fortuna come centro finanziario.
Dubai è gestito completamente da Londra, costruito con soldi della City e da imprese di costruzione del Regno Unito. La maggior parte degli enti governativi ha un membro della famiglia reale come titolare, e un suddito britannico come vice e vero manager. Non dovrebbe sorprendere che lo sceicco Mohammed, il sovrano di Dubai, si è recato a Londra per incontrare la Regina Elisabetta, il Primo ministro Gordon Brown e altri dignitari della City nei giorni immediatamente precedenti all’annuncio di moratoria. Come ha poi dichiarato lo stesso sceicco, la cosa è stata “accuratamente pianificata in anticipo”.
LaRouche: il fatto cruciale nel caso di Dubai
In un articolo intitolato “La crisi finanziaria europea di Dubai: l’orrore di Copenhagen”, Lyndon LaRouche ha ammonito a non ignorare “il fatto cruciale nel caso di Dubai”, perdendosi negli aspetti “decorativi” della crisi. È cruciale, ha scritto LaRouche, la reazione della monarchia britannica a questo nuovo sviluppo nel contesto della crisi da collasso mondiale.
“La monarchia britannica sta reagendo istericamente e stupidamente, anche se con cattiveria, al fatto essenziale della crisi di Dubai. Essenzialmente, l’attuale sistema monetario mondiale è nel processo né di una semplice recessione, né di una depressione, ma di una crisi da collasso di un tipo che non ha precedenti nella storia europea se non risalendo al quattordicesimo secolo”.
“L’effetto politico di ciò che attualmente appare come la ‘crisi di Dubai’ che investe l’Europa occidentale, è affiorato in contemporanea con una crisi politica in Germania [le vicende attorno alle dimissioni dell’ex ministro della Difesa, ndr.]. Una successiva riflessione ha mostrato che non solo tutta l’Europa occidentale era immediatamente coinvolta, e ha subito gravi contraccolpi dalla minaccia di bancarotta degli interessi finanziari infestati dalla droga di Dubai e dell’Afghanistan. Il ruolo della Germania come terzo attore sulla scena della guerra anglo-americana in Afghanistan ha dato i segni premonitori di ciò che stava per scoppiare politicamente ed economicamente; la Regina britannica, come di prammatica, è stata preparata in anticipo”.
“Ora, diamo uno sguardo sotto le lenzuola e i burka della stessa crisi centrata sul Dubai del traffico di droga. Lo sviluppo odierno punta a ciò che deve essere considerato seriamente come potenziale detonatore di un collasso monetario a catena, non solo dell’Europa occidentale ma coinvolgente sia gli interessi finanziari di Wall Street sia la stessa amministrazione Obama”.
“Attualmente – spiega LaRouche – la traccia migliore da seguire per un’inchiesta sulla fase della crisi scatenata dal Dubai, è capire il parallelo globale della situazione attuale con la Germania del 1923, il che significa concentrarsi sulla cosiddetta crisi dei ‘salvataggi’ centrata sia sul Regno Unito che negli Usa, una crisi che continua dal settembre 2007 e che ora ha raggiunto il punto di una minaccia di collasso generale, alimentata da Obama, dello stesso sistema finanziario-monetario USA”….
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«Spatuzza può aprire scenari da bomba atomica». Il pdl: «Chiarisca le sue frasi»
Fini e il fuori onda su Berlusconi: «Confonde consenso con immunità» 1-2.12.2009
Registrata a Pescara una conversazione privata tra il presidente della Camera e il procuratore Trifuoggi
MILANO – Berlusconi «confonde il consenso popolare, che ovviamente ha e che lo legittima a governare, con una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi altra autorità di garanzia e di controllo: magistratura, Corte dei Conti, Cassazione, Capo dello Stato, Parlamento. Siccome è eletto dal popolo…». Lo ha detto Gianfranco Fini, in un fuori onda (realizzato da Vincenzo Cicconi di Pacotvideo e rilanciato da Repubblica.tv) registrato all’insaputa del presidente della Camera. Fini parla con il procuratore di Pescara Nicola Trifuoggi, seduto accanto a lui, in occasione della giornata conclusiva del Premio Borsellino, il 6 novembre scorso a Pescara, non sospettando minimamente che i microfoni del tavolo della presidenza siano aperti e stiano registrando la conversazione privata.
«IN PRIVATO GLI HO DETTO: “STATTE QUIETO”» – Nella conversazione con Trifuoggi Fini si riferisce ancora a Berlusconi quando dice: «Io gliel’ho detto. Confonde la leadership con la monarchia assoluta. Poi in privato gli ho detto: ricordati che gli hanno tagliato la testa a… quindi “statte quieto” » replica il presidente della Camera a una battuta del procuratore che si riferisce a Berlusconi con queste parole: «È nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l’imperatore romano».
SPATUZZA – Con Trifuoggi Fini parla anche delle ultime rivelazioni del pentito di mafia Gaspare Spatuzza. «Il riscontro delle dichiarazioni di Spatuzza, può aprire scenari… speriamo che lo facciano con uno scrupolo tale da… perché è una bomba atomica» afferma. «Lei lo saprà – dice il numero uno di Montecitorio al suo interlocutore – ma Spatuzza parla apertamente di Mancino, che è stato ministro degli interni…Uno è vicepresidente del Csm, l’altro è presidente del Consiglio». E al suo procuratore che osserva che comunque le indagini vanno fatte, la terza carica dello Stato risponde: «No, ma ci mancherebbe altro». Dopo la diffusione del video, però, Fini telefona proprio a Mancino per chiarire l’equivoco da lui commesso tra le dichiarazioni del pentito Spatuzza e quelle di Massimo Ciancimino. Il presidente della Camera spiega di aver fatto confusione attribuendo a Spatuzza quanto aveva detto in un primo tempo il figlio del sindaco di Palermo a proposito della presunta trattativa tra lo Stato e la Mafia.
BATTUTE SULL’IMMORTALITÀ – Seduto accanto a Trifuoggi, Fini scherza anche con il suo interlocutore. L’occasione gliela dà un passaggio del discorso di Aldo Pecora, portavoce del movimento antimafia “Ammazzateci tutti”: «Noi siamo di passaggio, qua nessuno è eterno, non si vive in eterno», dice il giovane. Allora Fini commenta: «Se ti sente il presidente del Consiglio si incazza…». «Qualche giorno fa – aggiunge ancora il presidente della Camera nel “fuori onda” – rileggevo un libro sull’Italia giolittiana e a Giolitti, che era considerato il ministro della malavita, un oppositore disse: ‘”ei rappresenta lo stato… participio passato del verbo essere”. Efficace, no?». «Potrebbe essere riesumata», replica il magistrato. «Infatti non escludo di farlo, citando la fonte… prima o poi lo faccio», conclude il presidente della Camera.
Al link anche il video
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UE, ecce ACTA 01.12.2009
Emergono nuovi dettagli sul famigerato piano segreto per estendere la difesa del copyright in tutto il mondo. L’Europa si allarma e accusa l’amministrazione Obama: volete regole a senso unico
Roma – Più se ne parla e più crescono le preoccupazioni per il livello di enforcement della difesa del copyright previsto da ACTA, il trattato segreto che gli Stati Uniti stanno “cucinando” con un nutrito gruppo di paesi con l’obiettivo finale di inasprire ed estendere un certo tipo di misure a tutela del diritto d’autore.
L’ultima rivelazione su ACTA arriva dall’analisi del trattato fatta dalla Commissione Europea, un’analisi finita online grazie al partito politico tedesco Die Linke e che secondo commentatori esperti del settore come il canadese Michael Geist conferma le peggiori prospettive legali sin qui ipotizzate.
Dalle poche pagine dell’analisi della UE, dice Geist, si apprende come il trattato miri al semplice obiettivo di introdurre ai quattro angoli del globo misure come la risposta graduale per la cancellazione del diritto alla rete in caso di infrazione reiterata e senza il minimo bisogno di passare prima per i tribunali. Ma non è tutto: il mondo intero dovrebbe adeguarsi alle norme statunitensi sul copyright come il Digital Millennium Copyright Act (DMCA), con la stringente proibizione di violare le tecnologie di protezione dei contenuti, l’estensione di concetti come “l’incitamento” all’infrazione del copyright e l’attribuzione della responsabilità a soggetti terzi in legislazioni che ne sono attualmente sprovviste.
Si tratta, nota Geist, nota la UE e notano un po’ tutti quanti, di misure restrittive senza precedenti che in Europa (così come in Canada e altrove) andrebbero largamente oltre le attuali normative e garanzie di equilibrio tra tutela dei consumatori, del bene comune e dell’industria dei contenuti.
Parallelamente alla pubblicazione del lavoro di analisi della UE su ACTA, poi, non manca chi sottolinea ancora una volta la fallacità delle misure coercitive che il trattato vorrebbe estendere ovunque nel mondo, una totale incapacità a raggiungere l’obiettivo dato (cioè la lotta alla “pirateria” digitale) che ha come spiacevole effetto collaterale la regressione dello sviluppo di Internet e la creazione di anomale distorsioni sul piano sociale ed economico.
E quanto alla presunta validità delle indagini tra i tracker BitTorrent e le reti di P2P, che l’industria vorrebbe far assurgere a prova e strumento incontestabile di denunzia e cancellazione del diritto alla connessione, il professor Mike Freedman della Princeton University prova con dovizia di documentazione che le agenzie investigative vecchie e nuove sono sin troppo sbrigative nel tracciare, individuare indirizzi IP un tanto al chilo e far partire minacce legali un po’ alla rinfusa.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2764270/PI/News/ue-ecce-acta.aspx
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Berlusconi e Lukashenko, relazioni pericolose 01.12.2009
Aldo Garzia
Sul sito della presidenza del Consiglio non ci sono informazioni sul viaggio del premier Silvio Berlusconi in Bielorussia. Eppure si tratta del primo viaggio di un leader dell’Unione europea a Minsk negli ultimi quindici anni. Alexander Lukashenko, presidente bielorusso, è stato infatti messo all’indice dall’Unione europea e dalla comunità internazionale per il sospetto di brogli elettorali e per il non rispetto delle regole democratiche in politica interna
Nell’incontro tra Lukashenko e Berlusconi il presidente della Bielorussia ha avuto parole di riconoscenza per il suo interlocutore: “Ringrazio il presidente Berlusconi per la sua puntualità: aveva promesso di venire ed è venuto. Noi comprendiamo bene il significato di ciò e ce lo ricorderemo”. Poi ha aggiunto: “Vediamo la sua visita non solo nel contesto bilaterale, ma anche in un contesto più largo come un gesto eloquente di sostegno e appoggio del nostro paese sulla scena internazionale”.
Da parte sua il premier italiano ha usato nella conferenza stampa di rito espressioni che hanno subito scatenato l’ennesima polemica: “Tanti auguri a lei e al suo governo. E alla sua gente che so che la ama. E questo è dimostrato da tutti i risultati delle elezioni che sono sotto gli occhi di tutti, che noi conosciamo e apprezziamo”.
Berlusconi ha poi ringraziato Lukashenko per le rassicurazioni sul problema delle adozioni di bambini bielorussi da parte di famiglie italiane e “sulla possibilità di lavorare insieme su questo tema”. Lukashenko ha confermato che nel corso dei colloqui si è parlato di adozioni internazionali, sostenendo di aver avuto precise “garanzie dalla Santa Sede e dallo Stato italiano”.
La prima a polemizzare con il viaggio a Minsk di Berlusconi è stata Emma Bonino, vicepresidente del Senato: “A me sembrano abbastanza misteriose tutte queste trasferte all’estero. A parte i famosi tre giorni con Putin, dei quali ancora non si sa molto e già questo non è normale, poi abbiamo avuto la visita in Arabia Saudita con il suo socio Tarak Ben Ammar, in seguito la visita in Turkmenistan e poi quella in Bielorussia”.
Per la senatrice radicale, mentre la politica estera di altri paesi ha come centro l’Afghanistan e l’Iran, quella italiana “oltre ad avere come minimo comune denominatore lo sdoganamento dei dittatori, è poco chiara a meno che non si tratti di una politica estera-energetica”.
La replica è di Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio: “Ma quale giallo internazionale si inventa la Bonino? Per parlare di Afghanistan il presidente Berlusconi è stato chiamato giovedì scorso dal presidente Obama. Nel viaggio in Arabia Saudita e in Qatar il premier ha parlato del processo di pace in Medio Oriente, ma anche di Iran e Afghanistan. La Bonino si consoli, non c’entra niente Agatha Christie”.
Si è appreso che il presidente bielorusso ha aperto gli archivi del Kgb al premier italiano, parlando di un regalo che si fa “agli amici importanti”. La consegna di alcuni dossier a Berlusconi dovrebbe permettere di stabilire la sorte dei cittadini italiani prigionieri durante la seconda guerra mondiale in Russia e in Bielorussia. “Se l’Italia è interessata a approfondire l’argomento, noi forniremo altri documenti”, ha detto Lukashenko ringraziando l’Italia per l’accoglienza fornita ai bambini di Chernobyl (la località colpita da un incidente nucleare nel 1986).
Il premier Berlusconi ha ringraziato a sua volta per il gesto di amicizia: “E’ con commozione che ricevo queste carte che sono un omaggio veramente imprevisto. Approfondiremo tutte le notizie di questi documenti e posso interpretare il sentimento delle famiglie italiane nel rivolgerle un ringraziamento cordialissimo”.
Questo risultato della visita non è sufficiente a placare le polemiche. Dice Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, che ha chiesto che il presidente del Consiglio riferisca alla Camera sui contenuti della sua visita ufficiale a Minsk: “Aveva destato in me già profonda meraviglia il fatto che il nostro sia stato il primo capo di un governo occidentale ad andare in visita ufficiale in Bielorussia da quando è al potere il dittatore Lukashenko. Ma la mia meraviglia era niente in confronto allo sbigottimento di oggi nel leggere gli elogi del nostro premier a Lukashenko”.
La pensa cosi’ pure Piero Fassino, Pd: “Con la visita a Minsk, Berlusconi mostra ancora una volta una sconcertante manifestazione di superficialità e di non conoscenza dello scenario internazionale, che rischia di confermare l’immagine di una politica estera italiana oscillante e confusa”.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13660
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banche, crisi, finanza di Vincenzo Comito
Riforma delle banche: qualcosa si muove? 01/12/2009
Le proposte in campo sulla ristrutturazione del mondo bancario potrebbero regolare la finanza selvaggia. Ma il timore è che i governi frenino
“…mai nel settore finanziario in così pochi hanno dovuto così tanto denaro a così tanti… e, per il momento, con quasi nessuna riforma… ” (Mervyn King)
“…una banca deve fare credito all’economia, raccogliere dei depositi, gestire dei conti. Le altre attività sono parassitarie…” (J. P. Pollin, in Gatinois, Roche, 2009)
Premessa
Uno dei punti di forza dell’economia capitalistica è rappresentato, come è noto, dalla sua grande flessibilità di funzionamento e da una rilevantissima capacità di adattamento alle circostanze; questo appare un aspetto molto importante della sua indubitabile resistenza al mutare degli eventi e della sua potenzialità a svilupparsi nel tempo. Meraviglia quindi che, di fronte alle palesi difficoltà di andare avanti e alle contraddizioni manifestatesi con la crisi, l’opposizione a quelli che appaiono i profondi mutamenti necessari per poter continuare in maniera adeguata il cammino interrotto si sia mostrata alla luce del giorno in maniera così netta.
In particolare, il settore finanziario ha bisogno di grandi trasformazioni perché l’economia e la stessa finanza riprendano a muoversi in maniera sicura, almeno per un po’ di tempo. In un precedente articolo apparso su questo stesso sito, in data 21 settembre, elencavamo tutte le principali possibili misure che erano state pensate a tale proposito da un numeroso gruppo di studiosi ed operatori di vari paesi, mentre in un successivo intervento, in data 12 ottobre, registravamo alcuni sviluppi del dibattito. Ma la gran parte dei gruppi dirigenti del settore ha mostrato sino ad oggi una scarsissima volontà di cambiare ed è anzi riuscita a frenare qualsiasi tentativo di riforma –tramite in particolare una feroce attività di lobbying nei confronti del mondo politico, per la quale nei soli primi sei mesi del 2009 il settore ha speso 224 milioni di dollari (Associated Press, 2009)-, tanto che molti, ed anche chi scrive, si erano convinti che probabilmente nulla sarebbe cambiato e che si sarebbe tranquillamente tornati, con il benestare dei politici, all’allegra gestione di prima, almeno sino alla prossima crisi.
Ma negli ultimi tempi sembra che qualcosa, forse, si cominci a muovere sul serio ed in questo scritto segnaliamo le principali proposte che stanno cercando di farsi strada almeno sul fronte delle banche.
Il dibattito tra gli esperti
Come segnalano le ultime analisi disponibili (Saft, 2009), il settore bancario, in Europa come negli Stati Uniti, continua a tenere stretti i cordoni della borsa per quanto riguarda i prestiti sia alle imprese che ai privati. Intanto comunque, qualche settimana fa, è stato lanciato un sasso nelle acque stagnati delle discussioni sulle possibili riforme e dei dibattiti politici finti sul tema; i colpevoli di tale atto sono due figure tra le più reputate nel mondo della finanza anglosassone, Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra e Paul Volckler, già presidente della FED dal 1979 al 1987 e attualmente consigliere economico della Casa Bianca. I loro interventi hanno avuto il potere di aprire delle brecce nel muro di consenso che l’establishment politico, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, aveva costruito intorno al circolo dei banchieri (Johnson, 2009).
Ambedue le persone, con significativa coincidenza di idee, hanno giudicato come sia indispensabile, per riportare le banche a più sani propositi di normale gestione, ritornare ad una divisione netta tra le attività di raccolta di depositi e di prestiti ai privati e alle imprese da una parte e quelle di trading e di speculazione in proprio ad alto rischio dall’altra, secondo lo schema noto come quello del narrow banking; ci si rifà, nella sostanza, alla situazione che prevaleva negli Stati Uniti prima dell’abbandono – sotto la gestione Clinton e con il supporto dell’allora responsabile del tesoro, L. Summers, oggi il principale consigliere economico della casa Bianca- del precedente Glass-Steagall Act. Naturalmente, solo le narrow bank sarebbero regolate e garantite dal settore pubblico, mentre le altre attività, sia pure ponendo alcuni paletti, sarebbero lasciate alla disciplina del mercato.
Le banche hanno l’obiettivo di servire il pubblico, ha affermato in particolare Volckler, ed esse si devono concentrare su tale attività. La proposta accennata comporterebbe ovviamente anche la riduzione delle dimensioni delle banche too big to fail (TBTF) e impedirebbere che se ne creassero di nuove. Alcuni hanno sottoscritto all’idea; così, J, Kay (Kay, 2009, a), già tra i primi a indicare la rotta su questo fronte (Kay, 2009, b), ha affermato “…alcuni credono che i maiali possano volare; il governatore della Banca d’Inghilterra …ha mostrato che essi non lo possono fare…”. Anche N. Roubini ha aderito con decisione alla proposta.
Ma il progetto, al di là del sostegno di alcuni studiosi, è stata sostanzialmente respinta sul piano politico e si è comunque prestata ad obiezioni sul piano tecnico. Così, per quanto riguarda il primo fronte, in Gran Bretagna Gordon Brown, il primo ministro, e Alistair Darling, il cancelliere dello scacchiere, hanno immediatamente manifestato la loro opposizione allo schema. Il responsabile del tesoro Usa, Tim Geithner, ha avuto anch’egli una reazione simile. Nella sostanza i due governi, il gruppo del G-20, il comitato di Basilea preferiscono, in via alternativa, la meno drastica misura di alzare il livello dei mezzi propri delle banche.
Per quanto riguarda i dubbi sul piano tecnico, intanto sembra impossibile, a detta di molti, tirare una linea di confine netta tra la banca al servizio dell’economia e quella di tipo casinò. Perché prestare alle famiglie e alle imprese sarebbe una cosa buona e cartolarizzare tali prestiti no? Come distinguere tra operazioni di copertura dai rischi e operazioni di speculazione? Si sottolinea inoltre che, con la crisi in atto, sono entrati in difficoltà anche degli istituti che nella sostanza erano delle narrow bank, come la britannica Northern Rock. Il modello di banca universale, per alcuni, rappresenterebbe un punto di forza; mettendo insieme due mestieri differenti, quelli di banca commerciale e di banca di investimento, si registrerebbero delle sinergie importanti e una attività supporterebbe nel tempo l’altra. Inoltre, si offrirebbe ai clienti una gamma di servizi più completa. L’attività di banca d’investimento, peraltro, sempre secondo tali critici, non dovrebbe essere necessariamente votata alla pura speculazione.
A nostro parere, peraltro, molte di queste obiezioni si potrebbero superare, ma bisogna ricordare che, sulla base anche delle presunte debolezze del progetto King-Volckler, è stata messa a punto una proposta alternativa, apparentemente anch’essa potenzialmente abbastanza rigorosa; tale progetto è quello avanzato, ad esempio, da M. El-Erian (El-Herian, 2009) e, con accenti sostanzialmente simili, da M. Wolf (Wolf, 2009).
Le proposte specifiche di El-Erian puntano in ogni caso verso regole molto più stringenti di prima nei confronti delle banche; in particolare si propongono contemporaneamente cinque tipi di misure:1) il livello di capitale degli istituti deve essere – e molto, aggiunge Wolf- aumentato; 2) in particolare, bisognerebbe pensare a misure anticicliche, con la previsione di livelli di capitale più alti nei tempi buoni, per costituire dei cuscinetti per i tempi cattivi; 3) la regolamentazione prudenziale delle banche deve essere integrata da una migliore protezione dei consumatori; 4) le istituzioni più grandi dovrebbero essere soggette ad un livello ulteriore di regolamentazione prudenziale; 5) devono essere previsti dei migliori meccanismi di liquidazione per le banche che vanno in crisi.
Wolf aggiunge alla lista anche la necessità di proibire le attività bancarie fuori bilancio e quella, di carattere più generale, di cessare di favorire il finanziamento a debito in tutta l’economia.
Cosa sta succedendo a livello politico
Intanto la politica appare molto più indietro. Lasciamo da parte i progetti di riforma complessiva del settore bancario avanzate dalle autorità pubbliche delle due aree e di cui la stampa ha già parlato qualche mese fa e concentriamoci sugli sviluppi delle ultime settimane. A tale proposito, le novità più recenti, in Europa e negli Stati Uniti, sono sostanzialmente due.
In Europa non sono stati i governi, ma il commissario alla concorrenza dell’Unione, N. Kroes, ad imporre alle grandi banche che hanno ottenuto dei rilevanti aiuti pubblici, in particolare alle britanniche RBS e Lloyd’s e alla olandese ING, di ridurre le loro dimensioni in media del 40%; qualche mese fa l’intervento aveva già riguardato in qualche modo le tedesche Commerzbank e WestLB, mentre prossimamente dovrebbe essere il turno anche alla belga Dexia e della tedesca Hypo Real Estate.
Il provvedimento della Kroes appare ben lungi, comunque, dall’essere perfetto; così, un problema importante risiede nel fatto che, nella sua pura logica liberista, esso non impone alle banche di ridimensionare le attività più problematiche e rischiose, ma semplicemente di rimpicciolirsi; così, almeno in alcuni di questi casi, le banche coinvolte cederanno ad altri attori delle attività poco rischiose e che generano magari dei profitti, mantenendo invece quelle più a rischio (The Economist, 2009).
Negli Stati Uniti la novità più recente appare quella rappresentata da un progetto di ristrutturazione del sistema finanziario messo a punto dal presidente del comitato bancario del Senato, C. J. Dodd, progetto che innova in misura rilevante rispetto a quello già proposto a suo tempo dal governo; sono inoltre da ricordare anche delle proposte avanzate da alcuni altri membri dello stesso Senato.
In particolare, il testo del progetto Dodd prevede (Labaton, 2009; Masters, Braithwaite, O’Connor, 2009) che le quattro agenzie che attualmente controllano il settore bancario siano ridotte ad una sola, contro le tre previste nella proposta del governo. Tale schema, tra l’altro, ridimensionerebbe fortemente la possibilità di intervento della Banca Centrale, che invece nel progetto del governo sarebbe centrale, mentre accrescerebbe invece lo status della SEC. La bozza prevederebbe inoltre, come nel progetto governativo, la regolazione del rischio sistemico attraverso la creazione di un’altra agenzia, di nuovo con un ruolo subordinato per la FED, nonché una ulteriore entità per la protezione del consumatore. Non sono trascurati altri interventi, in generale a nostro parere abbastanza blandi, per quanto riguarda i derivati, gli hedge fund, le agenzie di credit rating. Per quanto riguarda le banche too big to fail, sono previsti più stretti livelli di capitale e di liquidità.
Ma si può osservare che l’architettura dei controlli è secondaria rispetto alla sostanza delle cose; il punto più importante rispetto ai vari progetti sarà quello di capire i poteri effettivi dei vari organismi, le risorse che essi avranno a disposizione, la forza del sistema sanzionatorio, la qualità del personale dell’agenzia, il livello di supporto politico.
Nel frattempo, comunque, il senatore indipendente B. Sanders (Rithholtz, 2009), quello democratico E. Perlmutter e quello repubblicano E. Kaniorsky (Scheiber, 2009) hanno presentato, ognuno dei tre in via separata, delle proposte che, sulla linea degli interventi di Kyng e di Volckler sopra citati, chiedono, sia pure in forme un po’ varie, la separazione in due del sistema bancario statunitense.
Naturalmente ci si dovrà poi confrontare con il progetto che uscirà fuori dalla Camera e che per molti aspetti si presenta come molto differente da quello del Senato; su di esso, comunque, non ci intratteniamo per mancanza di spazio e per il suo minore interesse.
Conclusioni
Le due proposte sulla ristrutturazione del mondo bancario, quella King-Volckler e quella El-Erian- Wolf, se portate avanti con decisione, appaiono potenzialmente, nella sostanza, ambedue in grado di raggiungere importanti risultati nella lotta alla finanza selvaggia. Temiamo invece che i governi, pur costretti ormai a intervenire più di quello che pensavano di fare sino a qualche settimana fa, si fermeranno inesorabilmente al di qua di quanto sarebbe necessario; comunque pensiamo che alla fine, tra tanti progetti, si delineerà una soluzione pasticciata.
Anche per quanto riguarda il nuovo sistema di supervisione del sistema finanziario statunitense stimiamo che i vari progetti in essere troveranno probabilmente un punto di incontro abbastanza poco adeguato alle necessità.
Anche se sembra di intravedere una grande confusione di idee, di obiettivi, di proposte operative, la situazione appare comunque in movimento rispetto soltanto a qualche settimana fa. Alcuni argomenti continuano ad essere tabù, quale quello di una possibile ordinata nazionalizzazione del sistema bancario di base, la messa a punto di nuovi rapporti tra l’operare delle banche centrali e i governi, nonché le necessarie modalità di superamento, almeno su alcuni fronti, della sovranità nazionale, mirando ad un assetto nuovo del sistema finanziario internazionale che tenga anche conto delle ragioni dei più deboli.
Staremo molto attenti agli sviluppi delle cose nelle prossime settimane, perché appare plausibile che le decisioni che verranno prese condizioneranno in maniera molto rilevante le prospettive dell’economia e della finanza nei prossimi anni, almeno in Occidente.
Testi citati nell’articolo
-Associated Press, Lobbyists influence financial reform, www.nyt.com, 17 ottobre 2009
– El-Erian M., The two-stage de-risking of banks, www.ft.com, 22 ottobre 2009
– Gatinois C., Roche M., Faut-il interdire aux banques de speculer ?, www.lemonde.fr, 29 ottobre 2009
– Johnson S., The consensus on big banks is beginning to crack, www.tnr.com, 21 ottobre 2009
– Kay J., “Too big to fail” is too dumb an idea to keep, www.ft.com, 27 ottobre 2009, a
– Kay J., Narrow banking, www.csfi.org.uk, 2009, b
– Labaton S., Senate plan would expand regulation of risky lending, www.nyt.com, 11 novembre 2009
– Masters B., Brathwaite T., O’Connor S., Senator plan radical reform for US banks, www.ft.com, 11 novembre 2009
– Saft J., Banks show no signs of easing credit, The New York Times, 13 novembre 2009
– Scheiber N., Today in “too big to fail”: more shrinkage momentum, www.tnr.com, 10 novembre 2009
– Wolf M., Why curbing finance is hard to do, www.ft.com, 22 ottobre 2009
– Ritholtz B., Senate bill would break up TBTF banks, www.rgemonitor.com, 9 novembre 2009
– The Economist, The muscles from Bruxelles, 5 novembre 2009
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Riforma-delle-banche-qualcosa-si-muove
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La macchina “ricicla CO2” 24.11.2009
Primo test per il prototipo di CR5 dei Sandia Lab: il sistema è in grado di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera. Ma serviranno almeno 15 anni per migliorarne l’efficienza
Usare l’energia solare per riciclare l’anidride carbonica e ottenere vettori energetici e combustibili. L’idea è dei ricercatori dei Sandia National Laboratories (California), che hanno appena testato il primo prototipo della macchina “converti-CO2”.
Si chiama CR5 (da Counter-Rotating-Ring Receiver Reactor Recuperator) ed è un cilindro metallico diviso in due camere, in grado di innescare delle reazioni termo-chimiche su una superficie di ossido di ferro. Il concetto su cui si basa il sistema è semplice: quando l’ossido di ferro è esposto a temperature molto alte si innescano reazioni che portano alla liberazione di molecole di ossigeno, che vengono poi “riprese” quando il materiale si raffredda. Dov’è il vantaggio? Nel fatto che i due processi avvengono in aree separate, e che l’ossigeno recuperato è quello sottratto all’anidride carbonica contenuta in una delle due camere; in questo modo la CO2 diventa CO (monossido di carbonio).
La macchina è infatti disegnata con le camere poste ai due lati. Nella parte centrale si trovano, in serie, 14 dischi di ossido di ferro che ruotano su loro stessi compiendo un giro al minuto. I ricercatori sono riusciti a concentrare i raggi del Sole per portare una delle camere a 1.500 gradi centigradi, in modo che la parte dei dischi che si trova in quell’area liberi le molecole di ossigeno. Ruotando, i dischi portano la loro “zona calda” nella camera opposta e il raffreddamento induce l’ossido di ferro a “rubare” molecole di ossigeno alla CO2, lasciando nella camera il monossido di carbonio. Questo può essere poi combinato con l’idrogeno per dare syngas da usare come vettore energetico.
Finora il sistema, inventato dall’ingegnere Rich Diver, era stato testato in piccoli step; l’esperimento completo prova ora che la macchina lavora come da copione. “Pensiamo che questo sistema sia un’alternativa al sequestro di CO2 sottoterra”, ha spiegato James Miller, ingegnere chimico ai Sandia Lab: “Invece che pompare il gas sotto il suolo (vedi Galileo), è possibile usare il Sole per ottenere una “combustione inversa” che trasforma l’anidride carbonica in molecole energetiche”. Serviranno comunque tra i 15 e i 20 anni prima di vedere una versione commerciale di questo prototipo. Intanto, l’obiettivo è costruire una nuova macchina ogni tre anni con efficienze sempre maggiori (che dovrebbero almeno raggiungere il 10 per cento). Parte delle innovazioni necessarie verranno dalle nuove ceramiche composite che rilasciano ossigeno a temperature più basse dell’ossido di ferro. (t.m.)
Riferimento: Technology Review
http://www.galileonet.it/news/12096/la-macchina-ricicla-co2
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2/12/2009 – SUCCESSO DELLA RICERCA ITALIANA, NATO DALLA COLLABORAZIONE TRA CAMPUS BIOMEDICO DI ROMA E SCUOLA SANT’ANNA DI PISA
Una mano per il cyber-uomo
E’ attivata direttamente dal cervello e permette una vita normale VALENTINA ARCOVIO Stringere il pugno con la sola forza del pensiero non è mai stato così emozionante come per Pierpaolo Petruzziello, ventisettenne italobrasiliano. A tre anni da un terribile incidente che gli è costato parte del braccio sinistro, ora può sperare di riavere una mano tutta nuova, che si muove con i comandi che impartisce il suo cervello.
Al momento, infatti, il nuovo arto è stato collegato al moncherino per soli 30 giorni, giusto il tempo di verificarne la funzionalità e la risposta dell’organismo al corpo estraneo. A realizzare questa prima assoluta mondiale è stata l’Università Campus Biomedico di Roma (Ucbm) con il contributo bioingegneristico dei padri dell’arto robotico, gli scienziati della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Al progetto, chiamato «LifeHand», hanno partecipato anche altri importanti istituti di ricerca europei grazie ai circa 2 milioni di euro investiti dalla Commissione Europea, oltre che dall’Inail e dal ministero dell’Istruzione dell’Università.
Dopo cinque anni di lavoro, gli scienziati sono riusciti a ottenere una protesi intelligente che funziona sugli esseri umani. Una mano bionica direttamente controllata dal sistema nervoso del paziente grazie a 4 elettrodi realizzati dall’azienda tedesca Ibmt e impiantati nei nervi mediano (all’altezza del polso) e ulnare (nell’avambraccio). Grazie agli elettrodi è stata creata un’interfaccia che permette al sistema nervoso del paziente di «dialogare» con la mano artificiale. In questo modo diventa possibile trasmettere, tra mano e paziente, comandi di movimento e sensazioni tattili.
«La difficoltà principale – ha spiegato Paolo Maria Rossini, neuroscienziato e responsabile scientifico del progetto per l’Ucbm – è stata quella di individuare e isolare i nervi del braccio responsabili dei movimenti da impartire alla mano. Una volta effettuato questo lavoro certosino, abbiamo impiantato gli elettrodi al tungsteno che hanno fatto da ponte tra gli impulsi del cervello e i movimenti della mano». Gli elettrodi «Tf-Life», grandi quanto un capello, sono stati scelti come mezzo attraverso il quale il cervello e i nervi periferici del paziente hanno potuto inviare e ricevere informazioni alla protesi di mano, senza utilizzare nessun muscolo né alcun organo di senso. Il sistema di comunicazione tra cervello e mano bionica è piuttosto semplice: il cervello invia il comando tramite un impulso, un microchip registra ed elabora i segnali neurali, che vengono poi tradotti in linguaggio digitale.
Il risultato? «La mano biomeccatronica – spiega Vincenzo Denaro, chirurgo ortopedico del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico e responsabile del team che ha operato il paziente – si muove come se fosse normale. Effettua i movimenti impartiti dal cervello in pochi millesimi di secondi». Dopo un primo periodo di addestramento, Pierpaolo è riuscito a controllare fino a 3 differenti tipi di prese con la mano robotica, con una percentuale di successo superiore all’85%. La possibilità di effettuare queste prese significa che il paziente può svolgere la quasi totalità delle attività della vita quotidiana e lavorativa.
Ora il «cyber-uomo» sta bene e non vede l’ora che la mano robotica, sperimentata soltanto per un mese, possa finalmente diventare tutta sua. «Passeranno però almeno 3 anni – spiega Rossini – prima che il paziente possa avere definitivamente la mano robotica. Prima infatti di pensare a un impianto permanente o quasi dobbiamo ottenere tutte le autorizzazioni necessarie». Al momento, comunque, gli scienziati sono molto ottimisti. Tant’è che ora hanno iniziato a lavorare su elettrodi e protesi ancora più sofisticate e più leggere. Gli scienziati di Pisa hanno appena realizzato una nuova mano superleggera: avere raggiunto questi risultati rappresenta una vittoria schiacciante della ricerca italiana, per una volta davvero all’avanguardia mondiale.
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di Vera Pegna
Potere vaticano nel Trattato di Lisbona 29.11.2009
Nell’indifferenza generale, il 1° dicembre entra in vigore il Trattato di Lisbona. Dire che è stata un’operazione di vertice è dire poco. Che la si sia voluta tale, lo ha confermato Giuliano Amato secondo il quale i capi dell’Ue avevano «deciso» di rendere il nuovo trattato «illeggibile» per evitare che le riforme chiave fossero riconosciute ad una prima lettura e magari seguite da proposte di referendum nei singoli stati membri.
C’è chi invece indifferente non è stato ma anzi ha aspettato con trepidazione l’ultima firma necessaria al completamento della ratifica del trattato apposta dal ceco Vaclav Klaus. Senza quella firma, senza l’entrata in vigore del Trattato, l’attività tenace svolta dalla Santa Sede per assurgere a un riconoscimento istituzionale da parte dell’Ue avrebbe potuto essere annullata da futuri dirigenti dell’Unione, meno propensi a cedere alle pressioni vaticane.
Nel 1996 il Consiglio europeo di Torino aveva respinto la richiesta della Comece (Commissione dei vescovi europei) di riconoscere un ruolo pubblico alle chiese con la motivazione che la Santa Sede non era uno stato membro dell’Unione. Né poteva diventarlo dato che – unico stato in Europa – questa non è firmataria della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Ciò nonostante, negli ultimi otto anni, da quando fu messa mano alla elaborazione del trattato costituzionale europeo, la richiesta delle gerarchie vaticane ha fatto grandi passi in avanti.
Insistendo sulla «morale naturale» e sui «valori universali» della dottrina cattolica e, soprattutto, mettendo i suoi servitori più fedeli nei posti chiave all’interno della Commissione, la Chiesa cattolica ha ottenuto ciò che le era stato rifiutato nel 1996, ovvero la menzione delle chiese in un documento legislativo europeo. Nel trattato di Amsterdam, nonostante le insistenze affinché lo status delle chiese fosse accolto nel corpo del testo, il Vaticano ottenne solo una dichiarazione aggiuntiva annessa al Trattato. Invece, ecco che qualche anno dopo, nella bozza del Trattato costituzionale europeo, appare un articolo sullo status delle chiese, questa volta all’interno del trattato stesso, nonostante un folto gruppo di parlamentari, fra cui gli italiani Lamberto Dini e Elena Paciotti, ne avessero chiesto la soppressione per vari motivi ma soprattutto perché l’Unione non ha, e la Convenzione non ricerca, una competenza nel settore della teologia o della filosofia.
La tattica seguita dalle gerarchie cattoliche per arrivare a tanto è stata duplice: chiedere due cose per ottenerne una e alzare un gran polverone su quella rinunciabile – la menzione delle radici cristiane – in modo da far passare quella irrinunciabile contenuta nell’art. 17 del nuovo trattato, difficile da far ingoiare ad una popolazione secolarizzata come quella europea.
L’articolo 17 rassicura il Vaticano circa tre obiettivi prioritari. Primo: il riconoscimento della dimensione istituzionale della libertà religiosa. Secondo il Vaticano, la dimensione religiosa si estende a tutto ciò che riguarda l’essere umano e siccome la chiesa si proclama «esperta in umanità» è giusto che le sia riconosciuto uno status specifico, diverso da quello attribuito alle associazioni della società civile. Secondo: la facoltà per le chiese di intervenire su quei progetti di legge europei considerati di loro competenza prima che tali progetti arrivino in aula. Con ciò la chiesa cattolica, ente privato i cui rappresentanti non sono eletti dai propri fedeli, entra a far parte del processo legislativo europeo provocando un duplice danno: la delegittimazione del parlamento, poiché i membri eletti non bastano più a rappresentare le istanze degli elettori e l’inquinamento del sistema di democrazia rappresentativa, pilastro dello stato di diritto.
Terzo: l’esenzione da quelle leggi e normative europee che sono in contrasto con la dottrina morale cattolica. Ciò riguarda in particolare la facoltà per le organizzazioni cattoliche che gestiscono servizi pubblici quali scuole, ospedali, ecc. di discriminare i propri dipendenti in base alla loro religione e scelte di vita. È ciò che accade già in Italia per gli insegnanti di religione la cui assunzione o permanenza in servizio possono essere bocciate dalla diocesi di appartenenza qualora questa consideri che non si attengono alla morale cattolica.
Per Papa Benedetto XVI l’articolo 17 garantisce i «diritti istituzionali» delle chiese. Che cosa ne pensano i nostri rappresentanti che hanno votato a favore del Trattato di Lisbona non ci è dato sapere.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20091129/pagina/10/pezzo/265893/
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Unione europea, cambio di partita 01.12.2009
Ida Dominijanni
Data storica, oggi, per l’Unione europea: insieme con il Trattato di Lisbona entra in vigore anche la Carta europea dei diritti, siglata nove anni fa, dicembre 2000, dopo un percorso non poco accidentato, e accolta, nella sinistra italiana, con alterne valutazioni. Festeggiamo l’evento con Stefano Rodotà, che della Carta è stato fra gli estensori ed è convinto sostenitore.
Rispetto al 2000, quando la Carta fu licenziata, il contesto europeo in cui oggi entra in vigore è migliorato o peggiorato, dal punto di vista della politica dei diritti?
Fra allora e oggi c’è di mezzo l’11 settembre 2001, con le tensioni securitarie che ha scatenato in tutto il mondo, Europa compresa. D’altra parte, sulla politica dei diritti ha pesato in Europa positivamente la spinta di Zapatero. Complessivamente direi che c’è un lieve peggioramento, per questo e a maggior ragione la Carta diventa più importante. Oggi comincia una nuova partita, con una doppia sfida, politica e culturale.
In un’Europa che va visibilmente a destra, e che si è data un vertice evidentemente di basso profilo?
Dal punto di vista degli assetti politici e di governo, l’avvio della nuova stagione europea non è certo esaltante. Resta vero che l’Europa è un gigante economico e un nano politico, che l’Unione «non ha un numero di telefono» e non è una potenza militare. Ed è vero che la coppia Van Romuy – Lady Ashton è debole – la situazione non sarebbe stata migliore con Blair, che sulla Carta dei diritti ha sempre espresso pesanti riserve e come inviato in Medioriente ha dimostrato una capacità politica pari a zero, mentre sarebbe stata certamente migliore con D’Alema, che nel ruolo di Mr. Pesc sarebbe riuscito a dare un segno positivo alla politica estera dell’Unione.
Nomine a parte, pensare che nella temperie internazionale di oggi l’Europa possa ambire a un ruolo politico e militare di peso rispetto alle vere superpotenze è del tutto irrealistico. Ma se ha una chance, questa sta proprio nella cultura e nella politica dei diritti. L’Europa è la regione del mondo dove la tutela dei diritti è più alta, e questa è una risorsa da giocare e far valere sulla scena internazionale, dove infatti la Carta è già diventata un punto di riferimento. Oggi che le grandi narrazioni novecentesche sono finite, l’unica narrazione che percorre il mondo globale è quella dei diritti fondamentali. Il dissidente birmano, il ragazzo cinese, la donna africana che rivendicano diritti vecchi e nuovi sono i protagonisti di un universalismo tendenziale che si afferma a partire dalla lotte sul campo. In questo processo, un’Europa che sappia mantenere e giocare la sua cultura del diritti oltre l’impronta eurocentrica che storicamente li connota può avere sì un ruolo importante.
Nella sinistra radicale italiana molti hanno obbiettato in questi anni, anche sul ‘manifesto’, che la Carta europea, soprattutto in materia di diritti sociali, istituisce tutele inferiori a quelle della nostra Costituzione.
Ora che la Carta entra in vigore, spero che queste polemiche ce le lasceremo alle spalle. Certo, possiamo decidere di continuare a rimarcare che sui diritti sociali la Carta è più debole della Costituzione, o viceversa, che è più forte e più avanzata nel campo dei diritti afferenti alla biopolitica (sovranità sul corpo, sui dati sensibili etc.). Ma ci conviene continuare con questa contabilità, o c’è un’altra strada da prendere? Io dico che c’è. Il fatto stesso che la Carta esista, che siamo riusciti a vararla contro le resistenze dei paesi più conservatori e più liberisti, ha profondamente intaccato il principio di legittimazione originario della Ue, che era incardinato solo sulla logica di mercato. Con la Carta si è stabilito che tutti gli atti normativi della Ue devono essere ad essa conformi.
Lo sono stati, in questi nove anni?
Sì e no. Ma intanto, le corti l’hanno presa a riferimento, e proprio sui diritti sociali: il primo caso su cui è stata invocata riguardava la retribuzione delle ferie di un lavoratore inglese. Comunque, se fino a oggi si poteva scrivere impunemente «conforme alla Carta dei diritti» su una direttiva Ue non conforme, da oggi in poi diventa possibile invocare il controllo della corte di giustizia. Lo so anch’io che il campo dei diritti sociali è quello meno risolto nella Carta, e sono il primo a soffrire, ad esempio, della mancanza di una affermazione della funzione sociale della proprietà. Ma sia su questo, sia sulla limitazione dell’iniziativa privata, sia sulla qualità dello sviluppo, la struttura assiologica della Carta, che comprende i principi della dignità, dell’uguaglianza, della libertà e della solidarietà, consente ottimi sviluppi. E certamente apre un campo di battaglia: purché la sinistra ci creda e sia pronta a giocare la partita, senza trincerarsi dietro l’assioma che il liberismo ha vinto. Io non gliela voglio dare vinta, voglio combattere, le condizioni ci sono. Finora i giuristi sono stati i più aperti al cambiamento, ora tocca anche agli altri.
Dicevi dei nuovi diritti «biopolitici». Avranno delle conseguenze sulla legislazione italiana?Per cominciare, la tutela dei dati personali metterà dei paletti alle norme securitarie, in Italia e altrove. L’articolo che recita «il corpo e le sue parti non possono costituire oggetto di profitto» è carico di conseguenze. Altro esempio, l’articolo sul vincolo familiare, che elimina la superiorità del matrimonio rispetto alla convivenza, nonché il requisito dell’eterosessualità: l’Italia e gli altri stati nazionali potranno solo «disciplinare l’esercizio» di questa norma, non violarla. Non a caso contro questo articolo la pressione del Vaticano è stata durissima, come pure su quello che limita l’obiezione di coscienza.
L’Europa è attraversata da conflitti di ogni tipo sulla religione e il suo esercizio. Da una parte c’è la sentenza della corte di Strasburgo contro l’esposizione del crocifisso nelle scuole, dall’altra in Svizzera (che non fa parte della Ue, ma dà pur sempre un’indicazione di clima) votano contro i minareti e in Italia la Lega vuole la croce sulla bandiera …
Per la sentenza sul crocefisso la corte non a caso ha fatto riferimento alla Carta. Che rubrica la libertà di religione e di manifestazione individuale e collettiva, pubblica e privata del culto assieme alla libertà di pensiero, senza conferire alla prima alcun piedistallo. Come pure il rispetto delle diversità religiose sta assieme a quello delle diversità culturali e linguistiche. C’è insomma un riconoscimento laico, secolarizzato, della religione. Alcuni vedono un cedimento sul terreno della laicità non nella Carta ma nel Trattato, che all’art.. 17 parla di dialogo fra le chiese e le istituzioni. Ma la Carta fornisce il quadro normativo necessario per contenerlo nei limiti di una Europa laica e secolarizzata. Purché, lo ripeto, alle norme segua la politica. Il diritto può disegnare un quadro di agibilità, ma poi sta alla cultura politica raccoglierne l’opportunità e la sfida.
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2009/mese/12/articolo/1931/
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di Paolo Gerbaudo – LONDRA
MICHAEL HARDT: SUL CLIMA UN NUOVO MOVIMENTO
Il verde E IL NO-GLOBAL 01.12.2009
In vista della Conferenza di Copenhagen i movimenti si preparano a dare battaglia, mentre i negoziatori cercano di aprire la strada a un accordo «politicamente vincolante». Perché di trattato con forza di legge per ora non si parla
Dieci anni dopo le grandi proteste contro la riunione dell’Organizzazione mondiale del commercio a Seattle, un nuovo movimento globale potrebbe nascere sulle strade gelate di Copenhagen, dove tra 6 giorni comincerà una conferenza Onu sul clima che sarà assediata da decine di migliaia di manifestanti. Reduce dalla recente pubblicazione di Commonwealth, libro che completa la trilogia di Impero e Moltitudine, scritta a quattro mani con Toni Negri, e che parla della necessità di costruire nuove istituzioni per gestire i beni comuni, Michael Hardt guarda con fiducia a una mobilitazione che, secondo l’autrice no-global Naomi Klein, segna il passaggio all’età adulta del movimento anti-globalizzazione. Tuttavia non nasconde le difficoltà che la questione del cambiamento climatico pone alla sinistra anticapitalista. «Bisogna trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche di benessere per tutti e i limiti delle risorse naturali. E non si tratta di un compito facile».
Pensi che il movimento che si sta organizzando per Copenhagen sia una continuazione del movimento no-global?
Il ciclo cominciato a Seattle e continuato a Goteborg, Praga e poi Genova, che era caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di gruppi e di conflitti è terminato con l’inizio della guerra contro l’Iraq e l’Afghanistan. Copenhagen è qualcosa di nuovo in cui, penso, si vedranno alcune delle qualità che hanno caratterizzato il movimento contro la globalizzazione neoliberista, tra cui la presenza di forme di organizzazione orizzontale. Però, al momento, non è ancora chiaro se si tratta dell’apertura di un ciclo di dimensione simile a quello «no-global».
Questa volta, le proteste prendono di mira una conferenza che sulla carta punta a salvare l’ecosistema piuttosto che a fare del mondo un grande mercato comune
Diverso è anche l’atteggiamento dei movimenti. A Seattle eravamo contro il capitale globale e bisognava bloccare a tutti i costi quella riunione. In questo caso invece ci confrontiamo con un problema vero che in qualche modo bisogna risolvere e su cui si deve prendere una decisione, ma la si deve prendere in maniera autentica e giusta.
Dall’antagonismo del ciclo no-global a un orientamento più riformista?
Non penso che le due cose si escludano. È vero che è urgente riformare l’economia globale e il rapporto con l’ambiente, perché le riforme sono necessarie e quelle proposte finora sono insufficienti. Ma in questo ambito non vedo una incompatibilità tra riforme e antagonismo. E neppure capisco chi storce il naso se uno chiede riforme sul clima anche a livello statale, e poi vuole costruire una politica radicalmente diversa che guardi oltre lo stato e oltre il mercato.
Qual è secondo te la principale differenza tra gli attivisti che andranno a Copenhagen e quelli che manifestarono a Seattle?
Mi sembra che la gente che si sta mobilitando per Copenhagen sia di due tipi diversi. Da un lato ci sono gruppi anticapitalisti come quelli che andarono a Seattle, dall’altro ci sono gruppi ecologisti. Entrambi questi fronti fanno riferimento a un’idea del bene comune, ma per altri versi sono ancora distanti. Nelle lotte anticapitaliste c’è l’idea dell’illimitatezza dei beni comuni. Invece nel movimento ecologista c’è una coscienza del limite. E in verità la terra, l’acqua, l’ambiente pongono dei limiti. È un conflitto interessante, che non può essere risolto a tavolino dagli intellettuali ma dev’essere risolto all’interno del movimento.
In alcune parti della sinistra anticapitalista sembra esserci una certa allergia verso un modo di affrontare la questione del cambiamento climatico considerato regressivo, perché cozza contro le richieste di benessere e si sposa invece con l’austerità.
È un istinto giusto quello di non fidarsi di coloro che insistono sull’austerità. Tuttavia, sono convinto che in questo ambito bisogna confrontarsi una buona volta sulla questione dei limiti. Questo non vuol dire che bisogna lasciar perdere la nostra battaglia per il benessere per tutti, il «vogliamo tutto» di Balestrini. Ma bisogna pure trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche e i limiti delle risorse naturali. Sono convinto che sia possibile tenere insieme l’illimitata creatività sociale umana e i limiti delle risorse naturali.
Spesso nel dibattito sul cambiamento climatico sentiamo riferimenti all’idea di «dovere»: dovere verso le generazioni future, dovere verso il terzo mondo, o dovere verso il pianeta. Sono discorsi che sembrano fare a pugni con quel concetto di desiderio che sta al centro del filone filosofico su cui tu e Toni Negri avete lavorato. Non è urgente recuperare a sinistra un’idea di dovere?
All’interno della sinistra anticapitalista il rifiuto del concetto di «dovere» viene da una diffidenza verso l’autorità e quindi dal rifiuto dell’autorità del padrone o del partito. Il dovere nel senso di contratto sociale dovrebbe essere distinto dal dovere come «responsabilità» verso la natura ad esempio. Sicuramente confrontare i limiti del desiderio è un compito molto alto. Purtroppo non è un compito facile.
In questi ultimi anni si è parlato molto di decrescita, e questo è un filone di discussione che acquista nuova forza alla luce dell’emergenza clima. Pensi che sia una proposta utile?
Io penso che il discorso che si è sviluppato attorno al concetto di decrescita sconti due grossi equivoci. Prima di tutto bisogna chiarire cosa si intende per crescita, se si intende quella della grande industrializzazione, della produzione di merce materiale, oppure se si intende la crescita di conoscenze, immagini e codici. Questo è un tipo di crescita che secondo me è illimitata e che non produce necessariamente danni all’ecosistema. L’altro equivoco è che non si fa differenza tra mondo dominante e mondi subordinati. Prova a dire in un foro sociale mondiale ai sindacalisti indiani e indonesiani che non devono crescere e quelli ti mandano a quel paese. E a ragione. Perché la questione della crescita è una questione che si pone in maniera diversa per diverse economie. In ogni caso, credo che l’idea di decrescita sia parte di una discussione che è necessario fare e sono felice che nell’avvicinamento a Copenhagen si stia sviluppando un dibattito intenso attorno a questa ed altre questioni.
Che connessione c’è tra crisi finanziaria e crisi climatica? È il cambiamento climatico il sintomo che l’esaurimento delle risorse naturali sta inverando la caduta tendenziale del tasso di profitto prevista da Marx?
Sicuramente c’è un nesso tra la scarsità delle risorse e la difficoltà del capitale globale, ma non mi sembra convincente vedere il motivo principale della crisi economica attuale nei problemi ecologici come fanno alcuni. Di certo, entrambe queste crisi vedono sia il capitale che i governi nazionali in difficoltà, perché i problemi in campo sembrano al di fuori della loro portata e della loro capacità di azione.
Il neoliberismo dato più volte per morto non vuole saperne di tirare le cuoia, mentre non sembra esserci un’alternativa coerente capace di scalzarlo. In un’era segnata dal cambiamento climatico il pensiero ecologista può costituire la base per una tale alternativa? È il verde il nuovo rosso?
È vero che nessuna alternativa al momento è in grado di sostituire il neoliberismo. D’altro canto, ciò che esiste al momento è una sorta di ideologia keynesiana-socialista, che è però di fatto un altro morto che cammina. Io non sono convinto che il conflitto ecologista offra una nuova alternativa teorica, né che il verde sia il nuovo rosso. Credo piuttosto che la questione del cambiamento climatico sia un campo di battaglia dove sviluppare una nuova forma di governo dell’economia alternativa al capitalismo.
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Medvedev: «Contiamo sull’Italia per un trattato con l’Unione europea» 03.12.2009 (visti i tanti accordi fatti)
«Vorrei arrivare a firmare un nuovo trattato fra Russia e Unione Europea» e su questo «contiamo sull’assistenza dell’Italia nel dialogo con l’Unione europea e per la risoluzione dei problemi». Lo ha detto il presidente russo, Dmitri Medvedev, nel corso della conferenza stampa congiunta con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al termine del sesto vertice intergovernativo fra Italia e Russia, tenutosi a Villa Madama. «Sono sicuro che con l’aiuto dell’Italia possiamo sviluppare nuovi rapporti con l’Ue», dopo che «abbiamo aggiustato i nostri rapporti con la Nato, nello spirito di Pratica di Mare, merito del Governo italiano».
Nel corso del vertice italo-russo in corso a Villa Madama sono stati siglati 17 accordi intergovernativi e commerciali: si va dalle energie rinnovabili, alla collaborazione in campo agricolo e al ricoproco riconoscimento dei titoli di studio. Raggiunta un’intesa anche per favorire lo sviluppo delle piccole e medie imprese, sia russe che italiane. Firmati accordi anche nel campo della giustizia, dei beni culturali, dei trasporti e del turismo. Per quanto riguarda le intese commerciali sono stati siglati accordi da Eni, Alitalia, Finmeccanica, Pirelli e Mediobanca.
Berlusconi: «South Stream non è in competizione con Nabucco»
«Continua la collaborazione molto attiva tra Gazprom ed Eni; abbiamo già realizzato Blue Stream, ci apprestiamo a realizzare South Stream che sarà un’opera d’avanguardia» ha detto inoltre il presidente del Consiglio durante la conferenza stampa con il presidente russo Medvedev. Berlusconi ha tenuto a chiarire che «il progetto non é incompetizione con altri gasdotti, ho sentito dire ad esempio il Nabucco. Si tratta solo di opere che servono a garantire a tutti i cittadini europei una fornitura di gas sicura e continua». Medvedev, parlando di South Stream ha detto che «si lavora a pieno titolo sul progetto, la dinamica é molto buona e oggi abbiamo firmato un accordo speciale con gli italiani. La cosa che conta di più é che dobbiamo rispettare il calendario che ci siamo dati».
«Se Putin non esclude di ricandidarsi anch’io non escludo di ricandidarmi» nel 2012 alla guida del Cremlino. Lo ha detto Medvedev nella conferenza stampa che ha chiuso il vertice intergovernativo tra Italia e Russia. Da Mosca in mattinata Il premier russo Vladimir Putin ha annunciato che penserà se partecipare come candidato alle elezioni presidenziali del 2012. È la risposta a una domandadella sua annuale maratona televisiva per la “diretta” con il Paese.
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Gli indignati a senso unico 14.12.2009
MARIO CALABRESI
Ci sono momenti in cui bisognerebbe abolire due parole: ma e però. L’aggressione di un uomo, in questo caso di un primo ministro, è uno di quelli. Di fronte alla violenza non possono essere accettate subordinate, ammiccamenti o tantomeno giustificazioni. Il giorno che la politica italiana tutta lo avrà compreso fino in fondo, allora sarà davvero matura.
Il volto ferito e pieno di sangue di Silvio Berlusconi non può che lasciare sgomenti, non riesco ad immaginare una persona seria o che ami definirsi democratica e perbene che possa avere una reazione diversa.
Se invece la prima cosa che passa in testa è pensare che se la sia cercata o meritata, allora siamo entrati in uno spazio in cui la dialettica politica è degenerata.
Abbiamo ricevuto numerose lettere di persone che spiegano l’accaduto e lo comprendono come reazione ad un governo che definiscono «xenofobo», «antidemocratico» o «razzista». Sono persone che mostrano di essere solidali con gli immigrati e i più deboli, sconvolte per gli attacchi di Berlusconi ai magistrati e preoccupate per la democrazia, ma non toccate da ciò che è accaduto ieri sera. Questo modo di ragionare mi fa paura: come è possibile mostrare sensibilità a senso unico, battersi contro le violenze e poi giustificare un’aggressione, essere democratici e pacifisti e provare soddisfazione per il volto tumefatto di Berlusconi. Significa che l’ideologia continua a inquinare le coscienze, ad oscurare le menti.
Si può pensare che il presidente del Consiglio sia inadatto a governare, essere convinti che le sue esternazioni contro gli altri poteri dello Stato così come contro gli organi di garanzia siano allarmanti e sbagliate, essere preoccupati per quelle leggi «ad personam» che rischiano di peggiorare lo stato della giustizia italiana, ma niente di tutto ciò può giustificare la violenza. C’è una linea che in democrazia non si può passare, un discrimine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è a cui non si può derogare. E dire che sembrerebbe essere chiaro a tutti: tanto che anche a sinistra si invita alla mobilitazione democratica in seguito ad ogni aggressione o violenza. Questo deve valere anche per il leader di un governo di centrodestra, anche per Silvio Berlusconi.
Da ieri sera i blog e Internet sono invasi da battute, ironia, festeggiamenti e dai deliri di chi ci spiega che se l’è cercata. Su Facebook sono già nati decine di gruppi di fans dell’aggressore, Massimo Tartaglia, che in poche ore hanno raccolto migliaia di sostenitori. La rete, purtroppo, mostra ancora una volta di raccogliere il peggio di noi, ma politici e giornali hanno il dovere di non dare sponde, di essere seri e di capire che le giustificazioni ci portano su strade senza ritorno e che non si può continuare ad alzare il livello dello scontro.
E questo riguarda non solo la sinistra ma anche il premier, la sua maggioranza e i giornali che gli sono più vicini. Da mesi quasi nessuno sembra capace di sottrarsi alla tentazione di alimentare il clima terribile in cui viviamo, l’Italia somiglia sempre più ad uno stadio in cui si sente solo la voce degli ultras che gridano mentre incendiano le curve. In questo scontro continuo, in cui si parla soltanto dei destini del premier, si è persa di vista qualunque considerazione sullo stato del Paese e sui suoi bisogni.
Il presidente del Consiglio, a cui va la nostra solidarietà sincera, speriamo sia così saggio da capire che proprio lui – l’aggredito – ora può fare la differenza: può abbassare i toni e aprire la strada per un confronto più civile e rispettoso. C’è da augurarsi che anche tutta l’opposizione lo capisca e sia capace di isolare chi delira.
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Scott Lucas: “È l’ultimo avvertimento” 14.12.2009
«Ma la Guida Suprema non ha ancora deciso la stretta finale»
CLAUDIO GALLO
Scott Lucas, 47 anni, è professore di Studi americani all’Università di Birmingham, il suo blog Enduring America è uno dei punti di osservazione più precisi e aggiornati sulla politica iraniana. Se il presidente Obama gli chiedesse un consiglio, risponderebbe di non farsi imbrigliare nella realpolitik del nucleare ma di riconoscere il peso politico dell’opposizione al regime.
Professor Lucas, qualche agenzia, riportando il discorso di Khamenei di ieri, gli ha fatto dire che dopo il sacrilegio del rogo dell’effigie di Khomeini avrebbe «spazzato via» l’opposizione. Ha detto proprio così?
«No, non mi sembra che abbia usato quelle parole. È stato l’ultimo di una serie di avvertimenti all’opposizione. Bisogna tenere conto che il governo ha fallito il suo tentativo di imbavagliare il dissenso, lo dimostrano i video che riprendono le proteste di ieri nelle università di Teheran, Shiraz e altre città».
Il video dove ancuni giovani bruciano il ritratto di Khomeini è vero oppure è una fabbricazione del Grande Fratello di Teheran?
«Non ho gli strumenti per dire con certezza che sia falso, ma vedo che la gente in Iran tende a diffidare, a non crederci. D’altra parte ancora nelle proteste odierne si vedono studenti portare i ritratti di Khomeini. Il movimento verde ha sempre mostrato rispetto per il padre della rivoluzione: oggi l’ex presidente Khatami ha smentito che l’opposizione abbia mai mostrato ostilità verso Khomeini e nello stesso tempo ha rivendicato il diritto alla protesta».
Su Twitter la Guida Suprema ha esortato i suoi a «mantenere la calma». Che cosa significa?
«Potrebbe significare che non ha ancora deciso il da farsi, che si riserva una decisione. Posso sbagliarmi, ma non credo che nelle prossime ore arresteranno Mousavi e gli altri leader. Siamo alla vigilia dell’anno nuovo islamico e specialmente della festa dell’Ashura, il 27 dicembre, centrale nel mondo sciita. Khamenei teme che possano ripetersi le proteste del giorno di Gerusalemme, a settembre, e allora manda un segnale forte».
E’ possibile che questa accelerazione della repressione sia dovuta al fatto che il regime sente avvicinarsi nuove sanzioni internazionali?
«Non credo che questo legame sia realistico. Anche se non c’è accordo, l’Iran continua a tenere aperto il tavolo nucleare. Oggi il ministro Mottaki ha avanzato la proposta di scambio di una quantità limitata di uranio. Gli Usa hanno subito rifiutato ma il colloquio in qualche modo prosegue, costituendo il maggiore diversivo ai gravi problemi politici interni».
Il presidente Ahmadinejad ha ricevuto ieri una delegazione di Hamas guidata da Khaled Meshaal ma è apparentemente assente sul fronte degli ultimi sviluppi interni, come mai?
«Ahmadinejad si muove a suo agio sul terreno del nucleare e della politica estera ma sulle vicende interne ha un ruolo secondario. Tutti ricordano che nei momenti turbolenti dopo la sua discussa rielezione era praticamente sparito. È chiaro che le decisioni sulla sicurezza interna sono prese direttamente da Khamenei con i ministri dell’Intelligence, dell’Interno e i Pasdaran».
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200912articoli/50357girata.asp
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CINA
Il cielo è nero sopra Linfen città più inquinata del mondo 14.12.2009
Non si distinguono il giorno e la notte, né l’inseguirsi delle stagioni. Tutto è sempre al buio
GIAMPAOLO VISETTI
LINFEN – Nella città più inquinata del mondo il sole si ferma, per qualche ora, tre giorni all’anno. Il resto della vita trascorre al buio. Non si distingue la notte da un mezzodì, o l’inseguirsi delle stagioni. Il cielo nero di un temporale è lo stesso di quello azzurro di un ottobre splendente. I condannati di Linfen, senza potersi chiedere troppi perché, si sono adattati. Quasi tutti, specialmente i bambini, vestono di nero. Fuori di casa, infilano le scarpe dentro sacchetti di plastica.
Nessuno gira senza cappello. Sopra le vie non pende alcun panno steso. Il nemico più visibile è la polvere.
Qui però non c’è la polvere volante che conosciamo. È, piuttosto, un muro nero di sabbia, terra, lapilli, una coltre spessa di cenere che senza sosta si accumula e ricopre ogni cosa, come una nevicata all’inferno. La gente preferisce confondersi con la tenebra, rinunciare ai colori e figuriamoci al bianco, per non vedere il veleno che la uccide.
Questo universo scuro e soffocante, cuore morente dei giacimenti di carbone della Cina, è l’immagine di come può diventare il pianeta, in pochi anni, se l’amore per la natura continuerà ad essere una bugia. È una tragedia sapere che al mondo è possibile che esista un luogo come Linfen: forse l’unico dove gli scolari non sanno come si disegna una luna, o un pugno di stelle.
Fino alla metà del secolo scorso, in Cina Linfen era conosciuta come “la città della frutta e dei fiori”. Quattromila anni fa, fu la capitale del leggendario regno dello Yao, ricco di grano e di carpe che dal Fiume Giallo risalivano le acque del Fen. Oggi sulla superficie popolata da quattro milioni di persone, nella regione dello Shanxi, non c’è un albero e anche i crisantemi per le feste sono di plastica. La sua ricchezza è stata la sua rovina. Le colline attorno alla città custodiscono 260 miliardi di tonnellate di carbone.
In un decennio sono state aperte 2.598 miniere, grandi, piccole, autorizzate o illegali. Ogni anno vengono estratte 650 milioni di tonnellate di carbone, due terzi del fabbisogno nazionale. In un Paese dove il 70 per cento dell’energia elettrica deriva dal carbone, il serbatoio della crescita si è trasformato in uno spaventoso palcoscenico dell’annientamento.
Attorno alle miniere sono sorte raffinerie, stabilimenti siderurgici, fonderie, ogni genere di fabbriche e addirittura industrie alimentari che consumano 50 milioni di tonnellate di carbone all’anno. La popolazione è fatta di povera gente: minatori, operai, ex contadini invecchiati, famiglie di figli unici. Sono ammassati in case rotte che commuovono, nascoste tra montagne di detriti. Chi resta qui non ha alternative, ma sa che la sua vita durerà, per i più robusti, dieci anni in meno della media cinese.
Solo i proprietari delle miniere, o gli alti funzionari del partito, amano un posto così. Ci vengono un paio di volte alla settimana, per fare i conti di profitti favolosi. Non è la polvere, a spaventarli, ma l’invisibile. Nell’aria e nell’acqua sono disperse oltre 200 sostanze tossiche, in concentrazioni. pericolose per la vita. Ceneri, monossido di carbonio, azoto, arsenico, piombo. Tre milioni di individui risultano contaminati. Due bambini su tre soffrono di malattie respiratorie. Il tasso di neonati malformati e di cancro ai polmoni è il più alto del pianeta.
Il 52 per cento delle falde acquifere è “irreversibilmente compromesso”. Miniere e industrie consumano una tale quantità d’acqua, che le abitazioni comuni ne sono sprovviste. L’arsenico, in dieci anni, ha bruciato ogni genere di coltivazione. Chi non muore avvelenato, scompare nelle miniere. In Cina, in cinque anni, le vittime di incidenti sono state poco meno di ventimila. A Linfen, negli ultimi tre anni, 470 in 49 disastri. Una mattina, un autunno fa, 128 persone sono state sepolte dal fango di detriti di ferro accumulati sopra un quartiere. Mai un colpevole.
Solo negli ultimi mesi la “città morta” ha iniziato a preoccupare il governo. Lu Guang, fotografo di coraggio straordinario, ha ritratto per la prima volta l’orrore. Miniere, nuvole di gas, fiumi rossi, campi inceneriti, aria nera. Ma soprattutto migliaia di volti, gli “spettri del mondo”: bambini e adulti mangiati dai tumori, o stravolti da trombosi cerebrali per il consumo di acqua avvelenata, o mutilati nei crolli. Ventimila persone, sotto choc, in poche ore hanno espresso online il loro dolore, la vergogna, la rabbia di consumare la vita per un piatto di riso.
A Pechino il potere si è allarmato. L’inquinamento, assieme alla povertà, è la vera emergenza nazionale, la sola che possa innescare una rivolta di massa. Su venti capitali mondiali dei veleni, sedici si trovano in Cina. La popolazione inizia a non accettare il baratto tra crescita economica e distruzione dell’ambiente.
Un mese fa il governatore dello Shanxi ha così annunciato che entro fine anno le società minerarie della regione saranno ridotte da 2.200 a 100, le miniere da 2.600 a 1000. Privatizzazioni, misure elementari contro gli infortuni, regole anti-corruzione. Lo scandalo di Linfen però continua. Anche adesso, qui. Oltre una nebbia che pare lava, passa una scolaresca: adolescenti già decrepiti, stesi su lettini con le ruote, con la pelle sollevata dalle suppurazioni, la testa che ciondola su un lato. Vanno al prelievo settimanale del sangue e ripetono il passaggio più bello di un poema.
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Eternit, lo scandalo del secolo
Red., 10.12.2009
Più di duemila vittime, cinque paesi coinvolti, migliaia di parti civili al processo contro il gruppo diventato famoso nel mondo per gli ondulati di cemento e amianto, e oggi per la strage ancora in corso di lavoratori e cittadini che hanno inalato la fibra. L’inchiesta è stata condotta dal procuratore Raffaele Guariniello, che commenta: “Serve una giustizia europea sulla salute e la sicurezza”
I primi ad arrivare a Palazzo di Giustizia sono stati i francesi. Indossano giacche a vento leggere arancioni oppure giubbotti salvavita dello stesso colore, e i caschi bianchi antinfortuni. E’ la prima linea di quella multinazionale delle vittime, dal Belgio, alla Svizzera, all’Olanda, alla Francia appunto, che si è radunata oggi a Torino assieme ai familiari delle vittime dei quattro stabilimenti italiani, in occasione dell’avvio del dibattimento del processo Eternit contro il miliardario svizzero convertito all’ecologia Stephen Schmideiny, e il barone belga Jean Louis De Cartier de Marchienne, titolari del gruppo diventato famoso nel mondo per gli ondulati di cemento e amianto, e oggi per la strage ancora in corso di lavoratori e cittadini che hanno inalato la fibra. Sono 2889 le vittime per questo processo per il quale gli imputati sono accusati di disastro ambientale colposo. Di queste oltre 2000 sono i morti, che aumentano di giorno in giorno.
Come testimonia tristemente Rina Ruga, di Casale Monferrato, il cui marito Piero Ferraris si è ammalato ed è morto nel breve spazio di tempo tra l’avvio dell’udienza preliminare nell’aprile scorso, e oggi. Gli hanno diagnosticato un mesotelioma pleurico nel maggio scorso, è morto il 12 novembre, racconta la signora tra le lacrime davanti al tribunale. “Nell’ultima settimana si è chiuso nel silenzio – dice la donna – non ha mai più parlato”. E riferendosi agli imputati: “Bisognerebbe vederli in un letto come i nostri malati”. Storie drammatiche descritte a volte con emozione, a volte in modo asciutto perché ripetute tante volte. Ognuno ha il suo carico di drammi. I minatori di Merlebach, nella Lorena ai confini con la Germania, hanno avuto nella loro miniera di carbone 300 morti e 1500 malati dichiarati ufficialmente, dice il loro rappresentante Franco Dosso, nato a Udine, immigrato in Francia da giovanissimo. E sui cartelli neri sollevati ed esposti dalla delegazione francese durante la manifestazione che attorno a Palazzo di Giustizia ha raccolto alcune centinaia di persone, ci sono le foto di Gilbert, di Pierre, ma anche di Carlo, a testimoniare una mescolanza senza confini di lutti e di disastri. Da Para Y Le Monial, vicino Digione dove ancora è in funzione un impianto Eternit, con 150 dipendenti, sono venuti in 52, in rappresentanza delle 94 vittime accertate dal 1997. Il titolare Guy Cuvelier per la prima volta in Francia, è stato sottoposto a un procedimento penale per omicidio involontario.
I francesi sono venuti soprattutto per questo. Lo spiega Attilio Manerino, per l’associazione Andeva, che riunisce le vittime d’amianto, parlando dal palco improvvisato su via Falcone: “Questo processo è un esempio che renderà dignità alle famiglie e alle vittime”. L’obiettivo dell’accusa, spiegano i pubblici ministeri, è quello di dimostrare che il reato è permanente, perché esistono tuttora contaminazioni di amianto nelle strade, nelle infrastrutture, nelle case e edifici pubblici dei paesi colpiti, a partire da Casale Monferrato e Cavagnolo. Se raggiungeranno il loro scopo, il reato sarà imperscrittibile.
Gli svizzeri diffondono un volantino nel quale spiegano di Niederumen, sede di uno stabilimento del gruppo, diventata la Casale Monferrato elvetica a causa dell’alto numero di perone colpite dalla malattia da amianto. E poco dopo le nove del mattino arrivano anche loro, i testimoni più riconosciuti di questa tragedia, i familiari di Casale Monferrato, la città più colpita dal disastro dell’amianto. Portano cartelli, ma anche un tricolore con una semplice scritta “Eternit giustizia”.
Il procuratore Raffaele Guariniello che ha condotto l’inchiesta dirà a margine dell’udienza pochi minuti più tardi: “Serve una giustizia europea sulla salute e la sicurezza. Colpisce che certi paesi si facciano nel nostro paese e non in altri”. In strada ci sono anche i rappresentanti del sindacato autonomo Sll che ha costituito una rete tra i familiari delle vittime sul lavoro, di qualche collettivo comunista, ma anche dell’associazione Legami d’acciaio, quella nata dopo l’incidente della Thyssenkrupp a Torino. Palazzo di Giustizia intanto e’ quasi totalmente assorbito da questo maxi processo, dove le parti civili sono già 700, 1500 si costituiscono oggi, altre si aggiungeranno in seguito. Tre maxiaule dedicate, la uno dove si celebra l’udienza davanti alla prima sezione del tribunale presieduta da Giuseppe Casalbore, lo stesso che oscurò negli anni 80 le tv di Berlusconi e che a fianco di questo sta conducendo il processo Ifil – Exor, la due e la cinque. Più l’aula magna, più l’auditorium della provincia di Torino messo a disposizione per il pubblico. Sono le dieci quando Casalbore entra in aula, i due imputati come previsto, non sono in aula. Il presidente avverte “E’ lunga la giornata”. Solo l’appello delle parti civili prende molte ore. “Il processo sarà giusto e i suoi tempi saranno quelli necessari per dare giustizia alle vittime e agli imputati”, commenta ancora Guariniello.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13747
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Grecia-Lombardia che correlazione hanno?? 10.12.2009
articolo di Marya Longo
Chiamatelo effetto boomerang della finanza. O dei conflitti d’interesse. Chiamatela casualità. O anche sfortuna. Sta di fatto che la crisi della Grecia rischia di creare seri problemi anche ad uno dei più virtuosi Enti locali italiani: la Regione Lombardia. Poco importa che il Pirellone si trovi a migliaia di chilometri dal Partenone. Se la repubblica ellenica finisse malauguratamente in default, a pagarne le conseguenze sarebbe proprio la Lombardia. Motivo: a garanzia del prestito obbligazionario emesso dalla Regione nel 2002 c’è, per 115 milioni di euro, proprio un bond della Grecia. Se Atene salta, dunque, la Lombardia soffre. Magia della finanza, che per anni ha concatenato i destini di migliaia di debitori l’uno all’altro. «Il Sole 24 Ore» è in grado di documentarlo.
Il “filo rosso” che lega Lombardia e Grecia nasce nel 2002, quando la Regione guidata da Roberto Formigoni decide di emettere un prestito obbligazionario da un miliardo di dollari con scadenza nel 2032. A curare questa operazione ci sono due banche estere: la svizzera Ubs e l’americana Merrill Lynch. La legge consente ad una Regione di indebitarsi a lungo termine, ma – per evitare di far gravare solo sulle generazioni future il peso del rimborso – prevede che venga creato un piano di ammortamento. Di fatto la Regione deve costruire un grosso “salvadanaio” in cui poco a poco deve mettere da parte i soldi che serviranno, nel 2032, per rimborsare l’intero prestito obbligazionario da un miliardo di dollari.
Il problema è che tra la legge e i giusti propositi ci si è messa la finanza a complicare le cose. Così questo gigantesco “salvadanaio”, chiamato dagli addetti ai lavori sinking fund, è stato creato (come accade per prassi) dalle stesse banche che hanno curato l’emissione obbligazionaria: cioè Ubs e Merill Lynch. Il contratto funziona così: la Lombardia paga le rate alle due banche e loro mettono i soldi in questo grosso fondo, con l’impegno a restituirglieli nel 2032. Ovviamente le due banche non tengono i soldi fermi, ma li investono in altre obbligazioni secondo una lista preconcordata. E qui si arriva alla vera magia del sinking fund: dato che alla Regione questo “salvadanaio” deve solo garantire il rimborso del bond da un miliardo di dollari nel 2032, tutto il rendimento aggiuntivo va alle banche. Per contro, se il fondo fa investimenti sbagliati, la perdita grava sulla Regione Lombardia. Insomma: le banche hanno rendimenti senza rischi, la Regione ha rischi senza rendimenti.
E qui arriviamo al punto: Ubs e Merrill Lynch hanno investito i denari che la Lombardia ha già versato in vari titoli obbligazionari. Uno di questi – il più pesante in termini di importo escludendo i BTp – è della Repubblica ellenica: Ubs ha messo nel sinking fund della Regione Lombardia 115 milioni di euro di obbligazioni greche. A provarlo sono i documenti sul sinking fund in mano al «Sole-24 Ore», aggiornati al 30 settembre 2008 (ma da allora nulla è cambiato). Ecco perché oggi la crisi finanziaria di Atene diventa un serio problema per la Lombardia: nel caso (seppur improbabile) di default greco, la Regione perderebbe una cospicua parte dei soldi inseriti nel “salvadanaio”.
Ma c’è dell’altro. Il bond della Grecia inserito nel sinking fund della Lombardia non è un titolo di Stato qualunque, ma un bond che la stessa Ubs aveva anni prima collocato per conto della Grecia. Nell’aprile del 2000 la Repubblica aveva infatti emesso un prestito obbligazionario da 200 milioni di euro con l’aiuto dell’allora Warburg Dillon Read (oggi diventata Ubs). Ebbene: la stessa Ubs due anni dopo ha deciso di mettere più della metà di quei 200 milioni nel sinking fund della Lombardia, che lei stessa ha creato. Così oggi ci si trova nel paradosso: Ubs ha realizzato i profitti (commissioni da Grecia e Lombardia) e la Regione italiana si trova i rischi. Ieri «Il Sole 24 Ore» ha chiesto un commento sia a Ubs sia alla Regione, ma non ha avuto risposte.
Bene inteso: che questa vicenda si concluda a lieto fine è altamente probabile. Va anche ribadito che nessuna legge è stata infranta. Ma questo non cambia il vero problema: per anni la finanza ha legato i debitori di tutto il mondo l’uno all’altro, creando il rischio di un potente effetto domino. La stessa globalizzazione finanziaria che ha portato i mutui subprime in giro per il mondo, oggi ha messo il rischio greco dentro la Lombardia.
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
http://www.lamiaeconomia.blogspot.com
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Con il nikel, l’idrogeno costa meno 09.12.2009
Il metallo potrebbe sostituire il platino nei catalizzatori utilizzati per produrre idrogeno dall’acqua. Uno studio su Science
Se in un futuro non più remoto guideremo macchine con motori a idrogeno o ascolteremo radio alimentate con celle a combustibile, forse sarà anche merito di Alan Le Goff e dei ricercatori del Commissariato per l’Energia Atomica di Parigi. Gli studiosi francesi, infatti, hanno trovato il modo di abbassare il costo di produzione dell’idrogeno a partire dalle molecole d’acqua: fabbricare i catalizzatori necessari alla generazione del gas utilizzando nikel al posto del prezioso platino.
Per scindere molecole d’acqua in ossigeno e idrogeno vengono comunemente usati gli elettrolizzatori, che spesso sono alimentati con energia solare o eolica, così da essere totalmente “green”. Nelle celle a combustibile, poi, avviene il processo contrario: l’idrogeno si combina nuovamente con l’ossigeno in un processo che genera elettricità. Sia negli elettrolizzatori sia nelle celle a combustibile, le reazioni chimiche sono favorite da catalizzatori metallici, il più diffuso dei quali è il platino, costoso e poco reperibile.
Secondo quanto Le Goff riporta su Science però, esistono dei degni sostituti di questo elemento nobile. I ricercatori li hanno costruiti applicando il nikel su dischetti di nanotubi di carbonio. Il metallo, che favorisce la scissione delle molecole d’acqua (promuovendo la conversione reciproca degli ioni idrogeno in idrogeno molecolare), possiede la stessa reattività chimica del platino ma è molto più abbondante e costa circa il 20 per cento in meno. Per costruire i nuovi catalizzatori, i ricercatori ammettono di aver “copiato” il mondo naturale, ispirandosi al funzionamento delle idrogenasi – una famiglia di enzimi responsabile del metabolismo dell’idrogeno nelle alghe e nei batteri.
Esistono dei “però”. La rigenerazione dei catalizzatori di nikel è infatti molto più lenta di quella degli elettrodi al platino, forse a causa dei forti legami tra il metallo e il carbonio. Inoltre, la densità di corrente ricavata dalle celle a combustibile che utilizzano nikel è più bassa di quella dei dispositivi al platino. (m.s.)
Riferimento: DOI: 10.1126/science.1179773
http://www.galileonet.it/news/12164/con-il-nikel-lidrogeno-costa-meno
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