La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 19.08.2010
Le aperture
Il Corriere della Sera: “Napolitano: ‘Cossiga du un grande statista. L’omaggio della folla, oggi funerali privati. Il saluto del Papa a un ‘illustre cattolico’”. L’editoriale, firmato da Pierluigi Battista, è titolato: “Ostilità e retorica spericolata”. Il titolo grande del quotidiano: “Berlusconi, appello ai finiani. Il presidente della Camera incontra Letta: danni al Paese se si spara sulle istituzioni. Il premier: sostenete il governo, non tradite gli elettori”.
A centro pagina Aldo Cazzullo intervista l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo: “Passera: c’è una fuga dalle responsabilità della classe dirigente”.
In evidenza sul quotidiano milanese anche un appello di Bernard-Henri Lévy: “Salviamo Sakineh dalle pietre di Teheran”.
La Stampa: “Fini-Letta, il grande gelo. Ora l’intesa è più lontana. L’ex leader di An: danni al Paese da chi spara alle istituzioni. L’incontro dopo l’omaggio a Cossiga. Il premier ai suoi: ognuno mi porti uno di Futuro e Libertà”.
La Repubblica: “Berlusconi, caccia ai finiani. Durante l’omaggio a Cossiga l’incontro tra Fini e Letta. Bossi: Se il Presidente della Camera lascia, niente elezioni anticipate. Il premier: ‘Convincetene uno a testa’. La replica: si appelli a se stesso”. A centro pagina: “L’Ocse: Utalia maglia nera sulla ripresa”. In evidenza in prima – e poi nelle pagine R2 – anche un articolo della economista indiana Vandana Shiva: “La democrazia dell’acqua e l’economia dei cowboy”.
“Il party di Giulio” secondo Il Riformista è il vertice “del partito del Nord”, riunitosi in occasione del compleanno di Giulio Tremonti. C’era Bossi. “La cena per il ministro si trasforma in un summit politico. Il leader leghista non vuole le elezioni e avverte: Berlusconi fagocita tutti, ma a noi non ci fagocita”. A centro pagina il quotidiano si sofferma sugli articoli de Il Giornale dedicati a Fini e alla casa di Montecarlo: “La pistola di Feltri non fuma più”, nel senso che “un testimone chiave smentisce” di aver detto le cose che gli sono state attribuite ieri a proposito di una visita di Fini a Montecarlo.
Il Giornale però insiste:”Spaventato, lui smentisce,. Ma c’è la registrazione”. E nelle frasi pubblicate in prima pagina dal quotidiano l’uomo afferma di aver visto Fini insieme a una donna bionda. “Ho guardato e l’ho riconosciuto”, dice l’uomo secondo il quotidiano. Il titolo di apertura è: “Lettera di Feltri a finiani. I collaboratori del presidente della Camera non riescono neppure a capire quel che leggono e fanno solo confusione, farneticando di dossier e killer. Per chiudere la vicenda ci vogliono risposte: come è finita la casa in mano al ‘cognato’?”.
Libero: “Fini si è già dimesso. Nel 2010 ha giuidato le sedute della Camera solo per 45 ore. Ma che lavoro fa veramente? Il cognato s’incasina: l’affitto di Montecarlo è un premio. Una mazzata a Gianfranco”. A centro pagina: “La crisi della maggioranza. Berlusconi studia l’incidente perfetto. Lo scontro finale sarà sugli immigrati. Fli spezzato in due se si vota la fiducia”.
Il Fatto quotidiano: “Altro che Fini, lo scandalo è Schifani. In obbedienza a B. intima a Napolitano le elezioni subito. E il fatto rivela le nuove accuse del pentito Campanella”.
Le accuse di Campanella sostiene che Schifani favorì un boss mafioso, e diede dei “consigli” sulle variazioni del piano regolatore di Villabate, scrive il quotidiano diretto da Padellaro, che dà anche rilievo in prima pagina alla “smentita” del “testimone” di Montecarlo. In evidenza anche: “Cossiga, la rivolta nel web. Mentre il Palazzo sfila, fioccano le accuse online”.
“Un giurato salva Blago e lo spirito dell’America dal golpetto giustizialista”, titola Il Foglio in prima pagina. Si parla della decisione della Corte di Chicago che ha bocciato l’inchiesta contro il governatore, accusato di voler vendere il seggio senatoriale di Obama, liberatosi dopo l’elezione a Presidente del senatore dell’Illinois. “Tutte chiacchiere e distintivo”, scrive i quotidiano. Di spalla ci si sofferma sull’economia mondiale: “Alle spalle della Cina s’avvicina inesorabile il sorpasso dell’India. Globalizzazione, demografia e riforme: per Morgan Stanley già dal 2013 New Delhi crescerà più di Pechino”.
Il Sole 24 Ore apre con le parole di ieri di Mario Draghi: “Financial stability boar e Bri primuovono i nuovi vincoli per le banche. Draghi: con Basilea 3 spinta lla crescita. Ocse: Germania in forte ripresa, Italia indietro. La Spagna ridimensiona le misure di austerità”.
Cossiga
Monsignor Vincenzo Paglia, confessore di Cossiga, viene intervistato dal Corriere della Sera e spiega che l’ex presidente “non ha vissuto la fede in maniera privatistica, ma come impulso a pspendere la vita per il bene comune”. Ha pregato fino all’ultimo con le preghiere del cardinale Newman, che “era toologo e un liberale in politica come lui”, lo studioso che “esaltava la coscienza del credente e l’amore per la Chiesa. Chi conosce bene la casa del presidente sa che nella sua raccolta di libri è dedicato all’opera completa del cardinale inglese”.
Su La Stampa Paglia scrive (“Mi volle come suo confessore) e cita anche altri personaggi che potrebbero stare “alla porta del cielo ad attendere questo amico: Rosmini, Tommaso Moro, Newman”. Sullo stesso quotidiano una intervista all’ex ambasciatore americano in Italia Secchia, con citazione del ricordo di Cossiga che ieri ha offerto Dipartimento di Stato Usa: “Secchia, con gli Usa sempre leale, anche nei contrasti”.
Berlusconi, Tremonti e Fini.
“Berlusconi alla prova della verità. Discorso alle Camere per la verifica” è il titolo di un articolo sul Corriere della Sera, in cui si spiega che il premier starebbe lavorando a una sorta di “caccia ai moderati” tra i finiani. Berlusconi starebbe preparando una mozione articolata in quattro o cinque punti, per accertare se la maggioranza esiste ancora. Tra i punti decisivo sarà quello sulla giustizia, perché “il premier vive la situazione con angoscia”, visto che la Consulta a dicembre, secondo le previsioni, boccerà la legge sul legittimo impedimento e “con una decisione che sarebbe l’ennesima vergogna potrei essere condannato nel processo Mills, magari a cinque anni e con l’interdizione dei pubblici uffici”, spiega il quotidiano. Per questo serve uno scudo, processo breve o altro. Intanto il premier pensa a come e se lannciare una sorta di “paritto parallelo, fatto di militanti in ognuna delle 60 mila sezioni elettorali, che dovrà muoversi come una macchina da guerra modernissima, con un coordinamento di una cinquantina di giovani, sul modello Obama.
Sotto, il quotidiano milanese intervista il viceministro ed esponente di Futuro e Libertà Adolfo Urso: “altro che ritorni all’ovile, alla fine saremo 40”. Urso dice che occorre ricucire lo strappo, se davvero si vuole essere leali con gli elettori, e che serve una “intesa alta, nobile, chiara, programmatica”, che possa consentire al governo di continuare al meglio questa seconda parte della legislatura. Gli appelli di Berlusconi lo fanno sorridere, “e’ una illusione”, è “velleitario pensare che si possano strappare i parlamentari ad uno ad uno, per non dire altro. Chi ha fatto questa scelta non l’ha fatta per interesse personale per interesse personale, come è ormai chiaro a tutti, ma l’ha fatto per tutelare gli interessi che sono alla base dei principi della destra”, spiega Urso. “La destra non si fa comprare”. Ed anzi aggiunge: ho scommesso che saremmo stati 34 deputati più Fini, mentre i berlusconiani sostenevano che saremmo stati solo 12-14, e si sa come è andata a finire la conta. “Ora dco che alla fine di questa giostra ci ritroveremo in almeno 40: chi accetta la scommessa?”.
Il Riformista racconta che a Calalzo di Cadore, ieri si sono incontrati Bossi e Tremonti, ed avrebbero discusso di federalismo fiscale, e dei prossimi scenari di governo. All’incontro avrebbe preso parte anche il consigliere Rai Angelo Maria Petroni. Secondo il quotidiano Bossi si prepara ad elezioni anticipate, ma allo stesso tempo sembra tenere pronto un piano di riserva. Ai giornalisti, dopo la cena, ha detto: “Napolitano non troverà una maggioranza alternativa. Alla fine chiamerà me e Berlusconi e dirà: ho trovato questa soluzione. E io gli dirò di no, non c’è nessuno così pirla da fare un governo senza i voti”. In caso di elezioni anticipate, “al sud vince Berlusconi, al Nord vinciamo noi della Lega”. Su un governo tecnico: “Tremonti non accetterebbe mai di presiederlo”.
Secondo Il Sole 24 Ore da Bossi sarebbe venuto un attacco che voleva colpire tanto Fini che la sinistra, quando ha detto: “Hanno una paura boia del voto, e quindi fanno di tutto per mettersi di traverso sulla linea del voto”. Ma chi ha pochi voti “non può più stare lì a dirigere il Parlamento, deve farsi da parte perché così vuole il popolo”.
Europa, coalizioni al governo.
Su La Repubblica John Lloyd racconta “i cento giorni di Cameron e Clegg” in Gran Bretagna. Il governo “ostenta calma e coesione, ma i guai sono in arrivo”. Problemi dietro l’angolo, la legge finanziaria, con i suoi tagli al welfare, sta mandando in fibrillazione i libdem”.
Se ne occupa anche Il Riformista: “I cento giorni da Dave (Cameron) fanno bene ai tories ma affondano Clegg”: i sondaggi sono buoni solo per Cameron, i dati per i LibDem sono disastrosi. Il numero 2 del partito, Simon Hughes ha chiesto che ai deputati libdem venga garantito il diritto di veto sulle proposte del governo e per lui una coalizione con i laburisti rimane una ipotesi politica realista. Hughes rappresenta l’ala sinistra del partito, e vuole “una Gran Bretagna liberale e progressista, di centrosinistra”. In autunno, quando i tagli e l’aumento dell’Iva si faranno sentire, sarà più dura tenere: i libdem devono arrivare a maggio, per celebrare l’agognato referendum sulla riforma elettorale che può cambiare il destino del ‘terzo polo’ britannico”.
Sul Sole 24 Ore: “Cameron taglia e vola nei sondaggi”, nonostante i sacrifici varati e annunciati il premier inglese è popolarissimo al traguardo dei primi cento giorni, mentre i Libdem hanno dimezzato i consensi rispetto a maggio. Il congresso del partito il mese prossimo sarà un momento difficile per Clegg.
Su La Stampa: “Cameron senza soldi tarpa le ali alla Raf”, “tagli del 10 % alla Difesa, ridimensionata la Royal Air Force. Scontro nel governo”. “Chi lo spiegherà ai sudditi di Sua Maestà presi dalle celebrazioni dei settant’anni della vittoria nella battaglia d’Inghilterra contro la Lutwaffe che la Royal Air Force non fa più parte della casta degli intoccabili?”, si chiede l’inviato del quotidiano.
Sul Corriere: “Londra, i cento giorni dell’austerità”. Anche il corrispondente del quotidiano milanese sottolinea che i sondaggi sono favorevoli soprattutto a Cameron e che in particolare l’indice di gradimento del cancelliere dello Scacchiere George Osborne è il più elevato che un ministro del Tesoro abbia mai registrato in Gran Bretagna. Nonostante la scure che si abbatterà su scuola, sanità, forze armate e pensioni.
Sul Sole 24 Ore si parla anche della coalizione in Germania Cdu-Fdp: “Merkel deve fare i conti con il crollo dei liberali”. La formazione del vicepremier Fdp Westewelle è al 4 per cento. La cancelliera affronterà un autunno difficile, alle prese con alcune riforme strutturali, mentre i socialdemocratici della Spd sono in forte recupero e i verdi, al 20 per cento, diventano partito di massa. Secondo Il Sole 24 Ore la Merkel non è riuscita a capitalizzare la recente ripresa dell’economia. Non può tagliare le tasse, il portavoce della Merkel ha ribadito che la priorità rimane la riduzione del debito. Ma la riduzione delle imposte era uno degli impegni presi dai liberali. anche su Il Riformista: “L’economia non aiuta la Merkel. Sorpasso Spd dopo cinque anni”. “Una eventuale coalizione rosso-verde raggiunge il 49 per cento”.
Oggi in Francia ci saranno le prime espulsioni di nomadi che sono già stati sgomberati dai campi illegali: l’evacuazione dai campi francesi, iniziata a fine luglio, porterà in aereo da Parigi a Bucarest i primi 79 rom espulsi. Il Sole 24 Ore scrive che Parigi è “sotto accusa sui rom”. Il portavoce della Commissaria europea alla giustizia Viviane Reding, ha invitato la Francia a rispettare “le regole relative alla libera circolazione dei cittadini Ue e i loro diritti a stabilirsi dove vogliono”. Duro il ministro romeno degli esteri Baconschi, che si è detto preoccupato “per i rischi di derive populiste in Francia e di reazioni xenofobe”.
Murdoch
Il Riformista: “Regalo di Murdoch per ridare gli Usa ai Repubblicani”. Il quotidiano spiega che il magnate ha donato un milione di dollari all’associazione dei governatori repubblicani (Rga), che si prepara ad una battaglia elettorale molto serrata: nelle elezioni di midterm a novembre saranno in gioco anche 37 poltrone da governatore. Oggi 26 governatori su 50 sono democratici. Il motivo del generoso contributo è stato spiegato da Jack Horner, uno dei massimi dirigenti dell’impero editoriale di Murdoch: “News Corporation crede nel potere del libero mercato e associazioni come quella dei governatori repubblicani, che hanno una agenda probusiness, sostengono le nostre priorità in questo momento molto critico della nostra economia”. Nel mirino alcune norme federali, ancora in discussione, che potrebbero indebolire la posizione della rete televisiva Fox nel caso di accordi commerciali con le reti via cavo. Sul Giornale: “Murdoch scarica Obama, soldi ai Repubblicani”. Il quotidiano ricorda che nel 2008 il magnate aveva detto del presidente Usa che si tratta di “una star”, che era “fantastico”. Ma ora, in vista del voto di metà mandato, “e per la prima volta dopo anni di finanziamenti bipartisan, versa un milione di dollari soltanto all’opposizione”.
Anche in prima su Il Foglio: “L’endorsement”, “Murdoch dà un milione di dollari ai repubblicani ‘perché credono nel mercato'”. La sua mossa, anche per il quotidiano diretto da Ferrara, che sottolinea il pragmatismo del personaggio, è forse “un’astuzia per essere coperto sul fronte dei diritti televisivi”, a causa delle leggi federali che potrebbero indebolire la posizione di Fox nei negoziati con altre emittenti. E ricorda che i governatori possono prendre posizione anche in questo campo: lo ha fatto a marzo David Paterson, governatore dello Stato di New York, pretendendo un arbitrato in una disputa tra due emittenti di Cablevision e Abc. Il quotidiano racconta che la Dga, associazione dei governatori democratici, diretta da Nathan Daschle, ha risposto con durezza alla decisione della News Corp, accusando la Fox di aver “varcato una linea evidente”: “non può più dire di essere ‘equa e bilanciata’”. Ma la Dga è irritata anche per la “scarsità del raccolto”, secondo Il Foglio: le donazioni ai democratici nel secondo trimestre sono salite soltanto di nove milioni di dollari, contro i 19 di quelle ai repubblicani, che già partivano da una base di 9 milioni. Anche tra i finanziatori della campagna elettorale dei democratici ci sono diversi gruppi editoriali: la nemica giurata di News Corporation, General Electric, proprietaria di Nbc, che ha contribuito con 245mila dollari.Il gruppo Time Warner, che comprende Cnn e Time, ha scelto una linea “quasi salomonica”: 70mila dollari ai democratici e 50mila ai repubblicani.
E poi
L’economista Luigi Zingales, su Il Sole 24 Ore, ricorda in “lezioni dalla storia” (il presidente Theodore Roosvelt”, “lo statista al servizio dei consumatori”: “le riforme del 26esimo presidente Usa frenarono lobby e monopoli a favore del mercato”: lo Square Deal fu un pacchhetto di riforme moderate che proteggevano i consumatori. Fu grazie a lui che furono approvati il Meat Inspection Act, che proibì l’uso di conservanti chimici dannosi alla salute, e il Pure Food and Drug Act, che proibì la vendita di medicinali di dubbia qualità. Suo obiettivo primario fu quello di distruggere “la diabolica alleanza tra business corrotto e politica corrotta”.
Su La Stampa ci si occupa di Ground Zero e delle polemiche sulla moschea che dovrebbe sorgere a due isolati di distanza: “Si tratta per trasferire la moschea”, “Il governatore di New York incontra i leader musulmani: ‘Finanziamenti se trovate un’altra sede’”.
Sullo stesso quotidiano, un’analisi sul sorpasso della Cina, seconda economia mondiale, sul Giappone, si sofferma sullo “shopping cinese di energia” che “spaventa i vicini asiatici”. La Cina è “il numero uno nel mondo per consumo di minerali di ferro e rame e il secondo maggior importatore di petrolio”. Con quest’analisi di Cary Huang, La Stampa inaugura una collaborazione con il quotidiano “South China Morning Post”, la più importante testata in lingua inglese si Hong Kong.
Sul Corriere della Sera si ricorda che è iniziato in Iraq il ritiro dei soldati Usa: in anticipo, rispetto alla data fissata in precedenza, che era il 31 agosto. Le operazioni sono iniziate in segretezza, anche per evitare di esporre i soldati ad attentati o imboscate. Il governo di Baghdad è preoccupato: in un Paese che a più di cinque mesi dalle elezioni non ha ancora un governo e in cui sono ripresi gli attentati con grandi numeri, gli americani fanno fatica a rassicurare le autorità di Baghdad confermando che dal 1 settembre e fino al lulgio del prossimo anno 50mila soldati Usa rimarranno sul terreno con compiti di addestramento.
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Giù le armi dagli operatori umanitari 19.08.2010
KRISTALINA GEORGIEVA*
Caro direttore,
gli operatori umanitari svolgono un mestiere difficile – e in questi giorni li vediamo operare in mezzo a incendi e inondazioni. Il compito più pericoloso, però, spetta a chi è impegnato in zone di guerra. Sapevate che l’anno scorso ci sono stati più morti sul campo tra gli operatori umanitari che nel contingente di pace Onu? Sapevate che nell’arco di un decennio il numero di uomini e donne che hanno perso la vita nel prestare aiuti umanitari è triplicato – da 30 a 102 tra il 1999 e il 2009 – e che il numero dei sequestri di persona è aumentato da 20 a 92?
Prima che assumessi l’incarico di Commissaria dell’Unione europea per gli aiuti umanitari questi dati mi erano sconosciuti. Da allora ho visitato molti luoghi in cui la gente è quotidianamente alle prese con rischi legati alla propria incolumità e sicurezza personale. Lo scorso giugno mi sono recata nelle zone del Darfur interessate da progetti d’aiuto umanitario finanziati dall’Ue. Ho incontrato operatori umanitari nella città di Nyala, una delle rare località del Darfur a esser considerata, per loro, relativamente sicura. Due giorni dopo la mia visita, due membri del personale umanitario impegnato nella zona sono stati rapiti nei locali del loro stesso quartier generale. Per fortuna sono stati poi rilasciati, ma le preoccupazioni in materia di sicurezza personale nella zona in cui essi operano restano serie.
Oggi l’azione umanitaria è sempre più esposta ai rischi di sicurezza – vessazioni, minacce, sequestri e addirittura uccisioni. Solo un paio di giorni fa 8 operatori umanitari stranieri sono stati brutalmente assassinati in Afghanistan. In un altro attentato a sangue freddo avvenuto nel corso di quest’anno in Pakistan sono stati uccisi sei operatori. Erano professionisti e non hanno certo perso la vita per imprudenza. La triste verità è che, con l’andar del tempo, essi sono diventati dei bersagli premeditati.
Originariamente la protezione degli operatori umanitari si basava sulla loro «accettazione» da parte dei belligeranti, in linea con l’applicazione rigorosa dei principi umanitari di neutralità, indipendenza e non discriminazione. Tale accettazione, tuttavia, è sempre più contestata negli attuali conflitti. A volte gli operatori umanitari sono presi di mira poiché considerati «testimoni oculari» scomodi di atrocità perpetrate contro i civili, ad esempio nella parte orientale della Repubblica democratica del Congo. In altri casi ciò rientra in un preciso piano politico e ideologico, come avviene in Afghanistan. In alcune aree, inoltre, il sequestro di operatori umanitari è diventato un’attività economica redditizia. Indipendentemente dai motivi di fondo, tutti questi atti non causano solo danno alle persone, ma minano anche la nostra stessa fiducia nei valori universali di umanità e solidarietà – a prescindere da considerazioni religiose, culturali, razziali o politiche.
Di fatto, le zone più pericolose per gli operatori umanitari, quali l’Afghanistan, la Somalia e il Sudan, sono anche quelle in cui maggiori sono le esigenze umanitarie. Con il continuo restringersi dei loro margini di manovra, si trovano spesso di fronte a un angoscioso dilemma morale: continuare a fungere da ancora di salvezza per le vittime o proteggere le loro stesse vite? È questo il motivo per cui noi dobbiamo a queste persone ben più di una semplice espressione di solidarietà e ammirazione per l’impegno e il coraggio dimostrati. Dobbiamo loro un’azione forte a livello internazionale per cambiare le prospettive – e con esse i dati statistici – di uno dei mestieri più pericolosi al mondo. Nella sua veste di donatore umanitario e attore politico di primo piano, l’Europa intende assumersi in pieno le sue responsabilità.
In settembre l’Ue presenterà all’Assemblea generale delle Nazioni Unite un progetto di risoluzione sull’incolumità e la sicurezza degli operatori umanitari e sulla protezione del personale delle Nazioni Unite. Lavoreremo di concerto con le altre parti negoziali per garantire il più alto livello possibile di impegno collettivo nei confronti di questa risoluzione Onu e ai fini di una sua efficace attuazione in loco. Amplieremo il sostegno politico, tecnico e finanziario a favore dei nostri partner umanitari (agenzie Onu, Croce Rossa/Mezzaluna Rossa, Ong) per il miglioramento della loro sicurezza e protezione. Stiamo facendo – e continueremo a fare – tutto il possibile per promuovere azioni preventive, quali la divulgazione del diritto umanitario internazionale tra le parti in conflitto o l’elaborazione di protocolli di informazione pratica in materia di sicurezza e, qualora tutto ciò fallisse e fossero commessi crimini contro operatori umanitari, allora adotteremmo misure punitive severe. L’uso di armi contro gli operatori umanitari è un crimine di guerra secondo le convenzioni internazionali. Qualunque atto criminale nei loro confronti deve pertanto essere punito – non solo come atto di giustizia, ma anche come forte strumento deterrente nella lotta contro l’impunità.
La Giornata mondiale degli aiuti umanitari, che si celebra oggi, è il momento opportuno per rendere omaggio a tutti quegli uomini e donne che mettono a repentaglio la loro vita per salvare quella di chi ha bisogno d’aiuto. Uno striscione posto sull’edificio della Commissione europea a Bruxelles segnerà l’inizio di una campagna europea dal titolo «Giù le armi! Sono un operatore umanitario», mirante a sensibilizzare l’opinione pubblica e le autorità sui pericoli e le difficoltà cui devono far fronte gli operatori umanitari. Non possiamo assolutamente lasciare che queste persone vengano uccise, perché con esse si spengono anche la fiducia e la speranza nel genere umano. Giù le armi! Siamo operatori umanitari.
*Commissaria europea per la cooperazione internazionale, gli aiuti umanitari e la risposta alle crisi
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Il benservito dei padroni a Berlusconi 17.08.2010
di Mimmo Porcaro
Perché mai i padroni italiani, nonostante il fatto che il programma del governo sia identico al programma di Confindustria, stanno dando il benservito a Berlusconi? Per un sussulto costituzionale, per amore della legalità, per difendere il buon nome d’Italia nel mondo, per indignazione morale? Niente di tutto questo. Per comprendere il motivo di questo preavviso di licenziamento (l’unico contro il quale non ci sogneremmo di protestare) bisogna comprendere il paradosso che rende continuamente instabile la scena politica italiana, ossia il fatto che il gruppo economicamente dominante (il “grande capitalismo” privato bancario ed industriale, ingrassatosi con l’acquisto a basso costo delle imprese e delle banche pubbliche) non riesce ad essere dominante anche politicamente o, meglio, non riesce a dar vita ad un partito e ad un governo che rappresentino direttamente i suoi interessi.
Questa incapacità, resa evidente dalla difficoltà di creare il “grande centro” dal quale condizionare tutti i possibili schieramenti, deriva dal fatto che il gruppo dominante è incapace di far progredire il Paese (ne fa fede la contemporanea diminuzione del tasso di crescita del Pil e della quota del reddito da lavoro sul Pil stesso) e quindi di assicurarsi il necessario consenso sociale. Cosicché è obbligato ad usare come classi di sostegno proprio quelle stesse classi che patiscono (pur se assai diversamente) del suo dominio, ossia il lavoro ed il “piccolo capitalismo”, appoggiando e tentando di influenzare ora il centro sinistra ora, e con più convinzione, il centro destra. E’ obbligato a governare attraverso governi che, pur assai benevoli, sono sostenuti da interessi divergenti dai suoi.
Berlusconi, quindi, non è mai stato il rappresentante organico e diretto di tutto il capitalismo italiano. Estraneo al salotto buono, pieno di soldi d’incerta origine, più propenso alla finanza allegra che ai tagli di bilancio, troppo ossessionato dai suoi guai giudiziari, il nostro non ha mai avuto con Confindustria un rapporto lineare: ha tentato, su incarico di Giovanni Agnelli, di tagliare le pensioni, ma si è bruciato le mani; con D’Amato ha mirato allo Statuto dei lavoratori, ma gli è andata buca, ha allora iniziato a farsi i fatti suoi, anche perché Confindustria era ormai nelle mani del centrista Montezemolo.
Ma negli ultimi tempi le cose sono cambiate: complice la crisi e l’impossibilità di sperperare troppo denaro pubblico a vantaggio delle sue clientele, per trovare un solido paravento contro “le procure”, il Cavaliere ha dovuto saldamente allearsi con una Confindustria che, nel frattempo, si è data un programma apertamente antisindacale. Ecco dunque il governo Berlusconi–Tremonti-Marcegaglia. Ciononostante, arriva il benservito. Perché?
Perché nel frattempo Sergio Marchionne ha ricordato a tutti, ed anche a Confindustria, quanto dura sia la crisi e quanto nette ed impopolari siano le scelte da compiere se la si vuole affrontare dal punto di vista dei padroni. Queste scelte non possono essere gestite da un governo debole, e Berlusconi, nonostante tutto, è reso debole dalla necessità di sfuggire alle manette e dai continui, devastanti conflitti istituzionali che è disposto a creare a tale scopo. Per questo Fini si smarca, per questo Montezemolo avanza, per questo Draghi attacca e tutti invitano il nostro a restare a cuocersi nel suo brodo mentre gli altri preparano un’alternativa: il vero grande centro che finalmente possa dedicarsi indisturbato ai rapporti di classe, incassando politicamente, con una nuova alleanza, il plauso già sollecitamente tributato da buona parte del Pd alla linea Marchionne.
Se oggi i padroni sfiduciano Berlusconi non è per improvvisa convergenza coi temi dell’opposizione: è per la necessità di assicurare la stabilità (sempre invocata da Confindustria, dalla Banca d’Italia e dalla stessa Chiesa) e proseguire con maggior comodo nell’attacco ai lavoratori.
Questo è lo stato dell’arte. E di questo si deve tenere attentamente conto ogni volta che si propongono le diverse ipotesi della pur inevitabile politica unitaria. Anche perché, se tutti siamo d’accordo sul fatto che la sconfitta di Berlusconi è preliminare ad ogni altro avanzamento, questa sconfitta rischia di essere impossibile (e Berlusconi rischia di governare di nuovo, ma col solo consenso del suo “popolo” e quindi in maniera ancor più disastrosa) se il fronte che gli si oppone si identifica completamente nelle posizioni di Marcegaglia e Draghi. Per battere Berlusconi bisogna spostare di nuovo a sinistra quei voti popolari fluttuanti (del Nord ovest e del Sud) che nel 2006 diedero la vittoria a Prodi e nel 2008 la negarono a Veltroni: disoccupati, precari, giovani che hanno bisogno immediatamente, e fatte salve più articolate proposte per affrontare la crisi, di forti sostegni al reddito che possono essere garantiti solo da una proporzionale sottrazione di risorse a coloro che sulla crisi comunque lucrano. Se non affronta in qualche modo questo problema, ogni pur ampia coalizione rischia una sconfitta che oggi avrebbe conseguenze gravissime.
Tutti questi nodi sono sottovalutati, a mio parere, nel pur argomentato articolo che Piero Di Siena ha recentemente scritto per Liberazione. Di Siena ci invita a rinverdire lo spirito della svolta di Salerno, quella con la quale Togliatti propose, nel 1944, una politica unitaria per completare la sconfitta del fascismo e per costruire in Italia una democrazia progressiva. Si trattò allora, indubbiamente, di un colpo d’ala. Ma oggi sarebbe un colpo a vuoto: oggi non siamo di fronte, come allora, ad una borghesia sconfitta, incerta sul da farsi, incapace di capire su chi puntare; né siamo di fronte a partiti di nuova formazione, ancora privi di rapporti organici e coerenti col mondo industriale e finanziario. Oggi è proprio la borghesia a dettare contenuti e tempi di un cambio di regime, mentre costruisce il proprio partito di riferimento. Se è alla lucidità storica e politica di Togliatti che vogliamo guardare, guardiamo allora al Togliatti delle Lezioni sul fascismo, quello che, analizzando realisticamente le forze in campo, sapeva individuare, dietro l’ascesa del “regime reazionario di massa”, l’“elemento organizzatore” fornito dalla grande borghesia italiana: lo stesso elemento che oggi propone, ma nello stesso tempo rende difficile, l’auspicabile ma non sicuro disarcionamento del Cavaliere. Per battere il fascismo allora, come oggi per difendere la Costituzione, sarebbe stata necessaria una tattica duttile, basata però su una precisa comprensione dei rapporti di classe: cosa che mancò negli anni ’20 e sembra ancora mancare, quasi cent’anni dopo.
http://liberazione.it/rubrica-file/Il-benservito-dei-padroni-a-Berlusconi—LIBERAZIONE-IT.htm
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La morfina blocca la crescita dei tumori
Sanihelp.it – Una ricerca dell’Università del Minnesota su un modello animale di cancro al polmone, pubblicata dall’American Journal of Pathology, dimostra che la morfina è in grado di bloccare la crescita dei tumori impedendo loro di generare nuovi vasi sanguigni.
I ricercatori hanno testato dosi elevate di morfina su un modello animale di carcinoma del polmone di Lewis, scoprendo che questo farmaco abbassa l’angiogenesi, ovvero la formazione di nuovi vasi sanguigni, da parte delle cellule tumorali.
I recettori della morfina interrompono i segnali cellulari che danno inizio all’angiogenesi, privando quindi le cellule tumorali dell’ossigeno necessario per sopravvivere.
«Questo risultato conferma le potenzialità dell’uso della morfina nel trattamento del dolore nei casi di cancro, perché oltre all’effetto analgesico questa molecola può essere sfruttata per il potenziale anti-angiogenico».
http://www.sanihelp.it/news/11231/morfina-blocca-crescita-tumori/1.html
Prelevato il 19.08.2010
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Tratto da “In morte di Francesco Cossiga”17.08.2010
http://indipendenza.lightbb.com/politica-italiana-f2/in-morte-di-francesco-cossiga-t641.htm
“…Chissà perché, in queste ore, sia sostanzialmente passata sotto silenzio la sua vicinanza alla causa catalana e basca. Nella sua edizione elettronica del 17 agosto (http://www.gara.net/azkenak/08/216087/es/Fallece-Francesco-Cossiga-ex-presidente-italiano-defensor-causa-vasca) Gara, il quotidiano vicino all’illegalizzata Batasuna (sinistra patriottica basca), scrive: «Cossiga è stato conosciuto nei Paesi Baschi per il suo importante ruolo nella difesa della causa basca, dando impulso diretto ai recenti processi politici, da quello di Lizarra-Garazi al processo negoziale 2005-2007, combattendo apertamente la politica di messa fuori legge da parte dei governi Aznar e Zapatero. Tra le altre cose, Cossiga si è incontrato con esponenti della sinistra nazionalista basca (Batasuna, ndt) anche nei tempi più duri dell’illegalizzazione. Ha ascoltato le loro proposte per la pace e si è adoperato in iniziative come la “dichiarazione dei Sei”, firmata nel 2006 insieme ad altri referenti internazionali come Gerry Adams, Kgalema Mothlante, Adolfo Pérez Esquivel, Cuauhtemoc Cárdenas e Mario Soares (…). Nell’ultima intervista concessa a Gara nel 2007 sottolineava che “la magistratura spagnola ha un’origine ed una mentalità largamente franchista ed è legata alla ideologia della Hispanidad e che il Psoe ha una visione centralista della Spagna, a favore della repressione di qualunque movimento autonomista e indipendentista”».
Atti derivanti da una sensibilità nazionale, stante la sua origine sarda, o dall’ostilità politica mai nascosta nei confronti dell’ex leader del Partito Popolare ed ex capo del governo, il «franchista» José Maria Aznar?
Catalani e baschi comunque ringrazia(va)no, dal loro punto di vista giustamente, per l’utilità di queste contraddizioni nell’avverso campo atlantico….”
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di Bifo
La crisi europea può essere un’occasione 15.08.2010
Si sta sgonfiando la recovery. Solo i profitti della classe finanziaria, generati per gran parte da processi antiproduttivi, come la guerra, o la distruzione dell’ecosistema, sono in ripresa. Tutto il resto scende: l’occupazione scende, il salario reale scende, e perfino il salario nominale. Scende il consumo e la propensione al consumo, scendono le attese scende la fiducia. Scende per finire l’energia psichica. Nessuno crede più nel futuro radioso del capitalismo, se si eccettua l’Economist naturalmente.
Crollano in Europa le vendite di automobili. I produttori di auto chiedono allo stato di sostenere il settore con incentivi. Nonostante la conclamata adorazione del mercato i produttori di automobili chiedono allo stato di aiutarli a produrre una cosa che il mercato non compra più – e per fortuna, visto che l’oggetto automobile si è da lungo tempo rivelato inquinante, pericoloso e sempre meno capace di svolgere la sua funzione nelle grandi città.
Nel frattempo un tale di nome Marchionne va in giro per il mondo presentandosi come il salvatore dell’industria dell’auto. È difficile capire perché si debba salvare un’industria che produce oggetti ingombranti inutili inquinanti costosi e pericolosi, quando non li vuole comprare più nessuno, almeno in occidente. Tant’è: questo tizio va in giro per il mondo a salvare la produzione automobilistica, costi quel che costi (ma a chi costa?).
Qualche giorno fa questo signore ha incontrato l’agonizzante presidente Obama, reduce da una lista interminabile di rovesci, e in attesa di essere definitivamente imbalsamato dalle elezioni del prossimo novembre. Insieme hanno visitato lo stabilimento della Chrysler, salvata, appunto dal signor Marchionne. Salvata come? direte voi. Ma è semplice. È sufficiente che lo stato (i contribuenti, e prima di tutto i lavoratori) finanzi l’impresa che produce oggetti inutili e destinati a rimanere invenduti, è sufficiente che il salario degli operai venga dimezzato (è il caso della Chrysler per l’appunto, ma è anche il futuro della Fiat trasferita da Mirafiori alla Serbia) e il gioco è fatto. Va detto che a queste condizioni sono capace anche io a fare l’imprenditore, anzi il capitano coraggioso. Il capitalismo contemporaneo è sistema di produzione dell’inutile a spese della società. Per la comunità sarebbe meno costosa l’erogazione di un salario di cittadinanza per coloro che non trovano lavoro, piuttosto che l’insistenza nel produrre l’inutile in cui si distingue Marchionne.
Il problema è che il salario di cittadinanza presuppone il ribaltamento dei principi che reggono dogmaticamente la costruzione europea: presuppone, come suol dirsi, un nuovo paradigma che sarebbe perfettamente adeguato alla potenza della tecnologia e ai limiti ormai raggiunti e superati della crescita sostenibile, ma del tutto inaccettabile dalla costituzione psichica della società competitiva.
E al momento non si vedono da nessuna parte, nella società e nella cultura europea, le energie e l’intelligenza capaci di rovesciare questa situazione, di cogliere l’occasione di una crisi senza vie d’uscita per indicare la via d’uscita da un sistema ossessionato dalla crescita e dalla super-produzione dell’inutile.
Eppure la crisi europea imporrà prima o poi con la forza delle cose una riflessione: o si rinuncia al dogma dello scambio salario-lavoro, e al dogma della crescita economica basata sull’automobile e sul petrolio, oppure si rinuncia alla civiltà, al progresso sociale, ai principi che hanno sorretto l’edificio dell’umanesimo moderno. Quella che è stata presentata come crisi finanziaria si sta rivelando come qualcosa di differente: una vera e propria guerra di classe contro il salario e contro il diritto dei lavoratori a vivere la loro vita. La crisi è stata usata per una gigantesca redistribuzione di reddito che dirotta verso il profitto quel che toglie ai lavoratori e alla società, aumentando l’intensità dello sfruttamento e il tempo di lavoro. Sottoposti al ricatto della disoccupazione, sottoposti alla pressione di un esercito di riserva che è diventato mondiale andiamo verso condizioni che si possono definire neo-schiavistiche.
È questo inevitabile? Un editorialista de L’Economist di nome Charlemagne in un articolo del 17 luglio 2010 intitolato Calling time on progress dice che gli europei non vogliono rendersi conto del fatto che il progresso sociale è un mito che ha potuto funzionare per un paio di secoli, ma ora è da dimenticare.
Come dei ragazzini cui venga sottratto il loro giocattolo, dice Charlemagne, i lavoratori europei si lamentano piangono sfilano in corteo. Dal 1789 in poi hanno creduto che fosse possibile la giustizia sociale, e addirittura si sono messi in testa di ridurre il tempo di lavoro, come se la vita fosse destinata a leggere libri viaggiare e far l’amore, invece di crepare nelle miniere possibilmente tra atroci tormenti. Su un punto Charlemagne ha ragione: il progresso moderno è stato possibile grazie alla forza politica dei lavoratori e alla riduzione del tempo di vita destinato al lavoro. Se quella forza è esaurita, o disattivata, allora il progresso è morto.
È il rifiuto del lavoro che ha reso possibile il progresso sociale culturale e tecnologico. Infatti, quando il costo del lavoro sale, quando i lavoratori possono organizzarsi in maniera autonoma, il capitale è costretto a stimolare la ricerca, a investire in tecnologie innovative, per poter sostituire lavoro conseguenza i lavoratori guadagnano tempo libero, e possono destinarlo all’istruzione, ai loro affetti, alla salute. Quanto meno tempo è destinato al lavoro, tanto più la società è capace di curare se stessa.
Ma globalizzazione e neoliberismo hanno ridotto costantemente il costo del lavoro. Di conseguenza si riduce anche l’interesse del capitale a investire nella ricerca e nella tecnologia. Costa meno far lavorare un operaio bengalese clandestino che mettere una carrucola o un servomeccanismo. Comincia allora una vera e propria involuzione tecnologica, una riduzione dell’investimento per la ricerca. La riduzione del costo del lavoro (che ispira le politiche della classe dirigente europea) è una garanzia di regressione a tutti i livelli. Regressione nell’impiego delle tecnologie esistenti, regressione nella ricerca per nuove tecnologie, ma soprattutto regressione nella vita quotidiana della società. In Europa succede proprio questo: la regressione in pochi anni è destinata a provocare barbarie, aggressività, violenza, razzismo, guerra civile interetnica. La sola possibilità di sfuggire a questo destino sta nella capacità di abbandonare l’intero quadro della superstizione economica, con i suoi dogmi di crescita competitiva, affidando il futuro della produzione ai saperi liberi finalmente dal dominio epistemologico del sapere economico, trasformato in un dogma indiscutibile.
La crisi europea è l’occasione per iniziare – proprio qui, dove il modello si è formato nei cinque secoli della modernità – il processo di fuoriuscita dal capitalismo. Ma esistono le condizioni psichiche, culturali perché la soggettività possa esprimersi in forma indipendente? Ogni energia soggettiva autonoma sembra sopita nella società europea. Esplosioni di rabbia e dignità si manifestano, come nel caso di Pomigliano, ma in maniera soltanto difensiva, e senza la capacità di farsi immaginario dilagante, di riattivare la solidarietà e di restituire al piacere di vivere il primato sulla sicurezza e la competizione.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20100815/pagina/10/pezzo/284820/
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rinunciare all’automobile è dura! rinunciare al petrolio (almeno nel breve)
è impossibile.
basta parlare con un chimico per capire come il petrolio permea tutta la
nostra vita (plastiche, fertilizzanti, medicine,ecc…. ecc….)
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10 settembre 2014. Entra in vigore la tessera del manifestante 17.08.2010
(red)
ROMA. Alla ripresa dei lavori parlamentari la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva la tessera del manifestante. Dopo un veloce dibattito estivo al Senato delle regioni il pacchetto di provvedimenti detto “tessera del manifestante” è arrivato alla Camera dove è stato approvato praticamente all’unanimità (2 voti contrari e 5 astenuti). “E’ l’ennesima prova che il parlamento agisce nell’interesse del paese e non di una sola parte politica” ha commentato il presidente del Consiglio Pierferdinando Casini. Che guida da oltre tre anni un governo di centro, detto di concordia nazionale, appoggiato sia dal centrosinistra che dal centrodestra. La tessera del manifestante, ricavata sull’impianto normativo della tessera del tifoso, si era è imposta all’attenzione del dibattito politico dopo che diversi comuni avevano cominciato a tassare le manifestazioni di piazza. Il parlamento in questo modo intende sia regolare le manifestazioni politiche che favorire il flusso di cassa diretto verso i comuni in grave dissesto a causa dei rallentamenti della crescita economica. In sintesi il provvedimento prevede:
-l’istituzione di una tessera magnetica, gestita da un pool con a capofila Mediolanum e Unipol, che prevede una ricarica iniziale di 29 euro e una ricarica annuale di 10.
-la possibilità di accesso, illimitata e gratuita, alle manifestazioni cui il possessore della tessera è interessato.
-la facoltà di utilizzo della tessera come carta revolving, ad interesse scontato, per acquisti in centri commerciali convenzionati e di largo consumo.
-Come per la tessera del tifoso, quella del manifestante non può essere utilizzata in caso di mancanza di credito nella tessera.
Possono richiedere la tessera, compilando un modulo scaricabile dai siti degli istituti bancari interessati alla fornitura del servizio, tutti i cittadini italiani o in possesso di regolare permesso di soggiorno. Ad eccezione di quelli che non sono sotto processo per reati politici, da stadio, legati ad episodi di piccola e grande criminalità, allo spaccio e al consumo di sostanze stupefacenti, alla guida in stato di ebbrezza. Il possessore della tessera del manifestante non dovrà indicare l’area politica alla quale intende aderire, per rispetto della privacy, ma l’area geografica alla quale desidera vengano devoluti i fondi della tessera al netto delle ritenute bancarie. Come per la tessera del tifoso quella del manifestante avrà dei chip di riconoscimento che permetteranno la tracciabilità del proprietario durante i cortei.
“Un grande passo in avanti della tecnologia che si è perfezionata in questi quattro anni proprio a partire dalla tessera del tifoso” – ha commentato l’ex presidente della Camera Bertinotti oggi a capo della fondazione Benetton che ha promosso la legge – “Se questa tessera ci fosse stata nel 2001, Carlo Giuliani sarebbe ancora vivo”. Il viceministro alla solidarietà sociale Iannone, esponente storico di Casa Pound, ha commentato “questa legge non è né di destra né di sinistra ma un contributo patriottico, federalista e solidale alle casse dei comuni e uno strumento che renderà le manifestazioni di nuovo frequentabili per le famiglie italiane”.
Le segreterie confederali di Cgil, Cisl, Uil, pur plaudendo all’iniziativa, hanno rimandato ad un successivo tavolo con il governo le trattative sulla quota di fondi da devolvere alle organizzazioni sindacali. Si è nel frattempo placata la polemica sulla mancata destinazione, già decisa al Senato delle regioni, di una parte di questi fondi ai numerosi soldati reduci dall’Afghanistan oggi affetti da sindrome da stress post-traumatico. Il PD ha fatto infatti approvare un decreto in consiglio dei ministri per l’approvazione di un bando che regola le modalità di sponsorizzazione di una apposita raccolta fondi. Finmeccanica e i maggiori portali di Poker on line hanno già aderito.
Soddisfazione è stata anche espressa dal segretario del nuovo Pdl Piersilvio Berlusconi “è uno strumento che dona serenità ed efficienza alla vita politica di un paese. Da parte nostra intendiamo contribuire al successo dell’iniziativa: ogni possessore di tessera potrà avvalersi del proprio codice per attivare gratuitamente la visione dei nuovi contenuti Mediaset Plus fino al 31 dicembre 2014”
Alle critiche espresse su un sito con sede legale in Islanda dall’autoproclamato governo degli italiani in esilio, che riguardano il pericolo di svuotamento delle piazze così come è avvenuto con gli stadi per la tessera del tifoso, ha replicato il presidente della Repubblica Massimo D’Alema: “In una democrazia matura è normale che ci sia un calo fisiologico delle manifestazioni di piazza. In questo modo ci stiamo finalmente avvicinando ai grandi paesi europei”. Rispondendo brevemente a una domanda sulle polemiche suscitate da una sua partecipazione ad un convegno sui 95 anni dai fatti di Piazza San Sepolcro (quando furono fondati i fasci di combattimento) il presidente D’Alema ha commentato “Il fascismo è stato una costola della sinistra. Non lo dico io, lo dicono gli storici. Appartiene al passato ma qualcosa di quella storia può essere conservato nell’interesse della coesione sociale e per il bene del paese. In fin dei conti Mussolini ha assicurato vent’anni di governabilità”.
Ansa.it 10/9/ 2014
Storia recente.
Anno 2010
Si comincia a progettare di tassare le manifestazioni di piazza
http://milano.corriere.it/notizie/politica/10_agosto_16/decorato-cortei-cauzione-1703591271185.shtml
Entra in vigore la tessera del tifoso
http://www.violanews.com/news.asp?idnew=61762
http://www.mediagol.it/articolo.asp?idNotizia=182068
http://www.senzasoste.it/nazionale/10-settembre-2014-entra-in-vigore-la-tessera-del-manifestante
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La guerra in Iraq è (virtualmente) finita
Frida Roy, 19.08.2010
Oltre 100.000 morti tra i civili e più di 10.000 tra i militari: questo il bilancio della guerra in Iraq, secondo il sito internet http://www.iraqbodycount.org (Ibc), che diffonde i numeri dei morti delle operazioni militari iniziate nel 2003, i cui dati sono raccolti da attivisti dei diritti umani e da ricercatori. Oggi l’annuncio: la guerra in Iraq è virtualmente finita, con alcuni giorni di anticipo sul calendario che prevedeva la fine della fase dei combattimenti al prossimo 31 agosto, ma decine di migliaia di americani, militari e anche civili, rimarranno nel Paese per diversi mesi, o anche diversi anni
Con 13 giorni di anticipo sulla scadenza prevista (il 31 agosto) gli Stati Uniti hanno ritirato nella notte l’ultima brigata da combattimento dall’Iraq. Nel Paese sono rimasti, per ora, 56.000 soldati. Dopo sette anni e mezzo la Guerra iniziata da George W. Bush per distruggere le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein è – solo virtualmente – finita.
Le truppe rimaste continueranno le operazioni fino al primo settembre quando resteranno in 50.000 con compiti esclusivi – sulla carta – di “appoggio e addestramento” dei militari afghani. Entro il 31 dicembre 2011 – secondo il calendario approvato da Bush e fatto proprio da Barack Obama – tutti i militari americani, tranne qualche decina, avranno abbandonato il Paese.
Ma il ritorno a casa dei soldati americani non chiude la fase di appoggio di Washington al governo – ancora inesistente a cinque mesi dalle elezioni del 7 marzo scorso – iracheno.
Come rivela il New York Times per compensare il ritiro delle truppe combattenti sono in arrivo 7.000 contractor privati, cui sarà affidata – di fatto – la sicurezza del Paese, sempre a spese dei contribuenti americani. Contractor, che dal massacro del 16 settembre 2007 a Baghdad in cui gli uomini della Blackwater uccisero 17 civili, non sono affatto amati in Iraq.
Il dipartimento di Stato spenderà 100 milioni di dollari solo per realizzare due avamposti fortificati nel nord del Paese – ricco di risorse petrolifere – per scongiurare grazie ai contractor scontri tra l’esercito regolare e le forze curde dei guerriglieri peshmerga. Dall’ottobre del 2011 – tre mesi prima che l’ultimo soldato Usa avrà lasciato il Paese – sempre il dipartimento di Stato assumerà la responsabilità di addestrare la polizia irachena.
Altri 5 basi avanzate fortificate saranno sparse nel resto del Paese. A gestirle ci penseranno sempre gli uomini delle agenzie di sicurezza private che svolgeranno gli stessi compiti affidati finora all’esercito: gestiranno i radar, cercheranno ordigni improvvisati (Ied) piazzati sul ciglio della strada, faranno volare i droni (aerei senza piloti) e forniranno il personale necessario alle forze di reazione rapida per aiutare i civili.
Per le forze armate irachene si tratta ora di un vero esame di maturità, con un esercito di quasi 200 mila uomini che dovrà dimostrarsi in grado di controllare la difficile situazione interna, con rigurgiti di terrorismo e un equilibrio politico difficile da trovare. Senza l’appoggio degli americani, in molti temono infatti che i possibili scontri intestini possano minare la coesione delle forze armate.
Ali Dabbagh, il portavoce del governo iracheno, sostiene che “le forze di sicurezza sono sufficientemente pronte per far fronte alle minacce”. Ma il generale Babakir Zebari, capo di Stato maggiore, dieci giorni fa aveva detto che l’esercito “non è pronto a ricevere il testimone dagli americani, che dovrebbero rimanere fino al 2020”.
Le perplessità sono quindi molte in Iraq, a partire dai dubbi espressi dall’ex braccio destro del dittatore rovesciato Saddam Hussein, Tareq Aziz, contrario al ritiro perché significa “lasciare l’Iraq al lupi”.
Il governo di Baghdad ostenta però determinazione, perché l’esercito è pronto, sostiene. Ma anche all’ interno del partito del premier, Nuri al Maliki, c’è chi dissente apertamente, come il deputato Izzat Shahbander. La cronaca degli ultimi tempi sembra dargli ragione. Appena martedì scorso quasi 60 reclute che dovevano andare a rafforzare le forze armate irachene sono state massacrate da un kamikaze a Baghdad.
Era iniziata all’alba del 20 marzo 2003, la guerra che ha portato al rovesciamento del regime di Saddam Hussein. Una guerra, decisa dall’allora presidente Usa, George W. Bush, ufficialmente perché convinto che Saddam possedesse armi di distruzione di massa (che non sono poi state mai trovate). Una guerra che ha portato a spaccature in Europa, visto che la Gran Bretagna ha combattuto al fianco degli Stati Uniti, mentre Paesi come la Francia hanno guidato quello che si può definire un ‘fronte del no’.
Bush aveva dichiarato la fine dei combattimenti in Iraq il primo maggio del 2003, in un famoso discorso, quello della ‘Mission Accomplished’ a bordo della portaerei Lincoln, al largo di San Diego in California. In realtà i combattimenti sono durati molto più a lungo, con oltre 4.400 morti militari americani e circa 100 mila vittime civili irachene stimate, e tensioni fortissime nel biennio 2006-2007.
Nei mesi scorsi la violenza ha segnato una significativa recrudescenza: da gennaio a oggi le vittime di attentati nella capitale e in altre zone del Paese si contano a centinaia, mentre la classe politica è incapace di trovare un accordo che consenta la nascita di un nuovo governo, cinque mesi e mezzo dopo le elezioni parlamentari che non hanno potuto indicare alcun chiaro vincitore.
Nelle strade c’è chi esprime soddisfazione per un “passo in avanti verso il ripristino della sovranità irachena”, ma anche chi esprime seri dubbi sulla professionalità e lealtà dell’ esercito, che si affianca ad una corruzione diffusa a ogni livello, alla disoccupazione che secondo le cifre ufficiali è al 18%, ma che secondo alcune stime raggiunge il 50%, e alla carenza ormai cronica della fornitura di servizi di base, primo fra tutti l’elettricità, che anche a Baghdad, viene erogata solo per alcune ore al giorno.
“Il ritiro delle forze americane è però sempre una buona notizia, attesa da una vasta parte della popolazione di ogni etnia o religione” (?), secondo una nota del blocco parlamentare che fa riferimento al leader radicale sciita Moqtada Sadr, che della lotta alla presenza americana in Iraq, anche con le armi, ha sempre fatto la sua bandiera. E proprio in questi giorni, Sadr è particolarmente corteggiato dall’ex premier Iyad Allawi, il cui partito, sostenuto in massa dalla comunità sunnita, alle elezioni del 7 marzo ha sconfitto di misura quello del premier uscente, al Maliki, per 91 seggi a 89 su 325.
Ma anche in caso di accordo con Sadr, la strada per formare un governo è ancora tutta in salita, mentre la nuova ondata di violenza, come ha stigmatizzato parlando con la tv Al Jazira Saad al Muttalibi, consigliere politico di al Maliki, “ha certamente origini politiche. La violenza è aumentata dopo le elezioni. Ogni ulteriore ritardo porterà l’Iraq sull’orlo della guerra civile”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15602
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La mancanza di cibo scatena una guerra da miliardi di dollari 20.08.2010
Battaglia per il potassio, conteso da Canada, Australia e Russia. Produrrà i fertilizzanti impiegati per sfamare il mondo
FABIO POZZO
La guerra dei fertilizzanti che si sta combattendo in tutto il mondo, ma in questo momento soprattutto tra Canada e Australia, sta diventando una «business war» sempre più appassionante. Se non fosse che i colossi che la stanno combattendo stiano mettendo sul tavolo del Risiko montagne di miliardi in dollari scommettendo sulla sventura. Sulla fame del mondo.
Sotto i riflettori, adesso, c’è il potassio. È un metallo molto leggero, secondo in ordine di leggerezza dopo il litio. È addirittura meno denso dell’acqua ed è talmente tenero che si può tagliare facilmente con un coltello. Il 95% della produzione (25 milioni di tonnellate, concentrata soprattutto tra Canada, Bielorussia e Russia) finisce in fertilizzanti (cloruro, nitrato, solfato di potassio). Nel mondo si contano risorse per 250 miliardi di tonnellate, su uno stock complessivo di 8,5 miliardi di tonnellate. Tutti gli analisti scommettono sull’agrobusiness, che sarà il grande affare di un futuro nemmeno poi tanto lontano. La popolazione è destinata ad aumentare, i Paesi emergenti crescono, dunque ci sarà sempre più bisogno di prodotti agricoli e dell’allevamento (cui va il foraggio). Aggiungendo a tale «brodo» in ebollizione anche un pizzico di speculazione, vale la pena di scommetterci, senza tanti scrupoli morali.
Ecco perché Bhp Billiton, il gigante minerario anglo-australiano sta combattendo per conquistare il primo produttore di potassio del globo, la canadese Potash Corp. Ieri c’è stata l’ultima puntata della «guerra», che ha già visto Bhp offrire 39 miliardi di dollari per Potash, il board canadese rifiutarla e gli aglo-australiani rilanciare con un’Opa ostile: gli azionisti di Potash hanno guardato con sufficienza ai 130 dollari per azione proposti da Bhp. «È una buona base di partenza», hanno detto. Insomma, alzano sul prezzo. Sino a quanto?
«Il minimo possibile – dice Daniel Bubis, responsabile della Tetrem Capital Management, che ha in pancia 2 milioni di azioni Potash – è un prezzo di 150 dollari per azione con 160-170 dollari come probabile offerta finale». E, aggiunge, «se dovesse emergere un’offerta concorrente, tutto il quadro cambierebbe». Sempre secondo Bubis, sarebbe utile anche guardare alla Cina, per la quale il potassio «è una materia prima di grande importanza» anche alla luce del fatto che l’alimentazione dei cinesi si sta modificando.
Gli anglo-australiani per ora non demordono. Anzi, affilano le armi. Ieri hanno ottenuto linee di credito per 45 miliardi di dollari da sei banche (Banco Santander, Barclays Capital, Bnp Paribas, JpMorgan Plc e Royal Bank of Scotland) per la scalata al potassio delle praterie dello Saskatchewan. Sino a dove potranno arrivare? L’orizzonte disegnato dagli analisti ha i contorni di una cifra vicina ai 60 miliardi di dollari.
La battaglia, però, non si sta giocando soltanto tra Canada e Australia. In Russia, ad esempio, sta sorgendo una sorta di monopolio del potassio. Il businessman Anatoly Skurov, l’oligarca Suleiman Kerimov e il deputato della Duma Zelymkhan Mutsoyev, attraverso acquisizioni, sono arrivati a controllare il 69% di Silvinit, il primo produttore russo di questi preziosi sali. Lo stesso Kerimov, con altri due partner, nel giugno scorso aveva acquistato il 53,2% di Uralkali, secondo nel Paese per produzione. E ora si parla con insistenza di una fusione tra i due colossi, che darebbe vita al secondo gruppo produttivo del mondo, dopo Potash.
E dopo il potassio, il fosforo, altro componente dei fertilizzanti. Anche questo è un fronte di guerra. Il gigante brasiliano Vale ha acquistato le miniere di fosfati e gli impianti dell’americana Bunge (per 1,65 miliardi di dollari) nonché il suo 42,3% in Fosfertil, primo produttore di fertilizzanti del Paese (per 2,15 miliardi) e sta guardando anche a Mosaic, il secondo produttore nordamericano di fertilizzanti: si era parlato di un’offerta di 25 miliardi di dollari, ma intanto Mosaic ha pagato a Vale 385 milioni per acquistare in joint-venture una miniera di fosfati in Perù.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201008articoli/57790girata.asp
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Ban Ki-moon col “cuore strappato” davanti agli alluvionati del Pakistan 16.08.2010
Le persone colpite sono almeno 20 milioni; i morti sono 1600, ma molte zone non sono state ancora raggiunte. Il disastro avrà effetti sulle persone almeno per due anni. Il Fondo monetario avverte che vi saranno conseguenze di lungo periodo per l’economia pakistana.
Islamabad (AsiaNews/Agenzie) – Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha espresso profondo dolore durante la sua visita alle zone del Pakistan colpite dalle alluvioni. Egli ha anche chiesto alla comunità internazionale di affrettarsi a portare aiuti e distribuirli.
“È stata una giornata col cuore strappato per me e la mia delegazione” ha detto Ban Ki-moon. “Non dimenticherò mai la distruzione e le sofferenze a cui ho assistito oggi… In passato ho visitato scene di molti altri disastri naturali nel mondo, ma nessuno è come questo. Le dimensioni del disastro sono così grandi, con così tante persone [colpite], in così tanti luoghi, in un bisogno così vasto”. Ban Ki-moon ha compiuto anche un volo in elicottero su quattro distretti del Punjab, la regione più colpita, considerata il granaio del Paese, ormai ridotto a una palude, con i raccolti compromessi in modo totale.
Il presidente Asif Ali Zardari, presente alla conferenza stampa insieme al segretario Onu, ha affermato che i circa 20 milioni di colpiti dal disastro avranno bisogno di aiuti almeno per due anni e che l’esercito pakistano e le squadre di emergenza non riescono a raggiungere tutti coloro che sono nel bisogno.
Le cifre ufficiali parlano di almeno 1600 morti nell’alluvione, la peggiore mai successa in Pakistan. Ma vi sono ancora molte aree non raggiunte, che potrebbero far crescere le cifre delle vittime e degli sfollati.
Il Fondo monetario internazionale ha avvertito che l’alluvione avrà conseguenze di lungo periodo per l’economia del Paese, già bisognoso di molti aiuti.
Il governo e il presidente pakistani sono stati criticati con forza per la loro lentezza nel rispondere alla crisi. Vi è anche il fondato timore che nell’inerzia del governo, gruppi legati all’estremismo islamico, più pronti a rispondere ai bisogni della popolazione, rafforzino i legami fra la popolazione e i talebani. Il premier Yousuf Raza Gilani ha assicurato che il suo Paese continuerà la lotta contro il terrorismo.
Ban Ki-moon presenterà una relazione del suo viaggio all’Assemblea generale Onu in questa settimana. L’organismo internazionale ha già lanciato una richiesta ai Paesi membri per 500 milioni di dollari a favore del Pakistan, per affrontare i primi tre mesi di emergenza.
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Sicurezza, Intel compra McAfee 19.08.2010
Il chipmaker di Santa Clara compra il produttore di antivirus (e non solo) di Santa Clara. Una mossa pensata per aumentare la sicurezza dei dispositivi in movimento, senza nascondere le ambizioni nel mobile
Roma – 7,68 miliardi di dollari, ovvero appena qualcosa in meno di 6 miliardi di euro: tanto pagherà Intel l’acquisizione di McAfee, arcinota software house produttrice di uno degli antivirus più venduti al mondo (ma non solo), e che presto diventerà una sussidiaria del chipmaker. Entrambe le aziende hanno sede in California, a Santa Clara, e l’attività di McAfee confluirà nel gruppo Software e Servizi di Intel. Il piano prevede ora che l’accordo passi al vaglio degli azionisti McAfee e degli enti di controllo USA.
La mossa di Intel ha colto di sorpresa gli osservatori, sebbene il periodo sia molto propizio per questo tipo di operazioni (la crisi mondiale ha fatto “calare i prezzi” delle aziende): l’idea di un produttore di hardware, anzi di un produttore di CPU (così come viene percepito dai più), che decide di investire una somma considerevole per ampliare il suo comparto software ha dell’insolito. Ma evidentemente il management Intel ha puntato la prua della corazzata verso un obiettivo che al momento sfugge ai più: nelle mire di Intel c’è l’universo mobile del perennemente connesso, ivi compresi smartphone e tablet, con l’obiettivo di realizzare una piattaforma che disponga di caratteristiche tecniche difficilmente pareggiabili dalla concorrenza.
Per una Apple che sceglie il controllo severo sui contenuti che transitano sulla sua piattaforma mobile (iOS e App Store), c’è una Intel che vuole probabilmente tentare di muoversi in un contesto più snello: in luogo di controllo preventivo e rilascio centralizzato dei binari, la futura piattaforma hardware Atom (o come si chiamerà) per smartphone e tablet disporrà di uno strato software in grado di arginare le minacce e garantire la riservatezza dei dati. Acquisire un produttore di antivirus, con tutta la conoscenza dell’argomento e la tecnologia sviluppata in questi anni, garantirà rispetto al know-how necessario per integrare al meglio le due anime: senza contare che, con lo sviluppo in corso di MeeGo, poter “suggerire” a un marchio come McAfee di sviluppare una versione apposita del proprio software non è cosa da poco.
La conferma di questo approccio arriva dalle parole del CEO Paul Otellini, contenute nel comunicato che ha annunciato l’operazione: “Con la rapida espansione del numero di device connessi a Internet, sempre più elementi delle nostre vite si sono spostati online. Se in passato le performance e la connettività hanno definito i requisiti (dei device, ndt), in futuro la sicurezza si unirà come terzo fattore richiesto dagli utenti per tutte le esperienze digitali”. Ovvero: siccome ci si sposta sempre di più verso un paradigma device mobile + cloud, e noi di Intel vogliamo buttarci in questo mercato, pensiamo sia una buona idea dotarci delle tecnologie che crediamo saranno utili in questa transizione.
Per quanto attiene i futuri sviluppi di questa acquisizione collaborazione, il vicepresidente Intel Renée James (che controlla la divisione in cui confluirà McAfee) ha le idee chiare: “Le tecnologie di sicurezza supportate dall’hardware garantiranno le innovazioni necessarie a contrastare efficacemente le minacce di oggi e di domani: questa acquisizione è coerente con la nostra strategia software e servizi, volta a garantire una esperienza fuori dal comune in aree di business in rapida espansione”. Soprattutto, “per ciò che riguarda la mobilità senza fili”. I primi frutti di questa collaborazione si avranno il prossimo anno.
Nel complesso, dunque, appare chiaro che Intel stia mutando leggermente il suo modello di business, ampliando il suo raggio d’azione: in luogo di un componente o di un blocco di componenti, l’intera piattaforma verrà ideata e sviluppata da Santa Clara, in alcuni casi con l’aiuto di partner (vedi il caso MeeGo, con Nokia) e in altri provvedendo a fare shopping o realizzando in casa quello che manca. Se poi questo trasformerà il chipmaker in qualcosa di più è da vedersi: fino a oggi Intel ha sviluppato hardware solo per “creare” nuove branche del mercato in cui successivamente vendere i propri componenti, mutare approccio significherebbe mutare DNA a una azienda che fino a oggi ha fatto proprio del suo focus su un tassello dell’ecosistema la sua arma vincente.
Secondo l’accordo, Intel si avvia a diventare proprietaria unica di McAfee: pagherà 48 dollari per azione per rilevare le quote in mano agli azionisti, ovvero circa il 60 per cento in più del valore del titolo alla chiusura del mercato il giorno mercoledì 18 agosto (valore a Wall Street: 29,93 dollari). Nelle contrattazioni after-hour seguenti l’annuncio, il titolo McAfee è schizzato immediatamente a quota 47,42, ma è indubbio che i fortunati detentori di una quota significativa di azioni beneficeranno di un margine non da poco. La plusvalenza sulla valutazione delle azioni è stata probabilmente dettata dal desiderio di concludere rapidamente, con l’avallo degli azionisti, l’operazione, oltre che in virtù dei buoni risultati economici fatti segnare da McAfee lo scorso anno. Nelle previsioni Intel, l’investimento da 6 miliardi di euro sarà ammortizzato in 24 mesi.
Luca Annunziata
http://punto-informatico.it/2971081/PI/News/sicurezza-intel-compra-mcafee.aspx
Un commento interessante:
Ancora con sti antivirus ? ma non l’hanno capito che i problemi dei “virus cattivi” si arginano virtualizzando l’attività dei processi e comunque gestendo i permessi ?
Ah.. scc non ditelo a nessuno… Linux questo lo fa da… SEMPRE! io butterei mele dalle finestre…
http://punto-informatico.it/b.aspx?i=2971081&m=2971100#p2971100
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Paolo Rossi e la Fiat di Pomigliano- Esperimenti di surrealismo civile
Andrea Ciommiento, 19.08.2010
L’attore Paolo Rossi è il protagonista di Rcl (Ridotte Capacità Lavorative), un istant film girato a Pomigliano d’Arco (NA) per la regia di Massimiliano Carboni. “Un esperimento di surrealismo civile” per raccontare la vertenza Fiat della cittadina campana. Abbiamo intervistato Massimiliano Carboni e Paolo Rossi, nuovi ospiti del nostro canale video
Cinque giorni con Paolo Rossi a Pomigliano d’Arco. Cinque giorni per girare “un esperimento di surrealismo civile”, “un misto tra il documentario, la fiction, il reality”. Cinque giorni per raccontare la vertenza Fiat guardando da vicino storie e luoghi della cittadina campana che ha accolto a braccia aperte la troupe capitanata dal regista Massimiliano Carboni. Il promotore del progetto è Alessandro Di Rienzo, giornalista che ha seguito in questi anni la situazione di Pomigliano da molto vicino per l’Agenzia Multimediale Italiana di Roma (Agenzia che, insieme a Mauro Berardi, ha prodotto il documentario). Un incontro molto proficuo, quello tra Paolo Rossi e Massimiliano Carboni, che in pochi giorni ha fatto sviluppare in forma audiovisiva quel metodo teatrale dello scrivere all’improvviso e della comicità in versione pop(olare). Quel metodo che da diverso tempo caratterizza il lavoro teatrale del comico friulano di nascita, ferrarese di crescita e milanese d’adozione. Fresco di debutto nella passata stagione con la sua “umile versione pop” del Mistero Buffo di Dario Fo, Paolo Rossi è già pronto alla prossima avventura: la sua prima regia lirica con “Il matrimonio segreto” di Cimarosa al Teatro lirico sperimentale di Spoleto “A. Belli” (9-12 settembre 2010, Teatro Nuovo, SPOLETO).
Link diretto all’intervista con Massimiliano Carboni e Paolo Rossi: http://www.youtube.com/user/ArteCultureLive#p/u/0/NSA-NfV6R3w
*Nella prossima uscita del mensile cartaceo PaneAcqua, numero di settembre, potrete leggere l’intervista integrale rilasciata da Paolo Rossi. Un’interessante chiacchierata sull’Italia di oggi attraverso lo sguardo e le parole del comico visionario.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15598
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L’italiano Giuseppe Simonetta inventa il Recuperatore di Calore per piani cottura 18.08.2010
Giuseppe Simonetta, calabrese, è l’inventore del “Recuperatore di Calore per piani cottura” il cui brevetto è stato depositato nel 2009 alla Camera di Commercio di Genova, città dove vive da 20 anni. Il Recuperatore è stato pensato soprattutto per i ritsoranti che hanno i fornelli accesi per parecchie ore.
Il Signor Simonetta ha concepito la sua invenzione dopo diversi anni di studio. Riferisce Genova Bakeca:
Il Recuperatore di calore è una struttura in acciaio inox che viene applicata sui piani di cottura. Ogni tubazione della struttura contiene acqua. Quando si accendono i fornelli per cucinare, l’acciaio si scalda (insieme alle pentole con il cibo) e, conseguentemente, sale la temperatura dell’acqua interna. Questa va a finire in un apposito accumulatore, normalmente della portata di cento litri, e da qui l’acqua può essere immessa in un circuito che termina nella caldaia o nella lavastoviglie. E qui c’è il risparmio energetico: perché l’acqua è già a una temperatura di almeno 45/50 gradi, quindi sia caldaia che lavapiatti impiegano molto meno tempo (e molta meno corrente elettrica) per portarla a temperature superiori. Se basta l’acqua a 50 gradi addirittura la caldaia non parte neppure, quindi ci si può facilmente immaginare il risparmio.
Foto | Genova Bakeca
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Noam Chomsky: Gli echi del Vietnam nella guerra in Afghanistan 19.08.2010
The War Logs, un archivio di documenti militari classificati nei sei anni di guerra in Afghanistan, lanciato su Internet dall’organizzazione Wikileaks, narra dalla prospettiva degli Stati Uniti la tragica lotta, ogni giorno più cruenta. Per gli afghani si tratta di un crescente orrore.
Nonostante la loro validità, The War Logs possono contribuire ad alimentare la sfortunata convinzione che le guerre siano un errore solo se non vengono vinte, qualcosa di simile a ciò che provarono i nazisti dopo Stalingrado.
Il mese scorso abbiamo assistito al vergognoso ritiro del general Stanley A. McChrystal, sostituito al comando delle forze degli USA in Afghanistan dal suo superiore, il generale David H. Petraeus. Una probabile conseguenza di questa sostituzione dei vertici sarà una
“allentamento” delle norme d’ingaggio, di modo che uccidere civili risulterà più facile, e un allungamento della durata della guerra nella misura in cui Petraeus utilizzerà la sua influenza sul Congresso per raggiungere questo obiettivo.
L’Afghanistan è la principale guerra in corso del presidente Obama. Lo scopo ufficiale è proteggerci da Al Qaeda, un’organizzazione virtuale senza basi specifiche, “una rete di reti” e una “resistenza senza leader”, così come la si definisce nella letteratura specializzata. Ora, molto più di prima, Al Qaeda è composta da fazioni relativamente indipendenti e con legami associativi deboli presenti in tutto il mondo. La CIA calcola che in Afghanistan possano essere presenti tra i 50 e i 100 attivisti di Al Qaeda, e non c’è niente che indichi che i talebani desiderino ripetere l’errore di offrire rifugio a Al Qaeda. A quanto sembra, i talebani sono ben radicati su un vasto e difficile territorio, una grande porzione dei territori pashtun.
A febbraio, durante la prima applicazione della nuova strategia (bellica) di Obama, i marines statunitensi conquistarono Marja, un distretto minore della provincia di Helmand, centro principale della resistenza. Una volta insediatisi, da quel che ci informa Richar A. Oppel Jr. del New York Times, “I marines si sono scontrati con una identità talebana così forte da sembrare un’organizzazione politica in un paese a partito unico, con una influenza che raggiunge tutti…”
“Dobbiamo riconsiderare la nostra definizione della parola nemico”, afferma il generale Larry Nicholson, comandante della brigata mobile dei marines nella provincia di Helmand. “Qui, la maggior parte della gente si identifica come talebana… Dobbiamo correggere la nostra maniera di pensare per non espellere i talebani da Marja, ma i veri nemici”.
I marines si stanno scontrando con un problema che ha minacciato da sempre tutti i conquistatori e che è molto familiare agli USA dal Vietnam in poi. Nel 1969 Douglas Pike, esperto del Governo USA in Vietnam, si lamentava che il nemico, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), “era l’unico partito politico con un’adesione di massa nel Vietnam del Sud”.
Secondo l’ammissione di Pike, qualsiasi sforzo di competere politicamente con questo nemico sarebbe stato come affrontare un conflitto tra una sardina e una balena. Per questo motivo, si doveva sconfiggere la forza politica del FLN ricorrendo al nostro vantaggio comparativo, la violenza, con risultati terribili.
Altri si sono scontrati con problemi simili: per esempio, durante gli anni ottanta, i russi, in Afghanistan, quando vinsero tutte le battaglie però persero la guerra.
Bruce Cumings, storiografo specialista dell’Asia all’Università di Chicago, intervenendo su un altra invasione USA, quella del 1989 nelle Filippine, fece un’osservazione che può essere applicata oggi alla situazione afghana: “Quando un marinaio vede che la sua rotta è disastrosa cambia direzione, ma gli eserciti imperiali affondano i propri stivali nelle sabbie mobili e continuano a marciare, anche se in circolo, mentre i politici addobbano il libro di frasi sugli ideali statunitensi”.
Dopo la vittoria di Marja, ci si aspettava che le forze comandate dagli USA attaccassero l’importante città di Kandahar, dove, secondo un’indagine dell’esercito, l’operazione militare viene rifiutata dal 95% della popolazione locale e cinque di ogni sei abitanti considerano i talebani come “i nostri fratelli afgani”. Ancora una volta risuonano gli echi di una conquista precedente. I piani su Kandahar vennero rimandati, in parte proprio per l’esonero di McChristal.
In queste circostanze non è sorprendente che le autorità degli USA siano preoccupate perché l’appoggio popolare alla guerra in Afghanistan si corroda ancora di più. A maggio Wikileaks rese pubblica un’inchiesta della CIA su come mantenere l’appoggio dell’Europa alla guerra. Il sottotitolo diceva: “Perchè contare sull’apatia probabilmente non sarà sufficiente”. Secondo quest’inchiesta “Il basso profilo della missione in Afghanistan ha permesso al leader francese e tedesco di non ascoltare l’opposizione popolare e aumentare gradualmente il loro contributo alle Forze di Sostegno alla Sicurezza Internazionale” (ISAF).
“Berlino e Parigi rimangono al terzo e quarto posto per numero di soldati della ISAF, nonostante l’opposizione dell’80% degli intervistati tedeschi e francesi ad un ulteriore invio di truppe”. È necessario, di conseguenza, “dissimulare i messaggi” per “impedire, o almeno contenere, una reazione negativa”.
Questa inchiesta deve ricordarci che gli Stati hanno un nemico interno: la loro stessa popolazione, che deve essere controllata quando la politica statale trova un’opposizione tra il popolo. Le società democratiche non dipendono dalla forza ma dalla propaganda, manipolando il consenso attraverso “un’illusione necessaria” e una “extrasemplificazione emozionalmente potente”, per citare il filosofo preferito di Obama, Reinhold Niebuhr.
Per questo motivo la battaglia per controllare il nemico interno continua ad essere altamente pertinente. Di fatto, il futuro della guerra in Afganistan può dipendere da questa.
Noam Chomsky, distribuito dal The New York Times Syndicate
Fonte: http://blogs.publico.es/noam-chomsky/14/ecos-de-vietnam-en-la-guerra-de-afganistan/
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Ripartire da Lisbona 21.08.2010
Michele Rosco*
La verità è che è in atto il più violento e decisivo attacco all’Europa come soggetto politico e agli ultimi bastioni dello Stato sociale in Europa. Ora più che mai, dunque, l’europeismo per sopravvivere e rilanciarsi dovrebbe caricarsi di senso, di concrete opportunità di sviluppo coordinato, economico, sociale e civile.
La politica economica europea ha due città di riferimento, due città nelle quali si sono sottoscritti accordi che sono diventati la base delle successive decisioni: Maastricht e Lisbona. Due città legate non solo a diversi aspetti della politica economica, Maastricht per i criteri di stabilità e Lisbona per l’economia della conoscenza, ma che indicano due ipotesi solo in parte convergenti, diverse strategie di sviluppo e, quasi, due anime diverse, due concezioni dell’Europa contrapposte. La prima, tutta orientata su parametri liberisti di controllo rigido dei bilanci, la seconda su obiettivi qualitativi orientati alla sostenibilità.
Oggi, in fase di crisi, la rotta è sempre più indirizzata verso Maastricht, con le nuove, insostenibili socialmente e economicamente, politiche dei tagli imposte a tutti i paesi europei. E invece verso Lisbona occorrerebbe muoversi, per caricare di senso l’idea di Europa nella direzione di una “crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”.
Che sarebbe il processo di unificazione europea se si fermasse al pareggio dei bilanci ottenuto con il taglio del Welfare? L’Europa, che non è ancora una nazione o uno stato, ma una confederazione tenuta insieme da un’idea, prima che da un progetto vincolante, se perde la sua identità, perde tutto. E’ ovvio che in una fase di crisi come quella che stiamo vivendo si rafforza la necessità di migliorare la capacità competitiva dell’economia continentale. Ma la strada intrapresa, quella della riduzione del Welfare, è sbagliata e pericolosa, sbagliata per i motivi descritti nella Lettera degli Economisti, dalla cui lettura derivano queste riflessioni, e pericolosa perché fa perdere all’Europa la sua anima.
Fuor di metafora, l’anima dell’Europa sta nella sua originale tipologia di sviluppo sostenibile, una tipologia che però fa fatica a diventare modello, teoria, pensiero di riferimento originale e autonomo, e non fornisce elementi forti dal punto di vista della battaglia delle idee. Eppure il successo di un’area geo-politica, in tempo di globalizzazione, dipende anche dalla sua capacità di esprimere una cultura su cui costruire egemonia. Dal punto di vista delle esperienze l’Europa è fucina di modelli innovativi, diversi da quelli statunitensi e anglosassoni, modelli che rappresentano casi di successo, e possono fornire, oltre che il senso dell’economia europea, un punto di riferimento per molti paesi di recente e rapida industrializzazione, che vedono però nel modello anglo-sassone l’unico punto di riferimento. Questo punto di riferimento, presentato nei Master che le Università americane propongono a studenti di tutto il mondo, è basato su una tipologia di azienda multinazionale, sostanzialmente sradicata dal territorio, orientata al marketing e alla finanza, destinata a una crescita trainata dagli asset finanziari e destinata alla quotazione di borsa. Un’azienda che magari nasce piccola, ma che ha sempre la vocazione a diventare grande, in un processo di crescita dimensionale che ne segna l’unica possibilità di sopravvivenza.
Diverso è il modello europeo, che parla di un differente tipo di organizzazione sociale e di organizzazione aziendale, perché innovazione e profitto sono visti in riferimento alle compatibilità sociali, alla coesione entro e fuori del luogo di lavoro, al rispetto della persona, al rapporto con le identità locali e con le tradizioni culturali [1].
Si tratta di esperienze affermate e che attraversano l’intero Continente, ma che non vengono vissute come modelli comuni né tanto meno come casi da esportare. Non esiste, cioè, un modello europeo di sviluppo che parta da organizzazioni aziendali lontane dalle classiche aziende multinazionali. Proviamo a fare un rapidissimo, e non esaustivo, panorama di quello che negli ultimi decenni è accaduto in questo ambito in Europa, e che potrebbe rappresentare la base di un pensiero forte e trasferibile.
Partiamo dal Nord: il caso scandinavo. Qui si è affermata una scuola della gestione dei servizi e del loro marketing che rappresenta un modello per le imprese che operano in questo settore, ma che fa da riferimento inevitabile anche per tutti gli operatori di servizi pubblici. Un modello in cui l’attenzione è centrata sulla qualità della relazione interpersonale, sulla capacità di integrare i servizi verso la soddisfazione del cliente-utente, in cui il rispetto delle esigenze e delle attese di fruizione ha caratteristiche sostanzialmente diverse da quello che accade nel marketing del largo consumo, intrusivo, costruito sulla prevalenza della comunicazione, e in particolare della pubblicità, in cui il rapporto tra bisogni del cliente – letti e analizzati – e suoi desideri – sollecitati e indotti – crea quel rapporto ambiguo che tante resistenze crea nei movimenti dei consumatori [2]. E, sempre in Scandinavia, abbiamo il caso finlandese, in cui il rapporto tra innovazione d’impresa e intervento intelligente dello Stato costituisce un caso di studio internazionale che dimostra come una politica attiva dello Stato nel promuovere la ricerca e l’innovazione porti a una crescita sistemica basata sulla tecnologia dell’informazione e della comunicazione [3].
Abbiamo poi il caso francese e quello tedesco, che vedono un opposto, ma egualmente efficace, intervento dello Stato nel rapporto con le imprese, da un lato attraverso l’alta qualità dell’intervento centrale – formazione dei quadri di alto livello, intervento sui campioni nazionali, coinvolgimento dei sindacati – e dall’altro attraverso il rapporto impresa-Land, e cioè basandosi su di un tipo di sviluppo che coinvolge con molta più determinazione istituzionale i territori.
C’è poi l’esperienza dell’EFQM, gestito dalla European Foundation for Quality Management (EFQM) [4], un’organizzazione non profit fondata nel 1988 per iniziativa di alcune tra le principali aziende europee. La fondazione ha lo scopo di promuovere un modello di riferimento per la qualità attraverso un approccio complessivo più esteso ed articolato rispetto ai modelli classici ISO 9000. Nell’EFQM l’azienda viene analizzata in base a elementi che presentano un’attenzione più spiccata verso le risorse umane e il loro coinvolgimento, un approccio più sistemico all’organizzazione, meno orientato ad una lettura dei processi organizzativi troppo meccanica come nei classici modelli ISO. Non a caso la mission dell’EFQM è sintetizzata così: EFQM brings together organisations striving for Sustainable Excellence.
Anche l’Italia ha in questo settore esperienze e casi di successo: lo sviluppo basato sui distretti e sul rapporto tra imprese e sistema di stakeholders locali [5]. Un modello che non solo ha in sé un progetto di sviluppo compatibile, di relazione forte con le identità locali e con un’idea di territorio di grande interesse in epoca di culture globali, ma che presenta anche un caso di riferimento per il mondo della piccola impresa, che nell’accezione italiana non è un’impresa che troverà il successo crescendo dimensionalmente, ma che nella sua attuale dimensione, e nelle relazioni con i sistemi locali in cui è inserita, trova una sua stabile ragion d’essere [6]. Un modello che può essere considerato di grande interesse in tutti quei paesi che cercano una via di sviluppo che conservi il rapporto con le radici, e che non consideri la specificità locale e la piccola dimensione dei pesi di cui liberarsi. Legato al tema dello sviluppo locale c’è quello del marketing territoriale, e cioè della capacità di un territorio di migliorare competitività e attrattività con una politica responsabile di sviluppo [7].
Ancora nel marketing si trovano alcune riflessioni, e alcune esperienze di forte interesse. Pensiamo al marketing mediterraneo [8], una riflessione sulle modalità di comunicazione e di proposta commerciale che parte dalle riflessioni teoriche di un filosofo italiano [9], che propone la scoperta del pensiero meridiano, come ricerca della felicità attraverso la comunicazione, la lentezza, gli scambi. Ho citato “lentezza” alludendo al caso più importante e riuscito di modello europeo del business secondo i principi qui rapidissimamente citati, quello dello Slow Food, in cui si propone un modello di consumo fortemente valoriale (come vuole la teoria del marketing) ma legato al territorio, alla tutela dei valori della tradizione, al rispetto della “Terra Madre”, alla valorizzazione della piccola impresa.
Casi diversi, situazione fortemente radicate in una storia e quindi non esportabili meccanicamente, e modelli che facilmente possono essere invece trasferiti. Ma casi tutti che dimostrano che la riflessione e la modellizzazione possono arrivare a delineare quel paradigma europeo di cui abbiamo parlato., un paradigma che si può sintetizzare nel temine “sostenibilità”, che riguarda il sociale, l’ambientale, le risorse umane.
Ripartire da Lisbona dunque vuol dire lavorare con forza a costruire una teoria del management, dell’organizzazione, dell’impresa che possa rappresentare l’idea di Europa. Anche di qui passa il rovesciamento di una politica economica che vede la soluzione ai problemi di competitività del nostro continente tutta iscritta nella politica dei tagli e della riduzione per il Welfare.
* Università di Salerno.
[1] Si veda un classico sullo sviluppo critico della produzione di massa: Michael J.Piore Charles F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, Torino, Isedi, 1987.
[2] Mi fermo a citare due classici: Richard Normann, La Gestione Strategica dei servizi, Milano, Etas, 1992. Christian Grönroos Management e marketing dei servizi, Torino, ISEDI, 1994.
[3] Manuel Castells, Pekka Himanen, Società dell’informazione e welfare state. La lezione della competitività finlandese, Milano, Guerini e Associati, 2006.
[4] http://www.efqm.org
[5] Enrico Cicciotti Paolo Rizzi, Politiche per lo sviluppo territoriale, Roma, Carocci, 2005
[6] Nella sterminata bibliografia sui distretti si vedano i lavori, pur diversi per profondità d’indagine e approccio scientifico, dell’economista Giacomo Becattini Il distretto industriale, Torino Rosenberg & Sellier , 2000 e del sociologo Aldo Bonomi. Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel nord Italia, 1997, Torino, Einaudi.
[7] Matteo G. Caroli, Il marketing territoriale, Milano, Franco Angeli, 2006.
[8] Il progetto teorico viene affrontato in Francois Silva Antonella Carù Beranrd Cova (a cura di) Marketing méditerranée et postmodernité, Marseille, Editions Euromed, 2005. Vedi ANCHE Antonella Carù, Bernard Cova, Marketing Mediterraneo, Milano, Egea, 2006, che presenta una serie di casi di studio.
[9] Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Bari, Laterza, 1996.
http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/ripartire-da-lisbona/
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Mondadori, il Cavaliere è nudo
Red, 19.08.2010
Il 22 maggio scorso la Camera, trasformatasi per la 37esima volta in sartoria personale del premier, ha cucito una norma che ha tutto l’aspetto di un vestito fatto a posta per sanare le pendenze di Mondadori con il fisco. L’effetto è stato quello di far risparmiare all’azienda di Berlusconi, sottraendoli allo Stato, 165 mln di euro
I favori fiscali di cui ha beneficiato la Mondadori grazie alle norme ad hoc approvate dall’esecutivo, sono un atto gravissimo, una vera e propria alterazione delle regole di mercato. Uno schiaffo in faccia agli italiani onesti. Emerge ancora una volta l’enormità del conflitto di interessi del presidente del Consiglio e la natura corporativa di un governo che si preoccupa degli interessi del premier dimenticando gli italiani.
Secondo Bossi, Berlusconi e Tremonti il 5% è quanto devono pagare i grandi evasori nel nostro paese. Peccato che gli italiani in regola con il fisco paghino oltre il 43%. Fa senso sentir parlare di nuovo redditometro e di evasione fiscale e scoprire poi che il governo, per legge, la consente agli amici o alle aziende del premier. Si fanno favori fiscali a Mondadori ma si tagliano i soldi agli enti locali obbligandoli ad aumentare le tasse ai cittadini per continuare a garantire loro servizi essenziali. Si aiuta Mondadori e intanto l’economia italiana è maglia nera tra i paese sviluppati.
Dai banchi del Pd arriva quindi la richiesta di chiarimento. “Tremonti venga in parlamento e renda noto l’elenco delle aziende che hanno beneficiato, oltre alla Mondadori, dell’articolo 3 del decreto incentivi che ha offerto soluzioni per le controversie tributarie. Insomma, venga a smentire, se può, che sia stato un condono ‘privato’ per l’azienda della famiglia Berlusconi”, chiede Francesco Boccia, coordinatore delle commissioni Economiche del Pd, il quale ricorda che “il gruppo dei Pd sollevò in Aula sdegnate e forti proteste contro quella norma proprio perché rappresentava un evidente caso di conflitto di interessi. Infatti, la Mondadori avrebbe incassato la sospensione della causa civile promossa dall’Agenzia delle Entrate. Tutto ciò avveniva mentre si chiedevano sacrifici al paese: ora Tremonti e l’intero Governo Berlusconi si prendano la responsabilità di spiegare questa gestione privata nel nostro sistema tributario”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15601
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Ecco perché al Polo Sud i ghiacci resistono 16.08.2010
Studiosi americani provano a dare una risposta a uno dei maggiori paradossi climatici del pianeta: mentre nella regione artica i ghiacciai si riducono, in Antartide l’aumento della temperatura provoca evaporazione marina e maggiori nevicate. Ma il fenomeno non è destinato a durare
di LUIGI BIGNAMI
C’è un paradosso climatico sul nostro pianeta che stentava a trovare una spiegazione. Ma ora ci sono riusciti ricercatori del Georgia Insitute of Technology, il cui lavoro è stato pubblicato su Proceedings of the National Academy of Science. Il paradosso consistente in questo: l’aumento della temperatura terrestre sta facendo sciogliere i ghiacci del Polo Nord ad una velocità tale che ogni 10 anni essi diminuiscono del 10% la loro superficie. In questi giorni ad esempio, essi si estendono per 8,39 milioni di chilometri quadrati, ossia 1,71 milioni di chilometri quadrati al di sotto della media dell’area misurata tra il 1979 e il 2000. E si estendono per soli 260.000 kmq in più rispetto al 2007, anno in cui si ebbe il minimo assoluto. Secondo gli esperti del National Snow and Ice Data Center degli Stati Uniti non si è arrivati ai valori di due anni fa solo perché da settimane il Polo Nord è interessato a bufere, tempo nuvoloso e temperature relativamente fredde che rallentano il tasso di scioglimento giornaliero (si aggira attorno ai 77.000 kmq al giorno).
Al contrario invece, i ghiacci del Polo Sud stanno aumentando di circa l’1% per decade, anche se non in modo omogeneo (i ghiacci della Penisola Antartica infatti, vedono una diminuzione della loro estensione). Come è possibile una così diversa situazione? Risulta facile infatti, spiegare perché i ghiacci del Polo Nord si sciolgono così velocemente: l’aumento della temperatura terrestre infatti, nella regione artica, in questi anni ha toccato valori di 4°C sopra le medie dell’ultimo secolo. Mentre non è chiaro perché al Polo sud oltre a non esserci una diminuzione dell’estensione glaciale c’è addirittura un loro aumento. E c’è da chiedersi se questo fenomeno continuerà in futuro.
Ecco la risposta di Jiping Liu, un ricercatore del Georgia Insitute of Technology: “Attualmente, con il crescere della temperatura terrestre si determina, tra l’altro, un aumento dell’evaporazione dei mari che circondano l’Antartide. Il vapore acqueo si trasforma in neve che precipita sul continente antartico e la quantità di tali precipitazioni produce un aumento di ghiaccio che è superiore a quello che viene sciolto al di sotto delle lingue glaciali che dalla calotta antartica arrivano in mare, in seguito all’aumento di temperatura di quest’ultimo.
Altri ricercatori inoltre, avevano avanzato anche l’ipotesi che il buco dell’ozono abbia creato una circolazione di venti molto freddi che tengono l’Antartide ad una temperatura assai bassa, tale che l’aumento della temperatura globale del pianeta non riesce ad interessare il continente.
Ma la situazione tenderà a mutare velocemente. “Prendendo come riferimento i modelli climatici che indicano un aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera ancora per l’attuale secolo – piega Liu- ben presto lo scioglimento dei ghiacci da parte dell’acqua oceanica sopravarrà la quantità di neve che cadrà sulla calotta antartica, anche perché le temperature potrebbero portare una notevole quantità di precipitazione piovose anche sui bracci di ghiaccio che arrivano in mare”. E a questo c’è da aggiungere un altro fattore: la diminuzione del buco dell’ozono determinerà un aumento della temperatura che sarà causa di uno scioglimento anche dei ghiacci che appoggiano sul continente. Queste situazioni, che potrebbe avverarsi nell’arco di pochi decenni, porteranno ad un’inversione della tendenza dei ghiacci antartici a crescere e dunque a una situazione che verrà a pareggiarsi con quella del Polo Nord.
http://www.repubblica.it/ambiente/2010/08/16/news/clima_poli-6316246/
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Crisi. Creando la moneta comune prima di aver realizzato l’Europa politica, economica e sociale, l’Unione Europea ha messo il carro davanti ai buoi
L’impossibile gestione dell’euro 08.2010
di Samir Amin
Non c’è moneta senza Stato. Insieme, Stato e moneta, costituiscono nel capitalismo lo strumento per la gestione degli interessi generali del capitale, che trascendono quelli particolari dei segmenti di capitale in concorrenza. L’ideologia corrente che immagina un capitalismo gestito dal “mercato”, addirittura senza Stato (ridotto alle sue funzioni minimali di guardiano dell’ordine), non si fonda né su una seria lettura della storia del capitalismo reale, né sua una teoria asseritamente “scientifica” capace di dimostrare che la gestione del “mercato” possa produrre – sia pure tendenzialmente – un qualsiasi equilibrio (a fortiori ottimale).
Una regione profondamente ineguale
L’euro è stato creato senza uno Stato europeo che si sostituisse agli Stati nazionali, le cui funzioni essenziali di gestione degli interessi generali del capitale erano esse stesse in via di abolizione. Il dogma di una moneta “indipendente” dallo Stato esprime questa assurdità.
L’Europa politica non esiste. A onta dell’idea ingenua di superamento del principio di sovranità, gli Stati nazionali restano gli unici a godere di legittimità. Non c’è una maturità politica capace di far accettare, da parte di un qualsiasi popolo di una qualunque delle nazioni storiche che formano l’Europa, i risultati di un “voto europeo”. Lo si può auspicare; ma occorre attendere ancora parecchio perché emerga una legittimità europea.
L’Europa economica e sociale nemmeno esiste. Un’Europa di venticinque o trenta Stati resta una regione profondamente ineguale nel suo sviluppo capitalista. I gruppi oligopolistici che controllano ormai tutta l’economia (e al di là della politica corrente e la cultura politica) della regione sono gruppi che hanno una “nazionalità”, che discende da quella dei loro più importanti dirigenti. Si tratta di gruppi soprattutto inglesi, tedeschi, francesi, qualche volta olandesi, svedesi, spagnoli, italiani. L’Europa dell’est, e in parte quella del sud, si trovano in un rapporto con l’Europa del nord-est e del centro analogo a quello che c’è nelle Americhe tra l’America latina e gli Stati uniti. L’Europa è in queste condizioni solo un mercato comune, addirittura unico, che fa esso stesso parte del mercato globale del capitalismo tardivo degli oligopoli generalizzati, mondializzati e finanziarizzati. Da questo punto di vista, l’Europa è – come ho già scritto – “la regione più mondializzata” del sistema globale.. Da questa realtà, rafforzata dal dato dell’impossibilità di un’Europa politica, discende una diversità del livello dei salari reali, dei sistemi di sicurezza sociale e di fiscalità, che non possono essere modificati e omogeneizzati dalle istituzioni europee.
L’istituzione dell’euro ha messo dunque il carro davanti ai buoi. I suoi promotori politici l’hanno d’altronde anche confessato qualche volta, sostenendo che l’operazione avrebbe costretto “l’Europa” a costruire il suo Stato transnazionale, risistemando così il carro dietro ai buoi. Questo miracolo non è avvenuto e tutto lascia prevedere che non avverrà. Io ho avuto l’occasione, alla fine degli anni 1990, di esprimere i miei dubbi su questa manovra. L’espressione (“mettere i carri davanti ai buoi”), che avevo usato , è stata ripresa recentemente da un alto responsabile della creazione dell’euro che, in una certa occasione, mi aveva detto che il mio giudizio era pessimista senza ragione. Un sistema assurdo di questo tipo non poteva dare l’impressione di funzionare se non in una congiuntura facile e favorevole, ho scritto. Bisognava dunque attendersi quello che è successo: dal momento che è scoppiata una “crisi” (sembrò in un primo tempo di tipo “finanziario”), la gestione dell’euro doveva rivelarsi impossibile, incapace di permettere risposte coerenti e efficaci.
“Serpente monetario europeo”
La crisi in corso è destinata a durare, addirittura ad approfondirsi. I suoi effetti sono diversi, e spesso diseguali, in ciascun paese europeo . Le risposte sociali e politiche alle sfide che la crisi pone alle classi popolari, alle classi medie, ai sistemi di potere politico, sono e saranno diversi da un paese all’altro. La gestione di questi conflitti destinati a crescere è impossibile in assenza di uno Stato europeo reale e legittimo; e lo strumento monetario di questa gestione non esiste.
Le risposte date dalle istituzioni europee (Banca centrale europea inclusa) alla “crisi” (greca e non solo) sono dunque assurde e destinate al fallimento. Queste risposte possono riassumersi in una sola parola: austerità dappertutto, per tutti, e sono analoghe alle risposte date dai governi nel 1929-1930. E, così come quelle ebbero come risultato di aggravare la crisi reale, queste elaborate oggi a Bruxelles produrranno lo stesso effetto.
Ciò che sarebbe stato possibile nel corso degli anni 1990 avrebbe dovuto essere realizzato nell’ambito di un “serpente monetario europeo”. Ogni nazione europea, mantenendo intera la sua sovranità, avrebbe dunque gestito la sua economia e la propria moneta secondo le proprie possibilità e bisogni, anche se limitati dai vincoli comunitari del mercato comune. L’interdipendenza sarebbe stata istituzionalizzata dal serpente monetario: le monete nazionali sarebbero state scambiate a un tasso fisso (relativamente fisso), revisionato quando necessario con aggiustamenti negoziati (svalutazione e rivalutazione).
Si sarebbe allora aperta una prospettiva – lunga – di un irrigidimento del serpente (in preparazione magari dell’adozione di una moneta comune). I progressi in questa direzione sarebbero stato misurati dalla convergenza – lenta, progressiva – nell’efficacia dei sistemi di produzione, dei salari reali e della previdenza sociale. In altri termini, il serpente avrebbe facilitato – e non reso più difficoltosa – una omogeneizzazione possibile sempre più ampia. Essa avrebbe avuto bisogno di politiche nazionali aventi obiettivi – e gli strumenti politici adeguati – quali il controllo dei flussi finanziari, che esige il ripudio dell’assurda integrazione finanziaria deregolata e senza frontiere.
Sistema assurdo
La crisi dell’euro potrebbe fornire l’occasione di abbandonare il sistema assurdo della gestione di questa moneta illusoria e l’attuazione di un serpente monetario europeo rispettoso delle reali possibilità dei paesi coinvolti.
La Grecia e la Spagna potrebbero innescare il movimento, decidendo, da un lato, di uscire (“provvisoriamente”) dall’euro, dall’altro, di svalutare; infine di instaurare il controllo dei cambi, almeno per quello che riguarda i flussi finanziari. Questi paesi si troverebbero allora in una posizione di forza per negoziare davvero il riscadenziamnto dei loro debiti, dopo audit e mancato riconoscimento di debiti legati ad operazioni di corruzione o di speculazione (ai quali gli oligopoli stranieri hanno partecipato e dai quali hanno tratto grandi benefici). L’esempio, ne sono persuaso, farebbe scuola.
Sfortunatamente la probabilità di un’uscita dalla crisi in questo modo è probabilmente pari a zero. Perché la scelta della gestione dell’euro “indipendente dagli Stati” ed il rispetto sacro della “legge dei mercati finanziari” non sono il risultato di un pensiero teorico assurdo. Essi convengono perfettamente alla difesa del predominio degli oligopoli. Essi costituiscono dei pezzi della costruzione europea, concepita esclusivamente e integralmente per impedire la messa in discussione del potere economico e politico esercitato da questi oligopoli a loro esclusivo beneficio.
Verso un’Europa di sinistra?
In un articolo pubblicato su numerosi siti web, intitolato “Open letter by G. Papandreou to A. Merkel”, gli autori greci di questa lettera immaginaria paragonano l’arroganza della Germania di ieri e di oggi. Per due volte nel XXI secolo le classi dirigenti di questo paese hanno perseguito il progetto chimerico di plasmare l’Europa con mezzi militari ogni volta sovrastimati. Il loro obiettivo di leadership di una Europa concepita come “zona marco” non è anch’essa fondata sulla sovrastima della superiorità dell’economia tedesca, di fatto relativa e fragile?
Un’uscita dalla crisi non sarà possibile se non nella misura in cui una sinistra radicale osi assumere l’iniziativa politica della costituzione di blocchi storici alternativi anti-oligarchici. L’Europa sarà di sinistra o non sarà, ho scritto. L’allineamento delle sinistre elettorali europee all’idea che “l’Europa, così come è, è meglio della non Europa” non consente di uscire dall’impasse, che esige la rinegoziazione delle istituzioni e dei trattati europei. In mancanza, dunque, il sistema dell’euro, e dietro di esso quello dell’Europa come è, si impantanerà in un caos la cui uscita è imprevedibile. Tutti gli scenari possono allora essere immaginati, ivi compreso quello che si pretende di voler evitare, della rinascita di progetti di ultra destra. In queste condizioni, per gli Stati Uniti, la sopravvivenza di una Unione Europea assolutamente impotente o la sua deflagrazione non fa grande differenza. L’idea di una Europa unita e potente che sia capace di costringere Washington a tener contro dei suoi punti di vista e dei suoi interessi si rivela un’illusione.
http://www.ossin.org/analisi-e-interventi/euro-samir-amin-crisi-europea.html
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Continua l’attacco a Wikileaks 24.08.2010
Dopo le accuse di stupro rivolte al responsabile, Julian Assange, il Wall Street Journal monta il caso dei finanziamenti misteriosi.
Wikileaks, il sito che pubblica materiale riservato ultimamente responsabile della diffusione di notizie sulla missione in Afghanistan, non ha mai avuto vita semplice: la sua stessa esistenza non è gradita da chi produce quei documenti riservati che il sito rende noti.
Ultimamente però ci sono alcune coincidenze che, osservate da un certo punto di vista, sembrano quasi andare a costituire un attacco proprio contro Wikileaks.
La prima mossa è stata fatta da due donne svedesi che hanno denunciato per stupro Julian Assange, portavoce e responsabile di Wikileaks. La notizia ha immediatamente attraversato la Rete inquinando l’immagine “romantica” che vede Assange lottare contro le forze che vogliono nascondere la verità.
Nel giro di poche ore, tuttavia, le accuse sono state archiviate: il giudice che si è occupato del caso le ha definite troppo generiche e prive di prove. Si è così rafforzato il sospetto che l’intera vicenda fosse stata montata per versare un po’ di fango gratuito su Assange e, di riflesso su Wikileaks.
L’ultimo episodio nasce invece da un articolo del Wall Street Journal, che si chiede in che modo il sito riesca a racimolare le ingenti somme necessarie al suo funzionamento (si parla di circa 200.000 dollari all’anno per il mantenimento dei server e degli archivi).
L’accusa, neanche troppo velata, è che la trasparenza che Wikileaks sbandiera quando si tratta dei documenti altrui improvvisamente svanisca quando la questione riguarda i propri conti.
Riporta il Wall Street Journal che, al di là delle donazioni volontarie (che si possono indirizzare a una fondazione tedesca, la Wau Holland), il grosso dei finanziamenti deriva da quelli che Assange ha definito “contatti personali” di persone con ampie disponibilità economiche e che hanno deciso di finanziare anonimamente il sito.
Wikileaks a causa della propria attività si trova in una situazione oggettivamente ambigua: lo stesso Assange ammette che il sito è registrato “come una biblioteca in Australia, come una fondazione in Francia, come un giornale in Svezia” e si finanzia attraverso un elaborato sistema che garantisce l’anonimato ai sostenitori.
L’intera vicenda non ha fatto altro che sollevare sulla correttezza delle operazioni di Wikileaks ulteriori sospetti i quali, capitando subito dopo che si è sgonfiato il caso relativo alle accuse infondate rivolte al responsabile, sembrano costituire qualcosa di più di una coincidenza.
http://www.zeusnews.it/index.php3?ar=stampa&cod=12869&numero=907
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Come si finanzia Wikileaks 23.08.2010
L’organizzazione utilizza un intricato sistema basato su alcune fondazioni per ricevere le donazioni e affrontare le spese
I costi fissi per Wikileaks superano i 160mila euro all’anno
La pubblicazione a luglio dei Diari di guerra (i cosiddetti War Logs) contenenti i documenti classificati del Pentagono e delle autorità statunitensi sul conflitto in Afghanistan ha attirato l’attenzione dei media mondiali verso Wikileaks, l’organizzazione coordinata da Julian Assange che ha diffuso online le informazioni riservate sulla guerra. Per tutelare i propri collaboratori e le loro fonti, Wikileaks non lascia trapelare molte informazioni sulla propria struttura interna e su come riesca a mantenersi in vita grazie alle donazioni ricevute da società e singoli finanziatori.
In un lungo articolo pubblicato oggi sul sito del Wall Street Journal, Jeanne Whalen e David Crawford cercano di ricostruire l’intricato percorso che segue il denaro utilizzato dai responsabili di Wikileaks.
La principale fonte di finanziamento dell’organizzazione è una fondazione creata in Germania, la Wau Holland Foundation. La fondazione raccoglie le donazioni e grazie alle leggi tedesche può mantenere il segreto sui nomi dei donatori. Ma non c’è solamente la Germania, spiegano sul Wall Street Journal citando le parole di Assange:
«Siamo registrati come una biblioteca in Australia, come una fondazione in Francia, come un quotidiano in Svezia» dice Assange. Wikileaks ha due organizzazioni non profit negli Stati Uniti, che lavorano come «testa di ponte» per il sito web. Assange non ha però detto i nomi delle due organizzazioni, sostenendo che avrebbero potuto «perdere parte dei loro finanziamenti a causa degli interessi politici»
Circa la metà dei soldi che riceve Wikileaks provengono dalle piccole donazioni effettuate dagli utenti sul sito web dell’organizzazione, mentre l’altra metà arriva direttamente da singoli finanziatori con i quali Assange e colleghi sono in contatto. Si tratta di persone che in genere hanno a disposizione «diversi milioni e che si fanno sentire per donare tra i 60mila e i 10mila» spiega Assange, senza specificare in quale valuta, probabilmente dollari.
Buona parte delle transazioni economiche orbita comunque intorno alla Wau Holland e ricevere i soldi non è per nulla semplice. Per ottenere il denaro Wikileaks deve presentare delle ricevute alla fondazione che poi attiva i rimborsi. La legge tedesca richiede però alle fondazioni di rendere pubbliche le spese, così quelli di Wikileaks utilizzano altre organizzazioni secondarie per mettere insieme diverse ricevute e presentarle poi alla Wau Holland. In pratica Assange e colleghi cercano di disperdere le tracce delle loro spese e dei soggetti con cui fanno affari inserendo passaggi intermedi che garantiscano l’anonimato.
Questi passaggi intermedi per confondere le acque sono indispensabili per alcune voci di spesa fondamentali come i pagamenti per le infrastrutture per il sito web. Il sistema permette anche di mantenere segreti i luoghi in cui si trovano i server di Wikileaks che contengono i documenti visibili sul sito. Ciò consente di mantenere più al sicuro i dati e riduce la possibilità di sequestro del materiale da parte delle autorità dei singoli paesi.
Fino a ora, la Wau Holland ha distribuito 50mila euro a un conto di Wikileaks in Germania, solamente in cambio di ricevute, sostengono Daniel Schmitt, portavoce di Wikileaks, e Hendrik Fulda, consigliere della fondazione. Schmitt si occupa del conto. Mediamente una donazione per Wikileaks attraverso la fondazione è di 20 euro. La donazione più grande ricevuta, 10mila euro, è arrivata da un donatore tedesco dopo la pubblicazione dei documenti di guerra sull’Afghanistan, dice Fulda senza aggiungere altri dettagli.
Wikileaks spende in media 160mila euro all’anno per alcuni costi fissi come le tariffe per la propria Rete, l’affitto e la gestione dei server del sito web. A queste spese si aggiungono poi quelle per le altre strumentazioni, per i viaggi e le spese legali. Se l’organizzazione dovesse mettersi a pagare collaboratori e staff, la cifra complessiva dei costi annui potrebbe superare i 450mila euro.
Stando a quanto racconta Fulda, Wikileaks ha bisogno ogni mese di 10/15mila euro per mantenere la propria presenza online. Lo scorso anno l’organizzazione non era ancora molto conosciuta e le donazioni superavano di rado i 3mila euro al mese. La mancanza di risorse spinse i responsabili di Wikileaks a sospendere le operazioni nel dicembre del 2009, lasciando online solamente un appello per ottenere nuove donazioni attraverso la Wau Holland. In poco tempo il numero di finanziamenti aumentò di venti volte, ma si ridusse nuovamente quando finita l’emergenza il sito web tornò online.
Le fluttuazioni nelle donazioni sono inevitabili, ma non sono viste positivamente da parte delle società che gestiscono le transazioni online. È il caso di PayPal, il sistema per i pagamenti con carta di credito online, che ha deciso di ricostruire attentamente l’andamento delle donazioni a Wikileaks prima di autorizzare i pagamenti per l’organizzazione. I tempi lunghi sono dovuti al sistema utilizzato da PayPal che mira a proteggere i propri clienti dalle possibili frodi e richiede alcuni controlli incrociati.
Per le donazioni online Wikileaks ha deciso di adottare altri intermediari, ma non tutti sono disposti a fare i conti con le fluttuazioni dei finanziamenti. Moneybookers, una società simile a PayPal, ha deciso di interrompere i rapporti con l’organizzazione coordinata da Assange perché non raggiungeva più gli standard richiesti dall’azienda. Le donazioni arrivano a ondate e in genere in corrispondenza della pubblicazione di nuovi documenti riservati da parte di Wikileaks. Sull’arrivo di nuove donazioni incidono anche le campagne di raccolta fondi che periodicamente vengono attivate dall’organizzazione per ricevere nuovo sostegno. Mantenere i propri segreti e rivelare quelli degli altri può essere costoso.
http://www.ilpost.it/2010/08/23/come-si-mantiene-wikileaks/
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I problemi della Cina con gli ospedali 14.08.2010
Medici incompetenti, corruzione a ogni livello e le continue aggressioni al personale da parte dei pazienti
Gli ospedali pubblici cinesi hanno diversi problemi. Non ci sono medici e infermieri a sufficienza. Non tutti i medici sono adeguatamente competenti, alcuni sono addirittura corrotti. Nessuno di questi però è il più grave dei problemi degli ospedali cinesi, secondo i funzionari che li gestiscono, perché ce ne sarebbe uno ancora peggiore: le continue aggressioni al personale sanitario da parte dei pazienti o di loro parenti, insoddisfatti dall’assistenza ricevuta. E per questa ragione il mese scorso i direttori degli ospedali pubblici di Shenyang hanno deciso di elevare le guardie giurate al rango di vice amministratori degli ospedali.
Il New York Times racconta che secondo il ministero cinese della salute soltanto nel 2006 oltre cinquemila medici vennero aggrediti dalle persone che avevano in cura o dai loro familiari. Lo scorso giugno ben cinque dottori sono stati feriti dai loro pazienti: uno è stato accoltellato a morte dal figlio di un suo paziente morto di cancro; tre sono stati gravemente ustionati dall’incendio appicato da un malato; un pediatra è rimasto ferito dopo essersi lanciato dal quinto piano per sfuggire ai genitori di un bambino morto mentre lui l’aveva in cura. Non è raro inoltre che i familiari di pazienti deceduti in ospedale obblighino i medici che li assistevano a vestire a lutto.
Secondo molti medici e infermieri la rabbia dei pazienti nei loro confronti sarebbe dovuta alle aspettative esagerate nei confronti del loro lavoro. Spesso si tratta di persone che devono affrontare lunghi viaggi per raggiungere l’ospedale più vicino, e che investono i risparmi di una vita nella speranza di essere guariti: quando questo non accade sfogano la loro frustrazione su quelli che considerano i colpevoli.
Il New York Times scrive invece che questa insoddisfazione sarebbe causata dalle inadeguatezze del sistema sanitario cinese. Fino agli anni Ottanta, il governo aveva garantito l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini. L’assistenza non era gratuita ma disponibile dietro pagamento di tariffe nominali, cioè non influenzate dalle leggi della domanda e dell’offerta. Questo sistema venne abbandonato negli anni Novanta e gli ospedali furono lasciati soli ad affrontare la nuova economia di mercato. Il risultato è stato un aumento impressionante della disuguaglianza di cure offerte nelle cliniche private e in quelle pubbliche.
Nel 2000 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stilato una classifica sull’equità dei sistemi sanitari nazionali, e la Cina figurava al 188esimo posto su 192 nazioni. In quegli anni solo due malati su cinque due venivano curati, e soltanto una persona su dieci aveva un’assicurazione sanitaria. Negli ultimi sette anni, lo stato ha cercato di migliorare questa situazione. Ha investito ben dieci miliardi di dollari per costruire ospedali e garantire l’assicurazioni medica ai cittadini, ed è riuscito a diminuire in modo significativo il divario tra la sanità pubblica e quella privata. La Banca mondiale stima che al momento oltre tre cinesi su quattro hanno un’assicurazione sanitaria, seppure di base. Inoltre negli ultimi anni è aumentato anche il numero di ospedali nelle zone rurali, facilitando l’accesso alle cure di un numero crescente di persone.
Un altro grave problema a cui il governo dovrà trovare soluzione è l’insufficiente preparazione dei medici. Secondo l’OCSE in Cina la metà dei dottori ha soltanto un diploma di scuola superiore, e molti medici di campagna hanno appena la licenza media. Per questo le persone sono spesso curate in modo inadeguato: una su cinque è ricoverata per un semplice raffreddore o per un’influenza. Una volta entrati in ospedale, i malati rischiano di essere operati praticamente senza motivo.
Inoltre i medici tendono spesso a prescrivere una quantità eccessiva di farmaci o di esami diagnostici. La vendita di medicine infatti rappresenta la seconda fonte di entrate per gli ospedali pubblici, e in alcuni casi gli stipendi dei dottori sono proporzionali al denaro che fanno guadagnare all’ospedale; in altri sono le case farmaceutiche a corromperli. Negli ultimi dieci anni il ministro della Sanità cinese ha ordinato più volte agli ospedali di ridurre il costo di alcuni farmaci fondamentali, ma secondo la Banca Mondiale l’unico risultato è stato che i medici hanno prescritto altri farmaci più costosi. Il governo ha approvato un nuovo piano per finanziare coperture assicurative, ma molti temono che un’ulteriore ondata di denaro nel settore possa aumentare il livello di corruzione senza garantire migliori cure alle persone.
http://www.ilpost.it/2010/08/14/problemi-ospedali-cina/
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Per lo studente l’affitto è ‘protetto’. Lo dice la legge, ma pochi lo sanno 24.08.2010
di Federico Formica
Il prezzo del contratto di affitto per gli universitari è legato a doppio filo al diritto allo studio. Ma c’è una norma che garantisce canoni agevolati agli studenti fuori sede. I consigli per le ‘matricole’
Per il popolo degli studenti universitari fuori sede si avvicina la data del trasferimento, nel caso delle matricole, o del ritorno nella città “adottiva”. E per molti di loro, è già il momento di mettersi alla ricerca di una stanza o di un appartamento dove passare i prossimi mesi o i prossimi anni. Possibilmente, a prezzi abbordabili. Il prezzo del contratto di affitto per gli universitari, infatti, è legato a doppio filo al diritto allo studio. Più aumentano i canoni mensili, meno famiglie potranno permettersi di mantenere un figlio fuori città.
A leggere i risultati delle indagini più recenti, l’impressione è che il mercato si sia trasformato in una giungla ormai ingestibile. Eppure in Italia una legge che tutela i diritti degli studenti fuori sede c’è, solo che nessuno lo sa.
È la 431 del 1998. La legge prevede che gli universitari (anche i ‘fuori corso’) abbiano diritto a canoni d’affitto “calmierati” e stabiliti da un accordo tra le associazioni di categoria e il comune. Ogni città ha una tabella in cui vengono riportate, zona per zona, il canone minimo e il canone massimo che il proprietario può esigere. Oltre a dover attestare il proprio status di studente, l’altra condizione per avere diritto a una tariffa inferiore al prezzo di mercato è che il contratto abbia una durata minima di 6 mesi e una massima di 36 mesi.
Secondo la legge 431, il contratto può essere sottoscritto anche da un gruppo di studenti. Se uno dei locatari decide di cambiare casa, basta che ci sia il consenso del proprietario e dal contratto verranno tolti, o sostituiti, il suo nome e la sua firma.
I proprietari che affittano alle condizioni stabilite dalla legge hanno diritto ad agevolazioni fiscali. Gli studenti potranno infatti denunciare nella dichiarazione dei redditi il 40,5% in meno dell’effettivo canone mensile e il 30% in meno dell’imposta di registro. Sembra incredibile, viste le immense proporzioni dell’evasione fiscale in questo settore. Eppure è tutto vero.
Se la legge c’è ed è in vigore, perché non viene applicata? “Perché quasi sempre, sono gli stessi studenti a ignorarne l’esistenza” risponde Laura Mariani, segretario nazionale di Sunia, il sindacato unitario degli inquilini e degli assegnatari. Che propone due consigli ai ragazzi fuori sede.
– chi ha un contratto già in corso deve leggerlo attentamente e verificare che il canone e le clausole corrispondano alla normativa nazionale.
– Chi sta cercando casa, chieda sempre in modo esplicito al proprietario il rispetto della legge 431. Quando è possibile, rivolgersi ad agenzie create e controllate dagli enti locali e dalle associazioni di categoria. A Roma c’è l’Agenzia degli affitti mentre a Milano c’è l’Agenzia Uni.
Queste agenzie garantiscono rispetto della legge e assistenza allo studente per qualsiasi controversia sul contratto. Altrimenti, c’è sempre il numero verde della Guardia di Finanza: il 117.
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I costruttori cinesi si alleano per le auto elettriche 24.08.2010
Un gruppo di costruttori Cinesi si unirà per investire sulle auto elettriche sotto la denominazione The Association of the Electric Vehicle Industry. Saranno 16 le aziende che aderiranno al progetto, tra cui Dongfeng e Chang’an, legate al gruppo PSA e Nissan e FAW, che collabora con il gruppo VAG, forti anche del supporto governativo. L’obiettivo è quello di dominare l’emergente settore delle auto elettriche, stimato in 500.000 vetture già nei prossimi 3 anni e definire subito degli standard tecnologici comuni.
Gli investimenti previsti nei prossimi 10 anni sono stimati in circa 15 miliardi di dollari, sia per le elettriche pure che per le ibride. Importante sottolineare anche che, nel gruppo, parteciperanno anche la State Grid Corporation e la China National Petroleum Corporation, per garantire anche gli sviluppi delle infrastrutture.
Via | Autoevolution
Un commento interessante (Pippoplutopaperino):
L’elettrico, ora come ora, ha un sacco di problemi e limitazioni. Fin tanto che l’energia viene prodotta da centrali a carbone, questa non può esser considerata come un sistema di alimentazione pulito. Andrebbe usata solo energia creta da fonti rinnovabili, come ad esempio quella creata bruciando il gas prodotto dalle biomasse.
Come sapete però per ogni trasformazione si perde una percentuale di energia (in questo caso in calore + dispersione). Che senso ha quindi creare elettricità bruciando biogas quando posso far andare il motore dell’auto direttamente a biogas ?
Nessuno. Infatti resto dell’idea che il sistema di alimentazione del ‘futuro a breve termine’, in attesa di qualcosa di migliore, sia appunto il biogas.
Anche perchè è fondamentalmente del metano, quindi già compatibile con tutte le vetture. L’unica cosa da fare è spingere su questo carburante.
N.B.: il numero di ottano del metano è superiore a quello della benzina, quindi un motore studiato espressaemnte per questo combustibile avrebbe prestazioni piu’ che degne, come dimostrano i TSI di VW (che comunque sono staqti semplicemente fortemente adattati per il metano, e non studiati completamente ex novo).
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Lodato, Si, mio Signore!
Renzo Francabandera , 25.08.2010
Di una nazione dove l’an privativo ha condizionato vent’anni di storia e il mercato dell’editoria. Di Don Gallo, il “prete maledetto” che ha comprato una vocale e una consonante accettando di interrompere il suo rapporto con la Mondadori dopo l’approvazione della cosiddetta legge “ad aziendam”
Con una serie di interventi, portati all’attenzione del gran numero eminentemente per l’inchiesta di M. Giannini, vicedirettore di Repubblica, si è venuto a sapere di come, mentre si cercava di sollevare il polverone circa gli scontrini IKEA di Gianfranco Fini, attraverso una serie di interventi legislativi molto ben calibrati il colosso editoriale di Segrate di proprietà della famiglia Berlusconi, la Mondadori, ha ottenuto con successo di soffiare al fisco italiano, quindi a tutti noi, alle nostre tasche, all’acqua che ci aumenta, al gas, al sistema impositivo che tutti alimentiamo con le aliquote, con i vari parametri così attenti al centesimo, la non risibile somma di 350 mln €.
La somma si originerebbe da una controversia tributaria con l’Agenzia delle Entrate iniziata nel ’91, dopo una serie di controlli su alcune fusioni infragruppo effettuate per occultare, secondo quando emerge dall’inchiesta giornalistica, plusvalenze e quindi ricchezze tassabili. Ora, grazie al decreto numero 40, approvato dal governo il 25 marzo e convertito in legge il 22 maggio, il principale editore italiano potrà chiudere la maxi-vertenza pagando un mini-tributo: non i 350 milioni di euro previsti ma solo 8,6 , il tutto con un “condono riservato”, o come la stampa lo ha definito, “ad aziendam”. Meglio di Valentino Rossi e del suo patteggiamento assai più salato di qualche anno fa. Meglio di chiunque altro. La Mondadori. La stessa del lodo.
A seguito del disvelamento di questo tentativo, che moltissimi hanno letto come fraudolento nei confronti dell’interesse comune, una serie di letterati, scrittori che pubblicano con Mondadori, ha iniziato a sollevare un coro di proteste, alimentando un crescere di dissenso su questa norma, che concede un patteggiamento extra giudiziale, risolto come in nessun altro Paese si potrebbe.
Queste occorrenze sono le stesse che hanno portato nel mercato editoriale e dei mass media ad una concentrazione che non si ha in nessun altro Paese occidentale e che le agenzie sovra governative di tutto il mondo equiparano a situazioni degne dei paesi dittatoriali.
E ciò è dovuto all’anomalia tutta italiana che fa del nostro Stato una repubblichetta silenziosa sulle sue spalle incurvate dall’ignavia, governata ormai da oltre vent’anni, escluse forse alcune parentesi temporali di inspiegabile sussulto di dignità nazionale, da un gruppo di interessi molto forte (che va evidentemente oltre il nucleo familiare del Presidente del Consiglio), e che solo in questi ultimi mesi sta conoscendo, forse, alcune crepe nell’impianto da molti anni consolidato, grazie, ironia della sorte, come spiegherò fra qualche riga, di alcuni ex di AN.
E sì, perché comunque tutto è avvenuto nel più fragoroso silenzio. Quasi nessun Pereira, nessuno che abbia ritenuto di farsi piccolo eroe di una resistenza forte in questi anni. Intimoriti dagli editti bulgari che hanno ridotto sistematicamente al silenzio il dissenso, tutti hanno accettato di star zitti, dopo la scomparsa di Enzo Biagi, nessuno ha avuto più il carisma di raccogliere l’eredità del dissenso. Anche i Saviano, in questa nazione anomala, pubblicano per i tipi del Presidente del Consiglio. Magari dissentendo, come don Gallo ha dichiarato due giorni fa, dal privatistico gestire la cosa pubblica. Ma alla fine “Angelicamente anarchico”, come “Gomorra”, sono stati pubblicati dalla casa editrice del Presidente del Consiglio.
Non stiamo parlando di un’ANomalia italiana, perché altrimenti sarebbe impossibile spiegare altri 36 interventi normativi di mero e diretto interesse del Presidente del Consiglio. “Anomalo” è il nostro Stato e il nostro stato, etimologicamente Senza Regola, per via di quell’ “AN” privativo che da vent’anni si accetta nel silenzio e nell’indifferenza anche di tutta una classe di scrittori, che pur di pubblicare accetta di stare dove non vorrebbe. Costretti a non essere portavoce del proprio pensiero in forma assoluta, pena la perdita dei diritti, del ruolo di intellettuale, di libero scrittore.
Molti in questi anni hanno pagato il dissenso rinunciando alla professione dei propri sogni, o emigrando per poter fare quello che era nella propria indole, in una condizione meno agiata ma libera. Ma molti altri hanno accettato. Nel “mea culpa” di due giorni fa il prete ligure, annunciando la sua volontà di interrompere il rapporto editoriale con la Mondadori per questa vicenda incredibile, racconta che quando pubblicò per la prima volta con la casa editrice dei Berlusconi, Beppe Grillo lo chiamò per gridargli alla cornetta: “Prete maledetto non dovevi farlo!”. E don Gallo ricorda Montanelli e le sue grida di allarme per l’Anomalia Italiana.
Tutto è sempre scivolato nell’indifferenza. Una nazione di rane, che porta sulle spalle il peso dello scorpione, come nella favola in cui l’anfibio, pur consapevole dell’indole dell’altra bestia, accetta di traghettarla oltre il fiume . Salvo accorgersi a traversata inoltrata, dopo vent’anni di rema-rema per alcuni, vent’anni di ostracismo e dissenso per altri, e per fortuna da pochi giorni di riacquisto del bene della vista per diversi, di esserne ferita a morte. Il mistero, alla fine della favola,è se anche lo scorpione affonda.
Sia chiaro, non parliamo del demonio, in fondo è un’AN privativo. Una vocale e una consonante. Che fa il nostro concorrente? La compra questa vocale? E la consonante? Forza, forza, il cronometro obbliga a scegliere! Forza Italia!
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15615
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Bombe cluster: è in vigore la Convenzione, ma l’Italia è bloccata dalla Difesa 03.08.2010
Il primo agosto scorso, grazie alla ratifica di oltre 30 nazioni, è entrata in vigore la Convenzione internazionale che mette al bando le ‘bombe a grappolo’ (Convention on Cluster Munitions – CCM). Gli obblighi della Convenzione, firmata da 107 Paesi e ratificata da 38, sono pertanto diventati vincolanti a tutti gli effetti per gli Stati che vi hanno aderito: ciò significa che, oltre a smettere la produzione e l’impiego, dovranno distruggere gli stock di munizioni cluster entro 8 anni, identificare e bonificare entro 10 anni le zone inquinate da cluster, assistere le comunità affette da cluster bombs e le vittime in modo da realizzarne una piena inclusione nella società nel rispetto dei diritti umani fondamentali.
Per il Segretario generale Onu, Ban Ki-moon, la Convenzione “è un passo avanti decisivo per liberarci da armi ignobili” e il trattato rappresenta “uno strumento maggiore per il disarmo mondiale e le urgenze umanitarie, che ci aiuterà molto nella lotta all’estrema insicurezza e alle sofferenze causate da armi terribili che colpiscono soprattutto civili e bambini”. Guardando avanti Ban Ki-moon elogia “il potere di collaborazione tra governi, società civile e Nazioni Unite che insieme sono riusciti a modificare comportamenti e politiche” e si rivelerà “cruciale nell’applicazione del trattato oltre che nell’assistenza da garantire alle vittime”.
Soddisfatti dall’entrata in vigore del testo anche numerose organizzazioni non governative impegnate nella lotta alle “cluster bomb” e il Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR) che si augura uno slancio positivo che “avrà effetti pratici sugli stati che ancora non hanno aderito” – ha detto Jakob Kelleberger, presidente del Cicr. Tra questi le grandi potenze militari, come Stati Uniti, Cina, Russia e Israele, che da sole detengono la stragrande maggioranza delle scorte mondiali, stimate in più di un miliardo di ordigni e finora si sono rifiutate di firmare il trattato.
In numerosi paesi si sono tenute iniziative programmate dalle organizzazioni della rete internazionale Cluster Munition Coalition (CMC) per celebrare il particolare valore simbolico della giornata che segnerà per sempre la messa al bando effettiva delle bombe cluster con le relative conseguenze per le popolazioni civili. Secondo le stime correnti, circa 70 paesi restano ostaggio delle mine anti-persona, mentre in 23-24 ampie regioni di territorio sono disseminate di munizioni ‘cluster’ che non esplodono in contatto col terreno e rimangono pericolose per diversi anni, ferendo o uccidendo i civili inermi, soprattutto bambini.
“La Convenzione sulle Munizioni Cluster è uno strumento di diritto internazionale forte – ha dichiarato Jody Williams, Premio Nobel per la pace 1997 – e sono convinta che, se gli Stati eseguiranno ciò che prevede in maniera onesta e completa, sarà capace di alleviare le sofferenze causate da queste armi abominevoli. Questo è ciò che accadde con il Trattato per la messa al bando delle mine antipersona, armi indiscriminate al pari delle munizioni cluster. La nostra esperienza, dopo oltre dieci anni di applicazione del Trattato per la messa al bando delle mine antipersona, dimostra che gli Stati devono iniziare a lavorare subito se vogliono porre fine alla grave sfida umanitaria causata da queste munizioni”.
A circa 100 giorni dal Primo Meeting degli Stati Parte alla CCM, che si terrà in Laos nel mese di novembre, l’Italia ancora non ha ancora ratificato la Convenzione. “Questo significa che il nostro Paese potrà partecipare solo in qualità di osservatore” – spiega Santina Bianchini, presidente della Campagna Italiana contro le mine. “Attualmente non risultano motivi oggettivamente comprensibili in grado di giustificare la mancata ratifica, l’unico impedimento è riscontrabile in una richiesta di impegno di budget pari a 160 milioni di euro per il ripristino di armamenti “strategici” in sostituzione delle munizioni cluster dismesse.
“Il Parlamento Europeo ha recentemente votato la risoluzione dal titolo “European Parliament resolution on the entry into force of the Convention on Cluster Munitions (CCM) and the role of the EU” (8 luglio 2010) sull’entrata in vigore della Convenzione sulle Munizioni Cluster (CCM) che invita tutti gli Stati membri a firmare e ratificare la CCM come materia d’urgenza prima della fine del 2010 – continua Santina Bianchini. “Speriamo che questo ulteriore segnale positivo sia raccolto dal nostro Paese e dal governo, inoltre con più di 60mila adesioni alla petizione Stop Cluster attivata dalla Campagna Italiana contro le mine la società civile chiede che l’Italia ratifichi senza ulteriori rinvii”.
“Proseguiremo il nostro impegno nella campagna di sensibilizzazione affinché l’Italia mantenga le sue promesse. Crediamo sia davvero amorale bloccare una ratifica di un Trattato umanitario per assicurarsi fondi da destinare ad acquisto di nuove armi, soprattutto in un momento di crisi e di gravissimi tagli alla spesa sociale. Auspichiamo che il Ministro della Difesa Ignazio La Russa, a cui abbiamo scritto in questi giorni, voglia assicurare un rapido ed incondizionato sostegno a tale ratifica” – ha aggiunto Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna Italiana contro le mine. “Partecipare al Meeting in Laos con l’annuncio della ratifica servirebbe a ridare credibilità all’impegno del nostro Paese nell’ambito della salvaguardia dei diritti umani, anche quelli inerenti alla delicata questione del disarmo, piuttosto che relegare l’Italia tra gli Stati oggetto di démarches diplomatiche tese all’universalizzazione. Potremmo davvero facilmente evitarci questa mortificazione” – ha concluso Schiavello.
Va ricordato che l’Italia è uno dei 33 produttori di munizioni cluster al mondo: tra le ditte italiane accusate di produzione vi anche la Simmel Difesa, il cui catalogo – come ha documentato un’inchiesta di Rainews24 – fino a qualche anno fa pubblicizzava sistemi di “munizioni a grappolo”: catalogo che dopo l’inchiesta è stato fatto sfatto sparire dal pubblico accesso e sostituito con una nota della ditta che afferma “la conformità dell’azienda alle normative nazionali ed internazionali per la produzione di munizionamento”. [GB]
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Hitler era ebreo e nordafricano 25.08.2010
La prova da un cromosoma del Dna
L’analisi del Dna di Adolf Hitler, ottenuto da campioni di saliva di 39 parenti del Fuehrer, dimostra che il dittatore nazista aveva origini ebraiche e nordafricane. E’ stato infatti rintracciato un cromosoma, Aplogruppo Eib1b1, raro tra gli occidentali, ma comune tra i berberi in Marocco, Algeria e Tunisia, e tra gli ebrei ashkenaziti e serfarditi. La ricerca è stata effettuata da un giornalista e uno storico belgi, Jean-Paul Mulders e Marc Vermeeren.
L’ Aplogruppo Eib1b1 è legato al 10-20% del cromosoma Y degli ashkenaziti e tra l’,8,6 e il 30% dei sefarditi. Già in passato era emerso che il padre di Hitler, Alois, fosse il figlio illegittimo di una cameriera di nome maria Schickelgruber e di un 19enne ebreo, noto come Frankenberger, ma in questo caso le prove non si basano su voci, bensì su rigorosi studi scientifici.
Secondo il Daily Telegraph che riporta la notizia, tutti gli esami sono stati eseguiti in laboratorio in condizioni particolarmente severe in modo da non poter inficiare in alcun modo i risultati, qualunque fossero stati. Uno specialista di genetica dell’Università Cattolica di Lovanio, Ronny Decorte, ha definito “sorprendente” lo studio realizzato da Mulders e Vermeeren “affascinante soprattutto se lo si confronta con la concezione del mondo dei nazisti, nel quale razza e sangue sono elementi fondamentali per stabilire l’appartenza alla razza ariana”.
Mulders ha sintetizzato il risultato delle analisi in modo lapidario:”Si può dire chiaramente che Hitler era legato alle stesse persone che tanto disprezzava“.
http://www.tgcom.mediaset.it/mondo/articoli/articolo489335.shtml
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Wall Street, il regista è Hitchcock 27.08.2010
FRANCESCO GUERRERA
Il film della ripresa economica americana doveva essere una storia edificante di caduta e risurrezione tipo «Rocky», ma gli avvenimenti degli ultimi giorni l’hanno trasformato in un giallo. Secondo il copione hollywoodiano scritto da mercati, politici e banchieri centrali dopo la crisi, ormai dovremmo già essere nel secondo tempo, nel mezzo del clamoroso ritorno di fiamma di una nazione temprata da difficoltà senza pari. Ma dopo un’estate di mosse politiche maldestre, dati catastrofici e mercati nervosissimi, la più grande economia del mondo si trova ingarbugliata in una trama alla Hitchcock, dove niente è quello che sembra e il pericolo è sempre dietro l’angolo.
Ricapitoliamo i fatti. Martedì mattina, per colazione, gli operatori di Borsa a New York hanno dovuto digerire la notizia-bomba che le vendite delle case sono crollate di più del 27 per cento a luglio, il peggiore risultato in 15 anni.
La frana del settore immobiliare è arrivata quando Wall Street aveva appena finito di assorbire la decisione-choc della Federal Reserve di ricominciare a intervenire nei mercati finanziari, cinque mesi dopo aver gridato ai quattro venti che l’economia non aveva più bisogno di tali stimoli artificiali. I banchieri centrali hanno tentato di spiegare la mossa come una bagatella tecnica, una manovra di routine per tenere i tassi di interesse bassi e facilitare la ripresa, ma i mercati non hanno abboccato.
Gli investitori hanno scaricato i titoli azionari come se fossero materiali tossici, leggendo la mossa come un segnale che Washington è preoccupatissima per le sorti della ripresa. I mercati erano già in stato di fibrillazione da quando Ben Bernanke, il capo della Fed, aveva confessato al Congresso che la congiuntura economica è «insolitamente incerta», e le ultime vicissitudini hanno avuto un peso determinante per spingere il Dow Jones Industrials, l’indice guida, sotto il livello chiave dei 10.000 punti. Come mi ha detto uno dei grandi «fund manager» della costa Ovest, un tipo che ha studiato ad Harvard che di solito parla come un libro stampato: «Siamo proprio fregati. Se neanche Bernanke sa cosa fare, siamo proprio fregati».
Il mio amico di Los Angeles ha ragione a perdere la calma. Lo stillicidio di brutte notizie sta aumentando le probabilità del famigerato «double dip», il doppio tuffo nella recessione. Perfino ottimisti inveterati come David Wyss, il capo economista Standard & Poor’s, ora predicono un lungo periodo di ristagno economico à la japonaise. Altro che giallo hitchcockiano, se continua così, la saga dell’economia americana si trasformerà in Nightmare on Main Street con Bernanke nel ruolo di Freddy Krueger. Il dilemma è semplice ma non di semplice soluzione. Ogni Paese caduto nelle sabbie mobili della recessione ha bisogno di una forza trainante che lo trascini sulla terraferma, ma l’America di oggi non ha né trattori né locomotive a disposizione. I consumatori, che costituiscono circa il 70 per cento del Pil statunitense, mancano all’appello per ovvi motivi: hanno pochi soldi e ancor meno voglia di spenderli.
La caduta vertiginosa nelle vendite delle case nonostante il fatto che i tassi dei mutui siano a livelli bassissimi e che il governo abbia lanciato non meno di otto programmi di stimoli per incoraggiare gli acquisti, è veramente preoccupante. A meno di un miracolo, il mercato immobiliare americano è sull’orlo del «doppio tuffo» – un altro calo dei prezzi da aggiungere al crollo del 30 per cento visto durante la crisi. Con le case al ribasso e la disoccupazione intorno al 10 per cento, i consumatori rimarranno fuori dal gioco per parecchio tempo.
L’onere della ripresa dovrà dunque ricadere su altri due attori economici: il settore privato e quello pubblico. Le aziende e le banche non stanno male: gli ultimi risultati trimestrali sono stati positivi, i conti sono in nero e le esportazioni tirano. Il problema è che il mondo dell’industria è ancora in una posizione di difesa, anzi catenaccio: tagliare costi e non spendere nemmeno un centesimo più del dovuto. I capi aziendali con cui parlo utilizzano sempre lo stesso refrain: gli investimenti e gli acquisti arriveranno solo quando l’economia migliora – un discorso sensato in teoria ma contraddittorio in pratica, visto che la congiuntura non migliorerà se gli investimenti non si materializzano. A meno che… A meno che lo Stato non arrivi su un cavallo bianco a salvare l’economia sparpagliando miliardi di dollari freschi di zecca.
Una soluzione keynesiana – spendere adesso, tassare dopo – sembrerebbe ideale in questo frangente e non certo aliena alla mentalità di centro-sinistra di Barack Obama e i suoi. L’amministrazione ha già speso più di 700 miliardi di dollari per far ripartire l’economia e quasi tutti gli uomini del Presidente vorrebbero fare di più. Purtroppo, però, la realtà politica non lo permette. Con i Democratici in gravissima difficoltà nella campagna elettorale per le elezioni parlamentari di novembre, una nuova ondata di spese governative accompagnata dall’implicita promessa di tasse più alte in futuro, sarebbe un assist perfetto per i Repubblicani.
Obama potrebbe avere mano più libera dopo le elezioni, ma dipenderà da quanti seggi vinceranno i suoi avversari, soprattutto gli esponenti della corrente estremista di Sarah Palin. Il federalismo rampante degli Usa consentirebbe ai governi locali di soppiantare Washington nel ruolo di stimolatore dell’economia, ma molti Stati sono con l’acqua alla gola e devono tagliare i costi al più presto per evitare la bancarotta (anzi, visto che abbiamo parlato di cinema, la California di Schwarzenegger in bancarotta già ci è andata).
Rimane ovviamente la Fed. Un paio di alti funzionari con cui ho parlato questa settimana mi hanno accusato di essere un «profeta del disastro», ricordandomi che la Banca centrale ha molte frecce al suo arco per evitare una ricaduta nella recessione o un ristagno stile Giappone. E’ vero che la Fed può esercitare un controllo quasi totale sui prezzi di titoli, azioni e altri beni finanziari e ha le risorse per comprare mutui, obbligazioni e perfino titoli azionari qualora volesse immettere liquidità nei mercati. Ma è anche vero che la Fed, come tutte le banche centrali, ha poteri limitati sulla domanda economica – la voglia di consumatori, aziende e governi di spendere invece di risparmiare – ed è proprio questo che all’America manca oggi.
Forse l’unica soluzione sarebbe ristampare quei poster dell’esercito americano durante le guerre mondiali con una piccola chiosa sotto la faccia arcigna del vecchio signore. «Lo Zio Sam ha bisogno di te… e dei tuoi soldi».
Francesco Guerrera è il capo redattore Finanza del Financial Times a New York.
Francesco.guerrera@ft.com
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Marchionne, il patto e l’attacco 26.08.2010
L’ad di Fiat interviene al meeting di Comunione e liberazione a Rimini. “E’ inammissibile – ha sottolineato – tollerare e difendere alcuni comportamenti, come la mancanza di rispetto delle regole e gli illeciti che in qualche caso sono arrivati anche al sabotaggio”. Accolto l’invito del Capo dello Stato a superare il problema, lancio di un “patto sociale” che superi il conflitto operai – padrone. Il giudice del lavoro di Melfi convoca per il 21 settembre Fiat e Fiom per chiarire gli aspetti del reintegro dei tre operai
Una strenua difesa della posizione della Fiat nella vicenda Melfi, e una critica spietata al sistema industriale italiano. E’ stata questa la linea adottata dall’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne, nel corso del suo intervento al meeting di Rimini. Per quanto riguarda Melfi, dopo aver ribadito di “aver rispettato la legge”, Marchionne ha sottolineato “la gravità delle accuse mosse contro la Fiat” e si è scagliato contro chi difende i tre dipendenti: “E’ inammissibile – ha sottolineato – tollerare e difendere alcuni comportamenti, come la mancanza di rispetto delle regole e gli illeciti che in qualche caso sono arrivati anche al sabotaggio”. Il top manager, che ha scritto una lettera al capo dello Stato spiegando le ragioni dell’azienda, ha precisato di voler accogliere l’invito rivolto dal Colle.
“Ho un grandissimo rispetto per lui come persona e per il suo ruolo di Presidente della Repubblica e accetto da lui anche l’invito a cercare di trovare una soluzione a questo problema”. Nel pomeriggio, è arrivato il commento positivo del Capo dello Stato alle affermazioni di Marchionne: “Anche in Italia – si legge in una nota del Quirinale – si sa apprezzare lo straordinario sforzo compiuto per rilanciare l’azienda”. Quindi, ha aggiunto, ora “nessuno si sottragga al confronto”.
Tornando a Marchionne, più in generale sul sistema Paese, l’ad del Lingotto ha proposto un nuovo “patto sociale”, che superi definitivamente il conflitto operai – padrone. “Non siamo più negli anni Sessanta – ha detto – bisogna tralasciare l’idea della contrapposizione tra capitale e lavoro, tra operaio e padrone”.
Immediata la replica dei tre operai reintegrati dal giudice: “Invito Marchionne – ha commentato a caldo Giovanni Barozzino – a venire negli stabilimenti in Italia e vedere realmente cosa succede in Italia, visto che gira tutti gli stabilimenti in America. Se non ha paura della verità, venga a vedere”. Secca anche la risposta della Fiom. “La sostanza del discorso che l’amministratore delegato della Fiat ha fatto all’assemblea dei ciellini – ha commentato Giorgio Cremaschi – è di puro stampo reazionario”. Mentre la Cgil Basilicata, si e’ detta “basita” dalle dichiarazioni di Marchionne “che continua a sostenere il presunto sabotaggio, mai avvenuto, nello stabilimento Sata di San Nicola di Melfi, ignorando completamente il fatto che in quella sede era in corso uno sciopero dichiarato da tutte le sigle sindacali presenti in fabbrica”.
L’ad della Fiat si e’ detto “totalmente aperto a parlare” con il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, che stamane dalle colonne di un quotidiano aveva aperto al dialogo. La proposta di un patto sociale lanciata da Marchionne è accolta dall’Ugl secondo cui “è possibile giungere a un nuovo patto sociale ma solo se condiviso da tutte le organizzazioni sindacali e datoriali, non solo da Fiat, e purché venga realmente rispettato”.
Nel frattempo il giudice del lavoro di Melfi, Emilio Minio, ha convocato la Fiat e la Fiom per il 21 settembre, “per chiarire gli aspetti procedurali” del decreto dello stesso magistrato, che dichiarò l’antisindacalità dei licenziamenti e ordinò la immediata reintegra dei lavoratori nel proprio posto di lavoro”. L’istanza per ottenere “chiarimenti sulle modalità di applicazione del provvedimento” era stata presentata ieri dai legali della Fiom-Cgil.
(Fonti Agi – Ansa)
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15622
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Nel 2005, ad oggi con Obama la situazione è diversa.
L’acqua è il bottino al quale mirano con l’ALCA
Di Daniel Alain
La frenesia degli Stati Uniti di impadronirsi delle risorse di acqua potabile del resto dell’emisfero si deve al fatto che il livello delle proprie riserve d’acqua (fiumi e laghi ) sono state abusate, inquinate e ipersfruttate, trovandosi così al limite del collasso.
L’acqua è uno dei “bottini” più importanti dell’ALCA (Area del Libero Commercio delle Americhe).
Gli Stati Uniti e le corporazioni transnazionali vogliono, mediante l’integrazione neoliberale dell’emisfero, non solo forzare la privatizzazione delle risorse d’acqua, ma anche alterare i suoi flussi con megaprogetti che gli ecologisti denunciano come demenziali. (Visione Alternativa)
Questi megaprogetti per l’acqua si delineano in tre piani infrastrutturali:
– la North American Water and Power Alliance ( NAWAPA )
– il Plan Puebla Panamá ( PPP ) e
– l’Iniciativa para la Integración de la Infraestructura Regional de Suramérica (IIRSA).
La NAWAPA pretende di deviare le vaste risorse idriche dell’Alaska e dell’ovest del Canada verso gli Stati Uniti.
Il PPP, da parte sua, ha progettato varie opere di infrastrutture al largo dell’istmo meso-americano, che includono lo sfruttamento delle abbondanti riserve di acqua fresca della regione del Petén in Guatemala e del sud del Messico.
L’IIRSA, il più ambizioso dei tre, propone corridoi industriali, enormi progetti idroelettrici ed idrodotti su tutto il continente sudamericano. La frenesia degli Stati Uniti di impadronirsi delle risorse di acqua potabile del resto dell’emisfero si deve al fatto che in quel paese le riserve idriche, i fiumi e i laghi sono stati abusati, inquinati e ipersfruttati trovandosi, così, al limite del collasso.
L’economista messicano Giancarlo Delgado Ramos, ricercatore del Consiglio Latinoamericano di Scienze Sociali, ci fornisce i seguenti dati:
* Le falde idriche della California si stanno asciugando, il fiume Colorado viene “munto“ al massimo e i livelli di acqua della valle di San Joaquin in California sono scesi , in alcune zone, più di 10 metri negli ultimi 50 anni.
*Anche la città di Tucson vive in condizioni disagiate. Dipendendo totalmente dalle falde idriche, ha incrementato i livelli e i ritmi di estrazione nonché il numero dei pozzi – alcuni dei quali sono passati da 150 a 450 metri di profondità.
* Le proiezioni per Albuquerque in Nuovo Messico mostrano allo stesso modo, che entro il 2020, se si continuerà ad estrarre acqua dalle falde a questo ritmo, si determinerà l’abbassamento dei livelli dell’acqua di 20 metri e le città principali della regione si asciugherebbero in 10 o 20 anni.
* A El Paso in Texas, tutte le fonti di acqua si potranno esaurire entro il 2030 e, nel nordest del Kansas, è così grave la scarsità d’acqua che si discute la possibilità di installare un acquedotto nel già sovrasfuttato fiume Missouri.
* I ritmi di estrazione di acqua nel sudest della Florida, pari a circa 6,6 milioni di litri al minuto, superano i livelli di “ricarica“ mettendo così in dubbio la possibilità della Florida e degli stati vicini di mantenere queste risorse a lungo termine.
A questo bisogna aggiungere che con la globalizzazione neoliberale si prevede un aumento massiccio delle attività che necessitano di grandi quantità di acqua, come le manifatture, l’agroindustria di mono-coltivazioni e l’espansione urbana.
Secondo la Banca mondiale, la prossima guerra mondiale non avverrà per il petrolio ma per l’acqua.
Da parte sua la CIA dice che per il 2015 l’acqua sarà una delle maggiori cause di conflitto internazionale.
E l’ONU pronostica che nel 2025 la richiesta di acqua supererà quella fornita del 56%.
Invece di rivedere la propria “gola“ di acqua e adottare politiche di sostenibilità e conservazione, i grandi interessi statunitensi pianificano l’appropriazione delle risorse idriche del Canada, Centroamerica e Sudamerica attraverso accordi di “libero” commercio come l’ALCA, e mega progetti di proporzioni senza precedenti.
Con NAWAPA si pianifica la deviazione di acqua dall’ovest montagnoso del Canada e dell’Alaska dove questa risorsa esiste in grande abbondanza, mediante acquedotti e tunnel, oltre a stazioni di pompaggio, sino all’arido ovest degli Stati Uniti.
Quest’acqua verrebbe poi immagazzinata in un lago artificiale nella zona delle montagne rocciose, lungo 308 chilometri con una capacità di immagazzinamento di 3.500 chilometri cubici di acqua.
Il PPP ha come elemento chiave il consolidamento di corridoi industriali – con infrastrutture di trasporto e comunicazioni – dal Messico fino Panama , e vari canali interoceanici.
Suo obiettivo non è solo viabilizzare il movimento di mercanzie nel Pacifico e nell’Atlantico, ma anche di approfittare al massimo della mano d’opera e delle risorse naturali della regione per impiegarli nell’agroindustria di esportazione, nelle “maquiladoras “ o ” laboratori del sudore” ed in progetti turistici. Tutto ciò richiederà considerabili quantità di elettricità e di acqua fresca, che arriveranno da grandi laghi artificiali e progetti idroelettrici, specialmente in Guatemala e Chapas.
Parte di quest’acqua sarà pompata al nord per facilitare la crescita di zone franche (maquilas) e di agroindustria nel nord del Messico dove cade poca pioggia.
Ciò che aspetta al Sudamerica.
Con l’IIRSA si pianificano corridoi industriali, idrodotti e superautostrade che collegheranno gli angoli più reconditi del Sudamerica alla economia globale.
Alcuni di questi, attraverseranno la Cordigliera delle Ande per collegare la Conca Amazzonica ( che contiene il 20% dell’acqua potabile del mondo ) a megaporti costruiti sulla costa Pacifica. Tra i progetti dell’ IIRSA c’è la costruzione di un “Gran Canale“ che collegherà i fiumi Plata, Rio delle Amazzoni e Orinoco.
“Questo idrodotto deve vedersi come un collegamento diretto per i Carabi e gli Stati Uniti attraverso il Mississippi” dice Delgado Ramos.
“ E’ qui che potrebbe prendere forma uno scenario di transazione di quantità immense di acqua sudamericana verso la potenza nordista “ (Florida). Altri ambiziosi progetti idrici dell’ IIRSA riguardano il fiume Rio Plata, la cui estensione ( 3,1 milioni di chilometri quadrati ) è il punto nodale della zona produttiva del Mercosur. La National Science Foundation degli Stati Uniti ha predisposto in quella zona un progetto “multidisciplinare“ per lo studio del bacino e delle sue risorse.
Analogo interesse lo ha manifestato l’American Association for the Advancement of Science, inquadrandolo nell’ambito di un progetto di “scienza per lo sviluppo sostenibile“, progetto che sarà finanziato dalle fondazioni Ford e Rockefeller nonché imprese come la Coca Cola, Nestlè, Kellog, IBM e Kodak.
Settori popolari e progressisti in Sudamerica sostengono che tutta questa ricerca scientifica è solo un’opera a favore delle multinazionali.
E’ anche importante menzionare la riserva idrica di Guarnì, ubicato tra Argentina e Brasile.
Con una estensione di 1,2 milioni di chilometri quadrati ed una resa tra i 40 e gli 80 chilometri cubici all’anno, anche questa risorsa è nel “mirino“.
“ I progetti idroelettrici ed il saccheggio del nostro oro azzurro e di altre risorse naturali strategiche come la biodiversità ed il petrolio potrebbero incontrare difficoltà se continueremo ad allacciare e a coordinare i nostri sforzi “ consiglia Delgado Ramos.
“ Dar vita alla possibilità di una inversione di rotta, dipende dalla solidità con la quale verrà costruito il muro sociale che costituirà un ostacolo ai progetti in questione, ora possibili solo grazie alla parte attiva di una elite latino-americana che li avalla e che, se non bastasse, li promuove e li esegue principalmente a favore della cupola del potere del Nord “. La guerra di classe che le elite sudamericane sostengono contro il nostro popolo è fondamentale nella esecuzione dei progetti tipo PPP ed ALCA, ma allo stesso tempo è anche quella che rafforza la lotta per la coscienza sociale come fondamento per la costruzione di una alternativa economica, sociale e ecologicamente armonica “.
Fonte: www.rebelion.org
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=20186
17.09.05
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di TOSC
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=1448
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