Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for the ‘4 Mediattivismo’ Category

Mediattivismo 037

Migranti: provate a vivere un giorno senza di noi 03.12.2009

Non volete immigrati tra i piedi? Benissimo: provare per credere. Nadia Lamarkbi, giornalista francese, ha lanciato l’idea su Internet: cosa succederebbe se il paese si svegliasse domani senza stranieri? Nadia ha aperto una pagina Facebook, titolandola: “Un giorno senza immigrati: 24 ore senza di noi”. Risposta immediata: subito 33.000 le adesioni. L’appuntamento è per il 1° marzo 2010. Quel giorno, in Francia (e non solo) sciopereranno infermieri, bidelli, taxisti, operai, spazzini, baby sitter, lavapiatti e badanti.

«Quello che sembrava uno sfogo provocatorio è diventata un’iniziativa concreta», osserva Luca Galassi su “PeaceReporter”. Una protesta indipendente da qualsiasi gruppo (politico, sindacale, religioso). «Secondo gli organizzatori – continua Galassi – in questo modo la società francese si renderà conto della vera ricchezza dell’immigrazione». Oltre agli stranieri, si chiamano a raccolta tutti i cittadini pienamente consapevoli dell’apporto dell’immigrazione sull’economia e sulla società francese, invitando in piazza chiunque voglia «porre fine alle discussioni nauseabonde sull’identità francese».

Da Parigi, aggiunge “PeaceReporter”, si stanno organizzando sulla rete con un blog dedicato, diversi gruppi territoriali, un forum. «Confidano in un effetto valanga». Yassine scrive su Facebook: «La Francia non ha mai mancato un’occasione con la storia, la Francia non è Sarkoland, saremo in tanti». Mimoun: «E’ l’unica lezione che gli immigrati possono dare a questa società che non riconosce la loro utilità». Soraya: «Non dimentichiamo che i lavoratori sans-papier hanno i lavori più ingrati, tutti i segmenti della popolazione devono essere mobilitati, a partire dai più bisognosi».

Una giornata, ricorda Galassi, che ricorrerà a tre anni esatti dall’entrata in vigore in Francia del “codice di ingresso e soggiorno degli stranieri”, una legge aspramente contestata perchè rappresenta «una visione utilitaristica dell’immigrazione oltreché selettiva, basata su criteri economici».

L’iniziativa ha anche un precedente storico negli Usa, dove il 1° maggio del 2006 centinaia di migliaia di persone di origine ispanica boicottarono tutte le loro attività: lavoro, scuola e consumi. In 600.000 scesero allora in piazza a Los Angeles e in 300.000 a Chicago, con manifestazioni dalla California a New York al grido di «Se ci fermiamo noi, si fermano gli Stati Uniti».

L’eco del ’sans papiers day’ d’Oltralpe ha raggiunto anche l’Italia, e grazie a Facebook si sta diffondendo a macchia d’olio, aggiunge Galassi. «Gli iscritti hanno superato il migliaio, ma l’effetto domino del social network porterà sicuramente alla causa della manifestazione in terra nostrana numeri di gran lunga superiori, considerato che l’iniziativa è prevista tra tre mesi». Chi volesse aderirvi, può incollare sulla barra degli indirizzi la url: http://www.facebook.com/group.php?v=wall&ref=search&gid=208029527639#/group.php?v=wall&ref=nf&gid=208029527639 (info: www.peacereporter.net).

http://www.libreidee.org/2009/12/migranti-provate-a-vivere-un-giorno-senza-di-noi/

Dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/

Copenhagen

Il Corriere della Sera parla di una “rivolta degli emergenti” alla conferenza sul clima. Il gruppo dei 77 con la Cina ha sostenuto che la presidenza danese stava cercando di uccidere Kyoto, mettendo fine al meccanismo sulla base del quale gran parte dei Paesi ricchi – ma non gli Stati Uniti – prendono impegni precisi nel taglio delle emissioni, mentre quelli in via di sviluppo sono sollecitati a ridurli ma non vincolati a farlo. E lo stesso quotidiano descrive “il gioco ambiguo della Cina, superpotenza alleata dei poveri”, la cui mano sarebbe dietro al boicottaggio africano. La Repubblica: “Il summit scopre la grinta dei poveri: ‘Niente accordi sulla nostra pelle’. L’Africa minaccia di andare via e finalmente viene ascoltata’. L’inviato a Copenhagen racconta anche come il surriscaldamento minacci la vita dei popoli indigeni: gli abitanti di foreste e zone fredde sono a rischio per i cambiamenti climatici. Anche su La Stampa: “L’Africa si ribella: ‘Dateci più aiuti o ce ne andiamo’”.

Obama avverte le banche americane “Vogliamo recuperare aiuti pubblici” 14.12.2009

Il presidente: chiederemo indietro ogni singolo centesimo concesso

NEW YORK
Poche ore dopo avere ricordato di non essere finito alla Casa Bianca «per aiutare un gruppo di ricchi banchieri di Wall Street», il presidente degli Stati Uniti Barack Obama li ha oggi esortati a fare molto di più e a prendere impegni straordinari per il rilancio dell’economia, essendo stati salvati grazie al denaro pubblico.

Spiegando che è sua intenzione recuperare gli aiuti dei contribuenti «fino all’ultimo cent», Obama lo ha detto ai principali banchieri Usa al termine di un ’verticè convocato alla Casa Bianca, un incontro da lui stesso definito «franco e produttivo». La frase, piuttosto critica, nei confronti degli stessi banchieri, era stata pronunciata in una intervista per la trasmissione “60 minutes” della Cbs, in onda ieri. Nel corso dell’intervista il presidente si era detto convinto che alcune delle banche avevano anticipato i rimborsi degli aiuti pubblici per liberarsi da qualsiasi vincolo e garantirsi il pagamento di lauti bonus alla fine dell’anno. Oggi Obama non ha ripetuto le parole di “60 minutes” e non ha avuto neppure i toni particolarmente duri del suo consigliere David Axelrod, secondo cui «la gente non è pronta a tollerare una situazione in cui i banchieri organizzano una festa, fanno pagare il conto agli altri e quindi si distribuiscono elevati bonus rifiutando di prestare denaro».

Ricordando la decisione, annunciata poche ore prima, della Citibank, pronta a restituire allo Stato circa 20 miliardi di aiuti, Obama ha detto: «ci aspettiamo che altri seguano l’esempio». In realtà tutte le grandi banche o quasi hanno annunciato mega rimborsi: restano sotto il controllo pubblico il colosso assicurativo Aig e quelli automobilistici General Motors e Chrysler. Al ’verticè della Casa Bianca non c’erano tutti i banchieri: mancava il numero uno di Citicorp, Vikram Pandit, ma visto l’annuncio odierno del rimborso era scusato. Non sono giunti a Washington a causa della nebbia, ma hanno partecipato all’incontro per videoconferenza tre altri ’pesi massimì: il presidente e Ceo di Goldman Sachs Lloyd Blankfein, i suoi colleghi di Morgan Stanley e di Citigroup John Mack e Dick Parsons. Erano tutti e tre sullo stesso aereo, non si sa se privato o di linea. Al termine dell’incontro Obama ha parlato per circa 5 minuti. Alle banche il presidente Usa ha detto che, visto gli aiuti «eccezionali» ricevuti, «ora che sono di nuovo in piedi ci aspettiamo da loro un impegno straordinario per aiutarci a ricostruire la nostra economia».

Obama ha infine criticato l’atteggiamento dei banchieri nei confronti della riforma delle regole finanziare appena varata dalla Camera dei Rappresentanti, ora al vaglio del Senato. «Ci sono grosse differenze – ha detto il presidente – tra quello che sento qui alla Casa Bianca», con i banchieri che appoggiano la riforma mentre i lobbisti delle banche al Congresso fanno di tutto per affossare il nuovo provvedimento.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200912articoli/50375girata.asp

Approvato a larga maggioranza il parere della sesta Commissione che critica duramente il ddl 14.12.2009

“In contrasto con più principi costituzionali avrebbe effetti devastanti”

Il Csm boccia il processo breve “E’ incostituzionale ed è amnistia”

ROMA – Il ddl sul processo breve “è in contrasto con più principi costituzionali ed è un’amnistia per reati “di considerevole gravità”, a cominciare dalla corruzione. Con queste motivazioni il plenum del Csm ha approvato a larga maggioranza il parere della sesta Commissione che, di fatto, ha bocciato il disegno di legge del governo dopo quasi cinque ore di dibattito.

L’approvazione è avvenuta nel corso di una seduta straordinaria. Contrari i laici del Pdl; a favore hanno votato invece i togati di tutte le correnti, i laici del centro-sinistra, il vice presidente Nicola Mancino. Il parere ha messo in luce misure “dannosissime” che rischiano di avere per la giustizia l’effetto di uno “tsunami”.

La relazione che Palazzo dei Marescialli invierà al ministro della Giustizia contiene numerose critiche, alcune molto dure, all’impianto della norma che, secondo i consiglieri, non solo avrà l’effetto di un'”inedita amnistia processuale” per reati di “considerevole gravità”, a cominciare dalla corruzione e dai maltrattamenti in famiglia, e rischia di portare alla “paralisi” l’intera attività giudiziaria.

Ma il ddl sul processo breve determinerà anche “un incremento dei danni finanziari a carico dello Stato”. La critica di fondo è che introducendo termini perentori per la conclusione di ognuno dei tre gradi di giudizio (due anni ciascuno, sei in tutto), al di fuori di “un’ampia riforma di sistema e di misure strutturali organizzative”, di fatto si renderà “impossibile l’accertamento” della fondatezza dell’accusa “per intere categorie di reati”, che è invece la “primaria finalità “di ogni processo. Ecco i principali rilievi di Palazzo dei Marescialli

Incostituzionalità. Il ddl “non appare in linea con l’articolo 111” (giusto processo), nè con l’articolo 24 (diritto alla difesa) visto che “privilegia il rispetto della rapidità formale” ma non garantisce “che il processo si concluda con una decisione di merito”. E non è tutto: “depotenzia lo strumento processuale e irragionevolmente sacrifica i diritti delle parti offese” attraverso il quale lo Stato esercita la “pretesa punitiva”.

Rischio amnistia sopratutto per corruzione. Si “rischia di impedire del tutto l’accertamento giudiziario” e dunque di “vanificare la lotta alla corruzione”, visto che questo reato – che tra l’altro “incide anche sull’affidabilità economica del Paese è già stato pesantemente condizionato dai nuovi termini di prescrizione” previsti dalla ex Cirielli. Ma c’è di più: il ddl è in “netto contrasto con i principi sanciti dalla Convenzione dell’Onu contro la corruzione”.

Irragionevole disparità di trattamento. Il Csm ne segnala più d’una, come la scelta di “riservare le nuove disposizioni al solo giudizio di primo grado”: così si riconosce “ad una categoria di imputati e di parti civili, casualmente identificati il diritto alla celerità processuale che dovrebbe essere, viceversa, garantito a tutti”. “Irragionevole e discriminatoria” è anche l’esclusione dei recidivi, che oltretutto porterà a “un’assurda proliferazione dei processi, capace da sola, di favorire la paralisi dell’attività giudiziaria”. “Discutibile”, inoltre, la “parificazione fra le ipotesi di delitto punite assai gravemente con le contravvenzioni in materia di immigrazione”.

Maggiori danni finanziari per lo Stato. Il ddl determinerà il loro “significativo aumento” visto che farà “lievitare” le domande di indennizzo previste dalla Legge Pinto, quando la giustizia è troppo lenta, riducendo da tre a due anni il termine utile per la celebrazione dei processi e non si accompagna alcuna specifica previsione di spesa, come imporrebbe l’art 81 della Costituzione.

Mancino. “Anziché avere certezze, abbiamo l’estinzione dei diritti, non la certezza della pena”, ha sottolineato il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, spiegando il suo voto favorevole al parere. “Ho l’impressione – ha aggiunto Mancino – che anziché avere un’accelerazione, alla fine ci sarà un allungamento dei tempi dei processi, la loro estinzione e la riproduzione di conseguenze in campo civile con un ulteriore aggravio”. Il numero due di Palazzo dei Marescialli, inoltre, ha ribadito che il Csm “non ha poteri di bocciatura: trasmetteremo il parere al ministro che può farne l’uso che vuole. Ma mi chiedo: chi ha paura dei pareri?”.

http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/politica/giustizia-21/csm-processo-breve/csm-processo-breve.html

L’analisi e la proposta degli economisti della New economics foundation (Nef)
“Collegare gli stipendi al contributo di benessere che un lavoro porta alla comunità”

I banchieri? Un danno per la società “Vale di più l’operatore ecologico” 14.12.2009

di CRISTINA NADOTTI

Vale più un addetto alle pulizie, soprattutto se in ospedale, che un banchiere. In più, il secondo crea anche problemi alla società. Sembra tanto l’affermazione fatta da un qualsiasi avventore di bar e invece è la conclusione della ricerca elaborata dal think tank della New economics foundation (Nef), un gruppo di 50 economisti famosi per aver portato nell’agenda del G7 e G8 temi quali quello del debito internazionale.

Il Nef ha calcolato il valore economico di sei diversi lavori, tre pagati molto bene e tre molto poco. Un’ora di lavoro di addetto alle pulizie in ospedale, ad esempio, crea dieci sterline di profitto per ogni sterlina di salario. Al contrario, per ogni sterlina guadagnata da un banchiere, ce ne sono sette perdute dalla comunità. I banchieri, conclude il Nef, prosciugano la società e causano danni all’economia globale. Non bastasse questo, valutano ancora gli economisti impegnati in un’etica della finanza, i banchieri sono i responsabili di campagne che creano insoddisfazione, infelicità e istigano al consumismo sfrenato.

“Abbiamo scelto un nuovo approccio per valutare il reale valore del lavoro – spiega il Nef nell’introduzione alla ricerca – . Siamo andati oltre la considerazione di quanto una professione viene valutata economicamente ed abbiamo verificato quanto chi la esercita contribuisce al benessere della società. I principi di valutazione ai quali ci siamo ispirati quantificano il valore sociale, ambientale ed economico del lavoro svolto dalle diverse figure”.

Un altro esempio che illustra bene il punto di partenza del Nef è quello della comparazione tra un operatore ecologico e un fiscalista. Il primo contribuisce con il suo lavoro alla salute dell’ambiente grazie al riciclo delle immondizie, il secondo danneggia la società perché studia in che modo far versare ai contribuenti meno tasse.

“La nostra ricerca analizza nel dettaglio sei lavori diversi – si legge ancora nell’introduzione – scelti nel settore pubblico e privato tra quelli che meglio illustrano il problema. Tre di questi sono pagati poco (un addetto alle pulizie in ospedale, un operaio di un centro di recupero materiali di riciclo e un operatore dell’infanzia), mentre gli altri hanno stipendi molto alti (un banchiere della City, un dirigente pubblicitario e un consulente fiscale). Abbiamo esaminato il contributo sociale del loro valore e scoperto che i lavori pagati meno sono quelli più utili al benessere collettivo”.

La ricerca, infine, smonta anche il mito della grande operosità di chi ha lavori ben retribuiti e di grande prestigio: chi guadagna di più, conclude il Nef, non lavora più duramente di chi è pagato poco e stipendi alti non corrispondono sempre a un grande talento. Eilis Lawlor, portavoce della Nef, ha voluto però precisare alla Bbc: “Il nostro studio vuole sottolineare un punto fondamentale e cioè che dovrebbe esserci una corrispondenza diretta tra quanto siamo pagati e il valore che il nostro lavoro genera per la società. Abbiamo trovato un modo per calcolarlo e questo strumento dovrebbe essere usato per determinare i compensi”.

http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/economia/mestieri-valore-nef/mestieri-valore-nef/mestieri-valore-nef.html

Solare dallo spazio? Dalla fantascienza alla scienza 11.12.2009

Di Alessandro D’Amato (su http://www.giornalettismo.com/)

Una nuova prospettiva per l’ambiente: per la prima volta al mondo in California è stato approvato un progetto per la realizzazione del primo impianto ad energia fotovoltaico situato in orbita

Sembra fantascienza, e in effetti ricalca un’idea uscita da un libro di Isaac Asimov, il quale nel 1941 (nel suo romanzo Reason) immaginava una stazione spaziale che raccoglieva energia e la inviava al nostro pianeta.

Eppure è tutto vero: entro il 2016 diverrà operativo il primo parco solare orbitante intorno alla Terra; l’impianto, che sfrutterà una tecnologia inedita creata da ingegneri aerospaziali che hanno lavorato per la Boeing e per la Nasa, genererà una potenza di 200 megawatt.

Ma come sarà resa fruibile? L’energia solare raccolta nello spazio verrà convertita in onde a radiofrequenza, che verranno irradiate ad una stazione a terra vicino a Fresno, in California. Le onde radio saranno poi trasformate nuovamente in energia elettrica e immesse nella rete elettrica. Per rendere meglio l’idea considerate che la Tv satellitare funziona più o meno allo stesso modo, anche se il suo fine non è quello di genererare energia.

“A livello concettuale, i vantaggi di questo progetto sono significativi”, ha detto Michael Peevey, presidente della California Public Utilities Commission, nel corso di una conferenza tenutasi al scorsa settimana. “Questa tecnologia potrebbe offrire un accesso illimitato nel tempo a una fonte inesauribile di energia pulita, e mentre non c’è dubbio che ci saranno molti ostacoli da superare, sia di tipo regolamentare che tecnologico, è altrettanto difficile mettere in discussione l’audacia del progetto”.

Ma come è nato il progetto? L’idea parte dalla Solaren, una start up della California del Sud, che si occuperà della progettazione, costruzione e messa in orbita dei componenti per l’impianto di energia solare.
Inoltre venderà l’energia elettrica generata alla Pacific Gas and Electric – la maggiore società distributrice nel Nord della California – nell’ambito di un contratto di 15 anni. Se i piani verranno rispettati, nel 2016 ci sarà la prima casa illuminata con energia proveniente direttamente dallo spazio.

La Solaren, fondata da ingegneri veterani della Hughes Aircraft, della Boeing e Lockheed, utilizzerà una tecnologia innovativa protetta da un brevetto proprietario: costruirà uno specchio fluttuante gonfiabile di un km (0,62 miglia) di diametro denominato Mylar che raccoglierà la luce nello spazio; poi l’energia verrà concentrata su uno specchio più piccolo e i raggi, a loro volta, verranno raccolti da moduli fotovoltaici.

Poter aprire, gonfiandolo come un palloncino, lo specchio in orbita risolverà i problemi che fin a ora avevano reso impossibile la realizzazione di un impianto simile. Infatti Gary Spirnak, direttore esecutivo di Solaren (con esperienze nella progettazione e nell’organizzazione dei voli effettuati dallo Shuttle per la United States Air Force) ha spiegato che “il problema principale per poter rendere economicamente redditizio un parco solare nello spazio è quello di abbattere al massimo il peso della struttura per ridurre il numero di lanci di razzi” e ha continuato “Al momento attuale bisogna riconoscere che realizzare un impianto di energia solare nello spazio costa qualche miliardo di dollari più di un parco fotovoltaico terrestre e genera una quantità equivalente di energia elettrica”.

E allora perché continuare?
Un particolare interessante è che la quantità di energia da sfruttare è immensamente maggiore: se non ci sono condizioni atmosferiche sfavorevoli a ostacolare l’approvigionamento, praticamente l’unico impedimento è il sopraggiungere dell’oscurità.
Per far capire meglio Spirnak spiega: “Calcolate che un solo chilometro di banda di orbita terrestre geosincrona genera un flusso di energia solare in un anno (circa 212 terawatt-anno) pari a quasi la quantità di energia contenuta in tutte le note riserve recuperabili di petrolio convenzionale oggi sulla terra (circa 250 TW- anno)”.

Insomma, una fonte inesauribile tutta da sfruttare una volta superati i problemi iniziali: tutto lascia prevedere che questo sarà solo il primo di una serie di progetti analoghi.

http://green.liquida.it/energie-alternative/solare-dallo-spazio-dalla-fantascienza-alla-scienza.html

nel testo approvato dalla Commissione Bilancio

Finanziaria, il governo mette la fiducia Ma Fini contesta: «Scelta deprecabile» 15.12.2009

L’annuncio del ministro Elio Vito accolto da applausi, poi la maggioranza attacca il presidente della Camera

ROMA – «Pongo la questione di fiducia sull’approvazione dell’articolo due della legge finanziaria nel testo licenziato dalla commissione Bilancio». L’annuncio del ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito è stato accompagnato dagli applausi dei deputati della maggioranza. Applausi che il presidente Gianfranco Fini ha commentato così: «Sono bene augurali».

FINI CONTRO – Ma poi Fini ha bacchettato la maggioranza: «La decisione del governo di apporre la questione di fiducia è legittima ma riveste carattere politico perché attinente esclusivamente ai rapporti tra maggioranza e governo. Ed è per tale motivo che la presidenza della Camera ritiene deprecabile la decisione del governo perché impedisce all’Aula di pronunciarsi sugli emendamenti». Da parte delle opposizioni, spiega infatti Fini, «gli ostacoli all’approvazione sono stati inesistenti».

REAZIONI – Posta la fiducia, si comincerà a votare mercoledì alle 12. Il voto finale sul provvedimento è previsto per giovedì. Nell’attesa non sono mancate le reazioni alle parole di Fini da parte della stessa maggioranza. A cominciare dal ministro leghista Roberto Calderoli: «Dalla presidenza della Camera ci si attende l’applicazione e il rispetto dei regolamenti e della Carta Costituzionale e non certo valutazioni sul fatto se sia deprecabile o meno una richiesta di fiducia, la cui valutazione di merito spetta all’esecutivo, in quanto la richiesta di fiducia è finalizzata proprio a verificare il rapporto fiduciario intercorrente tra la maggioranza e l’esecutivo». Parole di critica a Fini anche da Giancarlo Lehner, deputato del Pdl: «Fini, a questo punto, da un lato si staglia nitidamente come capo di tutte le opposizioni, parlamentari ed extraparlamentari, dall’altro marca la sua separazione dal Pdl. Gli auguro un ottimo proseguimento nel campo opposto». Contro Fini anche Osvaldo Napoli, vicepresidente del Pdl: «Il presidente della Camera indica scelte politiche che non gli competono. La sua posizione è insostenibile. Lui non dirige più i lavori d’Aula, ma detta scelte che spettano al governo. Neppure può scambiarsi per il leader dell’opposizione». Critiche anche da Sandro Bondi, coordinatore del Pdl: «La decisione e soprattutto la valutazione espressa dal presidente della Camera sono destinate a non aiutare l’apertura di un clima politico nuovo di cui l’Italia ha bisogno». La sintesi di tutto ciò si trova nella nota dei capigruppo di Pdl e Lega Fabrizio Cicchitto e Roberto Cota, che hanno sottolineato che la questione di fiducia appartiene «alla competenza e alle valutazioni del governo e della maggioranza» tanto da essere una scelta «certamente del tutto fisiologica e naturale». Parole che il ministro dell’Economia Giulio Tremonti condivide «pienamente». Conversando a Montecitorio con parlamentari della maggioranza, Tremonti avrebbe confidato di «riconoscersi pienamente ed esclusivamente nel testo della nota congiunta dei capigruppo».

L’OPPOSIZIONE – Sul fronte del Pd, Dario Franceschini rileva: «Nella maggioranza ci sono problemi politici irrisolti che emergono puntualmente. E la fiducia è l’unico modo per tenere insieme questa maggioranza». Secondo il segretario Pier Luigi Bersani «le osservazioni di Fini sono più che motivate». Più volte, aggiunge, abbiamo detto «che vanno raccolti gli elementi di disagio e di proposta che vengono dal Paese e che il Parlamento sia messo nelle condizioni di lavorare. Invece tutto viene messo a tacere con continui voti di fiducia. Così non si può andare avanti. Siamo di fronte a una situazione ingestibile».

http://www.corriere.it/economia/09_dicembre_15/finanziaria-fiducia-governo_640e5402-e968-11de-ad79-00144f02aabc.shtml

La farsa della pace 16.12.2009

MICHELE BRAMBILLA

Com’era facilmente prevedibile, siamo già qui a officiare il funerale del «normale e civile confronto» invocato dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il «normale e civile confronto» in Italia rientra a pieno titolo fra tutte le più belle cose cantate da Fabrizio De Andrè: vivono solo un giorno, come le rose.

Un giorno in cui s’è dato sfoggio a tutta quella retorica che è lì, nel vocabolario dei politici, sempre pronta a essere riesumata. La retorica per la quale la condanna è sempre ferma; la solidarietà piena; lo sdegno unanime; l’aggressione vile; la spirale pericolosa; la preoccupazione profonda; il monito severo. Quanto fossero sinceri certi buoni propositi, lo abbiamo visto già ieri. L’«auspicato dialogo» (altro termine-totem) centrato «sulla politica e sui problemi della gente», piuttosto che sugli attacchi personali, è ripreso a colpi non di fioretto, ma di cannone.

Non è nostra intenzione fare una classifica per stabilire chi s’è rivelato più incontinente. Tuttavia non può non colpire un fatto. Nelle ore successive al ferimento del premier, è stato il centrodestra a reclamare a gran voce – e a ragione – un abbassamento del livello dello scontro. Sarebbe stato quindi ovvio attendersi un comportamento che desse immediatamente il buon esempio. E invece si è partiti da un attacco del Giornale, già lunedì mattina, che ha parlato di «una regia dietro la violenza» in un articolo che ha indotto Pier Ferdinando Casini a sporgere querela. E stiamo parlando di Casini: non di un incendiario.

Ieri mattina poi, alla Camera, il capogruppo del Pdl Cicchitto ha dato dei mandanti morali al gruppo editoriale Repubblica-Espresso e ad «alcuni pm», e del «terrorista mediatico a Marco Travaglio». Anche Travaglio farà querela. Era stato tirato in ballo pure da Capezzone e dal condirettore del Giornale Sallusti, e ieri ha risposto loro su Il Fatto ricordando, a proposito di «normale e civile confronto», Berlusconi che dà dei «coglioni» agli italiani che non votano per lui; «l’uso criminale della tv» attribuito a Enzo Biagi; Sgarbi che dà degli «assassini» ai pm di Milano e Palermo; il pedinamento del giudice Mesiano; le false accuse al direttore di Avvenire Dino Boffo «di essere gay» e a «Veronica Lario di farsela con la guardia del corpo».

Insomma à la guerre comme à la guerre. Di Pietro, tanto per guardare anche dall’altra parte, era stato uno dei primi, già domenica sera, a ignorare l’appello ad abbassare i toni. Però ieri quando lui ha cominciato a parlare alla Camera, l’intero gruppo del Pdl ha lasciato l’aula: e non è un bel modo per gettare acqua sul fuoco. Così come benzina, e non acqua, ha gettato subito dopo sul fuoco il parlamentare dell’Idv Barbato, che ha definito il Pdl «popolo della mafia». Altri titoli di ieri. Il Giornale: «La Bindi? L’avevo detto: è più bella che intelligente»; «E Travaglio insiste: Si può odiare il premier»; «Bersani dagli insulti alle lacrime di coccodrillo». Perché ce n’è anche per il Pd: «La famiglia di Tartaglia ha detto di aver sempre votato per il Pd. Coincidenza pure questa?». Titoli visti, invece, su Libero: «In Italia si respira guerra. E la colpa è dei compagni»; «Le toghe tirano due statuette».

Intendiamoci. Il centrodestra ha ragione quando dice che da tempo contro Berlusconi s’è scatenata una caccia all’uomo che travalica ogni legittima critica politica. A quest’uomo vengono addebitati tutti i mali possibili e immaginabili, terremoti compresi. Resta però bizzarro invocare una tregua a Berlusconi sanguinante e infrangerla a Berlusconi ricoverato.

Il timore è che nessuno dei due «partiti» abbia intenzione di deporre le armi. Ieri un editoriale su Repubblica di Aldo Schiavone terminava con questa affermazione: «Non abbiamo bisogno di intelligenze “al di sopra delle parti”, né abbiamo bisogno di edulcorare le nostre asprezze». Schiavone definisce simili atteggiamenti come «finzioni» e «ipocrisie». Sarà. Ma crediamo di non sbagliare se diciamo che in Italia c’è una maggioranza che vorrebbe una politica meno da ring, e che vorrebbe giudicare fatto per fatto, idea per idea, senza essere prigioniera di due curve di ultrà che rinunciano a pensare con la propria testa. È l’Italia che ha conservato non solo modi civili, ma anche uno sguardo senza pregiudizi sulla realtà.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6743&ID_sezione=&sezione=

---

Italia, equo compenso mobile 15.12.2009

Si apre il dibattito sull’opportunità di estendere l’equo compenso ai telefonini. Intervengono Parisi, Presidente asstel, FIMI e SIAE. Rilanciata l’idea Legal Bay e di una licenza unica

Roma – SIAE e FIMI rispondono a Stefano Parisi, l’AD di Fastweb e presidente di Asstel, che nei giorni scorsi aveva anticipato l’intenzione di estendere l’equo compenso ai telefonini attraverso un decreto del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi. La quota spettante ai detentori dei diritti sul prezzo di apparecchi teoricamente utilizzabili per effettuare copie di materiale protetto da proprietà intellettuale, come masterizzatori e videoregistratori, ma anche CD, memory card e hard disk, veniva fortemente criticata dal presidente di Asstel come un attacco diretto all’ICT.

In un comunicato Confindustria Cultura Italia (CCI), che comprende tra le altre FIMI, AGIS, ANICA e UNIVIDEO, ha fatto riferimento direttamente alle parole di Parisi, giudicandole un intervento interessato solo a raccogliere il consenso parlando di argomenti a colpo sicuro: tasse e telefonini, ovvero l’odi et amo del popolo italiano. Secondo CCI Parisi sorvolerebbe scientemente sulla necessità, sentita da anni, di un decreto che aggiorni i compensi sui supporti e gli strumenti che consentono di realizzare copie ad uso personale in linea con quanto avvenuto in Europa. Sarebbero quattro anni, insomma, che le tariffe non sarebbero adeguate mancando un decreto ad hoc.

Nel comunicato si sottolinea inoltre come Parisi dimenticherebbe inoltre di mettere in luce che i telefonini e gli altri prodotti elettronici, nonostante tale mancanza di equiparazione, costerebbero in Italia già più che all’estero. E, secondo FIMI, potrebbe sostenere che la colpa sia imputabile all’industria dei contenuti “solo chi impunemente aumenta i suoi margini a danno della giusta remunerazione di tutte le altre categorie”.

Dal momento, poi, che un’indagine condotta nel 2009 mostra che i cellulari con supporto multimediale sono più utilizzati (19 per cento) per sentire la musica dello stesso iPod (18 per cento), il lettore maggiormente diffuso, mantenere la differenziazione significherebbe creare una disparità di trattamento fiscale tra prodotti concorrenti.

SIAE, che gestisce un equo compenso di oltre 60 milioni di euro, concorda con FIMI sulla possibilità di estendere il principio ai nuovi apparecchi: innanzitutto sottolinea che non si tratta di una tassa ma di “una remunerazione per il lavoro di autori, editori, produttori, artisti e interpreti”. Non adeguare le tariffe e non allargarle ai nuovi mezzi offerti dalla tecnologia significherebbe a parere di SIAE “penalizzare fortemente l’intera industria italiana dei contenuti” nel quadro di un’anomalia italiana costituita da equi compensi inferiori ma costi maggiori degli apparecchi dell’ICT.

La SIAE ha parlato di nuove tecnologie anche al convegno Anart-Ideona che affrontava il tema dell’autore nella tv (digitale, satellitare e web): è stata l’occasione per ribadire l’impegno preso con l’iniziativa Legal Bay, la piattaforma legale per rispondere alle domande dei “12 milioni – secondo le stime del collettore dei diritti degli autori – di consumatori” che attualmente si rendono pirati in Rete, con un danno di circa “300 milioni di euro”. “Per arginare questo fenomeno – ha detto Virginia Filippi, consulente per la Multimedialità della SIAE – siamo da tempo impegnati su questo fronte in contrapposizione a Pirate Bay”.

Si tratterebbe, a parere della collecting society italiana, di una soluzione di compromesso per ovviare alle difficoltà di controllo poste dall’evoluzione tecnologia, basata in particolare su una licenza unica SIAE con i grandi operatori, “una soluzione – spiega Filippi – simile a quella a suo tempo adottata per combattere, legalizzandole e assoggettandole a imposta, le scommesse clandestine”.

Claudio Tamburino

http://punto-informatico.it/2771601/PI/News/italia-equo-compenso-mobile.aspx

USA e Russia per il cyberdisarmo 15.12.2009

Le due potenze sarebbero in trattativa per la riduzione di armi tecnologiche interconnesse. Ma le parti hanno una visione contrastante sulle finalità ultime dei colloqui

Roma – Da ipotesi messa in campo dalla politica e dalle aziende che si occupano di sicurezza, la cyber-guerra fredda si trasforma in qualcosa di molto più concreto al punto da essere oggetto di colloqui riservati tra Stati Uniti, Russia e comitato per la non proliferazione delle armi dell’ONU. Lo rivela il New York Times citando fonti anonime e non solo vicine alla questione, e parlando di disaccordo tra le parti sul reale obiettivo del disarmo telematico prossimo venturo.

Secondo le suddette fonti, da quando alla Casa Bianca c’è Barack Obama l’approccio alla cyberwar è cambiato, e ora l’amministrazione statunitense riconosce apertamente che c’è stato un vero e proprio armamento tecnologico da parte di varie nazioni, nell’attesa di scatenare una guerra alle infrastrutture della società dell’informazione che risulterebbe devastante e ancor più pericolosa data la scarsa consapevolezza e permeabilità dell’opinione pubblica sull’argomento.

Le cyber-armi come le botnet e le reti malevole opportunamente istruite a colpire certi bersagli sono state dunque l’oggetto di colloqui preliminari tra USA e Russia, colloqui che secondo il vice-direttore dell’Institute of Information Security di Mosca Viktor Sokolov si sono svolti “in una buona atmosfera” e che hanno costituito solo un momento di un processo che avanza in maniera positiva.

Entrambe le parti (con l’ONU a fare da cornice e stimolo per una decisione a due) sono d’accordo sull’esistenza del problema, mentre a dividerle sarebbe l’obiettivo ultimo dei colloqui. La Russia vorrebbe limitarsi a vedere i colloqui come un mezzo per ratificare una sorta di trattato di “non proliferazione cybernetica” alla stregua di quello scaturito dalla Guerra Fredda dei missili e delle bombe atomiche, ma gli Stati Uniti starebbero pensando anche a incrementare la cooperazione internazionale nella lotta al crimine telematico.

Si tratta di un approccio perfettamente in linea con quello sin qui seguito dagli USA in merito al trattato ACTA contro la contraffazione, che prevede il rafforzamento delle misure di contrattacco cyber-militare come conseguenza dell’inasprimento della lotta al cybercrime. I colloqui, però, sono solo agli inizi: il prossimo round è previsto per il prossimo gennaio, con un discorso da parte di rappresentanti di USA e Russia a un incontro annuale sulla sicurezza che si terrà in Germania.

Alfonso Maruccia

http://punto-informatico.it/2771009/PI/News/usa-russia-cyberdisarmo.aspx

Dai netizen la carta dei diritti di Internet 15.12.2009

Il Partito Pirata lancia un’iniziativa per arrivare a un documento da presentare al Parlamento Europeo. Tra neutrality e diritto alla privacy, la stesura sarà collettiva. Invitati a partecipare, tutti i cittadini della Rete

Roma – Ha invocato lo sciame dei cittadini della Rete, un’industriosa intelligenza collettiva per arrivare alla stesura definitiva di quella che dovrebbe essere una carta dei diritti di Internet. Christian Engström, rappresentante nel Parlamento Europeo del Partito Pirata (Piratpartiet), ha espresso le sue più ferme intenzioni di lavorare alla bozza di una Internet Bill of Rights, affinché una versione definitiva possa presto essere sottoposta al vaglio delle autorità dell’Unione Europea.

Il progetto di scrittura, frutto delle idee di Engström e del partito europeo dei Verdi, rimane attualmente nella sua fase embrionale, vista la particolarità della proposta lanciata. “Non abbiamo ancora scritto alcunché – ha scritto Engström sul proprio blog – e vogliamo iniziare a farlo in una maniera innovativa”. Subito dopo, infatti, è comparso un invito rivolto a tutti quelli che vorranno partecipare alla stesura della carta dei diritti della Rete, a partire da due argomenti precisi di discussione.

Il primo di questi argomenti è incentrato su una domanda in particolare: cosa dovrebbe essere inserito in questa carta. Engström ha parlato in pratica di principi base da rendere punti salienti del documento, suggerendone tre fin dal principio. Nella Rete dovrebbero innanzitutto essere rispettati gli articoli 8 (sulla privacy) e 10 (sulla libera informazione) della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Ciò a significare che su Internet dovrebbero innanzitutto essere rispettati i fondamentali diritti dei cittadini in quanto tali.

In seguito, gli operatori della Rete dovrebbero fornire una connettività trasparente e non discriminatoria, senza distinzione di contenuti, applicazioni e servizi. È il principio della neutralità della Rete, successivamente accompagnato da un altro principio basilare secondo Engström: quello del mere conduit, per mettere al riparo la responsabilità di un provider da eventuali azioni illecite dei propri utenti.

Il Piratpartiet ha poi invitato a riflettere su quali documenti già esistenti debbano essere implementati con la tecnica del copia e incolla all’interno dell’ipotetica carta dei diritti di Internet. Engström ha suggerito la già citata convenzione europea oltre che i principi della FCC statunitense a regolare la net neutrality. Qualcuno, tuttavia, ha espresso i propri disincantati dubbi, sostenendo che proprio questi principi siano difficili da implementare per vari motivi, non ultimo quello relativo ad una quasi utopica liberalizzazione del file sharing.

“Governi del mondo dell’industria, voi stanchi giganti di carne e d’acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della mente. A nome del futuro chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Noi siete graditi tra di noi. Non avete alcuna sovranità sui luoghi dove ci incontriamo. Non avete alcun diritto morale di governarci e non siete in possesso di alcun metodo di costrizione che noi ragionevolmente possiamo temere”. Era John Perry Barlow, dissidente cognitivo e co-fondatore della Electronic Frontier Foundation. Da Davos, l’8 febbraio del 1996.

Mauro Vecchio

http://punto-informatico.it/2771002/PI/News/dai-netizen-carta-dei-diritti-internet.aspx

Sun Catalytix: Energia Solare Anche di Notte. Dal MIT e Daniel Nocera il Brevetto Diventa Realta’. In Arrivo fra Cinque, Sette Anni Rivoluzionaria Tecnologia Solare + Idrogeno a Basso Costo 14.12.2009

Da circa un anno il professor Daniel Nocera, del Massachusetts Institute of Technology, sta lavorando a Sun Catalytix, un sistema “vecchio come le colline” per produrre energia elettrica, di giorno e di notte, sfruttando una fonte rinnovabile e inesauribile come il sole.
Solitamente i pannelli solari fotovoltaici sono collegati a un inverter che ricarica le batterie o che immette energia elettrica direttamente nella rete. Il sistema del professor Nocera invece riproduce artificialmente la fotosintesi: i pannelli solari, tramite un elettrocatalizzatore, producono idrogeno, il quale viene poi immagazzinato (per la notte) o usato per alimentare una caldaia a celle di combustibile.
La caratteristica piu’ importante di questo impianto e’ la sua versatilita’: puo’ essere realizzato anche a livello domestico, con materiali abbastanza economici ed e’ in grado di lavorare con qualsiasi tipo di acqua.
Durante le sue conferenze Daniel Nocera mostra sempre una bottiglia d’acqua: “Tutte le esigenze di una famiglia in fatto di energia elettrica di notte potrebbero essere immagazzinate in cinque bottiglie d’acqua”

Qui: http://www.genitronsviluppo.com/2009/12/14/sun-catalytix-daniel-nocera/

---

16/12/2009 – “IL NOSTRO MICROSCOPIO RIESCE A COMPRIMERE LA LUCE E OSSERVA STRUTTURE CHE ERANO DA SEMPRE INVISIBILI”

L’occhio che spia nelle cellule

Invenzione di un team italiano: vede fino a sette miliardesimi di metro

MARCO PIVATO

Cinquant’anni fa, il 29 dicembre 1959, all’Amercan Physical Society del Caltech, il California Institute of Technology, il visionario fisico Richard Feynman regalò agli studenti la sua più preziosa allucinazione: «C’è un mondo immenso, più in basso, un mondo dove la forza di gravità non si avverte e altre forze, come la repulsione elettrostatica, prevalgono su tutte».
La lezione si chiamava «There’s plenty of room at the bottom» – c’è un sacco di spazio là sotto – e introduceva per la prima volta nella storia della scienza il concetto di nanotecnologia, la possibilità di vedere e manipolare la materia su scala atomica: «Per quanto ne so, i principi della fisica non impediscono di manipolare le cose atomo per atomo – esclamò quella mattina Feynman – e per questo lancio la scommessa che entro il secolo qualcuno realizzerà tecnologie per navigare tra un atomo e l’altro».

Un record assoluto
Ha sbagliato solo di un decennio. Mezzo secolo dopo quell’intuizione siamo finalmente penetrati nel nano-mondo: un team di ricercatori italiani ha realizzato un microscopio che riesce a distinguere i margini e la composizione della materia a una risoluzione di appena 7 nanometri, cioè 7 miliardesimi di metro. «È il record assoluto a tutt’oggi, dato che il limite di risoluzione si fermava a 14 nanometri». Lo annuncia Marco Lazzarino, dal Laboratorio Tasc di Trieste dell’Istituto nazionale di fisica della materia del Cnr. Il «microscopio a scansione di sonda» di ultima generazione, evoluzione di quelli a scansione per effetto tunnel (Stm), è stata resa nota su «Nature Nanotechnology» e realizzata con le Università di Pavia e di Catanzaro, il Centro di biomedicina di Trieste e l’Istituto italiano di tecnologia di Genova.
Il nano-mondo al microscopio è proprio come lo immaginava Feynman: chi vuole entrarci con l’immaginazione deve pensare a un luogo in cui si «vedono» gli odori, le formiche sono in proporzione come le Alpi e un appartamento apparirebbe come Giove, il pianeta più grande del Sistema Solare. «La tecnologia del nuovo microscopio – spiega Lazzarino – impiega una sonda che, come la punta di un giradischi, passa sulla superficie di un campione, leggendone le infinitesimali flessioni. Poi un’antenna trasforma i dati in informazioni sulla composizione chimica e sulla struttura tridimensionale». E qui finiscono le metafore, perché la fantascienza diventa scienza d’altissimo livello: «La sonda è un cristallo fotonico ed è legata a una guida d’onda plasmonica, un complesso che permette alla luce visibile, formata da fotoni, di rallentare e confinarsi in uno spazio di pochi nanometri». Così, congelata, la luce rallenta fino quasi a fermarsi, e la sua intensità aumenta esponenzialmente, rivelando informazioni altrimenti invisibili.
«Il limite della risoluzione di un microscopio ottico è imposto dalla stessa luce visibile, che ha un “range” d’ampiezza, in lunghezza d’onda, tra 400 e 800 nanometri». Quindi oggetti più piccoli di questo «range» sono proibiti all’occhio umano anche attraverso i microscopi a lenti. Un limite superato dai Nobel per la fisica 1986 Ernst Ruska, Gerd Binnig e Heinrich Rohrer, che nell’82 inventarono il microscopio a scansione per effetto tunnel, il cui potere visivo era ristretto però solo a oggetti metallici, poiché si basava sull’analisi della corrente di elettroni.

Oltre il limite
Le successive evoluzioni della microscopia nanoscopica hanno permesso una risoluzione sempre maggiore, fino a 14 nanometri. Oltre tale limite non era concesso di sapere nulla, oltre alla forma degli oggetti. Nulla, per esempio, sulla composizione chimica. E proprio qui sta l’innovazione del team italiano.
Le applicazioni più prossime – secondo il team – sono nella diagnostica e «nell’individuazione di molecole rilasciate nel sangue dai tumori: così si potranno capire i meccanismi attraverso i quali le cellule cancerose si replicano». Chiarisce Lazzarino, infatti, che «solo con questa tecnologia è possibile penetrare tridimensionalmente nelle caratteristiche strutturali e chimiche dei più piccoli componenti della vita, dalle proteine al Dna, ma soprattutto andare alla ricerca di ciò che ancora non sappiamo esista. La nuova famiglia di strumenti – conclude – è destinata a migliorarsi, fino all’ambizioso traguardo di isolare nuove componenti nel mare delle biomolecole che formano la materia vivente».
Abbiamo visto l’«ignoto spazio profondo», siamo andati indietro nel tempo per scorgere corpi celesti ed embrioni di galassie lontane 15 miliardi di anni. Ma ci abbiamo messo meno che a ingrandire quel che da sempre abbiamo sotto il naso: il nanomondo, dove fluttuano gli atomi e vibrano i legami tra le particelle. «La messa a punto di questa generazione di microscopi – annuncia Lazzarino – consentirà non solo di vedere, ma anche di manipolare la materia». Feynman l’aveva pronosticato e la realtà rende fede alla sua visione.
Quello su cui invece Feynman non si è mai pronunciato sono le conseguenze di un mondo in cui prolifereranno le nanotecnologie e le macchine invisibili più piccole dei virus: sono loro, che in alcuni scenari inquietanti, dilagheranno silenziosamente in ogni ambiente e anche dentro di noi. Con conseguenze che nessuno riesce ancora davvero a prevedere.

Chi è Marco Lazzarino Fisico
RUOLO: E’ RICERCATORE AL TASC DI TRIESTE DELL’ISTITUTO DI FISICA DELLA MATERIA DEL CNR
NATURE TECHNOLOGY: WWW.NATURE.COM/NNANO/JOURNAL/VAOP/NCURRENT/PDF/NNANO.2009.348.PDF

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/scienza/grubrica.asp?ID_blog=38&ID_articolo=1557&ID_sezione=243&sezione=

Un osso al legno nella top 50 di Time 16.12.2009

E’ ‘made in Cnr’ e si è guadagnata un posto sul Time come una delle 50 migliori scoperte dell’anno. E’ un osso di legno realizzato dall’Istituto di scienza e tecnologia dei materiali ceramici (Istec) del Consiglio nazionale delle ricerche di Faenza. La tecnologia occupa il trentesimo posto della classifica internazionale. Questi impianti ossei, al contrario di quelli metallici o ceramici in uso, non dovranno essere rimossi o sostituiti perché il nuovo materiale viene ricostruito dalle cellule e accolto dall’organismo.
“Da anni ci occupiamo di tessuto osseo”, afferma Anna Tampieri, dell’Istec-Cnr, “e la tecnologia è già in grado di riprodurre un osso chimicamente simile a quello umano. Ma il nostro obiettivo è ottenere un materiale che abbia le stesse caratteristiche di organizzazione micro-strutturale, elasticità e resistenza meccanica. Una struttura complessa che solo la natura è in grado di mettere in atto”.
Da qui è nata l’idea di ‘prendere in prestito’ dagli alberi la materia prima. “Abbiamo individuato”, spiega Tampieri “due piante che hanno caratteristiche morfologico strutturali ideali: la quercia rossa e il rattan”.
In laboratorio, attraverso un processo chimico, il pezzetto di legno viene trasformato in uno ‘scheletro carbonioso’ e, infine, in una struttura di fosfato di calcio complesso. “Questo materiale mantiene inalterata la sua struttura complessa”, spiega la ricercatrice, “viene impiantato al posto della parte mancante di osso e infine riconosciuto come autologo”.
Per l’applicazione bisognerà attendere l’esito della sperimentazione in corso: il primo osso di legno è stato innestato nella zampa di una pecora, con un intervento eseguito dall’équipe di Maurilio Marcacci dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna. I costi previsti per una protesi dovrebbero essere piuttosto contenuti.
L’idea è diventata un progetto, il Templant project, nel 2006, grazie a un finanziamento di tre milioni di euro della Commissione Europea, e coinvolge otto istituti di ricerca europei (Germania, Spagna, Austria, Francia, Olanda, Svezia). L’Italia è rappresentata dall’Istec-Cnr, che è il capofila, dall’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna, dalla Finceramica SpA di Faenza. Il team, giovane, è composto da dieci ricercatori, di cui cinque donne.

Rosanna Dassisti

Fonte: Anna Tampieri, Istituto di scienza e tecnologia dei materiali ceramici del Cnr, Faenza, tel. 0546/699757, e-mail: anna.tampieri@istec.cnr.it

http://www.almanacco.cnr.it/articoli.asp?ID_rubrica=1&nome_file=01_20_2009

La Cina dirotta i fiumi per dissetare Pechino 16.12.2009

Polemiche per il nuovo piano faraonico del governo

FRANCESCO SISCI

PECHINO

Sette canali lunghi complessivamente molte migliaia di chilometri, che attraverseranno la Cina da Sud a Nord per portare l’acqua del bacino del Fiume Azzurro, afflitto da periodiche inondazioni, al bacino del Fiume Giallo, in secca per molti mesi all’anno. Il tutto da costruire in appena una decina d’anni. Questo progetto di diversione idrica, come quasi tutto quello che caratterizza la Cina di questi anni, è pensato in una scala senza precedenti nella storia umana. Un progetto che appare innaturale ed ecologicamente stonato, se non proprio fuori posto, nella nuova rincorsa ambientale in corso alla conferenza sul clima a Copenhagen. I critici del mega progetto puntano il dito sulle quasi 500 mila persone da sfrattare per far posto al canale che arriverà fino alla metropoli di Tianjin, alle porte di Pechino. Tra gli abitanti della zona della potenziale evacuazione qualcuno già protesta, o chiede compensi più alti per le case e i terreni che stanno per cedere al governo. Altri obiettano che se da una parte l’acqua intorno alla capitale cinese effettivamente scarseggia, ci sono anche molti sprechi, visto che in zona ci sono, per esempio, una quarantina di campi da golf, alcuni grandi centinaia di ettari, verdissimi e sempre irrigati. A molti altri il progetto di diversione idrica sembra solo una versione più nuova del gigantismo maoista che ha già portato alla costruzione della diga delle Tre Gole, mastodonte ingegneristico la cui utilità rimane ancora dubbia. Del resto, per trovare un precedente bisogna risalire all’Urss di Breznev, che voleva dirottare gli «inutili» fiumi del Nord a irrigare le piantagioni dell’Asia Centrale, progetto bloccato solo con Gorbaciov. I tecnici cinesi coinvolti nel progetto però scuotono la testa, qui si tratta di un’altra storia, dicono. «Ci sono vari problemi che gli stranieri confondono e mischiano, in una specie di macedonia ma alle elementari ci insegnavano che mele e pere non possono essere sommate insieme», sostiene un ingegnere che lavora al progetto. C’è un primo problema vero: al Sud ci sono alluvioni che uccidono ogni anno centinaia di persone, mentre il Nord, dove vive circa un terzo della popolazione, si sta desertificando e in media la gente ha meno della metà del minimo di acqua stabilito dall’Onu come standard per «scarsità idrica». I problemi più gravi al Nord non sono i campi da golf, ma l’agricoltura che continua a usare forme di irrigazione primitive. I campi vengono inondati, e hanno avuto finora scarso successo gli sforzi di esperti israeliani di introdurre tecniche di irrigazione più efficienti, come impianti a gocciolamento. «Costano molto in termini di impianti, e non hanno senso per piccoli lotti, quelli del contadino medio», spiegano all’Accademia delle Scienze Sociali di Pechino. E’ anche vero che dal momento in cui il progetto fu pensato, 8-9 anni fa, il clima pare cambiare. Le precipitazioni sono aumentate al Nord e diminuite a Sud. Ciò sembra anche dovuto agli sforzi degli ultimi 20 anni per fermare la desertificazione a Nord di Pechino. Migliaia di ettari di alberi sono stati piantati e questo ha migliorato le condizioni nella regione intorno alla capitale. Rimangono comunque due problemi, che vanno affrontati separatamente: gli sprechi e la scarsità di acqua al Nord. Si tratta di cambiare il tipo di agricoltura, il che significa mettere fine alla piccola proprietà terriera, un processo che è già iniziato ma richiederà decenni. Nel frattempo le riserve idriche delle metropoli settentrionali si stanno esaurendo. La diversione idrica serve appunto ad assicurare acqua al Nord. Inoltre, il canale più orientale del progetto, che sarà completato per primo, nel 2013, ricalca per larga parte il tracciato dell’antico canale imperiale. Questo non serviva a portare acqua ma per il trasporto delle merci. Questa sarà anche la funzione di alcuni dei canali futuri, spiegano al ministero delle risorse idriche e tengono a sottolineare le differenze tra le Tre Gole e la diversione idrica: il progetto della diga non ha avuto alcun sostegno internazionale, mentre la diversione ha una fila di collaborazioni da tutto il mondo, tra cui quella del ministero dell’Ambiente Italiano. Rimangono tanti altri problemi per l’acqua in Cina. Il 60% dei corsi e bacini acquiferi sono inquinati a livelli più o meno alti, anche in molte grandi città l’acqua non è potabile. L’industria pesante, negli ultimi 20 anni la spina dorsale dello sviluppo cinese, ha usato 4-5 volte più acqua per dollaro di produzione rispetto ai Paesi sviluppati. E qui la diversione non può far niente. Resta comunque agli occhi dei cinesi un grande stimolo di sviluppo. Con i suoi 26 miliardi di euro di spesa prevista è una potente iniezione di crescita economica in anni altrimenti duri e magri per la crisi.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200912articoli/50416girata.asp

La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/, particolarmente saliente

Le aperture

Il Sole 24 Ore: “Parte il fondo per le Pmi”, via all’accordo quadro da 3 miliardi fra Tesoro, Cassa depositi e prestiti, Abi, Confindustria, Unicredit, Intesa e Mps: si tratta “. In prima pagina il quotidiano di Confindustria dà anche altre notizie: il via libera alla Camera alla Finanziaria (voto di fiducia) e la quasi sicura proroga dello scudo fiscale, che finora ha soddisfatto molto il governo viste le entrate: “Tremonti: il rientro dei capitali vale cinque punti di Pil”. In prima anche la foto della prima pagina di Time, che ha eletto uomo dell’anno Ben Bernake. “Senza di lui il disastro”.

Corriere della Sera: “Attentato fallito alla Bocconi”, “pacco bomba a Milano. Gli investigatori: potrebbero arrivarne altri”. “La rivendicazione di un gruppo anarchivo. Un secondo ordigno a un centro immigrati in Friuli”. Si tratta, secondo l’analisi di Paolo Franchi, di “segnali che non vanno ignorati”, anche se gli anni 70 sono lontanissimi, “politicamente e culturalmente”.

Il Riformista: “Arriva la bomba”, “Come da manuale della strategia della tensione”. Gli anarchici hanno rivendicato l’azione con cui è stato deposto in un sotterraneo della Università Bocconi un ordigno esploso solo parzialmente. E poi: oggi le dimissioni di Berlusconi dall’ospedale, “fuori troverà solo il Pdl in fiamme”.

La Stampa: “Fini: io sto con Napolitano”. “Il Presidente della Camera: i suoi richiami alla moderazione una stella polare. Berlusconi rimande ancora in ospedale”.

Il Foglio: “Così Fini richiama a corte i colonnelli di An, ma senza rompere con il Cav”. (“Quasi quasi fa pace davvero”, scrive il quotidiano). Fini ha riunito a pranzo i suoi ex-colonnelli, anche quelli più distanti come Gasparri e Matteoli, chiedendo loro di fare un passo indietro delegandogli la facoltà di trattare con Berlusconi. Secondo Il Foglio Fini sta lavorando, insieme con Gianni Letta, a placare gli animi, cercando anche un’interlocuzione sulla giustizia (ma non soltanto per il premier) con Udc e Pd .

La Repubblica: “Fini: superato il limite di guardia”, “Il Presidente della Camera: sbagliato distribuire colpe. Dal Pdl ancora ttacchi a ‘Repubblica’. Votata la fiducia alla Finanziaria”.

Libero: “Una bomba da matti”, “Prima il pazzo che tira la statuetta del Duomo in faccia a Berlusconi, poi migliaia di fan che applaudono all’eroico gesto di liberazione, ora la dinamite alla Bocconi”.

Il Giornale: “E ora arrivano le bombe”. “Dopo la statuetta, la dinamite. Altro frutto delle campagne dei cattivi maestri. In serata Berlusconi offre un patto a Pd e Udc per superare il clima d’odio”.

Il direttore Vittorio Feltri spiega ai propri lettori: “Così è fallito il ribaltone di Fini”. Mentre Berlusconi gicave in ospedale, “Qualcuno a Roma brigava”, visto che ieri nella capitale un gruppo di ex-An si è riunito e non per parlare di presepi e Gesù Bambino, ma di aritmetica: “quanti deputati di An dovrebbero abbandonare l’attuale coalizione per sotterrare il governo?”. Con 24, “ribaltone sicuro”. Anche alle pagine interne il quotidiano si occupa estesamente delle “manovre nel Pdl” , di un Fini che fa la conta dei fedelissimi, mentre Berlusconi avrebbe intenzione di offrire un patto a Udc e Pd per “un’intesa democratica contro l’odio” (così la definisce il quotidiano).

Politica

Il Corriere della sera intervista Massimo D’Alema. “Premier e Di Pietro, due populismi speculari”, “si alimentano in una spirale che va fermata con le riforme”: così il quotidiano riassume i temi del colloquio. Di Pietro “è l’opposizione ideale per Berlusconi”, dice D’Alema. E insiste: “Bisogna avere il coraggio di dire che le riforme istituzionali comportano una comune assunzione di responsabilità, senza temere l’accusa di voler fare inciuci”. Ma le riforme per fermare i processi a Berlusconi non si possono considerare tali e non si può pretendere che l’opposizione le faccia proprie: “se per evitare il suo processo devono liberare centinaia di imputati di gravi reati, è quasi meglio che facciano una leggina ad personam per limitare i danni all’ordinamento e alla sicurezza dei cittadini”.

La Repubblica intervista Pierferdinando Casini, che spiega la sua proposta di un “fronte della legalità” con il Pd, “contro i falchi del Pdl”. L’Udc non è favorevole alla riforma del processo breve ma è pronta a discutere “di Lodo e legittimo impedimento”.

Il Sole 24 Ore dedica un titolo di prima pagina all’accordo sulle regionali tra Pdl e Lega. Al partito di Bossi andrà la candidatura alla Presidenza del Veneto e del Piemonte, in Lombardia rimane Formigoni, nel Lazio la candidata sarà Renata Polverini. In sospeso – sia per il centrodestra che per il centrosinistra – le candidature in Puglia e in Campania.

Arresti

“Tangenti, arrestato l’assessore Prosperini”, titola il Corriere della Sera in prima pagina. Si tratta dell’assessore regionale allo sport e turismo della Lombardia.

Sulla prima pagina de Il Giornale, la foto dell’assessore Prosperini: “Riecco le manette”, scrive il quotidiano. “Si avvicinano le elezioni regionali e partono nuove inchieste giudiziarie. L’assessore lombardo accusato di corruzione”. Arrestato anche il patron di Odeon tv, Raimondo Lagostena Bassi. Secondo l’accusa, quest’ultimo avrebbe versato su un conto svizzero dell’assessore 230mila euro in cambio delll’assegnazione di un appalto di 7 milioni e mezzo di euro per la promozione turistica in televisione, che Odeon si sarebbe aggiudicata grazie alla tangente. Prosperini, ricorda il quotidiano, viene dalla Lega, poi è passato ad An.

Il Corriere descrive il personaggio: “l’ex-pugile anti-immigrati idolo su you Tube”. E scrive che è stato liberale, democristiano, leghista, aennino. Un baluardo della cristianità, si è autodefinito.

E poi

“Clima, accordo appeso a un filo. Scontri in piazza e stallo tra i delegati. Ora le aspettative si concentrano su Obama”. Il quotidiano spiega che saranno 115 i capi di Stato e di governo che parteciperanno alla fase conclusiva della Conferenza sui cambiamenti climatici in corso a Copenhagen”. Una analisi di Franco Venturini sul Corriere della Sera “la tentazione dei Potenti” sarebbe quella di non siglare alcun nuovo accordo e di “andare avanti con Kyoto”, quel trattato che “lascia fuori gli Usa e non chiede nulla alla Cina”.

Oggi al Parlamento europeo si vota, su iniziativa della Lega, una risoluzione che sancisce il “prinicipio di sussidiarietà” sui simboli religiosi. Se ne occupa in prima pagina Il Foglio: “Così l’Europa vuole cambiare la sentenza sui crocifissi”: “si prepara una risoluzione riparatoria, socialisti d’accordo ma in imbarazzo”. Il capogruppo Pd a Strasburgo, Sassoli, dice al Foglio che “questa materia deve essere regolata dalle legislazioni nazionali” e il Pd vuole un “Fortissimo impuslo al pluralismo religioso in una società laica”. Partito popolare e Pse, insomma, vanno alla conta con divisioni interne.

Il focus del Corriere si concentra sui tagli alle spese culturali: il nostro Paese ha reagito in modo diverso dal resto d’Europa alla crisi economica, in 10 anni la quota di reddito riservata alle voci ‘istruzione e tempo libero’ è scesa dal 6,2 al 5,3 per cento. Insomma, “le famiglie consumano meno libri, cinema e musica. Stabili i telefonini, in crescita solo pay-tv e videogiochi”. La fonte dei dati è l’Istituto di economia dei media della Fondazione Rosselli.

Crowdsourcing art, opera corale
Quando l’artista diventa folla 16.12.2009

Finora questa forma di telelavoro distribuito aveva a che fare esclusivamente col marketing. Adesso ha scoperto la creatività. La singolare esperienza di Aaron Koblin

di MARCO DESERIIS

CHE il crowdsourcing sia un’arte, non v’è dubbio. Ma che possa essere un medium per fare arte è un dato certamente nuovo e sorprendente. Coniato nel 2006 dal giornalista di Wired Jeff Howe, il neologismo nasce dall’unione dei termini crowd (gente comune) e outsourcing (esternalizzare un’attività produttiva). Un buon crowdsourcer, che sia un manager, un politico, o un’analista militare, deve sapere assegnare ai suoi collaboratori dei compiti precisi, per poi creare un mosaico in cui ogni tessera trova il suo posto.

Negli ultimi anni il crowdsourcing è diventato un termine ubiquo, usato dal Pentagono per redarre documenti strategici, dalle aziende della net economy per tagliare il costo del lavoro, e in generale dagli analisti dei nuovi media per descrivere l’erosione dei confini tra produzione professionale e amatoriale.

Servizi di telelavoro come Istock Photo, Mechanical Turk, Leginda, Rentacoder, ma anche la stessa Wikipedia ci dicono che se da un lato l’intelligenza sociale della rete produce, per dirla con Kevin Kelly, un nuovo “socialismo digitale,” dall’altro genera anche un (auto)sfruttamento diffuso. A meno che non si sia dei geni come Alex Tew, lo studente inglese che nel 2005 riuscì a incassare un milione di dollari vendendo ai pubblicitari un milione di pixel a un dollaro l’uno.
Può quindi sorprendere che un termine associato più con il marketing e il telelavoro che con la creatività abbia fatto il suo ingresso nel mondo dell’arte. La crowdsourcing art è emersa negli ultimi anni soprattutto grazie al lavoro di Aaron Koblin, artista ventisettenne di San Francisco che ha creato diversi progetti servendosi del Turco Meccanico, il servizio di telelavoro di Amazon. Sul Turco Meccanico qualsiasi datore di lavoro può postare una Hit (Human Intelligence Task) e chiedere a un navigatore di eseguire il lavoro per pochi centesimi di dollaro. Di solito le richieste riguardano compiti ripetitivi come catalogare foto o animazioni digitali, reperire articoli in rete, trascrivere file audio e via dicendo.

Il servizio è chiaramente sbilanciato a favore dei datori di lavoro. Non solo la paga media si aggira sugli 1-2 dollari l’ora, ma il crowdsorcer può retribuire solo gli Hit che preferisce e non deve pagare alcuna tassa o contributo, se non un 10% ad Amazon per il servizio. Il lavoratore dal canto suo è tenuto a dichiarare al fisco americano tutti gli “introiti” derivanti dalle proprie prestazioni.

Recentemente Aaron Koblin e Daniel Massey hanno invitato ai turchi meccanici la richiesta di ascoltare una nota Midi e ripeterla a voce registrandola con un microfono. Dalle oltre duemila voci raccolte hanno ricavato una versione surreale di Daisy Bell, nota canzone popolare americana nonché primo brano musicale cantato da un computer tramite un software di sintesi vocale. Era infatti il 1962 quando John Kelly, Max Mathews e Carol Lockbaum, all’epoca programmatori ai laboratori della Bell in New Jersey, fecero cantare Daisy Bell a un IBM 704. L’invenzione non sfuggì a Stanley Kubrick: nel 1968 Hal 9000, il computer di 2001 Odissea nello Spazio canta Daisy Bell pochi secondi prima di essere sconnesso (nella versione italiana Hal canta “Giro Giro Tondo”). Koblin e Massey hanno recuperato i file Midi della sintesi vocale del 1962, e pagando solo 6 centesimi di dollari a Hit, hanno chiesto ai turchi meccanici di 72 nazionalità di partecipare a un’opera corale che se non altro ha una valenza estetica anziché commerciale.

Ma il lavoro di Koblin non aggira il tema dello sfruttamento del lavoro a distanza, al contrario. Nel 2006, l’artista aveva chiesto a diecimila lavoratori del Turco Meccanico di disegnare una pecora con lo sguardo rivolto a sinistra. Ne era nato The Sheep Market, un collage-animazione di diecimila pecore che è una chiara metafora della condizione del telelavoratore nell’era del Web 2.0. Come spiega l’artista in un’intervista a Wired, “ho scelto la pecora per diversi motivi. Innanzitutto perché viene allevata per la lana e altri prodotti, ma anche perché viene associata con la clonazione. Ho creato un software di animazione e ho chiesto (ai telelavoratori) di disegnare una pecora. Le persone non sapevano che il software registrava i loro movimenti sullo schermo e che, al di là del disegno finale, stavano in realtà producendo un’animazione”.

Nel 2008 Koblin ha ripetuto l’esperimento con una metafora ancora più esplicita. Questa volta ha chiesto ai turchi meccanici di disegnare un dettaglio di una banconota da 100 dollari, compensandoli un solo centesimo a Hit. Il risultato finale è Ten Thousand Cents, un’opera che è stata “tradotta” in due media diversi: un’installazione video che mostra la banconota emergere dal disegno simultaneo di tutti i lavoratori; e una stampa di diecimila banconote da cento dollari (costo: 100 dollari l’una) il cui ricavato viene donato al progetto One Laptop per Child di Nicholas Negroponte.

Se il lavoro di Koblin è l’esempio più eclatante di crowdsourcing art perché si serve delle stesse piattaforme e metodi utilizzati dalle aziende per reclutare lavoratori a distanza, la crowdsourcing art può essere estesa a varie forme di collaborazione artistica tramite internet. Ad esempio, nel luglio 2009 il regista giapponese Masahi Kawamura ha realizzato un video clip per la band musicale Sour coordinando remotamente, tramite web cam, i movimenti dei fan della band seduti di fronte ai propri computer. Found Magazine, rivista di Ann Arbor, Michigan, pubblica ogni giorno frammenti di cartoline, biglietti, e messaggi personali trovati per caso dai suoi lettori nelle strade, le case e i cestini della spazzatura. Drawingblog, blog lanciato dall’artista milanese Helga Franza nel 2004, raccoglie migliaia di disegni realizzati a più mani dai navigatori.

Forse la crowdsourcing art è la dimostrazione più evidente che il vecchio motto di Novalis e Joseph Beuys secondo cui “ogni persona un’artista” è ormai divenuto realtà. O forse, se si considera la questione da un punto di vista economico, è un sintomo del fatto che anche le opere d’arte possono ormai essere appaltate per pochi centesimi a pixel.

http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/tecnologia/crowdsourcing-arte/crowdsourcing-arte/crowdsourcing-arte.html

Appello per il rilascio di Luca Tornatore

Care/i tutte/i,

pubblico un appello per la scarcerazione del mio amico  Luca Tornatore, in carcere per una vicenda assurda.

Luca, astrofisico, residente a Quarto d’Altino, Compagno di Federica e padre di una bambina di 5 anni, ricercatore presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Trieste e attivista della Casa delle Culture, si trova dalla scorsa settimana a Copenhagen per partecipare, con la delegazione italiana (oltre 200 persone) dellaCampagna ‘See You in Copenhagen’, di cui è uno dei portavoce pubblici e riconosciuti, alle iniziative organizzate in occasione della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 15).

Lunedì sera si è recato nel quartiere di Christiania per intervenire al dibattito organizzato dalla rete “Climate Justice Action” con la partecipazione di Michael Hardt e Naomi Klein, e un migliaio di persone tra il pubblico. Mentre il dibattito era in corso, ad alcune centinaia di metri, un gruppetto di persone vestite di nero ha attaccato, lanciando oggetti ed erigendo una barricata successivamente incendiata, la Polizia danese che stazionava in forze ai margini del quartiere. Questo gruppo, dopo aver colpito, si è dato alla fuga verso l’interno del quartiere, dove nel frattempo il dibattito si era concluso e centinaia di persone si erano fermate nei locali della zona. L’azione ha dato il pretesto alla Polizia danese per effettuare un vero e proprio rastrellamento di massa per le strade e all’interno dei pubblici esercizi di Christiania, procedendo al fermo di circa duecento persone (tra cui alcune decine di italiani) che sono state condotte ammanettate ai Centri detentivi.

Mentre la quasi totalità dei fermati sono stati rilasciati tra la tarda notte e le prime ore del mattino, Luca Tornatore è stato condotto davanti ad un Tribunale con pesanti accuse (lancio di oggetti e resistenza aggravata a pubblico ufficiale), senza alcuna prova, ma basate esclusivamente sul rapporto e le testimonianze della Polizia. Nel tardo pomeriggio, il Tribunale ha convalidato il suo arresto, fissato la prima udienza del processo per il prossimo 12 gennaio e disposto, fino ad allora, la sua detenzione cautelare in carcere.

Luca sta probabilmente pagando il ruolo che, a viso aperto, ha avuto nelle manifestazioni di questi giorni. La sua vicenda, così come gli oltre milleduecento fermi preventivi già compiuti in soli tre giorni dalla Polizia danese, non può che destare grande preoccupazione in merito all’effettiva garanzia della libertà d’espressione e del diritto a manifestare, sanciti dalla Costituzione danese e riconosciuti dalla Carta Europea, a cui la Danimarca così come il nostro Paese aderisce.

Di seguito vi trasmetto il testo dell’Appello diffuso in queste ore nell’ambiente scientifico e accademico, che ha tra i suoi promotori la prof.ssa Margherita Hack. Firmatelo (mettete anche qualche dato personale tipo,città o professione), fatelo firmare e comunicate la vostra adesione a giuseppe.caccia@unito.it

E’ importante firmare questo appello prima possibile e in tanti perché le pressioni politiche possono avere un effetto sul rilascio di Luca.

Grazie,
Marco Sacco
329 4426874

APPELLO PER L’IMMEDIATO RILASCIO DEL DOTTOR LUCA TORNATORE

Luca Tornatore non è solo un amico fraterno di chi scrive questo appello. Luca è un assegnista di ricerca al Dipartimento di fisica dell’Università di Trieste. E’ uno scienziato, uno di quelli che alla passione e alla voglia di cambiare il mondo uniscono, dunque, una riconosciuta competenza.
Questi sono gli ingredienti che lo hanno spinto, assieme a centina di attivisti ambientalisti italiani, a recarsi a Copenhagen. Luca è nella capitale danese per pretendere giustizia climatica, per confrontarsi all’interno del Climate Forum, per capire e per intrecciare relazioni con chi (come noi e lui) pensa che l’emergenza ambientale debba essere affrontata a partire da una democratizzazione delle decisioni e non attraverso la delega a chi l’ha provocata o a chi la sta peggiorando (siano essi vecchi o nuovi attori di rilievo del panorama geo-politico).
Luca Tornatore si trova oggi in stato di arresto, fermato assieme ad altre decine persone dopo aver partecipato ad un dibattito!! Luca, come centinaia di altri, non ha commesso alcun reato. Il suo fermo è stato confermato non sulla base di prove, ma proprio per punire il suo impegno,
la sua visibilità pubblica e la sua competenza. Ci sarebbe da ridere, ma quello che sta succedendo a Copenhagen non ha precedenti. Il solo fatto di trovarsi per strada rende passibile di fermo, l’arresto preventivo (già di per sé strumento mostruoso dello stato d’eccezione) è stato abusato senza vergogna. Sono stati calcolati più di millecinquecento fermi di polizia, praticamente tutti ingiustificati. La capitale Danese, ormai un ex simbolo della socialdemocrazia, si è trasformata in una vera e propria città di polizia.
Noi pretendiamo il rilascio immediato del Dott. Luca Tornatore, prima di tutto perché totalmente innocente, poi perché la sospensione dello stato di diritto, le provocazioni e le menzogne rendono la mancanza di Luca insopportabile per tutti noi e per tutti quelli che condividono, con
serietà, le sue preoccupazioni per il futuro del nostro pianeta.

Trieste – Venezia, 15 dicembre 2009

http://ricostituente.wordpress.com/2009/12/16/appello-per-il-rilascio-di-luca-tornatore/

La Regione contro la privatizzazione dell’acqua 14.12.2009

La Regione Piemonte impugna davanti alla Corte Costituzionale l’art 15 della legge 166/2009, meglio nota come “legge sulla privatizzazione dell’acqua”.

Il provvedimento è stato adottato il 14 dicembre dalla Giunta regionale su proposta della presidente Mercedes Bresso e degli assessori all’Ambiente, Nicola de Ruggiero, e al Legale, Sergio Deorsola.

Nella delibera la Giunta richiama un precedente ricorso del 2008, con il quale si contestava la legittimità dell’art.23bis della legge 133 del 6 agosto 2008, recante disposizioni in materia di servizi pubblici, per violazione degli articoli 5, 114, 117, 118 e 120 della Costituzione, anche con riferimento agli articoli 3 e 97 della nostra Carta fondamentale. In altri termini, il Governo regionale ritiene che l’articolo 15 della legge 166 rappresenti sia una riduzione dei diritti fondamentali dei cittadini (art 3 della Costituzione) sia una prevaricazione rispetto al riconoscimento dei poteri assegnati alle Regioni in forza del Titolo V della Costituzione.

Alle osservazioni già inoltrate, la Giunta ne aggiunge una serie riguardanti la violazione dei trattati europei e la libera concorrenza.

http://www.regione.piemonte.it/cms/piemonte-informa/diario/la-regione-contro-la-privatizzazione-dell-acqua.html

crisi, finanza, povero, Usa di Vincenzo Comito

Lo Stato è tornato ma si è subito fermato

16/12/2009

Un americano su 8 mangia grazie al “food stamp”. Le contraddizioni degli Stati tra necessità e difficoltà di intervento, l’emergenza del debito, le timidezze politiche

“…le preoccupazioni che Obama ha espresso diventano comprensibili se si suppone che egli stia traendo le sue opinioni, direttamente o indirettamente, da Wall Street…” (P. Krugman)

“…a meno che i governi spingano le banche a ristrutturare i 7000 miliardi di dollari di prestiti ad alto leverage (concessi alle imprese) che dovrebbero scadere entro il 2014, gli Stati Uniti e l’Europa potrebbero dover affrontare presto il problema giapponese della crescita zero…” (G. Hands, in Arnold, 2009)

“…con un debito nazionale che raggiunge ora i 12 trilioni di dollari, la Casa Bianca stima che il costo di servizio del debito supererà i 700 miliardi di dollari all’anno nel 2019, contro i 200 miliardi di quest’anno, anche se i deficit annuali del budget si riducessero drasticamente. Altre previsioni affermano che la cifra potrebbe essere anche molto più alta…” (E. L. Andrews)

Premessa

L’anno sembra chiudersi, almeno sul fronte economico, con grandi problemi e contraddizioni, per quanto riguarda almeno i paesi sviluppati.

Forse il fatto simbolico che può colpire di più, a tale proposito, è il grande successo che sta conseguendo in questo momento, negli Stati Uniti, il programma di food stamp, un progetto governativo di sostegno alimentare alle famiglie disagiate, programma in atto da tempo, ma i cui numeri sono ora in forte crescita.

Come riferisce un articolo del New York Times (DeParle, Gebeloff, 2009), in questo periodo tale schema aiuta a mangiare tutti i giorni un americano su otto e addirittura un bambino su quattro ed in alcune aree, come quella delle città sul Mississipi, St. Louis, Memphis, New Orleans, i numeri sono parecchio più elevati e, tra l’altro, più della metà dei bambini dell’area riceve il sostegno. Bisogna poi ricordare che un sempre maggiore numero di cittadini statunitensi sta aderendo al programma in queste settimane e lo stanno facendo in particolare molte persone già appartenenti alla classe media. E questo nel paese più ricco e più potente del mondo.

Ma questa appare soltanto una delle rilevanti contraddizioni che stanno toccando in particolare, sul fronte economico e con la crisi in atto, i paesi occidentali. Ne elenchiamo di seguito alcune delle principali.

Gli Stati tra necessità e difficoltà di intervento

Appare palese il conflitto esistente, da un lato, tra la necessità di un continuo e accresciuto sostegno pubblico all’economia – che in questo momento si regge sostanzialmente sui soldi dei contribuenti- e, dall’altro, le grandi difficoltà legate al fenomeno e la spinta che si manifesta da più parti verso politiche di rientro.

Come, tra l’altro, afferma l’ILO (ILO, 2009) in un suo recente studio, le misure per contrastare la crisi economica non devono essere sospese, ma anzi esse devono essere prolungate, altrimenti circa 40 milioni di persone potrebbero perdere il loro posto di lavoro nel mondo.

Così, negli Stati Uniti, si è discusso a lungo del possibile varo di un nuovo programma di sostegno, vista l’insufficienza di quello in atto, mentre una parte importante dei parlamentari e dell’opinione pubblica appariva molto reticente al riguardo. Il livello presente del debito pubblico e quello che si configura per gli anni futuri –sino, almeno secondo alcune previsioni, forse troppo pessimistiche, possibilmente ad arrivare ad un rapporto debito-pil pari al 150-160% nel 2020 nel caso degli Stati Uniti e anche della Gran Bretagna, come stimano gli economisti della BNP Paribas-, con le loro possibili conseguenze a livello di blocco o riduzione della spesa pubblica, aumento del carico fiscale, inflazione, appaiono in effetti di difficile dirigibilità nel caso di economie per le quali è difficile prevedere nei prossimi anni alti tassi di sviluppo, che renderebbero tutto invece più facile.

Va peraltro ricordato che la crescente incidenza del debito pubblico sul pil nei paesi occidentali non è dovuta solo alle misure di salvataggio messe in atto, ma anche alla contrazione in valori assoluti dello stesso pil e alla parallela caduta delle entrate fiscali.

Ci si può incidentalmente chiedere, come fa ad esempio M. Wolf (Wolf, 2009), come mai le agenzie di rating, così sollecite di solito con i paesi deboli, non declassino il debito sovrano di Stati Uniti e Gran Bretagna, paesi che presentano già per il 2010 un deficit pubblico primario rispettivamente del 3,7% e del 7,8%.

Alla fine, comunque, il governo degli Stati Uniti ha deciso l’avvio di misure ulteriori di intervento senza prevedere nuovi stanziamenti, utilizzando una parte indeterminata dei fondi del programma Tarp, che erano a suo tempo stati stanziati sotto la presidenza Bush per il salvataggio delle banche; si è forzata così largamente la mano al legislatore.

In questo momento i governi dei paesi occidentali pagano tassi di interesse molto bassi sui prestiti; ma presto, accanto ai problemi relativi alla montagna di nuovi debiti che si stanno contraendo, in particolare poi alla necessità di rimborsare le ingenti somme che verranno a scadenza a breve termine, sta la minaccia del ritorno dei tassi di interesse a livelli normali (Andrew, 2009). Quello della potenzialmente forte crescita del carico di interessi è una drammatica minaccia che pesa sui bilanci di molti paesi occidentali.

Intanto, peraltro, anche il Giappone, spinto dallo stato di necessità, vara un secondo piano di rilancio che, considerando tutti i suoi risvolti, dovrebbe pesare per circa 185 miliardi di euro, dopo che il primo programma non era riuscito a contribuire in maniera adeguata a togliere l’arcipelago dalle spire della crisi. Il debito del paese dovrebbe presto, in ogni caso, superare il 200% del pil.

Nel frattempo, in Gran Bretagna i conservatori promettono, in caso di vittoria alle prossime elezioni politiche, di tagliare fortemente i deficit del bilancio pubblico!

Esigenze di capitalizzazione e di prudenza delle banche e esigenze di finanziamento dell’economia

Un altro problema riguarda l’andamento del settore bancario; è noto che la situazione dell’afflusso del credito all’economia non accenna a migliorare molto, negli Stati Uniti come in Europa, in particolare per quanto riguarda le piccole e medie imprese (Saft, 2009). La questione è da collegare, dal lato dell’offerta, ai rischi presenti ancora nel sistema economico, ma anche alla insufficiente capitalizzazione del sistema.

Si va discutendo da tempo se come ristrutturare il settore finanziario per evitare il ripetersi di nuove difficoltà e sostanzialmente in tutte le proposte si tende, tra l’altro, a sottolineare appunto la necessità di un rilevante aumento dei livelli dei mezzi propri degli istituti. Quasi nessuno, tranne le banche interessate, mette in discussione la necessità di una mossa di questo tipo. Gli stessi istituti affermano invece che il costo dei mezzi propri è troppo elevato e un loro aumento comporterebbe una lievitazione del prezzo del credito per le imprese; in effetti, finché le grandi banche pagano un tasso di interesse dell’1% sui prestiti che contraggono con l’aiuto delle banche centrali, esse non vogliono certo sentir parlare di fonti alternative di approvvigionamento (The Economist, 2009). D’altro canto, al momento in cui le banche centrali alzassero in maniera significativa il costo del denaro, potrebbero prodursi rilevanti problemi. Non vanno neanche sottaciute le difficoltà di trovare le risorse per i necessari aumenti di capitale, quindi anche per questa via un aumento del rapporto mezzi propri – debiti potrebbe contribuire a ridurre i livelli del credito concesso all’economia.

Vista la questione in altro modo, se le autorità monetarie prosciugassero troppo o troppo velocemente le enormi quantità di liquidità che hanno riversato sui mercati, rischierebbero di strozzare quel po’ di ripresa che si delinea all’orizzonte, nonché di spaventare gli investitori; se invece non lo facessero, o non lo facessero abbastanza presto, rischierebbero invece di creare una nuova bolla, già del resto in agguato (Gatinois, 2009).

Necessità e problemi di una possibile nuova regolamentazione del settore finanziario

L’intervento pubblico di sostegno al comparto finanziario per evitare il crack, che è stato così forte ed esteso ed ha raggiunto apparentemente lo scopo, avrebbe potuto essere anche il punto da cui partire, tra l’altro, per ripensare totalmente i sistemi di regolamentazione e di controllo del settore. Ma, almeno sino a questo momento, poco si è mosso su tale fronte e in queste settimane stiamo così assistendo al ritorno sul campo da padroni dei mercati e delle istituzioni finanziarie. Le famigerate agenzie di rating e le banche, dopo un momento di riserbo, hanno ricominciato a lanciare anatemi e minacce e a condizionare pesantemente i governi. E non si tratta soltanto del caso esemplare della Grecia e di Dubai. Dietro a tali paesi stanno in fila d’attesa per essere bastonati, per parlare soltanto dell’ Europa, Spagna, Portogallo, Irlanda, Islanda, Ungheria, almeno due dei paesi baltici, Italia, Gran Bretagna e forse abbiamo dimenticato qualche caso.

Sulla possibile nuova regolamentazione del settore finanziario si scontrano interessi differenti a livello geografico e anche tra le diverse correnti presenti all’interno delle classi dirigenti dei vari paesi. Nell’Unione Europea, così, è in corso da tempo un braccio di ferro, da una parte, tra i burocrati di Bruxelles, che hanno il supporto di paesi quali la Francia e la Germania e, dall’altra, le autorità britanniche, per quanto riguarda i poteri e le modalità di funzionamento dei nuovi organismi pan-europei che dovrebbero appunto sovraintendere al settore bancario, assicurativo, della borsa, nonché governare il rischio sistemico dei mercati. La Gran Bretagna vede nei progetti di riforma la minaccia che essi farebbero pesare sui destini della City e indirettamente quindi sulle sorti economiche del paese. A leggere la stampa britannica sembrerebbe, tra l’altro, che la Francia stia cercando di distruggere la piazza londinese. Il risultato di questi scontri è che, almeno sino a questo momento, lo schema di riforma messo in atto per cercare di accontentare tutti i paesi appare un pasticcio contorto e complicato, di difficile applicabilità e che serve poco alla bisogna.

Negli Stati Uniti, intanto, si assiste allo spettacolo di un governo Obama timoroso e sostanzialmente riverente nei confronti di Wall Street, che vede di nuovo come un bastione della forza economica e finanziaria statunitense e che appare quindi riluttante a cambiare in maniera significativa, pur di fronte alle pressanti richieste di una parte almeno dall’opinione pubblica e degli esperti più qualificati. Così il settore bancario Usa, come del resto la City londinese, porta avanti argomentazioni che mostrerebbero come più stringenti regolamentazioni del settore, nella direzione di ridurre le dimensioni delle grandi banche e/o aumentare i loro livelli di mezzi propri, o anche semplicemente di ridimensionare i livelli di remunerazione degli alti dirigenti del settore, porterebbero a una minore crescita dell’economia e a un più ridotto numero di posti di lavoro (Johnson, 2009).

Sullo sfondo sta forse in ambedue i casi, comunque, un problema reale; Stati Uniti e Gran Bretagna hanno ceduto negli ultimi decenni ai paesi emergenti, sia in alcuni casi per loro volontà – tramite i processi di outsourcing o gli accordi di joint-ventures-, sia in altri casi per forza – vinti sul fronte della competitività -, una parte consistente delle loro attività nel settore industriale, in quello commerciale, in quello agricolo. Quello finanziario è uno dei pochi settori in cui i due paesi presentino ancora un grande vantaggio competitivo. Essi riescono in effetti a fornire a tutt’oggi, tra l’altro, un servizio di riciclaggio dei capitali asiatici e latinoamericani verso i mercati dei paesi ricchi e da lì magari di nuovo, almeno in parte, verso le aree emergenti (Niada, 2009).

Va peraltro sottolineato (Tett, 2009) che, nel medio-lungo termine, seguendo la regola che dice che i banchieri seguono il denaro, una parte consistente di tale attività di riciclaggio dovrebbe venire a cessare, con lo sviluppo crescente dei mercati finanziari nei paesi emergenti –si veda già oggi la forza degli IPO in Asia, lo spostamento del quartier generale di una grande banca britannica a Hong Kong, le crescenti emissioni di capitale di grandi istituzioni finanziarie occidentali sempre sulle piazze dei paesi emergenti, ecc.-; questi trend non potranno presumibilmente che accrescersi nel tempo e la City in particolare dovrebbe quindi perdere inesorabilmente di peso nel mondo proprio per queste spinte macroeconomiche, più ed oltre che per una regolamentazione più stretta delle sue attività.

A questo punto, la contraddizione tra la necessità di governare la finanza e la difficoltà materiale di farlo sembra comunque difficilmente sanabile. Ci vorrebbe forse un grande accordo tra paesi sviluppati e paesi emergenti, che non si vede però in alcun modo all’orizzonte.

Conclusioni

Anche trascurando le contraddizioni in atto sul terreno economico e finanziario tra paesi ricchi e paesi emergenti, nonché tra paesi ricchi e paesi poveri, quelle presenti all’interno degli stessi stati occidentali appaiono molto complesse e di difficile soluzione. Il sentiero da percorrere appare in tale senso molto stretto e solo gli eventi dei prossimi mesi ci potranno indicare se esse saranno state affrontate in modo adeguato, sullo sfondo peraltro di una situazione più generale dell’economia molto incerta e confusa. Ma comunque la scarsa lungimiranza e il debole peso degli attuali gruppi dirigenti politici dei paesi occidentali non contribuiscono a fare ben sperare al riguardo.

Testi citati nell’articolo

– Andrew E. L., Wawe of debt payments facing U.S. government, www.nyt.com, 23 novembre 2009

– Arnold M., Hands warns governmentes on banks, www.ft.com, 18 novembre 2009

– DeParle J., Gebeloff R., Across U.S., food stamps use soars and stigma fades, www.nyt.com, 29 novembre 2009

– Gatinois C., Les banquiers centrales auront toujours tort, www.lemonde.fr, 5 dicembre 2009

– ILO, World of work report 2009, Ginevra, dicembre 2009

– Johnson S., Will increased capital requirements kill a recovery? Morgan Stanley wants you to think so, www.tnr.com, 25 novembre 2009

– Krugman P., The phanthom menace, www.nyt.com, 25 novembre 2009

– Niada M., La crisi di identità del capitalismo senza capitali, www.ilsole24ore.com, 6 dicembre 2009

– Saft J., banks show no signs of easing credit, www.nyt.com, 13 novembre 2009

– Tett G., Bankers will follow the money, www.ft.com, 10 dicembre 2009

– The Economist, Buffer warren, 29 ottobre 2009

– Wolf M., Give us fiscal austerity, but not quite yet, www.ft.com, 24 novembre 2009

http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Lo-Stato-e-tornato-ma-si-e-subito-fermato

Iraq e Italia, matrimonio di interessi

di Ornella Sangiovanni
Osservatorio Iraq, 16.12.2009

ROMA – Affari, affari, e ancora affari – per le imprese italiane. Dall’energia (leggi petrolio, ma anche centrali elettriche) alle grandi infrastrutture, dalla realizzazione di cantieri navali alla costruzione di ospedali, dall’industria della difesa all’agro-alimentare, ambiente, materiali da costruzione, industria manifatturiera, edilizia residenziale, informatica, non c’è praticamente un settore che non venga nominato nel verbale concordato della prima riunione della Commissione mista italo-irachena, che si è conclusa ieri a Roma. Verbale sottoscritto dai ministri degli Esteri dei due Paesi – Franco Frattini e Hoshyar Zebari.

Tanti gli interessi in gioco. L’Italia, si legge nel documento, rappresenta per l’Iraq il secondo Paese importatore, ma importa quasi esclusivamente petrolio. L’auspicio è che le importazioni possano essere diversificate. Anche se per adesso non si capisce cos’altro potrebbe importare.

Incoraggiare gli investimenti è la parola d’ordine – da cui la messa a punto un “Accordo sulla promozione e la protezione degli investimenti”, che ora dovrà entrare in vigore.

Incoraggiare gli investimenti

Nel verbale della riunione della Commissione mista, che si è tenuta presso il nostro ministero degli Esteri, si sottolinea l’impegno italiano per l’Iraq – nei settori dell’agricoltura, gestione delle risorse idriche, agro-alimentare. E poi istruzione superiore e ricerca scientifica, con dottorati e corsi di specializzazione post-laurea per iracheni, e formazione per diplomatici. E ancora, il progetto per la regione delle paludi, nel sud, la promozione delle piccole e medie imprese.

E proprio per il sostegno a queste ultime dovranno essere utilizzate le prossime tranche del cosiddetto “soft loan” – 400 milioni di euro in crediti di aiuto nell’arco di un triennio – concesso dall’Italia al governo di Baghdad. La prima, 100 milioni di euro, è andata al settore dell’agricoltura.

Per le iniziative da realizzare, si pensa a joint venture, che si avvantaggerebbero della legge irachena sugli investimenti (emendata di recente, con termini più appetibili per le imprese straniere), e dell’accordo quadro fra la SACE (la società italiana che assicura il credito alle esportazioni) e la Banca commerciale irachena. In attesa che entri in vigore l’Accordo sulla promozione degli investimenti di cui sopra.

Grandi progetti

In Iraq, le imprese italiane hanno messo gli occhi in particolare su alcuni grandi progetti: la diga di Mosul, nel nord, e il nuovo porto di Fao, all’estremo sud, innanzitutto, ma anche la consulenza per il “Piano strategico nazionale di gestione delle risorse idriche” – e sembra che le cose procedano bene.

Nel verbale si cita anche la partecipazione dell’industria italiana della difesa (tradotto: industria bellica) allo sviluppo delle forze di sicurezza irachene. Qui gli italiani si sarebbero fatti onore all’interno della cosiddetta NATO Training Mission, in particolare per quanto riguarda il ruolo dei Carabinieri nell’addestramento della polizia federale.

Gli iracheni sono talmente soddisfatti che i ministeri degli Interni di Roma e Baghdad hanno firmato un memorandum di cooperazione fra le polizie – mentre si sta negoziando un altro memorandum sulla cooperazione in materia di difesa.

Esprime soddisfazione anche il Sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi, intervenuta nel pomeriggio di ieri a un evento organizzato dall’IPALMO (Istituto per le relazioni tra l’Italia e i Paesi dell’Africa, America Latina, Medio ed Estremo Oriente), sulle “Sfide e opportunità del nuovo Iraq” – evento che vedeva ospite d’onore il ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari.

Sostegno di “Paesi amici”

Affiancata da una presenza familiare – l’ex ministro degli Esteri Gianni De Michelis, oggi presidente dell’IPALMO – la Craxi ha sottolineato “le eccellenti relazioni esistenti fra la Repubblica Italiana e la Repubblica dell’Iraq” – Iraq che ha bisogno del “sostegno che Paesi amici come l’Italia sapranno garantirgli”.

Ed è un sostegno che passa anche attraverso “lo sviluppo di una qualificante partecipazione italiana alla ricostruzione del Paese”. Leggi: affari per le nostre imprese.

Affari che – ha detto Zebari, in risposta a una giornalista che gli chiedeva quando gli iracheni potranno avere acqua, elettricità, e fognature – servono proprio per garantire servizi essenziali decenti alla popolazione. Ottimismo – a cui del resto è stato improntato tutto l’intervento del ministro degli Esteri iracheno.

Di quale Iraq si parla?

Anche se a tratti Zebari ha ricordato che l’Iraq ha tuttora molti problemi – “non voglio dipingere un quadro roseo”, ha detto a un certo punto – per chi segue le vicende irachene era impossibile non provare disorientamento di fronte al panorama che veniva delineato.

Libertà di espressione, riconciliazione nazionale, “un sistema di governo veramente democratico”: altrettante success stories, come si direbbe – il resto, quello che occupa i titoli dei giornali e dei telegiornali, viene dai “terroristi”. Che non fermeranno il cammino del Paese verso la democrazia: una strada da cui “non si torna indietro”, ha detto Zebari, perché la democrazia “è quello che vuole la maggioranza del popolo iracheno”, e l’”abbiamo pagata cara in lacrime e sangue”.

Instaurare la democrazia – ha sottolineato il ministro – è un processo difficile quando si viene da una dittatura, come quella da cui siamo stati “liberati” nel 2003, “con l’aiuto di molti Paesi amici”.

Elezioni, la sfida principale

Secondo il capo della diplomazia di Baghdad, la “sfida principale” che oggi il suo Paese si trova di fronte è riuscire a far sì che le elezioni parlamentari fissate per il 7 marzo 2010 siano “libere, corrette, e sicure”.

Subito dopo, bisogna garantire l’indipendenza a fronte dell’”ambiente regionale”. Il che diventa sempre più problematico andando verso fine 2011 – la scadenza entro la quale tutte le “forze straniere” (questo il termine utilizzato da Zebari) dovranno lasciare l’Iraq. Tradotto: quando se ne andranno gli americani, come prevede il cosiddetto SOFA – l’accordo firmato a fine 2008 dal governo di Baghdad con l’allora amministrazione Bush. E che viene definito “una svolta storica”.

“A nessun altro Paese sarà consentito di riempire il vuoto quando le forze straniere se ne andranno”, è il monito del ministro degli Esteri iracheno, che, ovviamente, nomi non ne fa.

E però, se qualcuno pensava che il messaggio fosse diretto a Tehran, ecco Zebari puntualizzare che “i nostri fratelli arabi non hanno accettato il nuovo Iraq”.

Dalle elezioni parlamentari che si avvicinano – di cui “non va sottovalutata l’importanza”, in  quanto saranno “non solo irachene, ma regionali” – il ministro non sembra aspettarsi grandi sorprese. Ne uscirà ancora una volta un governo di coalizione, dice – perché l’Iraq non può essere governato da una sola confessione o da una sola etnia. “Nel nostro caso, chi vince non si prenderà tutto”, sottolinea.

Ed è chiaro che tipo di coalizione ha in mente, quando risponde a un’altra domanda dei giornalisti.

A chi gli chiedeva se non c’è il rischio che i contratti petroliferi conclusi con le compagnie straniere (il secondo round si è appena chiuso a Baghdad) possano essere invalidati dal prossimo governo, in assenza di una legge sul petrolio, Zebari ha dato assicurazioni che “nessun governo può rimangiarseli, perché sono stati approvati da un governo eletto”.

Per poi aggiungere: “Il prossimo governo non verrà da Marte”. Più chiaro di così.

http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=8616

Vaticano: accordo monetario con Ue 17.12.2009

S.Sede recepira’,entro 2010, regole comunitarie contro frodi

(ANSA) – ROMA, 17 DIC – Il Vaticano ha firmato oggi con l’Ue una convenzione monetaria che aggiorna le norme sulla circolazione dell’euro nella citta’ pontificia.

Ne da’ notizia la sala stampa della Santa Sede. Nel comunicato ufficiale non vi e’ scritto ma, a quanto rivela ‘Avvenire’, il Vaticano si impegna anche a recepire, entro il 31 dicembre 2010, le regole comunitarie contro il riciclaggio di denaro e contro le frodi finanziarie. L’accordo sostituisce la precedente convenzione monetaria del 29 dicembre 2000.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2009/12/17/visualizza_new.html_1647161959.html

L’esperienza di una giovane italiana a Innsbruck, in Austria, dove stanno nascendo i primi freeshop della catena Kostnix

Il negozio dove è tutto gratis meno consumi e meno rifiuti

Gli oggetti a disposizione di chi ne ha bisogno, non importa se ricco o povero. Esperienze analoghe in Olanda e in Belgio

di ROSARIA AMATO

Il negozio dove è tutto gratis meno consumi e meno rifiuti 15.12.2009

ROMA – Kostnix in tedesco significa “costa niente”, ed è il nome scelto da un gruppo di amici per il primo “freeshop” di Innsbruck, aperto nel marzo del 2007. Gli oggetti del negozio non sono duty free, liberi da tasse doganali, come nei free shop degli aeroporti: sono proprio gratuiti. Le uniche norme da rispettare sono: non prendere più di tre oggetti al giorno, e non rivendere in nessun caso le cose prese al negozio.

Quella dei “negozi gratuiti” è un’esperienza avviata da qualche anno in Austria (a Vienna per esempio ce ne sono due), in Olanda e in Belgio. In una striminzita voce Wikipedia spiega che “il loro scopo è offrire un’alternativa al sistema capitalistico. I freeshop sono simili ai negozi di carità, solo che tutto è libero e disponibile, che si tratti di un libro, un pezzo di arredamento, un indumento o un articolo casalingo (…) La maggior parte delle persone che usano questi negozi sono mosse dal bisogno (scarse risorse finanziarie, come nel caso di studenti o anziani) o dalla convinzione (anti-capitalisti)”.

“A noi non importa che chi prenda gli oggetti sia in uno stato di bisogno assoluto, che sia povero, può anche essere ricchissimo – spiega Valentina Callovi, di Trento, una dei due italiani che gestisce Kostnix, a Innsbruck (gli altri volontari sono tutti austriaci) – l’importante è che quello che ha preso gli serva davvero, o gli piaccia”. E dunque l’obiettivo dei freeshop non è quello di combattere la povertà, ma il consumismo, la tendenza a disfarsi degli oggetti che non servono più gettandoli nel cestino, senza pensare che anziché diventare rifiuti, con i pesanti costi di smaltimento che ne conseguono, potrebbero ancora servire a qualcuno, che eviterebbe così di acquistarli, sprecando danaro.

“L’obiettivo del freeshop è quello di contrastare la società dei consumi e la società usa e getta e sostenere un approccio più cosciente con le risorse. Dovrebbero esserci meno produzione, meno rifiuti e anche meno lavoro. Chi prende oggetti da un freeshop, risparmia i soldi che avrebbe dovuto spendere per comprarlo e così contribuisce anche ad abbattere il lavoro retribuito, simbolo del capitalismo”, si legge sul sito di Kostnix, che ha anche una versione in italiano.

“Siamo poco più di una decina di persone – racconta Valentina – e quindi riusciamo a tenere aperto Kostnix solo il martedì e il mercoledì. Ognuno di noi vi lavora senza retribuzione per due ore la settimana. L’affitto del negozio, 20 metri quadri nel centro storico di Innsbruck, costa 400 euro al mese. Ci finanziamo con un concerto annuo, delle serate con il vin brulè nelle quali ognuno offre quello che vuole, la città di Innsbruck ci dà 1000 euro l’anno, e la stessa cifra ci viene versata dai Verdi, che apprezzano il nostro contributo all’ambiente (contribuiamo alla riduzione dei rifiuti attraverso il riutilizzo degli oggetti”.

Valentina Callovi è di Trento, e si è trasferita a Innsbruck sette anni fa per fare l’università. Studia come traduttrice e interprete, adesso sta per laurearsi. “Vivo qui per scelta, non per necessità”, precisa. Cos’arriva a Kostnix? “Libri, vestiti, soprattutto per bambini, giocattoli, molte cose per la casa, dai piatti agli elettrodomestici, cd, dvd, ma anche computer e televisioni. La cosa più di valore che ci è arrivata finora è stato un abito da sposa. Per le cose più ingombranti, come armadi o divani, c’è la bacheca che raccogli gli annunci”.

Molto variegati i fornitori, un po’ di meno gli acquirenti: prendere gratis oggetti usati, anche in un Paese come l’Austria, può risultare un po’ socialmente squalificante. “Vengono a prendere gli oggetti soprattutto studenti – dice Valentina – oppure signore di 50-60 anni per lo più straniere (qui c’è per esempio un’ampia comunità turca), o infine donne con i bambini piccoli”. Una platea piuttosto ridotta rispetto a quella potenziale, e soprattutto rispetto all’obiettivo che si propone Kostnix, che è un obiettivo molto ambizioso, in qualche modo di ‘riformare’ i valori della società capitalistica: “Perché lavorare 40 ore a settimana per acquistare scarpe firmate, quando si può averle gratis, lavorando meno e godendo di una quantità maggiore di tempo libero?”, si chiede Valentina.

http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/esteri/kostnix-freeshop/kostnix-freeshop/kostnix-freeshop.html

Archeologia, Israele: è stata ricomposta la stele di Eliodoro

Dai frammenti di un’iscrizione in greco nuove conferme sulla storia dei Maccabei

Gerusalemme, 15 dicembre 2009 – È un antico comunicato reale che descrive l’incarico ad un nuovo esattore di tasse. E il suo testo, decifrato dopo che quattro recenti reperti archeologici sono stati riuniti, conferisce una chiara verosimiglianza agli avvenimenti che causarono la rivolta dei Maccabei nel 167-164 a.c. e alla storia di Hanukka. Il significato del comunicato, inviato dal re siro-greco Seleuco IV (187-175 a.c.) ai governanti della Giudea, è emerso quando si è capito che tre frammenti di pietra con iscrizioni, trovati a Tel Maresha di Beit Guvrin tra il 2005 e il 2006, dovevano essere riuniti a un più grande pezzo di stele, donata al Museo d’Israele nel 2007.

La ricostituita stele, o tavola inscritta, riporta un testo del re, datato 178 a.c.: undici anni prima della rivolta dei Maccabei. La notizia della ricomposta stele di Eliodoro, come è stata ribattezzata dagli archeologi israeliani, è stata annunciata dal quotidiano ‘Jerusalem Post’ citato dal sito online Israele.Net.

La stele contiene istruzioni per il suo capo ministro Eliodoro, riguardanti l’incarico, conferito ad un certo Olimpiodoro, di cominciare a raccogliere denaro da tutti i templi della regione, cosa che segnò l’inizio di un periodo negativo nella politica dei seleucidi rispetto all’autonomia ebraica.

Quel periodo culminò in una spietata persecuzione da parte dei seleucidi ai danni degli ebrei di Giudea, e nelle misure restrittive per il Tempio del 168-167 a.c., che generarono la rivolta dei Maccabei, come viene ricordato nella storia di Hanukka. I tre pezzi più piccoli, che provengono dalla base della stele, sono stati dissotterrati sotto l’egida dell’Istituto dei seminari archeologici di Ian Stern. Da 25 anni Ian Stern porta volontari dilettanti a partecipare ai suoi scavi a Tel Maresha, nel parco nazionale Beit Guvrin.

Durante un seminario del dicembre 2005, i fortunati partecipanti trovarono in una grotta della zona un manufatto di pietra rotto, con un’iscrizione in greco. Benché il ritrovamento fosse eccezionale, il suo pieno significato storico all’epoca non apparve del tutto chiaro. “L’iscrizione conteneva 13 righe, molte delle quali interrotte. Il reperto era importante perché la scritta non era su pietra locale gessosa, ma su calcare di Hebron di qualità migliore”, ha spiegato Stern.

Nei mesi seguenti di giugno e luglio, furono trovati altri due pezzi con testo greco nello stesso sito di Tel Maresha, il che accrebbe l’interesse per il potenziale significato dei reperti. Più tardi, all’inizio del 2007, una grande stele con sezioni mancanti alla base venne data in prestito al Museo d’Israele dal cofondatore Michael Steinhardt e da sua moglie Judy, di New York.

Considerata una delle più importanti iscrizioni antiche mai trovate in Israele, la stele non è più stata esposta dopo quei mesi di maggio e giugno, a causa di una ristrutturazione della sezione archeologica del museo. Acquistata dagli Steinhardt sul mercato antiquario all’inizio del 2007, la stele del 178 a.c. contiene 28 righe di testo greco, che descrivono le istruzioni reali a Eliodoro.

Nel marzo 2007, poco prima che la stele fosse esposta al Museo d’Israele, Hannah M. Cotton-Paltiel dell’Università di Gerusalemme, specializzata in lingue classiche, e Michael Woerrle della commissione per la storia antica e l’epigrafia dell’Istituto archeologico di Monaco di Baviera, pubblicarono una traduzione e una ricerca analitica del testo della stele.

Lo stesso anno, ignaro di una possibile connessione con la stele, l’archeologo Ian Stern si consultava con Dov Gera dell’Università Ben-Gurion, uno specialista della storia ebraica durante il Secondo Tempio e di epigrafia greca, a proposito dei tre pezzi trovati a Maresha. Gera, che si mise al lavoro per decifrare le iscrizioni solo sul primo pezzo portato alla luce da Stern, ha detto che inizialmente “non aveva fatto molti progressi”.

“È solo più tardi, nell’autunno 2008, nei depositi della Israel Antiquities Authority, che sono riuscito a vedere riuniti tutti i pezzi che Stern aveva trovato sul sito, e ho cominciato a riconoscere la loro somiglianza con il pezzo del Museo d’Israele, che avevo visto quando era esposto – ha raccontato Gera – Lavorando con i tre pezzi al deposito, e passando del tempo in biblioteca e altro tempo a casa, ci fu un momento particolare nel quale mi resi conto che i tre pezzi appartenevano alla stessa iscrizione”: come quella sulla stele che aveva visto l’anno precedente al Museo d’Israele.

Quando la stele venne ricomposta per la prima volta – a febbraio scorso – con i tre frammenti trovati dagli archeologi volontari, Stern ricorda con orgoglio: “Combaciavano perfettamente”. Un altro ricercatore che ha lavorato con Stern, Yuval Goren dell’Università di Tel Aviv, è certo, sulla base della patina e dei resti di terra che vi sono attaccati, che la stele acquistata dagli Steinhardt doveva provenire dalla stessa area di cave gessose dove sono stati trovati gli altri tre pezzi. Insieme, la stele e i suoi frammenti costituiscono la più grande iscrizione del genere mai rinvenuta in Israele.

Il testo decifrato, indirizzato da Seleuco IV al capo dei ministri Eliodoro e a due altri funzionari seleucidi, Dorymene e Diofane, combacia perfettamente con il secondo libro dei Maccabei. Seleuco IV era il fratello maggiore di Antioco IV, che gli succedette e la cui persecuzione degli ebrei è citata in Maccabei II come la causa della rivolta dei Maccabei.

Eliodoro è descritto nello stesso libro come colui che causò il primo conflitto aperto tra i seleucidi e gli ebrei, cercando di impadronirsi dei fondi del Tempio di Gerusalemme nello stesso anno del comunicato, il 178 a.c. Nel messaggio, che presumibilmente era destinato ad essere visto dai residenti di Maresha – uno dei centri della comunità ebraica dell’epoca – Eliodoro viene formalmente informato che Olimpiodoro è stato designato, tra gli altre compiti, a supervisionare la raccolta delle tasse con ‘moderazione’ da tutti i maggiori santuari entro le satrapie, o province, di Coele-Syria (poi Palestina e Israele) e Fenicia (lungo la costa mediterranea del moderno Libano).

Si presume che questo nuovo incarico sia stato reso necessario dalla morte o dal licenziamento di un precedente governatore. Secondo Gera, l’incarico di Olimpiodoro come supervisore di tutti i santuari di Coele-Syria e Fenicia, compreso in particolare il Tempio di Gerusalemme, era inteso ad espandere la giurisdizione finanziaria dell’impero seleucide. Fino a quel momento, l’impero non aveva tassato gli ebrei della regione. Il re precedente, Antioco III, padre di Seleuco IV e di Antioco IV, aveva concesso ampia autonomia religiosa ai popoli delle satrapie del suo impero durante il suo regno, dal 222 al 187 a.c., e Seleuco IV aveva continuato a rispettare le decisioni di suo padre riguardo agli ebrei. Ma solo fino a l’impero cominciò verosimilmente a restare a corto di denaro.

Come ha osservato Stephen Gabriel Rosenberg del W. F. Albright Institute of Archeological Research di Gerusalemme, “gli ebrei di Gerusalemme avevano accolto Antioco III spalancando le porte della città al suo esercito nel 200 a.c., e in cambio lui aveva concesso uno statuto che permetteva loro di vivere secondo le loro abitudini ancestrali, esentava i sacerdoti dalle tasse e dava perfino contributi reali per la manutenzione del Tempio e per i sacrifici”.

La designazione di Olimpiodoro e la nuova richiesta di pagare tasse all’impero, come scritto sulla stele, rappresentava quindi evidentemente un cambiamento cruciale nell’atteggiamento dei seleucidi verso gli ebrei. Può anche essere stato considerato, in Giudea, una diretta violazione dell’autonomia religiosa ebraica: la violazione di uno status quo scritto, concordato con lo statuto di Antioco III. I templi all’epoca erano il posto più sicuro in cui nascondere il denaro, sottolinea Ian Stern.

La tentazione di impadronirsi di una parte dei beni del tempio degli ebrei a Gerusalemme per l’indebitato impero seleucide – che era in debito con Roma per un indennizzo richiesto dall’impero romano in risposta all’espansione seleucide nella regione – fu evidentemente troppo forte. Secondo Maccabei II, fu Simon di Bilgah che, per disprezzo verso l’alto sacerdote ebreo Onias, menzionò al governatore seleucide locale che il Tempio di Gerusalemme “conteneva ricchezze inaudite; suggerendo di trasferirle sotto il controllo di Seleuco IV”.

Come scritto in Maccabei II (e dipinto nella ‘Espulsione di Eliodoro dal Tempio’, di Raffaello), Eliodoro fu mandato da Seleuco a impadronirsi del tesoro contenuto nel Tempio. Al suo ingresso, Eliodoro fu affrontato da un cavallo con un cavaliere in armatura d’oro, fiancheggiato da due giovani che lo buttarono a terra. La sua vita fu risparmiata per intervento del sacerdote Onias, ma venne cacciato dal Tempio a mani vuote.

L’archeologo Gera ipotizza che non fosse Eliodoro, bensì Olimpiodoro, che tentò di entrare nel Tempio e che ne venne cacciato, e che l’apparente confusione e/o revisione storica fosse destinata a mettere in una luce negativa in tutta la regione la figura più importante, Eliodoro, piuttosto che una figura minore come Olimpiodoro. Tre anni dopo, nel 175 a.C., Eliodoro assassinò Seleuco IV e assunse il potere, solo per essere rapidamente rovesciato da Antioco IV, di ritorno dalla prigionia a Roma.

In generale si ritiene che Antioco IV cercò di ellenizzare gli ebrei (ma un professore dell’Università di Gerusalemme, Doron Mendels, in un nuovo libro, ‘Jewish Identities in Antiquity’, sostiene che, sebbene nel decennio degli anni 160 a.c. il regno greco dei seleucidi decretasse che gli ebrei dovevano smettere di obbedire ai comandamenti rituali ebraici, esso non richiedeva loro specificatamente di adottare le pratiche ellenistiche).

Nel 169/168 a.c. il Tempio venne trasformato in un santuario dedicato al dio greco Zeus, il tesoro del tempio saccheggiato, il Sancta Sanctorum dissacrato e tutte le pratiche religiose ebraiche furono messe fuori legge. Verso il 167 a.c., mentre circolavano false voci sulla morte di Antioco in Egitto, in Giudea scoppiò la rivolta.

Alla notizia della rivolta, il re marciò con il suo esercito sulla Giudea nel tentativo di soffocarla. Come descritto in Maccabei II, “Quando questi avvenimenti furono riferiti al re, egli pensò che la Giudea fosse in rivolta. Furioso come un animale selvaggio, partì dall’Egitto e assaltò Gerusalemme. Ordinò ai suoi soldati di abbattere senza pietà quelli che incontravano e di massacrare quelli che si rifugiavano nelle proprie case. Fu un massacro di giovani e vecchi, di donne e bambini, di vergini e neonati. Nello spazio di tre giorni, ci furono 80.000 perdite, di cui 40.000 incontrarono una morte violenta e altrettanti furono venduti in schiavitù”.

Le violenze innescarono la rivolta dei Maccabei contro l’impero, guidata da Mattatia e dai suoi cinque figli: Judah, Eleazar, Simeon, Yohanan e Jonathon. Nel 164 a.c. la rivolta finiva con successo e il Tempio dissacrato veniva liberato e purificato il giorno 25 di Kislev: celebrato fino d oggi come il primo giorno di Hanukka.

Secondo David Mevorah, curatore dei periodi ellenistico, romano e bizantino al Museo d’Israele, la stele, ora conservata nel museo insieme ai tre frammenti trovati da Ian Stern, sarà esposta al pubblico – ricomposta – quando verrà aperto il nuovo dipartimento di archeologia nell’estate 2010 a Gerusalemme.

http://quotidianonet.ilsole24ore.com/cultura/2009/12/15/271365-archeologia_israele_stata.shtml

Read Full Post »

Mediattivismo 038

L’estinzione del pensiero 21.12.2009

GUIDO CERONETTI Da un fisico, Luigi Sertorio, viene – anche su questa superflua e nodale parata ecologica di Copenaghen – una luce. Se trovi un pensiero che vale férmati, ricordati che non sei un bruto!

Il libretto di Sertorio da cercare e da meditare, se si abbia qualche inclinazione a riflettere, s’intitola La Natura e le macchine, l’editore (SEB 27) non è certo tra i noti. L’autore è torinese e ha anche insegnato a Torino.

Ne stralcio qualche punto luminoso: «Da bambino, la notte, Torino era buia e guardavo dalla finestra le stelle e le Alpi lontane.

Ora dalla casa in collina guardo laggiù Torino tutta illuminata di lampadine, ci saranno molti megawatt di fotoni spediti nel cosmo, e non mi danno nessun senso di benessere». Quanto a me, mi domando a quale ingordo Moloch sacrifichino le città tanti inferociti megawatt e tanti torrenti di denaro per inondare di accecanti illuminazioni artificiali un flusso ormai quasi ininterrotto di partite notturne! Attenzione, quello spreco insensato di energia, non cessa di far male col fischio finale dell’arbitro: va a nutrire un oscuro cannibale che un giorno, ad un segnale, sgranocchierà i vostri figli. Come il minotauro di Creta e il lupo di Perrault – evocabili con profitto anche in un dopocena danese decembrino.

Il libretto è tutto aureo. Nella prefazione, Nanni Salio ricorda la profezia gandhiana: che se l’India (che allora contava trecento milioni: oggi, col Pakistan, tocca il miliardo e mezzo) si fosse industrializzata al modo dell’Occidente «avrebbe denudato il mondo come le locuste».

Conclude Sertorio (per forza ne limito le citazioni): «Ciò che scarseggia non è l’energia ma il pensiero, la futura vittima non è la Terra, ma è la mente umana, il consumo produce denaro, ma genera povertà (aggiungo: mentale) nelle nazioni». Sottolineo: la mente umana, con lacrime e rabbia. Nient’altro che pensiero atrofico o non-pensiero leggi nelle ceneri anche di questa eco-adunata mondiale. Ripiglio dall’India, tritagonista di questa scena tragica smisurata, insieme a Cina e America (le Americhe, bisogna dire: un unico personaggio policefalo). Ma la Russia, l’Europa, l’Iran, dove li metti? Tuttavia la demografia miliardaria è la più incosciente nel delirio industrialista, e ha uno specifico accecamento arrivistico – mostruosità psicologica che su scala di impero demografico (raggiungere-imitare-superare in potere-che-dà-potenza) oggi non culmina in traguardi stolti, ma in miserabile, scellerata distruttività del vivente, vicino e lontano, presente e futuro. La via dello Sviluppo è la via della morte.

Paradosso dei paradossi: la sovrapopolazione planetaria, che affligge gli enormi spazi del sud-est asiatico, Cina e India in testa, e anche gli Stati Uniti – le regioni più responsabili dell’Inquinamento – e che altresì affligge l’Africa e Gaza e il Cairo… neppure stavolta la si è vista nell’agenda dei lavori!! Magicamente rimossa…

Misteriosamente tenuta fuori… Perché manca il gradimento del Papa? Dei paesi islamici? Per paura dell’Insolubile? Ma se non osiamo confessare la nostra impotenza, allora perché stendere relazioni e fingere di avere a cuore un problema di essere o non essere, di vita e di morte? Perché incontrarsi e tenere discorsi su soluzioni possibili la cui caratteristica essenziale è l’impossibilità a coagularsi in una catena antincendio di severe e punibili concordanze?

Non ci sono percentuali in meno o in più che valgano. Esiste soltanto il convergere di tutte le strade verso la distruttività crescente, nella folle idea fissa del tempo lineare e della sua conseguente Crescita illimitata, col suo sterminio di risorse per contrastare le grandi povertà che vengono, le catastrofi finali che nessuna filosofia politica è in grado di fermare.

Perché la storia umana è iscritta in un ciclo sansarico, è parte di una ruota che la fa, nella luce e nell’ombra, ora essere ora non essere; perché nel Divenire in perpetuo qualsiasi vivere perde il suo stesso nome.

Come misura di Ragione Pratica puoi fare la raccolta differenziata e l’orticello biologico in Piazza Navona o alla Casa Bianca: una condotta etica è bene per chi la tenga – ma non commuoverà mai la maschera di pietra di quel che è predestinato, di quel che è, da sempre e per sempre, Destino.

E anche il Destino abbiamo visto tenuto fuori, malvisto cane sciolto, da questa conferenza di percentuali tristi e di egoismi irriducibili. Il clima out of joint può aiutare, per quanto cosa ahi molto dura, a capire. Può essere una freccia per andare, a occhi aperti almeno, incontro allo sguardo della testa inguardabile di Medusa.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6763&ID_sezione=&sezione=

accordo, clima, Copenhagen di Alberto Zoratti

Un accordo di pochi che colpisce tutti

19/12/2009

Copenhagen, ultimo atto. Quello che ha chiuso il vertice non è un accordo, ma una truffa. Scritto in sedi ristrette, il testo finale non prevede impegni quantificati, dà pochi spiccioli e nasconde giochi poco chiari sui finanziamenti. Il pianeta può attendere

“Non è quello che tutti speravamo” ma “abbiamo un accordo che avrà comunque un effetto operativo”. Dev’essere persona ottimista, il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, considerate le sue dichiarazioni davanti al non-accordo di Copenhagen. Per una persona che, come lui, diversi mesi fa s’è persino spostata alle Isole Svalbard, in pieno Oceano artico, per denunciare la realtà del cambiamento climatico, non dev’essere semplice arrampicarsi sugli specchi.

Perché questo non è un accordo. E’ una truffa. Deciso da pochi, in un incontro con tanti esclusi giusto la notte prima, e con molti esclusi a partire da quei Paesi africani e quegli Stati insulari che hanno chiesto interventi urgenti per evitare il disastro ambientale, che si trasformerà in disastro economico e sociale. Un gentleman agreement che ha visto la presa d’atto dei membri della Conferenza, ma non una sua approvazione visto che non c’e n’erano le condizioni, talmente tanti e diffusi erano i dissensi.

Sul testo conclusivo non esistono impegni quantificati di taglio da parte dei Paesi industrializzati, si continua a parlare di 2°C di aumento della temperatura media, senza tenere in considerazione gli appelli a diminuire questo “tetto” a 1,5°C, se non in una possibile ed eventuale revisione dell’accordo nel 2015.

Altro scandalo. I finanziamenti. Si parla di due tranche, una di breve medio termine, di 30 miliardi di dollari all’anno per il triennio 2010-2012 per sostenere interventi di mitigazione ed adattamento in Paesi terzi. Meno di un decimo di quello richiesto dai Paesi del G77 solo che alcuni giorni fa. Con la nascita di un nuovo gruppo di Paesi, quello dei Paesi in via di sviluppo più vulnerabili, di cui non se ne capisce quali siano i confini e le caratteristiche.

Negli stanziamenti di lungo termine, i Paesi industrializzati si impegnano a mobilizzare 100 miliardi di dollari nel 2020 provenienti dalle più disparate fonti: pubbliche, private e, perché no, di finanza creativa.

Secondo il coordinamento Climate Justice Now! però le cifre proposte nasconderebbero manipolazioni, visto che una parte delle risorse potrebbero provenire dalla riallocazione di stanziamenti per l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (quindi soldi già esistenti e non nuovi), dai meccanismi di Carbon trading di cui abbiamo potuto osservare la relativa inefficacia nell’abbattere le emissioni di gas serra. E da crediti concessi sotto forma di prestito.

E i precedenti certamente non aiutano, se pensiamo al fondo su Aids, Tubercolosi e Malaria promosso nell’indimenticabile G8 del 2001 o gli impegni costantemente disattesi sul famoso ed irraggiungibile 0.7% di APS. Per non parlare degli Obiettivi del Millennio, oramai una favola.

A Copenhagen si è quindi consumato un brutto atto della commedia COP15, in cui si sono viste dinamiche molto più simili a quelle notate all’Organizzazione Mondiale del Commercio, come i gruppi informali di pochi che decidono a nome di tutti, che non in un ambito Nazioni Unite. O come i Paesi industrializzati che prendono impegni che puntualmente disattendono.

Nel momento in cui il non accordo veniva sostanzialmente sdoganato, il Congresso degli Stati Uniti approvava lo stanziamento di 626 miliardi di dollari per il Pentagono, 128 dei quali per finanziare le guerra ancora in atto, Iraq e Afghanistan e 2,5 miliardi per acquistare 10 nuovi Boeing C17 per il trasporto truppe, richiesti dal Pentagono.

* In diretta da Copenhagen www.faircoop.net/faircoop

http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Un-accordo-di-pochi-che-colpisce-tutti

Palestina: Dopo quello israeliano, arriva anche il Muro dell’Egitto 10.12.2009

Dopo aver subito la “barriera di sicurezza” costruita da Israele in Cisgiordania, presto i palestinesi dovranno fare i conti con un altro Muro.

Questa volta non si tratta di una struttura di cemento, ma di una barriera di acciaio super-resistente, che l’Egitto sta già costruendo lungo il confine meridionale della striscia di Gaza.

La notizia è stata diffusa oggi dalla Bbc, che cita funzionari anonimi dell’intelligence del Cairo.

Secondo questa fonte, la nuova infrastruttura è stata progettata con l’assistenza di ingegneri dell’esercito degli Stati Uniti. Il suo scopo è di porre fine al contrabbando di beni che ogni giorno avviene attraverso i tunnel illegali che uniscono l’Egitto al territorio palestinese per ovviare all’embargo imposto da Israele.

La parte del muro a nord dell’attraversamento di Rafah, lunga quattro chilometri, è già stata completata e a breve inizieranno i lavori a sud, che proseguiranno lungo il confine, sul tracciato di una recinzione già esistente.

Al termine dell’opera, tra un anno e mezzo, il muro si estenderà per oltre dieci chilometri di lunghezza e penetrerà sotto terra per 18 metri.

Sempre secondo le indiscrezioni apprese dal network britannico, la barriera è fatta di acciaio super-resistente. I blocchi, di fabbricazione statunitense, vengono assemblati sul posto e sono testati per resistere a ogni tipo di forzatura, compresi gli esplosivi.

Per il momento i lavori proseguono in segreto e non esistono conferme ufficiali da parte del governo del Cairo.

Fino ad oggi vi erano state solo le segnalazioni degli abitanti della zona, che avevano notato attività insolite lungo il confine, tra cui l’abbattimento di numerosi alberi.

[c.m.m.]

http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=8596

Il regime perde il suo antagonista ma l´onda verde continua a crescere

Il grand ayatollah era considerato la coscienza critica del khomeinismo e l´ispiratore del dissenso

Il movimento tiene testa alla repressione anche se perde la guida spirituale

di BIJAN ZARMANDILI

Veniva trattato come il principe Myskin, l´Idiota dostoevskiano. Dicevano che assomigliava a un «gorbe nar», a un gatto maschio: tarchiato, con la testa fuori misura e la voce stridula di un gatto in amore. L´intervistatore della Bbc che recentemente aveva parlato con il grand ayatollah Hussein Ali Montazeri, ricordava le troppe barzellette raccontate su di lui in patria e il vecchio mullah sciita, divertito, aveva sorriso bonario, abituato a ben altri dileggi. Ieri Ali Montazeri, l´ayatollah del dissenso, la coscienza critica del khomeinismo, è stato sepolto a Qom, accanto al mausoleo di una santa, Masumé, e con lui finisce una lunga e tormentata fase della trentennale storia della Repubblica islamica. Uscito di scena di Montazeri, se ne apre ora un´altra, forse ancora più travagliata della prima, comunque colma di incertezze.

Qualcuno diceva ieri che, morto Montazeri, la suprema guida Khamenei, il presidente Ahmadinejad e i capi Pasdaran tireranno un sospiro di sollievo, perché il movimento verde rimane privo di un punto di riferimento autorevole e centinaia di migliaia di aspiranti mullah delle scuole coraniche di Qom e Mashad perdono il loro «mergia», cioè la loro “fonte di imitazione”. «Che Allah lo perdoni», ha detto Khamenei alla notizia della morte del grand ayatollah, come se volesse in fretta e furia consegnare finalmente la sorte di Montazeri al supremo giudizio di Dio.

Ma i più avvertiti osservatori hanno interpretato le reazioni ipocrite e ambigue delle autorità iraniane come una ennesima prova dei dubbi e delle incertezze che caratterizzano il comportamento di un regime che poggia su tre architravi vacillanti: la Guida della rivoluzione, il potere esecutivo e i Pasdaran. Questi tre punti di forza di fatto non riescono a coordinarsi per dare una risposta definitiva al vasto movimento nato all´indomani delle elezioni presidenziali dello scorso giugno. La piazza gremita di popolo a lutto per Montazeri era riempita ieri da centinaia di migliaia di iraniani, come era accaduto ancora pochi giorni fa, il 7 dicembre, in occasione della Giornata dello studente, e come sarà tra pochi giorni nella ricorrenza del martirio del terzo imam sciita, Hussein.

Nulla fin qui – fa presente Said Razavi Faghih, giornalista ed esponente riformista legato a Khatami – ha scalfito la solidità del movimento di protesta, malgrado la brutale repressione e le minacce nei confronti dei leader dell´opposizione, Moussavi, Karrubi e Mohammad Khatami. Ma anche verso Rafsanjani, considerato, a torto o a ragione, lo stratega dell´odierna protesta. Razavi Faghih sostiene che vige un precario equilibrio tra la forza del regime e quella dell´opposizione. In altre parole, il regime non ha la forza sufficiente, la necessaria coesione e neppure il coraggio di dar seguito ai suoi intenti repressivi. E teme la reazione della piazza.

A sua volta, il movimento verde mantiene la propria forza d´urto perché riesce a calcolare molto bene quando deve scendere in piazza (nelle ricorrenze stabilite dal calendario nazionale e islamico); perché sa tener conto del malcontento popolare per la pessima gestione dell´economia da parte del governo; e perché amplifica l´isolamento internazionale in cui l´Iran si trova a causa dell´avventuristica politica estera e nucleare del regime.

Il regime è dunque sostanzialmente debole e alle prese con un movimento d´opposizione potenzialmente in ascesa. È incapace di aprire un dialogo con esso, ma anche di schiacciarlo, come fecero invece i cinesi in piazza Tienanmen: ecco il motivo di quel sorriso beffardo che si credeva di cogliere sul volto del grand ayatollah Montazeri, disteso nella sua bara e coperto da un velo nero.

La Repubblica, 22.12.2009

Difesa Servizi spa

Claudio Bellavita,   21.12.2009

Tra le pieghe della finanziaria, un provvedimento esplosivo, che faccendieri di tutta Italia anticipavano da un anno. Ignazio La Russa è riuscito a privatizzare il suo ministero, creando una spa, al 100% nelle sue mani, che gestirà con criteri di diritto privato le forniture e gli acquisti della Difesa, e pure le aree del demanio militare, un patrimonio immenso

Diritto privato vuol dire niente gare, niente corte dei conti, e se qualcuno ruba, è appropriazione indebita e i pm non possono intervenire d’ufficio.

Ma le aree del demanio militare restano protette dal segreto militare, anche nei confronti degli enti locali. Quindi se i militari, ormai spa, ci vogliono fare un termovalorizzatore, una centrale nucleare, un grattacielo, così, tanto per far fronte fuori bilancio alle spedizioni estere o a chissà cosa, non devono chiedere il permesso a nessuno, che tanto nessuno non autorizzato da loro può entrare.

In pratica, un colpo di stato. Ne ha parlato un solo giornale, l’Espresso di venerdì 18. Di Pietro manco se ne è accorto. Il PD ha fatto fare una blanda protesta d’ufficio da due esponenti minori, la vedova Calipari e il sen.Scanu.

Certo, il momento per l’operazione è ben scelto, perchè offre un immediato impiego ai capitali che stanno rientrando grazie allo scudo: una grandiosa speculazione immobiliare che è sempre stato l’affare più gradito per i nostri “capitani coraggiosi”, insieme alla possibilità di contrattare forniture militari con una burocrazia amica, in condizione di quasi monopolio.

Economicamente potrebbe essere una operazione grasndiosa, in grado di farci uscire dalla crisi, e di consolidare un nuovo ceto economico (quelli che riportano i soldi dall’estero) con un nuovo ceto politico: gli uomini di AN che non a caso stanno dialogando sul futuro del nostro sistema politico dopo Berlusconi con gli uomini del PD. Che a questa operazione devono assicurare la tolleranza in parlamento e negli enti locali.

http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13823

La dottoressa dei migranti 21.12.2009

La ginecologa indiana Shashikala si occupa, gratuitamente, degli immigrati di Dubai

di Elisabetta Norzi e Christian Elia

Il sole si è da poco alzato su Dubai. In un cortile di Karama, un quartiere popolare della città abitato in maggioranza da migranti indiani, cuociono sul fuoco grandi pentole di riso, curry, spinaci e lenticchie. Comincia da qui, ogni mattina all’alba, la giornata della dottoressa Shashikala. Un sari clorato le avvolge il corpo minuto, i suoi movimenti sono veloci: riempie quattro bidoni di plastica con il cibo e ci chiede di aiutarla a caricare tutto sulla macchina. Col sorriso sulle labbra, spiega che da tre anni, tutti i giorni, questa è la sua vita: distribuisce pasti e medicine agli illegal workers, i lavoratori migranti che hanno perso il lavoro e non hanno più il permesso di soggiorno. La prima tappa è Sonapur, alle porte di Dubai. In hindi significa “città d’oro”, ma a ricordare il colore dell’oro c’è solamente la sabbia, che ricopre tutto e si infila ovunque: Sonapur è un’immensa città dormitorio che per chilometri e chilometri si fa spazio nel deserto. In angusti edifici di cemento tutti uguali, vivono migliaia di lavoratori: indiani, pakistani, bengalesi, cinesi. Da dietro un cumulo di detriti, un gruppo di ragazzi va incontro a Shashikala appena la sua automobile si ferma: dormono su cartoni e materassi sotto l’ombra di un albero. Non possono pagare un posto letto, non hanno i soldi per tornare a casa e alcuni non hanno più neppure il passaporto. Shashikala distribuisce il riso e li ascolta, uno ad uno: qualcuno spiega che non si sente bene, altri chiedono come possono tornare in India, altri ancora dicono che hanno lavorato per alcune settimane, in nero, ma non sono stati pagati. La scorsa estate in due sono morti per il caldo e da pochi giorni Shashikala è stata chiamata per rimpatriare altre sei salme: uno di loro è caduto da un’impalcatura in un cantiere, gli altri sono morti di malattie per la mancanza di assistenza e di cure.

Dottoressa Shashikala, come ha cominciato ad occuparsi dei lavoratori migranti?
Sono arrivata a Dubai nel 2007 e ho aperto un centro medico, a Karama. Sia io che mio marito siamo dottori e vedendo le condizioni dei lavoratori migranti, soprattutto di chi lavora nell’edilizia, non ho potuto fare a meno di occuparmi di loro: parlano la mia stessa lingua, vengono dalla mia stessa terra. La mia attività principale, oltre a ricevere i pazienti nel centro medico, è distribuire cibo e farmaci ai lavoratori migranti rimasti senza lavoro, specialmente a chi è malato e illegale nel paese. Riusciamo a sfamare in media 100-200 persone ogni giorno, ma in alcuni periodi arriviamo anche a 800. Distribuisco il cibo a Sonapur e a Sharjah, e in quest’occasione i lavoratori mi parlano dei loro problemi, fisici e non solo. Se non stanno bene, li porto con me al centro medico per visitarli. Recentemente ho incontrato diversi di loro che volevano togliersi la vita, e in due lo hanno fatto: sono morti, si sono suicidati. Io cerco di fare il possibile, quando stanno così male mi fermo a parlare con loro per ore, ma certe volte non basta. Veniamo qui a dare il cibo, conosciamo tutti, ma capita che il giorno dopo ci chiamino per dirci che qualcuno è morto. E’ terribile. Quanti di questi uomini vengono da me e cominciano a piangere perché non sanno più che cosa fare. Il loro pianto mi penetra nel cuore, io non posso fare a meno di occuparmi di loro. In questi due anni e mezzo, abbiamo sostenuto oltre 10mila persone in diversi modi: li abbiamo aiutati a tornare a casa comperando centinaia di biglietti aerei per l’India, abbiamo distribuito cibo, medicine, vestiti.

Quali sono i problemi di salute più diffusi?
Le malattie più comuni sono la tubercolosi, la bronchite, la tosse cronica, le infezioni intestinali e la disidratazione. Qualche volta anche l’Aids, ma in questi casi porto i malati immediatamente in ospedale e cerco di farli tornare a casa. Ci sono poi tutti i problemi legati agli incidenti sul lavoro: soprattutto le fratture alle gambe e alle braccia, che molto spesso richiedono operazioni. Infine ci sono le patologie psichiche: in tanti soffrono di depressione e di altri disturbi mentali legati alle condizioni di vita, di lavoro, alla lontananza da casa. Nei giorni scorsi sono stata chiamata a Sonapur per un ragazzo che stava male, aveva la febbre alta ed era magrissimo: mi ha detto che è a Dubai da 11 anni e che in tutto questo periodo è tornato in India una volta sola. Sono otto anni che non vede la sua famiglia.

Per i lavoratori illegali ci sono forme di sostegno sanitario da parte del Governo?
Nei casi di emergenza i trattamenti sono gratuiti, ma se i pazienti devono seguire qualche terapia o se hanno bisogno di essere operati devono pagare di tasca loro. La questione centrale è che non è stabilito dal Governo chi si debba occupare dei lavoratori illegali. Esiste un Dipartimento per i Diritti umani, ma hanno tutti paura a chiedere aiuto perché in genere si va incontro a problemi anziché ricevere aiuto, anche perché per accedervi bisogna passare dalla polizia. Il problema è che ci sono migliaia di persone che hanno bisogno. Anche se qualcuno viene aiutato, ce ne sono continuamente di nuovi che arrivano. Recentemente ho seguito due lavoratori che si sono rotti una gamba e hanno dovuto essere operati. A uno hanno chiesto 6600 dirham, all’altro 3500. Abbiamo pagato tutto di tasca nostra, ho dato il mio passaporto e la mia carta di lavoro come garanzia, e poi abbiamo raccolto i soldi, chiedendo aiuto a tutte le persone che conoscevamo.

E le donne migranti, cura anche loro?
Sono specializzata in ginecologia, quindi mi occupo anche delle donne. La maggior parte di loro hanno permessi di soggiorno come domestiche e sono qui sole. Le curo per tutti i problemi ginecologici, ma mi occupo soprattutto dei casi di gravidanza illecita, fuori dal matrimonio, che negli Emirati è illegale. A me però non interessa se sono illegali oppure no, come dottore ho il dovere di aiutarle tutte. Una ragazza è arrivata da me quando stava quasi per partorire, abbiamo chiamato l’ambulanza, ma non è stata portata in ospedale perché non aveva i documenti in regola. Nessuna struttura voleva farla partorire. Così ho dato i miei documenti, perché ci voleva qualcuno che garantisse per lei: abbiamo trovato uno sponsor che le desse il permesso di soggiorno e ci hanno chiesto 5mila dirham per il parto; in tre giorni siamo riusciti a raccogliere i soldi. Ora la mamma lavora e il bimbo sta bene. Se non avessimo pagato il conto delle cure mediche, mamma e figlio sarebbero stati arrestati. In genere per i casi simili c’è il carcere per 3 o 4 mesi e poi la Corte decide. Molte donne vengono da me anche perché vogliono interrompere la gravidanza. Se decidono di proseguire, mi occupo di loro, gratuitamente: le aiuto con i biglietti aerei per tornare a casa, ho un posto dove farle dormire, organizzo il parto se necessario. Ognuna di loro può scegliere se prendersi cura del bambino oppure no. Chi non riesce a farlo, per motivi finanziari o sociali, ha il nostro supporto per la cura del figlio, che torna poi con la mamma appena lei riesce ad occuparsene di nuovo. Prima del parto sono spaventate, pensano di non farcela, ma alla fine il senso di maternità prevale, e quasi tutte riescono a prendersi cura dei piccoli.

In India le persone sanno come è la situazione qui a Dubai?
Magari ne hanno sentito parlare, ma nei villaggi c’è talmente tanta povertà che i ragazzi partono lo stesso. In più a tutti viene promesso di guadagnare più di quello che poi ricevono una volta arrivati qui. Molti devono pagare anche le società di reclutamento in cambio di un lavoro, si indebitano, e poi si ritrovano in queste condizioni. Lo stipendio medio per chi lavora nell’edilizia è di circa 500-600 dirham al mese (100-120 euro), ma spesso devono pagarsi anche una stanza per dormire, il cibo e quello che rimane in tasca sono 300 dirham al massimo (60 euro). Se poi devono pagare anche le compagnie di reclutamento, per i debiti che hanno contratto, il lavoro non basta più. Così decidono di lasciare e iniziano a lavorare in nero, a giornata, per provare a guadagnare di più. Ma il risultato è ancora peggiore: si ritrovano illegali, senza permesso di soggiorno e molto spesso non vengono neppure pagati per le ore che fanno.

Che supporto hanno dalla polizia o dalle Ambasciate?

Nessuno, nemmeno il Consolato, l’Ambasciata, il Tribunale del lavoro li aiuta. Se ti rivolgi a loro dicono sempre e solo “vedremo quello che si può fare”. Abbiamo provato a sollevare l’attenzione dei media, ma anche loro non hanno fatto nulla alla fine. Alcuni giornalisti sono venuti a vedere come è la situazione, ma poi non ne hanno scritto: sono entrati a Sonapur con l’autorizzazione della polizia, perché questi lavoratori sono illegali, ma poi non gli è stato dato il permesso di pubblicare. Non essendo intervenuta la polizia, avrebbe voluto dire che i poliziotti non fanno rispettare la legge che punisce chi è irregolare nel paese. I poliziotti però sono musulmani e per la loro religione bisogna avere pietà per la povera gente. Così non intervengono, non cacciano gli irregolari, ma il risultato è che dei migranti illegali non ne parla nessuno.

In questi anni c’è stata qualche forma di protesta, di sciopero?
Qui non è possibile scioperare, non è permesso, è illegale. E poi questi ragazzi non hanno nessun argomento legale, sono irregolari, contro chi protestano? Dal 2007 la legge prevede l’espulsione immediata per chi non ha un lavoro e uno sponsor che garantisca per loro. E’ difficile anche che si auto organizzino, perché sono molto poveri, non hanno nulla. Ed è altrettanto difficile che qualcuno li aiuti: nessuno vuole prendersi il rischio di avere a che fare con chi è illegale nel paese. Io riesco a farlo, però: sono più al sicuro perché sono un medico e sono donna. La polizia sa quello che faccio e anche se qualche volta mi ferma e mi controlla, mi lascia continuare a lavorare.

http://it.peacereporter.net/articolo/19380/La+dottoressa+dei+migranti

Cassazione sconfessa studi di settore 21.12.2009

Standard per misurare evasione da soli non provano nulla

ROMA – Gli studi di settore – spauracchio dei contribuenti che hanno un’attività in proprio – non sono più un parametro certo in base al quale l’Agenzia delle entrate può inoltrare la cartella di accertamento fiscale sulla presunzione che lo scostamento, dai parametri di reddito introdotti dalla legge finanziaria del 1996, nasconda l’elusione dell’imposta dovuta. Lo sottolineano le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 26635 destinata a rivoluzionare – a favore del contribuente – la formazione della prova nelle cause con il fisco.

D’ora in poi – questo il senso della decisione della Suprema Corte – gli studi di settore, anche se frutto della diretta collaborazione con le categorie interessate, sono da considerare solo “una elaborazione statistica, il cui frutto é una ipotesi probabilistica che, per quanto seriamente approssimata, può solo costituire una presunzione semplice”. D’ora in poi – quindi – sono da considerarsi nulli gli accertamenti fiscali che si poggiano solo sulle indicazioni provenienti dagli studi di settore.

Anche nelle cause con il fisco la prova si forma in dibattimento e il contribuente “ha la più ampia facoltà di prova” per contestare “l’applicabilità degli standard al caso concreto”. Così è stato respinto il ricorso con il quale l’Agenzia delle entrate sosteneva che gli studi del settore ‘parrucchiere da uomo’ fossero applicabili – tout-court – anche nel caso del gestore di un piccolo salone dell’entroterra lucano che già da anni aveva ammortizzato i costi riferiti a minime quantità di beni e servizi, acquistati in tempi remoti, e ormai obsoleti.

– ”La sentenza della Cassazione ribadisce quello che la Confesercenti ha sempre sostenuto, valea dire che gli studi di settore sono un punto riferimento ma chenon vanno considerati esaustivi riguardo alla fedeltà delcontribuente rispetto ai suoi impegni con il fisco”. Così Mauro Bussoni, vicedirettore generale della Confesercenti,commenta il pronunciamento della Corte di Cassazione sugli studidi settore, giudicandolo “un passaggio importante”.

“Certo, ora bisognerà capire bene il contenuto dellasentenza e vedere il caso nello specifico ma comunque lasentenza ribadisce un concetto importante, cioé – prosegueBussoni – che lo scostamento dagli studi di settore non vuoldire che il contribuente sia in dolo, e comunque vi è per ilcontribuente o l’azienda la possibilità di un contraddittorio,indicando i motivi di tali scostamento. Una sentenza insomma -conclude – che non può che migliorare il rapporto tracontribuente e fisco”.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2009/12/21/visualizza_new.html_1648147760.html

23/12/2009 – AUTO- IL RISIKO MONDIALE

Ford vende Volvo alla cinese Geely

Accordo da circa 2 miliardi di dollarimeno di un terzo di quando pagatodal colosso americano dieci anni fa

ROMA
Somiglia a un ex impero l’industria dell’auto americana. Un impero che continua a perdere pezzi. La devastante crisi che ha colpito il mondo dell’auto è arrivata in una fase di debolezza per l’industria a stelle e strisce, finora salvata solo dal massiccio intervento del contribuente, dopo aver accusato perdite di quasi 100 miliardi di dollari tra il 2004 e il 2008.  E’ di oggi la notizia che la Ford, l’unico tra i costruttori americani a non ricorrere agli aiuti pubblici, ha definito l’accordo di massima per la cessione della Volvo al gruppo cinese Geely. Acquistata dieci anni fa superando la concorrenza della Fiat e sborsando la cifra di 6, 4 miliardi di dollari, la Ford ha deciso di dismettere la casa svedese anche per via delle scarse sinergie, oggi di fondamentale importanza per la sopravvivenza.

L’annuncio della Ford arriva a pochi giorni da quello di Gm che non è riuscita a vendere la Saab a conferma di una ritirata degli ormai ex big di Detroit. Contestualmente cerca di ritagliarsi un ruolo di primo piano l’industria dell’auto cinese. La Beijing automotive industry ha pagato 200 milioni di dollari per acquistare la tecnologia Saab. Proprio Baic e Geely sono tra i costruttori cinesi più attivi sullo scacchiere mondiale per ridurre la dipendenza dalle joint venture con Hyundai motor e Daimler nella consapevolezza che la Cina già nel 2010 diventerà il primo mercato mondiale dell’auto ed è necessario scalare la classifica rapidamente. Sempre in mani cinese è finito il mitico marchio Hummer della Gm, che per anni ne ha garantito i profitti. La tengzhong ha acquistato la Hummer garantendo il mantenimento di 3 mila posti di lavoro negli Stati Uniti.

La Cina è stata ipotizzata anche per Termini Imerese ma la Chery ha smentito l’interesse confermando però l’intenzione di espandersi all’estero con 15 stabilimenti produttivi. Pechino inoltre punta a razionalizzare l’industria domestica. Nella primavera scorsa era trapelato il disegno di ridurre il numero dei costruttori d’auto cinesi, oggi un centinaio, procedendo alla fusione tra i principali 15-20 per creare 5-6 poli industriali con massa critica sufficiente a fronteggiare i big mondiali. Un disegno che sembra al momento accantonato a causa delle riserve delle autorità periferiche che non vogliono rischiare di sacrificare l’industria della rispettiva provincia. Tornando all’ex impero americano, alla Gm resta la Opel dopo un clamoroso ripensamento ma sarà il tempo a dire se Detroit potrà sostenere le attività europee che perdono oltre un miliardo di euro l’anno.

Con la Chrysler entrata nella sfera della Fiat, la concorrenza di Volkswagen e Toyota su tutti sui mercati emergenti, per Gm e Ford c’è poco da stare allegri anche se sono riuscite ad evitare di sprofondare nell’abisso.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/200912articoli/50644girata.asp

Generali: accordo con Qatar Islamic Bank per polizze “takaful”

Balbinot: verso creazione operatore leader nel Golfo (Il Sole 24 Ore Radiocor) – Milano, 22 dic – L’intesa preliminare, si legge in una nota, mira alla creazione di una partnership fondata sull’apporto tecnico assicurativo del gruppo Generali, associato alla conoscenza del mercato ed alla capacita’ distributiva della Qatar Islamic Bank, e alle competenze specialistiche in ambito takaful che saranno fornite da Beema compagnia di assicurazione con licenza per l’assicurazione takaful, partecipata da Qatar Islamic Bank, la prima banca islamica in Qatar e tra i primi cinque istituti di credito al mondo “Sharia- compliant”. Il settore takaful presenta un significativo potenziale di crescita: si stima nel 2015 un volume premi a livello di mercato mondiale di circa 20 miliardi di dollari, di cui il 30% dovrebbe essere sottoscritto nel mercato GCC (Gulf Cooperation Council) che comprenede Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, UAE ed Arabia Saudita. Inoltre i paesi islamici producono il 23% della ricchezza generata nelle aree emergenti del pianeta ma presentano degli indici di diffusione assicurativa ancora contenuti. Secondo Balbinot “la combinazione di Qatar Islamic Bank, una delle principali banche islamiche del mondo, e Generali, assieme all’importante esperienza locale di Beema, possa preludere alla creazione di un operatore leader per la sottoscrizione di affari takaful nella regione del Golfo ed al successivo sfruttamento delle opportunita’ presentate da questo settore sia in Europa che in Asia”. Il Presidente di Qatar Islamic Bank, Sheikh Jassim bin Hamad bin Jassim bin Jabr Al Thani, ha commentato: “La banca e’ molto lieta della possibilita’ di stringere un accordo strategico nel business delle polizze Takaful nell’ottica di creare un player leader nel settore. I nostri piani sono, in primo luogo, di lanciare i prodotti Takaful nei Paesi del Golfo, dando priorita’ ai nostri mercati regionali e locali, per poi porre particolare attenzione sulle aree geografiche rilevanti per questi prodotti”.

http://archivio-radiocor.ilsole24ore.com/articolo-769316/generali-accordo-qatar-islamic/

Pace in trincea

E’ Natale del 1914 e tedeschi e britannici, che si affrontano a Ypres, decidono di uscire dalle trincee e di festeggiare insieme la festività (Matteo Liberti per Focus Storia 38, dicembre 2009)

Molti la considerano la più bella favola di Natale, paragonandola a un miracolo. Nei libri di Storia non ce n’è quasi traccia, tuttavia se ne parla in film e romanzi, nonché in una struggente canzone folk dell’artista inglese Mike Harding, dal titolo Christmas 1914.
Eccone alcuni versi: “I fucili rimasero in silenzio […] senza disturbare la notte. Parlammo, cantammo, ridemmo […] e a Natale giocammo a calcio insieme, nel fango della terra di nessuno”. La partita in questione si svolse realmente, e fu giocata il 25 dicembre 1914 nei pressi della cittadina belga di Ypres. Campo di gioco: la no man’s land (“terra di nessuno”), lo spazio che divideva le trincee inglesi da quelle tedesche. Fu il momento culminante di quella che passerà alla Storia come “tregua di Natale”.
Nell’estate del 1914 l’Europa era divenuta teatro di una guerra che vedeva opposti due grandi schieramenti: Gran Bretagna, Francia e Russia da una parte; Germania, Austria-Ungheria e Turchia dall’altra. Più tardi sarebbero entrati nel conflitto anche Bulgaria, Giappone, Italia, Stati Uniti e una serie di Paesi “minori”, trasformando così la contesa nella prima guerra su scala globale dell’umanità.
All’inizio il fronte più caldo fu proprio quello occidentale (tra il Belgio e il Nord della Francia) dove inglesi, francesi e belgi dovettero contrastare l’avanzata tedesca. Dopo una sanguinosa battaglia nei pressi di Ypres, a fine autunno gli eserciti si ritrovarono però impantanati (qui e altrove) in un’estenuante guerra di logoramento tutta combattuta intorno alle trincee. Da questi fossati profondi un paio di metri e rinforzati alla buona con tavole di legno, i soldati si lanciavano quotidianamente all’assalto del nemico, guadagnando o cedendo ogni volta pochi metri di terreno e trascorrendo il resto della giornata tra fango, pioggia e cadaveri in decomposizione. Queste condizioni riguardavano tutti e il “mal comune” provocò presto il verificarsi di episodi di solidarietà tra nemici (che si trovavano peraltro a pochi passi di distanza gli uni dagli altri). I soldati dei due eserciti cominciarono a scambiarsi alcuni “favori”, come non aprire il fuoco durante i pasti. Quel che contava era salvare le apparenze con i superiori (si rischiava l’accusa di tradimento) e portare a casa la pelle.

http://www.focus.it/Storia/speciali/pace-in-trincea.aspx

Internet

Maroni: l’autoregolamentazione può bastare 22.12.2009

Dopo aver minacciato di legiferare contro le istigazioni alla violenza mediate dalla rete, il Ministro si lascia convincere dagli operatori. Si prevede un grande accordo, si sogna una policy globale

Roma – No alle leggi che regolamentino Internet come se fosse un mondo diverso da quello abbracciato dall’ordinario quadro normativo, ma una linea di condotta comune da adottare per fronteggiare e prevenire situazioni in cui la libertà di espressione sconfina massicciamente in quello che potrebbe essere giudicato un reato. I rappresentanti degli operatori della rete, Facebook in primis, si erano rivolti direttamente ai rappresentanti del governo dopo che, a seguito dell’aggressione al Premier e del polverone sollevato fra bacheche e profili, si era brandita la minaccia di leggi ad hoc che punissero cittadini e piattaforme, responsabili di certe sortite e intermediari della rete.

Si punterà invece su un codice di autoregolamentazione: così è stato stabilito nel corso dell’incontro che si è svolto nel pomeriggio presso il Viminale, incontro che ha messo a confronto prospettive e competenze del vice ministro delle Comunicazioni Paolo Romani, del capo della polizia Antonio Manganelli, del consigliere ministeriale con delega alla sicurezza informatica Domenico Vulpiani, del capo della polizia postale Antonio Apruzzese, dei rappresentanti del ministero delle Politiche Giovanili, ma anche delle aziende, fra cui Confindustria, Assotelecomunicazioni, Associazione italiana internet provider, British Telecom, Fastweb, H3g, Vodafone, Wind, Telecom, Facebook, Google e Microsoft.

Il ministro Maroni, che aveva minacciato repressione a mezzo chiusure e oscuramenti imposti dalle autorità per le pagine che ospitassero incitazioni alla violenza, sembra aver cambiato punto di vista: “Abbiamo affrontato il tema di come impedire la commissione di gravi reati su Internet e come rimuoverne i contenuti – ha spiegato Maroni – La strada da seguire è quella di un accordo fra tutti definendo un codice di autoregolamentazione che coinvolga tutti i soggetti interessati, evitando interventi di autorità”. È possibile che il Ministro sia stato informato dell’impossibilità di agire in maniera chirurgica nelle rimozioni, è possibile che abbia compreso le dinamiche del ruolo svolto dagli intermediari della rete, costretti a confrontarsi con un’enorme mole di contenuti caricati dai netizen: per questo non fa più riferimento alla soluzione finale dell’intervento delle autorità ma invita gli operatori della rete alla collaborazione, affinché le segnalazioni relative a un contenuto inadatto vengano elaborate in maniera tempestiva e coerente, in modo da agire più che prontamente qualora i contenuti violassero la legge.

Non sarebbe dunque necessario l’avvento di alcuna legge repressiva come l’emendamento D’Alia che gravi sugli intermediari attribuendo loro responsabilità mai descritte dalla legge, né di alcuna legge come il DDL Lauro, che attribuisca delle pene particolarmente pesanti ai cittadini che si macchino di reati commessi a mezzo comunicazione telefonica o telematica. Sarebbe sufficiente quello che Maroni definisce un accordo, un codice di autoregolamentazione che coinvolga tutti gli operatori della rete – in Italia e all’estero, auspica il Ministro – che tracci delle linee guida per l’intervento qualora attraverso le piattaforme in rete i cittadini si intrattengano in condotte sospettate di essere illegali. Sarebbe a parer di Maroni “il primo caso al mondo” in cui si potrebbe realizzare “un grande accordo di responsabilità fra tutti gli operatori” capace di bilanciare le esigenze della “libertà di espressione del pensiero e quella di rimuovere contenuti che integrino gravi reati”.

Non bastano dunque le policy adottate finora dagli intermediari della rete, basate sulle rimozioni sollecitate dalle segnalazioni degli utenti. Le loro proposte verranno vagliate e confluiranno nel prossimo incontro previsto per metà gennaio.

Gaia Bottà

http://punto-informatico.it/2777014/PI/News/maroni-autoregolamentazione-puo-bastare.aspx

Requiem per Termini Imprese 22.12.2009

Di Red

Il lavoro è in trincea. Ogni giorno si aprono nuovi problemi o si conferma la gravità di casi irrisolti. Per quanto riguarda la Fiat c’è la conferma dell’abbandono della produzione automobilistica a Termini Imerese nel dicembre 2011.Per quanto riguarda Eutelia si continuano a perdere commesse, a partire da quelle pubbliche della Rai, nonostante le promesse avvenute al tavolo della presidenza del consiglio. Per quanto riguarda Yamaha si è ancora in attesa di una risposta dell’azienda sull’utilizzo della cassa integrazione per impedire un licenziamento traumatico ai lavoratori

“Nei prossimi due anni gli investimenti della Fiat in Italia ammonteranno a 8 miliardi”. Lo ha detto l’ad del Lingotto Sergio Marchionne nel corso dell’incontro con governo e sindacati che si e’ svolto a Palazzo Chigi, durante il quale ha presentato il piano industriale della casa automobilistica torinese. Presenti per il governo i ministri dello Sviluppo economico Claudio Scajola, del Lavoro Maurizio Sacconi, dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, degli Affari regionali Raffaele Fitto e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta; per i sindacati sono intervenuti Raffaele Bonanni (Cisl), Guglielmo Epifani (Cgil) e Luigi Angeletti (Uil). Hanno partecipato alla riunione anche i governatori Raffaele Lombardo (Sicilia), Antonio Bassolino (Campania) e Esterino Montino (vicepresidente della regione Lazio). Una riunione accompagnata dalle proteste dei lavoratori della Fiat – provenienti soprattutto da Termini Imerese e Pomigliano d’Arco – che hanno manifestato prima a Piazza Colonna e poi sotto Palazzo Chigi, dove hanno intonato cori di protesta contro l’azienda. Va ricordato infatti che i due stabilimenti sono quelli più a rischio chiusura.

“Vogliamo che l’incontro di oggi sia tutt’altro che rituale – ha continuato Marchionne – ma occorre conciliare i costi industriali con la responsabilità sociale”. Infatti “il solo calcolo economico avrebbe conseguenze dolorose che nessuno si augura ma un’attenzione esclusiva al sociale condurrebbe alla scomparsa dell’azienda”. Tant’è vero, ha poi annunciato il numero uno della casa torinese, che lo stabilimento Fiat di Termini Imerese non produrrà più auto dalla fine di dicembre 2011.
“Ci sono condizioni di svantaggio competitivo – ha detto – difficoltà strutturali e costi eccessivi. Lo stabilimento è in perdita e noi non possiamo più permettercelo”. D’altra parte però “siamo disposti a discutere proposte di riconversione con la regione Sicilia e gruppi privati – ha aggiunto l’ad – mettendo a disposizione lo stabilimento”. Il contesto per il mercato dell’auto “continua a essere sfavorevole” ha quindi dichiarato l’ad di Fiat. In particolare, ha spiegato, “in Europa continua la sovracapacità produttiva” mentre negli Usa “il problema è stato affrontato con coraggio”. Ma c’è anche “una forte disparità dei livelli di utilizzo della manodopera tra gli stabilimenti auto di Fiat italiani ed esteri” ed è un problema che “dobbiamo affrontare di petto” perché anche da questo “dipende anche il nostro futuro. Se non lo facciamo sarebbe una rovina”.

L’ad di Fiat ha poi confermato la produzione dei modelli attuali nello stabilimento di Torino Mirafiori per il prossimo biennio. Stessa conferma arriva per lo stabilimento di Melfi che “sta lavorando bene”, Nel sito di Cassino, invece, si aggiungerà la produzione della nuova Giulietta. Quanto a Pomigliano d’Arco, ha detto Marchionne, “è l’impianto più penalizzato per l’assenza di incentivi. Così com’è non può reggere, abbiamo già investito 100 milioni di euro”. A Pomigliano, ha ricordato però Marchionne, verrà prodotta la nuova Panda. Quanto alla ex Bertone, acquisita di recente da Fiat, produrrà due nuovi modelli per la Chrysler. Infine, tra i nuovo modelli che Torino produrrà nel bienno 2010-2011, la nuova “Y” sarà realizzata in Polonia mentre “una nuova famiglia basata sulla piattaforma small”, ha concluso Marchionne, sarà realizzata in Serbia.

Marchionne ha iniziato il suo intervento annunciando “un piano ambizioso per la Fiat, soprattutto per l’Italia”. In particolare entro il 2012 la Fiat sarebbe disponibile a produrre fra 800 mila e 1 milione di vetture all’anno, dalle 650 mila attuali. Il numero uno del Lingotto ha anche annunciato la possibilità di aumentare il numero dei veicoli commerciali leggeri da 150 mila a 220 mila.
Non è vero, ha poi incalzato, “che siamo un’azienda assistita dallo stato”. Secondo Marchionne, infatti, “gli incentivi sono stati finanziati dalla Fiat e il credito accumulato dal gruppo è di circa 800 milioni di euro”. Per il futuro la Fiat non vuole chiedere “un euro allo Stato” neppure sulla proroga degli eco-incentivi. “Si tratta di una decisione che non ci compete – ha commentato Marchionne – e una scelta che spetta a chi ha il compito di disegnare la politica industriale di questo paese. Noi siamo pronti a gestire qualunque situazione, vorrei solo che si smettesse di fare demagogia sulla pelle della Fiat. Se si vuole una grande industria dell’auto in questo paese – ha concluso Marchionne – è necessario comportarsi di conseguenza e solo una decisa politica di sviluppo può creare le condizioni perché il tessuto industriale italiano si rafforzi”.

“Già da oggi dobbiamo tutti prende impegni per il polo industriale di Termini Imerese” ha detto il ministro dello Sviluppo economico a commento dell’annunciata intenzione del Lingotto di confermare la riconversione industriale di Termini Imerese dal 2012. “La criticità del gruppo Fiat “è Termini Imerese ma l’azienda è disposta a collaborare – ha aggiunto Scajola -. Non possiamo perdere quel polo industriale e abbiamo il tempo di mettere insieme le risorse della Regione siciliana e quello che il governo può dare per uno sviluppo diverso del sito” in provincia di Palermo. Secondo il ministro “servono uno sforzo congiunto di Fiat, Enti locali e governo per individuare soluzioni industriali che garantiscano l’occupazione”. “Fiat – avrebbe evidenziato tuttavia il titolare dello Sviluppo economico – pone al centro l’Italia con una crescita della produzione a un milione di vetture”.

Dura la posizione dei sindacati. “Pomigliano d’Arco è salvo ma Termini Imerese no”. Nelle parole di Cgil, Cisl e Uil è forte la delusione per la scelta della Fiat. Le parti hanno apprezzato alcuni punti della relazione dell’ad Sergio Marchionne, ma il “piano ambizioso” dell’ad del Lingotto è passato in secondo piano quando il costruttore ha confermato lo stop della produzione auto a Termini Imerese. “Il consolidamento dell’accordo Fiat-Chrysler è un fatto importante per l’Italia”, ha detto il leader della Cisl Raffaele Bonanni e anche la soluzione per Pomigliano d’Arco”, ma “il vero problema rimane Termine Imerese”. Ora, “ci vuole un tavolo immediato per il futuro” del sito siciliano, ha continuato Bonanni: “Non possiamo lasciare i lavoratori nell’incertezza a Natale e dobbiamo capire cosa può fare la Regione, lo Stato e che impegni prende Fiat. Dobbiamo muoverci tutti perché si salvi – ha concluso il leader Cisl – quella realtà industriale. Termini deve restare un sito attivo”.

Sulla stessa linea il numero uno della Cgil Guglielmo Epifani, che pur confermando la positività dell’operazione Chrysler e le decisioni in merito al sito campano della Fiat, ha ribadito che “il cuore del problema è Termini. Bisogna sciogliere il nodo perché se si perde un centro produttivo nel Mezzogiorno, difficilmente lo si potrà sostituire”.

“Marchionne ha mostrato tutta la sua arroganza, ha usato toni molto gravi su Termini Imerese.
Avrà pure salvato la Fiat, ma non si può permettere di mortificare la dignità di 3 mila persone che hanno contribuito a fare grande questa azienda che ha avuto tanto dai governi ma non ha avuto niente in cambio. La nostra risposta sarà decisa”. Lo dice il segretario della Fiom di Termini Imerese, Roberto Mastrosimone, presente all’incontro a Palazzo Chigi per la presentazione del piano industriale della Fiat.
“Marchionne ha detto che la Fiat è un gruppo privato e che il problema sociale di Termini Imerese riguarda il governo – aggiunge Matrosimone – Anche a queste parole i lavoratori sapranno dare risposte”.

Per il segretario generale della Uil Luigi Angeletti il confronto su Fiat deve partire dal fatto che “la presenza industriale in Italia non deve venire meno” e la sfida “resta far sì che aumenti la produzione di auto”, quindi, ha concluso Angeletti, “non ci possiamo rassegnare a un tragitto che sembra già segnato”.

E mentre si fa sempre più vicina l’ipotesi di un tavolo solo sulla situazione di Temini Imerese, il presidente della Regione siciliana Raffaele Lombardo ha commentato a margine dell’incontro la notizia della chiusura confermata del polo palermitano annunciando battaglia: “Il piano industriale della Fiat va rivisto” ha dichiarato il governatore. “Sia il governo sia tutti i sindacati sia la Regione hanno opposto un fiero no a una impostazione che discrimina Termini Imerese. Si fa fronte alle difficoltà di tante stabilimenti e Termini viene trattata come una sorta di vittima sacrificale di un rito pagano”. Ecco perché ha concluso Lombardo, “ora ci aspettiamo un fronte unico perché il piano Fiat venga rivisto”.
“Il Sud e la Sicilia hanno già dato al Nord e alla Fiat, con un esodo biblico durato oltre un secolo, braccia e cervelli, contribuendo alla costruzione di enormi fortune e di incommensurabile ricchezza. Non possiamo permettere quindi a mister Marchionne di calpestare con cinica ironia la nostra dignità”, continua il presidente della Regione siciliana. “Dinanzi a questo atteggiamento – ha proseguito Lombardo – mi aspetto dal Governo nazionale e dai sindacati una coerente reazione, in linea con quanto già ampiamente annunciato: il taglio di qualsiasi incentivo a favore della Fiat e delle sue consociate. Ai lavoratori dico che con le risorse che abbiamo destinato a Termini, sono certo che riusciremo a trovare una soluzione con buona pace di mister Marchionne. Il Governo nazionale – conclude Lombardo – sia consequenziale e stacchi un biglietto di sola andata per il canadese Marchionne”.

http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13847

Chiquita Connection 21.12.2009

La Colombia ha chiesto l’estradizione dei vertici di Chiquita, accusata di aver pagato squadre di paramilitari colpevoli di 11mila omicidi

“Il caso di terrorismo più grande della storia recente, con tre volte il numero delle vittime dell’attacco alle Torri Gemelle di New York”. Terry Colling Sworth, esperto Usa in diritto internazionale, definisce così la storiaccia che sta dietro al processo che vede quale imputata la multinazionale delle banane Chiquita, accusata di aver assoldato tra gli anni Ottanta e Novanta orde di paramilitari per perseguire i propri interessi in Colombia. Risultato: 11mila vittime nella sola regione dell’Urabá, costa nord del paese.

Ci risiamo. Difesa e accusa torneranno a colpi di documenti e tesi contrapposte in una causa legale che va avanti da anni, e che prima è stata trattata negli Usa e adesso è sfociata in un processo in Colombia che sta per entrare nel vivo, mettendo fine all’impunità nella quale si sono crogiolate finora molte multinazionali padrone incontrastate dell’America Latina.
Nel primo caso, Chiquita ha raggiunto un accordo con il dipartimento di Giustizia Usa per le colpe di Banadex, società affiliata. Sulla base del patteggiamento, Chiquita sta pagando una multa di 25 milioni di dollari, essendosi dichiarata colpevole di avere violato la legge degli Stati Uniti per avere effettuato, dal 2001 al 2004, pagamenti a entità affiliate con l’organizzazione “Autodefensas Unidas de Colombia” (AUC). Nel secondo caso, invece, la Procura della Repubblica colombiana si è appena rivolta al Direttore degli affari criminali del Dipartimento di giustizia Usa, Thomas Black, affinché notifichi ai cittadini statunitensi a capo della Chiquita Brands Inc., un tempo United Fruit Company, John Paul Olivo, Charles Dennis Keiser e Dorn Robert Wenninger, l’avviso di garanzia affinché si difendano dall’accusa di “associazione a delinquere aggravata”. A questo seguirà, nei prossimi giorni, la richiesta di estradizione, che potrebbe riguardare altri 19 dirigenti della multinazionale, che avrebbero finanziato i paracos in operazioni finalizzate alla “protezione” dell’impresa bananiera, all’occupazione di terre mediante lo sfollamento forzato e all’eliminazione dei sindacalisti.

Sono già 127 le famiglie colombiane che si sono dichiarate parte civile, facendo appunto di questo processo il più grande caso di terrorismo della storia recente. E sulla delicata questione dell’estradizione si è già pronunciata anche la relatrice generale delle Nazioni Unite sull’indipendenza giudiziaria, Gabriela de Alburquerque, in visita in Colombia propri in questi giorni, definendola “imprenscindibile”. Se per gli Usa, dunque, questo è un caso chiuso, in Colombia è tutto ancora da snocciolare.

Per decenni, “repubblica delle banane” sono stati chiamati tutti quei paesi, Honduras in testa, i cui governi non erano che prestanome delle grandi compagnie della frutta Usa, le quali facevano il bello e cattivo tempo a colpi di corruzione e arbitrarietà. E anche nella complessa Colombia, le multinazionali hanno e giocato e lo giocano tutt’ora, un ruolo chiave nei rapporti di forza. Proprio in questi giorni, ricorre l’81esimo anniversario della “mattanza delle bananiere” compiuta dall’esercito nella stazione centrale di Ciénaga, su richiesta della United Fruit Company, e così ben descritta in Cento anni di solitudine da Gabriel García Márquez.

A inchiodare alla sbarra del tribunale colombiano Chiquita, sono le dichiarazioni di alcuni dei più spietati capi paramilitari, come Salvatore Mancuso, Raúl Emilio Hasbún, Ever Veloza e Fredy Rendón, i quali, avvalendosi della legge uribista Giustizia e Pace che garantisce loro impunità in cambio di un improbabile addio ad armi e malaffare e di una altrettanto improbabile riparazione alle vittime, hanno parlato dettagliatamente di pagamenti milionari alle Autodifese unite colombiane (le Auc, il maggior gruppo paramilitare, ormai sciolto) da parte della multinazionale Usa. Loro compito, sfollare a sangue e fuoco i contadini dalle loro terre, avvalendosi della complicità del governo. Una pratica messa in atto in tutto il paese da gruppi militari al soldo di molti altri gruppi economici legati al malaffare, e che perdura tutt’ora nonostante la scomparsa della sigla Auc. Non è bastato cancellare la sigla per voltare una delle pagine più violenti della storia colombiana: i paracos sono tutt’oggi vivi e vegeti e in azione sotto altra bandiera, quella delle Aquile nere, e non solo.

Nonostante le smentite di Chiquita, le confessioni degli storici leader del paramilitarismo colombiano mettono a nudo una prassi che andava ben al di là della consegna di soldi. Raúl Emilio Hasbún, per esempio, parla di 4200 fucili AK-47 e di 5 milioni di proiettili provenienti dalla Bulgaria ricevuti in una imbarcazione della United Fruit Company. Non solo: corrompendo le autorità doganali, la multinazionale avrebbe creato un porto privato a Turbo (in Antioquia, culla di violente stragi paramilitari) che sarebbe servito anche per attività legate al narcotraffico. In particolare, nel 2001, le navi Chiquita Bremen e Chiquita Belgie avrebbero imbarcato in questo porto una tonnellata e mezzo di cocaina nascondendola tra la frutta. Ma la multinazionale non ci sta e a tambur battente ha più volte ribadito che tutto questo è una montatura.

E mentre la ricostruzione dei fatti sarà attività primaria dei giudici nel processo, molte cose sono cambiate nella filosofia e nel modus operandi della banana dieci e lode. Dopo aver pubblicamente recitato un mea culpa, ha venduto capre e cavoli in Colombia e ha cercato di voltar pagina puntando a un codice etico e all’ecosostenibilità. Ma qualcuno insinua grossi dubbi. Il procuratore speciale del caso United Fruit Company, Alicia Domínguez, è convinta che Chiquita non abbia mai lasciato le coltivazioni colombiane. Anzi, con maestria finanziaria, avrebbe creato imprese dai nomi nuovi quali Olinsa, Invesmar e Banacol S.A.,e continuato a finanziare i paramilitari per proteggerle. E dato che Olinsa sembra avere un contratto con Chiquita Brands fino al 2012 e che è, secondo il procuratore, un prestanome di Chiquita, la multinazionale delle banane, sempre secondo l’accusa, non avrebbe mai lasciato il paese dall’eccidio del 1928.

http://it.peacereporter.net/articolo/19456/Chiquita+Connection

Fotovoltaico: nasce in Italia la “trasformazione” degli elementi troppo costosi

La sofisticata e rivoluzionaria tecnologia è stata messa a punto dai ricercatori della Dichroic Cell in collaborazione con l’Università degli Studi di Ferrara e CNR–INFM

‘Trasformare’ un elemento fotovoltaico in un altro, per ottimizzare le sempre più rare e preziose materie prime disponibili, ma anche per snellire tempi e costi di produzione. Quello che fino a ieri era un ambizioso progetto scientifico, oggi è una realtà grazie alla rivoluzionaria tecnica messa a punto dalla Dichroic Cell in collaborazione con l’Università degli Studi di Ferrara e CNR-INFM (Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto Nazionale per la Fisica della Materia).

Gli elementi alla base delle celle fotovoltaiche sono Silicio, Arseniuro di Gallio (GaAs), Fosfuro di Indio e Gallio (InGaP), ma soprattutto Germanio (Ge). Tutti rari e costosi, soprattutto il Germanio.

Per aggirare questo ostacolo, la Dichroic Cell ha iniziato a sviluppare una metodologia del tutto innovativa, che mira a convertire un elemento costoso e raro come il Germanio in un altro elemento, il Silicio, più reperibile e meno dispendioso. Il procedimento si basa sull’utilizzo di un macchinario ultratecnologico, il reattore L.E.P.E.C.V.D. (Low Energy Plasma Enhanced Chemical Vapor Deposition), che lavora come una sorta di forno in grado di depositare il Germanio sul Silicio e di consentire appunto la ‘trasformazione’ di un elemento nell’altro.

In base alle previsioni formulate, attraverso questa sofisticatissima tecnologia è possibile abbattere il costo del substrato delle celle fotovoltaiche di oltre il 60%. Una riduzione dei costi che diventa del 30% quando si prendono in esame le celle fotovoltaiche più costose, con substrato in puro Germanio.

Quella impiegata dal gruppo di ricercatori è una tecnologia davvero sofisticata, il cui sfruttamento commerciale ha preso avvio in ambito aerospaziale negli anni ’90 per applicazioni esclusivamente orientate a tale settore.

La grande intuizione della Dichroic Cell e del gruppo di ricerca pubblico-privato è stata quella di trasferire dall’ambito aerospaziale a quello terrestre una metodologia altamente sofisticata e dai costi proibitivi, riuscendo a renderla applicabile ad un’economia per uso terrestre su scala industriale. Gli straordinari risultati di questa ricerca sono stati tenuti secretati fino ad oggi, e finalmente dallo scorso settembre Dichroic Cell ha iniziato a produrre e a vendere i primi Substrati Virtuali, risultato di una tecnologia che ha quindi disponibilità di materiali, costi ed efficienze per soddisfare sino al 10% del fabbisogno energetico nazionale.

“Coraggiosi imprenditori, soprattutto veneti, hanno investito negli studi e nella ricerca applicata dell’Università di Ferrara – spiega Federico Allamprese Manes Rossi, Amministratore Unico della Dichroic Cell S.r.l. – I laboratori messi a disposizione da CNR-INFM hanno portato alla realizzazione di una tecnologia strategica e all’avanguardia, valida non solo per il settore fotovoltaico, ma anche per quello aerospaziale e dell’automotive. La lungimiranza dello scorso e dell’attuale governo sta consentendo di portare all’industrializzazione questa iniziativa, patrimonio esclusivo della nostra nazione”.

La tecnica, del tutto rivoluzionaria e messa a punto per la prima volta in Italia, consente realmente al team di scienziati di guidare l’innovazione tecnologica del fotovoltaico nel nostro Paese e nel Mondo.

Come afferma Patrizio Bianchi, economista industriale e Rettore dell’Università di Ferrara, “questa rivoluzionaria scoperta, messa a punto con la collaborazione del nostro Dipartimento di Fisica, conferma come la nostra sia davvero un’Università di ricerca e come, in questo ambito, svolgiamo una funzione di sperimentazione e traino dell’intero sistema nazionale. Abbiamo lavorato intensamente sulla ricaduta industriale della nostra ricerca e sulla creazione d’impresa”.

Altra voce autorevole dell’Università di Ferrara è quella del Prof. Giuliano Martinelli, Direttore del Dipartimento di Fisica e coordinatore scientifico del gruppo di ricercatori. “Ritengo – osserva il Prof. Martinelli – che l’investimento fatto da Dichroic Cell in questa innovativa ricerca sia stato davvero lungimirante. Ora mi auguro che gli Enti di riferimento mostrino, non solo nelle proclamate intenzioni, ma anche nei fatti, la stessa lungimiranza. In primis, promuovendo l’accesso al ‘Conto energia’ anche per i sistemi a concentrazione, ritenuti particolarmente idonei per la produzione di energia su larga scala. Questo potrebbe cancellare o limitare le perplessità di istituti finanziari e altri potenziali investitori, per ora restii a riversare le proprie risorse in una tecnologia che, non avendo accesso all’incentivo, di fatto soffre di carenza di mercato. Solo così i risultati della ricerca potranno rapidamente trasferirsi in una realtà industriale in grado di apportare un importante contributo al nostro fabbisogno energetico, fornendo un prodotto di alto valore commerciale per la nostra esportazione, in particolare nel bacino del mediterraneo”.

Attualmente, tra tutti i dispositivi fotovoltaici presenti sul mercato, le celle solari basate su composti con substrato in Germanio hanno mostrato la più alta efficienza di conversione. Celle solari multigiunzione basate su questi materiali hanno ormai raggiunto efficienze record di conversione di oltre il 39% , mentre nell’immediato futuro è prevedibile che vengano raggiunte efficienze superiori al 40%.

“Energie rinnovabili ed efficienti, oltre che alla portata di tutti: con questo obiettivo il Consiglio Nazionale delle Ricerche si cimenta da anni” – tiene a sottolineare il Presidente del CNR, Prof. Luciano Maiani – “Ogni progresso in tal senso costituisce dunque un passo in avanti verso un traguardo tanto ambizioso quanto strategico per il Paese. La scoperta di una tecnica in grado di ottenere una maggiore efficienza delle celle fotovoltaiche, risparmiando sui materiali, rappresenta in tal senso un successo di cui i ricercatori del CNR-INFM, in collaborazione con quelli dell’Università degli Studi di Ferrara e della Dichroic Cell, possono andare orgogliosi. In più, la sinergia tra impresa, Università ed Ente pubblico rimarca ancora una volta l’importanza strategica del dialogo tra pubblico e privato, per il benessere e la ricchezza dell’Italia. Oltre che per il progresso e il futuro della ricerca”.

Roma, 15 dicembre 2009

La scheda:

Chi: Dichroic Cell, Università degli Studi di Ferrara e Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto Nazionale per la Fisica della Materia  – CNR-INFM

Che cosa: messa a punto una nuova tecnica per ‘trasformare’ un elemento fotovoltaico in un altro

Per informazioni:

Dott.ssa Damiana Schirru,  Ufficio Stampa Dichroic cell S.r.l.; e-mail: damiana.schirru@libero.it;

Dott. Andrea Maggi, Resp. Com. Università di Ferrara, e-mail: andrea.maggi@unife.it

Dr. Guido Schwarz, Portavoce del Presidente del CNR, e-mail guido.schwarz@cnr.it

http://www.stampa.cnr.it/DocUfficioStampa/comunicati/italiano/2009/Dicembre/106_DIC_2009.HTM

23/12/2009 – SCOPERTA DEL CONSORZIO CON BASE A PADOVA: «STIAMO IMPARANDO PIU’ EFFICIENTE IL PLASMA PER I FUTURI REATTORI»

Energia pulita e illimitata: l’Italia è tra i leader della fusione nucleare

BARBARA GALLAVOTTI

Nelle favole le principesse sfoggiano un manto di stelle. E in effetti che cosa può esserci di più esclusivo del possedere una stella tutta nostra? Ora il sogno dei affabulatori viene rivisitato dagli scienziati, che vogliono costruire sulla Terra stelle artificiali: «oggetti» in grado di fornire energia pulita, inesauribile e disponibile per tutti, cancellando buona parte dei conflitti mondiali.

Come accade nei casi più fortunati, i sogni si sono trasformati in finanziamenti, dando il via alla sfida di realizzare reattori per la fusione nucleare. L’impresa è segnata da balzi in avanti, come la collaborazione internazionale che sta realizzando l’impianto sperimentale Iter, e da molti successi tecnici. Tra questi, c’è una scoperta italiana che ha guadagnato la copertina della rivista «Nature Physics» e che riguarda il comportamento del plasma, il «carburante» della fusione. Lo studio si deve al consorzio «RFX», che ha il suo centro a Padova.

Sappiamo che a far brillare il Sole e le stelle sono reazioni di fusione di nuclei di idrogeno, che portano alla produzione di nuclei di elio, liberando energia. La formula della reazione è di una semplicità disarmante, ma, se vogliamo seguirne lo schema per produrre energia sulla Terra, ci sono molte difficoltà. In primo luogo l’efficienza: un metro cubo di materia solare produce solo l’energia necessaria per accendere una lampadina e quindi una centrale in grado di soddisfare i bisogni energetici di grandi città dovrebbe sfruttare una reazione dalla resa migliore. La cosa, fortunatamente, non è difficile. Basta far reagire al posto del più comune idrogeno due varianti: il deuterio, presente in buona quantità anche nell’acqua, e il trizio, ricavabile dal litio, pure abbondante. Insomma, le nazioni non dovranno mai contendersi i materiali per la fusione.

La reazione, poi, è pulita, perché non genera scorie radioattive, se non qualche residuo in piccola quantità e di tipo tale da dover essere custodito per poche decine di anni. Inoltre non c’è il rischio di incidenti catastrofici, perché un reattore a fusione è come un accendino: brucia solo fino a che lo si tiene acceso e ogni malfunzionamento ne causa lo spegnimento. Proprio qui però si annida il problema più grave: ottimizzare il rapporto fra energia impiegata per sostenere la reazione ed energia ottenuta.

«L’energia necessaria per far funzionare una fusione nucleare è spesa principalmente per ottenere e controllare uno stato della materia composto da nuclei atomici ed elettroni che si chiama plasma: è l’ingrediente base delle reazioni di fusione e deve raggiungere temperature altissime», spiega Piero Martin, responsabile scientifico di «RFX». Plasmi si producono naturalmente nell’atmosfera come conseguenza dei lampi e si trovano anche nelle comuni lampade al neon. Il plasma per la fusione, però, dev’essere portato a decine di milioni di gradi. Ovviamente non c’è nessun contenitore in grado di resistere e quindi nei test le particelle cariche del plasma vengono tenute «in posizione» da campi magnetici con forme diverse. Ne sono stati sperimentati tre tipi: il tokamak, lo stellarator e «RFP».

Il primo è quello su cui gli scienziati puntano di più e proprio un tokamak costituirà il cuore del maggiore esperimento mai concepito: il reattore «Iter», frutto di una collaborazione internazionale e in costruzione in Francia. Tuttavia anche gli altri due modelli di campi magnetici vengono studiati. «Sono come diversi punti di vista con cui guardare lo stesso problema e forniscono indizi importanti», continua Martin. In particolare, il consorzio «RFX» studia la configurazione magnetica «RFP» (Reversed Field Pinch, cioè strizione a campo magnetico rovesciato). Il nome deriva dalla geometria delle linee di campo magnetico che si dispongono secondo un’elica, con spire più strette man mano che ci si allontana dal centro del plasma.

Nella configurazione «RFP» il plasma viene attraversato da una corrente crescente, che serve per riscaldarlo e per produrre il campo magnetico che lo terrà in posizione. In queste condizioni però si comporta un po’ come un elastico torto un numero eccessivo di volte: forma avvolgimenti irregolari e «si ingroppa». Dal punto di vista della fusione le irregolarità nell’avvolgimento del plasma sono molto negative, perché rendono la reazione meno efficiente e dunque peggiorano il rapporto tra energia spesa ed energia ottenuta.

«Ciò che abbiamo scoperto è che, aumentando la corrente elettrica che attraversa il plasma fino a superare il milione e mezzo di Ampere, l’aggrovigliamento si perde e il plasma assume una conformazione molto regolare, offrendo prestazioni migliori – spiega Martin -. Un altro esperimento, sempre condotto da “RFX” mira invece a sviluppare sistemi di controllo sulla stabilità del plasma. In questo settore siamo i primi al mondo: abbiamo ottenuto un sistema di sensori che registra immediatamente le minime deformazioni del plasma e corregge il campo magnetico, riportandolo in una frazione di secondo nella forma ottimale».

Come tutte le migliori, anche quella condotta nell’ambito di «RFX» si nutre dell’apporto di giovani ricercatori: in 10 anni 200 studenti hanno fatto la tesi nei laboratori padovani e da tre anni è stato istituito un dottorato europeo che vede gli studenti impegnati a Padova, Monaco e Lisbona: caratteristiche che rendono «RFX» uno dei centri di eccellenza per lo studio della fusione.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/scienza/grubrica.asp?ID_blog=38&ID_articolo=1566&ID_sezione=243&sezione=

Dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 29.12.2009

Lo scrittore pakistano Mohsin Hamid, autore del “Fondamentalista riluttante”, intervistato da La Repubblica commenta la vicenda del giovane nigeriano che ha tentato di farsi esplodere sul volo Amsterdam Detroit, e ammonisce: “Attenti al razzismo anti-islamico, è così che si alimenta il radicalismo”. “Quando un musulmano va in occidente, e in particolare in Europa, gli viene detto che è musulmano, non europeo. E questo rinforza la sua idea di identità musulmana”. Si viene etichettati, perché l’Europa sta cercando di darsi una identità. Ma al mondo ci sono miliardi di musulmani e uno su un milione sarà forse un terrorista. La migliore difesa contro il terrorismo sono i musulmani stessi, come il padre di questo ragazzo che per primo ha messo in guardia sul figlio. E’ lo stesso quotidiano ad occuparsi del padre dell’arrestato, considerato uno degli uomini più potenti d’Africa. La famiglia è sotto choc, e ricorda che aveva chiesto aiuto per farlo tornare a casa, ma nessuno ha risposto. Ci si occupa poi, con un reportage, della moschea di Londra, da lui frequentata.

E ancora, con copyright New York Times, viene spiegata l’offensiva Usa nello Yemen, terzo fronte contro Bin Laden. Il sud della penisola arabica è diventato un santuario di jihadisti.

Anche su Il Sole 24 Ore, una analisi di Alberto Negri racconta “il terzo fronte dell’America”.

Sul Corriere della Sera Paolo Mieli analizza ampiamente “l’islam tollerante che liberò gli ebrei”, ovvero l’epoca d’oro in cui i musulmani erano meno duri dei cristiani. Vi fu un’epoca che durò alcuni secoli, quelli precedenti e quelli immediatamente successivi all’anno Mille, in cui i rapporti tra ebrei e musulmani furono assai diversi, e migliori, degli attuali. Punti di riferimento sono la “Breve storia degli ebrei” dello storico tedesco Michael Brenner, “Gli ebrei nel mondo islamico” di Bernard Lewis, e “Che cosa ha colto Maometto dall’ebraismo”, di Abraham Geiger, tra gli altri.

Il Corriere della Sera intervista Antonio Maccanico che parla di riforme. Torna il suo lodo che servirà ad evitare gli eccessi. Maccanico dice: “Avremmo dovuto approvarlo nel 1993, perché così non si sarebbe alterato il rapporto tra giustizia e politica. Lo scudo per tutti i parlamentari valido per l’intera durata del mandato, immaginata nel 1993 e nota come Lodo Maccanico, fu approvata dall’Assemblea di Palazzo Madama, ma venne bocciata da Montecitorio perché giunse in contemporanea con la discussione dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi.

Marcello Pera ieri scriveva sul Corriere della Sera segnalando la mancata “rivoluzione liberale” del centrodestra. Questa mattina gli risponde Piero Ostellino sulla prima pagina del Corriere della Sera, puntando l’attenzione sulle possibili riforme condivisibili con il centrosinistra. Il problema per Ostellino non è chiedersi se la sinistra di Bersani sia ancora comunista, ma se sia pronta a fare riforme condivisibili sul terreno già percorso dalle socialdemocrazie europee (ripudio della subordinazione dell’individuo alla collettività, accettazione di una cultura liberale). Ma, “dopo quindici anni che ne parla, è certo che il centrodestra voglia fare una rivoluzione che accresca davvero la libertà degli italiani? Non rafforzerà solo i poteri di decisione del governo, col rischio che, poi, un esecutivo più forte, quale che ne sia il colore, faccia per le libertà ciò che hanno fatto tutti gli ultimi, deboli, governi, cioè poco o niente?”.

Il futuro frugale che ci aspetta 29.12.2009

MARIO DEAGLIO

I sistemi economici non muoiono per malattie economiche, le Borse non possono continuare a cadere per sempre: dopo un certo periodo, la caduta produttiva si arresta e qualche forma di crescita riprende a seguito della pressione delle esigenze vitali della popolazione. Dopo le guerre e le più dure crisi finanziarie, i peggiori crolli di produzione e Borse sono stati nell’ordine del 40-50 per cento. Nella crisi attuale le autorità monetarie e di governo hanno fatto tesoro delle esperienze degli Anni Trenta e sono riuscite, «pompando» immani risorse nel sistema finanziario, ad arrestare, nella maggior parte dei Paesi avanzati, la contrazione del prodotto interno al 5-6 per cento e quella della produzione industriale al 15-25 per cento. Gli indici di Borsa, precipitati per un brevissimo periodo circa un anno fa, sono oggi di circa il 20-25 per cento sotto i massimi storici e continuano timidamente a risalire.

Tutto ciò può sembrare un discorso consolatorio di fine anno sulla bravura di chi governa le principali economie mondiali, e invece proprio non lo è. Non c’è, infatti, molta relazione tra la bravura necessaria per tenere in vita il malato e quella per farlo guarire. Un medico bravo nel primo caso non è necessariamente bravo nel secondo e qualche segno di scarsa abilità nel gestire un rilancio credibile a livello mondiale sta cominciando ad affiorare.

I più importanti di questi segni sono la scarsa attenzione, anche politica, al peso che potrà avere la disoccupazione e, per contro, l’eccessiva attenzione statistica al momento in cui la ripresa comincia a manifestarsi e la trascuratezza per le garanzie effettive che uno-due trimestri di ripresa molto pallida possano consolidarsi. Si è largamente sperato che, come altre volte in passato, una volta ripartita, la produzione rimbalzasse rapidamente all’insù come un elastico, secondo l’immagine usata da Friedman. Queste speranze per ora sono andate deluse.

Almeno tre alternative oggi trascurate (apparentemente pessimistiche ma purtroppo realistiche) per l’evoluzione del prossimo anno vanno esaminate con serietà: la prima è che l’economia globale possa continuare a vegetare invece di tornare a crescere, portandosi dietro un numero crescente di affamati, oggi già più di un miliardo; la seconda è che le sue prospettive di crescita possano risultare stabilmente modificate in peggio dopo un ingannevole guizzo di ripresa; la terza è che la massa di risorse finanziarie messe in circolazione possa trasformarsi in altrettanto «veleno» e stimolare una grave inflazione planetaria. E ce n’è abbastanza per essere molto cauti. Per questo, in un finale d’anno ancora segnato dall’incertezza nonostante i progressi compiuti, oltre alla cautela è necessario un allargamento della visuale rappresentata dagli indici di Borsa di breve periodo. L’economista oggi non può chiudersi nel suo ufficio a macinare su un computer numeri – spesso di dubbia validità – né tanto meno lo può fare l’analista finanziario. Occorre invece ampliare il campo di osservazione estendendolo ai segnali extra-economici che possono interferire con l’economia.

Nel cercare di fare previsioni, non possiamo chiudere gli occhi di fronte allo spettacolo di un’amplissima area, che va dall’Afghanistan e dal Pakistan fino alla Somalia, dove la globalizzazione è sulla difensiva e non sta certo accumulando vittorie né economiche né militari; il che proietta un’ombra sulla stabilità dei vitali rifornimenti di petrolio provenienti da quell’area e sul prezzo delle altre materie prime. E nascondiamo la testa nella sabbia se dimentichiamo che, in questo inverno duro e anomalo, i prezzi di molte materie prime agricole hanno già ripreso a salire fortemente: tè, cacao e zucchero fanno registrare record storici e tale tendenza potrebbe diventare generale sotto la spinta della crescente domanda dei Paesi emergenti e delle difficoltà, legate anche all’instabilità climatica, di espandere in maniera sensibile l’offerta.

Un altro potente segnale di instabilità deriva dall’attentato a un aereo americano nel giorno di Natale. Per quanto fisicamente fallito, ha raggiunto l’obiettivo di far dirottare immediatamente ulteriori risorse dalla produzione alla sicurezza. Rispetto a una settimana fa, oggi viaggiare in aereo costa di più in termini di tempo (in America per ottemperare alle nuove misure l’aspirante passeggero deve arrivare all’aeroporto quattro ore prima della partenza) e sicuramente tra poche settimane l’aumento nei costi di prevenzione degli attentati si ripercuoterà sul prezzo dei biglietti. Si noti bene che accettiamo non solo di pagare di più ma anche di essere meno liberi: chi vuol volare in America deve acconsentire a farsi fiutare dai cani, essere disposto a togliersi le scarpe e quant’altro e i cittadini americani hanno già accettato che la loro corrispondenza elettronica possa essere legalmente letta dai servizi di sicurezza.

Tutto ciò deve indurre a un atteggiamento più sobrio e più responsabile al posto di una fiducia quasi caricaturale in una ripresa indolore e con pochi problemi che ci riporti al precedente Regno di Bengodi. E’ degno di nota che alcuni operatori finanziari hanno prefigurato un «futuro frugale» (Merrill Lynch) e una «nuova normalità» (la Pimco, società di gestione di fondi), ossia un assetto sociale che sostanzialmente non può più permettersi le sicurezze e le opulenze di qualche anno fa. The Economist e altri periodici di grande influenza discutono in termini non certo trionfalistici su ciò che può avvenire dopo la tempesta. Tutto ciò trova un contrappunto in numerose, autorevoli voci non economiche che parlano di «sobrietà» necessaria nei Paesi ricchi e non solo in campo economico; in questo contesto occorre segnalare, tra le altre, le parole del Presidente della Repubblica e quelle del Pontefice. Insomma, non se ne può proprio più dell’attenzione spasmodica a listini azionari che rappresentano sempre meno la realtà dell’economia e a dati statistici destinati a essere corretti, in genere in peggio, nel giro di poche settimane. Si può però ragionevolmente sperare che il Nuovo Anno porti a nuove cautele e più ampi orizzonti, a nuovi progetti di crescita mondiale da attuarsi in tempi medio-lunghi, meno squilibrati di quelli di un passato recente.

mario.deaglio@unito.it

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6793&ID_sezione=&sezione=

Tra pochi giorni si celebra il decennale della scomparsa dell’ex leader Psi

La scelta della Moratti : «Una via o un parco intitolati a Bettino Craxi» 29.12.2009

Il sindaco ne ha già parlato con i figli Bobo e Stefania: «Diede una svolta al nostro Paese». Ed è polemica

MILANO — Nomi barrati. Sotto tiro. Nomi a cui si aggiungono sempre se e sempre ma. Combattuti da una parte politica e dall’altra. Ma questa volta Milano vuole giocare la partita fino in fondo. A dieci anni dalla morte, il sindaco Letizia Moratti ha deciso di intitolare una via o un giardino a Bettino Craxi. Lo farà subito prima o subito dopo il 19 gennaio, quando lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ricorderà il leader socialista con una cerimonia al Senato. L’iniziativa milanese è destinata a creare nuove feroci polemiche, ma questa volta si inserisce in un contesto storico diverso che vede la progressiva rivalutazione della figura di Craxi statista. A partire dalle iniziative del Capo dello Stato. I tecnici comunali milanesi della Toponomastica sono già al lavoro: hanno individuato quattro o cinque aree, le più vicine possibili al centro. Una via, o molto più probabilmente un parco come è stato fatto per Don Giussani a cui è stato dedicato parco Solari.

Il sindaco ne ha già parlato con la famiglia, con Stefania, con Bobo. È fermamente convinta che sia il giusto riconoscimento «per un uomo che ha dato una svolta al Paese». Quasi una promessa mantenuta. «Sono sicura che la Moratti renderà giustizia a Craxi» aveva detto la figlia Stefania un anno fa. Adesso il ricordo di Craxi diventerà tangibile a Milano. La cronaca, però, consiglia prudenza. La storia dell’intitolazione di una targa o di una via a Craxi nella «sua» Milano arriva da lontano. Costellata da polemiche durissime. Di passi in avanti e di marce indietro. Tante le lettere che la figlia Stefania ha scritto all’ex sindaco, Gabriele Albertini chiedendo che la città ricordasse suo padre. La prima nel 2002. L’ultimo intervento nel 2008 quando si rivolse direttamente alla Moratti con la richiesta di «una grande via o in alternativa di un parco dove giocano i bimbi».

In mezzo, contestazioni durissime. Come quando si arrivò a un soffio dall’apporre una targa sul portone dell’ufficio di Craxi in piazza Duomo 19. Dopo il via libera della giunta di centrodestra arrivò la sonora bocciatura del Consiglio comunale. Non se ne fece niente. Conseguenza anche delle parole scolpite nel marmo dall’ex pool di Mani Pulite: «Va bene una targa a Craxi — aveva detto Antonio Di Pietro— Basta che si aggiungano le cariche che aveva quando era in vita: politico e latitante». «Non mi meraviglio più di niente — era stato il commento di Gerardo D’Ambrosio — È perfettamente coerente con la politica del centrodestra delegittimare Mani Pulite. E guarda caso: la targa a Craxi non si mette in un posto qualunque, ma sotto l’ufficio dove venivano ricevute le tangenti».

Senza contare che anche la Lega si mise di traverso: «Ero rimasto che le targhe si mettevano per gli eroi, per chi dava qualcosa al Paese non per chi prendeva qualcosa» era stato il commento di Matteo Salvini. Ci ha provato anche Vittorio Sgarbi nel suo mandato di assessore alla Cultura. Mise il nome di Craxi in un pacchetto di nuove vie milanesi. Altra bufera. Con la Moratti a fare da pompiere. «I nomi devono essere condivisi. Penso anche che per le personalità politiche l’attesa di dieci anni dalla morte sia corretta». Il 19 gennaio 2010 sono dieci anni esatti dalla morte di Craxi.

Maurizio Giannattasio e Andrea Senesi

http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/09_dicembre_29/craxi-via-parco-intitolato-moratti-1602219290191.shtml

Ritrovata la «Piccola chitarra» di Ricasso che l’artista realizzò per la figlia Palma 29.12.2009

Denunciato commerciante di Pomezia: l’aveva sottratta con l’inganno e nascosta in una scatola da scarpe

ROMA – Pablo Picasso la donò all’amico artista Giuseppe Vittorio Parisi e non avrebbe mai pensato che un prezioso «giocattolo» costruito per la figlia Paloma potesse finire nelle mani di un commerciante privo di scrupoli e per di più dentro una scatola di scarpe. Sono stati i Carabinieri della Stazione Roma Porta Cavalleggeri a ritrovare la «Pequena Guitarra para Paloma» a casa di un noto commerciante, cinquantenne di Pomezia che due anni fa ebbe gioco facile nel raggirare l’allora novantaduenne Parisi, facendosi consegnare l’opera con la scusa di costruire una degna bacheca dove custodirla. Parisi, morto a gennaio di quest’anno, accettò, senza sapere che non avrebbe mai più rivisto la «Pequena Guitarra» già destinata al Museo Civico d’arte contemporanea di Maccagno sul lago Maggiore, a lui intitolato.

SCATOLA DI SCARPE – I militari, dopo mesi di indagine partite dalla denuncia della moglie del defunto Parisi, hanno ricostruito senza non poche difficoltà l’intera vicenda fino ad arrivare al tassello finale, quella scatola di scarpe malmessa nascosta in una ricca abitazione, nell’anonimato della provincia laziale. L’opera d’arte, ora custodita dai Carabinieri, verrà restituita al Museo Civico sul lago Maggiore. Così avrebbe voluto il grande artista.

http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/09_dicembre_29/picasso-recuperata-piccola-chitarra-1602218878959.shtml

di Immanuel Wallerstein
Obama, l’handicap del presidente nero 27.12.2009
Il Black Caucus del Congresso (associazione che riunisce i membri del Congresso afroamericani, ndt) è sempre più insofferente nei confronti del presidente Obama, e questa tensione politica sta ormai filtrando sulla stampa. I membri del Caucus ritengono che Obama non abbia dedicato sufficiente attenzione al fatto che le attuali difficoltà economiche hanno avuto un impatto maggiore sugli afroamericani e sulle altre minoranze che sul resto della popolazione, e che quindi per loro si renda necessario un intervento extra.
«Obama ha tentato disperatamente di stare lontano dalla razza – ha detto il deputato Emanuel Cleaver secondo quanto riferito dai media – e tutti noi comprendiamo quello che sta facendo. Ma, con un numero così spropositato di afroamericani disoccupati, sarebbe irresponsabile non destinare attenzione e risorse alle persone che stanno soffrendo maggiormente».
Il ruolo di Barack Obama in quanto nero è una questione importante, della quale si è molto discusso sin da quando Obama annunciò la propria candidatura per la presidenza nel 2007. All’inizio Obama non aveva ricevuto un sostegno entusiastico dai politici neri americani. Molti di loro avevano appoggiato pubblicamente Hillary Clinton. Nei media afroamericani ci si chiedeva se Obama fosse «abbastanza nero».
Questa esitazione cambiò radicalmente dopo i caucus dell’Iowa nel gennaio 2008, che Obama vinse cogliendo quasi tutti di sorpresa. L’Iowa è uno stato quasi completamente bianco. Il fatto che fosse riuscito a conseguire un sostegno significativo era il messaggio per i politici afroamericani che poteva essere eletto. L’idea che un nero potesse infine diventare presidente degli Stati Uniti si dimostrò essere la principale preoccupazione per gli afroamericani – non soltanto per i politici, ma anche per la popolazione afroamericana nel suo insieme.
Quando è stato eletto, Obama aveva conquistato l’appoggio entusiastico virtualmente di tutti i neri degli Stati Uniti – ricchi e poveri, giovani e vecchi. Le lacrime di gioia erano genuine, e per i bambini afroamericani quella elezione stava a dimostrare che anche loro potevano aspirare a raggiungere qualunque obiettivo. La domanda è: come ha fatto Obama ad ottenere i voti necessari per la vittoria? Non avrebbe potuto vincere con i soli voti degli afroamericani, neanche se ciascun avente diritto al voto avesse votato per lui. Oltre al nucleo degli elettori democratici affidabili, Obama ha ottenuto l’appoggio di tre gruppi, i cui voti erano precedentemente incerti. Il primo gruppo era costituito da coloro che normalmente non votavano affatto: molti afroamericani (soprattutto quelli meno istruiti e più poveri) e molti elettori giovani (sia neri che bianchi). Il secondo gruppo era costituito da elettori di centro: spesso residenti in comunità suburbane, e in gran parte bianchi. Il terzo gruppo era costituito da lavoratori qualificati bianchi che negli ultimi decenni avevano abbandonato il Partito democratico per le loro opinioni sulle questioni sociali (e che spesso avevano espresso sentimenti apertamente razzisti). Se Obama ha ottenuto i voti degli ultimi due gruppi (gli elettori suburbani di centro e i lavoratori qualificati bianchi riconquistati dal partito repubblicano), è stato proprio perché li ha persuasi di non essere un «nero arrabbiato». Si è presentato, cosa che effettivamente è, come un politico di centro, pragmatico, bene istruito, con un portamento molto «cool». Egli ha conservato questa immagine non solo durante la campagna elettorale, ma anche dopo essere stato eletto.
Ora i politici afroamericani capiscono di aver fatto un patto col diavolo. Hanno raggiunto un obiettivo dal valore simbolico, infrangere la barriera della razza per la carica elettiva più alta degli Stati Uniti sostenendo un candidato nero che «ha cercato disperatamente di stare lontano dalla razza». Obama lo ha fatto per due ragioni. In parte perché quello è veramente il suo profilo e il suo impegno di una vita, ma lo ha conservato anche perché, come politico, lo considera essenziale per la sua rielezione nel 2012 e per l’elezione di un numero di parlamentari democratici sufficiente a consentirgli l’attuazione della sua agenda legislativa.
Se riguardasse solo Obama e il suo rapporto con gli afroamericani, questa questione potrebbe essere considerata di importanza marginale in un lungo processo storico, ma in effetti è soltanto un aspetto di una questione politica più generale in tutto il mondo.
Le conquiste simboliche sono un elemento centrale della politica mondiale. L’elezione di una persona proveniente da un gruppo cui in precedenza non era consentito aspirare a tale carica è molto importante in qualunque paese. Si pensi solo alla gioia e al senso di progresso suscitati dalla elezione di Nelson Mandela a primo presidente africano del Sudafrica, di Evo Morales a primo presidente indigeno della Bolivia, di quelle donne che sono diventate le prime presidenti di paesi musulmani. L’elezione di Barack Obama a primo presidente afroamericano degli Stati Uniti è stata un avvenimento di pari portata. Tutti questi eventi politici sono stati di rilievo, e la loro importanza non deve mai essere sottovalutata.
Tuttavia le vittorie simboliche debbono tradursi in cambiamento reale, o possono lasciare alla fine un sapore amaro. In che misura questo leader possa produrre un cambiamento reale dipende in parte dalle sue priorità, ma anche dai particolari limiti politici del paese in questione.
Nel caso degli Stati Uniti, il margine di manovra di Obama è piuttosto limitato. Le poche volte in cui ha reagito in quanto nero, ha immediatamente perso consenso politico. E’ accaduto durante la campagna elettorale, quando sono venute alla luce alcune dichiarazioni «incendiarie» del suo pastore della Trinity Chuch di Chicago, Jeremiah Wright. La reazione iniziale di Obama fu di tenere un discorso sofisticato sulla razza nella vita americana, in cui disse: «non posso disconoscere (Jeremiah Wright) più di quanto posso disconoscere la mia nonna bianca». Ma subito dopo Obama ha dovuto fare marcia indietro e disconoscere il suo pastore, abbandonando la sua chiesa.
È successo nuovamente subito dopo l’elezione di Obama, quando il prof. Henry Lewis Gates dell’Università di Harvard (un afroamericano) è stato arrestato dopo essere entrato nella propria casa forzando la serratura che si era inceppata. Mentre si trovava in casa propria il professor Gates è stato affrontato da un poliziotto bianco che, dopo un diverbio, l’ha arrestato per «resistenza». In un primo momento Obama ha dichiarato che il poliziotto aveva «agito stupidamente». Poi però c’è stato uno strascico politico, e Obama ha invitato i due uomini alla Casa Bianca per un riappacificamento.
Per Obama la lezione è stata chiara. Sul piano politico non può permettersi in nessuna circostanza di essere visto come un «presidente nero». Questo però significa andare incontro a limitazioni nel fare o dire cose che un presidente bianco con le sue stesse opinioni politiche potrebbe voler fare o dire. Nel contesto americano attuale, essere un presidente afroamericano si rivela un traguardo simbolico ma, allo stesso tempo, un handicap politico. Obama lo capisce, il Black Caucus del Congresso lo riconosce. Il punto è cosa eventualmente Obama o il Caucus hanno intenzione di fare, o possono fare, a questo riguardo.
Copyright Immanuel Wallerstein, distribuito da Agence Global

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20091227/pagina/10/pezzo/267789/

di Joseph Halevi
La deflazione salariale blocca la ripresa 27.12.2009
Fino a tutto il primo trimestre del 2009 regnava la grande paura del meltdown, cioè della liquefazione del sistema finanziario mondiale. Il contesto della grande paura apriva delle fratture assai profonde tra i principali paesi capitalistici e tra questi ed i paesi detti emergenti. Infatti divergenze gravi emersero alla riunione dei ministri delle finanze e dell’economia dei G20 tenutasi a Londra lo scorso aprile. Francia e Germania, appoggiati dall’India, volevano regole dure per i prodotti derivati ed i titoli tossici, per le società di rating e via dicendo, mentre gli Stati uniti favorivano il salvataggio del sistema bancario così com’era compresi i titoli tossici. Malgrado gli scontri, l’incontro si chiuse con l’impegno di promuovere misure di stimolo pari al 4% del Pil e di regolamentare la gestione di fondi di investimento hedge che hanno ricoperto un ruolo centrale nella propagazione dei rischi e dei prodotti derivati ad essi connessi. Alla riunione di capi di governo dei G20 svoltasi a Pittsburgh a fine settembre era già possible verificare che gli impegni concernenti il rilancio economico e quelli riguardanti i fondi speculativi di investimento hedge non erano stati mantenuti.
Nella sostanza dopo il trimestre della paura, il 2009 ha visto affermarsi la linea di Washington, elaborata dal Segretario al Tesoro, fondata appunto sul salvataggio dei titoli tossici. Questo tipo di politica destina i soldi pubblici prevalentemente al sistema finanziario senza un significativo impatto positivo reale ma con un effetto esplosivo sul debito pubblico. Le banche hanno ottenuto denari pressochè gratuitamente e – come ammesso da Bernanke in un’intervista – addirittura in maniera automatica, che poi hanno ricollocato in altrettante attività puramente finanziarie e di rendita. Inizialmente, per via della precarietà degli altri titoli, i fondi forniti dallo Stato sono stati depositati in conti presso le stesse banche centrali. Poi, dati i bassissimi tassi di interesse e la manifesta determinazione delle autorità di condonare ogni recidività – chiamata dagli economisti ‘rischio morale’ – il continuo afflusso di denaro pubblico è stato ridiretto verso collocamenti vieppiù speculativi ma anche vieppiù disgiunti da attività su cui si sostiene l’occupazione ed il reddito delle famiglie. Ne è scaturito un processo pirandelliano in cui il settore finanziario, additato populisticamente come principale se non unica causa della crisi, otteneva quantità crescenti di soldi pubblici senza liberarsi dei titoli tossici, aumentando enormemente il suo peso politico sia nazionalmente che internazionalmente. La vicenda degli hedge fund ne costuisce un ottimo esempio. Durante il trimestre della paura essi sembravano moribondi, ora sono nuovamente sulla cresta dell’onda. La loro specialità e proprio quella di gestire il rischio, ovvero di trovare/creare il rischio e renderlo speculativmente profittevole. Con tutti i soldi erogati dalle banche centrali e con nessuna volontà di regolamentare i fondi di investimento, è naturale aspettarsi che gli hedge funds ritornino alla ribalta.
Nel rilancio dell’economia della speculazione finanziaria gli Usa, proprio sotto la direzione di Barack Obama, hanno giocato il ruolo principale perchè i governi dei paesi maggiormente critici hanno avuto un atteggiamento sia populista che confuso per cui la loro posizione è risultata irrilevante. La Francia di Sarkozy rientra nel primo caso, mentre la Germania appartiene al secondo. Le banche multinazionali francesi partecipano ampiamento al rilancio delle operazioni dei fondi hedge e, conseguentemente, hanno poi apertamene messo un bemolle sulle dicharazioni contro il capitalismo finanziario del presidente. Dal canto suo la cancelliera Angela Merkel aveva elaborato fino all’estate del 2009 una visione assai semplice della posizione tedesca. La Germania, ha sostenuto Merkel in diverse interviste, deve vivere di esportazioni. Non può quindi puntare sulla spesa pubblica per sostenere la domanda interna, nè contribuire al rilancio degli altri paesi europei che potrebbero entrare in concorrenza con la Germania. La riforma della finanza mondiale veniva considerata urgente in quanto non si poteva far dipendere le esportazioni di Berlino da una domanda basata sulla instabilità finanziaria. Lo schema è poi crollato con la caduta delle esportazioni ed a questo punto Berlino ha abbandonato ogni reticenza riguardo la spesa pubblica interna.
Se complessivamente i due maggiori paesi europei si sono in defintiva avvolti in se stessi, nulla di propositivo poteva venire dal Giappone. Il salvataggio delle banche nipponiche negli anni Novanta ha molto in comune con le attuali misure di Geithner solo che venne attuato in maniera ancora più nebulosa ed opaca. Il problema del Giappone è il cronico eccesso di capacità produttiva che dura da un trentennio e pare aggravarsi ogni 10 anni, malgrado la droga di spesa pubblica erogata dal 1992 in poi abbia portato il rapporto del debito sul Pil ai livelli più alti dell’Ocse. La speranza risiede in massicce esportazioni verso la Cina e, ulteriomente, l’India. L’alternativa è la deindustrializzazione a favore della Cina. Pertanto lo spazio internazionale acquisito da Washington per l’attuazione della politica di riabilitazione finanziaria è reale e condiviso anche da componenti del campo dei critici.
La divaricazione in corso tra occupazione, stato di crisi delle imprese da un lato e rivalutazione delle finanza dall’altro deve per forza informare le idee riguardo le prospettive future. Forse bisogna sperare che gli hedge funds ricomincino ad erigere grattacieli per le loro sontuose sedi. Allo stato attuale si nota un generalizzato calo dei salari, mentre quel poco di ripresa che viene propagandata continua a creare disoccupazione. Lo stesso rilancio della crescita cinese si basa sull’ utilizzo senza pietà del meccanismo di marxiano dell’esercito industriale di riserva: dopo aver licenziato in due anni oltre 20 milioni di lavoratori l’economia capitalistica cinese sta riassumendo a salari più bassi. La finanziarizzazione dell’economia mondiale è stata principalmente sostenuta dall’implosione della resistenza salariale e delle condizioni di lavoro. Questo sciagurato fenomeno è destinato a continuare.

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20091227/pagina/07/pezzo/267774/

Montano le tensioni politiche con Stati Uniti, Russia e Cina che competono per il controllo delle riserve mondiali di petrolio e gas

Cina, Russia, USA :::: Fawzia Sheikh :::: 28 dicembre, 2009

Fonte: OilPrice.com – 2009/12/18

Con il completamento, da parte della Cina, dello storico gasdotto per il gas naturale dal Kazakhstan, che aggira la Russia, questa settimana, il colosso asiatico stringe la morsa sulle risorse energetiche necessarie per alimentare un’economia fiorente; un desiderio che l’ha anche costretta a una ricerca di giacimenti di petrolio e gas in altri angoli del globo.
La Cina non è sola in questa lotta per la sicurezza energetica. Affamati di petrolio e gas, le potenze mondiali come Russia e Stati Uniti si basano anch’esse su diverse strategie per appropriarsi dei tesori energetici, ma i loro sforzi sollevano interrogativi su eventuali conflitti, al termine della corsa.
La US Energy Information Administration descrive la Cina come il secondo consumatore di energia dopo gli Stati Uniti. Approfittando della crisi finanziaria mondiale, la potenza asiatica ha sfruttato le riserve di valuta per fare investimenti, sia in Russia che in Asia centrale, contribuendo a costruire centrali elettriche e altre infrastrutture nazionali, in cambio di forniture a lungo termine di petrolio e di gas, ha detto Ben Montalbano, un ricercatore presso la Energy Policy Research Foundation di Washington.
Mancante di riserve energetiche, la Cina sta “lavorando sodo per sbloccare gli investimenti in Africa, Asia centrale e in Venezuela”, ha detto Montalbano a OilPrice.com. Il paese ha, inoltre, cercato gas naturale per soddisfare i consumi crescenti e costruito molti terminali per ricevere gas naturale liquefatto, nel corso dell’ultimo anno, ha aggiunto.
”Se esclusa dalle risorse naturali africane… la crescita della Cina si fermerebbe”, avverte Peter Pham, direttore del Progetto Africa del National Committee on American Foreign Policy di New York, e professore associato presso la James Madison University di Harrisonburg, Virginia.
Questa offerta ad alta intensità di energia, tuttavia, ha causato attriti con la comunità mondiale. Nell’ambito della strategia degli investimenti in Africa, la Cina “conquista facilmente le élite governanti, ma non necessariamente conquista il popolo”, ha rincarato Pham.
Le società di proprietà dello stato cinese tendono a non investire nelle esplorazioni, ma preferiscono offrire “incentivi”, ha detto. L’offerta cinese di crediti, di molti miliardi di dollari, all’Angola, è stata fondamentale per la nazione africana per “sottrarsi” ai negoziati con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale, che chiedevano “una riforma seria e determinate condizioni”, prima che le organizzazioni concedessero tali strutture, ha sostenuto Pham. La Cina, poi, ha acquistato le partecipazioni di parte della società petrolifera statale angolana, ha detto.
La Cina, inoltre, ha aiutato il governo di Khartoum a sottrarsi alle sanzioni delle Nazioni Unite, fornendo assistenza per la costruzione di almeno tre fabbriche di armi in Sudan, ha detto.
Non essendo da meno, la Russia è tornata in Africa, e con “forza considerevole”, ricerca le risorse naturali, in parte per recuperare il suo “status di grande potenza”, ha detto Pham. Le aziende russe stanno cercando di “stipulare partnership” con i produttori di risorse per formare, ad esempio, “un’Opec del gas naturale”, ha detto.
La Russia detiene le più grandi riserve mondiali di gas naturale e l’ottava riserva di petrolio, secondo la US Energy Information Administration. L’anno prossimo, il suo bilancio federale sarà quasi al 50 per cento proveniente da esportazioni di petrolio e gas, enfatizzando l’affidamento sulle esportazioni di gas per “alimentare il bilancio”, ha detto Montalbano a OilPrice.com. In una certa misura, la Cina e la Russia hanno lavorato insieme nel settore del petrolio e del gas. All’inizio di quest’anno, la Cina ha annunciato prestiti per 25 miliardi di dollari a favore di aziende russe, in cambio dell’approvvigionamento ventennale di petrolio greggio.
La Russia non è il colosso “delle riserve finanziarie” qual’è stata due anni fa, e ha un sistema bancario e industriale “abbastanza debole”, sostiene Montalbano. Mentre il paese sta discutendo alcuni progetti con l’Iran e, potenzialmente, con l’Iraq, è soprattutto interessata all’apertura degli enormi giacimenti di gas nell’Artico, perché i suoi attuali giacimenti sono in calo, ha osservato.
La Russia e altri paesi del nord hanno sempre rivolto attenzione allo scioglimento dei ghiacci dell’Artico, ma la regione “dev’essere definita”, ha detto Boyko Nitzov, direttore del Eurasia Energy Center presso il Consiglio Atlantico, a Washington. “L’Artico è ancora abbastanza off limits per la produzione su larga scala del petrolio e del gas”, e di difficile accesso, in particolare durante l’inverno, ha spiegato Nitzov.
Le compagnie petrolifere americane, per l’eccessivo affidamento sul Medio Oriente per il fabbisogno di energia, hanno spostato la loro attenzione verso l’Africa, uno dei principali produttori di energia degli ultimi anni, affiancando il Golfo Persico nelle importazioni di energia negli Stati Uniti, ha spiegato Pham. Le imprese statunitensi tendono a stringere accordi di ripartizione della produzione o ad esplorare lo sviluppo delle risorse, ma soffrono la mancanza di carta bianca nel loro perseguimento dei giacimenti di petrolio in luoghi come l’Africa, a causa delle sanzioni del governo degli Stati Uniti e della pressione dell’opinione pubblica, ha detto. Questo pone gli Stati Uniti in “lieve svantaggio” rispetto a Russia e Cina, ha aggiunto.
La competizione per le attività energetiche, probabilmente, non porterà a scatenare conflitti, ma piuttosto ad aumentare la tensione politica, prevede africanista Pham. Le principali organizzazioni africane, l’Europa e gli Stati Uniti non hanno mai riconosciuto il colpo di Stato militare nella Guinea dello scorso anno, che ha portato ad un altro massacro dei membri dell’opposizione. Eppure la Cina ha firmato un accordo con la giunta militare, rischiando la percezione come “operatore canaglia col solo scopo di ottenere risorse”, ha avvertito.
La Russia e la Cina, nel frattempo, hanno entrambe beneficiato degli investimenti comuni sul petrolio e sul gas, rendendo un conflitto dubbio, nel prossimo futuro; “ma fra 10, 20 anni, chi lo sa”, ha aggiunto Montalbano.

Fawzia Sheikh, di OilPrice.com, si occupa di combustibili fossili, energia alternativa, metalli e geopolitica. Per saperne di più visitate il sito web: http://www.oilprice.com

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.eurasia-rivista.org/2613/montano-le-tensioni-politiche-con-stati-uniti-russia-e-cina-che-competono-per-il-controllo-delle-riserve-mondiali-di-petrolio-e-gas

I pasdaran: la sedizione è finita, i responsabili pagheranno

Arrestata in Iran la sorella di Shrin Ebadi

Teheran, 29-12-2009

Hanno arrestato la sorella del premio Nobel per la pace Shrin Ebadi. E’ lei stessa a denunciarlo. “Lo hanno fatto affinchè fermi il mio lavoro”, ha affermato l’attivista, 62 anni, in una telefonata da Londra.

“Non stava facendo niente di male, non è implicata nella lotta per i diritti umani, nè ha mai partecipato ad alcuna protesta”. Ebadi spiega di averle parlato per l’ultima volta lunedì, poche ore prima dell’arresto.

Membri del ministero dell’informazione iraniana avevano avvertito più volte la donna di non contattare la sorella.

“Ieri sera mia sorella, la dottoressa Nushin Ebadi, docente presso la facolta’ di Medicina dell’Universita’ Azad di Teheran, e’ stata arrestata nella sua
abitazione da agenti dell’Intelligence e portata in un luogo sconosciuto”, afferma la Premio Nobel in una dichiarazione diffusa dal sito Rahesabz.

Shirin Ebadi aggiunge che due mesi fa la sorella, che non e’ impegnata in alcuna attivita’ politica, era stata convocata dagli apparati di sicurezza. “In quella occasione – afferma la Premio Nobel – le e’ stato detto che doveva convincermi a cessare le mie attivita’ in difesa dei diritti umani, altrimenti sarebbe stata arrestata”.

Shirin Ebadi, che si trova all’estero dalle elezioni presidenziali dello scorso giugno, ha continuato a criticare il regime. “L’arresto di mia sorella – aggiunge la Premio Nobel – e’ un atto illegale. Il Paese ha bisogno ora di calma piu’ che in qualsiasi altro momento e questo puo’ essere ottenuto solo rispettando la legge. Ogni atto illegale avra’ conseguenze negative”.

La repressione attuata in questi giorni “cosi’ come gli arresti, di oltre 1500 persone, e’ illegale, fatta per spaventare la gente”, ha affermato in un’intervista a
SkyTg24 il premio Nobel iraniano Shirin Ebadi.

Commentando la vicenda della sorella, arrestata ieri sera da un reparto della sicurezza, la Ebadi – raggiunta a Londra – ammette: “Non sappiamo dove sia rinchiusa.
Gli avvocati non hanno avuto il permesso di incontrarla, come per tutti gli arrestati di questi giorni. Mia sorella e’ stata arrestata senza neanche un ordine di carcerazione: non avevano il diritto di farlo”.

Quanto alle prospettive nel paese, il premio Nobel spiega: “Le conseguenze saranno negative per un regime che si dice islamico e che prende la sua legittimita’ dall’Islam. Eppure la gente e’ stata attaccata nel giorno sacro dell’Ashura. Il governo parla di 8 morti e 60 feriti, ma sono le cifre sono molto piu’ alte”. Quanto alla diffusione nel paese del movimento anti-governativo la Ebadi afferma che “in alcune citta’ le proteste sono ancora piu’ forti”.

Arrestato giornalista della tv di Dubai
Il procuratore generale di Teheran ha confermato l’arresto di un giornalista della Tv di Dubai, del quale si erano perse le tracce da due giorni. “Non e’ scomparso nessuno, una persona e’ stata arrestata e se il ministero della cultura confermera’ che aveva il permesso per lavorare sara’ rimessa in liberta’”, ha detto Abbas Jafari
Doulatabadi, citato dall’agenzia Mehr.

http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=135925

Nuova tecnica restituisce vista a paziente cieco 23.12.2009

Una nuova tecnica pioneristica che utilizza cellule staminali ha restituito completamente la vista a un uomo cieco a un occhio.

L’inglese di 38 anni, di nome Russell Turnbull, era stato colpito da ‘ammoniaca ad un occhio mentre cercava di interrompere una rissa in un autobus durante il suo ritorno a casa.

L’attacco chimico, che gli ha ustionato la cornea, gli ha offuscato la vista a un occhio. L’uomo sentiva forti dolori addirittura quando sbatteva le ciglia.

Ora, grazie a un trattamento sviluppato dai ricercatori del North East England Stem Cell Institute, Turnbull è di nuovo in grado di vedere.

L’offuscamento della cornea è considerata una delle maggiori cause di cecità, e colpisce 8 milioni di persone ogni anno in tutto il mondo”, ha detto Francisco Figueiredo, chirurgo e consulente del team di scienziati che si è occupato dell’intervento, i cui dettagli sono stati pubblicati sulla rivista Stem Cells.

Grazie all’uso delle cellule staminali – ha detto Figueirido – ora siamo in grado di fornire una possibile soluzione a questa malattia, senza la necessità di lunghe e dolorose cure”.

I ricercatori hanno prelevato un gruppo di cellule staminali dall’occhio sano di Turnbull, e le hanno fatto crescere 400 volte il loro numero in laboratorio. In seguito, hanno rimpiazzato la cornea danneggiata con il nuovo tessuto, restituendo completamente la vista a Turnbull.

Turnbull è solo il primo di 25 pazienti su cui questo tipo di metodo sarà prossimamente applicato. ”Mi sento come se la mia vita di un tempo fosse tornata”, ha detto Turbull.

Per approfondire:

Vedere è bello e la vista va protetta

AGI Salute

http://news.paginemediche.it/it/230/ultime-notizie/oftalmologia/agi-news/detail_124181_nuova-tecnica-restituisce-vista-a-paziente-cieco.aspx?c1=67&c2=5938

Read Full Post »

Older Posts »