Migranti: provate a vivere un giorno senza di noi 03.12.2009
Non volete immigrati tra i piedi? Benissimo: provare per credere. Nadia Lamarkbi, giornalista francese, ha lanciato l’idea su Internet: cosa succederebbe se il paese si svegliasse domani senza stranieri? Nadia ha aperto una pagina Facebook, titolandola: “Un giorno senza immigrati: 24 ore senza di noi”. Risposta immediata: subito 33.000 le adesioni. L’appuntamento è per il 1° marzo 2010. Quel giorno, in Francia (e non solo) sciopereranno infermieri, bidelli, taxisti, operai, spazzini, baby sitter, lavapiatti e badanti.
«Quello che sembrava uno sfogo provocatorio è diventata un’iniziativa concreta», osserva Luca Galassi su “PeaceReporter”. Una protesta indipendente da qualsiasi gruppo (politico, sindacale, religioso). «Secondo gli organizzatori – continua Galassi – in questo modo la società francese si renderà conto della vera ricchezza dell’immigrazione». Oltre agli stranieri, si chiamano a raccolta tutti i cittadini pienamente consapevoli dell’apporto dell’immigrazione sull’economia e sulla società francese, invitando in piazza chiunque voglia «porre fine alle discussioni nauseabonde sull’identità francese».
Da Parigi, aggiunge “PeaceReporter”, si stanno organizzando sulla rete con un blog dedicato, diversi gruppi territoriali, un forum. «Confidano in un effetto valanga». Yassine scrive su Facebook: «La Francia non ha mai mancato un’occasione con la storia, la Francia non è Sarkoland, saremo in tanti». Mimoun: «E’ l’unica lezione che gli immigrati possono dare a questa società che non riconosce la loro utilità». Soraya: «Non dimentichiamo che i lavoratori sans-papier hanno i lavori più ingrati, tutti i segmenti della popolazione devono essere mobilitati, a partire dai più bisognosi».
Una giornata, ricorda Galassi, che ricorrerà a tre anni esatti dall’entrata in vigore in Francia del “codice di ingresso e soggiorno degli stranieri”, una legge aspramente contestata perchè rappresenta «una visione utilitaristica dell’immigrazione oltreché selettiva, basata su criteri economici».
L’iniziativa ha anche un precedente storico negli Usa, dove il 1° maggio del 2006 centinaia di migliaia di persone di origine ispanica boicottarono tutte le loro attività: lavoro, scuola e consumi. In 600.000 scesero allora in piazza a Los Angeles e in 300.000 a Chicago, con manifestazioni dalla California a New York al grido di «Se ci fermiamo noi, si fermano gli Stati Uniti».
L’eco del ’sans papiers day’ d’Oltralpe ha raggiunto anche l’Italia, e grazie a Facebook si sta diffondendo a macchia d’olio, aggiunge Galassi. «Gli iscritti hanno superato il migliaio, ma l’effetto domino del social network porterà sicuramente alla causa della manifestazione in terra nostrana numeri di gran lunga superiori, considerato che l’iniziativa è prevista tra tre mesi». Chi volesse aderirvi, può incollare sulla barra degli indirizzi la url: http://www.facebook.com/group.php?v=wall&ref=search&gid=208029527639#/group.php?v=wall&ref=nf&gid=208029527639 (info: www.peacereporter.net).
http://www.libreidee.org/2009/12/migranti-provate-a-vivere-un-giorno-senza-di-noi/
—
Dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/
Copenhagen
Il Corriere della Sera parla di una “rivolta degli emergenti” alla conferenza sul clima. Il gruppo dei 77 con la Cina ha sostenuto che la presidenza danese stava cercando di uccidere Kyoto, mettendo fine al meccanismo sulla base del quale gran parte dei Paesi ricchi – ma non gli Stati Uniti – prendono impegni precisi nel taglio delle emissioni, mentre quelli in via di sviluppo sono sollecitati a ridurli ma non vincolati a farlo. E lo stesso quotidiano descrive “il gioco ambiguo della Cina, superpotenza alleata dei poveri”, la cui mano sarebbe dietro al boicottaggio africano. La Repubblica: “Il summit scopre la grinta dei poveri: ‘Niente accordi sulla nostra pelle’. L’Africa minaccia di andare via e finalmente viene ascoltata’. L’inviato a Copenhagen racconta anche come il surriscaldamento minacci la vita dei popoli indigeni: gli abitanti di foreste e zone fredde sono a rischio per i cambiamenti climatici. Anche su La Stampa: “L’Africa si ribella: ‘Dateci più aiuti o ce ne andiamo’”.
—
Obama avverte le banche americane “Vogliamo recuperare aiuti pubblici” 14.12.2009
Il presidente: chiederemo indietro ogni singolo centesimo concesso
NEW YORK
Poche ore dopo avere ricordato di non essere finito alla Casa Bianca «per aiutare un gruppo di ricchi banchieri di Wall Street», il presidente degli Stati Uniti Barack Obama li ha oggi esortati a fare molto di più e a prendere impegni straordinari per il rilancio dell’economia, essendo stati salvati grazie al denaro pubblico.
Spiegando che è sua intenzione recuperare gli aiuti dei contribuenti «fino all’ultimo cent», Obama lo ha detto ai principali banchieri Usa al termine di un ’verticè convocato alla Casa Bianca, un incontro da lui stesso definito «franco e produttivo». La frase, piuttosto critica, nei confronti degli stessi banchieri, era stata pronunciata in una intervista per la trasmissione “60 minutes” della Cbs, in onda ieri. Nel corso dell’intervista il presidente si era detto convinto che alcune delle banche avevano anticipato i rimborsi degli aiuti pubblici per liberarsi da qualsiasi vincolo e garantirsi il pagamento di lauti bonus alla fine dell’anno. Oggi Obama non ha ripetuto le parole di “60 minutes” e non ha avuto neppure i toni particolarmente duri del suo consigliere David Axelrod, secondo cui «la gente non è pronta a tollerare una situazione in cui i banchieri organizzano una festa, fanno pagare il conto agli altri e quindi si distribuiscono elevati bonus rifiutando di prestare denaro».
Ricordando la decisione, annunciata poche ore prima, della Citibank, pronta a restituire allo Stato circa 20 miliardi di aiuti, Obama ha detto: «ci aspettiamo che altri seguano l’esempio». In realtà tutte le grandi banche o quasi hanno annunciato mega rimborsi: restano sotto il controllo pubblico il colosso assicurativo Aig e quelli automobilistici General Motors e Chrysler. Al ’verticè della Casa Bianca non c’erano tutti i banchieri: mancava il numero uno di Citicorp, Vikram Pandit, ma visto l’annuncio odierno del rimborso era scusato. Non sono giunti a Washington a causa della nebbia, ma hanno partecipato all’incontro per videoconferenza tre altri ’pesi massimì: il presidente e Ceo di Goldman Sachs Lloyd Blankfein, i suoi colleghi di Morgan Stanley e di Citigroup John Mack e Dick Parsons. Erano tutti e tre sullo stesso aereo, non si sa se privato o di linea. Al termine dell’incontro Obama ha parlato per circa 5 minuti. Alle banche il presidente Usa ha detto che, visto gli aiuti «eccezionali» ricevuti, «ora che sono di nuovo in piedi ci aspettiamo da loro un impegno straordinario per aiutarci a ricostruire la nostra economia».
Obama ha infine criticato l’atteggiamento dei banchieri nei confronti della riforma delle regole finanziare appena varata dalla Camera dei Rappresentanti, ora al vaglio del Senato. «Ci sono grosse differenze – ha detto il presidente – tra quello che sento qui alla Casa Bianca», con i banchieri che appoggiano la riforma mentre i lobbisti delle banche al Congresso fanno di tutto per affossare il nuovo provvedimento.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200912articoli/50375girata.asp
—
Approvato a larga maggioranza il parere della sesta Commissione che critica duramente il ddl 14.12.2009
“In contrasto con più principi costituzionali avrebbe effetti devastanti”
Il Csm boccia il processo breve “E’ incostituzionale ed è amnistia”
ROMA – Il ddl sul processo breve “è in contrasto con più principi costituzionali ed è un’amnistia per reati “di considerevole gravità”, a cominciare dalla corruzione. Con queste motivazioni il plenum del Csm ha approvato a larga maggioranza il parere della sesta Commissione che, di fatto, ha bocciato il disegno di legge del governo dopo quasi cinque ore di dibattito.
L’approvazione è avvenuta nel corso di una seduta straordinaria. Contrari i laici del Pdl; a favore hanno votato invece i togati di tutte le correnti, i laici del centro-sinistra, il vice presidente Nicola Mancino. Il parere ha messo in luce misure “dannosissime” che rischiano di avere per la giustizia l’effetto di uno “tsunami”.
La relazione che Palazzo dei Marescialli invierà al ministro della Giustizia contiene numerose critiche, alcune molto dure, all’impianto della norma che, secondo i consiglieri, non solo avrà l’effetto di un'”inedita amnistia processuale” per reati di “considerevole gravità”, a cominciare dalla corruzione e dai maltrattamenti in famiglia, e rischia di portare alla “paralisi” l’intera attività giudiziaria.
Ma il ddl sul processo breve determinerà anche “un incremento dei danni finanziari a carico dello Stato”. La critica di fondo è che introducendo termini perentori per la conclusione di ognuno dei tre gradi di giudizio (due anni ciascuno, sei in tutto), al di fuori di “un’ampia riforma di sistema e di misure strutturali organizzative”, di fatto si renderà “impossibile l’accertamento” della fondatezza dell’accusa “per intere categorie di reati”, che è invece la “primaria finalità “di ogni processo. Ecco i principali rilievi di Palazzo dei Marescialli
Incostituzionalità. Il ddl “non appare in linea con l’articolo 111” (giusto processo), nè con l’articolo 24 (diritto alla difesa) visto che “privilegia il rispetto della rapidità formale” ma non garantisce “che il processo si concluda con una decisione di merito”. E non è tutto: “depotenzia lo strumento processuale e irragionevolmente sacrifica i diritti delle parti offese” attraverso il quale lo Stato esercita la “pretesa punitiva”.
Rischio amnistia sopratutto per corruzione. Si “rischia di impedire del tutto l’accertamento giudiziario” e dunque di “vanificare la lotta alla corruzione”, visto che questo reato – che tra l’altro “incide anche sull’affidabilità economica del Paese è già stato pesantemente condizionato dai nuovi termini di prescrizione” previsti dalla ex Cirielli. Ma c’è di più: il ddl è in “netto contrasto con i principi sanciti dalla Convenzione dell’Onu contro la corruzione”.
Irragionevole disparità di trattamento. Il Csm ne segnala più d’una, come la scelta di “riservare le nuove disposizioni al solo giudizio di primo grado”: così si riconosce “ad una categoria di imputati e di parti civili, casualmente identificati il diritto alla celerità processuale che dovrebbe essere, viceversa, garantito a tutti”. “Irragionevole e discriminatoria” è anche l’esclusione dei recidivi, che oltretutto porterà a “un’assurda proliferazione dei processi, capace da sola, di favorire la paralisi dell’attività giudiziaria”. “Discutibile”, inoltre, la “parificazione fra le ipotesi di delitto punite assai gravemente con le contravvenzioni in materia di immigrazione”.
Maggiori danni finanziari per lo Stato. Il ddl determinerà il loro “significativo aumento” visto che farà “lievitare” le domande di indennizzo previste dalla Legge Pinto, quando la giustizia è troppo lenta, riducendo da tre a due anni il termine utile per la celebrazione dei processi e non si accompagna alcuna specifica previsione di spesa, come imporrebbe l’art 81 della Costituzione.
Mancino. “Anziché avere certezze, abbiamo l’estinzione dei diritti, non la certezza della pena”, ha sottolineato il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, spiegando il suo voto favorevole al parere. “Ho l’impressione – ha aggiunto Mancino – che anziché avere un’accelerazione, alla fine ci sarà un allungamento dei tempi dei processi, la loro estinzione e la riproduzione di conseguenze in campo civile con un ulteriore aggravio”. Il numero due di Palazzo dei Marescialli, inoltre, ha ribadito che il Csm “non ha poteri di bocciatura: trasmetteremo il parere al ministro che può farne l’uso che vuole. Ma mi chiedo: chi ha paura dei pareri?”.
—
L’analisi e la proposta degli economisti della New economics foundation (Nef)
“Collegare gli stipendi al contributo di benessere che un lavoro porta alla comunità”
I banchieri? Un danno per la società “Vale di più l’operatore ecologico” 14.12.2009
di CRISTINA NADOTTI
Vale più un addetto alle pulizie, soprattutto se in ospedale, che un banchiere. In più, il secondo crea anche problemi alla società. Sembra tanto l’affermazione fatta da un qualsiasi avventore di bar e invece è la conclusione della ricerca elaborata dal think tank della New economics foundation (Nef), un gruppo di 50 economisti famosi per aver portato nell’agenda del G7 e G8 temi quali quello del debito internazionale.
Il Nef ha calcolato il valore economico di sei diversi lavori, tre pagati molto bene e tre molto poco. Un’ora di lavoro di addetto alle pulizie in ospedale, ad esempio, crea dieci sterline di profitto per ogni sterlina di salario. Al contrario, per ogni sterlina guadagnata da un banchiere, ce ne sono sette perdute dalla comunità. I banchieri, conclude il Nef, prosciugano la società e causano danni all’economia globale. Non bastasse questo, valutano ancora gli economisti impegnati in un’etica della finanza, i banchieri sono i responsabili di campagne che creano insoddisfazione, infelicità e istigano al consumismo sfrenato.
“Abbiamo scelto un nuovo approccio per valutare il reale valore del lavoro – spiega il Nef nell’introduzione alla ricerca – . Siamo andati oltre la considerazione di quanto una professione viene valutata economicamente ed abbiamo verificato quanto chi la esercita contribuisce al benessere della società. I principi di valutazione ai quali ci siamo ispirati quantificano il valore sociale, ambientale ed economico del lavoro svolto dalle diverse figure”.
Un altro esempio che illustra bene il punto di partenza del Nef è quello della comparazione tra un operatore ecologico e un fiscalista. Il primo contribuisce con il suo lavoro alla salute dell’ambiente grazie al riciclo delle immondizie, il secondo danneggia la società perché studia in che modo far versare ai contribuenti meno tasse.
“La nostra ricerca analizza nel dettaglio sei lavori diversi – si legge ancora nell’introduzione – scelti nel settore pubblico e privato tra quelli che meglio illustrano il problema. Tre di questi sono pagati poco (un addetto alle pulizie in ospedale, un operaio di un centro di recupero materiali di riciclo e un operatore dell’infanzia), mentre gli altri hanno stipendi molto alti (un banchiere della City, un dirigente pubblicitario e un consulente fiscale). Abbiamo esaminato il contributo sociale del loro valore e scoperto che i lavori pagati meno sono quelli più utili al benessere collettivo”.
La ricerca, infine, smonta anche il mito della grande operosità di chi ha lavori ben retribuiti e di grande prestigio: chi guadagna di più, conclude il Nef, non lavora più duramente di chi è pagato poco e stipendi alti non corrispondono sempre a un grande talento. Eilis Lawlor, portavoce della Nef, ha voluto però precisare alla Bbc: “Il nostro studio vuole sottolineare un punto fondamentale e cioè che dovrebbe esserci una corrispondenza diretta tra quanto siamo pagati e il valore che il nostro lavoro genera per la società. Abbiamo trovato un modo per calcolarlo e questo strumento dovrebbe essere usato per determinare i compensi”.
—
Solare dallo spazio? Dalla fantascienza alla scienza 11.12.2009
Di Alessandro D’Amato (su http://www.giornalettismo.com/)
Una nuova prospettiva per l’ambiente: per la prima volta al mondo in California è stato approvato un progetto per la realizzazione del primo impianto ad energia fotovoltaico situato in orbita
Sembra fantascienza, e in effetti ricalca un’idea uscita da un libro di Isaac Asimov, il quale nel 1941 (nel suo romanzo Reason) immaginava una stazione spaziale che raccoglieva energia e la inviava al nostro pianeta.
Eppure è tutto vero: entro il 2016 diverrà operativo il primo parco solare orbitante intorno alla Terra; l’impianto, che sfrutterà una tecnologia inedita creata da ingegneri aerospaziali che hanno lavorato per la Boeing e per la Nasa, genererà una potenza di 200 megawatt.
Ma come sarà resa fruibile? L’energia solare raccolta nello spazio verrà convertita in onde a radiofrequenza, che verranno irradiate ad una stazione a terra vicino a Fresno, in California. Le onde radio saranno poi trasformate nuovamente in energia elettrica e immesse nella rete elettrica. Per rendere meglio l’idea considerate che la Tv satellitare funziona più o meno allo stesso modo, anche se il suo fine non è quello di genererare energia.
“A livello concettuale, i vantaggi di questo progetto sono significativi”, ha detto Michael Peevey, presidente della California Public Utilities Commission, nel corso di una conferenza tenutasi al scorsa settimana. “Questa tecnologia potrebbe offrire un accesso illimitato nel tempo a una fonte inesauribile di energia pulita, e mentre non c’è dubbio che ci saranno molti ostacoli da superare, sia di tipo regolamentare che tecnologico, è altrettanto difficile mettere in discussione l’audacia del progetto”.
Ma come è nato il progetto? L’idea parte dalla Solaren, una start up della California del Sud, che si occuperà della progettazione, costruzione e messa in orbita dei componenti per l’impianto di energia solare.
Inoltre venderà l’energia elettrica generata alla Pacific Gas and Electric – la maggiore società distributrice nel Nord della California – nell’ambito di un contratto di 15 anni. Se i piani verranno rispettati, nel 2016 ci sarà la prima casa illuminata con energia proveniente direttamente dallo spazio.
La Solaren, fondata da ingegneri veterani della Hughes Aircraft, della Boeing e Lockheed, utilizzerà una tecnologia innovativa protetta da un brevetto proprietario: costruirà uno specchio fluttuante gonfiabile di un km (0,62 miglia) di diametro denominato Mylar che raccoglierà la luce nello spazio; poi l’energia verrà concentrata su uno specchio più piccolo e i raggi, a loro volta, verranno raccolti da moduli fotovoltaici.
Poter aprire, gonfiandolo come un palloncino, lo specchio in orbita risolverà i problemi che fin a ora avevano reso impossibile la realizzazione di un impianto simile. Infatti Gary Spirnak, direttore esecutivo di Solaren (con esperienze nella progettazione e nell’organizzazione dei voli effettuati dallo Shuttle per la United States Air Force) ha spiegato che “il problema principale per poter rendere economicamente redditizio un parco solare nello spazio è quello di abbattere al massimo il peso della struttura per ridurre il numero di lanci di razzi” e ha continuato “Al momento attuale bisogna riconoscere che realizzare un impianto di energia solare nello spazio costa qualche miliardo di dollari più di un parco fotovoltaico terrestre e genera una quantità equivalente di energia elettrica”.
E allora perché continuare?
Un particolare interessante è che la quantità di energia da sfruttare è immensamente maggiore: se non ci sono condizioni atmosferiche sfavorevoli a ostacolare l’approvigionamento, praticamente l’unico impedimento è il sopraggiungere dell’oscurità.
Per far capire meglio Spirnak spiega: “Calcolate che un solo chilometro di banda di orbita terrestre geosincrona genera un flusso di energia solare in un anno (circa 212 terawatt-anno) pari a quasi la quantità di energia contenuta in tutte le note riserve recuperabili di petrolio convenzionale oggi sulla terra (circa 250 TW- anno)”.
Insomma, una fonte inesauribile tutta da sfruttare una volta superati i problemi iniziali: tutto lascia prevedere che questo sarà solo il primo di una serie di progetti analoghi.
http://green.liquida.it/energie-alternative/solare-dallo-spazio-dalla-fantascienza-alla-scienza.html
—
nel testo approvato dalla Commissione Bilancio
Finanziaria, il governo mette la fiducia Ma Fini contesta: «Scelta deprecabile» 15.12.2009
L’annuncio del ministro Elio Vito accolto da applausi, poi la maggioranza attacca il presidente della Camera
ROMA – «Pongo la questione di fiducia sull’approvazione dell’articolo due della legge finanziaria nel testo licenziato dalla commissione Bilancio». L’annuncio del ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito è stato accompagnato dagli applausi dei deputati della maggioranza. Applausi che il presidente Gianfranco Fini ha commentato così: «Sono bene augurali».
FINI CONTRO – Ma poi Fini ha bacchettato la maggioranza: «La decisione del governo di apporre la questione di fiducia è legittima ma riveste carattere politico perché attinente esclusivamente ai rapporti tra maggioranza e governo. Ed è per tale motivo che la presidenza della Camera ritiene deprecabile la decisione del governo perché impedisce all’Aula di pronunciarsi sugli emendamenti». Da parte delle opposizioni, spiega infatti Fini, «gli ostacoli all’approvazione sono stati inesistenti».
REAZIONI – Posta la fiducia, si comincerà a votare mercoledì alle 12. Il voto finale sul provvedimento è previsto per giovedì. Nell’attesa non sono mancate le reazioni alle parole di Fini da parte della stessa maggioranza. A cominciare dal ministro leghista Roberto Calderoli: «Dalla presidenza della Camera ci si attende l’applicazione e il rispetto dei regolamenti e della Carta Costituzionale e non certo valutazioni sul fatto se sia deprecabile o meno una richiesta di fiducia, la cui valutazione di merito spetta all’esecutivo, in quanto la richiesta di fiducia è finalizzata proprio a verificare il rapporto fiduciario intercorrente tra la maggioranza e l’esecutivo». Parole di critica a Fini anche da Giancarlo Lehner, deputato del Pdl: «Fini, a questo punto, da un lato si staglia nitidamente come capo di tutte le opposizioni, parlamentari ed extraparlamentari, dall’altro marca la sua separazione dal Pdl. Gli auguro un ottimo proseguimento nel campo opposto». Contro Fini anche Osvaldo Napoli, vicepresidente del Pdl: «Il presidente della Camera indica scelte politiche che non gli competono. La sua posizione è insostenibile. Lui non dirige più i lavori d’Aula, ma detta scelte che spettano al governo. Neppure può scambiarsi per il leader dell’opposizione». Critiche anche da Sandro Bondi, coordinatore del Pdl: «La decisione e soprattutto la valutazione espressa dal presidente della Camera sono destinate a non aiutare l’apertura di un clima politico nuovo di cui l’Italia ha bisogno». La sintesi di tutto ciò si trova nella nota dei capigruppo di Pdl e Lega Fabrizio Cicchitto e Roberto Cota, che hanno sottolineato che la questione di fiducia appartiene «alla competenza e alle valutazioni del governo e della maggioranza» tanto da essere una scelta «certamente del tutto fisiologica e naturale». Parole che il ministro dell’Economia Giulio Tremonti condivide «pienamente». Conversando a Montecitorio con parlamentari della maggioranza, Tremonti avrebbe confidato di «riconoscersi pienamente ed esclusivamente nel testo della nota congiunta dei capigruppo».
L’OPPOSIZIONE – Sul fronte del Pd, Dario Franceschini rileva: «Nella maggioranza ci sono problemi politici irrisolti che emergono puntualmente. E la fiducia è l’unico modo per tenere insieme questa maggioranza». Secondo il segretario Pier Luigi Bersani «le osservazioni di Fini sono più che motivate». Più volte, aggiunge, abbiamo detto «che vanno raccolti gli elementi di disagio e di proposta che vengono dal Paese e che il Parlamento sia messo nelle condizioni di lavorare. Invece tutto viene messo a tacere con continui voti di fiducia. Così non si può andare avanti. Siamo di fronte a una situazione ingestibile».
—
La farsa della pace 16.12.2009
MICHELE BRAMBILLA
Com’era facilmente prevedibile, siamo già qui a officiare il funerale del «normale e civile confronto» invocato dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il «normale e civile confronto» in Italia rientra a pieno titolo fra tutte le più belle cose cantate da Fabrizio De Andrè: vivono solo un giorno, come le rose.
Un giorno in cui s’è dato sfoggio a tutta quella retorica che è lì, nel vocabolario dei politici, sempre pronta a essere riesumata. La retorica per la quale la condanna è sempre ferma; la solidarietà piena; lo sdegno unanime; l’aggressione vile; la spirale pericolosa; la preoccupazione profonda; il monito severo. Quanto fossero sinceri certi buoni propositi, lo abbiamo visto già ieri. L’«auspicato dialogo» (altro termine-totem) centrato «sulla politica e sui problemi della gente», piuttosto che sugli attacchi personali, è ripreso a colpi non di fioretto, ma di cannone.
Non è nostra intenzione fare una classifica per stabilire chi s’è rivelato più incontinente. Tuttavia non può non colpire un fatto. Nelle ore successive al ferimento del premier, è stato il centrodestra a reclamare a gran voce – e a ragione – un abbassamento del livello dello scontro. Sarebbe stato quindi ovvio attendersi un comportamento che desse immediatamente il buon esempio. E invece si è partiti da un attacco del Giornale, già lunedì mattina, che ha parlato di «una regia dietro la violenza» in un articolo che ha indotto Pier Ferdinando Casini a sporgere querela. E stiamo parlando di Casini: non di un incendiario.
Ieri mattina poi, alla Camera, il capogruppo del Pdl Cicchitto ha dato dei mandanti morali al gruppo editoriale Repubblica-Espresso e ad «alcuni pm», e del «terrorista mediatico a Marco Travaglio». Anche Travaglio farà querela. Era stato tirato in ballo pure da Capezzone e dal condirettore del Giornale Sallusti, e ieri ha risposto loro su Il Fatto ricordando, a proposito di «normale e civile confronto», Berlusconi che dà dei «coglioni» agli italiani che non votano per lui; «l’uso criminale della tv» attribuito a Enzo Biagi; Sgarbi che dà degli «assassini» ai pm di Milano e Palermo; il pedinamento del giudice Mesiano; le false accuse al direttore di Avvenire Dino Boffo «di essere gay» e a «Veronica Lario di farsela con la guardia del corpo».
Insomma à la guerre comme à la guerre. Di Pietro, tanto per guardare anche dall’altra parte, era stato uno dei primi, già domenica sera, a ignorare l’appello ad abbassare i toni. Però ieri quando lui ha cominciato a parlare alla Camera, l’intero gruppo del Pdl ha lasciato l’aula: e non è un bel modo per gettare acqua sul fuoco. Così come benzina, e non acqua, ha gettato subito dopo sul fuoco il parlamentare dell’Idv Barbato, che ha definito il Pdl «popolo della mafia». Altri titoli di ieri. Il Giornale: «La Bindi? L’avevo detto: è più bella che intelligente»; «E Travaglio insiste: Si può odiare il premier»; «Bersani dagli insulti alle lacrime di coccodrillo». Perché ce n’è anche per il Pd: «La famiglia di Tartaglia ha detto di aver sempre votato per il Pd. Coincidenza pure questa?». Titoli visti, invece, su Libero: «In Italia si respira guerra. E la colpa è dei compagni»; «Le toghe tirano due statuette».
Intendiamoci. Il centrodestra ha ragione quando dice che da tempo contro Berlusconi s’è scatenata una caccia all’uomo che travalica ogni legittima critica politica. A quest’uomo vengono addebitati tutti i mali possibili e immaginabili, terremoti compresi. Resta però bizzarro invocare una tregua a Berlusconi sanguinante e infrangerla a Berlusconi ricoverato.
Il timore è che nessuno dei due «partiti» abbia intenzione di deporre le armi. Ieri un editoriale su Repubblica di Aldo Schiavone terminava con questa affermazione: «Non abbiamo bisogno di intelligenze “al di sopra delle parti”, né abbiamo bisogno di edulcorare le nostre asprezze». Schiavone definisce simili atteggiamenti come «finzioni» e «ipocrisie». Sarà. Ma crediamo di non sbagliare se diciamo che in Italia c’è una maggioranza che vorrebbe una politica meno da ring, e che vorrebbe giudicare fatto per fatto, idea per idea, senza essere prigioniera di due curve di ultrà che rinunciano a pensare con la propria testa. È l’Italia che ha conservato non solo modi civili, ma anche uno sguardo senza pregiudizi sulla realtà.
---
Italia, equo compenso mobile 15.12.2009
Si apre il dibattito sull’opportunità di estendere l’equo compenso ai telefonini. Intervengono Parisi, Presidente asstel, FIMI e SIAE. Rilanciata l’idea Legal Bay e di una licenza unica
Roma – SIAE e FIMI rispondono a Stefano Parisi, l’AD di Fastweb e presidente di Asstel, che nei giorni scorsi aveva anticipato l’intenzione di estendere l’equo compenso ai telefonini attraverso un decreto del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi. La quota spettante ai detentori dei diritti sul prezzo di apparecchi teoricamente utilizzabili per effettuare copie di materiale protetto da proprietà intellettuale, come masterizzatori e videoregistratori, ma anche CD, memory card e hard disk, veniva fortemente criticata dal presidente di Asstel come un attacco diretto all’ICT.
In un comunicato Confindustria Cultura Italia (CCI), che comprende tra le altre FIMI, AGIS, ANICA e UNIVIDEO, ha fatto riferimento direttamente alle parole di Parisi, giudicandole un intervento interessato solo a raccogliere il consenso parlando di argomenti a colpo sicuro: tasse e telefonini, ovvero l’odi et amo del popolo italiano. Secondo CCI Parisi sorvolerebbe scientemente sulla necessità, sentita da anni, di un decreto che aggiorni i compensi sui supporti e gli strumenti che consentono di realizzare copie ad uso personale in linea con quanto avvenuto in Europa. Sarebbero quattro anni, insomma, che le tariffe non sarebbero adeguate mancando un decreto ad hoc.
Nel comunicato si sottolinea inoltre come Parisi dimenticherebbe inoltre di mettere in luce che i telefonini e gli altri prodotti elettronici, nonostante tale mancanza di equiparazione, costerebbero in Italia già più che all’estero. E, secondo FIMI, potrebbe sostenere che la colpa sia imputabile all’industria dei contenuti “solo chi impunemente aumenta i suoi margini a danno della giusta remunerazione di tutte le altre categorie”.
Dal momento, poi, che un’indagine condotta nel 2009 mostra che i cellulari con supporto multimediale sono più utilizzati (19 per cento) per sentire la musica dello stesso iPod (18 per cento), il lettore maggiormente diffuso, mantenere la differenziazione significherebbe creare una disparità di trattamento fiscale tra prodotti concorrenti.
SIAE, che gestisce un equo compenso di oltre 60 milioni di euro, concorda con FIMI sulla possibilità di estendere il principio ai nuovi apparecchi: innanzitutto sottolinea che non si tratta di una tassa ma di “una remunerazione per il lavoro di autori, editori, produttori, artisti e interpreti”. Non adeguare le tariffe e non allargarle ai nuovi mezzi offerti dalla tecnologia significherebbe a parere di SIAE “penalizzare fortemente l’intera industria italiana dei contenuti” nel quadro di un’anomalia italiana costituita da equi compensi inferiori ma costi maggiori degli apparecchi dell’ICT.
La SIAE ha parlato di nuove tecnologie anche al convegno Anart-Ideona che affrontava il tema dell’autore nella tv (digitale, satellitare e web): è stata l’occasione per ribadire l’impegno preso con l’iniziativa Legal Bay, la piattaforma legale per rispondere alle domande dei “12 milioni – secondo le stime del collettore dei diritti degli autori – di consumatori” che attualmente si rendono pirati in Rete, con un danno di circa “300 milioni di euro”. “Per arginare questo fenomeno – ha detto Virginia Filippi, consulente per la Multimedialità della SIAE – siamo da tempo impegnati su questo fronte in contrapposizione a Pirate Bay”.
Si tratterebbe, a parere della collecting society italiana, di una soluzione di compromesso per ovviare alle difficoltà di controllo poste dall’evoluzione tecnologia, basata in particolare su una licenza unica SIAE con i grandi operatori, “una soluzione – spiega Filippi – simile a quella a suo tempo adottata per combattere, legalizzandole e assoggettandole a imposta, le scommesse clandestine”.
Claudio Tamburino
http://punto-informatico.it/2771601/PI/News/italia-equo-compenso-mobile.aspx
—
USA e Russia per il cyberdisarmo 15.12.2009
Le due potenze sarebbero in trattativa per la riduzione di armi tecnologiche interconnesse. Ma le parti hanno una visione contrastante sulle finalità ultime dei colloqui
Roma – Da ipotesi messa in campo dalla politica e dalle aziende che si occupano di sicurezza, la cyber-guerra fredda si trasforma in qualcosa di molto più concreto al punto da essere oggetto di colloqui riservati tra Stati Uniti, Russia e comitato per la non proliferazione delle armi dell’ONU. Lo rivela il New York Times citando fonti anonime e non solo vicine alla questione, e parlando di disaccordo tra le parti sul reale obiettivo del disarmo telematico prossimo venturo.
Secondo le suddette fonti, da quando alla Casa Bianca c’è Barack Obama l’approccio alla cyberwar è cambiato, e ora l’amministrazione statunitense riconosce apertamente che c’è stato un vero e proprio armamento tecnologico da parte di varie nazioni, nell’attesa di scatenare una guerra alle infrastrutture della società dell’informazione che risulterebbe devastante e ancor più pericolosa data la scarsa consapevolezza e permeabilità dell’opinione pubblica sull’argomento.
Le cyber-armi come le botnet e le reti malevole opportunamente istruite a colpire certi bersagli sono state dunque l’oggetto di colloqui preliminari tra USA e Russia, colloqui che secondo il vice-direttore dell’Institute of Information Security di Mosca Viktor Sokolov si sono svolti “in una buona atmosfera” e che hanno costituito solo un momento di un processo che avanza in maniera positiva.
Entrambe le parti (con l’ONU a fare da cornice e stimolo per una decisione a due) sono d’accordo sull’esistenza del problema, mentre a dividerle sarebbe l’obiettivo ultimo dei colloqui. La Russia vorrebbe limitarsi a vedere i colloqui come un mezzo per ratificare una sorta di trattato di “non proliferazione cybernetica” alla stregua di quello scaturito dalla Guerra Fredda dei missili e delle bombe atomiche, ma gli Stati Uniti starebbero pensando anche a incrementare la cooperazione internazionale nella lotta al crimine telematico.
Si tratta di un approccio perfettamente in linea con quello sin qui seguito dagli USA in merito al trattato ACTA contro la contraffazione, che prevede il rafforzamento delle misure di contrattacco cyber-militare come conseguenza dell’inasprimento della lotta al cybercrime. I colloqui, però, sono solo agli inizi: il prossimo round è previsto per il prossimo gennaio, con un discorso da parte di rappresentanti di USA e Russia a un incontro annuale sulla sicurezza che si terrà in Germania.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2771009/PI/News/usa-russia-cyberdisarmo.aspx
—
Dai netizen la carta dei diritti di Internet 15.12.2009
Il Partito Pirata lancia un’iniziativa per arrivare a un documento da presentare al Parlamento Europeo. Tra neutrality e diritto alla privacy, la stesura sarà collettiva. Invitati a partecipare, tutti i cittadini della Rete
Roma – Ha invocato lo sciame dei cittadini della Rete, un’industriosa intelligenza collettiva per arrivare alla stesura definitiva di quella che dovrebbe essere una carta dei diritti di Internet. Christian Engström, rappresentante nel Parlamento Europeo del Partito Pirata (Piratpartiet), ha espresso le sue più ferme intenzioni di lavorare alla bozza di una Internet Bill of Rights, affinché una versione definitiva possa presto essere sottoposta al vaglio delle autorità dell’Unione Europea.
Il progetto di scrittura, frutto delle idee di Engström e del partito europeo dei Verdi, rimane attualmente nella sua fase embrionale, vista la particolarità della proposta lanciata. “Non abbiamo ancora scritto alcunché – ha scritto Engström sul proprio blog – e vogliamo iniziare a farlo in una maniera innovativa”. Subito dopo, infatti, è comparso un invito rivolto a tutti quelli che vorranno partecipare alla stesura della carta dei diritti della Rete, a partire da due argomenti precisi di discussione.
Il primo di questi argomenti è incentrato su una domanda in particolare: cosa dovrebbe essere inserito in questa carta. Engström ha parlato in pratica di principi base da rendere punti salienti del documento, suggerendone tre fin dal principio. Nella Rete dovrebbero innanzitutto essere rispettati gli articoli 8 (sulla privacy) e 10 (sulla libera informazione) della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Ciò a significare che su Internet dovrebbero innanzitutto essere rispettati i fondamentali diritti dei cittadini in quanto tali.
In seguito, gli operatori della Rete dovrebbero fornire una connettività trasparente e non discriminatoria, senza distinzione di contenuti, applicazioni e servizi. È il principio della neutralità della Rete, successivamente accompagnato da un altro principio basilare secondo Engström: quello del mere conduit, per mettere al riparo la responsabilità di un provider da eventuali azioni illecite dei propri utenti.
Il Piratpartiet ha poi invitato a riflettere su quali documenti già esistenti debbano essere implementati con la tecnica del copia e incolla all’interno dell’ipotetica carta dei diritti di Internet. Engström ha suggerito la già citata convenzione europea oltre che i principi della FCC statunitense a regolare la net neutrality. Qualcuno, tuttavia, ha espresso i propri disincantati dubbi, sostenendo che proprio questi principi siano difficili da implementare per vari motivi, non ultimo quello relativo ad una quasi utopica liberalizzazione del file sharing.
“Governi del mondo dell’industria, voi stanchi giganti di carne e d’acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della mente. A nome del futuro chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Noi siete graditi tra di noi. Non avete alcuna sovranità sui luoghi dove ci incontriamo. Non avete alcun diritto morale di governarci e non siete in possesso di alcun metodo di costrizione che noi ragionevolmente possiamo temere”. Era John Perry Barlow, dissidente cognitivo e co-fondatore della Electronic Frontier Foundation. Da Davos, l’8 febbraio del 1996.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2771002/PI/News/dai-netizen-carta-dei-diritti-internet.aspx
—
Sun Catalytix: Energia Solare Anche di Notte. Dal MIT e Daniel Nocera il Brevetto Diventa Realta’. In Arrivo fra Cinque, Sette Anni Rivoluzionaria Tecnologia Solare + Idrogeno a Basso Costo 14.12.2009
Da circa un anno il professor Daniel Nocera, del Massachusetts Institute of Technology, sta lavorando a Sun Catalytix, un sistema “vecchio come le colline” per produrre energia elettrica, di giorno e di notte, sfruttando una fonte rinnovabile e inesauribile come il sole.
Solitamente i pannelli solari fotovoltaici sono collegati a un inverter che ricarica le batterie o che immette energia elettrica direttamente nella rete. Il sistema del professor Nocera invece riproduce artificialmente la fotosintesi: i pannelli solari, tramite un elettrocatalizzatore, producono idrogeno, il quale viene poi immagazzinato (per la notte) o usato per alimentare una caldaia a celle di combustibile.
La caratteristica piu’ importante di questo impianto e’ la sua versatilita’: puo’ essere realizzato anche a livello domestico, con materiali abbastanza economici ed e’ in grado di lavorare con qualsiasi tipo di acqua.
Durante le sue conferenze Daniel Nocera mostra sempre una bottiglia d’acqua: “Tutte le esigenze di una famiglia in fatto di energia elettrica di notte potrebbero essere immagazzinate in cinque bottiglie d’acqua”
Qui: http://www.genitronsviluppo.com/2009/12/14/sun-catalytix-daniel-nocera/
---
16/12/2009 – “IL NOSTRO MICROSCOPIO RIESCE A COMPRIMERE LA LUCE E OSSERVA STRUTTURE CHE ERANO DA SEMPRE INVISIBILI”
L’occhio che spia nelle cellule
Invenzione di un team italiano: vede fino a sette miliardesimi di metro
MARCO PIVATO
Cinquant’anni fa, il 29 dicembre 1959, all’Amercan Physical Society del Caltech, il California Institute of Technology, il visionario fisico Richard Feynman regalò agli studenti la sua più preziosa allucinazione: «C’è un mondo immenso, più in basso, un mondo dove la forza di gravità non si avverte e altre forze, come la repulsione elettrostatica, prevalgono su tutte».
La lezione si chiamava «There’s plenty of room at the bottom» – c’è un sacco di spazio là sotto – e introduceva per la prima volta nella storia della scienza il concetto di nanotecnologia, la possibilità di vedere e manipolare la materia su scala atomica: «Per quanto ne so, i principi della fisica non impediscono di manipolare le cose atomo per atomo – esclamò quella mattina Feynman – e per questo lancio la scommessa che entro il secolo qualcuno realizzerà tecnologie per navigare tra un atomo e l’altro».
Un record assoluto
Ha sbagliato solo di un decennio. Mezzo secolo dopo quell’intuizione siamo finalmente penetrati nel nano-mondo: un team di ricercatori italiani ha realizzato un microscopio che riesce a distinguere i margini e la composizione della materia a una risoluzione di appena 7 nanometri, cioè 7 miliardesimi di metro. «È il record assoluto a tutt’oggi, dato che il limite di risoluzione si fermava a 14 nanometri». Lo annuncia Marco Lazzarino, dal Laboratorio Tasc di Trieste dell’Istituto nazionale di fisica della materia del Cnr. Il «microscopio a scansione di sonda» di ultima generazione, evoluzione di quelli a scansione per effetto tunnel (Stm), è stata resa nota su «Nature Nanotechnology» e realizzata con le Università di Pavia e di Catanzaro, il Centro di biomedicina di Trieste e l’Istituto italiano di tecnologia di Genova.
Il nano-mondo al microscopio è proprio come lo immaginava Feynman: chi vuole entrarci con l’immaginazione deve pensare a un luogo in cui si «vedono» gli odori, le formiche sono in proporzione come le Alpi e un appartamento apparirebbe come Giove, il pianeta più grande del Sistema Solare. «La tecnologia del nuovo microscopio – spiega Lazzarino – impiega una sonda che, come la punta di un giradischi, passa sulla superficie di un campione, leggendone le infinitesimali flessioni. Poi un’antenna trasforma i dati in informazioni sulla composizione chimica e sulla struttura tridimensionale». E qui finiscono le metafore, perché la fantascienza diventa scienza d’altissimo livello: «La sonda è un cristallo fotonico ed è legata a una guida d’onda plasmonica, un complesso che permette alla luce visibile, formata da fotoni, di rallentare e confinarsi in uno spazio di pochi nanometri». Così, congelata, la luce rallenta fino quasi a fermarsi, e la sua intensità aumenta esponenzialmente, rivelando informazioni altrimenti invisibili.
«Il limite della risoluzione di un microscopio ottico è imposto dalla stessa luce visibile, che ha un “range” d’ampiezza, in lunghezza d’onda, tra 400 e 800 nanometri». Quindi oggetti più piccoli di questo «range» sono proibiti all’occhio umano anche attraverso i microscopi a lenti. Un limite superato dai Nobel per la fisica 1986 Ernst Ruska, Gerd Binnig e Heinrich Rohrer, che nell’82 inventarono il microscopio a scansione per effetto tunnel, il cui potere visivo era ristretto però solo a oggetti metallici, poiché si basava sull’analisi della corrente di elettroni.
Oltre il limite
Le successive evoluzioni della microscopia nanoscopica hanno permesso una risoluzione sempre maggiore, fino a 14 nanometri. Oltre tale limite non era concesso di sapere nulla, oltre alla forma degli oggetti. Nulla, per esempio, sulla composizione chimica. E proprio qui sta l’innovazione del team italiano.
Le applicazioni più prossime – secondo il team – sono nella diagnostica e «nell’individuazione di molecole rilasciate nel sangue dai tumori: così si potranno capire i meccanismi attraverso i quali le cellule cancerose si replicano». Chiarisce Lazzarino, infatti, che «solo con questa tecnologia è possibile penetrare tridimensionalmente nelle caratteristiche strutturali e chimiche dei più piccoli componenti della vita, dalle proteine al Dna, ma soprattutto andare alla ricerca di ciò che ancora non sappiamo esista. La nuova famiglia di strumenti – conclude – è destinata a migliorarsi, fino all’ambizioso traguardo di isolare nuove componenti nel mare delle biomolecole che formano la materia vivente».
Abbiamo visto l’«ignoto spazio profondo», siamo andati indietro nel tempo per scorgere corpi celesti ed embrioni di galassie lontane 15 miliardi di anni. Ma ci abbiamo messo meno che a ingrandire quel che da sempre abbiamo sotto il naso: il nanomondo, dove fluttuano gli atomi e vibrano i legami tra le particelle. «La messa a punto di questa generazione di microscopi – annuncia Lazzarino – consentirà non solo di vedere, ma anche di manipolare la materia». Feynman l’aveva pronosticato e la realtà rende fede alla sua visione.
Quello su cui invece Feynman non si è mai pronunciato sono le conseguenze di un mondo in cui prolifereranno le nanotecnologie e le macchine invisibili più piccole dei virus: sono loro, che in alcuni scenari inquietanti, dilagheranno silenziosamente in ogni ambiente e anche dentro di noi. Con conseguenze che nessuno riesce ancora davvero a prevedere.
Chi è Marco Lazzarino Fisico
RUOLO: E’ RICERCATORE AL TASC DI TRIESTE DELL’ISTITUTO DI FISICA DELLA MATERIA DEL CNR
NATURE TECHNOLOGY: WWW.NATURE.COM/NNANO/JOURNAL/VAOP/NCURRENT/PDF/NNANO.2009.348.PDF
—
Un osso al legno nella top 50 di Time 16.12.2009
E’ ‘made in Cnr’ e si è guadagnata un posto sul Time come una delle 50 migliori scoperte dell’anno. E’ un osso di legno realizzato dall’Istituto di scienza e tecnologia dei materiali ceramici (Istec) del Consiglio nazionale delle ricerche di Faenza. La tecnologia occupa il trentesimo posto della classifica internazionale. Questi impianti ossei, al contrario di quelli metallici o ceramici in uso, non dovranno essere rimossi o sostituiti perché il nuovo materiale viene ricostruito dalle cellule e accolto dall’organismo.
“Da anni ci occupiamo di tessuto osseo”, afferma Anna Tampieri, dell’Istec-Cnr, “e la tecnologia è già in grado di riprodurre un osso chimicamente simile a quello umano. Ma il nostro obiettivo è ottenere un materiale che abbia le stesse caratteristiche di organizzazione micro-strutturale, elasticità e resistenza meccanica. Una struttura complessa che solo la natura è in grado di mettere in atto”.
Da qui è nata l’idea di ‘prendere in prestito’ dagli alberi la materia prima. “Abbiamo individuato”, spiega Tampieri “due piante che hanno caratteristiche morfologico strutturali ideali: la quercia rossa e il rattan”.
In laboratorio, attraverso un processo chimico, il pezzetto di legno viene trasformato in uno ‘scheletro carbonioso’ e, infine, in una struttura di fosfato di calcio complesso. “Questo materiale mantiene inalterata la sua struttura complessa”, spiega la ricercatrice, “viene impiantato al posto della parte mancante di osso e infine riconosciuto come autologo”.
Per l’applicazione bisognerà attendere l’esito della sperimentazione in corso: il primo osso di legno è stato innestato nella zampa di una pecora, con un intervento eseguito dall’équipe di Maurilio Marcacci dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna. I costi previsti per una protesi dovrebbero essere piuttosto contenuti.
L’idea è diventata un progetto, il Templant project, nel 2006, grazie a un finanziamento di tre milioni di euro della Commissione Europea, e coinvolge otto istituti di ricerca europei (Germania, Spagna, Austria, Francia, Olanda, Svezia). L’Italia è rappresentata dall’Istec-Cnr, che è il capofila, dall’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna, dalla Finceramica SpA di Faenza. Il team, giovane, è composto da dieci ricercatori, di cui cinque donne.
Rosanna Dassisti
Fonte: Anna Tampieri, Istituto di scienza e tecnologia dei materiali ceramici del Cnr, Faenza, tel. 0546/699757, e-mail: anna.tampieri@istec.cnr.it
http://www.almanacco.cnr.it/articoli.asp?ID_rubrica=1&nome_file=01_20_2009
—
La Cina dirotta i fiumi per dissetare Pechino 16.12.2009
Polemiche per il nuovo piano faraonico del governo
FRANCESCO SISCI
PECHINO
Sette canali lunghi complessivamente molte migliaia di chilometri, che attraverseranno la Cina da Sud a Nord per portare l’acqua del bacino del Fiume Azzurro, afflitto da periodiche inondazioni, al bacino del Fiume Giallo, in secca per molti mesi all’anno. Il tutto da costruire in appena una decina d’anni. Questo progetto di diversione idrica, come quasi tutto quello che caratterizza la Cina di questi anni, è pensato in una scala senza precedenti nella storia umana. Un progetto che appare innaturale ed ecologicamente stonato, se non proprio fuori posto, nella nuova rincorsa ambientale in corso alla conferenza sul clima a Copenhagen. I critici del mega progetto puntano il dito sulle quasi 500 mila persone da sfrattare per far posto al canale che arriverà fino alla metropoli di Tianjin, alle porte di Pechino. Tra gli abitanti della zona della potenziale evacuazione qualcuno già protesta, o chiede compensi più alti per le case e i terreni che stanno per cedere al governo. Altri obiettano che se da una parte l’acqua intorno alla capitale cinese effettivamente scarseggia, ci sono anche molti sprechi, visto che in zona ci sono, per esempio, una quarantina di campi da golf, alcuni grandi centinaia di ettari, verdissimi e sempre irrigati. A molti altri il progetto di diversione idrica sembra solo una versione più nuova del gigantismo maoista che ha già portato alla costruzione della diga delle Tre Gole, mastodonte ingegneristico la cui utilità rimane ancora dubbia. Del resto, per trovare un precedente bisogna risalire all’Urss di Breznev, che voleva dirottare gli «inutili» fiumi del Nord a irrigare le piantagioni dell’Asia Centrale, progetto bloccato solo con Gorbaciov. I tecnici cinesi coinvolti nel progetto però scuotono la testa, qui si tratta di un’altra storia, dicono. «Ci sono vari problemi che gli stranieri confondono e mischiano, in una specie di macedonia ma alle elementari ci insegnavano che mele e pere non possono essere sommate insieme», sostiene un ingegnere che lavora al progetto. C’è un primo problema vero: al Sud ci sono alluvioni che uccidono ogni anno centinaia di persone, mentre il Nord, dove vive circa un terzo della popolazione, si sta desertificando e in media la gente ha meno della metà del minimo di acqua stabilito dall’Onu come standard per «scarsità idrica». I problemi più gravi al Nord non sono i campi da golf, ma l’agricoltura che continua a usare forme di irrigazione primitive. I campi vengono inondati, e hanno avuto finora scarso successo gli sforzi di esperti israeliani di introdurre tecniche di irrigazione più efficienti, come impianti a gocciolamento. «Costano molto in termini di impianti, e non hanno senso per piccoli lotti, quelli del contadino medio», spiegano all’Accademia delle Scienze Sociali di Pechino. E’ anche vero che dal momento in cui il progetto fu pensato, 8-9 anni fa, il clima pare cambiare. Le precipitazioni sono aumentate al Nord e diminuite a Sud. Ciò sembra anche dovuto agli sforzi degli ultimi 20 anni per fermare la desertificazione a Nord di Pechino. Migliaia di ettari di alberi sono stati piantati e questo ha migliorato le condizioni nella regione intorno alla capitale. Rimangono comunque due problemi, che vanno affrontati separatamente: gli sprechi e la scarsità di acqua al Nord. Si tratta di cambiare il tipo di agricoltura, il che significa mettere fine alla piccola proprietà terriera, un processo che è già iniziato ma richiederà decenni. Nel frattempo le riserve idriche delle metropoli settentrionali si stanno esaurendo. La diversione idrica serve appunto ad assicurare acqua al Nord. Inoltre, il canale più orientale del progetto, che sarà completato per primo, nel 2013, ricalca per larga parte il tracciato dell’antico canale imperiale. Questo non serviva a portare acqua ma per il trasporto delle merci. Questa sarà anche la funzione di alcuni dei canali futuri, spiegano al ministero delle risorse idriche e tengono a sottolineare le differenze tra le Tre Gole e la diversione idrica: il progetto della diga non ha avuto alcun sostegno internazionale, mentre la diversione ha una fila di collaborazioni da tutto il mondo, tra cui quella del ministero dell’Ambiente Italiano. Rimangono tanti altri problemi per l’acqua in Cina. Il 60% dei corsi e bacini acquiferi sono inquinati a livelli più o meno alti, anche in molte grandi città l’acqua non è potabile. L’industria pesante, negli ultimi 20 anni la spina dorsale dello sviluppo cinese, ha usato 4-5 volte più acqua per dollaro di produzione rispetto ai Paesi sviluppati. E qui la diversione non può far niente. Resta comunque agli occhi dei cinesi un grande stimolo di sviluppo. Con i suoi 26 miliardi di euro di spesa prevista è una potente iniezione di crescita economica in anni altrimenti duri e magri per la crisi.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200912articoli/50416girata.asp
—
La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/, particolarmente saliente
Le aperture
Il Sole 24 Ore: “Parte il fondo per le Pmi”, via all’accordo quadro da 3 miliardi fra Tesoro, Cassa depositi e prestiti, Abi, Confindustria, Unicredit, Intesa e Mps: si tratta “. In prima pagina il quotidiano di Confindustria dà anche altre notizie: il via libera alla Camera alla Finanziaria (voto di fiducia) e la quasi sicura proroga dello scudo fiscale, che finora ha soddisfatto molto il governo viste le entrate: “Tremonti: il rientro dei capitali vale cinque punti di Pil”. In prima anche la foto della prima pagina di Time, che ha eletto uomo dell’anno Ben Bernake. “Senza di lui il disastro”.
Corriere della Sera: “Attentato fallito alla Bocconi”, “pacco bomba a Milano. Gli investigatori: potrebbero arrivarne altri”. “La rivendicazione di un gruppo anarchivo. Un secondo ordigno a un centro immigrati in Friuli”. Si tratta, secondo l’analisi di Paolo Franchi, di “segnali che non vanno ignorati”, anche se gli anni 70 sono lontanissimi, “politicamente e culturalmente”.
Il Riformista: “Arriva la bomba”, “Come da manuale della strategia della tensione”. Gli anarchici hanno rivendicato l’azione con cui è stato deposto in un sotterraneo della Università Bocconi un ordigno esploso solo parzialmente. E poi: oggi le dimissioni di Berlusconi dall’ospedale, “fuori troverà solo il Pdl in fiamme”.
La Stampa: “Fini: io sto con Napolitano”. “Il Presidente della Camera: i suoi richiami alla moderazione una stella polare. Berlusconi rimande ancora in ospedale”.
Il Foglio: “Così Fini richiama a corte i colonnelli di An, ma senza rompere con il Cav”. (“Quasi quasi fa pace davvero”, scrive il quotidiano). Fini ha riunito a pranzo i suoi ex-colonnelli, anche quelli più distanti come Gasparri e Matteoli, chiedendo loro di fare un passo indietro delegandogli la facoltà di trattare con Berlusconi. Secondo Il Foglio Fini sta lavorando, insieme con Gianni Letta, a placare gli animi, cercando anche un’interlocuzione sulla giustizia (ma non soltanto per il premier) con Udc e Pd .
La Repubblica: “Fini: superato il limite di guardia”, “Il Presidente della Camera: sbagliato distribuire colpe. Dal Pdl ancora ttacchi a ‘Repubblica’. Votata la fiducia alla Finanziaria”.
Libero: “Una bomba da matti”, “Prima il pazzo che tira la statuetta del Duomo in faccia a Berlusconi, poi migliaia di fan che applaudono all’eroico gesto di liberazione, ora la dinamite alla Bocconi”.
Il Giornale: “E ora arrivano le bombe”. “Dopo la statuetta, la dinamite. Altro frutto delle campagne dei cattivi maestri. In serata Berlusconi offre un patto a Pd e Udc per superare il clima d’odio”.
Il direttore Vittorio Feltri spiega ai propri lettori: “Così è fallito il ribaltone di Fini”. Mentre Berlusconi gicave in ospedale, “Qualcuno a Roma brigava”, visto che ieri nella capitale un gruppo di ex-An si è riunito e non per parlare di presepi e Gesù Bambino, ma di aritmetica: “quanti deputati di An dovrebbero abbandonare l’attuale coalizione per sotterrare il governo?”. Con 24, “ribaltone sicuro”. Anche alle pagine interne il quotidiano si occupa estesamente delle “manovre nel Pdl” , di un Fini che fa la conta dei fedelissimi, mentre Berlusconi avrebbe intenzione di offrire un patto a Udc e Pd per “un’intesa democratica contro l’odio” (così la definisce il quotidiano).
Politica
Il Corriere della sera intervista Massimo D’Alema. “Premier e Di Pietro, due populismi speculari”, “si alimentano in una spirale che va fermata con le riforme”: così il quotidiano riassume i temi del colloquio. Di Pietro “è l’opposizione ideale per Berlusconi”, dice D’Alema. E insiste: “Bisogna avere il coraggio di dire che le riforme istituzionali comportano una comune assunzione di responsabilità, senza temere l’accusa di voler fare inciuci”. Ma le riforme per fermare i processi a Berlusconi non si possono considerare tali e non si può pretendere che l’opposizione le faccia proprie: “se per evitare il suo processo devono liberare centinaia di imputati di gravi reati, è quasi meglio che facciano una leggina ad personam per limitare i danni all’ordinamento e alla sicurezza dei cittadini”.
La Repubblica intervista Pierferdinando Casini, che spiega la sua proposta di un “fronte della legalità” con il Pd, “contro i falchi del Pdl”. L’Udc non è favorevole alla riforma del processo breve ma è pronta a discutere “di Lodo e legittimo impedimento”.
Il Sole 24 Ore dedica un titolo di prima pagina all’accordo sulle regionali tra Pdl e Lega. Al partito di Bossi andrà la candidatura alla Presidenza del Veneto e del Piemonte, in Lombardia rimane Formigoni, nel Lazio la candidata sarà Renata Polverini. In sospeso – sia per il centrodestra che per il centrosinistra – le candidature in Puglia e in Campania.
Arresti
“Tangenti, arrestato l’assessore Prosperini”, titola il Corriere della Sera in prima pagina. Si tratta dell’assessore regionale allo sport e turismo della Lombardia.
Sulla prima pagina de Il Giornale, la foto dell’assessore Prosperini: “Riecco le manette”, scrive il quotidiano. “Si avvicinano le elezioni regionali e partono nuove inchieste giudiziarie. L’assessore lombardo accusato di corruzione”. Arrestato anche il patron di Odeon tv, Raimondo Lagostena Bassi. Secondo l’accusa, quest’ultimo avrebbe versato su un conto svizzero dell’assessore 230mila euro in cambio delll’assegnazione di un appalto di 7 milioni e mezzo di euro per la promozione turistica in televisione, che Odeon si sarebbe aggiudicata grazie alla tangente. Prosperini, ricorda il quotidiano, viene dalla Lega, poi è passato ad An.
Il Corriere descrive il personaggio: “l’ex-pugile anti-immigrati idolo su you Tube”. E scrive che è stato liberale, democristiano, leghista, aennino. Un baluardo della cristianità, si è autodefinito.
E poi
“Clima, accordo appeso a un filo. Scontri in piazza e stallo tra i delegati. Ora le aspettative si concentrano su Obama”. Il quotidiano spiega che saranno 115 i capi di Stato e di governo che parteciperanno alla fase conclusiva della Conferenza sui cambiamenti climatici in corso a Copenhagen”. Una analisi di Franco Venturini sul Corriere della Sera “la tentazione dei Potenti” sarebbe quella di non siglare alcun nuovo accordo e di “andare avanti con Kyoto”, quel trattato che “lascia fuori gli Usa e non chiede nulla alla Cina”.
Oggi al Parlamento europeo si vota, su iniziativa della Lega, una risoluzione che sancisce il “prinicipio di sussidiarietà” sui simboli religiosi. Se ne occupa in prima pagina Il Foglio: “Così l’Europa vuole cambiare la sentenza sui crocifissi”: “si prepara una risoluzione riparatoria, socialisti d’accordo ma in imbarazzo”. Il capogruppo Pd a Strasburgo, Sassoli, dice al Foglio che “questa materia deve essere regolata dalle legislazioni nazionali” e il Pd vuole un “Fortissimo impuslo al pluralismo religioso in una società laica”. Partito popolare e Pse, insomma, vanno alla conta con divisioni interne.
Il focus del Corriere si concentra sui tagli alle spese culturali: il nostro Paese ha reagito in modo diverso dal resto d’Europa alla crisi economica, in 10 anni la quota di reddito riservata alle voci ‘istruzione e tempo libero’ è scesa dal 6,2 al 5,3 per cento. Insomma, “le famiglie consumano meno libri, cinema e musica. Stabili i telefonini, in crescita solo pay-tv e videogiochi”. La fonte dei dati è l’Istituto di economia dei media della Fondazione Rosselli.
—
Crowdsourcing art, opera corale
Quando l’artista diventa folla 16.12.2009
Finora questa forma di telelavoro distribuito aveva a che fare esclusivamente col marketing. Adesso ha scoperto la creatività. La singolare esperienza di Aaron Koblin
di MARCO DESERIIS
CHE il crowdsourcing sia un’arte, non v’è dubbio. Ma che possa essere un medium per fare arte è un dato certamente nuovo e sorprendente. Coniato nel 2006 dal giornalista di Wired Jeff Howe, il neologismo nasce dall’unione dei termini crowd (gente comune) e outsourcing (esternalizzare un’attività produttiva). Un buon crowdsourcer, che sia un manager, un politico, o un’analista militare, deve sapere assegnare ai suoi collaboratori dei compiti precisi, per poi creare un mosaico in cui ogni tessera trova il suo posto.
Negli ultimi anni il crowdsourcing è diventato un termine ubiquo, usato dal Pentagono per redarre documenti strategici, dalle aziende della net economy per tagliare il costo del lavoro, e in generale dagli analisti dei nuovi media per descrivere l’erosione dei confini tra produzione professionale e amatoriale.
Servizi di telelavoro come Istock Photo, Mechanical Turk, Leginda, Rentacoder, ma anche la stessa Wikipedia ci dicono che se da un lato l’intelligenza sociale della rete produce, per dirla con Kevin Kelly, un nuovo “socialismo digitale,” dall’altro genera anche un (auto)sfruttamento diffuso. A meno che non si sia dei geni come Alex Tew, lo studente inglese che nel 2005 riuscì a incassare un milione di dollari vendendo ai pubblicitari un milione di pixel a un dollaro l’uno.
Può quindi sorprendere che un termine associato più con il marketing e il telelavoro che con la creatività abbia fatto il suo ingresso nel mondo dell’arte. La crowdsourcing art è emersa negli ultimi anni soprattutto grazie al lavoro di Aaron Koblin, artista ventisettenne di San Francisco che ha creato diversi progetti servendosi del Turco Meccanico, il servizio di telelavoro di Amazon. Sul Turco Meccanico qualsiasi datore di lavoro può postare una Hit (Human Intelligence Task) e chiedere a un navigatore di eseguire il lavoro per pochi centesimi di dollaro. Di solito le richieste riguardano compiti ripetitivi come catalogare foto o animazioni digitali, reperire articoli in rete, trascrivere file audio e via dicendo.
Il servizio è chiaramente sbilanciato a favore dei datori di lavoro. Non solo la paga media si aggira sugli 1-2 dollari l’ora, ma il crowdsorcer può retribuire solo gli Hit che preferisce e non deve pagare alcuna tassa o contributo, se non un 10% ad Amazon per il servizio. Il lavoratore dal canto suo è tenuto a dichiarare al fisco americano tutti gli “introiti” derivanti dalle proprie prestazioni.
Recentemente Aaron Koblin e Daniel Massey hanno invitato ai turchi meccanici la richiesta di ascoltare una nota Midi e ripeterla a voce registrandola con un microfono. Dalle oltre duemila voci raccolte hanno ricavato una versione surreale di Daisy Bell, nota canzone popolare americana nonché primo brano musicale cantato da un computer tramite un software di sintesi vocale. Era infatti il 1962 quando John Kelly, Max Mathews e Carol Lockbaum, all’epoca programmatori ai laboratori della Bell in New Jersey, fecero cantare Daisy Bell a un IBM 704. L’invenzione non sfuggì a Stanley Kubrick: nel 1968 Hal 9000, il computer di 2001 Odissea nello Spazio canta Daisy Bell pochi secondi prima di essere sconnesso (nella versione italiana Hal canta “Giro Giro Tondo”). Koblin e Massey hanno recuperato i file Midi della sintesi vocale del 1962, e pagando solo 6 centesimi di dollari a Hit, hanno chiesto ai turchi meccanici di 72 nazionalità di partecipare a un’opera corale che se non altro ha una valenza estetica anziché commerciale.
Ma il lavoro di Koblin non aggira il tema dello sfruttamento del lavoro a distanza, al contrario. Nel 2006, l’artista aveva chiesto a diecimila lavoratori del Turco Meccanico di disegnare una pecora con lo sguardo rivolto a sinistra. Ne era nato The Sheep Market, un collage-animazione di diecimila pecore che è una chiara metafora della condizione del telelavoratore nell’era del Web 2.0. Come spiega l’artista in un’intervista a Wired, “ho scelto la pecora per diversi motivi. Innanzitutto perché viene allevata per la lana e altri prodotti, ma anche perché viene associata con la clonazione. Ho creato un software di animazione e ho chiesto (ai telelavoratori) di disegnare una pecora. Le persone non sapevano che il software registrava i loro movimenti sullo schermo e che, al di là del disegno finale, stavano in realtà producendo un’animazione”.
Nel 2008 Koblin ha ripetuto l’esperimento con una metafora ancora più esplicita. Questa volta ha chiesto ai turchi meccanici di disegnare un dettaglio di una banconota da 100 dollari, compensandoli un solo centesimo a Hit. Il risultato finale è Ten Thousand Cents, un’opera che è stata “tradotta” in due media diversi: un’installazione video che mostra la banconota emergere dal disegno simultaneo di tutti i lavoratori; e una stampa di diecimila banconote da cento dollari (costo: 100 dollari l’una) il cui ricavato viene donato al progetto One Laptop per Child di Nicholas Negroponte.
Se il lavoro di Koblin è l’esempio più eclatante di crowdsourcing art perché si serve delle stesse piattaforme e metodi utilizzati dalle aziende per reclutare lavoratori a distanza, la crowdsourcing art può essere estesa a varie forme di collaborazione artistica tramite internet. Ad esempio, nel luglio 2009 il regista giapponese Masahi Kawamura ha realizzato un video clip per la band musicale Sour coordinando remotamente, tramite web cam, i movimenti dei fan della band seduti di fronte ai propri computer. Found Magazine, rivista di Ann Arbor, Michigan, pubblica ogni giorno frammenti di cartoline, biglietti, e messaggi personali trovati per caso dai suoi lettori nelle strade, le case e i cestini della spazzatura. Drawingblog, blog lanciato dall’artista milanese Helga Franza nel 2004, raccoglie migliaia di disegni realizzati a più mani dai navigatori.
Forse la crowdsourcing art è la dimostrazione più evidente che il vecchio motto di Novalis e Joseph Beuys secondo cui “ogni persona un’artista” è ormai divenuto realtà. O forse, se si considera la questione da un punto di vista economico, è un sintomo del fatto che anche le opere d’arte possono ormai essere appaltate per pochi centesimi a pixel.
—
Appello per il rilascio di Luca Tornatore
Care/i tutte/i,
pubblico un appello per la scarcerazione del mio amico Luca Tornatore, in carcere per una vicenda assurda.
Luca, astrofisico, residente a Quarto d’Altino, Compagno di Federica e padre di una bambina di 5 anni, ricercatore presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Trieste e attivista della Casa delle Culture, si trova dalla scorsa settimana a Copenhagen per partecipare, con la delegazione italiana (oltre 200 persone) dellaCampagna ‘See You in Copenhagen’, di cui è uno dei portavoce pubblici e riconosciuti, alle iniziative organizzate in occasione della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 15).
Lunedì sera si è recato nel quartiere di Christiania per intervenire al dibattito organizzato dalla rete “Climate Justice Action” con la partecipazione di Michael Hardt e Naomi Klein, e un migliaio di persone tra il pubblico. Mentre il dibattito era in corso, ad alcune centinaia di metri, un gruppetto di persone vestite di nero ha attaccato, lanciando oggetti ed erigendo una barricata successivamente incendiata, la Polizia danese che stazionava in forze ai margini del quartiere. Questo gruppo, dopo aver colpito, si è dato alla fuga verso l’interno del quartiere, dove nel frattempo il dibattito si era concluso e centinaia di persone si erano fermate nei locali della zona. L’azione ha dato il pretesto alla Polizia danese per effettuare un vero e proprio rastrellamento di massa per le strade e all’interno dei pubblici esercizi di Christiania, procedendo al fermo di circa duecento persone (tra cui alcune decine di italiani) che sono state condotte ammanettate ai Centri detentivi.
Mentre la quasi totalità dei fermati sono stati rilasciati tra la tarda notte e le prime ore del mattino, Luca Tornatore è stato condotto davanti ad un Tribunale con pesanti accuse (lancio di oggetti e resistenza aggravata a pubblico ufficiale), senza alcuna prova, ma basate esclusivamente sul rapporto e le testimonianze della Polizia. Nel tardo pomeriggio, il Tribunale ha convalidato il suo arresto, fissato la prima udienza del processo per il prossimo 12 gennaio e disposto, fino ad allora, la sua detenzione cautelare in carcere.
Luca sta probabilmente pagando il ruolo che, a viso aperto, ha avuto nelle manifestazioni di questi giorni. La sua vicenda, così come gli oltre milleduecento fermi preventivi già compiuti in soli tre giorni dalla Polizia danese, non può che destare grande preoccupazione in merito all’effettiva garanzia della libertà d’espressione e del diritto a manifestare, sanciti dalla Costituzione danese e riconosciuti dalla Carta Europea, a cui la Danimarca così come il nostro Paese aderisce.
Di seguito vi trasmetto il testo dell’Appello diffuso in queste ore nell’ambiente scientifico e accademico, che ha tra i suoi promotori la prof.ssa Margherita Hack. Firmatelo (mettete anche qualche dato personale tipo,città o professione), fatelo firmare e comunicate la vostra adesione a giuseppe.caccia@unito.it
E’ importante firmare questo appello prima possibile e in tanti perché le pressioni politiche possono avere un effetto sul rilascio di Luca.
Grazie,
Marco Sacco
329 4426874
APPELLO PER L’IMMEDIATO RILASCIO DEL DOTTOR LUCA TORNATORE
Luca Tornatore non è solo un amico fraterno di chi scrive questo appello. Luca è un assegnista di ricerca al Dipartimento di fisica dell’Università di Trieste. E’ uno scienziato, uno di quelli che alla passione e alla voglia di cambiare il mondo uniscono, dunque, una riconosciuta competenza.
Questi sono gli ingredienti che lo hanno spinto, assieme a centina di attivisti ambientalisti italiani, a recarsi a Copenhagen. Luca è nella capitale danese per pretendere giustizia climatica, per confrontarsi all’interno del Climate Forum, per capire e per intrecciare relazioni con chi (come noi e lui) pensa che l’emergenza ambientale debba essere affrontata a partire da una democratizzazione delle decisioni e non attraverso la delega a chi l’ha provocata o a chi la sta peggiorando (siano essi vecchi o nuovi attori di rilievo del panorama geo-politico).
Luca Tornatore si trova oggi in stato di arresto, fermato assieme ad altre decine persone dopo aver partecipato ad un dibattito!! Luca, come centinaia di altri, non ha commesso alcun reato. Il suo fermo è stato confermato non sulla base di prove, ma proprio per punire il suo impegno,
la sua visibilità pubblica e la sua competenza. Ci sarebbe da ridere, ma quello che sta succedendo a Copenhagen non ha precedenti. Il solo fatto di trovarsi per strada rende passibile di fermo, l’arresto preventivo (già di per sé strumento mostruoso dello stato d’eccezione) è stato abusato senza vergogna. Sono stati calcolati più di millecinquecento fermi di polizia, praticamente tutti ingiustificati. La capitale Danese, ormai un ex simbolo della socialdemocrazia, si è trasformata in una vera e propria città di polizia.
Noi pretendiamo il rilascio immediato del Dott. Luca Tornatore, prima di tutto perché totalmente innocente, poi perché la sospensione dello stato di diritto, le provocazioni e le menzogne rendono la mancanza di Luca insopportabile per tutti noi e per tutti quelli che condividono, con
serietà, le sue preoccupazioni per il futuro del nostro pianeta.
Trieste – Venezia, 15 dicembre 2009
http://ricostituente.wordpress.com/2009/12/16/appello-per-il-rilascio-di-luca-tornatore/
—
La Regione contro la privatizzazione dell’acqua 14.12.2009
La Regione Piemonte impugna davanti alla Corte Costituzionale l’art 15 della legge 166/2009, meglio nota come “legge sulla privatizzazione dell’acqua”.
Il provvedimento è stato adottato il 14 dicembre dalla Giunta regionale su proposta della presidente Mercedes Bresso e degli assessori all’Ambiente, Nicola de Ruggiero, e al Legale, Sergio Deorsola.
Nella delibera la Giunta richiama un precedente ricorso del 2008, con il quale si contestava la legittimità dell’art.23bis della legge 133 del 6 agosto 2008, recante disposizioni in materia di servizi pubblici, per violazione degli articoli 5, 114, 117, 118 e 120 della Costituzione, anche con riferimento agli articoli 3 e 97 della nostra Carta fondamentale. In altri termini, il Governo regionale ritiene che l’articolo 15 della legge 166 rappresenti sia una riduzione dei diritti fondamentali dei cittadini (art 3 della Costituzione) sia una prevaricazione rispetto al riconoscimento dei poteri assegnati alle Regioni in forza del Titolo V della Costituzione.
Alle osservazioni già inoltrate, la Giunta ne aggiunge una serie riguardanti la violazione dei trattati europei e la libera concorrenza.
—
crisi, finanza, povero, Usa di Vincenzo Comito
Lo Stato è tornato ma si è subito fermato
16/12/2009
Un americano su 8 mangia grazie al “food stamp”. Le contraddizioni degli Stati tra necessità e difficoltà di intervento, l’emergenza del debito, le timidezze politiche
“…le preoccupazioni che Obama ha espresso diventano comprensibili se si suppone che egli stia traendo le sue opinioni, direttamente o indirettamente, da Wall Street…” (P. Krugman)
“…a meno che i governi spingano le banche a ristrutturare i 7000 miliardi di dollari di prestiti ad alto leverage (concessi alle imprese) che dovrebbero scadere entro il 2014, gli Stati Uniti e l’Europa potrebbero dover affrontare presto il problema giapponese della crescita zero…” (G. Hands, in Arnold, 2009)
“…con un debito nazionale che raggiunge ora i 12 trilioni di dollari, la Casa Bianca stima che il costo di servizio del debito supererà i 700 miliardi di dollari all’anno nel 2019, contro i 200 miliardi di quest’anno, anche se i deficit annuali del budget si riducessero drasticamente. Altre previsioni affermano che la cifra potrebbe essere anche molto più alta…” (E. L. Andrews)
Premessa
L’anno sembra chiudersi, almeno sul fronte economico, con grandi problemi e contraddizioni, per quanto riguarda almeno i paesi sviluppati.
Forse il fatto simbolico che può colpire di più, a tale proposito, è il grande successo che sta conseguendo in questo momento, negli Stati Uniti, il programma di food stamp, un progetto governativo di sostegno alimentare alle famiglie disagiate, programma in atto da tempo, ma i cui numeri sono ora in forte crescita.
Come riferisce un articolo del New York Times (DeParle, Gebeloff, 2009), in questo periodo tale schema aiuta a mangiare tutti i giorni un americano su otto e addirittura un bambino su quattro ed in alcune aree, come quella delle città sul Mississipi, St. Louis, Memphis, New Orleans, i numeri sono parecchio più elevati e, tra l’altro, più della metà dei bambini dell’area riceve il sostegno. Bisogna poi ricordare che un sempre maggiore numero di cittadini statunitensi sta aderendo al programma in queste settimane e lo stanno facendo in particolare molte persone già appartenenti alla classe media. E questo nel paese più ricco e più potente del mondo.
Ma questa appare soltanto una delle rilevanti contraddizioni che stanno toccando in particolare, sul fronte economico e con la crisi in atto, i paesi occidentali. Ne elenchiamo di seguito alcune delle principali.
Gli Stati tra necessità e difficoltà di intervento
Appare palese il conflitto esistente, da un lato, tra la necessità di un continuo e accresciuto sostegno pubblico all’economia – che in questo momento si regge sostanzialmente sui soldi dei contribuenti- e, dall’altro, le grandi difficoltà legate al fenomeno e la spinta che si manifesta da più parti verso politiche di rientro.
Come, tra l’altro, afferma l’ILO (ILO, 2009) in un suo recente studio, le misure per contrastare la crisi economica non devono essere sospese, ma anzi esse devono essere prolungate, altrimenti circa 40 milioni di persone potrebbero perdere il loro posto di lavoro nel mondo.
Così, negli Stati Uniti, si è discusso a lungo del possibile varo di un nuovo programma di sostegno, vista l’insufficienza di quello in atto, mentre una parte importante dei parlamentari e dell’opinione pubblica appariva molto reticente al riguardo. Il livello presente del debito pubblico e quello che si configura per gli anni futuri –sino, almeno secondo alcune previsioni, forse troppo pessimistiche, possibilmente ad arrivare ad un rapporto debito-pil pari al 150-160% nel 2020 nel caso degli Stati Uniti e anche della Gran Bretagna, come stimano gli economisti della BNP Paribas-, con le loro possibili conseguenze a livello di blocco o riduzione della spesa pubblica, aumento del carico fiscale, inflazione, appaiono in effetti di difficile dirigibilità nel caso di economie per le quali è difficile prevedere nei prossimi anni alti tassi di sviluppo, che renderebbero tutto invece più facile.
Va peraltro ricordato che la crescente incidenza del debito pubblico sul pil nei paesi occidentali non è dovuta solo alle misure di salvataggio messe in atto, ma anche alla contrazione in valori assoluti dello stesso pil e alla parallela caduta delle entrate fiscali.
Ci si può incidentalmente chiedere, come fa ad esempio M. Wolf (Wolf, 2009), come mai le agenzie di rating, così sollecite di solito con i paesi deboli, non declassino il debito sovrano di Stati Uniti e Gran Bretagna, paesi che presentano già per il 2010 un deficit pubblico primario rispettivamente del 3,7% e del 7,8%.
Alla fine, comunque, il governo degli Stati Uniti ha deciso l’avvio di misure ulteriori di intervento senza prevedere nuovi stanziamenti, utilizzando una parte indeterminata dei fondi del programma Tarp, che erano a suo tempo stati stanziati sotto la presidenza Bush per il salvataggio delle banche; si è forzata così largamente la mano al legislatore.
In questo momento i governi dei paesi occidentali pagano tassi di interesse molto bassi sui prestiti; ma presto, accanto ai problemi relativi alla montagna di nuovi debiti che si stanno contraendo, in particolare poi alla necessità di rimborsare le ingenti somme che verranno a scadenza a breve termine, sta la minaccia del ritorno dei tassi di interesse a livelli normali (Andrew, 2009). Quello della potenzialmente forte crescita del carico di interessi è una drammatica minaccia che pesa sui bilanci di molti paesi occidentali.
Intanto, peraltro, anche il Giappone, spinto dallo stato di necessità, vara un secondo piano di rilancio che, considerando tutti i suoi risvolti, dovrebbe pesare per circa 185 miliardi di euro, dopo che il primo programma non era riuscito a contribuire in maniera adeguata a togliere l’arcipelago dalle spire della crisi. Il debito del paese dovrebbe presto, in ogni caso, superare il 200% del pil.
Nel frattempo, in Gran Bretagna i conservatori promettono, in caso di vittoria alle prossime elezioni politiche, di tagliare fortemente i deficit del bilancio pubblico!
Esigenze di capitalizzazione e di prudenza delle banche e esigenze di finanziamento dell’economia
Un altro problema riguarda l’andamento del settore bancario; è noto che la situazione dell’afflusso del credito all’economia non accenna a migliorare molto, negli Stati Uniti come in Europa, in particolare per quanto riguarda le piccole e medie imprese (Saft, 2009). La questione è da collegare, dal lato dell’offerta, ai rischi presenti ancora nel sistema economico, ma anche alla insufficiente capitalizzazione del sistema.
Si va discutendo da tempo se come ristrutturare il settore finanziario per evitare il ripetersi di nuove difficoltà e sostanzialmente in tutte le proposte si tende, tra l’altro, a sottolineare appunto la necessità di un rilevante aumento dei livelli dei mezzi propri degli istituti. Quasi nessuno, tranne le banche interessate, mette in discussione la necessità di una mossa di questo tipo. Gli stessi istituti affermano invece che il costo dei mezzi propri è troppo elevato e un loro aumento comporterebbe una lievitazione del prezzo del credito per le imprese; in effetti, finché le grandi banche pagano un tasso di interesse dell’1% sui prestiti che contraggono con l’aiuto delle banche centrali, esse non vogliono certo sentir parlare di fonti alternative di approvvigionamento (The Economist, 2009). D’altro canto, al momento in cui le banche centrali alzassero in maniera significativa il costo del denaro, potrebbero prodursi rilevanti problemi. Non vanno neanche sottaciute le difficoltà di trovare le risorse per i necessari aumenti di capitale, quindi anche per questa via un aumento del rapporto mezzi propri – debiti potrebbe contribuire a ridurre i livelli del credito concesso all’economia.
Vista la questione in altro modo, se le autorità monetarie prosciugassero troppo o troppo velocemente le enormi quantità di liquidità che hanno riversato sui mercati, rischierebbero di strozzare quel po’ di ripresa che si delinea all’orizzonte, nonché di spaventare gli investitori; se invece non lo facessero, o non lo facessero abbastanza presto, rischierebbero invece di creare una nuova bolla, già del resto in agguato (Gatinois, 2009).
Necessità e problemi di una possibile nuova regolamentazione del settore finanziario
L’intervento pubblico di sostegno al comparto finanziario per evitare il crack, che è stato così forte ed esteso ed ha raggiunto apparentemente lo scopo, avrebbe potuto essere anche il punto da cui partire, tra l’altro, per ripensare totalmente i sistemi di regolamentazione e di controllo del settore. Ma, almeno sino a questo momento, poco si è mosso su tale fronte e in queste settimane stiamo così assistendo al ritorno sul campo da padroni dei mercati e delle istituzioni finanziarie. Le famigerate agenzie di rating e le banche, dopo un momento di riserbo, hanno ricominciato a lanciare anatemi e minacce e a condizionare pesantemente i governi. E non si tratta soltanto del caso esemplare della Grecia e di Dubai. Dietro a tali paesi stanno in fila d’attesa per essere bastonati, per parlare soltanto dell’ Europa, Spagna, Portogallo, Irlanda, Islanda, Ungheria, almeno due dei paesi baltici, Italia, Gran Bretagna e forse abbiamo dimenticato qualche caso.
Sulla possibile nuova regolamentazione del settore finanziario si scontrano interessi differenti a livello geografico e anche tra le diverse correnti presenti all’interno delle classi dirigenti dei vari paesi. Nell’Unione Europea, così, è in corso da tempo un braccio di ferro, da una parte, tra i burocrati di Bruxelles, che hanno il supporto di paesi quali la Francia e la Germania e, dall’altra, le autorità britanniche, per quanto riguarda i poteri e le modalità di funzionamento dei nuovi organismi pan-europei che dovrebbero appunto sovraintendere al settore bancario, assicurativo, della borsa, nonché governare il rischio sistemico dei mercati. La Gran Bretagna vede nei progetti di riforma la minaccia che essi farebbero pesare sui destini della City e indirettamente quindi sulle sorti economiche del paese. A leggere la stampa britannica sembrerebbe, tra l’altro, che la Francia stia cercando di distruggere la piazza londinese. Il risultato di questi scontri è che, almeno sino a questo momento, lo schema di riforma messo in atto per cercare di accontentare tutti i paesi appare un pasticcio contorto e complicato, di difficile applicabilità e che serve poco alla bisogna.
Negli Stati Uniti, intanto, si assiste allo spettacolo di un governo Obama timoroso e sostanzialmente riverente nei confronti di Wall Street, che vede di nuovo come un bastione della forza economica e finanziaria statunitense e che appare quindi riluttante a cambiare in maniera significativa, pur di fronte alle pressanti richieste di una parte almeno dall’opinione pubblica e degli esperti più qualificati. Così il settore bancario Usa, come del resto la City londinese, porta avanti argomentazioni che mostrerebbero come più stringenti regolamentazioni del settore, nella direzione di ridurre le dimensioni delle grandi banche e/o aumentare i loro livelli di mezzi propri, o anche semplicemente di ridimensionare i livelli di remunerazione degli alti dirigenti del settore, porterebbero a una minore crescita dell’economia e a un più ridotto numero di posti di lavoro (Johnson, 2009).
Sullo sfondo sta forse in ambedue i casi, comunque, un problema reale; Stati Uniti e Gran Bretagna hanno ceduto negli ultimi decenni ai paesi emergenti, sia in alcuni casi per loro volontà – tramite i processi di outsourcing o gli accordi di joint-ventures-, sia in altri casi per forza – vinti sul fronte della competitività -, una parte consistente delle loro attività nel settore industriale, in quello commerciale, in quello agricolo. Quello finanziario è uno dei pochi settori in cui i due paesi presentino ancora un grande vantaggio competitivo. Essi riescono in effetti a fornire a tutt’oggi, tra l’altro, un servizio di riciclaggio dei capitali asiatici e latinoamericani verso i mercati dei paesi ricchi e da lì magari di nuovo, almeno in parte, verso le aree emergenti (Niada, 2009).
Va peraltro sottolineato (Tett, 2009) che, nel medio-lungo termine, seguendo la regola che dice che i banchieri seguono il denaro, una parte consistente di tale attività di riciclaggio dovrebbe venire a cessare, con lo sviluppo crescente dei mercati finanziari nei paesi emergenti –si veda già oggi la forza degli IPO in Asia, lo spostamento del quartier generale di una grande banca britannica a Hong Kong, le crescenti emissioni di capitale di grandi istituzioni finanziarie occidentali sempre sulle piazze dei paesi emergenti, ecc.-; questi trend non potranno presumibilmente che accrescersi nel tempo e la City in particolare dovrebbe quindi perdere inesorabilmente di peso nel mondo proprio per queste spinte macroeconomiche, più ed oltre che per una regolamentazione più stretta delle sue attività.
A questo punto, la contraddizione tra la necessità di governare la finanza e la difficoltà materiale di farlo sembra comunque difficilmente sanabile. Ci vorrebbe forse un grande accordo tra paesi sviluppati e paesi emergenti, che non si vede però in alcun modo all’orizzonte.
Conclusioni
Anche trascurando le contraddizioni in atto sul terreno economico e finanziario tra paesi ricchi e paesi emergenti, nonché tra paesi ricchi e paesi poveri, quelle presenti all’interno degli stessi stati occidentali appaiono molto complesse e di difficile soluzione. Il sentiero da percorrere appare in tale senso molto stretto e solo gli eventi dei prossimi mesi ci potranno indicare se esse saranno state affrontate in modo adeguato, sullo sfondo peraltro di una situazione più generale dell’economia molto incerta e confusa. Ma comunque la scarsa lungimiranza e il debole peso degli attuali gruppi dirigenti politici dei paesi occidentali non contribuiscono a fare ben sperare al riguardo.
Testi citati nell’articolo
– Andrew E. L., Wawe of debt payments facing U.S. government, www.nyt.com, 23 novembre 2009
– Arnold M., Hands warns governmentes on banks, www.ft.com, 18 novembre 2009
– DeParle J., Gebeloff R., Across U.S., food stamps use soars and stigma fades, www.nyt.com, 29 novembre 2009
– Gatinois C., Les banquiers centrales auront toujours tort, www.lemonde.fr, 5 dicembre 2009
– ILO, World of work report 2009, Ginevra, dicembre 2009
– Johnson S., Will increased capital requirements kill a recovery? Morgan Stanley wants you to think so, www.tnr.com, 25 novembre 2009
– Krugman P., The phanthom menace, www.nyt.com, 25 novembre 2009
– Niada M., La crisi di identità del capitalismo senza capitali, www.ilsole24ore.com, 6 dicembre 2009
– Saft J., banks show no signs of easing credit, www.nyt.com, 13 novembre 2009
– Tett G., Bankers will follow the money, www.ft.com, 10 dicembre 2009
– The Economist, Buffer warren, 29 ottobre 2009
– Wolf M., Give us fiscal austerity, but not quite yet, www.ft.com, 24 novembre 2009
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Lo-Stato-e-tornato-ma-si-e-subito-fermato
—
Iraq e Italia, matrimonio di interessi
di Ornella Sangiovanni
Osservatorio Iraq, 16.12.2009
ROMA – Affari, affari, e ancora affari – per le imprese italiane. Dall’energia (leggi petrolio, ma anche centrali elettriche) alle grandi infrastrutture, dalla realizzazione di cantieri navali alla costruzione di ospedali, dall’industria della difesa all’agro-alimentare, ambiente, materiali da costruzione, industria manifatturiera, edilizia residenziale, informatica, non c’è praticamente un settore che non venga nominato nel verbale concordato della prima riunione della Commissione mista italo-irachena, che si è conclusa ieri a Roma. Verbale sottoscritto dai ministri degli Esteri dei due Paesi – Franco Frattini e Hoshyar Zebari.
Tanti gli interessi in gioco. L’Italia, si legge nel documento, rappresenta per l’Iraq il secondo Paese importatore, ma importa quasi esclusivamente petrolio. L’auspicio è che le importazioni possano essere diversificate. Anche se per adesso non si capisce cos’altro potrebbe importare.
Incoraggiare gli investimenti è la parola d’ordine – da cui la messa a punto un “Accordo sulla promozione e la protezione degli investimenti”, che ora dovrà entrare in vigore.
Incoraggiare gli investimenti
Nel verbale della riunione della Commissione mista, che si è tenuta presso il nostro ministero degli Esteri, si sottolinea l’impegno italiano per l’Iraq – nei settori dell’agricoltura, gestione delle risorse idriche, agro-alimentare. E poi istruzione superiore e ricerca scientifica, con dottorati e corsi di specializzazione post-laurea per iracheni, e formazione per diplomatici. E ancora, il progetto per la regione delle paludi, nel sud, la promozione delle piccole e medie imprese.
E proprio per il sostegno a queste ultime dovranno essere utilizzate le prossime tranche del cosiddetto “soft loan” – 400 milioni di euro in crediti di aiuto nell’arco di un triennio – concesso dall’Italia al governo di Baghdad. La prima, 100 milioni di euro, è andata al settore dell’agricoltura.
Per le iniziative da realizzare, si pensa a joint venture, che si avvantaggerebbero della legge irachena sugli investimenti (emendata di recente, con termini più appetibili per le imprese straniere), e dell’accordo quadro fra la SACE (la società italiana che assicura il credito alle esportazioni) e la Banca commerciale irachena. In attesa che entri in vigore l’Accordo sulla promozione degli investimenti di cui sopra.
Grandi progetti
In Iraq, le imprese italiane hanno messo gli occhi in particolare su alcuni grandi progetti: la diga di Mosul, nel nord, e il nuovo porto di Fao, all’estremo sud, innanzitutto, ma anche la consulenza per il “Piano strategico nazionale di gestione delle risorse idriche” – e sembra che le cose procedano bene.
Nel verbale si cita anche la partecipazione dell’industria italiana della difesa (tradotto: industria bellica) allo sviluppo delle forze di sicurezza irachene. Qui gli italiani si sarebbero fatti onore all’interno della cosiddetta NATO Training Mission, in particolare per quanto riguarda il ruolo dei Carabinieri nell’addestramento della polizia federale.
Gli iracheni sono talmente soddisfatti che i ministeri degli Interni di Roma e Baghdad hanno firmato un memorandum di cooperazione fra le polizie – mentre si sta negoziando un altro memorandum sulla cooperazione in materia di difesa.
Esprime soddisfazione anche il Sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi, intervenuta nel pomeriggio di ieri a un evento organizzato dall’IPALMO (Istituto per le relazioni tra l’Italia e i Paesi dell’Africa, America Latina, Medio ed Estremo Oriente), sulle “Sfide e opportunità del nuovo Iraq” – evento che vedeva ospite d’onore il ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari.
Sostegno di “Paesi amici”
Affiancata da una presenza familiare – l’ex ministro degli Esteri Gianni De Michelis, oggi presidente dell’IPALMO – la Craxi ha sottolineato “le eccellenti relazioni esistenti fra la Repubblica Italiana e la Repubblica dell’Iraq” – Iraq che ha bisogno del “sostegno che Paesi amici come l’Italia sapranno garantirgli”.
Ed è un sostegno che passa anche attraverso “lo sviluppo di una qualificante partecipazione italiana alla ricostruzione del Paese”. Leggi: affari per le nostre imprese.
Affari che – ha detto Zebari, in risposta a una giornalista che gli chiedeva quando gli iracheni potranno avere acqua, elettricità, e fognature – servono proprio per garantire servizi essenziali decenti alla popolazione. Ottimismo – a cui del resto è stato improntato tutto l’intervento del ministro degli Esteri iracheno.
Di quale Iraq si parla?
Anche se a tratti Zebari ha ricordato che l’Iraq ha tuttora molti problemi – “non voglio dipingere un quadro roseo”, ha detto a un certo punto – per chi segue le vicende irachene era impossibile non provare disorientamento di fronte al panorama che veniva delineato.
Libertà di espressione, riconciliazione nazionale, “un sistema di governo veramente democratico”: altrettante success stories, come si direbbe – il resto, quello che occupa i titoli dei giornali e dei telegiornali, viene dai “terroristi”. Che non fermeranno il cammino del Paese verso la democrazia: una strada da cui “non si torna indietro”, ha detto Zebari, perché la democrazia “è quello che vuole la maggioranza del popolo iracheno”, e l’”abbiamo pagata cara in lacrime e sangue”.
Instaurare la democrazia – ha sottolineato il ministro – è un processo difficile quando si viene da una dittatura, come quella da cui siamo stati “liberati” nel 2003, “con l’aiuto di molti Paesi amici”.
Elezioni, la sfida principale
Secondo il capo della diplomazia di Baghdad, la “sfida principale” che oggi il suo Paese si trova di fronte è riuscire a far sì che le elezioni parlamentari fissate per il 7 marzo 2010 siano “libere, corrette, e sicure”.
Subito dopo, bisogna garantire l’indipendenza a fronte dell’”ambiente regionale”. Il che diventa sempre più problematico andando verso fine 2011 – la scadenza entro la quale tutte le “forze straniere” (questo il termine utilizzato da Zebari) dovranno lasciare l’Iraq. Tradotto: quando se ne andranno gli americani, come prevede il cosiddetto SOFA – l’accordo firmato a fine 2008 dal governo di Baghdad con l’allora amministrazione Bush. E che viene definito “una svolta storica”.
“A nessun altro Paese sarà consentito di riempire il vuoto quando le forze straniere se ne andranno”, è il monito del ministro degli Esteri iracheno, che, ovviamente, nomi non ne fa.
E però, se qualcuno pensava che il messaggio fosse diretto a Tehran, ecco Zebari puntualizzare che “i nostri fratelli arabi non hanno accettato il nuovo Iraq”.
Dalle elezioni parlamentari che si avvicinano – di cui “non va sottovalutata l’importanza”, in quanto saranno “non solo irachene, ma regionali” – il ministro non sembra aspettarsi grandi sorprese. Ne uscirà ancora una volta un governo di coalizione, dice – perché l’Iraq non può essere governato da una sola confessione o da una sola etnia. “Nel nostro caso, chi vince non si prenderà tutto”, sottolinea.
Ed è chiaro che tipo di coalizione ha in mente, quando risponde a un’altra domanda dei giornalisti.
A chi gli chiedeva se non c’è il rischio che i contratti petroliferi conclusi con le compagnie straniere (il secondo round si è appena chiuso a Baghdad) possano essere invalidati dal prossimo governo, in assenza di una legge sul petrolio, Zebari ha dato assicurazioni che “nessun governo può rimangiarseli, perché sono stati approvati da un governo eletto”.
Per poi aggiungere: “Il prossimo governo non verrà da Marte”. Più chiaro di così.
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=8616
—
Vaticano: accordo monetario con Ue 17.12.2009
S.Sede recepira’,entro 2010, regole comunitarie contro frodi
(ANSA) – ROMA, 17 DIC – Il Vaticano ha firmato oggi con l’Ue una convenzione monetaria che aggiorna le norme sulla circolazione dell’euro nella citta’ pontificia.
Ne da’ notizia la sala stampa della Santa Sede. Nel comunicato ufficiale non vi e’ scritto ma, a quanto rivela ‘Avvenire’, il Vaticano si impegna anche a recepire, entro il 31 dicembre 2010, le regole comunitarie contro il riciclaggio di denaro e contro le frodi finanziarie. L’accordo sostituisce la precedente convenzione monetaria del 29 dicembre 2000.
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2009/12/17/visualizza_new.html_1647161959.html
—
L’esperienza di una giovane italiana a Innsbruck, in Austria, dove stanno nascendo i primi freeshop della catena Kostnix
Il negozio dove è tutto gratis meno consumi e meno rifiuti
Gli oggetti a disposizione di chi ne ha bisogno, non importa se ricco o povero. Esperienze analoghe in Olanda e in Belgio
di ROSARIA AMATO
Il negozio dove è tutto gratis meno consumi e meno rifiuti 15.12.2009
ROMA – Kostnix in tedesco significa “costa niente”, ed è il nome scelto da un gruppo di amici per il primo “freeshop” di Innsbruck, aperto nel marzo del 2007. Gli oggetti del negozio non sono duty free, liberi da tasse doganali, come nei free shop degli aeroporti: sono proprio gratuiti. Le uniche norme da rispettare sono: non prendere più di tre oggetti al giorno, e non rivendere in nessun caso le cose prese al negozio.
Quella dei “negozi gratuiti” è un’esperienza avviata da qualche anno in Austria (a Vienna per esempio ce ne sono due), in Olanda e in Belgio. In una striminzita voce Wikipedia spiega che “il loro scopo è offrire un’alternativa al sistema capitalistico. I freeshop sono simili ai negozi di carità, solo che tutto è libero e disponibile, che si tratti di un libro, un pezzo di arredamento, un indumento o un articolo casalingo (…) La maggior parte delle persone che usano questi negozi sono mosse dal bisogno (scarse risorse finanziarie, come nel caso di studenti o anziani) o dalla convinzione (anti-capitalisti)”.
“A noi non importa che chi prenda gli oggetti sia in uno stato di bisogno assoluto, che sia povero, può anche essere ricchissimo – spiega Valentina Callovi, di Trento, una dei due italiani che gestisce Kostnix, a Innsbruck (gli altri volontari sono tutti austriaci) – l’importante è che quello che ha preso gli serva davvero, o gli piaccia”. E dunque l’obiettivo dei freeshop non è quello di combattere la povertà, ma il consumismo, la tendenza a disfarsi degli oggetti che non servono più gettandoli nel cestino, senza pensare che anziché diventare rifiuti, con i pesanti costi di smaltimento che ne conseguono, potrebbero ancora servire a qualcuno, che eviterebbe così di acquistarli, sprecando danaro.
“L’obiettivo del freeshop è quello di contrastare la società dei consumi e la società usa e getta e sostenere un approccio più cosciente con le risorse. Dovrebbero esserci meno produzione, meno rifiuti e anche meno lavoro. Chi prende oggetti da un freeshop, risparmia i soldi che avrebbe dovuto spendere per comprarlo e così contribuisce anche ad abbattere il lavoro retribuito, simbolo del capitalismo”, si legge sul sito di Kostnix, che ha anche una versione in italiano.
“Siamo poco più di una decina di persone – racconta Valentina – e quindi riusciamo a tenere aperto Kostnix solo il martedì e il mercoledì. Ognuno di noi vi lavora senza retribuzione per due ore la settimana. L’affitto del negozio, 20 metri quadri nel centro storico di Innsbruck, costa 400 euro al mese. Ci finanziamo con un concerto annuo, delle serate con il vin brulè nelle quali ognuno offre quello che vuole, la città di Innsbruck ci dà 1000 euro l’anno, e la stessa cifra ci viene versata dai Verdi, che apprezzano il nostro contributo all’ambiente (contribuiamo alla riduzione dei rifiuti attraverso il riutilizzo degli oggetti”.
Valentina Callovi è di Trento, e si è trasferita a Innsbruck sette anni fa per fare l’università. Studia come traduttrice e interprete, adesso sta per laurearsi. “Vivo qui per scelta, non per necessità”, precisa. Cos’arriva a Kostnix? “Libri, vestiti, soprattutto per bambini, giocattoli, molte cose per la casa, dai piatti agli elettrodomestici, cd, dvd, ma anche computer e televisioni. La cosa più di valore che ci è arrivata finora è stato un abito da sposa. Per le cose più ingombranti, come armadi o divani, c’è la bacheca che raccogli gli annunci”.
Molto variegati i fornitori, un po’ di meno gli acquirenti: prendere gratis oggetti usati, anche in un Paese come l’Austria, può risultare un po’ socialmente squalificante. “Vengono a prendere gli oggetti soprattutto studenti – dice Valentina – oppure signore di 50-60 anni per lo più straniere (qui c’è per esempio un’ampia comunità turca), o infine donne con i bambini piccoli”. Una platea piuttosto ridotta rispetto a quella potenziale, e soprattutto rispetto all’obiettivo che si propone Kostnix, che è un obiettivo molto ambizioso, in qualche modo di ‘riformare’ i valori della società capitalistica: “Perché lavorare 40 ore a settimana per acquistare scarpe firmate, quando si può averle gratis, lavorando meno e godendo di una quantità maggiore di tempo libero?”, si chiede Valentina.
—
Archeologia, Israele: è stata ricomposta la stele di Eliodoro
Dai frammenti di un’iscrizione in greco nuove conferme sulla storia dei Maccabei
Gerusalemme, 15 dicembre 2009 – È un antico comunicato reale che descrive l’incarico ad un nuovo esattore di tasse. E il suo testo, decifrato dopo che quattro recenti reperti archeologici sono stati riuniti, conferisce una chiara verosimiglianza agli avvenimenti che causarono la rivolta dei Maccabei nel 167-164 a.c. e alla storia di Hanukka. Il significato del comunicato, inviato dal re siro-greco Seleuco IV (187-175 a.c.) ai governanti della Giudea, è emerso quando si è capito che tre frammenti di pietra con iscrizioni, trovati a Tel Maresha di Beit Guvrin tra il 2005 e il 2006, dovevano essere riuniti a un più grande pezzo di stele, donata al Museo d’Israele nel 2007.
La ricostituita stele, o tavola inscritta, riporta un testo del re, datato 178 a.c.: undici anni prima della rivolta dei Maccabei. La notizia della ricomposta stele di Eliodoro, come è stata ribattezzata dagli archeologi israeliani, è stata annunciata dal quotidiano ‘Jerusalem Post’ citato dal sito online Israele.Net.
La stele contiene istruzioni per il suo capo ministro Eliodoro, riguardanti l’incarico, conferito ad un certo Olimpiodoro, di cominciare a raccogliere denaro da tutti i templi della regione, cosa che segnò l’inizio di un periodo negativo nella politica dei seleucidi rispetto all’autonomia ebraica.
Quel periodo culminò in una spietata persecuzione da parte dei seleucidi ai danni degli ebrei di Giudea, e nelle misure restrittive per il Tempio del 168-167 a.c., che generarono la rivolta dei Maccabei, come viene ricordato nella storia di Hanukka. I tre pezzi più piccoli, che provengono dalla base della stele, sono stati dissotterrati sotto l’egida dell’Istituto dei seminari archeologici di Ian Stern. Da 25 anni Ian Stern porta volontari dilettanti a partecipare ai suoi scavi a Tel Maresha, nel parco nazionale Beit Guvrin.
Durante un seminario del dicembre 2005, i fortunati partecipanti trovarono in una grotta della zona un manufatto di pietra rotto, con un’iscrizione in greco. Benché il ritrovamento fosse eccezionale, il suo pieno significato storico all’epoca non apparve del tutto chiaro. “L’iscrizione conteneva 13 righe, molte delle quali interrotte. Il reperto era importante perché la scritta non era su pietra locale gessosa, ma su calcare di Hebron di qualità migliore”, ha spiegato Stern.
Nei mesi seguenti di giugno e luglio, furono trovati altri due pezzi con testo greco nello stesso sito di Tel Maresha, il che accrebbe l’interesse per il potenziale significato dei reperti. Più tardi, all’inizio del 2007, una grande stele con sezioni mancanti alla base venne data in prestito al Museo d’Israele dal cofondatore Michael Steinhardt e da sua moglie Judy, di New York.
Considerata una delle più importanti iscrizioni antiche mai trovate in Israele, la stele non è più stata esposta dopo quei mesi di maggio e giugno, a causa di una ristrutturazione della sezione archeologica del museo. Acquistata dagli Steinhardt sul mercato antiquario all’inizio del 2007, la stele del 178 a.c. contiene 28 righe di testo greco, che descrivono le istruzioni reali a Eliodoro.
Nel marzo 2007, poco prima che la stele fosse esposta al Museo d’Israele, Hannah M. Cotton-Paltiel dell’Università di Gerusalemme, specializzata in lingue classiche, e Michael Woerrle della commissione per la storia antica e l’epigrafia dell’Istituto archeologico di Monaco di Baviera, pubblicarono una traduzione e una ricerca analitica del testo della stele.
Lo stesso anno, ignaro di una possibile connessione con la stele, l’archeologo Ian Stern si consultava con Dov Gera dell’Università Ben-Gurion, uno specialista della storia ebraica durante il Secondo Tempio e di epigrafia greca, a proposito dei tre pezzi trovati a Maresha. Gera, che si mise al lavoro per decifrare le iscrizioni solo sul primo pezzo portato alla luce da Stern, ha detto che inizialmente “non aveva fatto molti progressi”.
“È solo più tardi, nell’autunno 2008, nei depositi della Israel Antiquities Authority, che sono riuscito a vedere riuniti tutti i pezzi che Stern aveva trovato sul sito, e ho cominciato a riconoscere la loro somiglianza con il pezzo del Museo d’Israele, che avevo visto quando era esposto – ha raccontato Gera – Lavorando con i tre pezzi al deposito, e passando del tempo in biblioteca e altro tempo a casa, ci fu un momento particolare nel quale mi resi conto che i tre pezzi appartenevano alla stessa iscrizione”: come quella sulla stele che aveva visto l’anno precedente al Museo d’Israele.
Quando la stele venne ricomposta per la prima volta – a febbraio scorso – con i tre frammenti trovati dagli archeologi volontari, Stern ricorda con orgoglio: “Combaciavano perfettamente”. Un altro ricercatore che ha lavorato con Stern, Yuval Goren dell’Università di Tel Aviv, è certo, sulla base della patina e dei resti di terra che vi sono attaccati, che la stele acquistata dagli Steinhardt doveva provenire dalla stessa area di cave gessose dove sono stati trovati gli altri tre pezzi. Insieme, la stele e i suoi frammenti costituiscono la più grande iscrizione del genere mai rinvenuta in Israele.
Il testo decifrato, indirizzato da Seleuco IV al capo dei ministri Eliodoro e a due altri funzionari seleucidi, Dorymene e Diofane, combacia perfettamente con il secondo libro dei Maccabei. Seleuco IV era il fratello maggiore di Antioco IV, che gli succedette e la cui persecuzione degli ebrei è citata in Maccabei II come la causa della rivolta dei Maccabei.
Eliodoro è descritto nello stesso libro come colui che causò il primo conflitto aperto tra i seleucidi e gli ebrei, cercando di impadronirsi dei fondi del Tempio di Gerusalemme nello stesso anno del comunicato, il 178 a.c. Nel messaggio, che presumibilmente era destinato ad essere visto dai residenti di Maresha – uno dei centri della comunità ebraica dell’epoca – Eliodoro viene formalmente informato che Olimpiodoro è stato designato, tra gli altre compiti, a supervisionare la raccolta delle tasse con ‘moderazione’ da tutti i maggiori santuari entro le satrapie, o province, di Coele-Syria (poi Palestina e Israele) e Fenicia (lungo la costa mediterranea del moderno Libano).
Si presume che questo nuovo incarico sia stato reso necessario dalla morte o dal licenziamento di un precedente governatore. Secondo Gera, l’incarico di Olimpiodoro come supervisore di tutti i santuari di Coele-Syria e Fenicia, compreso in particolare il Tempio di Gerusalemme, era inteso ad espandere la giurisdizione finanziaria dell’impero seleucide. Fino a quel momento, l’impero non aveva tassato gli ebrei della regione. Il re precedente, Antioco III, padre di Seleuco IV e di Antioco IV, aveva concesso ampia autonomia religiosa ai popoli delle satrapie del suo impero durante il suo regno, dal 222 al 187 a.c., e Seleuco IV aveva continuato a rispettare le decisioni di suo padre riguardo agli ebrei. Ma solo fino a l’impero cominciò verosimilmente a restare a corto di denaro.
Come ha osservato Stephen Gabriel Rosenberg del W. F. Albright Institute of Archeological Research di Gerusalemme, “gli ebrei di Gerusalemme avevano accolto Antioco III spalancando le porte della città al suo esercito nel 200 a.c., e in cambio lui aveva concesso uno statuto che permetteva loro di vivere secondo le loro abitudini ancestrali, esentava i sacerdoti dalle tasse e dava perfino contributi reali per la manutenzione del Tempio e per i sacrifici”.
La designazione di Olimpiodoro e la nuova richiesta di pagare tasse all’impero, come scritto sulla stele, rappresentava quindi evidentemente un cambiamento cruciale nell’atteggiamento dei seleucidi verso gli ebrei. Può anche essere stato considerato, in Giudea, una diretta violazione dell’autonomia religiosa ebraica: la violazione di uno status quo scritto, concordato con lo statuto di Antioco III. I templi all’epoca erano il posto più sicuro in cui nascondere il denaro, sottolinea Ian Stern.
La tentazione di impadronirsi di una parte dei beni del tempio degli ebrei a Gerusalemme per l’indebitato impero seleucide – che era in debito con Roma per un indennizzo richiesto dall’impero romano in risposta all’espansione seleucide nella regione – fu evidentemente troppo forte. Secondo Maccabei II, fu Simon di Bilgah che, per disprezzo verso l’alto sacerdote ebreo Onias, menzionò al governatore seleucide locale che il Tempio di Gerusalemme “conteneva ricchezze inaudite; suggerendo di trasferirle sotto il controllo di Seleuco IV”.
Come scritto in Maccabei II (e dipinto nella ‘Espulsione di Eliodoro dal Tempio’, di Raffaello), Eliodoro fu mandato da Seleuco a impadronirsi del tesoro contenuto nel Tempio. Al suo ingresso, Eliodoro fu affrontato da un cavallo con un cavaliere in armatura d’oro, fiancheggiato da due giovani che lo buttarono a terra. La sua vita fu risparmiata per intervento del sacerdote Onias, ma venne cacciato dal Tempio a mani vuote.
L’archeologo Gera ipotizza che non fosse Eliodoro, bensì Olimpiodoro, che tentò di entrare nel Tempio e che ne venne cacciato, e che l’apparente confusione e/o revisione storica fosse destinata a mettere in una luce negativa in tutta la regione la figura più importante, Eliodoro, piuttosto che una figura minore come Olimpiodoro. Tre anni dopo, nel 175 a.C., Eliodoro assassinò Seleuco IV e assunse il potere, solo per essere rapidamente rovesciato da Antioco IV, di ritorno dalla prigionia a Roma.
In generale si ritiene che Antioco IV cercò di ellenizzare gli ebrei (ma un professore dell’Università di Gerusalemme, Doron Mendels, in un nuovo libro, ‘Jewish Identities in Antiquity’, sostiene che, sebbene nel decennio degli anni 160 a.c. il regno greco dei seleucidi decretasse che gli ebrei dovevano smettere di obbedire ai comandamenti rituali ebraici, esso non richiedeva loro specificatamente di adottare le pratiche ellenistiche).
Nel 169/168 a.c. il Tempio venne trasformato in un santuario dedicato al dio greco Zeus, il tesoro del tempio saccheggiato, il Sancta Sanctorum dissacrato e tutte le pratiche religiose ebraiche furono messe fuori legge. Verso il 167 a.c., mentre circolavano false voci sulla morte di Antioco in Egitto, in Giudea scoppiò la rivolta.
Alla notizia della rivolta, il re marciò con il suo esercito sulla Giudea nel tentativo di soffocarla. Come descritto in Maccabei II, “Quando questi avvenimenti furono riferiti al re, egli pensò che la Giudea fosse in rivolta. Furioso come un animale selvaggio, partì dall’Egitto e assaltò Gerusalemme. Ordinò ai suoi soldati di abbattere senza pietà quelli che incontravano e di massacrare quelli che si rifugiavano nelle proprie case. Fu un massacro di giovani e vecchi, di donne e bambini, di vergini e neonati. Nello spazio di tre giorni, ci furono 80.000 perdite, di cui 40.000 incontrarono una morte violenta e altrettanti furono venduti in schiavitù”.
Le violenze innescarono la rivolta dei Maccabei contro l’impero, guidata da Mattatia e dai suoi cinque figli: Judah, Eleazar, Simeon, Yohanan e Jonathon. Nel 164 a.c. la rivolta finiva con successo e il Tempio dissacrato veniva liberato e purificato il giorno 25 di Kislev: celebrato fino d oggi come il primo giorno di Hanukka.
Secondo David Mevorah, curatore dei periodi ellenistico, romano e bizantino al Museo d’Israele, la stele, ora conservata nel museo insieme ai tre frammenti trovati da Ian Stern, sarà esposta al pubblico – ricomposta – quando verrà aperto il nuovo dipartimento di archeologia nell’estate 2010 a Gerusalemme.
http://quotidianonet.ilsole24ore.com/cultura/2009/12/15/271365-archeologia_israele_stata.shtml
—