Una pagina bianca contro la censura
l´Ungheria guida l´Europa tra le polemiche 03.01.2011
Andrea Tarquini – la Repubblica
La protesta di un giornale nel giorno in cui il premier assume la presidenza Ue. Anche diverse multinazionali si schierano contro la politica fiscale di Budapest
BERLINO – La pagina bianca del Népszabadsàg ricorda la protesta di Repubblica contro i piani di legge-bavaglio del centrodestra italiano. «La libertà di stampa muore in Ungheria», è scritto sotto la testata, in tutte le lingue dell´Unione europea. A Budapest un bavaglio che a Berlino ambienti governativi definiscono «in stile tra Putin e la Bielorussia», è passato senza problemi. Insieme a tasse punitive e retroattive contro le grandi aziende straniere e a sgravi fiscali varati per conquistare consenso, nonostante Moody´s abbia degradato il rating del paese a poco più del livello spazzatura. Gennaio 2011: per la prima volta da quando l´Unione europea esiste, un paese il cui governo non solo predica, ma pone in atto politiche autoritarie e incompatibili con la Carta europea assume la presidenza semestrale della Ue stessa. Protestano i media in tutto il mondo, e tra i governi alza la voce quasi solo quello di Angela Merkel. Il premier nazionalconservatore magiaro, Viktor Orban, replica durissimo: «Non mi sogno nemmeno di cambiare la legge, né di inginocchiarmi, né di reagire ai commenti occidentali».
La libertà di stampa muore in Ungheria. Il monito scritto su quella prima pagina bianca, in tutte le lingue della “casa comune” chiamata Europa, suona come un grido disperato nel deserto. Con una maggioranza di due terzi del Parlamento, la Fidesz, il partito nazionalconservatore di Orban, può fare e disfare leggi a piacimento. Prepara anche una riscrittura della Costituzione.
Zoltan Kovacs, sottosegretario per la government communication al ministero della Pubblica amministrazione e della Giustizia, vicinissimo al premier, si indigna quando qualcuno gli chiede se il governo pensa a una riforma costituzionale in senso più democratico o liberal. «Che cosa vuol dire democratico, o liberal? Noi vogliamo rendere la Costituzione meno socialista», risponde. L´ispirazione ideologica è chiara: nazionalismo, conservatorismo cattolico-tradizionalista, più potere all´esecutivo, più controllo sulla Giustizia. La Corte costituzionale si è già vista sottrarre poteri significativi.
«Adesso comunichiamo su Facebook col pubblico», ha spiegato l´altro giorno Attila Mong. Era una star del gr del mattino, ha perso l´incarico per aver protestato con un minuto di silenzio al microfono contro la legge sulla stampa. Legge che in qualsiasi altro paese della Ue è giudicata inaccettabile. Un Consiglio dei media, in mano agli uomini della Fidesz, controlla di fatto tv, radio, la principale agenzia di stampa e il primo portale Internet. E soprattutto, il Consiglio dei media ha il potere di punire ogni media, pubblico o privato, che giudichi colpevole di diffusione di notizie politicamente sbilanciate, con multe che nella fragile situazione economica del paese possono mandare più di un´azienda editoriale in fallimento: dai 90mila euro a ogni “sgarro” per i media cartacei e online, fino a 750mila euro per radio e tv. Non è finita: i giornalisti sono obbligati a rivelare le fonti, «se è in gioco la sicurezza nazionale». Se e quando sia in gioco, lo decide il Consiglio stesso. Una radio privata è stata multata per un motivo del rapper Ice-T che «minaccia la morale dei giovani».
Berlino ha protestato con durezza. E in prima pagina su Die Welt, giornale vicinissimo ad Angela Merkel, un ex consigliere di Helmut Kohl, lo storico professor Michael Stuermer, ha ammonito contro il “Fuehrerstaat” guidato da Orban: un potere senza scrupoli, che a differenza dell´Austria ai tempi del partito di Haider al governo non lancia slogan autoritari, li traduce in fatti. «Ecco quanto rapidamente una democrazia può distruggersi da sola, quasi come in un remake del film tragico degli autoritarismi antisemiti degli anni Trenta». Ieri hanno protestato i vertici di molte grandi aziende europee, Deutsche Telekom in testa: chiedono sanzioni Ue contro la politica fiscale di Budapest, definita demagogicamente ostile agli investitori stranieri.
Leggi-bavaglio, frusta contro i global player stranieri in nome di un facile anticapitalismo, flat tax per promettere un rilancio economico ignorando i moniti degli economisti sulla fragilità dei conti pubblici, limiti alla magistratura. E in più ricordo costante con forti toni nazionalisti della “Tragedia del Trianon”, i territori perduti dall´Ungheria sconfitta nella prima guerra mondiale perché parte dell´Impero austriaco, e promessa di cittadinanza a slovacchi, romeni o serbi di origine magiara. Atti che inquietano i vicini: che clima graverebbe sull´Europa se Angela Merkel ricordasse i territori perduti dalla Germania o promettesse passaporti e diritto di voto tedeschi in Alto Adige, in Boemia o in Slesia? Orban va avanti «senza scrupoli, mosso dall´istinto del potere», accusa l´ex consigliere di Kohl. Bruxelles guarda e tace, anche davanti a quella pagina bianca.
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“Dal Carroccio solo sciocchezze
così noi batteremo il terrorismo” 03.01.2011
Il sindaco Chiamparino: “È una battaglia di civiltà, pregare senza nascondersi è un diritto”. I pericoli di infiltrazioni diminuiscono: è più facile fare controlli in un luogo di culto regolare che in uno abusivo
di SARA STRIPPOLI
TORINO – “La Lega dice stupidaggini. Non ne sono affatto stupito ma la nuova Moschea è un battaglia di civiltà, le persone hanno diritto di esprimere la loro fede senza nascondersi. Ammesso che esista qualche pericolo di vicinanza con il terrorismo, è molto più facile il controllo in una moschea regolare piuttosto che in locali abusivi”. Da Marrakech, dove è in vacanza per qualche giorno, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino critica gli accostamenti del Carroccio fra l’attentato di Capodanno in Egitto e il rischio sicurezza a Torino: “Pura propaganda”.
Sindaco, la Lega prima annuncia un ricorso al Tar, e dopo i fatti in Egitto parla di diritto dei cittadini alla libertà di vivere in una città sicura. Tutto previsto?
“Me lo aspettavo. La strage di Alessandria offre un’ulteriore sponda, ma sono sciocchezze. Se anche il rischio fosse reale, la valutazione dovrebbe essere opposta, i pericoli di infiltrazioni di terroristi diminuiscono in un luogo di culto realizzato con finanziamenti trasparenti che arrivano dal governo del Marocco attraverso canali diplomatici ufficiali. Per quanto riguarda il ricorso amministrativo, facciano pure. Abbiamo seguito un percorso che è durato un anno. Con la massima attenzione, vista la delicatezza del problema”.
In fase di progetto lei aveva scritto una lettera al ministro degli esteri Frattini e degli interni Maroni. Qualche perplessità da parte loro?
“Frattini mi aveva risposto positivamente sottolineando che il nostro progetto andava nella direzione di favorire l’Islam moderato. E invito la Lega a ricordare che si tratta di un ministro del governo di centrodestra. Quanto a Maroni, non mi ha mai risposto e quindi devo ritenere che il suo sia un silenzio-assenso. Forse adesso dirà di non aver mai visto la mia lettera ma io ho voluto informarlo proprio per avere il suo parere. Se il ministro dell’Interno, da persona seria e responsabile qual è, avesse ritenuto che esistevano dei rischi me lo avrebbe fatto sapere”.
La collaborazione con le associazioni islamiche per la realizzazione di questo progetto può essere considerato un ulteriore esempio del “modello Torino?”.
“Direi di sì e aggiungo che questo modello ha funzionato. Abbiamo riscontrato molta disponibilità da parte delle associazioni e per rispetto hanno rinunciato ad erigere un minareto. Collaboriamo poi con i comitati di cittadini che si preoccupano di aspetti concreti e sicurezza come telecamere e traffico. La Lega finora ha fallito nel tentativo di screditare questo modello e cerca un nuovo appiglio”.
I rappresentanti del Carroccio sostengono che le moschee abusive non scompariranno. È possibile che accada?
“Non lo penso proprio, e per il momento chiude quella storica abusiva, la più grande. La Lega sottovaluta l’intelligenza dei cittadini e se in questo modo pensa di conquistare un voto ne perderà due”.
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IL CASO BATTISTI: TUTTI I DUBBI SUI PROCESSI E LE CONDANNE; ESPOSTI PUNTO PER PUNTO
PERCHÉ IL BRASILE HA ACCOLTO IL “MOSTRO” 30.01.2009
di Carmilla
Questa nuova versione delle nostre FAQ sul caso Battisti, già lette da centinaia di migliaia di utenti e tradotte in molte lingue, cadono in un momento di isteria collettiva mai visto in Italia dai tempi di Piazza Fontana e della colpevolizzazione di Pietro Valpreda. Battisti si trova da quasi due anni, mentre scriviamo, in un carcere brasiliano. Ha ottenuto asilo politico in Brasile, concesso dal ministro della giustizia Tarso Genro e ripetutamente avvallato dal presidente Lula. La stampa italiana, a fronte di un’opinione pubblica sostanzialmente indifferente, si è scatenata con toni da linciaggio. Battisti è tornato a essere il mostro, l’assassino per vocazione, il serial killer. Il Brasile è stato dipinto (per esempio da Francesco Merlo, su La Repubblica del 15 gennaio) come una democrazia da operetta, abitato da una popolazione quasi scimmiesca. Persino il presidente Napolitano, che non brilla per attivismo, si è mobilitato a sostegno della richiesta di estradizione del criminale del secolo. Seguito ovviamente dal PD di Walter Veltroni, in perfetta armonia con le componenti più reazionarie del governo e delle presunte “opposizioni”.
Va notato che tanto furore non era mai stato esercitato nei confronti, per esempio, di Delfo Zorzi, quando era sospettato di essere coautore della strage di Piazza Fontana e riparato in Giappone. Per non dire dei membri delle Forze dell’ordine uccisori, dagli anni Settanta a Genova 2001, di oltre un centinaio di militanti di sinistra, tutti quanti assolti da giudici compiacenti e da politici complici. O degli autori del massacro del Circeo, uno dei quali poté espatriare con il passaporto italiano in tasca.
Urgeva aggiornare le nostre FAQ, anche alla luce di un’indiretta replica del sostituto procuratore di Milano Armando Spataro, apparsa su Il Corriere della Sera del 23 gennaio 2009, nella rubrica delle lettere. Nonché di un articolo in cui era intervistato il pentito Pietro Mutti, massimo accusatore di Battisti (“specialista in giochi di prestigio” nell’attribuire ad altri le proprie responsabilità, lo definisce una sentenza citata più sotto; ma ne vedrete delle belle), pubblicato da Panorama del 25 gennaio 2009.
Confidiamo che una lettura pacata di quanto segue faccia sorgere, in chi è in buona fede, molti dubbi sull’effettiva colpevolezza di Battisti.
Comunque, a noi non preme dimostrare che Battisti sia innocente. Ci interessa, piuttosto, denunciare le distorsioni che la cosiddetta “emergenza” provocò, negli anni Settanta, nelle procedure processuali italiane, fondate, come ai tempi dell’Inquisizione, su “pentimenti” veri o fasulli (1).
Perché Cesare Battisti fu arrestato, nel 1979?
Fu arrestato nell’ambito delle retate che colpirono il Collettivo Autonomo della Barona (un quartiere di Milano), dopo che, il 16 febbraio 1979, venne ucciso il gioielliere Luigi Pietro Torregiani.
Perché il gioielliere Torregiani fu assassinato?
Perché, il 22 gennaio 1979, assieme a un conoscente anche lui armato, aveva ucciso Orazio Daidone: uno dei due rapinatori che avevano preso d’assalto il ristorante Il Transatlantico in cui cenava in folta compagnia. Un cliente, Vincenzo Consoli, morì nella sparatoria, un altro rimase ferito. Chi uccise Torregiani intendeva colpire quanti, in quel periodo, tendevano a “farsi giustizia da soli”.
Cesare Battisti partecipò all’assalto al Transatlantico?
No. Nessuno ha mai asserito questo. Si trattò di un episodio di delinquenza comune.
Cesare Battisti partecipò all’uccisione di Torregiani?
No. Anche questa circostanza – affermata in un primo tempo – venne poi totalmente esclusa. Altrimenti sarebbe stato impossibile coinvolgerlo, come poi avvenne, nell’uccisione del macellaio Lino Sabbadin, avvenuta in provincia di Udine lo stesso 16 febbraio 1979, quasi alla stessa ora.
Eppure è stato fatto capire che Cesare Battisti abbia ferito uno dei figli adottivi di Torregiani, Alberto, rimasto poi paraplegico.
E’ assodato che Alberto Torregiani fu ferito per errore dal padre, nello scontro a fuoco con gli attentatori.
I media insistono nell’indicare Cesare Battisti come l’uccisore di Torregiani, spesso addirittura dicono che è stato lui a ferire Alberto e a ridurlo in sedia a rotelle. Alberto non rettifica mai, nemmeno per amore di precisione. Non rettifica mai nemmeno Spataro. Perché?
Ciò è inspiegabile. Gli assassini reali (Sebastiano Masala, Sante Fatone, Gabriele Grimaldi e Giuseppe Memeo) furono catturati poco tempo dopo l’agguato, e hanno scontato condanne più o meno lunghe.
Il procuratore Armando Spataro, ne Il Corriere della Sera del 23 gennaio 2008, dice che Battisti “giustiziò” Luigi Pietro Torregiani, reo di avere reagito con le armi a una rapina che aveva subito.
Anche questo è inspiegabile. La dinamica dei fatti è molto diversa, Spataro stesso la spiegò altre volte: Torregiani e un collega fecero fuoco, con revolver di grosso calibro, su chi stava rapinando la cassa del ristorante Transatlantico in cui cenavano con amici.
Perché dunque Cesare Battisti viene collegato all’omicidio Torregiani?
Anzitutto perché, per sua stessa ammissione, faceva parte del gruppo che rivendicò l’attentato, i Proletari Armati per il Comunismo. Lo stesso gruppo che rivendicò l’attentato Sabbadin.
Cos’erano i Proletari Armati per il Comunismo (PAC)?
Uno dei molti gruppi armati scaturiti, verso la fine degli anni ’70, dal movimento detto dell’Autonomia Operaia, e dediti a quella che chiamavano “illegalità diffusa”: dagli “espropri” (banche, supermercati) alle rappresaglie contro le aziende che organizzavano lavoro nero, fino, più raramente, a ferimenti e omicidi.
I PAC somigliavano alle Brigate Rosse?
No. Come tutti i gruppi autonomi non puntavano né alla costruzione di un nuovo partito comunista, né a un rovesciamento immediato del potere. Cercavano piuttosto di assumere il controllo del territorio, spostandovi i rapporti di forza a favore delle classi subalterne, e in particolare delle loro componenti giovanili. Questo progetto, comunque lo si giudichi (certamente non ha funzionato), non collimava con quello delle BR.
Il procuratore Spataro ha detto che gli aderenti ai PAC non superavano la trentina.
Gli indagati per appartenenza ai PAC furono almeno 60. La componente maggiore era rappresentata da giovani operai. Seguivano disoccupati e insegnanti. Gli studenti erano tre soltanto. La sigla PAC fu comunque usata da altri raggruppamenti.
Trenta o sessanta fa poca differenza.
Ne fa, invece. Cambiano le probabilità di partecipazione alle scelte generali dell’organizzazione, e anche alle azioni da questa progettate. Teniamo presente che, se le rapine attribuite ai PAC sono decine, gli omicidi sono quattro. La partecipazione diretta a uno di questi diviene molto meno probabile, se si raddoppia il numero degli effettivi.
Cesare Battisti era il capo dei PAC, o uno dei capi?
No. Questa è una pura invenzione giornalistica. Né gli atti del processo, né altri elementi inducono a considerarlo uno dei capi. Del resto, non aveva un passato tale – come ex ladruncolo e teppista di periferia, privo di formazione ideologica – da permettergli di ricoprire un ruolo del genere. Era un militante tra i tanti.
In sede processuale Battisti fu però giudicato tra gli “organizzatori” dell’omicidio Torregiani.
In via deduttiva. Secondo il dissociato Arrigo Cavallina, avrebbe partecipato a riunioni in cui si era discusso del possibile attentato, senza esprimere parere contrario. Solo con l’entrata in scena del pentito Mutti – dopo che Battisti, condannato a dodici anni e mezzo, era evaso dal carcere e fuggito in Messico – l’accusa si precisò, ma ancora una volta per via deduttiva. Poiché Battisti era accusato da Mutti di avere svolto ruoli di copertura nell’omicidio Sabbadin, e poiché gli attentati Torregiani e Sabbadin erano chiaramente ispirati a una stessa strategia (colpire i negozianti che uccidevano i rapinatori), ecco che Battisti doveva essere per forza di cose tra gli “organizzatori” dell’agguato a Torregiani, pur senza avervi partecipato di persona.
Eppure, di tutti i crimini attribuiti a Battisti, quello cui si dà più rilievo è proprio il caso Torregiani.
Forse si prestava più degli altri a un uso “spettacolare” (si veda l’impiego ricorrente nei media di Alberto Torregiani, non sempre pronto, per motivi anche comprensibili, a rivelare chi lo ferì). O forse – visto chi ci governa e le proposte formulate qualche anno fa dal ministro Castelli, in tema di autodifesa da parte dei negozianti – era l’episodio meglio capace di fare vibrare certe corde nell’elettorato di riferimento.
Comunque, chi difende Battisti ha spesso giocato la carta della “simultaneità” tra il delitto Torregiani e quello Sabbadin, mentre Battisti è stato accusato di avere “organizzato” il primo ed “eseguito” il secondo.
Ciò si deve all’ambiguità stessa della prima richiesta di estradizione di Battisti (1991), alle informazioni contraddittorie fornite dai giornali (numero e qualità dei delitti variano da testata a testata), al silenzio di chi sapeva. Non dimentichiamo che Armando Spataro ha fornito dettagli sul caso – per meglio dire, un certo numero di dettagli – solo dopo che la campagna a favore di Cesare Battisti ha iniziato a contestare il modo in cui furono condotti istruttoria e processo. Non dimentichiamo nemmeno che il governo italiano ha ritenuto di sottoporre ai magistrati francesi, alla vigilia della seduta che doveva decidere della nuova domanda di estradizione di Cesare Battisti, 800 pagine di documenti. E’ facile arguire che giudicava lacunosa la documentazione prodotta fino a quel momento. A maggior ragione, essa presentava lacune per chi intendeva impedire che Battisti fosse estradato.
La simultaneità fra il delitto Sabbadin e quello Torregiani dimostra un’unica ideazione.
Ma andrebbe provato che Battisti partecipò effettivamente all’uccisione di Sabbadin. Inizialmente, il pentito Mutti incolpò Battisti di avere sparato al macellaio. Purtroppo per lui, il militante dei PAC Diego Giacomin si dissociò e rivelò di essere stato lui stesso a uccidere il negoziante. Non fece altri nomi. Una complice, non menzionata da Mutti, fu condannata all’ergastolo. Vive oggi in Francia
Comunque, quello a Cesare Battisti e agli altri accusati del delitto Torregiani fu un processo regolare.
No, non lo fu, e dimostrarlo è piuttosto semplice.
Perché il processo Torregiani, poi allargato all’intera vicenda dei PAC, non fu regolare?
Precisiamo: non fu regolare se non nel quadro delle distorsioni della legalità introdotte dalla cosiddetta “emergenza”. Sotto il profilo del diritto generale, il processo fu viziato da almeno tre elementi: il ricorso alla tortura per estorcere confessioni in fase istruttoria (2), l’uso di testimoni minorenni o con turbe mentali, la moltiplicazione dei capi d’accusa in base alle dichiarazioni di un pentito di incerta attendibilità. Più altri elementi minori.
I magistrati torturarono gli arrestati?
No. Fu la polizia a torturarli. Vi furono ben tredici denunce: otto provenienti da imputati, cinque da loro parenti. Non un fatto inedito, ma certo fino a quel momento insolito, in un’istruttoria di quel tipo. I magistrati si limitarono a ricevere le denunce, per poi archiviarle.
Forse le archiviarono perché non si era trattato di vere torture, ma di semplici pressioni un po’ forti sugli imputati.
Uno dei casi denunciati più di frequente fu quello dell’obbligo di ingurgitare acqua versata nella gola dell’interrogato, a tutta pressione, tramite un tubo, mentre un agente lo colpiva a ginocchiate nello stomaco. Tutti denunciarono poi di essere stati fatti spogliare, avvolti in coperte perché non rimanessero segni e poi percossi a pugni o con bastoni. Talora legati a un tavolo o a una panca.
Se i magistrati non diedero seguito alle denunce, forse fu perché non c’erano prove che tutto ciò fosse realmente accaduto.
Infatti il sostituto procuratore Alfonso Marra, incaricato di riferire al giudice istruttore Maurizio Grigo, dopo avere derubricato i reati commessi dagli agenti della Digos da “lesioni” a “percosse” per assenza di segni permanenti sul corpo (in Italia non esisteva il reato di tortura, e non esiste nemmeno ora), concludeva che la stessa imputazione di percosse non poteva avere seguito, visto che gli agenti, unici testimoni, non confermavano. Dal canto proprio il PM Corrado Carnevali, titolare del processo Torregiani, insinuò che le denunce di torture fossero un sistema adottato dagli accusati per delegittimare l’intera inchiesta.
Nulla ci dice che il PM Carnevali avesse torto.
Almeno un episodio non collima con la sua tesi. Il 25 febbraio 1979 l’imputato Sisinio Bitti denunciò al sostituto procuratore Armando Spataro le torture subite e ritrattò le confessioni rese durante l’interrogatorio. Tra l’altro, raccontò che un poliziotto, nel percuoterlo con un bastone, lo aveva incitato a denunciare un certo Angelo; al che lui aveva denunciato l’unico Angelo che conosceva, tale Angelo Franco. La ritrattazione di Bitti non fu creduta, e Angelo Franco, un operaio, fu arrestato quale partecipante all’attentato Torregiani. Solo che pochi giorni dopo lo si dovette rilasciare: non poteva in alcun modo avere preso parte all’agguato. Dunque la ritrattazione di Bitti era sincera, e dunque, con ogni probabilità, anche le violenze con cui la falsa confessione gli era stata estorta. Sisinio Bitti riportò lesioni permanenti ai timpani. Se le era procurate da solo?
Ammesso il ricorso alle sevizie in fase istruttoria, ciò non assolve Cesare Battisti.
No, però dà l’idea del tipo di processo in cui fu implicato. Definirlo “regolare” è a dir poco discutibile. Tra i testi a carico di alcuni imputati figurarono anche una ragazzina di quindici anni, Rita Vitrani, indotta a deporre contro lo zio; finché le contraddizioni e le ingenuità in cui incorse non fecero capire che era psicolabile (“ai limiti dell’imbecillità”, dichiararono i periti) (3). Figurò anche un altro teste, Walter Andreatta, che presto cadde in stato confusionale e fu definito “squilibrato” e vittima di crisi depressive gravi dagli stessi periti del tribunale.
Pur ammettendo il quadro precario dell’inchiesta, c’è da considerare che Cesare Battisti rinunciò a difendersi. Quasi un’ammissione di colpevolezza, anche se, prima di tacere, si proclamò innocente.
Può sembrare così oggi, ma non allora. Anzi, è vero il contrario. A quel tempo, i militanti dei gruppi armati catturati si proclamavano prigionieri politici, e rinunciavano alla difesa perché non riconoscevano la “giustizia borghese”. Battisti vi rinunciò perché disse di dubitare dell’equità del processo.
Tralasciate violenze e testimonianze poco attendibili in fase istruttoria, il processo fu però condotto a conclusione con equità.
Non proprio. Accusati minori furono colpiti con pene spropositate. Il già citato Bitti, riconosciuto innocente di ogni delitto, fu ugualmente condannato a tre anni e mezzo di prigione per essere stato udito approvare, in luogo pubblico, l’attentato a Torregiani. Era scattato il cosiddetto “concorso morale” in omicidio, direttamente ispirato alle procedure dell’Inquisizione. Il già citato Angelo Franco, pochi giorni dopo il rilascio, fu arrestato nuovamente, questa volta per associazione sovversiva, e condannato a cinque anni. Ciò in assenza di altri reati, solo perché era un frequentatore del collettivo autonomo della Barona.
Secondo Luciano Violante, una certa “durezza” era indispensabile a spegnere il terrorismo. E Armando Spataro sostiene che, a questo fine, l’aggravante delle “finalità terroristiche”, che raddoppiava le pene, si rivelò un’arma decisiva.
Spezzò anche le vite di molti giovani, arrestati con imputazioni destinate ad aggravarsi in maniera esponenziale nel corso della detenzione, pur in assenza di fatti di sangue.
Ciò non vale per Cesare Battisti, condannato all’ergastolo per avere partecipato a due omicidi ed eseguito altri due.
Di Torregiani e Sabbadin si è detto. Veniamo a Santoro e Campagna. Mutti accusa Battisti di essere l’omicida di Santoro, ma poi le prove lo costringono ad ammettere di essere stato lui, l’assassino. L’uccisione dell’agente Campagna avviene dopo che i PAC sono stati sciolti, e un gruppetto di quartiere ne perpetua le gesta. L’assassino si chiama Giuseppe Memeo, reo confesso. Ha sparato con la stessa pistola che aveva ucciso Torregiani. Mutti ne parla per sentito dire. Memeo aveva un complice biondo, altro 1,90. Battisti? Ne parleremo tra poco.
Al termine del processo di primo grado Battisti, arrestato in origine per imputazioni minori (possesso di armi, che peraltro risultarono non avere mai sparato), si trovò condannato a dodici anni e mezzo di prigione. Le condanne all’ergastolo giunsero cinque anni dopo la sua evasione dal carcere. Ma qui è tempo di parlare dei “pentiti” e, soprattutto, del principale pentito che lo accusò. Per poi entrare nel merito degli altri tre delitti.
Vediamo di capire che cos’è un “pentito”.
Se ci riferiamo ai gruppi di estrema sinistra, vengono così chiamati quei detenuti per reati connessi ad associazioni armate che, in cambio di consistenti sconti di pena, rinnegano la loro esperienza e accettano di denunciare i compagni, contribuendo al loro arresto e allo smantellamento dell’organizzazione. Di fatto una figura del genere esisteva già alla fine degli anni ’70, ma entra stabilmente nell’ordinamento giuridico prima con la “legge Cossiga” 6.2.1980 n. 15, poi con la “legge sui pentiti” 29.5.1982 n. 304. Manifesta i pericoli insiti nel suo meccanismo sia prima che dopo questa data.
Quali sarebbero i “pericoli”?
La logica della norma faceva sì che il “pentito” potesse contare su riduzioni di pena tanto più elevate quante più persone denunciava; per cui, esaurita la riserva delle informazioni in suo possesso, era spinto ad attingere alle presunzioni e alle voci raccolte qui e là. Per di più, la retroattività della legge incitava a delazioni indiscriminate anche a distanza di molti anni dai fatti, quando ormai erano impossibili riscontri materiali.
Esistono esempi di questi effetti perversi?
Il caso più clamoroso fu quello di Carlo Fioroni, che, minacciato di ergastolo per il sequestro a fini di riscatto di un amico, deceduto nel corso del rapimento, accusò di complicità Toni Negri, Oreste Scalzone e altre personalità dell’organizzazione Potere Operaio, sgravandosi della condanna. Ma anche altri pentiti, quali Marco Barbone (oggi collaboratore di quotidiani di destra), Antonio Savasta, Pietro Mutti, Michele Viscardi ecc. seguitarono per anni a spremere la memoria e a distillare nomi. Ogni denuncia era seguita da arresti, tanto che la detenzione diventò arma di pressione per ottenere ulteriori pentimenti. Purtroppo ciò destò scandalo solo in un secondo tempo, quando la logica del pentitismo, applicata al campo della criminalità comune, provocò il caso Tortora e altri meno noti.
Pietro Mutti fu l’accusatore principale di Cesare Battisti. Chi era?
Fu, per sua stessa confessione, il fondatore dei PAC. Figurò tra gli imputati del processo Torregiani, sebbene latitante, e l’accusa chiese per lui otto anni di prigione. Fu catturato nel 1982 (dopo che Battisti era già evaso), a seguito della fuga dal carcere di Rovigo, il 4 gennaio di quell’anno, di alcuni militanti di Prima Linea. Mutti fu tra gli organizzatori dell’evasione. Era stato compagno di cella di Battisti, quando questi era in carcere per reati comuni, e autore della sua politicizzazione (un ruolo curiosamente poi rivendicato dal dissociato Arrigo Cavallina).
Di quali delitti Mutti, una volta pentito, accusò Battisti?
Tralasciando reati minori, per tre omicidi. Battisti (con una complice e con lo stesso Mutti, che sulle prime cercò di negare la sua presenza) avrebbe direttamente assassinato, il 6 giugno 1978, il maresciallo degli agenti di custodia del carcere di Udine Antonio Santoro, che i PAC accusavano di maltrattamenti ai detenuti. Avrebbe direttamente assassinato a Milano, il 19 aprile 1979, l’agente della Digos Andrea Campagna, che aveva partecipato ai primi arresti legati al caso Torregiani. Tra i due delitti avrebbe preso parte, senza sparare direttamente ma comunque con ruoli di copertura, al già citato omicidio del macellaio Lino Sabbadin di Santa Maria di Sala. Di tutto ciò si è già discusso.
L’omicidio Sabbadin è tra quelli di cui più si è parlato. In un’intervista al gruppo di estrema destra francese Bloc Identitaire, il figlio di Lino Sabbadin, Adriano, ha dichiarato che gli assassini del padre sarebbero stati i complici del rapinatore da questi ucciso.
O la sua risposta è stata male interpretata, o ha dichiarato cosa che non risulta da alcun atto. Meglio tralasciare le dichiarazioni dei congiunti delle vittime, la cui funzione, nel corso degli ultimi quattro anni, è stata essenzialmente spettacolare.
Cesare Battisti è colpevole o innocente dei tre omicidi di cui lo accusò Mutti?
Lui si dice innocente, anche se si fa carico della scelta sbagliata in direzione della violenza che, in quegli anni, coinvolse lui e tanti altri giovani. Qui però non è questione di stabilire l’innocenza o meno di Battisti. E’ invece questione di vedere se la sua colpevolezza fu mai veramente provata, nonché di verificare, a tal fine, se l’iter processuale che condusse alla sua condanna possa essere giudicato corretto. In caso contrario, non si spiegherebbe l’accanimento con cui il governo italiano, con il sostegno anche di nomi illustri dell’opposizione, ha cercato di farsi riconsegnare Battisti prima dalla Francia e oggi dal Brasile.
A parte le denunce di Mutti, emersero altre prove a carico di Battisti, per i delitti Santoro, Sabbadin (sia pure in ruolo di copertura) e Campagna?
No. Quando oggi i magistrati parlano di “prove”, si riferiscono all’incrocio da loro effettuato tra le dichiarazioni di vari pentiti (Mutti e altri minori) e gli indizi indirettamente forniti dai “dissociati”, tipo Cavallina.
Armando Spataro continua ad asserire che prove e riscontri vi sarebbero.
Continua a dirlo, ma non specifica mai quali.
Cosa si intende per “dissociato”?
Chi prenda le distanze dall’organizzazione armata cui apparteneva e confessi reati e circostanze che lo riguardino, senza però accusare altri. Ciò comporta uno sconto di pena, anche se ovviamente inferiore a quello di un pentito.
In che senso un dissociato può fornire indirettamente indizi?
Per esempio se afferma di non avere partecipato a una riunione perché contrario a una certa azione che lì veniva progettata, pur senza dire chi c’era. Se nel frattempo un pentito ha detto che X partecipò a quella riunione, ecco che X figura automaticamente tra gli organizzatori.
Cosa c’è che non va, in questa logica?
C’è che sia la denuncia diretta del pentito, che l’indizio fornito dal dissociato, provengono da soggetti allettati dalla promessa di un alleggerimento della propria detenzione. La loro lettura congiunta, se mancano i riscontri, è effettuata dal magistrato che la sceglie tra varie possibili. Inoltre è comunque il pentito, cioè colui che ha incentivi maggiori, a essere determinante. Tutto ciò in altri paesi (non totalitari) sarebbe ammesso in fase istruttoria, e in fase dibattimentale per il confronto con l’accusato. Non sarebbe mai accettato con valore probatorio in fase di giudizio. In Italia sì.
Nel caso di Battisti mancano altri riscontri?
Vi sono solo dei riconoscimenti di testi che lo stesso magistrato Armando Spataro ha definito poco significativi.
Eppure dice che “le confessioni di Mutti (…) sono state convalidate da molte testimonianze e dalle successive dichiarazioni di altri ex terroristi” (Il Corriere della Sera, 23 gennaio 2009).
Si tratta sempre di Mutti e di Cavallina. Quanto ai testi, basti dire che l’autore del delitto Santoro aveva la barba (e qui ci siamo, Mutti parla di una barba finta), era biondo (Battisti avrebbe potuto tingersi i capelli) ed era alto 1,90 (qui non ci siamo più: Battisti supera di poco l’1,60).
Ma il pentito Pietro Mutti non può essere ritenuto credibile? Vi sono motivi per asserire che sia mai caduto nel meccanismo “Quanto più confesso, tanto meno resto in prigione”?
Emerge dal dibattimento che condusse a una sentenza di Cassazione del 1993. Citiamo testualmente:
“Questo pentito è uno specialista nei giochi di prestigio tra i suoi diversi complici, come quando introduce Battisti nella rapina di viale Fulvio Testi per salvare Falcone (…) o ancora Lavazza o Bergamin in luogo di Marco Masala in due rapine veronesi”.
Più sotto:
“Del resto, Pietro Mutti utilizza l’arma della menzogna anche a proprio favore, come quando nega di avere partecipato, con l’impiego di armi da fuoco, al ferimento di Rossanigo o all’omicidio Santoro; per il quale era d’altra parte stato denunciato dalla DIGOS di Milano e dai CC di Udine. Ecco perché le sue confessioni non possono essere considerate spontanee”.
Teniamo inoltre conto che Mutti, colpevole di omicidi e rapine, ha scontato solo otto anni di prigione. Un privilegio condiviso con l’uccisore di Walter Tobagi (anche quel caso, su cui permangono molti dubbi, fu istruito da Armando Spataro), con il pluri-omicida Michele Viscardi e con molti altri pentiti.
Ci sono altri motivi per dubitare della sincerità di Mutti?
Sì. Le denunce di Pietro Mutti non riguardarono solo Battisti e i PAC, ma furono a 360 gradi, e si indirizzarono nelle direzioni più svariate. La più clamorosa riguardò l’OLP di Yasser Arafat, che avrebbe rifornito di armi le Brigate Rosse. In particolare, elencò Mutti, “tre fucili AK47, 20 granate a mano, due mitragliatrici FAL, tre revolver, una carabina per cecchini, 30 chilogrammi di esplosivo e 10.000 detonatori” (mica tanto, a ben vedere, a parte il numero incongruo dei detonatori; mancava solo che Arafat consegnasse una pistola ad aria compressa). Il procuratore Carlo Mastelloni poté, sulla base di questa preziosa rivelazione, aggiungere un fascicolo alla sua “inchiesta veneta” sui rapporti tra terroristi italiani e palestinesi, e chiamò persino in giudizio Yasser Arafat. Poi dovette archiviare il tutto, perché Arafat non venne e il resto si sgonfiò.
Ciò ha a che vedere con le armi, provenienti dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, mercanteggiate nel 1979 da tale Maurizio Follini, che Armando Spataro dice essere stato militante dei PAC?
Questo Follini era mercante d’armi e, secondo alcuni, spia sovietica. Fu tirato in ballo da Mutti, ma in relazione ad altri gruppi. Meglio stendere un velo pietoso. Dopo avere notato, però, quanto le rivelazioni di Mutti tendessero al delirio.
Mutti non sarà attendibile per altre inchieste, ma nulla ci garantisce che, almeno sui PAC, non dicesse la verità.
Nulla ce lo dice, infatti, se non un dettaglio. Nel 1993, la Cassazione ha mandato assolta una coimputata di Battisti (nel delitto Santoro), anche lei denunciata da Mutti. Parlo del 1993. Per dieci anni la magistratura aveva creduto, a suo riguardo, alle accuse del pentito. Ciò dovrebbe commentarsi da solo.
Anche ammesso che il processo che ha portato alla condanna di Cesare Battisti sia stato viziato da irregolarità e imperniato sulle deposizioni di pentiti poco credibile, è certo che Battisti ha potuto difendersi nei successivi gradi di giudizio.
Non è così, almeno per quanto riguarda il processo d’appello del 1986, che modificò la sentenza di primo grado e lo condannò all’ergastolo. Battisti era allora in Messico e ignaro di ciò che avveniva a suo danno in Italia.
Il magistrato Armando Spataro ha detto che, per quanto sfuggito di sua iniziativa alla giustizia italiana, Battisti poté difendersi in tutti i gradi di processo attraverso il legale da lui nominato.
Ciò è vero solo per il periodo in cui Battisti si trovava ormai in Francia, e dunque vale essenzialmente per il processo di Cassazione che ebbe luogo nel 1991. Non vale per il processo del 1986, che sfociò nella sentenza della Corte d’Appello di Milano del 24 giugno di quell’anno. A quel tempo Battisti non aveva contatti né col legale, pagato dai familiari, né con i familiari stessi.
Questo lo dice lui.
Be’, lo dice anche l’avvocato Giuseppe Pelazza di Milano, che si assunse la difesa, e lo dicono i familiari. Ma certamente si tratta di testimonianze di parte. Resta il fatto che Battisti non ebbe alcun confronto con il pentito Mutti che lo accusava. Si era sottratto al carcere, d’accordo; però il dato oggettivo è che non poté intervenire in un procedimento che commutava la sua condanna da dodici anni di prigione in due ergastoli (nessun altro imputato nel processo ebbe una condanna simile, inclusi gli assassini di Torregiani!), e gli attribuiva l’esecuzione di due omicidi, la partecipazione a svariato titolo ad altri due, alcuni ferimenti e una sessantina di rapine (cioè l’intera attività dei PAC). Questo era ed è ammissibile per la legge italiana, ma non per la legislazione di altri paesi che, pur prevedendo la condanna in contumacia, impone la ripetizione del processo qualora il contumace sia catturato.
Ma Battisti sottoscrisse delle deleghe ai suoi legali, perché lo rappresentassero, lui contumace.
E’ stato ampiamente dimostrato, dai periti di parte, però scelti tra quelli della Corte di Parigi, che le firme furono falsificate (forse a fin di bene). Le deleghe erano in bianco, e furono redatte nel 1981.
Battisti asserisce la propria innocenza, salvo fatti minori attribuibili ai PAC, senza fornire prove concrete.
Ma Battisti non è tenuto a provare nulla! L’onere della prova spetta a chi lo accusa. Quanto alla sostanza della questione, vediamo di ricapitolarla: 1) un’istruttoria che nasce da confessioni estorte con metodi violenti; 2) una serie di testimonianze di elementi incapaci per età o facoltà mentali; 3) una sentenza esageratamente severa; 4) un aggravio della stessa sentenza dovuta all’apparizione tardiva di un “pentito” che snocciola accuse via via più gravi e generalizzate. Il tutto nel quadro di una normativa inasprita e finalizzata al rapido soffocamento di un sommovimento sociale di largo respiro, più ampio delle singole posizioni.
Ciò non toglie che gran parte della sinistra sia compatta nel sostegno a un magistrato come Armando Spataro, e sia unanime nel richiedere al Brasile l’estradizione.
Questo è un problema della sinistra, appunto. C’è da chiedersi se sia a conoscenza di ciò che non il solo Spataro, ma altri magistrati che come lui furono tra i protagonisti della repressione dei movimenti degli anni ’70 e dei primi anni ’80, pensano dei casi di Adriano Sofri o di Silvia Baraldini. Immagino – o forse spero – che non pochi esponenti della “sinistra” (chiamiamola così) ne resterebbero un po’ scossi. Per non parlare del “malore attivo” (?) a cui Gerardo D’Ambrosio ha attribuito la morte di Giuseppe Pinelli. O del rimbalzo di un proiettile contro un sasso volante che ha ucciso Carlo Giuliani. La denigrazione dei magistrati ha il suo contraltare nella santificazione dei magistrati.
Inutile menare il can per l’aia. Cesare Battisti non ha mai manifestato pentimento.
Il diritto moderno – l’ho già detto – reprime i comportamenti illeciti e ignora le coscienze individuali. Reclamare un pentimento qualsiasi era tipico di Torquemada o di Vishinskij. Il rigetto da parte di Battisti dell’ipotesi di lotta armata è esplicito nei suoi romanzi Le cargo sentimental e Ma cavale, non tradotti in Italia. Essendo uno scrittore, si esprime tramite la scrittura.
Ha persino esultato quando, in Francia, è stato momentaneamente liberato.
Lo farebbe chiunque.
Da perfetto vigliacco, si è sottratto all’estradizione ed è riparato in Brasile, dove è andato a vivere nientemeno che a Copacabana.
Chi conosca Copacabana, sa che oltre la spiaggia e gli alberghi si estendono caseggiati popolari. Lì viveva Battisti. Ma adesso basta con queste stronzate. Battisti è stato tutto ciò che volete, salvo una cosa: non è mai stato ricco. Non è mai stato il prediletto dei salotti di cui favoleggia Panorama. Era il portinaio dello stabile in cui abitava. Si permetteva ogni tanto un caffè al bar di immigrati sotto casa.
Armando Spataro dice, sul numero citato del Corriere della Sera, che Battisti non è mai stato un criminale politico, bensì un delinquente comune, assetato di denaro.
Spataro sovrappone il percorso di Battisti prima della politicizzazione, quando era un semplice delinquente di periferia, a quello successivo. Nessuna delle azioni che gli sono attribuite quale “terrorista”, vere o fasulle, obbediva a fini di lucro personale. Battisti fu un militante dei settori armati di quella che era chiamata “autonomia operaia”. Lo sanno tutti, Spataro incluso. Negare la natura politica dei suoi atti, per indurre il governo brasiliano a concedere l’estradizione, è la menzogna più colossale che circondi la vicenda Battisti. Un delinquente comune non rivendica la sua affiliazione ai “Proletari Armati per il Comunismo”. Del resto, i fascisti, i parafascisti, i post-fascisti dell’Italia odierna citano di continuo la sua posizione di “comunista” quale aggravante. Mentre gli ex-comunisti manifestano nei confronti di Battisti identico orrore, visto che incarna le idee che hanno rinnegato. Non c’è mai stato caso più “politico”, da Valpreda a oggi.
Non si può liquidare così, in una battuta, un problema più complesso.
Esatto. Non si può liquidare così il problema più generale dell’uscita, una buona volta, dal regime dell’emergenza, con le aberrazioni giuridiche che ha introdotto nell’ordinamento italiano. Ma ciò può essere oggetto di altre FAQ, che prescindano dal caso specifico fin qui trattato. Quanto agli accusatori, che gridano a squarciagola “dagli all’assassino!”, osservino le proprie mani. Sono abbondantemente macchiate di sangue. Hanno applaudito un poco tutto, a cominciare dai bombardamenti su Belgrado, fino ad arrivare alle stragi in Libano e a Gaza. Si sono arrossate negli applausi a “missioni umanitarie” condite da massacri. Hanno dato il via libera all’eliminazione sociale dei soggetti deboli, sul mercato del lavoro. Davvero, oggi, i “nemici dell’umanità” si chiamano Battisti o Petrella?
NOTE
1) Cfr. I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sorvegliare e punire, l’Inquisizione come modello di violenza legale, Bompiani, 1988.
2) L’uso della tortura, nei processi contro i terroristi di sinistra fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, è scrupolosamente documentato nel volume Le torture affiorate, coll. Progetto Memoria, ed. Sensibili alle foglie, 1998.
3) Su Panorama del 25 gennaio 2009 il giornalista Amadori, sentita la famiglia, mette in dubbio la labilità della memoria di Rita Vetrani – chiamata a testimoniare, lei minorenne, contro lo zio. I referti dei periti, poco contestabili, sono riportati testualmente in L. Grimaldi, Processo all’istruttoria, Milano Libri, Milano, 1981.
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APPENDICE
Le domande assurde di Panorama a cui Battisti non risponde
Su Panorama del 12 febbraio 2009, il giornalista Giacomo Amadori ha elencato una serie di domande, raccolte tra i magistrati e gli ex compagni, cui Cesare Battisti non saprebbe o non vorrebbe rispondere. Ebbene, ci proviamo noi, quale appendice alle nostre FAQ. Qualche considerazione in chiusura.
http://www.carmillaonline.com/archives/2009/01/002924.html#002924
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Verso il Commons Movement 31.12.2010
Temi trattati
Biocapitalismo, moltitudine, impero, comune
La risposta bio capitalistica alla crisi
I processi di soggettivazione della moltitudine nella crisi
Problemi aperti: quale “organizzazione” per il Commons Movement?
Come dare corpo al Commons Movement?
1) Biocapitalismo, moltitudine, impero, comune.
Le lotte sviluppatesi nel ciclo di accumulazione fordista hanno indotto lo sviluppo di nuove forze produttive – le tecnologie per la comunicazione e l’informazione – e una variazione nella composizione tecnica della forza lavoro tale da renderla, in tendenza, sempre più cognitiva.
Questi processi, se da un lato hanno reso possibile quella integrazione delle informazioni su cui si basa la globalizzazione finanziaria e la messa al lavoro della vita stessa, determinano anche la base materiale per lo sviluppo di nuovi rapporti di produzione, dato che, oggi, la condivisione è più efficiente della competizione.
Constatando che nella contemporaneità la contraddizione tra capitale e lavoro è inglobata nella più ampia contraddizione tra capitale e vita, possiamo parlare di:
bio – capitalismo per denotare le specificità della attuale fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico;
moltitudine per indicare l’insieme di singolarità che si contrappongono al biocapitalismo (moltitudine è concetto di classe che descrive le variazioni intervenute nella sua composizione rispetto alle “masse” novecentesche);
impero come forma attuale del biopotere globale, dotato di dispositivi finanziari, economici, militari e culturali che si sono formati ed operano al di fuori del pubblico rendendo inefficaci lotte sociali centrate su partiti, rappresentanze istituzionali e variazioni nella forma stato;
comune per indicare sia il prodotto della interazione della vita della moltitudine, che l’insieme di beni comuni naturali che rendono possibile la vita, che, infine, l’orizzonte aperto alla cui conquista tendono nella contemporaneità.
2) La risposta bio capitalistica alla crisi
La risposta bio -capitalistica alla crisi è, al momento, centrata su almeno tre assi:
– uso privato della spesa pubblica per ricapitalizzare banche e borse, lasciando a stati nazione e istituzioni locali il ruolo di esattori (e di gendarmi) che ci impongono il pagamento della crisi, divenuta perciò crisi del debito sovrano (almeno negli stati nella zona euro);
– incessante furto del comune e della vita attraverso finanza, guerre, brevetti, ecc. grazie alle politiche di servizio al privato condotte dal pubblico;
– intensificazione dello sfruttamento del lavoro salariato cui vengono estese le “migliori” condizioni ottenute altrove dalle imprese grazie alla globalizzazione della produzione, un processo cui ha poco senso contrapporre istituti contrattuali propri del compromesso fordista tra capitale e lavoro;
Dunque, nella crisi del bio capitalismo:
– non emergono nuove strategie ( es.: la globalizzazione che negli anni ’80 ha permesso di superare la crisi di valorizzazione e di comando della produzione fordista negli stati nazione), mentre la messa a valore della vita, su cui oggi si continua ad insistere, scardina valori, aspettative, compromessi ed equilibri ambientali che hanno permesso fino ad oggi di dare senso al capitalismo;
– catturare “a valle” il valore prodotto dalla vita della moltitudine resta lo scopo sostanziale dei dispositivi effettivamente dispiegati dal bio – potere, il che contrasta con quanti sostengono la centralità dei processi di valorizzazione del lavoro salariato; questi pur costituendone una parte importante, non colgono la tendenza in atto [1]
3) I processi di soggettivazione della moltitudine nella crisi
L’anno solare che si sta chiudendo ci ha permesso di osservare processi di insorgenza della soggettività moltitudinaria ad almeno due livelli:
a) come risposta alle misure varate dal bio potere per fare pagare la crisi alla moltitudine. A diversi livelli di ampiezza e radicalità, le lotte (spesso sotto forma di rivolte) che hanno avuto luogo praticamente in ogni parte del globo:
– si caratterizzano, nei paesi dell’area OCSE per l’essere state tutte sconfitte, per ora, dagli stati nazione entro il cui perimetro si sono svolte e contro il cui potere hanno accettato di essere rivolte; la costruzione di una trama che permetta di esercitare la potenza espressa dalle lotte soprattutto verso i nodi sovranazionali del biopotere ( agenzie di rating, consigli di amministrazione di banche di affari, Commissione Europea, BCE, FMI, ecc), pare oggi la condizione imprescindibile per superare “l’insularità seduttiva della coscienza nazionale” cui soggiace il “politico”;
– hanno comportato importanti miglioramenti delle condizioni di vita in molti paesi asiatici (es.: in Cina si è avuto un forte aumento del salario diretti e differito) e dell’America Latina (es.: in Bolivia l’età pensionabile è stata abbassata a 58 anni);
– hanno visto una presenza forte e radicale di lavoratori cognitivi e di precariato;
b) come pratica sociale delle possibilità offerte dal web 2.0, un terreno che vede l’impegno di quote crescenti di moltitudine e che ha avuto la sua punta avanzata nel fenomeno Wikileaks, dove un uso intelligente e raffinato della rete ha portato:
– alla ridefinizione degli equilibri tra i media ufficiali e rete a favore di questa ultima ed alla credibilità e qualità dei processi comunicativi orizzontali basati sulla auto attivazione;
– ad un approfondimento ulteriore della crisi di credibilità e legittimazione del bio- potere, non solo a centralità USA.
Dunque la moltitudine è attraversata da profondi processi di soggettivazione ed oggi lotta su più piani e non solo sul terreno del politico, dove il bio potere è ben attrezzato, ma lotta anche utilizzando le possibilità che gli offre la rete ottenendo risultati di rilievo.
4) Problemi aperti: quale organizzazione per i l “Commons Movement”
Il processo di soggettivazione della moltitudine assume, come ogni processo reale, forme ed andamenti contradditori, sui quali è bene interrogarsi e sollecitare riflessioni critiche.
Se “inventare il comune” è la prospettiva bio politica che assume nella crisi valore centrale, la sua declinazione pratica in termini di “Commons Movement” implica la attivazione di forme organizzative diverse da quelle segnate dall’ottica proprietaria e in grado di:
– porre il comune, quale alternativa al furto che ne opera il privato ed alla complicità che riceve dal pubblico in tale appropriazione, al centro delle pratiche moltitudinarie;
– garantire dalle inversioni dei fini, la triste costante che ha segnato e segna tuttora la sfera pubblica, operando in autonomia e indipendenza;
– produrre democrazia tramite la attivazione di cooperazione, lavoro in rete e co – ricerca, creando senso per l’auto attivazione delle singolarità, la condivisione e l’inclusione di quote sempre maggiori di esse e il mantenimento di livelli di coinvolgimento delle stesse[2].
La complessività dei fronti di lotta attivati dalla moltitudine ci permette oggi di valutare la repentina adesione di parti importanti del movimento italiano alle tesi sopra confutate (venir meno delle eccedenze proprie del bio – capitalismo; sottovalutazione dei processi di soggettivazione delle moltitudini nella crisi; valorizzazione di percorsi neoistituzionali nella produzione del comune) come una empasse della narrazione bio politica determinata da una ancora assente riflessione condivisa sul ruolo della forma movimento nella invenzione del comune, quale declinazione della a sua volta mancata attivazione di una riflessione condivisa sulla forma organizzazione funzionale alla invenzione del comune.
I due punti di riflessione e sperimentazione sopra citati appaiono entrambi centrali e urgenti. In particolare, dato l’avvitarsi della crisi del bio capitalismo, occorre sviluppare adeguatamente una riflessione condivisa sulle caratteristiche e sui dispostivi dell’organizzazione di cui abbiamo bisogno ora, che:
– coincide solo in piccola parte con la forma movimento che abbiamo ereditato dagli anni ’90; ovvero la forma movimento (con ciò intendendo l’insieme dei luoghi, delle pratiche e delle modalità decisionali che abbiamo adottato fino ad oggi) non è sufficiente per fare del comune il modo di gestione mainstream che la crisi richiede;
– trova enormi potenzialità di applicazione e sviluppo nell’interazione con chi i commons li tutela, li produce e li inventa;
– – non trova sponde sui terreni della politica novecentesca, sempre esposta alla coazione a delegare a qualche leader / soggetto della rappresentanza istanze e bisogni per vederseli divenire oggetto di mediazioni al ribasso.
5) Come dare corpo al Commons Movement?
Questo problema sarà impostato e risolto solo grazie alla collaborazione di tutt@.
Per rompere il ghiaccio e stimolare la discussione sembra opportuno proporre:
a) un ulteriore sviluppo dell’ottica attivata con la Camera del Comune “Commonslab” di Perugia, quale istituzione autonoma e indipendente dal pubblico e dal privato che ha lavorato nel 2009- 2010 per contribuire alla invenzione/produzione/costruzione del comune, meta organizzando a livello regionale:
a.1) inchieste e co ricerche con reti: donne, comunità di pratiche, associazioni di base, sindacati di lotta, studentati, su come la vita viene impattata dal furto del comune e sulle pratiche che ne permettono la tutela e lo sviluppo;
a.2) sperimentazione di pratiche volte a trasformare il pubblico in comune grazie alla conquista di un nostro ruolo reale nella:
a.2.1) scelta delle priorità su cui investire le risorse;
a.2.2) valutazione della qualità e dei risultati ottenuti in regime di terzietà, mettendo fine alla compiacente autovalutazione di tecnici e politici da parte di se stessi, un fenomeno che ha portato alla scandalo dell’uso privato del servizio sanitario da parte dei partiti politici ed alle conseguenti dimissioni dell’Assessore alla sanità.
La trasformazione del pubblico in comune può avere realizzazioni avanzate nei seguenti settori:
– università e scuola (modello generale di unicommons, autoformazione repositories, .ecc );
– gestione del bene comune acqua dove si profila la sperimentazione di una soluzione gestionale concreta basata sulla attivazione di una “comunanza [3] /coooperativa” in un ATO dell’Umbria;
– il consumerismo, che sull’onda della motivazione maturata in molte associazioni consumatori ad evolvere da
clienti a cittadini, sviluppa proposte e sperimentazioni per la trasformazione di alcuni servizi pubblici aziendalizzati in servizi comuni ( es.: Sanità, AFAS, ecc)
– la tutela dell’ambiente con interazioni con le associazioni di base attive nel settore dei rifiuti solidi urbani, associazioni di medici per l’ambiente, e realtà di base attive in altri settori;
– le politiche sociali, e in partcolare quelle x la piena integrazione dei migranti;
– la agibilità biopolitica nella città ( mobilità, socialità, ecc).
b) ridefinizione del CS in laboratorio aperto per la autoproduzione di socialità non mercificata (relazioni, musica, immagini, arti performative, ecc);
c) sviluppo del comune nella produzione di beni tramite interazione con sindacati di lotta e realtà produttive in crisi. Qui possono essere attivate sperimentazioni con le realtà di fabbrica intaccate dalla crisi per riorganizzazione la produzione di beni a fini sociali, recuperando a tale scopo i (nostri) soldi che la Regione ( il pubblico!) regala in gran quantità ai privati senza alcuna ricaduta socialmente apprezzabile;
d) All’interno della funzione di creazione di senso intorno al Commons Movement, potrebbe essere funzionale attivare un osservatorio regionale sul comune, con un “wiki commons” che potrebbe essere il luogo in cui:
– sviluppare una sinossi dei processi sopra descritti;
– raccogliere e condividere informazioni sull’uso privato del pubblico;
– attivare sperimentazioni volte a utilizzare la rete come luogo decisionale, superando le aporie dell’assemblearismo anni ‘70, dove vincoli spazio temporali consentono solo la partecipazione di pochi fino all’emergere di dinamiche di gruppo che vanno bene per gli studiosi di psicoterapia ma servono poco alla invenzione del comune;
e) attivazione di momenti di autoformazione del Commons Movement anche nell’università.
Note
[1] Se Marx non avesse valorizzato nelle sue analisi la tendenza e si fosse limitato alle forme prevalenti della produzione, piuttosto che i Grundrisse e il Capitale, avrebbe probabilmente scritto qualcosa sul lavoro nei campi.
[2] “Meta organizzazione” è il termine proposto da Rullani per delineare quei processi organizzativi che sono caratterizzati dalla attivazione di dispostivi descritti.
[3] Termine proposto per la traduzione in italiano di “common” e che tiene insieme i concetti di bene, regola d’uso e comunità di riferimento
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A 15 anni, pronto alla battaglia…
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«Noi, ragazzi in rivolta inascoltati e precari» 03.01.2011
Gli studenti rispondono al Presidente della Repubblica
Noi non scappiamo dall’Italia». Gli studenti rispondono così, con un video, al canonico messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una risposta «dovuta» ci spiegano, «visto che il Presidente ha messo i giovani al centro del suo discorso che ha sancito la fine di un 2010 che passerà alla storia come l’anno della rivolta di un’intera generazione» ci spiega Claudio Riccio del Coordinamento universitario Link. Anche per Tito Russo dell’Unione degli Studenti «le parole di Napolitano sono la dimostrazione di come il movimento studentesco sia stato in grado di aprirsi a tutta la “Generazione P”, una generazione di giovani studenti, operai, ricercatori uniti tra loro dalla P di precarietà». Così, se per il Presidente Napolitano «i giovani devono essere posti al centro dell’attenzione politica e sociale, e quindi dell’azione pubblica», per i giovani «il presidente Napolitano ha stigmatizzato quello che stiamo denunciando da tempo: la totale sordità del Governo rispetto alle nostre proteste e proposte per un’altra università». Inascoltati e precari, quindi. Per questo, secondo Claudio Riccio, «oltre alla discontinuità rispetto ai messaggi degli anni passati, il merito delle parole della prima carica istituzionale italiana sta nell’aver messo al centro non “i giovani” in quanto tali, ma i giovani come generazione. Una generazione “in rivolta” che è lo specchio del distacco tra la società e le istituzioni democratiche che versano, oggi, in una crisi profonda». Non è un caso, quindi, che gli studenti abbiano risposto «noi restiamo qui». «Noi restiamo qui perché vogliamo conquistare nuove opportunità per la nostra e le future generazioni. Noi restiamo qui perché non vogliamo che l’Italia venga privatizzata. Noi restiamo qui perché siamo già, di fatto, “oltre” il Ddl Gelmini: con le mobilitazioni diffuse in tutto il paese e che si sono unite alle altre lotte contro la crisi abbiamo preso parola, in generale, sul tema della società. Contro la privatizzazione dell’università, abbiamo reso pubblica la discussione su quale “altra” università ma anche su quale “altra” società». Per questo, anche se il Presidente Napolitano non fornisce risposta ai giovani che, come ha spiegato nel messaggio di fine anno, «si interrogano del loro futuro», sono i giovani stessi a tracciare il percorso: il 28 gennaio saranno in piazza, come già accaduto il 16 ottobre, con la Fiom. Perché «non è Napolitano a dover elaborare soluzioni: questo è un compito che spetterebbe al Governo o, almeno, alla politica» ci spiega Tito Russo. Ma se dal Governo non ci si può aspettare niente di buono sul fronte della partecipazione, «a preoccupare è la distanza tra le nostre istanze e l’opposizione politica a questo Governo: il Pd quando parla sembra mosso da tante buone intenzioni ma poi si perde in mille rivoli. E allora vorremmo capire se quello che dovrebbe essere il primo partito dell’opposizione sta con noi o è più preso dalla finta discussione parlamentare sul concetto di merito. Ma anche se sta con gli operai o con Marchionne». Inascoltati, precari ma determinati. «Ai problemi della nostra generazione dovremo rispondere noi stessi» concludono: «il movimento studentesco ha iniziato ponendo interrogativi. Quindi chiedendo ascolto. Ora stiamo fornendo le risposte. Stiamo viaggiando non su un piano inverso o contrario a quello del Governo, ma semplicemente su un altro piano. Un piano che porta in piazza le risposte, insieme alle persone». Un piano che ha, in qualche modo, “contagiato” lo stesso Presidente della Repubblica. Le parole usate nel messaggio di fine anno assomigliano molto a quelle al centro della discussione avvenuta in Quirinale lo scorso 22 dicembre in occasione dell’incontro con la delegazione del movimento studentesco. «Napolitano pone al centro del dibattito politico – ci spiega Eleonora Forenza, responsabile università del Prc – il rischio che, in questo scenario di crisi economica e democratica, il silenzio al quale è condannata questa generazione privi l’Italia e l’Europa intera di crescita, di sviluppo, di futuro. Contemporaneamente, però, denuncia la sordità del Governo alle proposte e alle esigenze della stessa generazione. Il problema centrale, quindi, è quello della democraticità del nostro sistema politico che vive di scelte calate dall’alto che non fanno altro che aumentare il distacco tra istituzioni e società». E allora, l’unica strada per invertire la rotta è proseguire con il “contagio”. Per questo, il miglior augurio da parte degli studenti per il nuovo anno che si aprirà all’insegna della prosecuzione delle lotte con lo sciopero dei metalmeccanici «è di continuare sul contagio iniziato negli ultimi mesi del 2010».
Daniele Nalbone
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“L’Italia è il laboratorio del totalitarismo moderno”. Intervista a Stefano Rodotà 03.01.2011
di Miguel Mora, da El Paìs, traduzione italiana di Andrea Pinna da megachip.info
Difensore della laicità, della democrazia e del buon senso, Stefano Rodotà è uomo di squisita gentilezza. Maestro del diritto, schierato senza ambiguità ed erede dell’operosità di Pasolini, è forse il penultimo umanista europeo ed uno dei pochi intellettuali di razza che rimangono in questa Italia «triste e sfilacciata che si guarda l’ombelico e sembra sempre di più un’appendice del Vaticano mentre si avvicinano i 150 anni dell’unità del Paese.»
Professore emerito di diritto civile alla Sapienza di Roma, Rodotà nato a Cosenza 73 anni fa, scrive libri ed articoli, partecipa a congressi, dirige il Festival del Diritto a Piacenza, promuove manifesti e combatte battaglie per innumerevoli cause,dalla libertà di stampa all’etica pubblica, all’eutanasia.
Eletto deputato del PCI nel ’79, visse come parlamentare la convulsa decade finale della prima Repubblica e fu poi il primo presidente del PDS, fondato nel ’91 da Achille Occhetto dalle ceneri del PCI. Appena un anno dopo, forse prevedendo ciò che sarebbe successo, abbandonò la politica.
Oggi insegna in molte università del mondo e come specialista in filosofia del diritto e coautore della Carta fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea, è un riferimento obbligato in tema di libertà individuali, nuovi diritti, qualità democratica e abusi di potere. Sono ormai dei classici i suoi lavori sulla relazione tra diritto e privacy, tecnologia, lavoro, informazione e religione.
È stato appena tradotto (in spagnolo, NdT) il suo libro “La vita e le regole. Tra diritto e non diritto”, un saggio del 2006 ampliato nel 2009, nel quale Rodotà riesamina i limiti del diritto e ne rivendica una natura «più sobria e rispettosa delle molteplici e nuove forme che ha assunto la vita umana».
Il professore denuncia la tirannia che i nuovi chierici del diritto vogliono imporre ai cittadini: una «casta di notabili» costituita da giuristi e avvocati, dai grandi studi internazionali che «elaborano le regole del diritto globale su incarico delle multinazionali», gli «invisibili legislatori che sequestrano lo strumento giuridico, trasformando una mediazione tecnica in una procedura sacralizzata».
Il libro traccia una critica post-marxista della giungla dei vincoli legali che comprimono le libertà introdotte dalle innovazioni tecniche e scientifiche. Citando Montaigne («la vita è un movimento variabile, irregolare e multiforme») Rodotà spiega come il “vangelo del mercato”, il potere politico e la religione abbiano prodotto insieme «una mercantilizzazione del diritto che apre la strada alla mercificazione persino dei diritti fondamentali», come si rileva da questioni tanto diverse quali l’immigrazione, le tecniche di fecondazione artificiale, o le nuove frontiere della biologia.
A parere di Rodotà questa logica mercantilista e invasiva è «in totale contraddizione con la centralità della libertà e dignità» e la privatizzazione della legalità in un mondo globale crea enormi diseguaglianze, paradisi ed inferni, «luoghi dove si creano nuovi diritti e libertà e altri dove il legislatore pretende di impadronirsi della vita delle persone».
«Il paradosso è che questa disparità, che in teoria dovrebbe favorire la coscienza dell’eguaglianza nel mondo, rischia invece di consacrare una nuova cittadinanza basata sul censo», spiega. «Se si legifera sui geni, il corpo, il dolore, la vita, i privilegi o il lavoro applicando la repressione, l’arroganza e la tecnica d’impresa della delocalizzazione, le libertà diventano merci e solo chi può permettersi di pagare ne potrà fruire».
Rodotà cita come esempio il matrimonio omosessuale o la fecondazione assistita, «che in Italia producono un flusso di turisti del diritto verso paesi come la Spagna e altri meno sicuri come la Slovenia o l’Albania». E per converso, «i paradisi fiscali e i paesi meno rispettosi dei diritti di chi lavora o con una blanda legislazione ambientale che attraggono imprese e capitali».
La grande sfida, afferma Rodotà, è «uscire dal diritto e tornare alla vita». O come afferma nel prologo del libro il prof. Josè Luis Piñar Mañas «unire vita e diritto, diritto e persona, persona, libertà e dignità; mettere il diritto al servizio dell’uomo e non del potere».
D. Non è paradossale che un giurista metta in guardia dagli eccessi del diritto?
R. Il vero paradosso è che il diritto, che dev’essere solo una mediazione sobria e sensata, si trasformi in un’arma prepotente e pretenda di appropriarsi della vita umana; il che è collegato alle innovazioni scientifico-tecnologiche. Prima nascevamo in un solo modo, da quando Robert Edwards, premio Nobel, ha inventato il bebè in provetta, sono cambiate le regole del gioco e la legge naturale non è governata solo dalla procreazione naturale. Ci sono altre possibilità e nasce quindi il problema: deve intervenire il diritto? E fino a dove? Talvolta la sua pretesa è di mettere in gabbia la scienza, contrapporre il diritto ai diritti, usare il diritto per negare le libertà. Questo è lecito? Talora può sembrare che lo sia, ad esempio nella clonazione.
D. E in altri contesti?
R. A mio parere il diritto deve intervenire senza arroganza, senza abusare, lasciando le persone libere di decidere in coscienza. Il caso di Eluana Englaro è un esempio lampante dell’uso prepotente della legge e anche del ritardo culturale e politico che vive l’Italia. Il potere e la Chiesa hanno deciso, violando il dettato costituzionale sull’inalienabile diritto della persona alla dignità e alla salute, che era necessario intervenire per limitare la dignità di quella donna ormai senza vita cerebrale e il diritto di suo padre a decidere per lei. Il problema non è solo lo strappo autoritario del potere politico, ma l’insensata sfida alla norma suprema, la Costituzione, e l’attiva partecipazione della Chiesa a quell’attacco.
D. La proibizione della fecondazione assistita è stata confermata in Italia da un referendum popolare.
R. Alcune scoperte scientifiche pongono in dubbio l’antropologia profonda dell’essere umano come l’uso e il non utilizzo di diversi embrioni nelle tecniche di fecondazione assistita. Il diritto deve prevedere queste innovazioni, non bloccarle. Gli scienziati chiedono regole per sapere se le loro scoperte sono eticamente e socialmente accettabili. Un uso prepotente della legge limita le loro ricerche, nega il progresso umano e così si appropria delle nostre vite perché ci nega ogni diritto o peggio, lo nega solo ad alcuni. Gli italiani ricchi possono andare in Spagna a sottoporsi alle tecniche di fecondazione, ai poveri ciò è precluso. Si crea una cittadinanza fondata sul censo e si distrugge lo Stato sociale. La vita viene prima della politica e del diritto.
D. L’Italia attuale è sottomessa al fondamentalismo cattolico?
R. L’Italia è un laboratorio del totalitarismo moderno. Il potere, abusando del diritto, privatizzandolo e considerandolo una merce, crea le premesse per un fondamentalismo politico e religioso e questo mina la democrazia. I vescovi italiani si oppongono al testamento biologico; quelli tedeschi ne hanno proposto una regolamentazione che è più avanzata di quella elaborata dalla sinistra italiana. Ad un anno dalla morte di Eluana, Berlusconi ha scritto una lettera alle suore che l’assistettero comunicando loro il suo dolore per non averle potuto salvare la vita. Ha ammesso pubblicamente che il potere ha tentato di appropriarsi della vita di Eluana; adesso sta proponendo alla Chiesa un “piano per la vita”, come moneta di scambio perché lo appoggi e gli permetta così di continuare a governare. Cioè ha svenduto lo Stato di diritto al Vaticano per quattro soldi.
D. Gli omosessuali continuano a non avere diritti e i laici contano sempre meno.
R. La Corte costituzionale si è pronunciata nel senso che il Parlamento deve legiferare riconoscendo il matrimonio omosessuale; questo diritto è già garantito dalla Carta dei diritti dell’Unione europea. Abbiamo bisogno di un diritto sobrio, non negatore dei diritti; la religione non può condizionare la libertà. La Costituzione del 1948 all’art.32 afferma che la legge non può mai violare i limiti imposti dal rispetto della vita umana; detto articolo fu elaborato ricordando gli esperimenti nazisti e con la memoria rivolta ai processi contro i medici (nazisti NdT) a Norimberga. Fu un articolo voluto da Aldo Moro, un politico cattolico!
D. Ha mai pensato che avrebbe un giorno rimpianto la Democrazia Cristiana?
R. Quei politici avevano ben altro spessore culturale. La dialettica parlamentare tra la DC e il PCI era di un livello che oggi appare impensabile. Mentre la DC era al potere, si approvarono le leggi sul divorzio e sull’aborto; i democristiani sapevano che la società e il femminismo le volevano e capirono che opporsi li avrebbe danneggiati politicamente. Molti di loro erano dei veri laici,avevano il senso della misura e maggior rispetto verso gli avversari. Oggi siamo ridotti al turismo per poter nascere e morire, la gente si prenota negli ospedali svizzeri per poter morire con dignità. È mai possibile che uno Stato democratico obblighi i suoi cittadini a chiedere asilo politico per morire? Il diritto deve regolare questi conflitti, non acuirli.
D. Rosa Luxemburg diceva che dietro ogni dogma c’era un affare da difendere.
R. Certo, immagino che gli interessi della sanità privata influenzino le posizioni del Vaticano. Rispetto alle conclusioni del Concilio, le cose sono andate progressivamente peggiorando e oggi l’Italia è governata da movimenti come Comunione e Liberazione, che fanno affari favolosi con l’aiuto e il consenso del Governo. La cattiva politica è figlia della cattiva cultura; i problemi attuali nascono dal degrado culturale. Spero che il regime politico di Berlusconi finisca al più presto, ma ci vorranno decenni per superare gli effetti di questo deserto culturale. L’uso della televisione non solo come strumento di propaganda, ma come mezzo di abbruttimento; la degenerazione del linguaggio… tutto è peggiorato. Il degrado ha invaso un’area molto più ampia di quella del centro-destra e c’imbattiamo dovunque in comportamenti speculari a quelli di Berlusconi.
D. Vengono posti in discussione persino i diritti del lavoro.
R. Il pensiero giuridico si è molto impoverito. Negli anni settanta approvammo una riforma radicale del diritto di famiglia perché la cultura giuridica e la sua ispirazione democratica lo permisero. Si chiusero i manicomi, si approvò lo Statuto dei lavoratori… riforme che oggi sarebbero impensabili.
D. La sinistra non reagisce adeguatamente, perché?
R. Il recupero della cultura è la premessa per ridar fiato all’iniziativa della sinistra. Tutti dicono che si deve guardare al centro, io credo che si debba prima rianimare la sinistra. Craxi distrusse la socialdemocrazia, il PCI si è suicidato, un cataclisma di cui perdurano ancora gli effetti. Abbiamo perso il primato della libertà e oggi comanda l’uso privato e autoritario delle istituzioni. La società si è decomposta, il Paese rischia il disfacimento. La politica mostra i muscoli e il diritto si sbriciola.
D. L’Europa ci salverà?
R. L’Europa non vive un momento splendido. Aumentano xenofobia e razzismo; la debolezza culturale italiana si allarga a tutto il continente. Trono e altare sono di nuovo alleati, anche se in un’altra maniera rispetto al passato. Oggi assistiamo alla fusione di mercato, fede e politica che pretendono di organizzare le nostre vite manipolando il diritto. Il problema italiano non è l’insufficiente contrasto della corruzione, bensì che la si promuove ai sensi di legge, come emerge dallo scandalo della Protezione civile: si è derogato dalla trasparenza e dai controlli ordinari per poter rubare più facilmente. Negli anni settanta le tangenti erano ridicole e comunque c’era maggiore compostezza e rispetto della collettività. Craxi ebbe un ruolo devastante, rappresentò un cambio d’epoca. Adesso si è imposta la regola “Se lo fa Berlusconi, perché non lo posso fare io?”.
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Il falso paradosso del costo del lavoro 03.01.2011
Stefano Perri, Professore ordinario nell’Università di Macerata.
1. È opinione comune, espressa in molti dibattiti nei media, che in Italia si verifichi un curioso paradosso per quanto riguarda il costo del lavoro. Infatti il livello dei salari e degli stipendi dei lavoratori italiani è basso rispetto agli altri paesi avanzati, ma si lamenta tuttavia che le imprese debbano sostenere un alto costo per ciascun lavoratore impiegato in rapporto al valore aggiunto per addetto. Lo stesso “successo delle imprese nel sistema competitivo” ne risulterebbe danneggiato[1]. In realtà si tratta di un falso paradosso e l’affermazione appena richiamata andrebbe fortemente qualificata e rettificata. Infatti molto spesso non si considera attentamente che cosa effettivamente indicano i dati statistici.
2. Recentemente è stato negato che nella maggioranza dei paesi sviluppati si sia verificata una diminuzione della quota dei salari sul reddito a partire dagli anni’80, come invece è ritenuto da molti economisti[2].
Posta uguale a 100 la quota del compenso del solo lavoro dipendente sul PIL nel 1980, si vede però che nel 2010 per tutti i paesi considerati la quota è diminuita, da un minimo di 4,24 punti in Giappone ad un massimo di 11,83 punti in Italia.
Continua qui, ricco di grafici e come sempre ben argomentato: http://www.economiaepolitica.it/index.php/distribuzione-e-poverta/il-falso-paradosso-del-costo-del-lavoro/
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I cd durano poco, un microbo è per sempre 04.01.2011
L’umanità ha sempre cercato l’immortalità. Non potendola raggiungere letteralmente, ci si è accontentati di inseguirla attraverso l’eredità della memoria. Ma i supporti ci possono tradire
Se pensiamo all’immortalità come trasmissione di memoria, in fondo parliamo di messaggi in bottiglia che affidiamo al mare del tempo. La ricerca dell’immortalità si intreccia con una storia di tecnologie dei supporti cui affidare il proprio messaggio al futuro. Dalle pareti delle grotte alle tavolette di terracotta, dalle lastre di pietra a pelli e papiri… l’ironia della sorte è che spesso sono diventati immortali banali conti della spesa mentre sono andate perse opere fondamentali (basti pensare all’incendio della Biblioteca di Alessandria). Mai, nella storia dell’umanità è stato così facile provare ad essere immortali. Creare memoria da lasciare in eredità ai posteri, ad eventuali nostri futuri biografi. Dalla Nasa alla più scarsamente tecnologica delle zie abbiamo però tutti lo stesso problema: far durare le informazioni. Come salvare per l’eternità dati, immagini, filmati, emozioni? Il problema è serio. Nulla è eterno e immutabile. E la tecnologia guarda avanti e non indietro.
Le tecnologie muoiono
Buona parte dei dati raccolti dai satelliti della Nasa negli anni ‘60 si stanno perdendo: non solo i nastri magnetici originali stanno smagnetizzandosi, ma non esistono quasi più macchine in grado di leggerli. Chi ha investito soldi e tempo nel costruirsi una collezione di videocassette sa che la fine è vicina. Analoga sorte per i dati conservati sui primi floppy disk, quelli delle dimensioni di un 33 giri o quasi, ma anche i dischetti più recenti. Prima o poi capiterà ai Cd e ai Dvd, ai BluRay. E potremmo continuare citando le pellicole 8 mm, le Kodachrome e così via. Ma al di là dell’obsolescenza tecnologica c’è il problema della degradazione dei supporti. A differenza delle solide rocce dei nostri antenati, i supporti moderni hanno una durata limitata. Lastre e pellicole perdono le immagini, la carta ingiallisce, i supporti magnetici si smagnetizzano, gli stessi hard disk perdono dati e anche Cd e Dvd masterizzati in casa hanno una durata limitata. E gli esperti sanno bene che la buona vecchia carta (di buona qualità) mediamente dura molto, molto di più di un qualsiasi supporto digitale. Il che ha delle profonde implicazioni sui progetti di digitalizzazione delle biblioteche e delle collezioni.
Digitalizzare l’informazione dell’umanità appare inoltre un compito quasi impossibile: se la Libreria del Congresso americana ha raccolto in 200 anni di storia di una collezione di oltre 140 milioni di pezzi, si stima che una quantità equivalente di informazione venga oggi generata ogni 15 minuti, nel mondo. Ma anche archivi meno vasti hanno i loro problemi, come nel caso della Foundation Institute for Visual History and Education, un archivio dell’Università della Southern California che ha raccolto oltre 52.000 interviste video con sopravvissuti e testimoni della Shoah. 100.000 ore di video, 235.000 nastri in vent’anni. Una migrazione massiccia da vecchi Vhs e Beta ai nuovi formati digitali, per un inquietante totale di 8.000 Terabyte di dati. Milioni di dollari di investimento. Ed ogni tre anni tutto viene ricopiato un’altra volta.
Possiamo fidarci?
Secondo l’aneddotica (tutta da verificare), i supporti tecnologici creati dall’umanità per durare più a lungo sarebbero i messaggi per eventuali extraterrestri affidati dalla Nasa alle sonde Pioneer e Voyager. Una placca d’alluminio incisa per il primo (nulla di nuovo sotto il sole, un graffito), un disco di rame placcato oro con video, musiche, dati il secondo. Teoricamente costruito per durare un miliardo di anni (tanto, prima che qualcuno reclami…). Con tanto di campione radioattivo in copertina per permetterne una datazione a eventuali scopritori alieni. Un oggetto decisamente fuori mercato per il privato.
Se si studiano gli incerti dati disponibili sulla durata dei supporti, concludiamo che non c’è da fidarsi troppo. Un Cd o un Dvd potrebbe o dovrebbe durare da un minimo di un paio d’anni a forse 10, 20 o qualcosa di più… ma tutto dipende dalla marca, dalla qualità del prodotto, da come lo abbiamo usato e conservato. E quindi in sostanza potrebbe tradirci da un momento all’altro. Forse ancora peggio per gli hard disk e per le memorie allo stato solido (dalle chiavette Usb ai dischi Ssd) le cui durate possono essere parecchio variabili. Quanto valeva per i vecchi supporti cartacei, per le foto, per i dischi magnetici, vale anche per i nuovi media: lentamente tutto si disgrega. Anche supporti esoterici come i cosiddetti dischi eterni (Cd o Dvd costruiti con particolari metalli e tecnologie) non durano teoricamente più di 100 anni (anche qui, dura da verificare sul campo, la promessa del produttore…), a costi anche 100 volte superiori ai Cd da supermercato.
I più bravi copiano
In realtà non si conosce esattamente la durata reale dei supporti, anche perché alcuni di questi sono sul mercato da relativamente pochi anni. È impossibile stimare esattamente la durata anche perché dipende dal produttore, condizioni in cui sono usati e quanto li si usa ogni giorno; e i dati (contraddittori) disponibili derivano da esperimenti e test di invecchiamento accelerato che cercano di simulare un passaggio del tempo che non abbiamo ovviamente tempo di attendere.
Se vogliamo salvare la memoria, c’è un’unica soluzione. Copiare. E continuare a copiare. Si chiama migrazione perpetua, un processo che occuperà tutta la nostra vita e anche quella dei nostri discendenti, se vorranno conservare questa immortalità di ricordi (o di dati aziendali). Copiare da un hard disk (ancora perfettamente funzionante) a un altro disco nuovo, tenere entrambe le copie e ripetere a distanza di qualche mese. Duplicare i Dvd su un altro disco fisso. Un lavoro impegnativo e costoso, che ci impegna, vita natural durante a rinnovare il rito del salvataggio, delle riconversione. Magari dandoci anche un’opportunità per rieditare, censurare, modificare la storia passata in una sua nuova e più adeguata versione. E facendoci rimpiangere i bei tempi in cui bastava spargere un po’ di colori sulle mura di una caverna per vivere sereni per il resto della nostra (breve) esistenza preistorica.
Tutto fra le nuvole
Possiamo però delegare a terzi, nella cosiddetta nuvola, tutta questa operazione. Spesso, gratuitamente: Google, Picasa o Flickr, YouTube, Dropbox e la stessa Microsoft, oppure Amazon. Se non ci fidiamo di servizi consumer potremmo optare per costosi servizi professionali di archiviazione o addirittura di servizi superblindati e ad altissima sicurezza, come nel caso dei bunker antiatomici svizzeri, riconvertiti in data center a prova di nucleare (il cui listino di prezzi è assolutamente segretissimo) e che magari ci creano meno patemi sulla privacy delle nostre vecchie foto di scuola. In questa continua ricerca dell’immortalità del dato e della memoria, si profilano all’orizzonte nuove ed affascinanti forme di memorizzazione. Quella tecnologicamente più prossima potrebbe essere quella della memorizzazione olografica.
Più a lungo periodo si immaginano innovazioni dal campo delle nanotecnologie, sia con dischetti da 100 TB che con più radicali invenzioni, che immagazzineranno i dati in microscopici tubicini o in nanosfere. Ma quello che è forse il traguardo ultimo potrebbe essere usare il più potente mezzo di archiviazione inventato dalla natura, il Dna. A quanto dicono alcuni scienziati, le informazioni che descrivono un essere umano contenute nel nostro Dna assommerebbero a 750 MB, poco più di un Cd-Rom, ma consideriamo che non c’è nemmeno una foto o un filmino – e sarebbero un manuale di circa 350.000 pagine (ma c’è chi porta questo dato ad un milione o anche più pagine). Un filamento di Dna può contenere di più, molto di più. E molti filamenti di Dna… una quantità pressoché infinita di dati. Essendo chiaro che sarebbe abbastanza complesso cercare di infilare filamenti di Dna 50.000 volte più sottili di un capello in un lettore di Cd, si devono trovare altri “lettori”, e la strada giusta pare siano i più umili tra i viventi: gli ubiqui batteri.
Già nel 2007 un team di scienziati giapponesi è riuscito a memorizzare in un batterio il testo “E=MC2 1905!” in omaggio ad Albert Einstein: un’informazione che potrebbe durare centinaia di migliaia di anni, riproducendosi col batterio. Un grammo di Escheria Coli dovrebbe riuscire teoricamente a contenere 900 TB. Insomma, forse la strada dell’immortalità che gli egizi cercavano in enormi piramidi, l’uomo del futuro la troverà in un umile microbo.
http://www.apogeonline.com/webzine/2011/01/04/i-cd-durano-poco-un-microbo-e-per-sempre
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Salmoni nel cuore di Londra
Il Tamigi è ritornato a vivere 02.01.2011
Vinto l’inquinamento, in Italia fiumi ancora malati. Si è investito sui depuratori mentre da noi l’88 per cento delle specie è in pericolo
dal nostro inviato ALBERTO MATTONE
LONDRA – Prima s’è affacciato il salmone, dopo un’assenza di decenni. Poi è tornata la lontra, si sono riviste le sogliole, sparute foche, anche. Persino i cavallucci marini hanno messo fine a un esilio secolare, e si stanno riorganizzando in colonie per tornare ad abitare quelle acque di Londra prima inospitali a causa dei veleni: il Tamigi, il fiume che era stato dichiarato “biologicamente morto” solo cinquant’anni fa, ha ripreso a vivere, tornando limpido come ai tempi che precedettero la Rivoluzione Industriale.
L’ultimo rapporto dell’Environment Agency, l’ente statale che gestisce i corsi d’acqua, fa gridare al miracolo. Non solo per quanto sta accadendo “dentro” l’Old Father Thames, come i londinesi chiamano il loro fiume. Ma anche per i dati, rivelati dall’Independent, degli altri “torrenti” del Regno Unito, prima fogne a cielo aperto, ora luoghi dove sta rinascendo la vita. La risurrezione della flora e della fauna lungo e dentro i canali della Gran Bretagna è il frutto di un lavoro sulla qualità dell’acqua che è stato un punto fermo nell’ecostrategia britannica, dalla Thatcher ad oggi.
Un quadro opposto a quello disegnato dal Wwf che ha realizzato la mappa del degrado dei fiumi italiani.
Cemento e rifiuti svuotano e alterano i nostri corsi d’acqua e minacciano trote, tinche, decine di pesci autoctoni, dal Piave al Loreto, in Sicilia. Il dossier del Wwf tratteggia un quadro desolante dei nostri fiumi, inquinati da scarichi a cielo aperto e depuratori non funzionanti.
Una situazione che mette in pericolo di estinzione l’88% dei pesci di acqua dolce, e due terzi degli uccelli e dei mammiferi che vivono lungo i torrenti.
Il Regno Unito, da anni, ha preso un’altra strada, scegliendo la via maestra degli standard europei: certo, la chiusura di acciaierie e miniere ha aiutato. Ma questo non spiega da solo il miracolo britannico. L’Agenzia per l’Ambiente ha investito massicciamente nei depuratori. Ha iniziato a trattare tutti i reflui fognari di Londra, ha introdotto una legislazione più dura contro gli inquinatori. L’acqua pulita ha riaperto la strada al salmone. E quest’anno il Tamigi, che ospita 125 specie di pesci, ha vinto il Thiess River Prize, il riconoscimento internazionale che premia i progetti di recupero dei corsi d’acqua.
In Italia stiamo cinquant’anni indietro. “I nostri fiumi stanno morendo”, denuncia il Wwf. “L’autorità nazionale di bacino – accusano gli ambientalisti – non è mai nata, ed è stata sacrificata nel nome del federalismo, indebolendo così i controlli”. Lo stato del degrado è stato fotografato qualche mese fa da 600 volontari, che hanno setacciato 29 corsi d’acqua in tutte le regioni, alla ricerca della biodiversità perduta. Sul Loreto, in Sicilia, ad esempio, le briglie in cemento si moltiplicano, aumentando la velocità di scorrimento delle acque.
Sull’Agri, in Basilicata, sono stati individuati 74 sbarramenti e 26 depositi di rifiuti. Lungo l’Adda, poi, aumentano i cantieri e, in località Zelo Bompersico, sono stati scoperti anche scarichi non funzionanti che sversano liquami direttamente nel fiume, minacciato anche da coltivazioni di mais, che hanno “mangiato” salici e canneti.
Anche l’Aniene è avvelenato da depuratori inattivi. Scarichi abusivi sono stati denunciati pure nell’alto Tevere, mentre nel delta del Po sono state trovate allarmanti tracce di una biodiversità impoverita. Qui, i pesci-siluro e gli altri “oriundi”, spinti a nord dai cambiamenti climatici, hanno eliminato il 95% dei pesci autoctoni.
E così, nella lista rossa delle specie minacciate, sono finiti molti esemplari: solo il cavedano è fuori pericolo, ma lo storione, la trota marmorata e il ghiozzo di ruscello sono quasi spariti. Anguille e tinche sono a rischio in molti fiumi, ma sono state cancellate nel Volturno, in Campania: nella terra di Gomorra, c’è spazio solo per discariche di amianto e di eternit.
http://www.repubblica.it/ambiente/2011/01/02/news/tamigi_blu-10776417/
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MANIFESTO DEI GIOVANI DI GAZA PER IL CAMBIAMENTO! (GYBO Manifesto in Italian)
Gaza Youth Breaks Out (GYBO), 29.12.2010
Vaffanculo Hamas. Vaffanculo Israele. Vaffanculo Fatah. Vaffanculo UN. Vaffanculo UNWRA. Vaffanculo USA! Noi, i giovani di Gaza, siamo stufi di Israele, di Hamas, dell’occupazione, delle violazioni dei diritti umani e dell’indifferenza della comunità internazionale! Vogliamo urlare per rompere il muro di silenzio, ingiustizia e indifferenza, come gli F16 israeliani rompono il muro del suono; vogliamo urlare con tutto il potere delle nostre anime per sfogare l’immensa frustrazione che ci consuma per la situazione del cazzo in cui viviamo; siamo come pidocchi stretti tra due unghie, viviamo un incubo dentro un incubo, dove non c’è spazio né per la speranza né per la libertà. Ci siamo rotti i coglioni di rimanere imbrigliati in questa guerra politica; ci siamo rotti i coglioni delle notti nere come il carbone con gli aerei che sorvolano le nostre case; siamo stomacati dall’uccisione di contadini innocenti nella zona franca, colpevoli solo di stare lavorando le loro terre; ci siamo rotti i coglioni degli uomini barbuti che se ne vanno in giro con i fucili abusando del loro potere, picchiando o incarcerando i giovani colpevoli solo di manifestare per ciò in cui credono; ci siamo rotti i coglioni del muro di vergogna che ci separa dal resto del nostro paese tenendoci ingabbiati in un pezzo di terra grande quanto un francobollo; e ci siamo rotti i coglioni di chi ci dipinge come terroristi, fanatici fatti in casa con le bombe in tasca e il maligno negli occhi; abbiamo le palle piene dell’indifferenza da parte della comunità internazionale, i cosiddetti esperti in esprimere sconcerto e stilare risoluzioni, ma codardi nel mettere in pratica qualsiasi cosa su cui si trovino d’accordo; ci siamo rotti i coglioni di vivere una vita di merda, imprigionati dagli israeliani, picchiati da Hamas e completamente ignorati dal resto del mondo.
C’è una rivoluzione che cresce dentro di noi, un’immensa insoddisfazione e frustrazione che ci distruggerà a meno che non troviamo un modo per canalizzare questa energia in qualcosa che possa sfidare lo status quo e ridarci la speranza. La goccia che ha fatto traboccare il vaso facendo tremare i nostri cuori per la frustrazione e la disperazione è stata quando il 30 Novembre gli uomini di Hamas sono intervenuti allo Sharek Youth Forum, un’organizzazione di giovani molto seguita (www.sharek.ps), con fucili, menzogne e violenza, buttando tutti fuori, incercerando alcuni esponenti e proibendo allo Sharek di continuare a lavorare. Alcuni giorni dopo, alcuni dimostranti davanti alla sede dello Sharek sono stati picchiati, altri incarcerati. Stiamo davvero vivendo un incubo dentro un incubo. E’ difficile trovare le parole per descrivere le pressioni a cui siamo sottoposti. Siamo sopravvissuti a malapena all’Operazione Piombo Fuso, in cui Israele ci ha bombardati di brutto con molta efficacia, distruggendo migliaia di case e ancora più persone e sogni. Non si sono sbarazzati di Hamas, come speravano, ma ci hanno spaventati a morte per sempre, facendoci tutti ammalare di sindrome post-traumatica visto che non avevamo nessuno posto dove rifugiarci. Siamo giovani dai cuori pesanti. Ci portiamo dentro una pesantezza così immensa che rende difficile anche solo godersi un tramonto. Come possiamo godere di un tramonto quando le nuvole dipingono l’orizzonte di nero e orribili ricordi del passato riaffiorano alla mente ogni volta che chiudiamo gli occhi? Sorridiamo per nascondere il dolore. Ridiamo per dimenticare la guerra. Teniamo alta la speranza per evitare di suicidarci qui e adesso. Durante la guerra abbiamo avuto la netta sensazione che Israele voglia cancellarci dalla faccia della Terra. Negli ultimi anni Hamas ha fatto di tutto per controllare i nostri pensieri, comportamenti e aspirazioni. Siamo una generazione di giovani abituati ad affrontare i missili, a portare a termine la missione impossibile di vivere una vita normale e sana, a malapena tollerata da una enorme organizzazione che ha diffuso nella nostra società un cancro maligno, causando la distruzione e la morte di ogni cellula vivente, di ogni pensiero e sogno che si trovasse sulla sua strada, oltre che la paralisi della gente a causa del suo regime di terrore. Per non parlare della prigione in cui viviamo, una prigione giustificata e sostenuta da un paese cosiddetto democratico.
La storia si ripete nel modo più crudele e non frega niente a nessuno. Abbiama paura. Qui a Gaza abbiamo paura di essere incarcerati, picchiati, torturati, bombardati, uccisi. Abbiamo paura di vivere, perché dobbiamo soppesare con cautela ogni piccolo passo che facciamo, viviamo tra proibizioni di ogni tipo, non possiamo muoverci come vogliamo, né dire ciò che vogliamo, né fare ciò che vogliamo, a volte non possiamo neanche pensare ciò che vogliamo perché l’occupazione ci ha occupato il cervello e il cuore in modo così orribile che fa male e ci fa venire voglia di piangere lacrime infinite di frustrazione e rabbia!
Non vogliamo odiare, non vogliamo sentire questi sentimenti, non vogliamo più essere vittime. BASTA! Basta dolore, basta lacrime, basta sofferenza, basta controllo, proibizioni, giustificazioni ingiuste, terrore, torture, scuse, bombardamenti, notti insonni, civili morti, ricordi neri, futuro orribile, presente che ti spezza il cuore, politica perversa, politici fanatici, stronzate religiose, basta incarcerazioni! DICIAMO BASTA! Questo non è il futuro che vogliamo!
Vogliamo tre cose. Vogliamo essere liberi. Vogliamo poter vivere una vita normale. Vogliamo la pace. E’ chiedere troppo? Siamo un movimento per la pace fatto dai giovani di Gaza e da chiunque altro li voglia sostenere e non si darà pace finché la verità su Gaza non venga fuori e tutti ne siano a conoscenza, in modo tale che il silenzio-assenso e l’indifferenza urlata non siano più accettabili.
Questo è il manifesto dei giovani di Gaza per il cambiamento!
Inizieremo con la distruzione dell’occupazione che ci circonda, ci libereremo da questo carcere mentale per riguadagnarci la nostra dignità e il rispetto di noi stessi. Andremo avanti a testa alta anche quando ci opporranno resistenza. Lavoreremo giorno e notte per cambiare le miserabili condizioni di vita in cui viviamo. Costruiremo sogni dove incontreremo muri.
Speriamo solo che tu – sì, proprio tu che adesso stai leggendo questo manifesto!- ci supporterai. Per sapere come, per favore lasciate un messaggio o contattaci direttamente a freegazayouth@hotmail.com.
Vogliamo essere liberi, vogliamo vivere, vogliamo la pace.
LIBERTA’ PER I GIOVANI DI GAZA!
Translation: Chiara Baldini
http://www.facebook.com/note.php?note_id=118085978260139&id=118914244840679&ref=mf
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Se un senatore dice cose di sinistra 03.01.2011
Finalmente. Un senatore ha tenuto un discorso in aula dicendo cose di sinistra. Ha descritto in modo severo la situazione in cui versa il paese, ma sono stati tali e tanti i temi affrontati che un partito consapevole che la destra sta portando tutti al disastro potrebbe ricavarne un programma completo per le prossime elezioni. In questa prospettiva merita soffermarsi sui punti salienti del suo discorso, disponibile nella trascrizione fatta in Senato.
Ampio spazio viene dato ai problemi dell´occupazione e del reddito. Tempo fa, prima che arrivassero l´economia globale, la robotica e i computers, nota il senatore, una persona poteva lavorare 40 ore alla settimana e guadagnare abbastanza da pagare i conti della famiglia. Oggi per pagare i conti bisogna lavorare almeno in due, e se non si sgobba in due – facendo magari tre o quattro lavori – si rischia di non riuscire a pagare nemmeno il riscaldamento e il carburante per l´auto. Per vari gruppi di età, in specie i giovani e gli over 50, il reddito reale è addirittura più basso che negli anni 70.
C´è una causa precisa per tale peggioramento: in poco più di dieci anni il paese ha perso milioni di posti di lavoro nell´industria manifatturiera. Il lavoro è andato in Cina, Vietnam, India o Messico, dove costa dieci volte meno. La chiamano competitività. E per i lavoratori rimasti, rileva il senatore, si veda quel che succede alla Chrysler. I media hanno enfatizzato la ripresa delle assunzioni da parte dell´azienda. Ma i nuovi assunti sono pagati 14 dollari l´ora invece di 28, per fare lo stesso lavoro dei compagni più anziani. «Se ci rendiamo conto che l´industria dell´auto – si chiede l´oratore – era forse lo standard aureo per la manifattura… che cosa pensiamo succederà in futuro ai salari degli operai?». Storicamente, in questo paese, nota altrove il senatore, i posti di lavoro nel settore manifatturiero erano la spina dorsale della classe lavoratrice. L´emigrazione dell´industria verso altre coste non è solo un mutamento del modo di produrre: è un disastro sociale. La crisi economica, iniziata ben prima di quella finanziaria, sta mutando in peggio la vita non solo degli operai, ma anche delle classi medie. Molti che vi appartengono sono figli di operai, impiegati, contadini, che grazie al lavoro dei genitori hanno potuto andare alle superiori o all´università. Ora sono in ansia, più ancora che per sé stessi, per i loro figli. E si chiedono se per la prima volta nella storia moderna di questo paese i figli non avranno un livello di vita più basso dei genitori, a cominciare dal livello di istruzione cui riusciranno ad accedere.
Quel che succede, rileva il senatore, rientra in un progetto delle forze politiche di destra. Il loro scopo ultimo – cito ancora dal suo discorso – è l´annullamento radicale di quasi tutti i provvedimenti che sono stati introdotti durante parecchi decenni per proteggere i lavoratori, gli anziani, i bambini. Allo scopo di ridurre il deficit di bilancio, stanno discutendo di una brillante idea: innalzare l´età di pensionamento sin verso i 70 anni. In questo modo chi per decenni si batte con fatica per sopravvivere, facendo un lavoro duro e sopportando molti sacrifici, dovrà lavorare sino al giorno in cui muore.
Ma agli occhi del nostro senatore l´ottusità della destra si vede soprattutto nei tagli effettuati all´istruzione, in tutte le sue forme e livelli, dagli asili alla scuola primaria, dalle superiori all´università. Sempre al fine di ridurre la spesa pubblica. Andare in questa direzione «significa semplicemente tagliarsi il naso per far dispetto alla faccia». Come potremo mai diventare una grande economia, egli chiede, se non avremo gli scienziati, gli ingegneri, gli insegnanti che ci vogliono, mentre molti altri paesi nel mondo hanno una maggior percentuale di giovani diplomati che vanno all´università? Ed è mai possibile che sia così scarsa nel paese una buona educazione per i bambini che tutti possano permettersi? I risultati di questa carenza per il prossimo futuro potrebbero essere disastrosi. I bimbi che non hanno una istruzione intellettualmente stimolante fin dalla scuola primaria dieci anni dopo abbandoneranno gli studi e magari finiranno in carcere.
Il discorso del senatore si estende alle infrastrutture. Dappertutto, egli afferma – e di questi giorni è difficile dargli torto – stanno andando in pezzi. Dovremmo investire in modo significativo per ricostruire ponti, strade, acquedotti, reti per la banda larga, trasporti pubblici, sistema ferroviario, dighe. È vero che sindaci e governatori di regione trovano poco attraente un investimento del genere. Ma se non si provvede oggi, ci costerà molto di più domani.
Ho citato quasi alla lettera vari passi del discorso di questo senatore, limitandomi a semplificarli e riordinarli, poiché si tratta di un intervento molto lungo – la trascrizione è di 124 pagine – e ripetitivo. Resta da precisare che il discorso è stato davvero tenuto al Senato l´11 dicembre scorso. Purtroppo non era il Senato italiano. Era quello degli Stati Uniti. Dove il senatore Bernie Sanders, che si definisce un «indipendente progressista» e vota per lo più con i democratici, ma non manca di criticarli quando occorre, ha parlato senza interruzione per quasi nove ore. Video e trascrizione sono disponibili sul web. Il suo bersaglio era lo scandaloso compromesso con i repubblicani fatto dal presidente Obama, accettando di estendere per altri due anni riduzioni fiscali che per i contribuenti più ricchi toccano i milioni di dollari a testa, allo scopo di poter mantenere detassazioni da mille dollari l´anno alle classi medie e alla classe operaia. Due giorni prima il Senato aveva bocciato una proposta dello stesso Sanders che avrebbe concesso a milioni di poveri ed ex combattenti disabili un assegno una tantum di 250 dollari.
Il discorso di Sanders merita attenzione per due motivi.
In primo luogo mostra che la situazione economica e politica degli Stati Uniti è molto simile a quella dell´Italia. Sotto questo aspetto dagli Usa non c´è proprio più niente da imparare. Se non una cosa. In quel paese circolano in molti ambienti, strati sociali, centri di ricerca, idee forti, definite, fondate su cifre e argomenti solidi, che laggiù si chiamano liberal o progressiste, ma nel lessico nostro sono idee di sinistra. Tanto che un senatore può esprimerle con la massima chiarezza nella Camera alta, facendosi capire davvero da tutti anche fuori, per nove ore di seguito. Restiamo in attesa che un nostro parlamentare – magari del Pd, chissà – faccia un discorso simile a quello di Bernie Sanders.
Luciano Gallino
Fonte: www.repubblica.it
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=7825
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Il papa e Frattini fanno i martiri con i morti degli altri 04.01.2011
C’è stato recentemente un gran parlare di una persecuzione dei cristiani in corso, ne ha parlato il Papa e il Ministro degli Esteri Frattini si è spinto ad ipotizzare sanzioni per i paesi che non proteggono i cristiani.
Al Papa hanno fatto caso solo i politici italiani e pochi altri, a Frattini anche meno, è andato infatti del tutto a vuoto anche il suo tentativo di investire l’Unione Europea del problema.
Frattini è andato a vuoto per una ragione abbastanza importante: perché la persecuzione contro i cristiani non c’è.
Per giustificare questo ennesimo allarme-bufala il papato e l’Italia (perché Frattini rappresenta l’Italia) hanno fatto ampio riferimento a fatti di sangue verificatisi in Iraq, Egitto, Sudan Nigeria e Filippine. Fatti ed episodi variamente tradotti dai media italiani, ma sempre seguendo il comune denominatore della persecuzione da parte dei musulmani cattivi.
Analizzando i fatti salta immediatamente all’occhio che i due campioni citati sopra stanno barando. È lunare parlare di persecuzione dei cristiani in Iraq, dove la violenza politica ha investito ex-sadamisti, sunniti e sciiti all’ingrosso. Ancora di più dopo che le armate statunitensi, indubbiamente cristiane, hanno invaso il paese con il pretesto (tra gli altri pretesti) della lotta al terrorismo islamico, uccidendo centinaia di migliaia islamici incolpevoli in un paese nel quale gli estremisti islamici non potevano mettere piede senza finire impiccati da Saddam.
Anche nel caso delle Filippine parlare di una persecuzione dei cristiani è ridicolo, essendo che gli episodi di violenza nell’isola di Mindanao ricordano più il banditismo che le persecuzioni. Ma ancora di più ricordando che le Filippine sono un cattolicissimo paese che ha massacrato gli abitanti di Mindanao (in maggioranza musulmani) per decenni prima di concedere una blanda autonomia amministrativa.
Nel caso del Sudan abbiamo invece il Sud a maggioranza cristiana che sta per andare al referendum per l’indipendenza dal Nord dopo venti anni di guerra e sei di autonomia, durante i quali nessuno ha perseguitato i cristiani. Anche sulle persecuzioni precedenti ci sono poi grossi dubbi, almeno da quando si è scoperto che i politici del Sud e qualche interferenza inglese si erano inventati un commercio di schiavi cristiani, per liberare i quali chiedevano fondi in Occidente, che poi usavano per comprare armi. Anche qui più che alla matrice religiosa bisognerebbe guardare al petrolio del Sud e alla sua storia post-coloniale, caratterizzata dall’appoggio (in particolare) della Gran Bretagna alla secessione.
Ancora più ridicolo è parlare di persecuzione dei cristiani in Nigeria, dove enormi problemi sociali ed economici hanno dato vita a numerose rivolte tradotte malamente da qualche furbacchione in scontri a sfondo religioso e dove non esiste nessuna discriminazione nei riguardi cristiani.
Anche sull’Egitto c’è poi da ridire, perché se è vero che negli ultimi anni ci sono stati alcuni attentati ai danni dei cristiani, è altrettanto vero che molti dubitano della loro matrice e anche quello di pochi giorni fa ha lasciato in molti il sospetto che si tratti di strategia della tensione di marca governativa. Mubarak ha appena trionfato (troppo) alle elezioni. Una farsa al termine della quale gli oppositori non sono riusciti nemmeno ad affacciarsi in parlamento, lasciando nudo Mubarak di fronte al mondo.
Mubarak, che sono anni che promette riforme democratiche e procede in direzione contraria, comincia ad avere una certa età e molti in Egitto si chiedono se il suo potere sia ancora saldo. Questi attentati lo aiutano indubbiamente e non si capisce invece come potrebbero fare il gioco dei famosi terroristi stranieri d’ispirazione qaedista chiamati in causa.
Ma da noi di Mubarak si è discusso solo quando Berlusconi ha spacciato una prostituta minorenne per la nipote del dittatore egiziano per sottrarla alle attenzioni della polizia. La dittatura egiziana, come quella tunisina, è perfettamente sconosciuta all’opinione pubblica italiana. Mubarak è troppo alleato per poter essere criticato.
Sia come sia, i cristiani egiziani (e quelli iracheni) non sono cattolici, ma copti. Hanno un loro Papa di riferimento, Shenouda III, che spesso non è d’accordo con Roma e che pochi mesi fa (p.s. quasi tre anni fa) ha dichiarato che Ratzinger: “Sbaglia e, dopo essersi inimicato il mondo islamico, sta cominciando a perdere anche la fiducia dei cristiani“. Questo proprio perché Ratzinger insiste con la persecuzione dei critiani, mentre in Egitto le gerarchie copte e musulmane predicano da tempo una “unità nazionale” dei fedeli nello stroncare fanatismo e aggressioni a sfondo religioso”. Un esempio tangibile di queste iniziative viene dal poster pubblicato sopra, preso da Lia, che sul suo blog ha definito eufemisticamente “goffo e inopportuno” l’intervento papale.
Il Papa e Frattini lamentano quindi persecuzioni dove non ce ne sono o dove, come nel caso dell’Iraq, la faccenda è perlomeno complessa e andrebbe giudicata con più onestà. Questo per dire che fanno i martiri con i morti degli altri, perché non sono cattolici quelli che muoiono in Iraq, Egitto e Nigeria e non sono quindi cattolici quelli che potrebbero subire le conseguenze della propaganda d’Italia e Vaticano.
Nemmeno in Nigeria infatti sono i cattolici ad essere coinvolti nelle violenze, i cattolici in Nigeria risiedono per lo più nell’area costiera, ben lontano dagli avvenimenti in questione. Anche in questo caso le chiese pentecostali e anglicane stanno lavorando con il governo e le controparti musulmane per sedare la situazione. Figurarsi come saranno contenti di sentire gli interventi a gamba tesa del Papa e di Frattini che chiedono alla UE di penalizzare i paesi che non proteggono i cristiani; senza peraltro prendersi la briga di spiegare bene questa pretesa e la sua applicabilità, tanto è fumo; e lanciano accuse contro i musulmani cattivi.
Così, mentre Iraq e Afghanistan ancora sono invase dalle armate cristiane, dopo che nessuno ha fiatato per l’illegale invasione etiope (cristiana) a spazzare i musulmani dalla Somalia dietro sollecitazione americana (con un bilancio di vittime equivalente alla famosa tragedia del Darfur), adesso ci tocca anche sentire il Papa e Frattini che fanno le vittime con i morti degli altri, con Frattini che dopo aver avallato e giustificato i crimini e i massacri degli alleati negli ultimi anni, adesso veste i panni del protettore della fede e delle vittime.
Ipocrisia orrenda, uno sciacallaggio che evoca proprio la leggendaria battuta di Ricucci, un comportamento criminale che potrebbe provocare gravi lutti dei quali il Papa e Frattini ovviamente non saranno mai chiamati a rispondere.
È molto comodo fare gli eroi così a buon mercato, anche se fa un po’ schifo.
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Manlio Dinucci
Via gli arabi, Tel Aviv rivendica tutte le risorse 06.01.2011
La compagnia statunitense Noble Energy Inc. ha annunciato pochi giorni fa di aver scoperto un grosso giacimento di gas naturale sul fondo marino, 130 km al largo del porto israeliano di Haifa. Viene stimato in 450 miliardi di metri cubi. Dovrebbero esservi nella zona, complessivamente, circa 700 miliardi di metri cubi di gas. La prospezione e lo sfruttamento di questo giacimento sono affidati a un consorzio internazionale, formato dalla statunitense Noble Energy, che detiene la quota maggioritaria del 40%, e dalle israeliane Delek, Avner e Ratio Oil Exploration.
Questa è solo una piccola parte delle riserve energetiche presenti nel Bacino di levante, l’area del Mediterraneo orientale comprendente Israele, i Territori palestinesi, il Libano e le loro acque costiere. Qui da alcuni anni sta facendo prospezioni la U.S. Geological Survey, agenzia del governo degli Stati uniti. Essa stima che, nel Bacino di levante, vi siano riserve di gas naturale ammontanti a circa 3500 miliardi di metri cubi, e riserve di petrolio ammontanti a circa 1,7 miliardi di barili.
Il governo israeliano, sostenuto da quello statunitense, considera tutte queste riserve energetiche di sua proprietà. I grandi giacimenti di gas naturale – ha dichiarato il ministro delle infrastrutture Uzi Landau – non solo recheranno benefici ai cittadini ma permetteranno a Israele di divenire un fornitore di gas nella regione mediterranea. Israele – ha obiettato il portavoce del parlamento libanese Nabih Berri – ignora però il fatto che, in base alle mappe, i giacimenti si estendono nelle acque libanesi. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite, uno stato costiero può sfruttare le riserve offshore di gas e petrolio in un’area che si estende a 200 miglia nautiche (370 km) dalla costa.
In base allo stesso criterio, le riserve appartengono in notevole misura anche all’Autorità palestinese. Dalla stessa carta redatta dalla U.S. Geological Survey risulta che la maggior parte dei giacimenti di gas (circa il 60%) si trova nelle acque costiere e nel territorio di Gaza. L’Autorità palestinese ne ha affidato lo sfruttamento a un consorzio formato da British Gas e Consolidated Contractors (compagnia con sede ad Atene, di proprietà libanese), nel quale l’Autorità ha una quota del 10%.
Due pozzi, Gaza Marine-1 e Gaza Marine-2, sono già pronti ma non sono mai entrati in funzione. Tel Aviv ha infatti respinto tutte le proposte, presentate dall’Autorità palestinese e dal consorzio, di esportare il gas in Israele ed Egitto. I palestinesi posseggono dunque una grande ricchezza, che non possono però usare.
Per impadronirsi delle riserve energetiche dell’intero Bacino di levante, comprese quelle libanesi e palestinesi, Israele usa la forza militare. Due giorni fa, il ministro degli esteri libanese Ali Shami ha chiesto al Segretario generale delle Nazioni Unite di impedire che Israele sfrutti le riserve energetiche offshore che si trovano in acque libanesi. Il ministro Landau sostiene però che quei giacimenti si trovano in acque israeliane e avverte che Israele non esiterà a usare la forza per proteggerli. Israele minaccia quindi di attaccare di nuovo il Libano, come fece nel 2006 anche con l’intento di togliergli la possibilità di sfruttare i giacimenti offshore.
Per la stessa ragione Israele non accetta lo Stato palestinese. Riconoscerlo significherebbe riconoscere la sovranità palestinese su gran parte delle riserve energetiche, di cui Israele si vuole invece impadronire. Soprattutto a tal fine è stata lanciata l’operazione «Piombo fuso» nel 2008/2009 e Gaza è stata successivamente rinchiusa nella morsa dell’embargo. Allo stesso tempo le navi da guerra israeliane controllano l’intero Bacino di levante, e quindi le riserve offshore di gas e petrolio, nel quadro del «Dialogo mediterraneo», l’operazione Nato – cui partecipa anche l’Italia – per «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione».
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/01/articolo/3955/
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Economia metapolitica 04.01.2011
di Valerio Evangelisti
Ormai viene ammesso senza remore da commentatori di differente ispirazione, come Innocenzo Cipolletta e Loretta Napoleoni (1). Alle origini dell’attuale crisi economica ci sono le guerre in Iraq e in Afghanistan. Per finanziare imprese militari che gli Stati Uniti non potevano permettersi, l’amministrazione americana, attraverso la Federal Reserve, quasi azzerò i tassi di interesse, in modo da avere disponibilità dei capitali ingenti liquidi che le necessitavano. Tutti i governi occidentali furono obbligati, come sempre accade, a fare lo stesso per reggere il passo.
Simultaneamente gli Usa, in cerca di consenso a favore della guerra tra le classi medie, resero agevole – sempre tramite la Federal Reserve, che guida il comportamento delle altre banche – l’ottenimento di mutui per l’acquisto delle case, senza riguardi per la solvibilità degli acquirenti. Non lo dico io, lo scrive Cipolletta.
Affluirono capitali, però in larga misura speculativi, attratti dalla pacchia che si profilava. Il mercato immobiliare diventò un nuovo Far West, un oggetto di conquista. Tutto ciò, nelle intenzioni, sarebbe stato riequilibrato dalle materie prime dei Paesi assoggettati. Non fu così. Le guerre divennero pantani, incapaci di compensare ciò che costavano. La finanza crebbe oltre misura, con un volume di scambi insostenibile. Chi aveva venduto titoli di dubbia consistenza, confidando in un imminente rialzo dei tassi, restò deluso. I mutui sulle case furono le prime sabbie mobili delle eccessive esposizioni bancarie; seguirono altre voragini.
Gli istituti di credito, a quel punto, tirarono frettolosamente i remi in barca, dopo un paio di naufragi illustri. Vendettero all’estero quote di debito in abbondanza, confezionate in pacchetti che includevano consistenti percentuali di pattume. Troppo tardi. La crisi non era più ciclica, ma strutturale. Digiune di prestiti, le compagnie europee non abbastanza solide cominciarono a chiudere, quelle più forti a delocalizzare. Il dogma monetarista, affermatosi dopo il tracollo del campo socialista e socialdemocratico, vuole che il costo del lavoro sia il primo da comprimere nei momenti difficili. Così è stato. Ovviamente i consumi, nei paesi occidentali, sono crollati, in vista di discutibili eden futuri nelle potenze economiche dette emergenti (Cina, Brasile, India, in parte Russia).
Peccato che laggiù larghi settori di popolazione restino esclusi da ogni sviluppo, e dunque non in grado di assorbire l’intera sovrapproduzione dell’Occidente. Peccato altresì che, via via che le nuove potenze emergono, siano in grado di produrre cloni o evoluzioni degli stessi manufatti tipici dell’Ovest, a volte di altissimo contenuto tecnologico.
Caduta del saggio di profitto, sovrapproduzione. Tra queste due coordinate, e altre conseguenti, ecco i fondamenti di una crisi niente affatto volatile. Potrebbe rimediarvi solo il raggiungimento degli obiettivi economici prefissati con le avventure militari. Nulla lascia prevedere che ciò sia possibile. Aprire altri fronti di guerra, provarci di nuovo? Malgrado le ringhiose esortazioni del governo israeliano, e di alcuni Stati arabi (come rivelato da Wikileaks), nessuno al momento se lo può permettere.
Si è parlato di “crisi di sistema”. In parte è vero, ma se per sistema si intende il capitalismo in senso lato, finanziario e produttivo, questo mai cade da solo. Se non contrastato, ha molte armi per reagire e sopravvivere. In primo luogo limitare la propria appendice voluttuaria, la democrazia (2). Desta invidia, in numerosi osservatori occidentali, il modello russo. Limitazione drastica del controllo dal basso, nell’ambito di un assetto economico niente affatto socialista, affidato a strati privilegiati costruiti dall’alto, pezzo per pezzo (con epurazioni periodiche, sotto pretesti giudiziari, dei tasselli che non funzionano o si rivelano troppo ingombranti). Analoga ammirazione suscita il modello cinese. Gli strumenti della vecchia “dittatura del proletariato” al servizio di una crescita prettamente capitalistica (checché ne pensi Diliberto), con classi egemoni create ad hoc. Coloro che criticavano “da sinistra” il socialismo reale, asserendo che la facciata nascondeva le forme di accumulazione del sistema che diceva di combattere, avevano ragione da vendere.
La vecchia arma primaria con cui il capitalismo affronta storicamente le proprie crisi, l’autoritarismo, è verificabile in tutto il mondo occidentale, Unione Europea inclusa. Questa non fa che generare organi centrali di controllo economico sottratti a ogni vaglio democratico e investiti di pieni poteri. Il monetarismo, la UE lo ha elevato a dottrina centrale e indiscutibile addirittura per costituzione (costringendo a votare di nuovo chi si era espresso contro, fino a non fare votare per nulla la sua ultima riproposizione, il “Trattato di Lisbona”). I parlamenti sono stati esautorati delle loro prerogative attraverso limitazioni di mandato, o meccanismi di voto alterati sino a escludere opposizioni ostili alla filosofia di fondo. Ogni impegno è volto a impedire che i cittadini possano influire sulle scelte determinanti che li riguardano.
Naturalmente, l’effetto è più sensibile nelle fabbriche, la cellula autoritaria per eccellenza. Guai a ostacolare l’efficientismo dei padroni, salvo una trasmigrazione delle aziende. Si pisci di meno, si mangi di meno, si lavori fino allo sfinimento, dal giorno alla notte. Altrimenti produrremo (senza peraltro vendere) dove la forza-lavoro costa quasi un cazzo, e dove i diritti dei lavoratori confinano con quelli della prima rivoluzione industriale. Sindacati gialli, forti solo di una base di pensionati iscritti a forza per presentare la dichiarazione dei redditi, applaudono entusiasti. Due ipotesi alternative: o non hanno capito nulla, o hanno capito troppo e sono complici. Buona la seconda.
Ma come si fa, senza riuscire a vendere ciò che si è prodotto (per esempio automobili), a tenersi sul mercato? Il fatto è che il capitale finanziario ha finito col sovrapporsi al capitale reale. Hilferding lo aveva previsto, ma anche Marx lo aveva intuito (con la formula D-M-D: si rilegga il primo volume de Il Capitale per vedere cosa significa). La “M”, merce, è comunque uscita di scena. Paesi prosperi come l’Irlanda o la Spagna sono messi in un angolo, declassati da entità futili quali le agenzie di rating. Agenti fasulli e obbrobriosi, che solo una teoria forsennata come il monetarismo, privo di qualsiasi base scientifica (come aveva dimostrato il compianto Federico Caffè in Lezioni di politica economica, Bollati-Boringhieri, 1980), poteva formulare. Ebbene, proprio il monetarismo è la dottrina ufficiale dell’Unione Europea. Non conta quanto un Paese sia vitale e produttivo. Conta, per valutarlo, il suo indebitamento. Verso cosa? Verso un debito complessivo più grande. Tutti sono indebitati. Specialmente l’Africa, il continente più ricco di materie prime e di giacimenti. Guarda caso, sembra il più povero. I suoi abitanti fuggono al nord inseguiti dalla fame. Chi li perseguita? Una povertà naturale? No, il debito. Chi è ricco diventa povero, chi è povero diventa ricco. C’è qualcosa che non va.
Uno spettro si aggira per l’Europa e per il mondo: è un errore di calcolo. Non ha niente a che vedere con l’economia propriamente intesa, cioè con la ripartizione delle risorse tra gli appartenenti al genere umano, cercando di far sì che esistano beni per tutti. E’ una follia collettiva che va oltre le atrocità del capitalismo, cioè la versione moderna del rapporto tra padroni e schiavi. Siamo alla servitù delle cifre, si produca o no. Siamo servi di un registratore di cassa in mano altrui, che pare manipolato da un folle. Ma folle non è poi tanto. Sceglie quale classe colpire, per farla vittima delle sue bizzarre matematiche. E’ sempre la classe subalterna, quella dei salariati e degli stipendiati. Tutto si tocchi salvo i profitti e le rendite, essenziali ai fini dell’algebra astratta del regno della finzione economica. Dove chi non produce guadagna, chi produce soffre, chi sarebbe ricco è povero, chi è povero lo è per calcoli immateriali e per flussi di ricchezza inesistente fatti apposta per non beneficiarlo.
Il “debito pubblico” è un’astrazione legata a un’ideologia stupidissima, oggi l’unica insegnata nelle università – il “monetarismo”, più la sua variante volgare, la Supply Side Economy, cara a Reagan, alla Thatcher, a Pinochet – e il sistema, vergognoso, vi ha costruito sopra un intero edificio teorico. Smettiamo di essere servi di un pallottoliere privo di senso.
Ma ricordiamoci anche di un vecchio motto: “Senza la forza la ragion non vale” (Andrea Costa, Avanti!, 1881). Non è un invito al terrorismo, bensì un’esortazione a tenere le piazze con la determinazione del dicembre scorso.
NOTE
(1) Innocenzo Cipolletta, Banchieri, politici e militari, Laterza, 2010; Loretta Napoleoni, La morsa. Le vere ragioni della crisi mondiale, Chiarelettere, 2009.
(2) Cfr. Vladimiro Giacchè, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, Derive / Approdi, 2008.
http://www.carmillaonline.com/archives/2011/01/003739.html
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Vogliamo altro. Appunti per una critica al concetto di produttività, di lavoro e di cittadinanza 07.01.2011
di Cristina Morini
Se il lavoro va perdendo le caratteristiche del lavoro per assumere quella della vita che cosa dobbiamo fare noi, donne e uomini, nel presente? Per poterci riappropriare delle nostre vite e dei nostri desideri dobbiamo procedere a bombardare le radici stesse del lavorismo che ci ha costruiti. Anch’esso ha contribuito a fare in modo che il lavoro esondasse in modo indifferenziato dai limiti suoi propri. Senza una critica radicale al concetto stesso di produzione e di norma socio-economica, senza una messa in discussione di queste fondamenta, non solo non potremo liberarci, né cambiare di segno al lavoro e al sistema, ma viceversa dovremo rassegnarci alla colonizzazione progressiva di ogni spazio vitale, all’asfissia totale. L’attualità non fa che regalarci esempi molto espliciti, in questo senso: quando non sarà la precarietà a piegarci, ci saranno straordinari coatti, pause più corte, meno giorni di malattia, mobilità selvaggia… Noi vogliamo altro.
Vita attiva e…
Serve una veloce premessa. Con il termine “spazio pubblico” si è inteso indicare storicamente l’ambito dell’azione politica, ovvero di quelle attività che riguardano la vita, l’interesse, il bene dei cittadini collettivamente intesi. Con il termine “spazio privato” si considera solitamente un ambito di relazioni ristrette in cui l’individuo provvede a sé e ai congiunti e amici che gli stanno intorno. Questo il senso comune, che non esaurisce la complessità teorica della distinzione. Nella pratica, gli esclusi dallo spazio pubblico sono stati i non-cittadini, gli schiavi, le donne. Tutti confinati nelle occupazioni del “privato” (oikos), quelle legate all’adempimento dei bisogni del corpo (sussistenza, igiene, cura, sessualità), mentre la vita activa (Arendt, 1951) si dava là fuori, nello spazio pubblico, appunto.
A partire da qui, attraverso molti passaggi della storia, arriviamo alla concezione moderna di un tipo di vita autenticamente attiva – nella quale si impegna una parte crescente delle classi più elevate – e che non è affatto interessata al bene pubblico ma mira esclusivamente alla produzione e all’accumulazione di ricchezza privata (Hirschman, 1982). Ed è così che passioni fino a ieri ritenute tristi, addirittura pericolose per la società, come l’ambizione, l’avidità, l’attrazione per il successo e il potere vengono sdoganate e assumono un significato positivo. Prende il sopravvento l’ideale liberale di una vita activa in senso economico, che fa coincidere la felicità con l’ottenimento di un maggior benessere materiale per se stessi e la famiglia. Accanto allo spazio pubblico politico si affaccia lo spazio pubblico economico. E progressivamente, la sfera pubblica-economica si dilata a tal punto da diventare il contenuto e il fine stesso della politica: l’agire politico si riduce alla difesa del benessere materiale di singoli individui o gruppi e viene misurato in base alla crescita economica, o ai livelli di consumo, che riesce ad assicurare.
Il quadro si complica ulteriormente quando la politica (anche economica) si trasforma da dominio sul territorio in dominio sui corpi (e sulle menti) della popolazione (Foucault, 2005). E’ a questo punto che assistiamo all’annullamento della distinzione fra pubblico e privato. Ma purtroppo – conviene sempre essere sinceri – non è grazie a una delle storiche teorizzazioni del femminismo (la non separazione tra spazio pubblico e privato) che noi possiamo salutare la cancellazione della classica dicotomia tra questi due ambiti, ovvero di quello tra produzione e riproduzione.
… vita produttiva
E’ il dispositivo biopolitico di governance a prevalere, e vale per tutti, di qualsiasi genere si decida di fare parte. E’ qui che si sviluppa le linee precedentemente e troppo frettolosamente tracciate: il mercato trova, finalmente, “la sua formulazione teorica nell’economia politica”. In questo senso la biopolitica è soprattutto una bioeconomia (Fumagalli, 2007). La sfera dell’economico s’innesta, senza mediazioni alcune, sulla/nella vita e sui/nei desideri. Il corpo e l’anima divengono oggetti del processo di valorizzazione contemporaneo, assumendo contemporaneamente accesso pieno allo spazio pubblico economico. Questo fatto comprende il tema della centralità crescente della produzione cognitiva e relazionale nel capitalismo contemporaneo, il ruolo dal general intellect e la mutazione del rapporto tra capitale fisso e capitale variabile. E poi: che cosa succede se noi immettiamo il desiderio all’interno dello scambio tra capitale e lavoro? Qualcuno fatica ad ammetterlo, ma l’esperienza ci dice che la vita, oggi, si qualifica e assume identità e riconoscibilità sociale solo all’interno di una dinamica di immediata utilità/spendibilità economica. Vengono indotte dinamiche di soggettivizzazione che non cercano di resistere ma piuttosto di rimuovere il dualismo capitale-lavoro, incorporando (letteralmente) il lavoro, desiderando che tutto questo si compia. Il lavoro si ristruttura, sussunto nel dispositivo biopolitico in forma d’impresa individuale (precaria): il potere ha assunto la capacità di captare e di mettere al lavoro la soggettività, la differenza, tenta di fare propria la riproduzione.
E’ partendo da queste riflessioni che è obbligatorio riconsiderare non solo il concetto di spazio pubblico/privato ma anche quello di cittadinanza a essi strettamente correlato.
Agli esordi, con l’insorgere del capitalismo, la cittadinanza funzionava, anche qui e ancora una volta, per l’homo oeconomicus, ovvero un uomo (di sesso maschile) razionale, produttivo (di plus-valore) e massimizzante la sua soddisfazione. La Rivoluzione Francese rappresenta un tentativo di ri-considerare i diritti di cittadinanza come diritti inalienabili dell’essere umano, ovvero qualcosa che precede i diritti di natura economica collegati all’essere “produttivi” nello spazio pubblico. Come detto, con il dispiegarsi del paradigma industriale e poi fordista, noi assistiamo all’apoteosi progressiva del produttivismo e dunque alla coincidenza tra diritti di cittadinanza e diritti del lavoro. Nel fordismo il controllo sul lavoro – e quindi il dispiegarsi dei meccanismi di sfruttamento – era demandato alla disciplina imposta dalla tecnologia e dall’organizzazione del lavoro, ovvero era imposta dall’“esterno”, dalla macchina. Nel fordismo era meno evidente, meno immersivo il rapporto tra lavoro e “vita”. I diritti di vita (i diritti di cittadinanza – suffragio universale, contrattazione collettiva, welfare pubblico, ecc.) potevano essere, almeno formalmente, validati e generalizzati senza che ciò creasse problemi al meccanismo di disciplinamento nel rapporto capitale-lavoro.
Con il passaggio al biocapitalismo, i meccanismi di sfruttamento si modificano, la base dell’accumulazione si allarga sino a inglobare l’esistenza, stravolgendo la classica separazione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, tra produzione e riproduzione. Viene così anche deformato il rapporto tra diritti di cittadinanza e diritti del lavoro. Il controllo sul lavoro diventa sempre più controllo della vita stessa degli individui, delle loro differenze (di sesso, di razza, di genere, di cultura, di sensibilità), dei loro processi di apprendimento, del loro immaginario, della vita emotiva, dei corpi-mente. Il controllo sul lavoro non è più demandato ai processi di disciplinamento esterni, ma si costruisce sull’auto-disciplinamento e sull’auto-controllo del soggetto stesso. L’homo oeconomicus si è appropriato della vita activa.
Ed è in questo passaggio dalla disciplina di fabbrica alla dimensione del controllo sociale generalizzato, che i diritti di cittadinanza, ovvero i diritti di vita, si mostrano per ciò che, in realtà sono: strumenti di discipinamento sociale, intesi come forma di controllo del/sul lavoro. Diventa esplicito, conclamato, evidente, manifesto il meccanismo già certamente soggiacente a tutta la storia moderna: i diritti vengono concessi selettivamente, in base a un principio produttivista, in base all’idea esclusiva di “utilità” del soggetto. Concetto di utilità che viene imposto dal capitalismo, sia chiaro, e che ha sempre teso a creare gerarchie tra le varie forme di vita e di attività umana. Oggi non è affatto detto, per esempio, che, come è stato invece nel passato, la differenza sessuale determini di per sé un’esclusione. Assistiamo allo sviluppo di gerarchie diverse, ricombinate con il tema della classe e della razza.
Oggi, rispetto a ieri, i diritti rappresentano una forma di più sofisticata segmentazione e frammentazione tra le soggettività. Essi non sono più in nessun modo scindibili dall’attività produttiva in senso stretto. Oggi l’idea di cittadinanza è lo strumento che interviene a definire il senso del rapporto capitale-lavoro. Inclusione ed esclusione si giocano interamente sul piano della produttività garantita dal soggetto. Il lavoro-cittadinanza vincola direttamente la vita.
Numerosi sono gli esempi possibili. I casi più eclatanti, più evidenti, riguardano la forza-lavoro migrante, il lavoro di cura delle donne, la disabilità. Ma non va certo dimenticato il lavoro cognitivo e di relazione che subisce per intero l’accanimento feroce del meccanismo della precarizzazione. Le forme di asservimento attuali della forza lavoro significano la negazione diretta dei diritti di cittadinanza anche per queste fasce di lavoratori e di lavoratrici, attraverso la frammentazione e l’intermittenza, che vuole dire svalorizzazione, negazione delle competenze, sudditanza agli immaginari, alle ideologie totalitarie del “lavoro che manca”, nell’ingrassare delle gerarchie, dei signoraggi, delle rendite di posizione. Questa fascia di lavoratori, sempre più spesso, assiste alla subordinazione di tutti i diritti alla condizione lavorativa, tramite lo sviluppo di meccanismi di ricattabilità e di controllo sociale (mentale) resi sempre più spessi, impenetrabili, dalla precarietà.
La cura
Maria Rosa Dalla Costa nel suo libro Potere femminile e sovversione sociale scrive:
“Il capitalismo attraverso il salario obbliga tutte le persone, anche in difficoltà fisica, alla funzionalità sotto la legge della divisione del lavoro, in funzione dello scopo che – anche se non immediatamente – essi saranno infine utili all’espansione ed estensione del capitale stesso”.
Partiamo dal vecchio Marx, però, che ci dice che il lavoro produttivo è solo quello che produce plus-valore. Tutto il resto è, dal punto di vista del capitale, lavoro improduttivo (Marx fa il celeberrimo esempio dei preti, ma lo stesso discorso vale per il lavoro domestico, il lavoro di cura, la cooperazione sociale e creativa senza scopo di lucro). Secondo questo tipo di analisi, insomma, tutto ciò che costituisce la potenza della politica e dell’esistenza non ha lo stesso valore del lavoro produttivo. Eppure, come già è stato sottolineato, il lavoro improduttivo non è solo utile ma indispensabile per la comunità, da esso dipende addirittura la sopravvivenza della specie umana. Dall’altro lato, il lavoro produttivo, quello che produce plus-valore, è spesso inutile quando non esplicitamente nocivo e pericoloso per l’umanità (genera consumismo, povertà, danno ambientale).
Il primo, è lavoro come potenza costitutiva del mondo sociale, il secondo, è però il lavoro che produce plus-valore. Nella logica produttivistica del capitale ciò che conta veramente non è né il lavoro concreto né il valore d’uso (anche se, come detto sopra, di questi aspetti del lavoro e della merce il capitale non può farne a meno), ma il lavoro astratto che produce valore di scambio, ovvero plusvalore. Ciò che conta è l’accumulazione e la crescita del capitale. Il lavoro concreto, che crea valore d’uso, è comunque una caratteristica che appartiene anche ai lavori improduttivi, che non producono plus-valore. Ma questo aspetto che in un contesto fordista, fabbrichista è stato il problema dell’invisibilità e del mancato riconoscimento del lavoro concreto, oggi si trasforma e interroga lo stesso marxismo ortodosso: la naturale propensione a cooperare dell’uomo, nella spinta a divenire gratuito del lavoro, oggi è infatti in grado di creare plus-valore e accumulazione.
Tutta l’enfasi viene, come sempre, posta sulla produttività e sul valore di scambio ma, nella modificazione di paradigma, esiste la comprovata tendenza a tradurre tutto in valore di scambio. Ecco il punto da enfatizzare: nel biocapitalismo la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo tende a sfocare, esso prova ad appropriarsi del patrimonio indissolubile (human nature, bios) di ogni individuo, fondamento della sua propria “cittadinanza”. Il lavoro improduttivo (riproduzione), un tempo dimenticato da tutti, si trasforma improvvisamente in lavoro produttivo sempre più visibile. Le categorie, anche di genere, che su tali distinzioni si erano basate e sviluppate, necessitano oggi di una profonda rivisitazione. La critica femminista deve applicarsi a svelare il rapporto che si va costruendo sempre più strettamente tra mercato e controllo dei corpi e dei desideri.
Va inoltre argomentare la necessità collettiva (politica) di un recupero della centralità del concetto della cura fuori dalla logica della produttività o della sovranità – che va, viceversa, smantellata. Vorrei riprendere alcune suggestioni di Bruno Gullì nel suo libro Eartly Plenitude (2010), che sottolineano quanto sia falsa l’idea di un individuo indipendente, narcisista, completamente autonomo su cui pretende di basarsi la società contemporanea. Va messa al suo posto la nozione infinitamente più sensibile di dipendenza come elemento ineliminabile della condizione umana.
Gullì cita Martha Nussbaum (2006) che si è occupata molto di disabilità per dirci, per esempio, che non è importante creare le condizioni perché le persone disabili vengano maggiormente impiegate nel meccanismo e nella macchina del capitale. Piuttosto è importante declinare diversamente, in modo radicalmente differente, il concetto di lavoro e di utilità della persona. Nel modello di produzione capitalistico noi vediamo agire anche un progressivo processo di normalizzazione e di depotenziamento delle differenze. Mentre l’attività umana andrebbe considerata nella sua essenza e sostanza, sempre differente, e non solo a partire dal punto di vista del capitale e dell’efficienza.
A questo proposito, forse è utile fare un esempio legato all’attualità italiana. A partire dal collegato sul lavoro (n. 1167), tra le varie altre nefandezze già sottolineate, possiamo aggiungere che se i migranti e le migranti, a causa della crisi economica, vengono messi in mobilità (dopo la cassa integrazione o immediatamente) essi divengono clandestini, dunque ricadono nel reato di clandestinità e possono essere espulsi o imprigionati nei centri di identificazione ed espulsione. Esempio che conferma quanto prima dicevo a proposito della totale subalternità dei diritti di cittadinanza dal lavoro produttivo.
Il tema della disabilità è dunque, a mio avviso, molto interessante perché è paradigmatico, nel senso che ci consente di vedere la limitatezza dell’idea della produttività capitalistica. Nel modello capitalistico di produzione, nel quale la produttività che crea plusvalore e profitto è il fine principale dell’attività umana, tutti i valori, compreso la dignità, sono sottomessi al valore di scambio e a un prezzo. Perfino la cooperazione viene piegata al profitto, alla velocità, alla massima efficienza, diventa, di fatto, escludente. Né ci aiuta il contrattualismo moderno, basato come è, anch’esso, su un’idea di inclusione e di esclusione, che declina, come detto in attacco, i diritti sulla base dell’utilità (capitalistica) e rende i diritti invisibili per moltissimi, come abbiamo detto sopra. Diane Pothier e Richard Devil (2006) parlano di un regime di dis-citizenship (dis-cittadinanza).
Fuori dalla logica produttivista, il tema della cura (la cura del mondo) ritorna allora come caratteristica fondante della produzione della vita sociale. Convengo con Gullì che non possano esserci vie d’uscita fino a che non capiamo che la socialità è prigioniera della logica del capitale e non ci poniamo dentro un’ottica alternativa. Un’etica universale della buona vita per tutti richiede allora il passaggio dalla trasformazione sociale.
In questo nuovo ordine è molto utile la formulazione di Elisabeth Bubeck (1995) che auspica il passaggio dal concetto di homo oeconomicus a quello di persona carans, dove il valore di un individuo non è economico ma ontologico, poiché la cura è una attività umana più profonda e certamente più basilare della produzione, dello scambio, del commercio, dell’essere impiegati. Nelle condizioni adatte, gli esseri umani possono vivere senza tutto questo, mentre è pressoché impossibile che riescano a cavarsela facendo a meno l’uno dell’altro. Il corpo abile, utile, produttivo è anche lo specchio della norma, anche della norma sessuale, che diventa paradigma eterosessuale. Il corpo disabile aiuta a decostruire la norma che ci condiziona e ci rende ottusi. Una politica della trasformazione può partire anche dalla critica della disabilità, a partire dalla convinzione che la disabilità è una costruzione sociale. Se non affrontiamo una profonda critica del concetto di produttività e di lavoro – a partire dalla nostra esperienza di donne – ogni discorso che stabilisce la necessità di una maggiore inclusione nella cittadinanza e nel diritto verso una buona vita “risulta solo una contraddizione e una aporia”.
Dalla cura al comune (commonfare)
Sono stata sollecitata dai ritorni che ho avuto negli scambi con tante donne, in questo periodo, a rivedere il termine cura che ho utilizzato spesso, ultimamente. Certamente, va chiarito che nell’esperienza delle donne, dietro (dentro) il concetto di cura si celano anche il sudore, il sudiciume, le lacrime, l’oblatività, la noia. Non tutto riluce, nella pratica della cura. Va ricordato che la cura rimanda anche a esperienze non care alle donne. Ruoli imposti, costruzioni sociali, obblighi, norme, “naturalità” innaturali.
Sarà necessario, nel tempo, ripensare completamente la terminologia che abbiamo a disposizione e tutto ciò che ne consegue. I neologismi aiutano sempre a fare passi in avanti. La parola cura appartiene però a un’attrezzatura lessicale, immediatamente individuabile, che ha il pregio di fornire riconoscimento istintivo a una dimensione, rimossa e poi soggiogata dal produttivismo e dalla logica della merce, che può subito porsi al di fuori, al di là. Storicamente è più collegata all’esperienza femminile ma che non va come intesa come pratica solo confinata in quell’ambito. La cura evoca quell’ineludibile dipendenza dall’altro che ci spinge a costruire società, mondo. Penso alla necessità di riappropriarci del significato politico della cura. Nell’Ermeneutica del soggetto (2003), Foucault affronta il tema della soggettivazione e mette al centro l’esercizio della cura di sé. La nuova genealogia dei soggetti dovrà certamente liberarli da certe discipline e da certe identità, ma dovrà recuperare anche il tema della cura di sé (responsabilità; un “io che decide”) non già come esercizio solipsistico, ma come pratica sociale. In questo senso a cura di sé – o il farsi carico della cura che gli altri devono avere di se stessi – si trasforma in un’esaltazione dei rapporti sociali.
Questo elemento è ciò che sta anche alla base della costruzione del comune (Hardt, Negri, 2010). Potremmo chiamare altrimenti questa cura per il mondo, nominandola perciò come tensione verso il comune. E che cos’è il comune, in questa luce, se non propriamente l’infinita rete dei rapporti umani densi di significato che noi conosciamo e sperimentiamo? Non è forse questa riproduzione sociale, questa fatale cooperazione umana, la quale ci sostiene negli infiniti atti della nostra esistenza, un bene comune da difendere, per il quale combattere, al pari dell’acqua o alla terra? Non va forse evitata la sua canalizzazione forzata verso la privatizzazione (marcantilizzazione), che significa oltre al suo sfruttamento, anche il suo depotenziamento? Non ne vanno viceversa liberati i potenziali, attraverso il ricorso a forme adeguate di commonfare? Non è questa la via per riconvertire il concetto di cittadinanza dopo un adeguato percorso di ridefinizione delle identità (Ross, 2003) sganciato dal lavoro, che vuole dire anche un ritorno all’autenticità del soggetto, a quell’umano oggi lì inglobato, sussunto, imprigionato? Il valore di scambio va sganciato dal lavoro d’uso, la creazione va sganciata dalla produzione. Ritrovare dunque il tratto comune (umano) della riproduzione sociale, del lavoro vivo, del valore d’uso. Porre la riproduzione sociale al riparo dai vincoli della valorizzazione economica e della funzionalità produttiva.
E’ possibile parlare cioè, da donne, di comune, intendendo con questo termine quello spazio pubblico che oggi – al di fuori della grammatica produttivista – viene negato non solo a noi ma a tutti (uomini e donne insieme). Facendo perno sul valore – finalmente esplicito! – della riproduzione per pretendere altro. L’individualizzazione dei rapporti di lavoro spinge a favore della necessità del soggetto di far prevalere il proprio “io” a discapito di ogni dimensione collettiva. La forte competitività che caratterizza il contesto contemporaneo, incita ciascuno all’iniziativa individuale, “ingiungendogli di divenire se stesso” (Ehrenberg, 1999), utilizzando a questo scopo, laicamente, ogni parte di sé, senza pregiudizi. Il fine giustifica il mezzo e non sempre è facile accorgersi che si tratta, a ben vedere, di una nuova e paradossale normatività: l’intera responsabilità delle nostre vite si colloca esclusivamente in ciascuno di noi. L’ideologia dell’autorealizzazione, sconvolge dalle fondamenta l’idea di società e di collettività (che chiamo cura ma è comune), che viene accantonata in nome di una stimolazione narcisistica, particolarmente accentuata dal capitalismo cognitivo. “La persona deve diventare in se un’impresa, deve diventare in se stessa, in quanto forza lavoro, un capitale fisso che deve essere continuamente riprodotto” (Gorz, 2003) e al quale nessun vincolo può essere imposto dall’esterno. In qualche misura, corriamo il rischio di assistere a una “espropriazione del mondo” da parte del capitalismo, che dopo aver corroso lo spazio politico, minaccia, infine, l’intero universo naturale.
In questa dimensione lo spazio pubblico assume il significato pienamente politico dell’azione collettiva che dà voce all’eccedenza che inevitabilmente si produce, cascame ineliminabile dei processi di captazione del sistema sul vivente. Le molteplicità sociali emergenti in questo contesto devono provare a tracciare un nuovo spazio del politico. Lo spazio del comune.
* Rielaborazione da un intervento al Macba di Barcellona, giugno 2010.
Bibliografia
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Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 1999.
Michel Foucaul, Ermeneutica del soggetto Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano, 2003.
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Andrea Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Carocci, Milano, 2007
Andrè Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore, capitale, Bollati Boringhieri, Torino, 2007
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Andrew Ross No-Collar. The Human Workplace and Its Hidden Costs, Basic Books, New York., 2003
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Il sussulto del Granchio 07.01.2011
di Anna Lisa Bonfranceschi
Una radiazione inattesa, fatta di raggi gamma estremamente variabili, che molto potrebbe rivelare sulla natura e sul moto delle particelle elementari. È il “messaggio” lasciato nello spazio dalla Nebulosa del Granchio (Crab in inglese), captato lo scorso settembre da un satellite dell’Agenzia Spaziale Italiana – AGILE (Astrorivelatore Gamma a Immagini ultra Leggero) – e da uno della Nasa. Alla scoperta Science dedica due studi e una perspective. Galileo ha chiesto a Marco Tavani dell‘Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), responsabile scientifico del telescopio italiano e primo autore di uno dei due studi pubblicati, di spiegare l’origine e il significato di quello che è stato ribattezzato come “Il sussulto del Granchio”.
Professor Tavani, che cos’è la Nebulosa di Crab?
“La Nebulosa di Crab è uno dei pochissimi oggetti celesti di cui conosciamo la storia. Quello che noi oggi vediamo è, infatti, ciò che resta dell’esplosione di una supernova osservata dagli astronomi cinesi nel 1054 d.C. Al centro della nebulosa oggi rimane il nocciolo della supernova: una stella a neutroni o, più comunemente, pulsar”.
Perché le radiazioni captate dal satellite italiano sono insolite?
“La nebulosa del Granchio emette vari tipi di radiazione, tra cui i raggi X e gamma. Fino ad oggi, le radiazioni emesse erano per lo più stabili, così regolari da usare la nebulosa di Crab come un’eccellente sorgente di riferimento per identificare radiazioni provenienti da altri oggetti celesti. Lo scorso settembre, però, il satellite dell’Agenzia Spaziale Italiana ha registrato strani comportamenti nei raggi gamma della nebulosa: AGILE ha infatti memorizzato un “sussulto”, un’intensa ondata di raggi gamma estremamente variabile; un fenomeno copia di un altro registrato dallo stesso satellite nel 2007. L’evento di settembre è stato osservato anche da un altro gruppo di astronomi statunitensi, grazie al telescopio spaziale Fermi della NASA”.
Qual è l’origine di questo sussulto?
“È da escludere che a originare queste ondate di raggi gamma sia stata la pulsar al centro della nebulosa, perché nel suo comportamento non è stato evidenziato nessun sostanziale cambiamento. Questo suggerisce che a generare le emissioni sia stato qualcos’altro all’interno della nebulosa: noi ipotizziamo che siano state particelle ad alta energia”.
Quali sono queste particelle e in che modo emettono radiazioni?
“La pulsar ruota su se stessa molto rapidamente, generando un campo magnetico potentissimo. Ruotando, la stella a neutroni emette radiazioni elettromagnetiche e un vento di particelle, tra cui elettroni, positroni e forse, ma non ne siamo certi, protoni. A loro volta, le particelle urtano contro i gas della nebulosa, subendo continuamente variazioni nel moto e nelle accelerazioni, emettendo vari tipi di radiazione, tra cui quelle gamma”.
Qual è il significato della scoperta?
“Di solito questo tipo di radiazioni si perdono, si diluiscono nell’insieme delle emissioni della nebulosa. Stavolta, invece, è come se avessimo potuto fare uno zoom sulla nebulosa e osservare ciò che accade da vicino a queste particelle. Vedere questi sussulti ci permette di studiare l’accelerazione delle particelle con una precisione estrema, mai raggiunta prima. In questo senso, la nebulosa di Crab è un laboratorio eccezionale per la fisica delle particelle, più potente di qualsiasi acceleratore tradizionale. Inoltre, non si tratta di una scoperta solo teorica. Capire il comportamento di queste particelle infatti ci permette di comprendere meglio la fisica dei plasmi e ci aiuta a migliorare tecnologie come quelle applicate alla fusione nucleare, con implicazioni importanti anche sul fronte energetico”.
Riferimenti: Science doi 10.1126/science.1200083; Science doi 10.1126/science.1199705; Science doi 10.1126/science.1201365
http://www.galileonet.it/articles/4d26b65f72b7ab508e000089
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Il Polo Nord magnetico si sposta, aeroporti ai ripari 10.01.2011
A Tampa, in Florida, le piste di atterraggio devono essere rinumerate. Colpa della corsa verso nord-ovest del punto che attrae l’ago delle bussole
di Letizia Gabaglio
Il fenomeno è di quelli studiati fin dal liceo: il polo nord magnetico della Terra, che non coincide con quello geografico, si sposta ogni anno verso nord-ovest. La notizia che viene da Tampa, Florida, invece, è di quelle che stupiscono: a causa di questa variazione, l’aeroporto internazionale della città ha chiuso fino al 13 gennaio prossimo la sua pista principale, così da poterla rinumerare in maniera esatta. Quelle cifre disegnate all’inizio e alla fine della pista, che a noi profani non dicono nulla, infatti, sono fondamentali per i piloti perché indicano la direzione magnetica verso cui puntano gli aerei in atterraggio o in decollo.
Dopo decenni in cui le misurazioni del Nord magnetico registravano cambiamenti tutto sommato minimi, un anno fa Arnaud Chulliat, geofisico dell’ Institut de Physique du Globe di Parigi, ha svelato che ormai quella del punto che attrae l’ago delle bussole è uno spostamento imponente, una vera e propria corsa verso la Russia, visto che si muove al ritmo di 64 chilometri all’anno. Una scoperta che ora sta avendo le sue prime ripercussioni pratiche: la pista più trafficata dell’aeroporto di Tampa verrà ora contrassegnata con le cifre 19R/1L, anziché 18R/36L. Alla fine del mese di gennaio anche le altre piste verranno chiuse e rinumerate.
http://daily.wired.it/news/scienza/il-polo-nord-magnetico-si-sposta-e-gli-aeroporti-si-adeguano.html
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Cocaina, vaccino dal virus del raffreddore impedisce che la “scossa” arrivi al cervello
Ricercatori americani hanno sperimentato il siero sui topi e hanno visto che riesce a sbarrare l’accesso ai principi attivi della droga. Il merito è della parte “buona” dell’adenovirus che dà l’allarme-intruso al sistema immunitario e ne attiva le difese. Nuove speranze per l’immunizzazione da uno stupefacente che solo in Europa è stato assunto da 14 milioni di persone
Fonte: Repubblica.it, di Adele Sarno 11/01/2011
ROMA – Promette di liberare le persone dalla schiavitù della cocaina il vaccino sperimentato con successo sui topi dai ricercatori della Weill Cornell Medical College di New York City. La sostanza sarebbe in grado di neutralizzare i principi attivi della sostanza e, secondo la rivista Molecular Therapy 1, lo fa grazie alla sua particolare composizione. Il siero infatti combina frammenti del virus del raffreddore a una molecola che ‘imita’ l’azione della sostanza stupefacente e questo ‘mix’ riesce a stimolare la produzione di anticorpi utili a eliminare gli effetti della cocaina. In altre parole, la risposta immunitaria prodotta dal vaccino impedisce alle molecole della cocaina di raggiungere il cervello, prevenendone dunque gli effetti. L’efficacia dura per 13 settimane.
“I nostri dati – dice Ronald Crystal, presidente e docente di medicina genetica al Weill Cornell Medical College – dimostrano che siamo in grado di proteggere i topi dagli effetti della cocaina”. La ricerca per ora ha riguardato soltanto delle cavie da laboratorio, ma gli studiosi prevedeono di tentare la sperimentazione anche sugli uomini, sperando di poterla estendere in futuro anche al trattamento di altre dipendenze, come quella da nicotina, da eroina e da altri oppiacei.
“Non è la prima volta che si tenta la strada dell’immunizzazione nei confronti della cocaina – ricorda Crystal – ma questo è il primo approccio che probabilmente
non richiederà sforzi eccessivi nella messa a punto del vaccino. E, per questo, probabilmente potrà rapidamente essere testato sull’uomo”.
La novità di questo trattamento è rappresentata proprio dalla composizione del siero. Bisogna ricordare che il sistema immunitario umano non riconosce la cocaina come un “nemico”, qualcosa da distruggere. I ricercatori per questo hanno “scisso” l’adenovirus (ovvero il virus del raffreddore), recuperandone la parte che scatena la risposta immunitaria, scartandone invece i componenti che trasmettono la malattia. Una volta isolata, questa “parte buona” del virus è stata combinata con una molecola simile a quella della cocaina, ma più stabile.
In questo modo, quando la sostanza stupefacente entra in circolo, l’agente infettivo (il virus) fa scattare l’allarme, il sistema immunitario riconosce la cocaina come un intruso e aziona le difese, impedendo che il principio attivo della droga arrivi al cervello. Sui topi l’effetto era evidente: le cavie vaccinate erano molto meno eccitate e iperattive.
Già nel 2009 uno studio pubblicato su Archives of General Psychiatry 2 rilevava come la profilassi fosse in grado di ridurre la dipendenza da questa droga. Anche il vaccino messo a punto dai ricercatori della Yale University School of Medicine riusciva nel suo scopo perché agiva sul sistema immunitario, stimolando la produzione di anticorpi in grado di riconoscere questa droga nel sangue. Solo il 38 per cento dei vaccinati, però, ha prodotto livelli di anticorpi sufficienti a inibire la cocaina e a ridurre in modo significativo gli effetti provocati. Inoltre, tra coloro in cui ha funzionato, gli anticorpi sono rimasti nell’organismo per soli due anni.
La sperimentazione di questo vaccino doveva arrivare anche in Italia, ma è stata sospesa proprio nei giorni scorsi. Lo stop, spiega il capo del Dipartimento politiche antidroga della presidenza del consiglio, Giovanni Serpelloni, è dovuto al fatto che la multinazionale che produce il vaccino non ha ritenuto soddisfacenti i risultati ottenuti dalla sperimentazione già fatta negli Usa. “È un vero peccato – dice Serpelloni – perché ancora una volta viene penalizzata la ricerca e si nega la possibilità di avere un presidio in più contro le dipendenze”.
La cocaina resta una delle droghe più diffuse in Italia e in Europa. Quasi 14 milioni di adulti europei (tra i 15 e i 64 anni) hanno provato la cocaina nella loro vita e circa 4 milioni l’hanno consumata nell’ultimo anno. Il consumo di cocaina è particolarmente alto in Danimarca, Irlanda, Spagna, Italia e Regno Unito. A dirlo è la Relazione annuale 2010 dell’Osservatorio europeo delle droghe 3 e tossicodipendenze. Il consumo tra i giovani adulti (15-34 anni) andava dal 2,9% dell’Italia al 6,2% del Regno Unito.
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Perché Mariastella Gelmini odia Scienze della Comunicazione 13.01.2011
Nell’epoca della società dell’informazione, il Ministro dell’Università Mariastella Gelmini va in televisione (Ballarò, RAI3, servizio pubblico) a dichiarare che le Facoltà di Scienze della Comunicazione sono inutili.
Gelmini (in buona compagnia, da Bruno Vespa a Maurizio Sacconi) prende così per l’ennesima volta partito dalla parte di un “fare” tecnico-scientifico sul quale investire (ma la realtà tremontiana è che i tagli sono anche lì) contrapposto ad uno sterile “pensare” delle scienze socio-umanistiche sulle quali considera bene invece disinvestire, nella presunzione che sia auspicabile una società zoppa in grado di reggersi prescindendo da una delle due gambe del sapere. E’ una guerra, quella di Gelmini, dichiarata fin dall’incipit della sua legge che, per la prima volta, espunge dalle funzioni dell’Università quella della trasmissione critica del sapere che perfino Letizia Moratti aveva mantenuto.
Quello che il Ministro trova urticante, e vorrebbe quindi eliminare insieme alle odiate facoltà di Scienze della Comunicazione, è il fatto che migliaia di giovani acquisiscano nell’Università pubblica strumenti per decodificare e quindi difendersi dal monopolio informativo nel quale viviamo, dove la concentrazione editoriale e l’orientamento al profitto dei media è inconciliabile con l’interesse sociale al pluralismo garantito dalla Costituzione repubblicana.
Così proprio nelle Facoltà di Scienze della Comunicazione (che qualunque studioso serio considera un motore del progresso economico e culturale nella nostra era post-industriale) il governo vede invece un pericolo per la propria narrazione sociale, per il proprio latifondo informativo e per l’egemonia sottoculturale incarnata dal gruppo Mediaset e più in generale dal berlusconismo.
Nelle facoltà di Scienze della Comunicazione gli studenti non si preparano solo alle professioni della comunicazione di massa, d’impresa, pubblicitaria. Apprendono a pensare la comunicazione come plurale e partecipativa. Acquisiscono strumenti che permettono loro di inventare nuovi media altri. Studiano per innovare forme, tecniche e contenuti rispetto al format da pensiero unico sul quale si regge il modello. Lavorano per fare comunicazione e informazione con la propria testa e non per compiacere qualcuno.
Nel latifondo mediatico berlusconiano si fa carriera col conformismo, l’omologazione, il servilismo. La colpa dell’Università pubblica (e delle Facoltà di Scienze della Comunicazione che Gelmini vorrebbe eliminare), è di offrire strumenti per stare con la schiena dritta ed insegnare a pensare e comunicare che esistono altre vie.
Gennaro Carotenuto, ricercatore, insegna Storia del giornalismo e dei nuovi media ed è autore di Giornalismo partecipativo. Storia critica dell’informazione al tempo di Internet.
http://www.gennarocarotenuto.it/14812-perche-mariastella-gelmini-odia-scienze-della-comunicazione/
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Estratto di Da Venezia partono i roghi di libri. Vogliamo fare qualcosa? 16.01.2011
“Le parole più adatte alla circostanza le ha trovate Serge Quadruppani. Le abbiamo tradotte dal francese, eccole:
«Di fronte all’imbecillità fascistoide, si resta come ammutoliti: l’idiota enormità di certe dichiarazioni potrebbe lasciarci senza voce. E’ una cosa talmente stupida che si ha soltanto voglia di alzare le spalle e pensare ad altro. Ma questa enormità e quest’idiozia hanno effetti molto concreti. Se si lascia diffondere la sola idea (per non parlare della prassi reale) che si possano ufficialmente compilare liste nere contro chi non cede alla dittatura della tristezza, chi non si adegua alla visione dominante di questo o quell’aspetto del passato, allora si capitola a una concezione della società più vicina a quella della Tunisia di Ben Ali che a quella sognata in Europa dagli illuministi e dalla Resistenza.
Per fortuna la storia recente dimostra che, a conti fatti, i piccoli e grandi Ben Ali non sempre sono vittoriosi.»
Avvertenza preliminare: il caso Battisti qui è solo un pretesto. Non ci fosse stato quello, ne avrebbero cercato un altro. Ragion per cui, in questo post non si parlerà dello specifico di quella vicenda. Chi conosce soltanto la campana battuta a martello dai media e dai politici e volesse sentirne altre, può informarsi su Carmilla [1]. Chi vuole discuterne, è pregato di farlo altrove (la rete è piena di blog e forum). Come la pensiamo noi è sufficientemente noto, a suo tempo ne abbiamo scritto, soppesando ogni parola, sforzandoci di mantenere un equilibrio [2]. Ma oggi la questione è un’altra, come ha capito benissimo il collega Carlo Lucarelli, che ci manda questo messaggio:
«Sul “caso battisti” – sia l’uomo che la vicenda – abbiamo posizioni differenti, ma quello che stanno cercando di fare con questa lista di proscrizione è veramente una porcata ed è pura censura del dissenso. Io non sono uno dei firmatari dell’appello pro Battisti ma sono disponibile ad appoggiare comunque qualunque iniziativa condivisibile nel contrastare questa squallida operazione da dittatura stupida.»
E ora raccontiamo cosa sta succedendo.
L’assessore alla cultura della provincia di Venezia, l’ex-missino-oggi-berlusconiano Speranzon, ha accolto il suggerimento di un suo collega di partito e intimerà alle biblioteche del veneziano di:
1) rimuovere dagli scaffali i libri di tutti gli autori che nel 2004 firmarono un appello dove si chiedeva la scarcerazione di Cesare Battisti;
2) rinunciare a organizzare iniziative con tali scrittori (vanno dichiarati “persone sgradite”, dice).
Il bibliotecario che non accetterà il diktat “se ne assumerà la responsabilità”.
Si allude forse al congelamento di fondi, al mancato patrocinio delle iniziative, al mobbing, a campagne stampa ostili?
La proposta ha avuto il plauso del COISP, un sindacato di polizia. Così il bibliotecario ci pensa due volte, prima di mettersi contro l’ente locale e le forze dell’ordine.
Una cricca di “sinceri democratici” si sta già muovendo per estendere la cosa a tutto il Veneto, ed è probabile che l’iniziativa venga emulata oltre i confini regionali.
Ecco cosa si può leggere sul “Gazzettino” [3]:
«Scriverò agli assessori alla Cultura dei Comuni del Veneziano perché queste persone siano dichiarate sgradite e chiederò loro, dato anche che le biblioteche civiche sono inserite in un sistema provinciale, che le loro opere vengano ritirate dagli scaffali […] Chiederò di non promuovere la presentazione dei libri scritti da questi autori: ogni Comune potrà agire come crede, ma dovrà assumersene le responsabilità. Inoltre come consigliere comunale a Venezia, presenterò una mozione perché Venezia dia l’esempio per prima […] Scriveremo agli assessori regionali Marino Zorzato e Elena Donazzan, perché estendano l’iniziativa in tutto il Veneto.»”…
Qui l’articolo completo e le immagini:
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=2572
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Un nuovo test isolerà una sola cellula tumorale in mezzo a miliardi di cellule sane 13.01.2011
Oggi è già disponibile un esame del sangue capace di individuare, tra miliardi di cellule sane, quell’unica cellula tumorale circolante.
In un futuro non troppo lontano sarà possibile, con una sola provetta di sangue, catturare questa cellula e studiarla per capire se le terapie farmacologiche avranno un effetto oppure no.
E’ la nuova frontiera della lotta al cancro che promette di offrire, in capo a qualche anno, strumenti di ultima generazione.
Ci stanno lavorando – insieme alla Veridex, la divisione di ricerca farmaceutica della Johnson & Johnson – i ricercatori del Massachusetts General Hospital di Boston che presenteranno i loro primi risultati sulle pagine del New England Journal of Medicine.
Oggi è già possibile, con un semplice esame del sangue, individuare e contare le Ctc (cellule tumorali circolanti) ma in un futuro non troppo lontano il nuovo test permetterà di catturare queste cellule per studiarle in laboratorio e testare le terapie più adatte.
Il test, messo a punto dall’equipe guidata da Daniel Haber, è destinato a mandare in pensione la biopsia, esame diagnostico sicuro ma invasivo, perché grazie al microchip e agli anticorpi di cui è dotato riesce a catturare le Ctc e a consegnarle agli studiosi che le potranno analizzare.
Oltre al Massachusetts General Hospital, il nuovo test verrà sperimentato presso lo Sloan-Kettering di New York, l’Università del Texas, l’M.D. Anderson Cancer Center di Houston e il Dana-Farber Cancer Institute di Boston.
Fonti
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Putin apre l’artico alle trivelle Bp 17.01.2011
Il gigante russo del petrolio e del gas naturale Rosneft e quello britannico Bp hanno siglato un accordo da 16 miliardi di euro che ha per oggetto l’Artico. Sotto i ghiacci del Polo Nord ci sono immense riserve di idrocarburi, ma sono difficili e costose da sfruttare.
Lo stesso Artico, poi, è al centro di una controversia internazionale tra Usa, Canada, Norvegia, Russia e Danimarca per la definizione dei suoi confini. Ecco, allora, che l’alleanza russo-britannica ha anche un sapore tutto politico: Vladimir Putin cerca alleati che appoggino le sue mire sulle risorse artiche.
In questo accordo Bp (che qualche mese fa ha dovuto vendere mezzo giacimento polare in Alaska, per pagare i danni della marea nera) ci mette la tecnologia, mentre Rosneft ci mette i giacimenti. Sarà molto più difficile per gli ambientalisti, ora, contrastare le trivellazioni nell’artico.
Le polemiche già abbondano, visto l’impatto ambientale dell’industria del petrolio su una zona così “pura” e delicata come quella del Polo Nord. Celebre il caso di Biancaneve, un giacimento norvegese sull’isola di Melkoya dove da pochi anni è arrivato il più grande impianto di liquefazione di gas d’Europa. I cittadini dell’isola già l’anno ribattezzato “Cenerentola”: da quando c’è l’impianto il villaggio è pieno di fuligine…
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Chi è il blogger nel governo tunisino 18.01.2011
Si chiama Slim Amamou, ha 33 anni ed entra nel nuovo esecutivo di Tunisi come sottosegretario alle politiche giovanili. Intanto le proteste continuano: troppo poco rinnovamento
di Gaia Berruto
Dal blog di Riccardo Luna: Internet è più di un mezzo (vedi Tunisi).
“En réunion ministèrielle”. Un twit asciutto, ma che racchiude tutta la soddisfazione di chi ha vissuto in prima persona le proteste di strada, è stato incarcerato, rilasciato, e ora entra a testa alta al Ministero per una riunione con i pezzi grossi della politica.
L’autore del twit si chiama Slim Amamou, è un blogger tunisino, ha 33 anni ed è diventato uno dei simboli della rivoluzione di Tunisi. Per giorni ha raccontato su Twitter la situazione, poi – dal 6 al 12 gennaio – è scomparso dalla Rete. Incarcerato, si diceva online. E difatti, il 13 gennaio, i suoi seimila followers hanno avuto la conferma da Slim stesso. Di nuovo, un messaggio breve: ” Je suis libre”, sono libero. Seguito, qualche twit dopo, da una precisazione: ” Il mio indirizzo di posta è compromesso. Non usatelo!”
Ieri l’ annuncio pieno di entusiasmo: ” Je suis secrétaire d’état a la Jeunesse et aux sports :)”. Il blogger ribelle è stato chiamato a fare il sottosegretario alle politiche giovanili e allo sport per il nuovo governo di unità nazionale. Una vittoria non solo personale. Vince il Partito pirata, di cui fa parte, e vincono tutti i giovani tunisini che hanno partecipato alle proteste di strada usando Internet, e soprattutto Twitter, come mezzo per raccontare al mondo cosa stava succedendo. Vince, in qualche modo, tutto il popolo della Rete che vede Internet come strumento di pace.
Il blog di Slim Amamou si chiama NoMemorySpace ed è aggiornato più o meno una volta al mese. L’ultimo post risale addirittura a luglio. Nonostante questo, Slim resta una celebrità per la Tunisia. Come si legge su un Global Voices, già a luglio il blogger aveva denunciato, tramite un articolo ben documentato, un blocco sospetto della mail di Google. In particolare Slim dimostrava l’impossibilità di accedere all’HTTPS per avere un minimo di sicurezza di privacy nella lettura della propria posta.
Nel suo profilo su Global Voices, Slim si racconta così: ” Ho 33 anni, abito a Tunisi, sono sposato e ho uno splendido figlio. Sviluppo applicazioni web per aziende e sono anche un attivista contro la censura, contro la proprietà intellettuale e per la Net Neutrality”. Il contatto che offre a tutti, per seguirlo, è quello di Twitter: @slim404.
Ora i suoi twit sono tutti dedicati al suo nuovo incarico. E anche al suo piccolo momento di celebrità. Qualcuno lo critica, perché il governo messo in piedi di fretta, a soli tre giorni dalla fuga di Ben Alì, con premier e tre Ministri riconfermati, è visto con sospetto da molti tunisini. Ma il blogger vede nella politica una possibilità. E proprio attraverso Twitter risponde a tutti i suoi follower con entusiasmo:” Non sono diventato segretario di stato per farvi chiudere la bocca, sono qui per aprirla davanti al governo. :)”, ” ho cominciato con un colpo di stato mediatico: parlo liberamente a tutti i media del mondo”, ” insegnerò a tutti i membri del governo a usare Twitter”, ” con l’annuncio dell’incarico volevo postare una mia foto con gli slip di Superman, ma mi hanno dissuaso”.
http://daily.wired.it/news/politica/blogger-tunisino.html
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L’inganno Khodorkovsky 19.01.2011
L’articolo che potete leggere qui sotto non è un prodotto “redazionale”: l’abbiamo trovato sul web e l’abbiamo ritenuto meritevole di una segnalazione. Ecco perché lo proponiamo ai nostri lettori.
La Red/azione
Fonte: http://www.pinoarlacchi.it/it/articoli/347-linganno-khodorkovsky
Non mi straccio le vesti sul caso Khodorkovsky, e chi lo considera un martire delle libertà è vittima di una disinformazione clamorosa. E di una Babele politico-mediatica che finisce col rendere tutti più ignoranti. Sakineh, Battisti, Khodorkovsky: che differenza c’è? Credo di saper riconoscere un mafioso, e posso affermare che Khodorkovsky è stato un mafioso tra i più pericolosi. Che invece di pentirsi, restituire il bottino nascosto nei paradisi fiscali e chiedere perdono alle sue vittime, finanzia campagne di pubbliche relazioni che hanno raggiunto il surreale, accostandolo a Sacharov, Gandhi, e tra un po’ anche a Gesù Cristo. Quando si tratta, al massimo, di un oligarca sconfitto in una guerra di potere, e imprigionato con procedure discutibili.
Non mi straccio le vesti anche perché ho conosciuto la Russia degli anni 90: uno stato della mafia i cui massimi architetti e beneficiari sono stati proprio Khodorkovsky e i suoi compari oligarchi. Uno stato edificato con l’amorevole assistenza della finanza occidentale, che ha colto l’occasione della caduta del comunismo per costruirci sopra una montagna di soldi. Sono state infatti le banche europee ed americane che hanno ricettato i soldi della mafia russa contribuendo a portare un grande paese sull’ orlo del disfacimento. Ma la festa è finita con l’arrivo di Putin, ed è questa la soluzione dell’ “enigma” del 70% dei suoi consensi attuali. E della sua impopolarità presso il grande business anglo-americano ed i loro giornali, innamoratisi all’ improvviso di Khodorkovsky.
L’ élite criminale più vicina agli oligarchi amici di Yeltsin è quella dei boss di Cosa Nostra. Stessa ferocia, stessa protervia politica, mascherata da un grado di ricchezza, istruzione e status sociale di gran lunga superiori. Gli ex-caprai di Corleone non hanno mai neanche sognato i livelli di agiatezza e sofisticazione dei magnati criminali russi.
Il capo di Cosa Nostra russa era Boris Berezovsky, quello che viene intervistato dai giornali italiani nei panni di un rifugiato politico in Inghilterra. Un uomo capace di ordinare un assassinio al mattino, e di andare poi a cena con un George Soros determinato a redimerlo (vedi resoconto di Soros a pag. 223 del mio volume “La mafia imprenditrice”).
Berezovsky era un matematico, membro dell’ Accademia russa delle scienze, e lo stesso Khodorkovsky era un importante dirigente di partito. Gli altri boss erano tutti personaggi noti al grande pubblico perché parlamentari, imprenditori, sindaci, proprietari di giornali e televisioni nazionali.
Senza questo livello intellettuale, l’oligarchia criminale russa non avrebbe potuto escogitare quella che è a tutt’oggi la più grande frode della storia. Nata da una alleanza tra i “magnifici 7” stipulata a Davos, durante il World Forum annuale, per sostenere Yeltsin alle elezioni, questa truffa ha consegnato nelle loro mani quasi metà della ricchezza della Russia. Il maxiraggiro venne chiamato “prestiti contro azioni” e funzionò così.
Alla fine del 1995 il governo russo, invece di chiedere prestiti alla Banca Centrale, si rivolse alle banche degli oligarchi. Come garanzia per il credito concesso, queste banche avevano ricevuto in custodia temporanea i pacchetti azionari di maggioranza delle più grandi imprese del paese. Un anno dopo, proprio per consentire agli oligarchi di tenersi le azioni, il governo decise di non restituire i prestiti. Così Berezovsky ed i suoi, dopo aver prestato 110 milioni di dollari, si ritrovarono in mano il 51% di un’azienda, la Sibneft , che valeva 5 miliardi di dollari. Il gruppo Menatep, guidato da Khodorkovsky, pagò 160 milioni per ottenere il controllo della Lukoil, una compagnia petrolifera che valeva più di 6 miliardi di dollari. La Banca di un altro amico degli amici, Potanin, spese 250 milioni di dollari per impadronirsi della Norilsk Nichel, leader mondiale della produzioni di metalli, il cui valore si aggirava sui 2 miliardi di dollari.
La frode dei “prestiti contro azioni” è il vizio fondante del capitalismo russo. Ha contribuito al consolidamento di una oligarchia politico-mafiosa che ha generato il più grande disastro sofferto dalla Russia dopo l’ invasione nazista del 1941. Il PIL della Russia si è dimezzato in pochi anni. I risparmi di tutta la popolazione sono evaporati a causa della svalutazione selvaggia del rublo. La povertà è passata, negli anni 90, dal 2 al 40% della popolazione. L’età media si è abbassata di 5 anni a causa del ritorno di malattie scomparse. Per lunghi periodi lo stato non ha potuto pagare pensioni e stipendi, mentre nel paese scorazzavano bande delinquenti di ogni risma.
La plutocrazia fiorita sotto Yeltsin, d’altra parte, non era il capitalismo primitivo che precede quello pulito. Era un sistema di potere senza futuro, che per sopravvivere doveva continuare a rubare e corrompere. Il suo tallone d’Achille era l’assenza di una vera protezione legale.
Il timore di venire espropriati da un governo non amico, che avrebbe potuto dichiarare illegittime le privatizzazioni, e la paura degli oligarchi di essere a loro volta derubati da altri ladri, hanno avuto due conseguenze. Li hanno spinti in primo luogo a portare fuori dalla Russia il loro malloppo. E fin qui tutto bene, perché oltreconfine c’erano spalancate le grandi fauci delle banche svizzere, inglesi ed americane (vedi scandalo Bank of America e simili), ben liete di riciclare i loro beni. Ma i problemi sono nati nel momento in cui i mafiosi russi, per garantirsi l’impunità, sono stati costretti a perpetuare il loro patto scellerato con la politica.
Nel 1999 era arrivato al potere un uomo dei servizi segreti, gradito sia a Yeltsin che agli stessi oligarchi, e da loro considerato uno dei tanti primi ministri da sostituire, all’ occorrenza, dopo un paio di mesi. Ma Vladimir Putin aveva una particolarità. Dietro le sue spalle c’erano anche quei pezzi del KGB che non erano confluiti nel calderone criminale della Russia postcomunista: pezzi ormai marginali di uno stato in via di dissoluzione, ma ancora in vita, e comunque depositari di un senso della nazione profondamente sentito dai cittadini russi.
Facendo leva su queste zattere alla deriva, e sull’immenso risentimento collettivo contro Yeltsin e i boss della mafia, Putin prese rapidamente le distanze dai suoi sostenitori. Dopo pochi mesi di governo, egli fu in grado di mettere gli oligarchi davanti a un’alternativa: il rientro nei ranghi del potere finanziario, senza alcuna pretesa di intervento nella politica, in cambio della rinuncia del governo a recuperare il maltolto delle privatizzazioni; oppure la guerra totale, con rinazionalizzazione dei beni pubblici razziati e con la fine dell’ impunità per i crimini commessi dai capibastone (stragi, omicidi, furti, truffe, sequestri, estorsioni, evasioni fiscali in abbondanza).
Furono avviati anche gli opportuni contatti con l’ufficio che ho diretto alle Nazioni Unite, e che aveva appena lanciato un’iniziativa per la confisca, per conto dei governi danneggiati, dei beni di provenienza illecita riciclati nei centri finanziari del pianeta.
Di fronte alla proposta di Putin, il fronte mafioso si spaccò. Alcuni oligarchi l’ accettarono. Altri la irrisero, compiendo così il fatale errore di sottovalutare la forza dell’ ex dirigente del KGB, nel frattempo diventato Presidente. Per evitare vari mandati di cattura, Berezovsky si rifugiò nel Regno Unito, da dove finanzia attività antirusse con il beneplacito dei servizi segreti di Sua Maestà. Khodorkovsky pensò invece di sfidare Putin politicamente, finanziando partiti ostili a quest’ultimo, nella speranza di rovesciarlo.
Gli è andata male. Khodorkovsky è molto impopolare in Russia, per le ragioni che abbiamo spiegato. Ed i suoi attacchi hanno perciò sortito l’effetto di rafforzare e non di indebolire Putin.
Ma il soggetto è ancora un uomo ricco, con molti soldi all’estero. Con i quali può pagare le fatture di illustri lobbisti e di rinomate società di pubbliche relazioni. Come sanno vari parlamentari europei miei colleghi, i più sprovveduti dei quali si prestano a campagne pro-Khodorkosky con un impegno degno di miglior causa.
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La Terra è due volte più polverosa rispetto ad un secolo fa 18.01.2011
I ricercatori americani della Cornell University hanno recentemente pubblicato uno studio secondo cui il nostro pianeta sarebbe ben due volte più polveroso rispetto a quanto non lo fosse cento anni fa. Per arrivare a questa conclusione sono stati compiuti numerosi test specifici sul tasso di deposito della polvere nel corso del tempo in differenti ambienti acquatici e terrestri.
C’è da preoccuparsi per quanto emerso? Purtroppo come spesso accade per queste ricerche su ampia scala, anche in questo caso c’è molta incertezza sulle possibili ripercussioni al pianeta; nonostante ciò i ricercatori americani si starebbero orientando su due ipotesi ovvero sul fatto che potrebbero esistere effetti sia sulla temperatura globale che sulla desertificazione.
Si è infatti abbastanza concordi nel concludere che l’elevata presenza di pulviscolo, data la sua capacità di fungere da schermo alle radiazioni solari, nell’ultimo secolo si sarebbe rivelata un’efficace contromisura al riscaldamento globale; in sostanza si è convinti che senza questo fenomeno la temperatura media globale sarebbe potuta essere addirittura più alta rispetto all’attuale. La seconda ipotesi invece riguarda la diminuzione delle precipitazioni vista la capacità della polvere di influenzare la formazione delle nubi; si è quindi abbastanza certi che l’aumento delle aree desertiche e la diminuzione delle piogge nel pianeta possano essere eventi riconducibili al manifestarsi del fenomeno.
Via | Flashnewstoday.com ; Sciencedaily.com
Foto | Flickr
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Wiki-Cde: una guida per la cittadinanza digitale europea 19.01.2011
L’informazione prodotta dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione Europea è vastissima e spesso difficilmente accessibile: uno scenario destinato a cambiare con l’avvio di Wiki-Cde, l’ampia piattaforma digitale realizzata dalla rete italiana dei centri di documentazione europea (Cde), che mette a disposizione del pubblico del web le risorse dell’ampio network della Commissione europea.
La guida, disponibile all’indirizzo www.wikicde.it/mediawiki, è rivolta in primo luogo a studenti universitari e giovani ricercatori, con l’obiettivo di garantire loro quell’informazione che è condizione imprescindibile per lo sviluppo di una cittadinanza europea attiva. Per questo, oltre all’ampia mole di documenti normativi, banche dati e testi sulle politiche dell’Ue, particolare attenzione viene data ai temi della mobilità professionale, dei servizi attivi in materia di ricerca, formazione e cultura. Il tutto reso di semplicissima consultazione grazie all’intuitiva interfaccia grafica di ‘mediawiki’, il software gratuito della Wikipedia foundation.
“Wiki-Cde sfrutta un formato ben noto al pubblico del web: il risultato è un ambiente di navigazione familiare, intuitivo e costantemente aggiornato che va nella direzione di garantire un reale ‘diritto all’informazione’, valorizzando le risorse disponibili in rete a favore di tutti, a partire dai giovani”, afferma Maria Adelaide Ranchino, membro del gruppo di lavoro che ha redatto la guida e responsabile per il Cnr del Centro di documentazione europea.
Punti di servizio delle reti Ue presso università, enti di ricerca, biblioteche e istituzioni di insegnamento superiore di tutti i paesi membri, i centri di documentazione europea attivi in Italia sono circa cinquanta. Il Consiglio nazionale delle ricerche ne è parte integrante attraverso la sua biblioteca centrale ‘G. Marconi’, presso cui operava, già dal 1991, la biblioteca depositaria della Commissione.
Francesca Gorini
Fonte: Maria Adelaide Ranchino , Centro di documentazione europea presso la Biblioteca Centrale “G. Marconi”, tel. 06/49933486, email adelaide.ranchino@cnr.it
Fonte: Dorotea Lantieri , Rappresentanza in Italia della Commissione europea, email dorotea.lantieri@ec.europa.eu
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Italia: il Piemonte azzera i fondi per il commercio equo e solidale 15.01.2011
Mentre incalza la battaglia per salvare il 5 per 1.000, il servizio civile e difendere i fondi della cooperazione allo sviluppo a livello nazionale, la Regione Piemonte sembra aver pensato di risanare il proprio bilancio azzerando i fondi previsti in un campo solo apparentemente non immediatamente produttivo: il commercio equo e solidale fino ad ora sostenuto dalla Legge regionale N°26 del 2009.
Se da una parte quindi aumentano, con la recente sottoscrizione del Trentino, le Regioni italiane impegnate sul fronte del commercio equo e solidale con una specifica legge provinciale a favore di un’economia solidale (.pdf), che resiste, ma non è certo indifferente alla generale crisi economica, il Piemonte fa un passo indietro.
“Questo provvedimento era già stato vittima la scorsa estate dei tagli della nuova Giunta – ha spiegato in una nota Agices, l’Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale che conta 90 soci e rappresenta oltre il 50% del fatturato fair trade in Italia – che aveva dichiarato di voler ridurre lo stanziamento da 350.000 euro previsti a 30.000. Oggi gli uffici della Regione comunicano che nel Bilancio 2011 non sono previsti fondi per questa voce di spesa”.
Ad esprimere il proprio rammarico e la propria preoccupazione è stato il presidente di Agices Alessandro Franceschini commentando la notizia come “un allarmante arresto del processo di riconoscimento da parte delle Istituzioni del commercio equo e solidale e delle organizzazioni che sul territorio operano per la diffusione di questa forma di economia alternativa e per la sensibilizzazione dei cittadini al consumo responsabile”.
“È poco sensato – ha continuato Franceschini – che una Regione vari una legge che poi non viene finanziata e che quindi perde ogni efficacia a livello operativo. Auspichiamo che in futuro il commercio equo e solidale anche in Piemonte, come avviene in altre Regioni, rientri a pieno nella strategia di sostegno alla cooperazione internazionale e di valorizzazione dei consumi sostenibili”.
Che si tratti di un provvedimento “utile” come i tagli alla cultura e indispensabile in un momento di crisi? Non proprio, visto che nei momenti di crisi economica “è ancora più strategico – ha puntualizzato Franceschini – investire in iniziative che nascono dal basso, da un grande movimento di cittadini, consumatori e volontari che operano ogni giorno per un miglioramento delle regole dell’economia internazionale proprio a partire dagli acquisti di tutti i giorni”. Almeno questo è quello che sembra aver capito la regione Marche che ha recentemente stanziato 97 mila Euro per il commercio equo e solidale (.pdf) pensando allo sviluppo della propria e altrui economia.
Infatti le leggi regionali a favore del commercio equo, “negli ultimi anni – ha dichiarato Gaga Pignatelli, di Agices – hanno dato una grande opportunità alle organizzazioni che operano nelle Regioni in cui esiste la Legge equosolidale, mettendo loro a disposizione un importo complessivo annuale di più di un milione di Euro, fondamentale non solo per la sostenibilità delle realtà direttamente coinvolte, ma anche per il consolidamento del sistema economico generale”.
Come? Semplice, ha continuato Pignatelli “queste risorse sono state cruciali per incrementare una delle attività più importanti che il commercio equo svolge: quella di educazione, sensibilizzazione e informazione volta ad accrescere la consapevolezza dei cittadini e dei consumatori sui prodotti ed i produttori del commercio equo e solidale”.
Non si tratta quindi di mero assistenzialismo. Questa ambiziosa legge regionale, sostenuta anche da realtà come il Ctm a livello nazionale e che ha coinvolto dal 2005 al 2010 Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Veneto, Emilia Romagna, Trentino e naturalmente il Piemonte ha promosso in questi anni non solo iniziative culturali, con l’obiettivo di immettere nella società (piemontese e non) i semi di cambiamento verso una cultura e un modello di reciprocità solidali, ma sembra abbia diffuso nuovi target economici.
Un’indagine sui consumi degli italiani (.pdf) commissionata alla società di ricerca Ipsos dall’Osservatorio Consumers Forum, una realtà che riunisce le più conosciute associazioni dei consumatori e le maggiori imprese italiane non lascia dubbi: “il 71% dei consumatori vuole che l’etica diventi una strategia aziendale e perciò sono disposti a pagare un prezzo più alto dei prodotti, anche fino ad un +10%; il 12% dei consumatori si spingono fino al +20%; il 4% invece fino al 50% e un inaspettato 3% di consumatori intervistati oltre il +50%”.
È quindi legittimo chiedersi se il finanziamento al fair trade, tagliato in Piemonte, non potrebbe favorire la capacità di coniugare il profitto con l’investimento sul futuro di una società globale e dei suoi bisogni.
http://www.unimondo.org/Notizie/Italia-il-Piemonte-azzera-i-fondi-per-il-commercio-equo-e-solidale
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Caro Marchionne, ecco 100 milioni di euro… 20.01.2011
di Jacopo Fo
Ora che avete vinto il referendum, con soli 9 voti di scarto nei reparti operai, sicuramente vi state chiedendo che fare, visto che governare una fabbrica con il pugno di ferro non conviene neanche a voi. Si sa che l’operaio rende meglio se non è incavolato nero… E allora mi permetto di avanzare alcune proposte che potrebbero migliorare sostanzialmente le condizioni economiche e di vita dei dipendenti Fiat a costo zero. Anzi la Fiat ci guadagnerebbe. Non voglio proporre fantasie ma esperienze già realizzate da altri gruppi industriali. Si tratta di adottare una visione diversa del sistema Fiat e delle opportunità che offre.
La prima cosa che salta a gli occhi guardando da un elicottero i vostri stabilimenti e quelli di Volkswagen è che in Germania hanno completamente coperto le fabbriche di panelli solari fotovoltaici.
Presso lo stabilimento Volkswagen di Emden è stata inoltre montata una delle turbine eoliche più grandi del mondo, la E-126, che come dice il nome è alta 126 metri, con una capacità nominale di 6000 chilowattora e un rendimento annuo di 20 milioni di chilowattora. Volkswagen ha poi ridotto notevolmente in tutti i settori i consumi energetici, ad esempio sostituendo 52 mila fax, stampanti, fotocopiatrici, con 17.500 dispositivi multifunzione ottenendo un risparmio dell’86% dell’energia elettrica rispetto ai consumi del 2005. Sono arrivati a piantare alberi per produrre biomasse.
E sono anche veloci. Appena hanno comprato la Lamborghini hanno costruito un impianto fotovoltaico sui tetti dei capannoni da 1.400 kW, e si sono dati l’obiettivo di tagliare del 35% le emissioni di Co2 entro il 2015.
Secondo il Bilancio di Sostenibilità 2009 di Fiat l’uso del fotovoltaico è praticamente assente, ad eccezione dello stabilimento della Ferrari. Sul fabbisogno totale del gruppo di 9.429.304 Gigajoule la quasi totalità (9.394.316 gigajoule ) provengono da petrolio e affini. Dal sole solo 900 gigajoule. La Volkswagen ha superato il 30% di energia da fonti rinnovabili. Una distanza siderale.
E sì che da noi la convenienza è doppia rispetto alla Germania: i pannelli solari producono molto di più e i finanziamenti dello Stato coprono al 100% i costi con un premio ventennale.
Se la Fiat volesse, potrebbe realizzare un enorme risparmio di denaro.
Ma invece leggo che: “Nel 2009 il gruppo Fiat ha dato vita al suo primo piano d’azione energetico: un programma quinquennale che prevede la riduzione del 15% del consumo di energia e delle relative emissioni di CO2 nel periodo 2010-2014“. Cioè c’è un ritardo spaventoso rispetto alla concorrenza e, me lo lasci dire, l’obiettivo del 15% di riduzione delle emissioni è risibile, e oltretutto si progetta di raggiungere questo risultato in parte comprando energia proveniente da fonti rinnovabili… perché non produrla tutta direttamente?
Ora io credo che sia contraddittorio chiedere grandi sacrifici agli operai e contemporaneamente continuare imperterriti a buttare i soldi dalla finestra perché non si vuole affrontare il nodo dell’efficienza energetica.
Sono convinto che se io e lei ci sediamo a un tavolo con carta e penna e facciamo quattro conti, arriviamo a tagliare alcune centinaia di milioni di euro, non di bruscolini…
Inoltre Fiat potrebbe utilizzare le sue potenzialità energetiche offrendo al contempo benefit molto interessanti per gli operai. Ad esempio, il comune di Peccioli ha realizzato un grande impianto fotovoltaico dando la possibilità ai cittadini di diventarne soci. Realizzare un progetto analogo sui capannoni della Fiat potrebbe dare energia gratis ai lavoratori della Fiat a costo zero per l’azienda… Un bel benefit.
Ma la Fiat potrebbe agire in molti modi per favorire contemporaneamente i propri bilanci e quelli (magri) delle famiglie dei lavoratori.
Negli anni ’80 il suo gruppo commercializzò il Totem, un generatore di corrente e calore per il riscaldamento domestico che abbatteva i costi per energia elettrica e combustibile di oltre il 30%. Sostanzialmente si trattava del motore di una 127 a gas che produceva elettricità e recuperava il calore sviluppato dalla combustione per riscaldare la casa. Ma la Fiat non si impegnò in questo settore dalle potenzialità enormi.
Al contrario Wolkswagen inaugurerà nel 2011 la prima rete di generatori di elettricità e calore costituita da 100 mila unità famigliari in una sola città tedesca, con una produzione di 2.000 MW che corrisponde alla capacità di due centrali nucleari.
Praticamente si sono ispirati proprio al Totem. E Volkswagen offre ai suoi dipendenti l’acquisto di questa tecnologia innovativa a prezzi molto scontati ai suoi dipendenti. Un altro benefit molto interessante: si tagliano i costi del riscaldamento!
Ma non c’è solo il settore ecologico. Fiat potrebbe agire a favore degli operai anche in molti altri modi, valorizzando i salari attraverso la creazione di sistemi di acquisto consociato e altri servizi analoghi. Ho intervistato su questo tema esponenti della Fiom che mi hanno raccontato che anche in questo campo Fiat è molto in ritardo. Ma di questo parlerò nel prossimo articolo.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/01/20/caro-marchionne-ecco-100-milioni-di-euro/87440/
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I disabili adulti protestano. Lo dovrebbero fare anche quelli che studiano nella scuola dell’obbligo? 20.01.2011
Davanti al ministero per i rapporti con il Parlamento, alcuni giorni or sono, si è verificata una protesta delle associazioni nazionali delle persone disabili per chiedere al governo il cambiamento della decisione – precedenza a orfani e vedove e diminuzione della percentuale relativa ai disabili – che mette a rischio ben 10.000 posti di lavoro riservati alle persone disabili ai sensi del collocamento mirato, in base alla Legge 68 del 1999. Tale protesta è stata presa in considerazione in una nota pubblicata su www.dirittiglobali.it (fonte: Redattore sociale):
“Due le delegazioni che sul finire del presidio si sono mosse: la prima, con i deputati Damiano, Schirru e Pedoso, si è diretta da Elio Vito, ministro per i rapporti con il Parlamento; la seconda, più composita e numerosa, si è invece diretta sotto la sede della presidenza della Camera…
‘Per un’interpretazione autentica della legge 68/99, per il diritto dei disabili a lavorare, per evitare la guerra tra poveri, si deve – hanno sostenuto tanti tra i partecipanti – evitare che per garantire una categoria si danneggia un’altra. Entrambe hanno diritto, ma non una a scapito dell’altra’.
Alla base del contenzioso tra il mondo della disabilità italiana e il governo, infatti, c’è l’interpretazione autentica del comma 2 dell’articolo 1 della legge 23 novembre 1998, n. 407, in materia di applicazione delle disposizioni concernenti le assunzioni obbligatorie e le quote di riserva in favore dei disabili, volta al ripristino del 7% dei posti riservati nelle aziende pubbliche e private con più di 15 dipendenti. Messa duramente a rischio per un totale di 10.000 posti nel 2011 dalla modifica alla 68/99 introdotta all’articolo 5, comma 7 del decreto-legge 102/2010 convertito dalla legge 126 del 2010 sulle missioni internazionali. Modifica che non solo dà precedenza a orfani e vedove nelle assunzioni ‘obbligatorie’, ma restringe anche la quota del 7% riservata alla disabilità…”.
Nel frattempo l’Istat ha diffuso i primi risultati dell’indagine sugli alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di I grado, statali e non statali, relativa agli anni scolastici 2008/2009 e 2009/2010. I principali risultati sono i seguenti:
“Gli alunni con disabilità presenti nella scuola dell’obbligo nell’anno scolastico 2009/2010 sono poco più di 130.000; di questi, circa 73.000 sono studenti della scuola primaria e circa 59 .000 della scuola secondaria di I grado. In entrambi gli ordini scolastici le alunne con disabilità rappresentano solo un terzo della popolazione (nella scuola primaria sono il 32,6% e nella scuola secondaria il 37,3% degli alunni con disabilità).
Nella scuola primaria la popolazione scolastica con disabilità ha un’età media intorno ai 9,7 anni e ben il 33% degli alunni frequentanti ha un’età superiore ai 10 anni. Nella scuola secondaria di I grado l’età media della popolazione con disabilità è pari a 13,5 anni, con una percentuale di alunni con età superiore ai 15 anni pari al 20%. Questi dati evidenziano un elevato livello di ripetenza nella popolazione con disabilità, fenomeno negativo in quanto, in alcuni casi, testimonia un semplice prolungamento nel tempo del progetto riabilitativo dell’alunno con disabilità, soprattutto in mancanza di servizi territoriali capaci di prendere in carico tali persone.
Il 25,8% degli alunni con disabilità ha problemi nello svolgere in modo autonomo almeno una delle seguenti attività: spostarsi all’interno della scuola, mangiare e andare in bagno in modo autonomo; il restante 74% degli alunni della scuola primaria non presenta problemi di questa natura. Nella scuola secondaria di I grado si trova un quadro simile, con il 78,7% degli alunni con disabilità senza problemi di autonomia e il 21,1% con problemi di autonomia.
Per quanto riguarda i problemi degli alunni della scuola primaria si riscontra che circa il 5% della popolazione con disabilità ha problemi di tipo visivo, circa il 5% ha problemi di tipo uditivo e circa il 14,3% ha problemi di tipo motorio. Le differenze territoriali per queste tipologie di problemi sono trascurabili, mentre risultano essere molto più evidenti per le tipologie di problemi non tradizionalmente rilevate. Infatti, a livello nazionale ben il 26,4% degli alunni ha difficoltà nell’apprendimento ed il 26% ha difficoltà nell’attenzione, con valori che sul territorio vanno dal 18,3% di alunni con difficoltà nell’apprendimento e dal 19,8% di alunni con difficoltà nell’attenzione nelle regioni del Nord, al 34,7% e al 34,6%, rispettivamente, nel Mezzogiorno.
Il quadro delle difficoltà presenti nella popolazione con disabilità della scuola secondaria di I grado rispecchia quanto riscontrato negli alunni della scuola primaria. Le difficoltà visive e uditive sono presenti, rispettivamente, in circa il 4% della popolazione, mentre l’11,2% della popolazione ha problemi di tipo motorio. Si riscontrano forti differenze territoriali, anche in questo ordine scolastico, per quanto concerne le difficoltà di apprendimento e le difficoltà nell’attenzione, le quali sono presenti rispettivamente nel 34,3% e nel 23,9% degli alunni con disabilità, con il valore minimo riscontrabile negli alunni con disabilità del Nord (rispettivamente 26,4% e 17,5%) e un valore massimo nel Mezzogiorno (rispettivamente 40,9% e 32,1%)”.
Spero che la protesta dei disabili affinchè vengano mantenute inalterate le agevolazioni per l’inserimento lavorativo venga accolta. Credo che anche i 135.000 alunni disabili della scuola dell’obbligo, un numero piuttosto consistente, abbiano dei problemi, di natura scolastica, che dovrebbero essere affrontati. E’ noto, in primo luogo, che il numero degli insegnanti di sostegno è del tutto insufficiente. E quindi per loro dovrebbero protestare le famiglie e lo hanno fatto, per la verità, all’inizio dell’anno scolastico. Grandi risultati non sono stati ottenuti. Il mio auspicio, ovviamente, è che, almeno per il prossimo anno, la situazione migliori. I tagli alla spesa pubblica possono essere anche necessari, ma non devono essere indiscriminati, devono colpire i veri sprechi e non invece i settori dove le risorse finanziarie pubbliche sono ben utilizzate e indispensabili.
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Il tramonto dei contratti nazionali
Ida Rotano, 20.01.2011
In sostanza il 90% delle piccole e medie aziende stipulerebbe un contratto di carattere nazionale, mentre il resto (per i meccanici non più di 500 aziende) si doterebbe di un contratto aziendale.
La proposta ha incontrato subito l’opposizione dei sindacati e stavolta di tutti e tre, e in Confindustria sembra scattare in anticipo la guerra per succedere alla Marcegaglia
La Federmeccanica, insegue la Fiat e lancia una nuova proposta sui contratti: accordi aziendali al posto di quello nazionale. Le imprese che potranno, d’accordo con i sindacati, sceglieranno o l’uno o l’altro. Di fatto la fine di un sistema contrattuale basato su due livelli e anche il superamento della riforma del 2009 che solo la Cgil non ha firmato. Questa soluzione, accompagnata da una nuova intesa sulla rappresentanza sindacale, dovrebbe servire – secondo l’associazione delle imprese metalmeccaniche – anche a far rientrare le due newco della Fiat-Chrysler di Pomigliano e Mirafiori nel sistema Confindustria.
Presentando la proposta Roberto Santelli, direttore generale dell’associazione, ha spiegato: “Federmeccanica ha 12 mila aziende iscritte e penso che il contratto nazionale sarà utilizzato almeno da 11.500”. Tradotto: i grandi gruppi avrebbero il proprio contratto mentre per le piccole imprese continuerebbe ad esistere il contratto nazionale di categoria.
Ma quello suggerito da Federmeccanica è un percorso pieno di ostacoli e di incognite. Perché nessun sindacato ha detto per ora di condividerlo e perché Sergio Marchionne, amministratore delegato del Lingotto, ama i rilanci: rientrerà in Confindustria solo se ritroverà esattamente le condizioni che ha definito con gli accordi di Pomigliano e Mirafiori ma destinate ad essere estese a tutte le fabbriche Fiat in Italia via via che il piano da 20 miliardi di euro verrà realizzato. E tra quelle condizioni ci sono le regole sulla rappresentanza che escludono i sindacati (come la Fiom, nel caso Fiat) che non firmano i contratti.
Un nuovo patto tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria, in sostituzione di quello del ’93 che la Fiat non vuole più applicare tanto da uscire da Viale dell’Astronomia, non appare affatto dietro l’angolo.
La via proposta della Federmeccanica è stata respinta dalla Cgil (Il leader della Cgil, Susanna Camusso, afferma che questo sarebbe “il quarto errore di Federmeccanica: prima il contratto separato, poi le deroghe e l’idea di inventarsi il contratto dell’auto”) e accolta non particolare freddezza da Cisl (Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, ha ricordato che “il contratto attualmente in vigore scadrà tra due anni, dunque è inutile mettere il carro davanti ai buoi”) e Uil. No anche dalla Fiom: “Stando a ciò che dice Federmeccanica – ha detto Landini – uno in Italia può scegliere se applicare il contratto nazionale o scegliere i contratti aziendali… siamo ai menu. Credo – ha aggiunto, riferendosi all’eventualità che il modello Fiat si estenda ad altre realtà industriali – che le persone avvertano questo pericolo e si rendano conto che non può passare l’idea che per uscire dalla crisi bisogna cancellare i contratti e i diritti di chi lavora”. No anche dalla Uilm e dal Fismic.
Marchionne ha usato le deroghe previste per gli accordi aziendali, mentre la proposta di Federmeccanica rischia di far saltare in aria il nuovo modello contrattuale. E intanto Fincanteri annuncia di voler uscire da Confindustria a Gorizia e Genova.
La Fiat, ora, resta a guardare. E lunedì non parteciperà all’appuntamento tra sindacati e Federmeccanica con all’ordine del giorno il contratto dell’auto. La partita riguarda i sindacati nazionali e la Federmeccanica. Il problema, da questa prospettiva, è soprattutto della Confindustria che martedì e mercoledì prossimi riunirà a Roma rispettivamente il Direttivo e la Giunta.
Sono in molti a dire che l’onda lunga dello tsunami Marchionne si sta per abbattere anche su Confindustria. La decisione di Federmeccanica di studiare contratti aziendali sostitutivi e non integrativi di quelli nazionali può rappresentare, secondo molti, un ulteriore guaio per l’ultima parte di mandato di Emma Marcegaglia.
La presidente degli industriali tenta di stabilire un rapporto diretto con Susanna Camusso e la Cgil (“Siamo entrambe indispensabili”), eppure ieri ha appoggiato la proposta della Federmeccanica definita “di immediata e tempestiva modernizzazione”. Poi ha parlato di Marchionne: “Confindustria non obbliga nessuno né a entrare né a rientrare. L’adesione è volontaria. La strada per rientrare può essere quella che propone Federmeccanica”.
Resta la sensazione che per rincorrere Sergio Marchionne – anche per propiziarne il rientro nei ranghi confindustriali, compresi i cospicui contributi del Lingotto – la branca più operativa di viale dell’Astronomia si sia lanciata in una rincorsa che ha finito per spiazzare anche i sindacati come Cisl, Uil e Ugl che avevano firmato il nuovo modello di contrattazione.
Due gli schieramenti che si stanno delineando nella campagna confindustriale: uno sponsorizzato da Luca di Montezemolo; che ai suoi tempi era legatissimo ad Epifani, come ha criticamente ricordato anche Raffaele Bonanni nel suo libro. L’altro dai grandi gruppi pubblici, i maggiori contributori di Confindustria, che potrebbero convergere su un nome in grado di sbaragliare il campo come Giorgio Squinzi, presidente di Federchimica e proprietario della Mapei, candidato per il quale simpatizzavano Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi all’epoca della campagna del 2008, prima ancora che il centrodestra tornasse al governo.
Politicamente moderato, Squinzi non è d’accordo sull’azzeramento della contrattazione nazionale; fosse per lui recupererebbe pure la Cgil. E per questo la gran parte delle aziende del Tesoro – Eni, Enel e Finmeccanica soprattutto – che hanno bisogno di sedi negoziali istituzionali, potrebbero condividere una piattaforma per recuperare relazioni industriali e potere a se stesse e alla Confindustria. Fa eccezione la Fincantieri, che a causa della crisi potrebbe uscire dalla Federmeccanica come la Fiat. In ogni caso, Squinzi potrebbe avere il profilo e gli appoggi giusti.
Ma anche Montezemolo ed i suoi intendono battere sullo stesso tasto: per dirla in breve, essi ritengono che la Confindustria della Marcegaglia si sia rivelata un fallimento, non riuscendo a tenere assieme né Marchionne né il sindacato riformista. Montezemolo ha già fatto balenare alcuni candidabili, dal romano Aurelio Regina al siciliano Ivan Lo Bello, che potrebbero dire la loro con buone chance. Anche per questo hanno entrambi smentito di volersi direttamente impegnare nella Fondazione Italia Futura, braccio politico montezemoliano.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16708
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Quattro big dell’energia abbandonano i progetti nucleari in Romania: costano troppo 20.01.2011
Brutte notizie per i progetti di espansione della centrale nucleare di Cernavoda nel sud est della Romania: Gdf-Suez, Rwe e Iberdrola hanno appena annunciato di tirarsi fuori dalla costruzione del terzo e quarto reattore della centrale. In passato si era già defilata la ceca Cez.
In un comunicato congiunto Gdf-Suez, Rwe e Iberdrola spiegano i motivi della fuga dal nucleare romeno:
Le incertezze economiche e di mercato riguardanti questo progetto, collegate in gran parte con la crisi finanziaria, non sono più compatibili con il fabbisogno di capitale del progetto di una nuova centrale nucleare
Anche se, in realtà, non si tratta di una nuova centrale ma del completamento di un impianto nucleare vecchio, voluto dal dittatore Ceauşescu. A portare avanti la costruzione del reattore tre e quattro di Cernavoda, quindi, restano solo Enel, Arcellor Mittal e Nuclearelectrica. Il costo previsto alla firma degli accordi era di quattro miliardi di euro per due reattori di tipo Candu da 720 MW ciascuno ma, evidentemente, è cresciuto un po’…
Via | Romania-Insider
Foto | Wikipedia
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I segreti dell’Ultima cena in 3D 20.01.2011
Perché Pietro ha in mano un coltello? Che ci fa un serpente nel quadro? E i tratti femminili di Giovanni come si spiegano? Il restauro digitale dell’opera sfata i significati nascosti nel dipinto. Ecco le immagini
di Andrea Curiat
Leonardo Da Vinci occultista? L’ Ultima cena ricettacolo di significati anti-cattolici? Ma quando mai! Il più celebre dipinto del Rinascimento italiano rispetta appieno (quasi) tutti i canoni della tradizione. Qualche stranezza c’è, ma non sono quelle di cui si legge nel Codice Da Vinci di Dan Brown; si tratta al massimo di errori di Leonardo, o di sue piccole ripicche verso i frati che gli mettevano fretta per poter tornare a pranzare nel refettorio milanese.
Lo dimostra un restauro digitale del dipinto, effettuato dal centro ricerche Leonardo3 ed esposto ieri a Milano in occasione della presentazione dell’opera multimediale L’Ultima cena di Mario Taddei. I teorici dei significati occulti (e i fan di Dan Brown) si astengano dalla lettura: potrebbero restare delusi. Basandosi tanto sul dipinto originale quanto sui bozzetti preparatori di Leonardo e sulle primissime copie effettuate di prima mano dai pittori dell’epoca, il team guidato da Taddei ha realizzato una vera e propria ricostruzione tridimensionale del dipinto, che mostra colori e dettagli perduti da tempo. E che riserva qualche sorpresa.
Al link l’articolo completo e le immagini.
http://daily.wired.it/news/cultura/segreti-ultima-cena.html
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Energia, tutto (o quasi) il meglio delle imprese italiane 20.01.2011
Pannelli solari resistenti ad alte temperature, macchine per riciclare i cavi di rame, software per configurare gli impanti fotovoltaici. Tutto questo e molto altro al World Future Energy Summit . Ce lo racconta la nostra inviata
di Alessandra Viola
ABU DHABI – Mi piace questa babele di lingue continuamente in movimento nell’enorme spazio a ‘U’ che ospita il World Future Energy Summit, qui ad Abu Dhabi.
Stamattina, mentre raggiungevo l’ Italian pavilion per visitare le imprese italiane che fanno innovazione e sono venute fin qui a raccontarlo, cercavo appunto di decifrare quelle che sentivo camminando. Ovviamente tanto inglese, ma anche arabo, tedesco, turco, spagnolo, portoghese… Poi a un certo punto, mentre camminavo, anche l’italiano! Mi sono voltata e ho visto un elegante signore che parlava di fronte alle telecamere, e proprio delle imprese italiane. Così mi sono fermata ad ascoltare e ho scoperto che lui era Emilio Cremona, il presidente del Gse, il gestore del servizio elettrico nazionale. Quello che, tra le altre cose, eroga gli incentivi del conto energia. E insieme abbiamo parlato di energia, oltre che delle imprese italiane. Mi ha raccontato del progetto Corrente, un portale in cui tutti gli operatori del settore delle rinnovabili possono parlare delle loro aziende e farsi conoscere, così se uno decide di costruirsi (per esempio) un impianto solare, può scegliere di farlo completamente made in Italy, perché da noi esiste l’intera filiera, dagli inverter ai pannelli e non c’è bisogno di comprare roba fatta altrove. Corrente esiste da poco più di sei mesi, e conta già cinquecento iscritti. Cremona mi ha spiegato che il conto energia serve anche per stimolare questo tipo di imprenditoria, oltre che per aiutare tutti noi a scegliere le rinnovabili e che però se poi tutti vanno a comprare i pannelli in Cina, si perde una parte del valore di questi incentivi.
E in effetti, facendo un giro per gli stand italiani, c’è un po’ di tutto. Da Nord a Sud, la penisola è ben rappresentata. C’è la Guidetti srl di Cento (vicino a Bologna) che ha inventato una macchina per riciclare i cavi usati, separando la gomma dal preziosissimo rame con un processo che riproduce su scala industriale quello che si usava negli anni Cinquanta per separare il grano dalla crusca. E la Omer di Vicenza, che trita e ricicla pneumatici e che insieme alla Celme, che invece costruisce trasformatori, è venuta fin qui con la Camera di Commercio di Vicenza. Altri sono arrivati con l’ Ice (Istituto nazionale per il Commercio Estero), che ha un grande stand e ha fatto senz’altro una cosa meritoria, ma purtroppo non ha nessuno che possa rilasciare dichiarazioni. Parlano invece gli imprenditori. C’è la Faggiolati di Macerata che fa pompe per le acque sporche e la Digiplan di Pordenone che ha sviluppato e rilasciato gratuitamente in Rete lunedì scorso (cliccando inSun sul sito) un software per configurare da soli il proprio impianto fotovoltaico, scegliere I fornitori, capire a che distanza mettere I pannelli, con che inclinazione ecc.
e che si interfaccia con Google Maps e diversi database.
Poi c’è la Bonfiglioli che tra l’altro fa gli inverter e che ha venditori in mezzo mondo e poi produce in Vietnam, India, Germania. E anche la Vis, che ha inventato e sta cercando di brevettare il primo pannello solare al mondo che resiste a temperature vicino ai 130 gradi (quelli attuali non arrivano a 90). Una innovazione che quaggiù, dove l’insolazione è altissima e le temperature in estate pure, è guardata con molto interesse. L’elenco è lungo e potrebbe continuare, ma la riflessione invece è immediata. ” Fatta l’Italia, dobbiamo fare gli italiani”, disse Massimo D’Azeglio dopo l’Unità, influenzando la politica dei decenni a seguire. Beh, a 150 anni di distanza forse bisogna rivedere il concetto.
Ragazzi, qui bisogna rifare l’Italia. Perché gli italiani (per fortuna) ci sono!
http://daily.wired.it/news/ambiente/world-future-energy-summit-2011-parte-3.html
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