Lo scarto balcanico 14.10.2010
ENZO BETTIZA
Ormai gli stadi del mondo stanno diventando un pretesto teppistico che ha sempre meno a che fare con la nobiltà originaria dello sport, con il codice d’onore fra squadre e nazioni in rivalità ludica ma leale fra loro. Stanno diventando sempre più arene di violenza pura o, peggio, non soltanto gratuita. In realtà stanno perfino degenerando, come a Genova, in terrificanti rappresentazioni teatrali di massa, a sottofondo metastorico o mitologico in cui si celebrano e ribadiscono, in aggressiva parodia, tristi memorie di guerra del passato prossimo, guerriglie e pulizie etniche più recenti, o addirittura battaglie perdute e rivendicate dopo secoli in strabica rivisitazione omerica. S’è per esempio visto, sull’avambraccio di un gigantesco ultrà belgradese, la fatale data del 1389, evocante la tragedia degli eserciti slavi guidati dai serbi contro i turchi nella sfortunata battaglia del Kosovo Polje. Ai duemila guerriglieri serbi, perché tali e non tifosi erano per davvero, interessava assai poco parteggiare sia pure energicamente per la loro squadra e gufare per quella italiana.
Interessava molto più agli epigoni e fanatici della Stella Rossa di Belgrado sottolineare con brutalità, in un grande emporio europeo come Genova, che essi provenivano dai battaglioni paramilitari dediti a suo tempo a perpetrare in Bosnia, Croazia e Kosovo i più orrendi massacri compiuti in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Gli energumeni in tuta mortuaria, passamontagna terroristico sul volto, teschio gessoso con ossa incrociate sul petto, solo in parvenza evocavano i Gozzilla tratti da qualche film o videogame dell’orrore; in realtà s’è trattato di veterani ben agguerriti, provenienti in gran parte dalle temibili «Tigri di Arkan», lanzichenecchi ipernazionalisti che avevano il loro vivaio nella Stella Rossa di Belgrado il cui gestore milionario, durante e dopo le ultime guerre interjugoslave, era stato per l’appunto Željko Ražnatovic, detto Arkan. Abbiamo visto nella gabbia dello stadio genovese un caporione, calmo, trapezistico, meticoloso, mentre spicinava le vetrate intorno e tagliava le reti divisorie con la perizia tecnica e gli strumenti di un autentico guastatore da combattimento.
Che ai duemila ultrà scaraventatisi con tanto d’arsenale a Genova importasse poco o niente la vittoria della nazionale serba, lo si è capito bene dalla letale aggressione scagliata contro il portiere Stojkovic, preso a bersaglio come un fellone per aver tradito il covo della Stella Rossa e scelto di giocare per la rivale squadra indigena del Partizan. Che si sia trattato, inoltre, di una vera e propria performance paramilitare, lo dimostrava anche la quintessenza insieme leggendaria e politica che animava i veterani decisi a distruggere lo stadio Marassi con lancio di razzi, fumogeni, bombe di carta, cesoie, coltelli e spranghe d’ogni genere: la distruzione doveva essere un ammonimento non alla nazionale italiana, ma all’Italia in quanto tale, che aveva partecipato alla guerra antiserba nel Kosovo e riconosciuto, insieme con altre sessantuno nazioni, l’indipendenza kosovara nel febbraio 2008. Il momento culminante del raptus mitico lo si è visto nel momento in cui hanno dispiegato la bandiera albanese, con l’aquila bicipite, dandola alle fiamme e tracciando minacciosamente nell’aria il segno ortodosso delle tre dita: «Serbia divina», «Montenegro sacro», «Bosnia fedele». Purtroppo quel sacro gesto cristiano, pervertito dai cetnici delle milizie più estremiste, è stato contraccambiato dal campo di gioco, non si sa se per condivisione o per paura dal capitano Dejan Stankovic. C’è chi dice volesse avvertire i connazionali, almeno i più ragionevoli, che l’interruzione della partita avrebbe favorito gli italiani con un tre a zero a tavolino. Sarà.
In termini calcistici è stato questo uno dei più pesanti autogol sferrati dalla Serbia contro se stessa nel momento in cui un governo responsabile, guidato dal presidente moderato Boris Tadic, si prepara a ricevere il 25 ottobre dal Consiglio europeo il via libera della domanda d’adesione di Belgrado all’Ue. Gli ultrà, politicamente confusi e trasversali, non solo di destra estrema, certo non rappresentano la Serbia attuale nella sua interezza e nella sua resipiscente rinascita europeista. Costituiscono lo scarto balcanico, irrazionale e passionario, lasciato alla maggioranza dei serbi pensanti dal nazionalcomunista Miloševic, dal poeta pazzo Karadžic e dal criminale di Srebrenica Mladic, tuttora in contumacia protetta. Sono stati costoro i veri responsabili della perdita di tutto ciò che una nazione eroica come la Serbia, nerbo storico della defunta Jugoslavia, aveva conquistato a fianco degli alleati occidentali dopo il primo conflitto mondiale e riconsolidato, dopo il secondo, in un contesto federativo, con il comunista riformatore Tito: cioè l’intero Kosovo, l’intera Macedonia, due terzi della Bosnia, tutta la Croazia e tutta la Slovenia. È contro i loro padrini scomparsi e sconfitti che gli ultrà di Belgrado avrebbero dovuto scagliare il segno trinitario dell’antichissima e gloriosa croce serba e ortodossa.
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Il Cile virtuale, il Cile reale e i suoi minatori 14.10.2010
Che bel paese sarebbe il Cile se anche domani continuasse a interessarsi alla sorte e ai diritti negati di tutti i suoi minatori, anche dopo la fine del reality show mondiale del salvataggio dei 33 minatori dalla miniera di rame di San José, in quel nord dove quello che non è deserto è rame. Che meraviglia di paese sarebbe il Cile se quel tripudio di bandiere e quella logorrea patriottica non fosse pura propaganda e non fosse anche una macchina del “olvido”, una macchina per dimenticare la realtà.
I minatori, ricordiamolo, sono vivi per caso ma non sono rimasti vittime per caso. Il riscatto è stato un dovere ineludibile e un dividendo politico per il governo nei giorni del bicentenario. E in questa storia i concessionari (un eufemismo pinochetista che nasconde la piena proprietà) della miniera restano sullo sfondo ma sono i cattivi della pellicola e il governo, che capitalizza mediaticamente è loro complice.
Bohn e Kemeny, prima di dichiararsi falliti e quindi insolventi, sono stati sistematicamente e criminalmente negligenti rispetto alla sicurezza dei minatori. Come praticamente tutti i concessionari di miniere, anche Bohn e Kemeny sono colpevoli del “dolo eventuale” di aver giocato con la vita dei minatori, pretendendo di arricchirsi ancora di più, risparmiando sistematicamente sulla sicurezza di questi. Adesso che celebriamo la salvezza dei minatori, possiamo dimenticare che solo a San José ci sono stati 80 incidenti con morti e feriti in dieci anni senza che Bohn e Kemeny, che molti descrivono “accecati dall’avidità”, investissero in sicurezza? Possiamo dimenticare che il Cile, che i media descrivono come moderno ed efficiente, resta un paese dove i Bohn e Kemenny sono sempre sicuri di trovare dei disgraziati disposti a sfidare la sorte per 6-7 Euro al giorno, sapendo di avere dalla loro parte leggi e governo?
Non possiamo dimenticare che il Cile, dall’11 settembre 1973 in avanti, è l’allievo modello di quella deregolamentazione radicale del mondo del lavoro chiamata neoliberismo, per la quale minatori come quelli dei quali oggi tutto il mondo conosce i nomi e le storie, ma che a malapena guadagnano tra i 2 e i 300 Euro al mese (altro dettaglio sottaciuto), dovrebbero avere la forza di trattare e difendere la loro sicurezza con squali che abitano a Seattle o a Montreal piuttosto che a Las Condes o Vitacura, i quartieri per ricchi di Santiago.
La verità è che ancor di più oggi, che è in vigore il trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, firmato dai governi di centro-sinistra della Concertazione, che stabilisce a chiare lettere che il lucro viene prima della sicurezza e dell’equità, il governo cileno, quantunque volesse, ha le mani legate per obbligare i concessionari a garantire la sicurezza di quelle che sono e resteranno vite a perdere.
In queste settimane abbiamo visto il ridicolo ministro delle miniere Laurence Golborne piagnucolare ripetutamente al bordo della miniera. Per quei piagnucolii è passato in due mesi ad essere il più conosciuto di tutto l’esecutivo. Ma da domani il ministro Golborne tornerà a fare quello che faceva prima: l’esecutore materiale degli interessi delle concessionarie, schierato sistematicamente contro i minatori in ogni singolo conflitto che si apre.
Che bel paese sarebbe il Cile se invece “il rame fosse nostro” come è stato al tempo della Unidad Popular (nella foto Salvador Allende con i minatori), l’unico momento nella storia del paese nel quale i minatori hanno avuto diritto di parola sulla loro sicurezza e sul loro lavoro. L’unico momento nel quale la ricchezza del rame non andava a qualche multinazionale di rapina e i minatori guadagnavano salari dignitosi.
Non fu un caso, giova ricordarlo agli avventizi dell’informazione che di questi dettagli mai si sono curati in due mesi, che, dopo l’11 settembre, mentre il mondo al massimo guardava alla Moneda in fiamme o allo Stadio nazionale trasformato in lager, Augusto Pinochet incaricò il generale Sergio Arellano Stark di battere palmo a palmo le miniere del nord del Cile. L’obbiettivo era rastrellare quei minatori che erano stati la spina dorsale dell’Unidad Popular e che in quella militanza, sotto le bandiere del Partito Socialista, di quello Comunista, del MIR, avevano trovato per la prima volta nella storia dignità, sicurezza e rapporti di produzione non più iniqui.
Era la “carovana della morte”. Almeno duecento minatori, vittime di quei sinistri elicotteri che atterravano all’improvviso nei villaggi artificiali dove ancora oggi solo agli ingegneri stranieri è garantito un frammento di prato, mentre per i lavoratori cileni e le loro famiglie ci sono solo sassi, ancora oggi sono desaparecidos.
Non è un caso che il principale addebito di Henry Kissinger, l’eminenza grigia del golpe, a Salvador Allende fosse stato proprio la nazionalizzazione del rame.
Certo, tutti i cileni si sono sinceramente commossi, come il resto del mondo per la sorte di quei 33 piccoli uomini che da secoli scendono nelle viscere della terra a tirar fuori la principale ricchezza del paese che qualcuno altrove godrà. Un resto del mondo che non sa trovare il deserto di Atacama su una cartina come non sa che deve dire grazie a quei minatori ogni volta che alza il telefono e comunica con una voce conosciuta all’altro capo di quel filo metallico. Ma nel mondo videodiretto, centinaia di milioni di telespettatori sono ora autorizzati a pensare, di “aver già dato” con la commozione per quei 33.
Certo, il paese, sotto gli occhi del grande fratello mondiale, ha dato una gran prova di sé, orgoglio, nazionalismo, (tardiva) efficienza. Oro, più che rame, per il presidente Sebastián Piñera e il suo governo che, per una prova difficile ma allo stesso tempo più limitata di quella di Silvio Berlusconi per il terremoto dell’Aquila, ha trovato la più straordinaria “photo opportunity” che potesse immaginare.
Dalla notizia che i minatori erano vivi, Piñera ha iniziato a bivaccare al bordo del pozzo, stringendo mani, dispensando sorrisi e pacche sulle spalle, abbracciando uomini e donne con le quali non avrebbe mai preso un caffé. Prima, nei lunghi giorni quando si pensava che i minatori fossero morti, non si era mai fatto vedere. Dopo, con i riflettori accesi, ha capitalizzato quindici punti di aumento di popolarità in appena quindici giorni. Ha modulato le sue presenze e perfino programmato la liberazione dei minatori in base al prime time televisivo e ai propri impegni internazionali. Adesso il Cile tornerà nel cono d’ombra dell’informazione con i suoi minatori umiliati e la sua corte dei miracoli. E ancora una volta la televisione ci ha restituito un reality show per addormentare le coscienze.
http://www.gennarocarotenuto.it/14245-il-cile-virtuale-il-cile-reale-e-i-suoi-minatori/
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Pensioni e Inps, silenzio e password: partite Iva e contributi a vuoto (come i precari) 12.10.2010
Si parla di precari, contributi e lavoro e, di solito, segue una certa sonnolenza. Non è successo ieri, quando abbiamo pubblicato le dichiarazioni di Antonio Mastrapasqua, presidente dell’Inps che a margine di un convegno ha detto: “Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”.
Il significato: i precari stanno versando i contributi per i loro genitori, zii e parenti. Di sicuro non per sè stessi. La notizia ha fatto sobbalzare anche l’Acta, l’Associazione Consulenti del Terziario avanzato, che ha chiesto alla politica di fornire spiegazioni esaurienti.
Intanto i precari, in quanto a contributi mandati in fumo, sono in buona compagnia. Anche i liberi professionisti infatti non stanno certo vivendo un momento idilliaco con l’Inps che all’informazione preferisce l’omertà e il silenzio. Ieri Dario Di Vico ha spiegato che l’istituto di previdenza riuscirà a fornire user e password ai suoi professionisti ma che si scordino la simulazione di pensione. Quindi continua a versare, calcola quanto hai donato e stop. Della pensione non c’è certezza. E pure la Cassazione rincara la dose con una sentenza, in cui il libero professionista pare una scheggia impazzita da scoraggiare sul mercato. Un corto circuito imbarazzante. Noi in questi giorni insisteremo per ricevere risposte dagli istituti competenti.
Intanto vi riportiamo uno stralcio del post:
Si vive anche di simboli. E la busta arancione che l`Inps aveva promesso di spedire ai suoi assistiti, comprese
le partite Iva della cosiddetta gestione separata, era diventata in poco tempo per consulenti e professionisti senza Ordine un test di inclusione e di cittadinanza.
Il governo, infatti, aveva annunciato che entro il 2010 l`Inps avrebbe inviato a casa l`estratto conto aggiornato dei versamenti previdenziali accantonati fino a quel momento.Quell`estratto conto, novità assoluta, avrebbe contenuto addirittura una proiezione sull`ammontare finale dell`assegno di pensione.
Un`operazione perfetta perché avrebbe abbinato la massima trasparenza nel rapporto con i contribuenti a un vantaggio di «sistema». Chi, in virtù della documentazione fornita, avesse finito per giudicare insufficiente l`ammontare previsto per la sua pensione, avrebbe avuto il tempo di potersi disegnare una polizza integrativa con caratteristiche complementari all`assegno Inps.
Il costruendo «secondo pilastro» del sistema previdenziale italiano ne avrebbe sicuramente tratto beneficio. Il sogno di avere un welfare scandinavo anche nel Belpaese (in Svezia e Norvegia esiste già l`equivalente della busta arancione) si è però infranto con problemi organizzativi. L`Inps dichiara che sarebbe stata assolutamente in grado di realizzare l`operazione ma non lo erano la maggior parte delle altre Casse di previdenza (circa una trentina) a causa di una informatizzazione inadeguata delle proprie banche dati.
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PARTITE IVA – La busta che non arriva e i professionisti senza rete – Dario Di Vico 04.05.2010
Tags: anna soru, fisco, inps, partite iva, politica, previdenza, professionisti, tasse
Si vive anche di simboli. E la busta arancione che l`Inps aveva promesso di spedire ai suoi assistiti, comprese
le partite Iva della cosiddetta gestione separata, era diventata in poco tempo per consulenti e professionisti senza Ordine un test di inclusione e di cittadinan
Il governo, infatti, aveva annunciato che entro il 2010 l`Inps avrebbe inviato a casa l`estratto conto aggiornato dei versamenti previdenziali accantonati fino a quel momento.Quell`estratto conto, novità assoluta, avrebbe contenuto addirittura una proiezione sull`ammontare finale dell`assegno di pensione.
Un`operazione perfetta perché avrebbe abbinato la massima trasparenza nel rapporto con i contribuenti a un vantaggio di «sistema». Chi, in virtù della documentazione fornita, avesse finito per giudicare insufficiente l`ammontare previsto per la sua pensione, avrebbe avuto il tempo di potersi disegnare una polizza integrativa con caratteristiche complementari all`assegno Inps.
Il costruendo «secondo pilastro» del sistema previdenziale italiano ne avrebbe sicuramente tratto beneficio. Il sogno di avere un welfare scandinavo anche nel Belpaese (in Svezia e Norvegia esiste già l`equivalente della busta arancione) si è però infranto con problemi organizzativi. L`Inps dichiara che sarebbe stata assolutamente in grado di realizzare l`operazione ma non lo erano la maggior parte delle altre Casse di previdenza (circa una trentina) a causa di una informatizzazione inadeguata delle proprie banche dati.
Di conseguenza, archiviata l`idea della busta arancio, tra un mese dovrebbe partire un piano B. Gli assistiti dell`Inps dovrebbero comunque poter consultare online la propria posizione contributiva, accedendovi attraverso il solito «pin code» e la solita «password».
Ovviamente l`impatto simbolico e comunicativo non sarà lo stesso e comunque l`Inps ha deciso di mettere a disposizione solo i dati sulla contribuzione già versata ma di non fornire proiezioni sul futuro. Il cambio di rotta sta facendo mugugnare le organizzazioni che rappresentano le professioni autonome non ordinistiche o comunque prive di una propria cassa previdenziale, non perché i loro rappresentanti siano indissolubilmente legati al mondo di Gutenberg (la documentazione cartacea) e odino il web, tutt`altro. E’ che quella che poteva essere un`operazione di inclusione è stata di fatto derubricata.
Ma non è tutto. Assieme al mugugno sui simboli c`è anche e soprattutto un problema di sostanza. Non si può andare avanti versando un contributo decisamente oneroso (il 27,2%) per attendersi poi a fine carriera pensioni minime. «Dietro la scelta del governo e dell`Inps di non mandare la busta e di non mettere nero su bianco le proiezioni sulle prestazioni previdenziali di fine carriera – denuncia Anna Soru, presidente di Acta, l`associazione
dei consulenti del terziario avanzato – c`è una scelta comunicativa ben precisa.
Non si vuole creare allarme tra i contribuenti. Soprattutto tra quelli a regime contributivo puro». Le prime coorti di lavoratori assoggettati al contributivo dovrebbero andare in pensione tra 15-20 anni ma le previsioni che fanno gli
esperti dell`associazione sono preoccupanti. E segnalano un`ulteriore differenza di trattamento con i lavoratori
dipendenti.
Chi infatti tra questi ultimi è stato collocato per effetto della recessione in cassa integrazione ha comunque usufruito della copertura previdenziale, mentre niente di tutto ciò è previsto per una partita Iva. Risultato: è molto probabile che quei professionisti nel 2025 «godranno» – mai espressione fu più ipocrita – di un assegno di pensione stimato tra i 600 e i 700 euro.
Sta accadendo infatti che, in assenza delle proiezioni dell`Inps, i consulenti a partita Iva si sono attrezzati
auto-simulando i propri piani pensionistici secondo la casistica più ricorrente. L`esempio-limite è quello di un professionista che in questi anni di economia terremotata abbia guadagnato all`incirca mille euro al mese e che per effetto della crisi non abbia avuto sempre la continuità lavorativa, ebbene anche se versasse alle casse
dell`Inps per 15-20 anni il 27,2% dei propri incassi non arriverebbe nemmeno ad aver diritto all`assegno di pensione sociale.
E questa è, secondo Acta, la dimostrazione che l`introduzione della gestione separata Inps ha generato gravi casi di ingiustizia che oggi, a quindici anni ormai dalla sua partenza, nessuno ha risolto. A complicare il quadro ci si è messa anche la Corte di Cassazione che di recente con una sentenza, la 3240/2010, ha definito la contribuzione alla gestione separata dell`Inps «una tassa aggiuntiva sui redditi di lavoro autonomo» che ha «il duplice scopo di fare cassa e di costituire un deterrente economico all`abuso di tali forme di lavoro».
Ma come, si sono detti all`Acta, noi subiamo un prelievo oneroso, non sappiamo cosa produrrà in termini previdenziali a fine carriera e la Corte lo bolla come un`imposta utilizzata per disincentivare l`abuso di strumenti flessibili!
Si vuole forse colpire chi ha avuto la pazza idea di rinunciare al posto fisso e scegliere il lavoro autonomo? E’ chiaro che un professionista a partita Iva leggendo la sentenza si trova culturalmente sconfessato e per di più condannato a pagare una «tassa» che va a finire nelle casse della gestione separata Inps.
Ma come si fanno a confondere imposte e accantonamenti previdenziali? La sentenza rischia di servire solo a giustificare che i versamenti accantonati non produrranno mai un assegno previdenziale degno di questo nome.
Per di più se di tassa si tratta non si capisce perché debba essere pagata in cifra fissa (il fatidico 27,2%) e non secondo il criterio della progressività sancito dalla Costituzione.
«Così non si aiuta l`opera di riforma del welfare e non si costruisce un sistema equo per il lavoro autonomo. Le istituzioni parlano lingue diverse e comunque sembrano avere al centro della loro visione sempre e comunque
il lavoro dipendente, come se nulla fosse cambiato in questi anni. È sconfortante» dichiara Anna Soru. Così come è mostruosa la progressione che in 15 anni ha portato il contributo previdenziale alla gestione separata dell`Inps a salire dal 10 al 27,2% con un incremento del 270%.
«Una tassazione svedese con prestazioni da welfare americano» scherzano ad Acta. Il paradosso è che tutte queste cose capitano proprio mentre in Parlàmento è stato presentato un disegno di legge bipartisan da due deputati molto quotati come Giuliano Cazzola (Pdl) e Tiziano Treu (Pd) che parla fortunatamente un`altra lingua e che evita a chi ha redditi molto bassi di versare per nu
Se la loro proposta diventasse legge, un cittadino con dieci anni di contributi (non figurativi ma effettivi sommando esperienze da dipendente e non) avrebbe diritto alla pensione sociale alla quale potrebbe poi aggiungere il rendimento dei contributi versati. Più in generale il dispositivo prefigurato da Cazzola e Treu avrebbe il merito di armonizzare il sistema pensionistico nel suo complesso e migliorare la situazione di chi rientra nel sistema contributivo.
Ma come è possibile che le istituzioni e la politica forniscano input così diversi tra loro? L`impressione è che, presi alla sprovvista dalla Grande Crisi, non siano riuscite ancora a rimodulare i loro interventi e a parlare la stessa lingua. Così gli insider in questi mesi di recessione hanno potuto utilizzare tutta la strumentazione tradizionale del
welfare mentre i professionisti autonomi non hanno usufruito di nessuna copertura per malattia, invalidità,
disoccupazione e congedi parentali.
Ormai però, almeno secondo i più recenti dati dell`area milanese, solo un contratto su cinque è a tempo indeterminato e di conseguenza la contraddizione si fa stridente: abbiamo un sistema che non riesce a produrre posti fissi a sufficienza e però non rinuncia a tartassare i poveri cristi che per scelta o per necessità prendono la strada del lavoro autonomo.
Delle due l`una.
Dario Di Vico
ddivico@res:it
http://generazionepropro.corriere.it/2010/05/partite_iva_la_busta_che_non_a.html
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di Immanuel Wallerstein
La socialdemocrazia ha un futuro? 12.10.2010
Il mese scorso due eventi cruciali hanno segnato il mondo dei partiti socialdemocratici. In Svezia il 19 settembre quel partito ha subito una forte sconfitta elettorale, ottenendo il 30,9% dei voti, il risultato peggiore dal 1914. Dal 1932, aveva governato il paese per l’80% del tempo ed è la prima volta da allora che un partito di centrodestra è stato riconfermato alle elezioni. E per di più, per la prima volta è entrato nel parlamento svedese un partito di estrema destra, contrario all’immigrazione.
Perché la cosa è tanto drammatica? Nel 1936, Marquis Childs scrisse un libro famoso dal titolo Sweden: The Middle Way. Childs presentava la Svezia sotto il regime socialdemocratico come la virtuosa terza via tra i due estremi rappresentati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. In Svezia la redistribuzione egualitaria si combinava con scelte democratiche nella politica interna. Ed è stata, a partire dagli anni Trenta, il prototipo della socialdemocrazia, la sua bandiera. E così è stato fino a relativamente poco tempo fa. Ma questo non è più vero.
Intanto in Gran Bretagna, il 25 settembre, Ed Miliband è arrivato da una posizione di minoranza ad assumere la direzione del partito laburista. Sotto Tony Blair i laburisti avevano avviato una riforma radicale del partito: «The new Labour». Blair aveva a sua volta sostenuto che il partito avrebbe dovuto imboccare una terza via – non tra capitalismo e comunismo, ma tra quello che un tempo si definiva il programma socialdemocratico di nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia e il dominio incontrollato del mercato. Una via di mezzo ben diversa da quella imboccata dalla Svezia a partire dagli anni Trenta.
La scelta dei laburisti, che hanno preferito Ed Milliband al fratello maggiore David, sodale di Tony Blair, è stata interpretata in Gran Bretagna e altrove come un ripudio di Blair e un ritorno ad un partito laburista più “socialdemocratico” (più svedese?). Ma nella prima conferenza tenuta al convegno dei Labour qualche giorno dopo, Ed Milliband si è sbracciato a ribadire la sua posizione “centrista”. Ha però comunque condito le sue affermazioni con allusioni all’importanza della «giustizia» e della «solidarietà». E ha dichiarato: «Dobbiamo liberarci dai vecchi schemi di pensiero e schierarci con coloro che credono che nella vita ci sia qualcosa di più della riga finale di un bilancio».
Cosa ci dicono queste due elezioni sul futuro della socialdemocrazia?
La socialdemocrazia – come movimento e come ideologia – viene convenzionalmente (e forse correttamente) fatta risalire al “revisionismo” di Eduard Bernstein nella Germania di fine Ottocento. Bernstein sosteneva che una volta ottenuto il suffragio universale (ovvero il suffragio universale maschile), gli «operai» avrebbero potuto usare il voto per fare entrare il loro partito, cioè il partito socialdemocratico (Spd), al governo. Una volta ottenuto potere in parlamento i socialdemocratici avrebbero potuto «attuare concretamente» il socialismo. E dunque, concludeva, parlare di insurrezione come modo per andare al potere era inutile e insensato.
La definizione data da Bernstein di socialismo era per molti versi poco chiara, ma ai tempi sembrava comunque includere la nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia. La storia della socialdemocrazia come movimento dopo di allora è stata quella di un allontanamento lento ma continuo dalla politica rivoluzionaria verso un orientamento fortemente centrista.
I partiti ripudiarono il loro internazionalismo nel 1914 allineandosi a sostegno dei rispettivi governi durante la Prima Guerra Mondiale. Dopo la Seconda Guerra, poi, quegli stessi partiti si allearono con gli Stati Uniti nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica e nel 1959, al convegno di Bad Godesberg, la socialdemocrazia tedesca ripudiò totalmente il marxismo, dichiarando che «da partito della classe operaia, il Partito Socialdemocratico era diventato un partito del popolo».
Quello che l’Spd tedesco ed altri partiti socialdemocratici avevano finito per rappresentare allora era il compromesso sociale che andava sotto il nome di “welfare state”. In quell’ottica, nel periodo della grande espansione dell’economia-mondo durante gli anni Cinquanta e Sessanta, fu un successo. Fino ad allora era rimasto un “movimento”, nel senso che quei partiti potevano contare sul sostegno attivo e sulla fedeltà di un gran numero di persone nel loro paese.
Quando però l’economia-mondo entrò nel lungo periodo di stagnazione iniziato negli anni Settanta e il mondo si avviò alla globalizzazione neoliberale, i partiti socialdemocratici andarono oltre, passando dalla difesa del welfare state al sostegno di una variante più morbida del primato del mercato. Ovvero al “new Labour” di Blair. Il partito svedese resistette a quella direzione più a lungo degli altri, ma alla fine dovette a sua volta soccombere.
La conseguenza di tutto ciò fu però che il partito socialdemocratico smise di essere un “movimento” capace di suscitare la forte adesione e il sostegno di larghe masse e divenne una macchina elettorale cui mancava la passione del passato.
Se la socialdemocrazia non è più un movimento, continua però ad essere una scelta culturale. Gli elettori ancora aspirano ai benefici del welfare state e continuano a protestare man mano che li perdono, cosa che oggi succede con una certa regolarità.
Infine, va detta una parola sull’ingresso del partito xenofobo di estrema destra nel parlamento svedese. I socialdemocratici non sono mai stati strenui difensori dei diritti delle “minoranze” – etniche o di altro tipo – e ancora meno dei diritti degli immigrati; anzi in generale sono stati il partito della maggioranza etnica del rispettivo paese, e hanno difeso il loro territorio contro altri lavoratori, visti come una minaccia per occupazione e salari. Solidarietà e internazionalismo sono stati slogan utili in assenza di concorrenza esterna. Problema che la Svezia non ha dovuto affrontare fino a tempi molto recenti.
Quando poi si è presentato, un segmento dell’elettorato socialdemocratico si è semplicemente spostato a destra. Allora, la socialdemocrazia ha un futuro? Come scelta culturale sì, come movimento no.
traduzione di Maria Baiocchi
Copyright by Immanuel Wallerstein,
distribuito da Agence Global
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20101012/pagina/10/pezzo/288838/
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Gli indegni e l’aborto 13.10.2010
I poveri aumentano, dice la Caritas. Notoriamente comunista, la Caritas dovrà ora guardarsi dalle forme subdole di boicottaggio di cui sono oggetto i disfattisti d’Italia: certe cose non si dicono. La verità non conta, è tutta propaganda nemica. Chi racconta la realtà deve essere messo a tacere. La Caritas non è un giornale, non vive di inserzioni pubblicitarie, non sta nelle logiche di mercato: troveranno un’altra forma per strangolarla. Vedrete. I diktat berlusconiani possono avere effetti a scoppio ritardato. A volte serve il tempo che serve. Vi ricordate quando, al telefono, prendeva a male parole il fidato Masi perché incapace persino di zittire Santoro? Masi farfugliava. Poi si è messo al lavoro. Ecco, oggi porta a casa il risultato. Bravo, bravissimo. Qual è il premio che gli spetta? Masi dovrebbe andare a casa, in un paese normale un paese civile e democratico. Il servizio pubblico è di tutti: tutti quelli che pagano il canone per avere un’informazione che rappresenti tutte le voci e le posizioni in campo. Se è al servizio di uno solo, come risulta evidente dalle premesse e dalle conclusioni – l’ordine, tardivamente, è stato eseguito – non può dirigere un’azienda pubblica. Prendiamo in prestito le parole del presidente della commissione Antimafia, Beppe Pisanu: non sono degni. Indegni di rappresentare gli italiani coloro che risultano al servizio non del paese ma di chi li ha indicati – nominati – in una posizione di potere. Lo scontro tra il ministro Maroni e Pisanu è il tema politico del giorno: formidabili gli argomenti dell’uno e dell’altro, leggete e fatevi un’idea. Pisanu ha chiesto alle prefetture di avere la lista dei candidati e degli eletti alle amministrative che sono privi dei requisiti del codice di autoregolamentazione valido per tutti: non si candidano i rinviati a giudizio e/o i condannati anche solo in primo grado. Non è stato osservato. Siamo in gradi di dirvi in nomi dei “non degni”: un elenco parziale perché parziale è per ora la lista. Sedici eletti, un centinaio di candidati che sono stati rinviati e giudizio o condannati. Parliamo delle amministrative, sarebbe molto interessante applicare lo stesso principio alle politiche e andare a fare la conta in Parlamento. Appuntamento a domani, per questo.
Dice la Caritas che sono poveri i separati: i nuovi poveri. Non possono permettersi i costi del divorzio, precipitano nell’indigenza. Alla classe politica che ci governa, a partire dal capo supremo, non succede. La classe politica si preoccupa delle sue garanzie, dei suoi privilegi, della sua immunità. Davvero divertente, diciamo tragicomico, il resoconto del Congiurato di oggi: alla notizia che le liste elettorali potrebbero non essergli favorevoli Ignazio La Russa pensa di fare un suo gruppo parlamentare autonomo, proprio come Fini. Ecco in cosa consiste l’adesione alla causa: nel modo più efficace per avere riconfermati i posti e i seggi, il potere.
P.s. Abbiamo risposto una sola volta, civilmente e con argomenti di sostanza, alle aggressioni quotidiane di Feltri&Sallusti. Ieri Feltri ha scritto che dovrei prendere la pillola o abortire per non generare altri cretini. Naturalmente ne risponderà in tribunale. Non sono questioni che possano interessare gli italiani. Non c’è niente da commentare: consuete minacce. Solo teniamolo a mente, alla prossima campagna antiabortista. Chissà se Ferrara vorrà intervenire.
http://concita.blog.unita.it//Gli_indegni_e_l_aborto_1656.shtml
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Arrivano le ‘piante mangia-metalli’ 13.10.2010
Risanare con la coltivazione di piante i terreni inquinati da metalli pesanti a causa delle attività umane. E’ questa la nuova frontiera delle tecniche di riqualificazione ambientale. Studi recenti hanno dimostrato l’efficacia della fitodecontaminazione, mediante cui, girasoli, mais e brassica (una pianta della famiglia dei cavoli), possono essere impiegati come sistemi di disinquinamento.
“Elevate concentrazioni di metalli in forma diffusa e parcellizzata quali polveri, microparticelle presenti nell’aria, nel suolo e nelle acque”, spiega Franco Gambale, direttore dell’Istituto di biofisica (Ibf) del Cnr di Genova, “possono avere gravi conseguenze sulla salute umana e tra i metalli pesanti il piombo è l’elemento più diffuso. Le tecniche utilizzate fino a oggi, con elementi chimici, hanno limiti oggettivi sia per i costi di bonifica delle aree interessate, sia per gli effetti successivi al trattamento: perdita della fertilità e altre gravi alterazioni di natura chimica, fisica e biologica, tali che le aree inquinate rimangono inutilizzate per decine di anni”.
La fitodecontaminazione, al contrario, è un processo di purificazione naturale, in quanto, continua il direttore dell’Ibf-Cnr “sfrutta la capacità delle piante di assorbire elementi e composti dal suolo per poi concentrarli nelle parti mietibili (fusto e foglie). Le piante in questione, se opportunamente trattate con sostanze dette chelanti, che servono a rendere estraibili i metalli inquinanti, funzionano come pompe che operano a energia solare, in grado di assorbire dall’acqua e dal terreno non solo i sali minerali necessari per la propria sussistenza, ma anche elementi tossici minerali e/o organici”.
Espletata la loro funzione, le piante vengono raccolte e incenerite a bassa temperatura, in modo da evitare la reimmissione degli agenti inquinanti nell’atmosfera e da restituire all’uomo, e alle sue attività, suoli prima perduti.
Ma i benefici non si limitano a questo. “La biomassa ottenuta”, prosegue Gambale, “può essere utilizzata per generare gas da impiegare per la produzione di energia e i residui minerali possono essere riciclati o inglobati, per esempio, in matrici cementizie. Le ceneri possono infine essere smaltite in discariche attrezzate a costi di gran lunga inferiori rispetto a quelli necessari per lo smaltimento del suolo, in considerazione del minor volume del materiale contaminato”.
Alcuni anni fa, nel comune di Arcola, in provincia di La Spezia, su un terreno contaminato da piombo adiacente a uno stabilimento industriale, è stata effettuata una prima sperimentazione di bonifica con la tecnica della fitodecontaminazione. L’esperimento faceva parte del progetto ‘PhyLeS’, coordinato dal Cnr. I risultati ottenuti sono stati incoraggianti, mostrando l’efficacia del sistema, che può essere utilizzato anche in presenza di altri inquinamento da piombo, quanto di elementi come il cadmio.
“Con alcuni accorgimenti derivati dai risultati della sperimentazione – conclude Gambale – riteniamo sia possibile un miglioramento della metodica che potrebbe consentire di ridurre il tempo di decontaminazione a circa 20 anni. Un risultato apprezzabile se si considera che gli approcci chimico-fisici tradizionali sono certamente più veloci, ma costosi e per nulla ecosostenibili”.
Emanuele Grimaldi
Fonte: Franco Gambale, Istituto di biofisica, tel. 010/6475572, email phyles@ge.ibf.cnr.it
http://www.almanacco.cnr.it/reader/cw_usr_view_articolo.html?id_articolo=1199&giornale=1187
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PRESENTATO IL PROGETTO IN PORTOGALLO, NEL 2012 I PRIMI INSEDIAMENTI
PlanIT Valley, la città che usa il cervello 12.10.2010
Come un sistema nervoso, un supercomputer regolerà acqua, energia e ogni attività delle case
MILANO – «Benvenuti a PlanIT Valley, Paredes, distretto di Oporto, Portogallo». Ecco il cartellone che entro il 2015 comparirà nei territori del nord del Portogallo, all’ingresso di quell’area dove sorgerà un villaggio davvero speciale: studiato da architetti, ingegneri e informatici per diventare un esempio di eco-sostenibilità e comportarsi con intelligenza, come se fosse un cervello umano.
IL PROGETTO – Tra un anno inizieranno a insediarsi le prime persone ed entro il 2015 tutto sarà terminato a regola d’arte. Case dai tetti ricoperti di vegetazione per assorbire pioggia e sostanze inquinanti e scaldare di più; edifici (prefabbricati) a forma esagonale, per risparmiare spazio (i software per progettarli sono gli stessi usati dall’industria aerospaziale); un controllo da remoto del consumo di acqua ed energia elettrica per evitare sprechi; un computer in ogni casa per misurare i livelli di umidità e non solo la temperatura e calcolare in che modo dispensare il calore o l’aria condizionata; un programma di riciclo di materiali, dall’acqua (per esempio quella usata per cucinare viene riutilizzata nel wc) ai rifiuti solidi, che non lascerà nulla al caso. Sono questi i punti-cardine del manifesto di PlanIT Valley, un progetto ambizioso di eco-sostenibilità totale, voluto dal governo portoghese e costruito da una società di Paredes, la PlanIT.
CERVELLO – Il grosso dell’investimento per la nuova cittadina, ancora senza abitanti, è tutto in tecnologia. Come raccontano i produttori al New Scientist, «riducendo i costi dei fabbricati, possiamo spendere qualcosa in più in tecnologia». Sì, perché per una volta non sarà il mattone la spesa più onerosa per abitare nel nuovo paese – le casette arriveranno già prefabbricate – ma un potente supercomputer che si comporterà proprio come un cervello umano e regolerà da remoto tutte le attività delle case, all’insegna del risparmio, della tutela dell’ambiente e del consumo critico. I fiori all’occhiello dell’eco-sostenibilità riguarderanno l’acqua e l’energia. Per esempio si cercherà di filtrare le acque di scarico con bambù e altre piante che le purifichino, per poterle riusare (per irrigare, o come acque grigie) e risparmiare; oppure si arriverà a riciclare fino all’80 per cento della spazzatura prodotta. I rifiuti organici diverranno energia elettrica, ma anche carburanti per far viaggiare le auto e i mezzi pubblici; l’alluminio si trasformerà in idrogeno per spingere le macchine di nuova generazione. E per i più piccoli che si perderanno tra le vie – applicazione dal sapore di Grande Fratello – ci sarà “find my kid”, software collegato a un circuito di telecamere poste in tutto il paese.
ALTRI ESEMPI – PlanIT Valley non è la prima città eco-sostenibile e intelligente in progetto. Ci sono almeno altri due esempi interessanti: il primo è il villaggio di Masdar, vicino ad Abu Dabi, capitale degli Emirati Arabi, dove i primi abitanti si stanno già trasferendo e che sarà ultimato entro il 2020. Il secondo paese è quello cinese di Dongtan, provincia di Shangai, progetto oggi fermo per mancanza di fondi e volontà politica. Ma il vero problema dei nuovi ed encomiabili villaggi sarà, negli Emirati così come in Portogallo, riuscire a ricreare il senso profondo di comunità.
Eva Perasso
Al link immagine cartografica.
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Google, una raffica di energia pulita 12.10.2010
Mountain View entra nella cordata che finanzierà AWC, primo mega progetto che si propone di costruire pale eoliche in mare aperto. Nonostante le tante insidie, non manca l’ottimismo
Roma – Sembra proprio che Google abbia intenzioni serie con le tecnologie verdi. Dopo aver sborsato 38,8 milioni di dollari per la costruzione di due centrali eoliche nel North Dakota, BigG ha deciso di investire nuovi capitali in Atlantic Wind Connection (AWC), progetto che si propone di installare pale eoliche lungo una dorsale di circa 565 chilometri (dal New Jersey al Virginia), a 15-25 chilometri di distanza dalla costa atlantica statunitense, dove le acque sono relativamente poco profonde.
Il nuovo investimento, che mira a distribuire energia verde nelle case di circa 2 milioni di famiglie statunitensi, funzionerà grazie alla forza e alla regolarità dei venti presenti nella zona e trasporterà l’energia attraverso dei cavi sottomarini. Se avrà successo, AWC diventerà il primo sistema eolico americano operativo in alto mare. Sviluppato dall’azienda Trans-Elect e finanziato anche da Good Energies e Marubeni Corporation, il progetto vedrà la partecipazione di BigG per il 37,5 per cento del totale. Secondo Reuters, la cordata spera di ricevere l’approvazione del governo federale entro il 2013.
Per Rick Needham, capo del green business di Mountain View, AWC si presenta come una “super autostrada dell’energia pulita”. Dopo aver elencato tutti i vantaggi e l’ottimo potenziale dell’iniziativa, Needham afferma: “Crediamo nell’investire in progetti che hanno delle potenzialità e che sono volti alla promozione delle energie rinnovabili”. “L’impegno – prosegue il dirigente di Google – nel voler essere dei precursori e nell’investire in progetti innovativi su larga scala è la chiave del nostro successo come azienda”.
I vertici di Mountain View non rivelano il costo totale dell’operazione, ma, secondo il New York Times, l’ammontare si aggirerebbe intorno ai 5 miliardi di dollari e, per completare la fase iniziale (quella a cui prende parte BigG), ne occorrerebbero 1,8. Gli esperti giudicano come promettente il piano di Trans-Elect, ma mettono in guardia sui possibili ritardi burocratici, complicazioni non previste e problemi tecnici che farebbero sforare il budget a disposizione.
Grande entusiasmo arriva dagli ambientalisti bene informati. Melinda Pierce, direttrice per le campagne nazionali dell’associazione ambientalista Sierra Club, ha dichiarato di voler appoggiare l’obiettivo di AWC di intercettare i venti a largo, con l’augurio che possa diventare più semplice e meno costoso costruire centrali eoliche in mare.
Cristina Sciannamblo
http://punto-informatico.it/3009109/PI/News/google-una-raffica-energia-pulita.aspx
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Russia, guerra con i palloni gonfiati 12.10.2010
Tecnologie ad aria compressa per armi, letteralmente, gonfiabili. E’ la nuova strategia di camuffamento messa in campo dall’esercito del Cremlino
Roma – L’esercito russo sta utilizzando delle armi molto particolari: occupano poco spazio, sono facili da trasportare e non hanno bisogno di proiettili. D’altronde, non sarebbero altro che pallini gonfiati.
Dalle stazioni radar ai carrarmati, armi strategiche, lanciarazzi, o siluri, tutto è riproducibile con un telo gonfiabile fatto di uno speciale materiale in grado di ingannare i radar nemici e le immagini termiche. Da utilizzare come finti obiettivi, in determinate situazioni.
Le riproduzioni, che sono molto realistiche, naturalmente non sparano sul serio, ma su di esse si possono sviluppare varie strategie.
In particolare, il sistema può servire ad abbassare i costi delle spese da stanziare per obiettivi militari oppure, spacciando le armi gonfiate come vere e proprie minacce, a fungere da finti obiettivi per depistare il nemico.
Claudio Tamburino
http://punto-informatico.it/3009016/PI/News/russia-guerra-palloni-gonfiati.aspx
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Squillo “imboscate” in Abruzzo. Soluzione: si taglia il bosco! 12.10.2010
Quando si dice “tagliare il problema alla radice”…
Questa è veramente geniale, anzi di più: assurda. In Abruzzo, lungo il fiume Tronto, hanno un problema: troppe prostitute che si appostano e appartano nei boschi con i clienti, creando qualche problema di ordine pubblico. Le istituzioni, a questo punto, sono state costrette a prendere provvedimenti per risolvere la questione.
La soluzione scelta, però, probabilmente non è la migliore: abbattere il bosco dove si “annidano” le maligne prostitute con i loro morbosi clienti. Un bosco mica piccolo, tra l’altro: una trentina di ettari pronti ad essere rasi al suolo dalle ruspe per togliere di mezzo la prostituzione.
Ecco, allora, che qualcuno si accorge che se il fine è anche condivisibile, il mezzo lo è molto meno: Lipu, Wwf e Pro-Natura scrivono alle istituzioni di cui sopra invitandole a trovare soluzioni alternative al disboscamento:
WWF, LIPU e ProNatura hanno inviato una lettera alle istituzioni coinvolte con un appello per fermare questa azione priva di qualsiasi senso. Si fermino le motoseghe e si affronti questa situazione moltiplicando l’assistenza sociale e le azioni volte ad alleviare il disagio, senza prendersela con gli alberi e reprimendo, invece, con ancora più forza chi sfrutta decine di donne. I popoli antichi, spesso ritenuti primitivi, pensavano che “gli alberi fossero le colonne che sorreggono il cielo”. Le associazioni auspicano che gli enti ci ripensino attingendo alla fonte di questa antica saggezza
La lettera, tra le altre cose, è anche ben scritta e non manca di humor, visto che inizia così:
Favoreggiamento della prostituzione: rei di questo grave reato migliaia di alberi verranno presto passati per le motoseghe lungo il Fiume Tronto, nel versante abruzzese. Dalla festa dell’Albero, promossa in questi anni per sensibilizzare i giovani alla difesa della natura, con nonchalance gli stessi enti sembrano ora voler passare a…fare la festa all’albero.
E poi fa notare che
Le istituzioni non hanno applicato neanche le attenuanti generiche. Tra queste l’aver assorbito migliaia di tonnellate di anidride carbonica e aver reso all’uomo prezioso ossigeno; l’aver creato una fascia di filtro affinché pesticidi, diserbanti e fertilizzanti in agricoltura non arrivassero nelle acque del fiume; l’aver dato ospitalità e rifugio a decine di migliaia di animali in un territorio divenuto sempre più ostile alla vita; l’aver difeso dall’erosione dei suoli un’importante area collinare
Vedremo se le istituzioni locali abruzzesi concederanno ai poveri alberi del boschetto delle prostitute un giusto processo. Nel frattempo un appello agli abitanti della zona: non andate con le squillo, fa male al clima e alla biodiversità!
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Brancaccio, curva di Beveridge, Diamond, disoccupazione, MIT, Mortensen, Nobel, offerta di lavoro, Pissarides
Visioni “minimaliste” della disoccupazione 12.10.2010
Emiliano Brancaccio
Il Nobel 2010 per l’Economia a Diamond, Mortensen e Pissarides per i loro studi sui mercati caratterizzati da “frizioni” e in particolare sul problema del mancato “incontro” tra domanda e offerta di lavoro [1]
Peter Diamond (nato nel 1940 a New York e docente al MIT di Boston), Dale Mortensen (nato nel 1939 in Oregon e docente alla Northwestern University) e Christopher Pissarides (nato a Cipro nel 1938 e professore alla London School), sono i vincitori del premio Nobel 2010 per l’Economia. L’onorificenza viene ad essi assegnata “per le analisi dei mercati caratterizzati da ‘frizioni’ nel processo di incontro tra domanda e offerta”, con particolare riguardo alla domanda e all’offerta di lavoro.
Mai come quest’anno le scelte dell’Accademia svedese delle Scienze sembrano intersecarsi con le spinose vicende dell’attualità politica. Negli Stati Uniti la notizia della vittoria di Diamond deve infatti aver suscitato non pochi imbarazzi tra le file del Partito Repubblicano. Appena poche settimane fa i senatori repubblicani avevano respinto la proposta della Casa Bianca di nominare l’economista del MIT nel board della Federal Reserve. L’opposizione a Diamond derivava dal tentativo di impedire una ulteriore designazione di marca democratica ai vertici della banca centrale statunitense. Il portavoce repubblicano aveva però tentato di fornire un più nobile pretesto per il voto contrario del suo partito sostenendo che Diamond non avesse “l’esperienza necessaria per l’incarico”. In effetti, al di là dei reali propositi, l’argomentazione non sarebbe del tutto peregrina. Schumpeter riteneva che l’economista scientifico, per considerarsi davvero tale, dovrebbe esser capace di padroneggiare una complessa varietà di discipline: dalla storia, alla statistica, alla teoria pura. Al giorno d’oggi però le cose sono molto diverse e la specializzazione del lavoro condiziona pesantemente anche la formazione degli economisti. Per molti di essi passare da un ambito di ricerca all’altro può risultare difficile quanto per un cardiochirurgo può esserlo una diagnosi in campo neuropsichiatrico. Non sembra però esser questo il caso di Diamond, che nel corso degli anni ha continuamente mostrato di poter spaziare tra argomenti diversissimi, dalla cosiddetta “high theory” ai problemi della previdenza, dalle analisi del mercato del lavoro ai contributi in tema di tassazione. A coronamento di una così lunga e articolata carriera giunge adesso anche il conferimento del Nobel, che renderà piuttosto deboli gli argomenti dei repubblicani e che sembra quindi preannunciare una vittoria di Obama, già da tempo fermamente intenzionato a riproporre al Senato la candidatura dell’economista bostoniano al board della FED.
Ma c’è un motivo forse ancor più interessante per il quale le decisioni di Stoccolma potrebbero avere qualche immediata ricaduta sul dibattito politico. Tra gli studi di Diamond, Mortensen e Pissarides vi sono infatti anche quelli dedicati alle carenze di informazione e ai vari altri ostacoli che possono rendere difficile la ricerca reciproca e l’incontro tra lavoratori disoccupati e imprese intenzionate ad assumere. Uno degli oggetti di questi studi è la rivisitazione della cosiddetta “curva di Beveridge”, una relazione che prende il nome da Lord Beveridge, noto economista e riformatore sociale che nell’immediato dopoguerra contribuì alla edificazione del moderno welfare state britannico. Nella sua interpretazione tradizionale, la curva esprime un legame statistico tra il numero di posti di lavoro disponibili e il numero dei disoccupati. In genere questo legame dovrebbe risultare inverso. La ragione è che in una situazione di recessione causata da carenza di domanda i disoccupati saranno numerosi mentre i posti disponibili saranno ben pochi. Di contro, in una fase di espansione della domanda e della produzione, il numero dei disoccupati si riduce mentre i posti di lavoro vacanti crescono a causa della crescente difficoltà delle imprese di reperire lavoratori. Si viene così a delineare una sorta di “curva” che in corrispondenza di un’alta disoccupazione segnalerà una bassa disponibilità di posti liberi, e viceversa. Conoscendo dunque il numero dei disoccupati e il numero di posti disponibili, le autorità di governo dovrebbero essere in grado di verificare, per esempio, se l’economia soffre o meno di una carenza di domanda e se necessita quindi di politiche espansive.
Il problema che si pone è che il rapporto tra posti vacanti e lavoratori disoccupati può cambiare, e quindi la “curva” di Beveridge può subire degli improvvisi spostamenti. Di recente negli Stati Uniti si è proprio discusso di questa eventualità. Le statistiche infatti segnalano un forte incremento dei disoccupati che, contrariamente a quanto lascerebbe intendere la “curva”, risulta accompagnato non da una riduzione ma da un moderato aumento dei posti disponibili. Tra gli economisti mainstream la spiegazione convenzionale per questo fenomeno è che la “curva” potrebbe essersi spostata. C’è tuttavia un profondo disaccordo sui possibili motivi di questo riposizionamento. Alcuni sostengono che l’esistenza di tanta gente a spasso nonostante la disponibilità di posti vacanti sia dovuta ai generosi sussidi ai disoccupati erogati dall’Amministrazione Obama. Dalle frange oltranziste del partito repubblicano il Presidente viene per questo additato come una sorta di moderno Lafargue, colpevole di indurre all’ozio gli altrimenti onesti e laboriosi operai americani. Contro questa tesi vi è invece quella di chi ritiene che l’incremento contemporaneo dei disoccupati e dei posti disponibili si spieghi con la grave crisi economica in corso e con le profonde ristrutturazioni cui essa ha dato luogo. La grande recessione potrebbe cioè aver determinato non solo un crollo della produzione totale ma anche uno stravolgimento delle proporzioni tra i vari settori produttivi, e quindi un mutamento delle qualifiche richieste dalle imprese rispetto alle competenze effettive dei disoccupati. Il fatto che l’aumento dei disoccupati sia stato finora molto più marcato rispetto all’aumento dei posti vacanti farebbe logicamente propendere verso questa seconda possibilità. Se però si osservano i dati dal punto di vista delle teorie premiate il ragionamento tende a complicarsi. Dalle ricerche di Diamond, Mortensen e Pissarides si possono infatti trarre conclusioni favorevoli sia all’una che all’altra interpretazione[2]. Anzi, se si guarda alle versioni elementari dei modelli di Pissarides si scopre che in esse la possibilità stessa di un crollo della domanda non viene nemmeno contemplata. Nelle versioni più sofisticate di questi modelli la crisi da domanda viene ammessa, ma solo nei termini di una deviazione temporanea dall’equilibrio del sistema. Nel lungo termine, la disoccupazione dovrà quindi sempre essere interpretata in una chiave che potremmo definire “minimalista”, ossia quale mero problema di mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro e non come il riflesso di una crisi generalizzata che possa lungamente deprimere prima l’una e poi l’altra. Insomma, non sembra esservi modo in queste analisi di concepire la carenza di domanda effettiva come una “malattia” che può protrarsi nel lungo periodo[3]. Tale difficoltà in effetti è abbastanza comune a tutto il variegato arcipelago della teoria economica mainstream. Dati i tempi, c’è chi ritiene che essa stia diventando anche un po’ frustrante[4].
[1] Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul manifesto del 12 ottobre 2010.
[2] Gli studi empirici prevalenti basati sulle teorie dei Nobel 2010 non escludono l’esistenza di un (modesto) legame tra maggiori sussidi e maggior durata della disoccupazione. Con una durata media della disoccupazione di 6 mesi, un aumento dei sussidi del 10% risulterebbe correlato a un incremento della disoccupazione tra i 6 e gli 11 giorni, cioè tra il 3,3% e il 6,1%. Devine T., Kiefer N. (1991), Empirical Labour Economics: The Search Approach, Oxford University Press.
[3] E’ esattamente l’impossibilità di ammettere carenze di domanda nel lungo periodo che induce Diamond ad affermare, con riferimento alla previdenza, che “….gli economisti sono preoccupati di generare maggiori risparmi per aiutare le generazioni future…” (Lezione Angelo Costa, 1999). In realtà vi sono economisti i quali temono che una continua sollecitazione dei risparmi possa deprimere la domanda e la capacità produttiva sia nel breve che nel lungo termine, e possa quindi arrivare a danneggiare le generazioni future anziché favorirle.
[4] Il fatto la carenza di domanda possa manifestarsi anche nel lungo periodo viene talvolta frettolosamente rigettato in base all’idea che una simile eventualità sarebbe ammissibile solo nei vecchi modelli keynesiani, in cui si presume che la domanda possa non eguagliare l’offerta a causa della mancanza di un meccanismo di prezzi che garantisca l’equilibrio. In realtà questa interpretazione della teoria keynesiana è errata. Almeno per quanto riguarda i modelli macroeconomici keynesiani che poggiano su schemi dei prezzi di produzione di matrice sraffiana, le cose non stanno in questi termini. Tali schemi infatti incorporano senz’altro un meccanismo dei prezzi che garantisce un “equilibrio” o, per meglio dire, una posizione di lungo periodo con saggi di profitto uniformi tra i settori. Tuttavia non si tratta di una posizione che preveda necessariamente l’uguaglianza tra le dotazioni di risorse esistenti e le rispettive domande. Tale proprietà rende questo tipo di teorie dei prezzi particolarmente adatto all’analisi della realtà capitalistica, caratterizzata da ampie fluttuazioni e da prolungati periodi di sottoutilizzazione della capacità produttiva e del lavoro disponibile.
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Nessuna sanzione se il versamento delle imposte è impedito dalla crisi economica 14.10.2010
La Commissione Tributaria Provinciale di Lecce, con la sentenza n. 352/1/10, ha dichiarato che non possono essere comminate le sanzioni amministrative previste dall’ordinamento per il caso dell’omesso versamento di imposte se il contribuente non ha potuto provvedere al pagamento del dovuto perché versava in uno stato di forte crisi economica.
Il caso sottoposto all’attenzione del collegio pugliese è quello, oggi invero molto frequente, di una società che, a causa dell’attuale congiuntura economica, verteva in un tale stato di crisi da non poter più fare fronte agli oneri tributari.
Alla contribuente era, quindi, stata recapitata una cartella di pagamento con cui, insieme al pagamento delle somme omesse, era stato ingiunto anche il pagamento di sanzioni molto elevate (€ 214.998,89!).
La contribuente, tuttavia, ha ritenuto nel suo caso sussistenti le cause di esclusione della punibilità previste dall’ordinamento tributario, il quale, all’art. 6, co. 5, D.Lgs. n. 472 del 18 dicembre 1997, secondo cui “non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore”.
I giudici salentini aditi hanno accolto appieno le tesi difensive della ricorrente e hanno annullato le sanzioni comminate.
A tali conclusioni il collegio giudicante è giunto affermando che la “forza maggiore” è “una forza esterna, che determina la persona o la società, in modo inevitabile, a compiere un atto non voluto […]. In definitiva […] essa può ricorrere in caso di fatti imprevedibili ed inevitabili da parte di terzi soggetti, che hanno impedito al contribuente di rispettare le norme fiscali”.
Questa circostanza, sempre secondo la sentenza in rassegna, si era realizzata senza alcun dubbio nel caso esaminato, e doveva pertanto ritenersi che l’omesso versamento era conseguenza dell’improvvisa e imprevedibile crisi economica mondiale.
La forte crisi economica, situazione esterna al soggetto ricorrente, realizzando l’esimente della forza maggiore, rendeva quest’ultimo non sanzionabile amministrativamente e, quindi, le sanzioni a lui comminate dovevano essere annullate.
I principi appena richiamati dai giudici pugliesi appaiono di estrema importanza e possono rappresentare un modo per evitare a piccoli contribuenti (società ma anche privati) la beffa delle sanzioni oltre al danno della crisi: come la ricorrente, infatti, l’omesso versamento di quanto liquidato dalla dichiarazione correttamente presentata è spesso l’esito di situazioni di crisi temporanea di liquidità che devono essere guardate con un occhio diverso rispetto a quei casi in cui l’evasione non è altro che uno strumento di arricchimento.
La sentenza è liberamente scaricabile dal sito http://www.dirittodimpresa.com
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Abbattere la dittatura finanziaria europea
Di Franco Berardi
Quel che sta succedendo in Frrancia è estremamente importante, per tutti. Dal movimento ampio, radicale e determinato che si sta sviluppando ormai da giugno (che ha portato in piazza milioni di persone per quattro volte in pochi mesi) potrebbe venire la prima risposta vincente contro la dittatura finanziaria che si è costituita in Europa a partire dalla crisi greca e dal diktat del direttorio Trichet-Merkel-Sarkozy che punta a imporre misure unificate di attacco contro il salario e contro la società, in nome della competitività.
Il movimento francese contro il prolungamento del lavoro e il rinvio delle pensioni, giunto alla quarta giornata di mobilitazione generale, si rafforza e va allo scontro con il governo Sarkozy.
E’ la prima volta, in Europa, che un movimento ampio prende come bersaglio il dogma centrale del prolungamento del tempo di vita-lavoro, sancta sanctorum del conformismo economico dell’epoca tardo-liberale.
Il dogma suona così: a causa del prolungamento del tempo di vita e della riduzione di natalità, i paesi europei vanno verso una tragica situazione in cui pochi giovani dovranno sorreggere molti vecchi oziosi pensionati. Per evitarlo dobbiamo prolungare il tempo di lavoro degli anziani. Questa puttanata la chiamano patto tra le generazioni, e pretendono che tutti crediamo nella necessità di lavorare più a lungo per aiutare la nuova generazione.
Questa filosofia, imposta dovunque con la collaborazione attiva delle sinistre e dei sindacati, è basata su una premessa sbagliata, anzi falsa. Tanto per cominciare la produttività media è cresciuta di cinque volte negli ultimi cinquanta anni. Dunque la riduzione delle unità di lavoro non è un problema. Molto meno giovani possono tranquillamente produrre il necessario per molti più vecchi, se la questione fosse solo questa. Ma la questione non è affatto questa. Dietro il gioco delle tre carte, infatti, si cela un progetto ben diverso, che è quello di imporre un aumento del tempo di lavoro (più ore di straordinario, pieno utilizzo degli impianti, sabato lavorativo, rinvio indefinito dell’età pensionabile), e conseguentemente una riduzione dell’occupazione.
Con la favoletta demografica si punta quindi a mantenere i giovani in condizioni di sottoimpiego costringendoli ad accettare qualsiasi lavoro precario e sottopagato, mentre gli anziani sono costretti a lavorare ben oltre la data stabilita dal loro contratto di impiego originario.
La finalità del prolungamento del tempo di lavoro non ha nulla a che fare con un’esigenza produttiva, ma è la conseguenza di regole finanziarie che agiscono come una gabbia, trasformando in Europa la ricchezza in miseria e la potenza in paura. La deregulation vale solo quando serve ad attaccare il salario, ma quando servono per aumentare lo sfruttamento, le regole ci sono, strettissime e indiscutibili.
I lavoratori e gli studenti francesi l’hanno capito benissimo. Hanno capito che prolungare il tempo di lavoro degli anziani, in un periodo di riduzione dell’occupazione significa mettere i giovani nelle condizioni della disoccupazione e del precariato.
Se la società francese riesce a rompere questo dogma in Europa si apre una fase nuova. Dovunque, a cominciare dall’Italia potrà nascere un movimento per la riduzione del tempo di vita-lavoro, per un abbassamento dell’età di pensionamento, per una riduzione dell’orario settimanale di lavoro.
Se si rompe il dogma a quel punto tutto ridiventa possibile.
Nella manifestazione di sabato e soprattutto nelle settimane che seguiranno dobbiamo aver chiaro che la questione posta dalla FIOM (diritti del lavoro e difesa del salario) e la questione posta dal movimento degli studenti e dei ricercatori (risorse per la scuola pubblica, blocco della riforma devastatrice della Gelmini) non sono affatto questioni italiane, e non si possono vincere come battaglie nazionali. Solo un movimento europeo fermerà l’offensiva finanziaria contro la società. Solo un movimento europeo ci libererà dei tirannelli locali si chiamino Tremonti o Berlusconi.
Da Facebook, del 15.10.2010
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Grandi imprese/13 di Vincenzo Comito
Benetton: dal mercato alle rendite 14.10.2010
Dall’abbigliamento alle autostrade e autogrill. La parabola di un gruppo che ha vissuto una mutazione genetica, partendo da un un business di successo per poi legarsi progressivamente al carro pubblico. E portandosi dietro grossi problemi di indebitamento
Il percorso imprenditoriale della famiglia Benetton appare piuttosto chiaro e abbastanza singolare.
I membri della famiglia sono partiti negli anni sessanta con un’idea di business a suo tempo molto innovativa nel settore dell’abbigliamento, idea coronata in un primo periodo da un rilevante successo di mercato e di redditività. Poi, con il tempo, tale attività si è dovuta confrontare con diversi problemi, sia di tipo interno che esterno all’impresa; in particolare, si è manifestata una importante concorrenza, costituita da marchi quali Zara o H & M, che è riuscita a mettere in rilevanti difficoltà la società, superandola per capacità innovativa, volumi di affari e redditività su quasi tutti i mercati, mentre la società incappava anche in alcuni problemi organizzativi. La famiglia non è stata in grado di reagire rinnovando ed adeguando la sua offerta nel settore in misura adeguata, le vendite complessive della società non sono più cresciute, i risultati economici si sono ridimensionati. Nel frattempo, nuovi concorrenti si profilano all’orizzonte.
Così, ad un certo punto, i membri della famiglia hanno deciso di ridurre il peso delle attività in cui c’era da confrontarsi tutti i giorni con il mercato e con la concorrenza e di trasformarsi invece sostanzialmente in rentier. Ecco allora l’acquisizione, secondo alcuni avvenuta a prezzi di favore, di Autostrade e di Autogrill dallo Stato, per di più scaricando i debiti fatti almeno per l’ acquisizione di Autostrade sulla stessa impresa acquistata, mentre verranno poi anche, con il tempo, le stazioni e gli aeroporti; ecco anche la partecipazione a molte avventure di interesse del potere politico da una parte, gli stretti legami con la fortezza Mediobanca dall’altra. (sulla storia e i conti di Autostrade, si veda anche l’articolo di Anna Donati su questo sito).
Oggi siamo davanti ad un gruppo di grandi dimensioni, molto articolato, ma anche altamente indebitato, mentre esso presenta una redditività complessiva piuttosto scarsa e mentre le sue sorti sono affidate, almeno in parte, alla benevolenza dei potenti di turno. La crisi di questi anni ha contribuito comunque a frenare i suoi volumi di attività e le sue prospettive.
La struttura societaria
Nel 2009 il gruppo Benetton ha fatturato in tutto circa 11,3 miliardi di euro a livello mondiale. Lo ha fatto attraverso un grande numero di società operanti in molti settori e in molti paesi, anche se le attività possono essere fatto risalire sostanzialmente a tre business.
La struttura societaria ha visto numerosi e anche radicali cambiamenti nel tempo, sia per l’ingresso e l’uscita quasi continui nel sistema di numerose imprese, sia per i mutamenti dettati dallo sviluppo stesso delle varie attività e anche da considerazioni di altro tipo, ad esempio mutamenti di strategia e anche “affinamenti” di tipo fiscale.
Essa vede oggi al primo livello di governo la capogruppo Edizione srl, controllata interamente dalla famiglia Benetton. Tale società, a sua volta, possiede dei pacchetti azionari di grande rilievo in un gran numero di altre entità, suddivisibili per comparti di attività:
1) nel settore del tessile-abbigliamento, il business storico della famiglia, troviamo in particolare il Benetton group, di cui Edizione srl possiede il 67,08% del capitale e che a sua volta da origine ad una miriade di società sparse per il mondo;
2) nel campo della ristorazione, la capogruppo controlla il 100% del capitale della società Schema 34 srl, che possiede poi il 59,28% di Autogrill, di nuovo con molte società del settore sotto il controllo di quest’ultima;
3) nel comparto delle infrastrutture e dei servizi per la mobilità, Edizione srl da origine a tre sottogruppi di società.
Essa detiene intanto il 79,06% del capitale di Sintonia sa, che controlla al 100% la società Schema 28 spa, che a sua volta possiede, insieme alla stessa Sintonia sa, il 38% del capitale di Atlantia spa; la Atlantia detiene a sua volta il 100% del capitale di Autostrade per l’Italia, nonché l’8,85% di Alitalia; infine, Autostrade per l’Italia possiede il 33% della IGLI spa – gli altri soci, il gruppo Ligresti e quello Gavio, detengono ciascuno una quota analoga-; la IGLI, a sua volta, controlla il 29,87% del capitale di Impregilo.
Sempre Sintonia sa controlla il 100% di Investimenti infrastrutture spa, che, insieme alla stessa Sintonia sa, possiede il 30,23% delle azioni di Gemina, al cui capitale partecipano anche, tra l’altro, con quote variabili, Mediobanca, il gruppo Ligresti, Assicurazioni Generali, Unicredit; Gemina detiene a sua volta il 95,76% del capitale di Aereoporti di Roma; Sintonia possiede poi ancora il 24,38% della Sagat, i cui azionisti di maggioranza sono gli enti locali piemontesi –Regione, Provincia e Comune di Torino- e che controlla le attività degli aereoporti di Torino e di Firenze;
Infine, infine Edizione srl detiene direttamente il 32,71% del capitale di Eurostazioni spa, partecipata con eguali quote anche dalla Pirelli & C. e dal gruppo Caltagirone; la Eurostazioni possiede poi il 40% di grandi Stazioni spa, mentre il restante 60% è controllato dalle Ferrovie dello Stato;
4) nel settore immobiliare e dell’agricoltura, la capogruppo ha in mano il 100% di Edizione Property spa, che detiene a sua volta il 100% di Maccarese spa, titolare poi del 100% del capitale di Cia de Terras Sud Argentino sa;
5) Edizione srl ha anche in bilancio una serie di altre partecipazioni molto preziose perché fanno parte, nella sostanza, del suo sistema di relazioni con il mondo della finanza e dell’imprenditoria nazionale, relazioni che sono essenziali al perseguimento dei suoi interessi e che ruota intorno al gruppo di potere organizzato intorno a Mediobanca; segnaliamo, in particolare, lo 0,945% del capitale di Assicurazioni Generali, il 2,16% della stessa Mediobanca, il 4,77% di Pirelli & C., il 5,7% di RCS, il 2% di Il Sole 24 Ore, il 2,24% di Caltagirone Editore, il 7,94% di Banca Leonardo; la società partecipa poi ovviamente ai vari patti di sindacato messi in piedi da Mediobanca per puntellare gli equilibri di potere delle varie entità;
6) in una categoria a parte possiamo inserire il pacchetto di controllo – con il 58,99% delle azioni- posseduto da Edizione srl nella di 21 Investimenti spa, una delle più importanti società europee di private equity, che è stata costituita a suo tempo da Alessandro Benetton, uno degli eredi, apparentemente il più dinamico, della dinastia familiare;
7) tralasciamo per brevità le società operanti nel settore sportivo.
Per completezza informativa, va ricordata l’avventura Telecom Italia. Nei primi anni del nuovo millennio i Benetton si inseriscono in misura importante nell’azione di conquista da parte di Tronchetti Provera del pacchetto di controllo della società telefonica. Ma il gruppo di intervento sarà obbligato nel 2007, di fronte alle difficoltà e ai pessimi risultati della sua gestione, a lasciare la presa e si dovrà ritirare riportando gravi perdite. Ricordiamo anche di sfuggita i tentativi, anch’essi poi abbandonati, di inserirsi nel settore delle attrezzature e dell’abbigliamento sportivo ed anche in quello della grande distribuzione.
Dati ed informazioni di base sul gruppo
Dunque il gruppo ha fatturato nel 2009 circa 11,3 miliardi. Tale importo si concentra intorno a tre poli di aggregazione, il Benetton Group, con circa 2,0 miliardi di euro di cifra d’affari nello stesso anno, il raggruppamento Atlantia con circa 3,6 miliardi e Autogrill con 5,7.
Dal punto di vista settoriale, il polo della ristorazione pesa per il 51,3% del fatturato totale, le infrastrutture e servizi per la mobilità per il 30,1%, il tessile-abbigliamento per il 17,7%; lo 0,9%, infine, fa riferimento ad attività residuali.
Sempre nel 2009, sul fronte della distribuzione geografica, il 50,6% dei ricavi del gruppo si collocano in Italia, il 27,4% nel resto d’Europa, il 16,8% nelle Americhe, il 5,2% residuo nel resto del mondo. Da questo punto di vista il gruppo appare fortemente concentrato sul nostro paese e, più in generale, sul nostro continente.
Per quanto riguarda la redditività complessiva, l’utile netto appare molto limitato nel 2008 e uguale a 196 milioni di euro, cifra pari all’1,7% del fatturato, per poi scendere ad appena 104 milioni nel 2009, lo 0,9% delle vendite. Per la verità, il reddito operativo della società appare abbastanza più sostenuto, collocandosi nel 2009 intorno ai 2,1 miliardi di euro, importo pari a quasi il 19% del fatturato; ma poi gli oneri finanziari pesano per circa il 6% della cifra d’affari e qualche punto ulteriore viene sottratto anche dalle perdite su partecipazioni, in parte strascichi dell’avventura Telecom. A questo punto, all’utile ante-imposte, ancora abbastanza importante nonostante tutto e pari a circa 1,2 miliardi di euro, bisogna sottrarre il carico fiscale, molto rilevante e pari al 5,5% del fatturato, nonché la quota di utile di pertinenza degli azionisti terzi, che si portano a casa 455 milioni di euro, ben più della famiglia e così alla fine l’utile netto scende alle dimensioni sopra ricordate.
Accanto alla limitata redditività bisogna ricordare, come sopra accennato, il molto alto livello dell’indebitamento complessivo. Esso appare sostanzialmente identico come importo alla fine del 2008 e del 2009 e pari a 14, 1 miliardi di euro, con un rapporto uguale al 173,0% rispetto ai mezzi propri, al 124,8% rispetto al fatturato del 2009, a 4,5 volte rispetto al reddito operativo prima degli ammortamenti (Ebitda), sempre per il 2009. L’esposizione appare fortemente concentrata in valori assoluti sul gruppo Atlantia ed essa è da mettere in gran parte in relazione con i debiti fatti a suo tempo per acquisire Autostrade per l’Italia, debiti poi scaricati sulla stessa società. Tale livello fa molta fatica a scendere nel tempo ed esso appare come una delle più serie ipoteche al futuro del gruppo.
Per la verità, c’era stato qualche anno fa il tentativo di sbarazzarsi del problema vendendo il settore autostradale agli spagnoli, ma la questione è stata portata avanti in maniera forse non brillante e si sono sviluppati dei problemi che hanno portato al fallimento del tentativo. Tra l’altro, i Benetton hanno cercato di vendere agli iberici senza aver portato avanti gli investimenti a suo tempo concordati col governo al momento della privatizzazione (Astone, 2009).
L’andamento dei principali business
Benetton. Dopo i rilevanti successi dei primi decenni, il marchio Benetton appare da molto tempo abbastanza in affanno. Così, intorno alla metà degli anni 2000 i bilanci hanno dovuto registrare delle perdite. Poi la situazione è migliorata, grazie anche ad interventi abbastanza decisi su molti fronti, da quello dell’organizzazione della rete di vendita a quello della riduzione dei costi degli approvvigionamenti, ma non si è veramente verificata la svolta netta che sembrava necessaria. Comunque, soprattutto sul mercato statunitense e sostanzialmente anche nei paesi europei, sia pure in misura più ridotta, l’azienda appare ancora in rilevante difficoltà e le vendite tendono a crescere, anche se lentamente, soltanto nei paesi emergenti, dove si sta portando avanti un importante allargamento della rete distributiva.
Guardando alle cifre degli ultimi cinque anni, appare evidente una sostanziale staticità di tutti gli indicatori. Il fatturato era pari nel 2005 a 1,8 miliardi di euro e nel 2009 ci si ritrova soltanto con un leggero incremento a 2,0 miliardi, mentre l’utile netto oscilla, di anno in anno, tra i 100 e i 155 milioni di euro –anche gli indici di redditività appaiono sostanzialmente costanti- e mentre il capitale netto è fermo dal 2005 ad oggi a 1,3/1,4 miliardi di euro. I dati di redditività del primo semestre del 2010 appaiono in discesa, mentre quelli di qualche concorrente come Inditex-Zara sono invece molto più incoraggianti.
Per completezza di informazione, si può ricordare che i ricavi suddivisi per area geografica registrano negli ultimi anni una percentuale del 47/48% sul totale per l’Italia, del 34/36% per il resto d’Europa, un risibile 3% per le Americhe ed un 17% per il resto del mondo.
Non si vede al momento come l’azienda possa uscire dal sostanziale impasse strategico in cui si trova. Significativamente, si parla da tempo di una possibile cessione del business, plausibilmente ad una delle tre grandi società del settore, la statunitense Gap, la spagnola Inditex-Zara, la svedese H&M; ma tale cessione sarebbe peraltro contrastata da una parte della famiglia.
Atlantia. Un concreto tentativo di cessione c’è stato qualche anno fa, come già accennato, per quanto riguarda invece il settore autostradale, ma esso è finito poi nel nulla. Le attività che fanno capo ad Atlantia spa, di cui la parte più significativa è costituita da Autostrade per l’Italia spa, presentavano complessivamente ricavi per 3,6 miliardi di euro nel 2009 contro i 3,5 del 2008. Il raggruppamento gestisce circa 3400 chilometri di autostrade nel nostro paese e circa 900 in quelli esteri. Per quanto riguarda questi ultimi, si tratta di concessioni ottenute in Cile, Polonia, Brasile, India –quattro concessioni, tre continenti-, apparentemente quindi senza un piano organico di penetrazione di specifici mercati, ma sfruttando le occasioni che si presentavano di volta in volta in giro per il mondo. Si ha una sensazione di grande dispersione degli sforzi.
Sul fronte economico, il settore sembra godere di un’elevata redditività –gli utili netti sono pari a circa 0,7 miliardi di euro sia nel 2008 che nel 2009, nonostante i rilevanti oneri finanziari che la gestione deve sopportare in relazione all’elevatissimo indebitamento cui abbiamo fatto cenno sopra; tali oneri sono e pari a ben il 13,9% dei ricavi nel 2008 e addirittura al 14,9% nel 2009.
La redditività sostenuta potrebbe presumibilmente essere legata a dei do ut des importanti con i pubblici poteri, essendo la fissazione delle tariffe e delle altre condizioni di sfruttamento delle concessioni in mano a questi ultimi. Questa possibilità sembra plausibile nel nostro paese, dove il gruppo Benetton appare sempre pronto a partecipare alle iniziative sponsorizzate dal governo –si veda ad esempio la vicenda Alitalia- e, nel settore finanziario, ad essere parte organica dell’asse Mediobanca-Generali, in cui appare sempre più ingombrante la presenza di Cesare Geronzi, il punto di collegamento tra Berlusconi e la finanza.
Autogrill. Neanche del raggruppamento Autogrill si può dire che esso navighi nell’oro.
Primo operatore al mondo per quanto riguarda i servizi di ristorazione e retail per chi viaggia, il suo fatturato per il 2009 è stato pari complessivamente a circa 5,7 miliardi, in leggera riduzione rispetto alle cifre dell’anno precedente. La rilevante diversificazione geografica e settoriale – le attività del raggruppamento si possono suddividere nei tre comparti della ristorazione, del retail aeroportuale e della fornitura di servizi di catering a bordo degli aerei – hanno apparentemente permesso di limitare i danni in un settore che ha risentito abbastanza della crisi.
Il comparto della ristorazione appare quello più importante ed esso raggiunge nel 2009 il 64,5% del fatturato totale del settore. Le cifre disponibili indicano una diversificazione geografica molto ampia raggiunta con il tempo dal raggruppamento, partendo dalla sola base italiana.
I risultati economici non appaiono particolarmente brillanti, con un utile netto per il 2008 di 84 milioni di euro, pari all’1,4% del fatturato e di soli 37 milioni nel 2009, con un’incidenza sulla cifra d’affari pari allo 0,6%.
Il livello di indebitamento non appare elevato in valore assoluto come quello di Atlantia –esso si situa intorno ad 1,9 miliardi di euro alla fine del 2009, contro i 2,1 miliardi della fine dell’anno precedente-, ma esso risulta comunque rilevante se lo confrontiamo con i mezzi propri dell’azienda.
Conclusioni
Il gruppo Benetton ha subito già da parecchio tempo una grande mutazione genetica, trasformandosi da un’entità che operava su di un mercato competitivo in una invece almeno parzialmente legata al carro pubblico. Questa trasformazione, che ha comunque molto accresciuto le dimensioni complessive dello stesso gruppo, non ha però permesso di risolvere i problemi economici e finanziari precedenti, ma anzi ne ha creati di nuovi ed ha legato molto più di prima le sorti aziendali, almeno in parte, alla volontà di governi e di banche. Così oggi i vari business non presentano una situazione brillante sul piano strategico, economico e finanziario. In particolare il settore tessile-abbigliamento sembra avere problemi strategico-organizzativi, Atlantia invece soprattutto di tipo finanziario, mentre Autogrill si ritrova con una scarsa redditività ed anche di nuovo con problemi di indebitamento elevato. La crisi degli ultimi anni ha certamente contribuito ad accrescere le difficoltà di prospettiva di un gruppo in cui esse erano già prima presenti in misura rilevante. Può darsi che il ricambio generazionale, che dovrebbe toccare in maniera più decisa la famiglia Benetton nei prossimi anni, possa portare a qualche colpo d’ala che è difficile attendersi oggi da degli imprenditori forse troppo appesantiti dalle esperienze anche difficili incontrate su vari fronti negli ultimi decenni.
Testo citato nell’articolo
-Astone F., Gli affari di famiglia, Longanesi, Milano, 2009
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Benetton-dal-mercato-alle-rendite-6596
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business, microcredito, sociale, Yunus di Guglielmo Ragozzino
Quando il microcredito incontra le corporation 14.10.2010
Dalla microfinanza per includere i poveri al business sociale. Il premio Nobel Yunus spiega come “si può fare”. Alleandosi con le multinazionali
Articolo pubblicato su “il manifesto” del 13 ottobre 2010
Da vent’anni Muhammad Yunus è noto in Occidente per il suo tentativo di sviluppare una banca per i poveri. Gli elementi erano una comunità poverissima ma affiatata e la possibilità individuale di ricevere una piccola somma di denaro, il microcredito, senza disporre di garanzie, pagando invece un buon interesse, sotto il controllo della comunità; e poi di utilizzare la somma per un acquisto (mucca da latte, macchina da cucire, sementi) o una riparazione (tetto di casa, barca da pesca) consentendo a una famiglia, molto spesso alla madre, di lavorare, di guadagnare, di sopravvivere, di entrare in un sistema di mercato. I tentativi di riproporre la banca dei poveri in altri contesti, diversi dal subcontinente indiano, per esempio nel Kosovo, non hanno avuto particolare fortuna, anche se ogni tanto corre in Italia l’informazione che è stato concluso un accordo con prestigiose università o grandissime banche. Il fatto è che Yunus, premio nobel per la pace del 2006, attira molto l’attenzione e si presenta come il portatore di un’alternativa innocente al rapace capitalismo di tutti i giorni. E così si mostra nei libri e nelle tournée di conferenze in tutto il mondo.
L’ultimo libro di Yunus, “Si può fare!” spiega come il “business sociale” possa creare un “capitalismo più umano”. Se l’obiettivo di creare un capitalismo più umano non sembra irraggiungibile, dato che è sotto gli occhi di tutti che quello abituale vada assai per le spicce, e dunque sia facilmente perfettibile, è il punto del business sociale a incuriosire di più. Anche senza prendere la posizione estremistica di un altro premio nobel, Milton Friedman, che ne negava in toto la possibilità, spiegando che l’unica responsabilità sociale di una impresa capitalistica è quella di massimizzare il profitto per gli azionisti, la possibilità che una società scelga di fare profitti fino a un certo punto e di lì in poi distribuisca in beneficenza il resto, lascia molti, molto perplessi. I motivi elencati da Yunus sono richiami morali abituali. Il solito Friedman ne capovolgeva però i termini, sostenendo che è morale dare il più possibile agli azionisti, immorale sottrargli qualcosa, a meno che non sia una forma di pubblicità e quindi ancora una – appropriata o meno, aperta o meno – strategia industriale.
Yunus nel nuovo libro affronta la questione offrendo alcuni esempi di associazione tra alcune grandi imprese multinazionali e la sua Grameen bank: Danone, Veolia, Intel, Basf, Adidas. Nomi onorati, nelle borse mondiali. Il banchiere dei poveri è talmente sicuro di quanto il suo obiettivo sia giusto e importante che non è sfiorato dal dubbio di una strumentalizzazione, o forse la considera come un inevitabile e trascurabile aspetto. A Danone e Veolia sono dedicati il secondo e il sesto capitolo del libro e si può quindi riferirne qualcosa di più. L’accordo con Danone è l’avvenimento al centro di un libro precedente (“Un mondo senza povertà”, Feltrinelli 2009) e qui si descrive il seguito, l’alternarsi di successi industriali e di crisi. “La Grameen Danone è nata da un incontro fra me e Franck Riboud, presidente e amministratore delegato del gruppo Danone. Sono stato io, nel corso di un pranzo di lavoro a Parigi, a proporre a monsieur Riboud : ‘Perché non fondiamo un’impresa con finalità sociali, una Grameen Danone in Bangladesh?’”(pag. 65-66). Il tentativo industriale mette insieme un piccolo stabilimento, una distribuzione di vasetti di yogurt per bambini malnutriti, affidata in parte a donne povere. Poi aumenta il prezzo internazionale del latte: che fare? Se il prodotto costa di più, è rifiutato; se non si aumenta il prezzo, Danone chiude la mini fabbrica. La soluzione è di ridurre da 80 a 70 cl il contenuto del vasetto e di concentrarvi ugualmente i principi salutari attivi in esso contenuti…
Nell’altro caso, a proporre l’alleanza con Grameen per la vendita di acqua potabile in Bangladesh è invece il capo di Veolia, il nuovo nome di una compagnia delle acque (Générale des Eaux, poi Vivendi) potente nel mondo e considerata anche un temibile avversario da tutti i sostenitori dell’acqua bene comune. All’inizio Yunus si tirò indietro – era contrario all’acqua in bottiglia – poi sparò una richiesta di un taka per 10 litri che ammutolì il capo di Veolia (Un taka vale un centesimo di euro). Ben presto questi rifece i conti e la joint venture ebbe inizio, al prezzo stabilito di un euro per mille litri di acqua. Il problema da risolvere era quello dell’arsenico presente nell’acqua attinta da una popolazione di 100.000 individui. Non era il caso di dare loro acqua in bottiglia, troppo costosa. Un semplice impianto di purificazione di Veolia Water per l’acqua di superficie, metteva in sicurezza un quantitativo sufficiente per bere e per cucinare, trascurando l’igiene personale e le fognature. Il quantitativo necessario era perciò di ridotta entità e a conti fatti poco costoso, con un benefico effetto d’immagine su Veolia Water, compagnia capace di risolvere i problemi, e sui suoi vantaggiosi contratti nei cinque continenti. E così fu.
Yunus ammette volentieri che accordandosi con Grameen le multinazionali ricaveranno dei vantaggi, ma ne seguirà anche un effetto benefico per i poveri. La sua morale pratica è riassunta in un passo del libro: “Quando gli uomini d’affari mi chiedono quali profitti possano ricavare offrendo servizi ai poveri di tutto il mondo, mi piace qualche volta rispondere: ‘io non voglio fare polemiche sulla ricerca del profitto, ma prima di pensare al profitto, cerchiamo di dare al povero l’aiuto che gli serve per sollevarsi dalla sua condizione. Una volta che sarà entrato nella classe media, allora potrete cercare di vendergli, con la mia benedizione (!?!), tutte le merci e i servizi di cui sarete capaci e potete lucrare un bel profitto sull’operazione! Ma aspettate che possa dire di non essere più povero prima di cominciare a sfruttarlo. Questa mi sembra l’unica regola da seguire’”.(pag 45-46)
Muhammad Yunus “Si può fare!” Serie bianca Feltrinelli, settembre 2010, pag. 253 16 euro
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Quando-il-microcredito-incontra-le-corporation-6595
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America senza alleati nella guerra delle valute. La politica Usa ultra-espansiva irrita Europa e Asia 14.10.2010
di Carlo Bastasin
Nessuno è tornato a casa più tranquillo dopo gli incontri di Washington del Fondo monetario. I tentativi di coordinamento internazionale sono finiti male. Ci sono due modi di vedere la dinamica dei negoziati: una è quella di chi si aspetta impegni forti e ben coordinati da parte dei governi, l’altra è quella di chi ritiene che i disaccordi siano accettabili se possono essere risolti dal normale funzionamento dei mercati.
Se una caduta graduale del dollaro o un aumento dell’inflazione cinese compensassero automaticamente gli squilibri tra i paesi in surplus e quelli in deficit, non sarebbe necessario che i primi fossero entusiasti di perdere la propria posizione di forza e lo annunciassero al mondo dalla tribuna di Washington. Il problema è che nessuna delle due condizioni – politica o finanziaria – è al posto in cui dovrebbe essere.
La mancanza di coordinamento colpisce perché la risposta iniziale alla crisi del 2008-2009 era stata molto positiva. Nell’ottobre 2008 le banche centrali coordinarono un ribasso dei tassi d’interesse, i governi concordarono le misure di garanzia dei depositi bancari e aprirono l’accesso alla liquidità delle loro banche. In seguito il Fondo monetario fu dotato di maggiori risorse e l’impegno a evitare pratiche protezionistiche fu rispettato. Infine fu istituito un forum di riforma della regolazione finanziaria che sta trasformando in buona misura il sistema bancario mondiale. Il G-20 di Londra nell’aprile 2009 sancì una risposta compatta da parte di Usa e Ue.
Dal 2010 invece gli accordi si sono allentati e il “processo di valutazione comune” è andato a farsi benedire. A giugno il G-20 di Toronto ha visto aprirsi le divergenze sulla politica fiscale tra i due lati dell’Atlantico con la richiesta degli Stati Uniti di maggiore stimolo europeo. L’Europa ha respinto queste richieste potendo dimostrare che la ripresa dell’economia nella prima metà dell’anno era energica. L’amministrazione americana si è trovata invece con l’economia in rallentamento.
L’economia americana si era ripresa dalla crisi prima di quella europea, ma la sostenibilità della ripresa è ora in serio dubbio. L’incomprensione tra Usa ed Europa potrebbe quindi dipendere dalla divergenza nei cicli congiunturali e dalla scadenza elettorale americana che impone al presidente Obama di dimostrare agli elettori qualche segno di recupero dei dati di disoccupazione.
Esistono tuttavia altre spiegazioni più strutturali sulla divergenza di valutazione. La prima è, come sottolineano Adam Posen e Jean Pisani-Ferry, che il livello della domanda dipende dal grado di riduzione dei debiti che famiglie e imprese sono impegnate a realizzare. E non c’è dubbio che tra il 2007 e il 2009 le famiglie americane abbiano tagliato il debito del 4,18%, mentre quelle dell’area euro abbiano avuto margini per aumentarlo del 2,43%.
La seconda è più di natura politica. Gli americani continuano a considerare la crisi come un fenomeno ciclico, che quindi può essere contrastato con spesa pubblica, riduzione delle tasse o stimoli monetari. Gli europei ritengono che la loro crisi sia stata strutturale, che abbia ridotto cioè il reddito potenziale e che quindi vada contrastata con riforme nell’impiego del capitale e del lavoro. Le crisi passate testimoniano perdite permanenti del reddito, ma probabilmente Usa ed Ue esagerano nell’unilateralismo delle loro interpretazioni.
Infine esistono ragioni istituzionali che motivano la differenza tra i due lati dell’Atlantico: in Europa non esiste un vero bilancio federale. In America è in atto invece una durissima competizione politica federale che si basa sui risultati economici dell’intero paese. Al tempo stesso l’elettorato americano reagisce più di quello europeo al calo dell’occupazione che assume aspetti più drammatici in assenza di un sistema sviluppato di welfare.
Il problema è che Usa e Ue non hanno molte possibilità di mettersi d’accordo. Purtroppo le condizioni dell’economia globale sono tutt’altro che normali e decisioni unilaterali possono portare conseguenze indesiderate su scala globale. È questo il caso della decisione americana di procedere unilateralmente con una politica monetaria molto aggressiva.
L’acquisto con moneta di titoli di lungo termine per abbassare i tassi anche sulle scadenze più lunghe ha rappresentato un cambio nei rapporti non solo atlantici. Acquistando titoli la Fed intende alleggerire sia i mutui delle famiglie, sia le decisioni di investimento e di assunzione di lavoratori delle imprese, ma i dati sembrano indicare che il credito in America non arriva a imprese e famiglie (a differenza di quanto avviene in Europa). Per ora le banche americane lo reinvestono in attività finanziarie e spesso all’estero. In tal modo l’aumento di offerta di dollari aumenta l’afflusso di capitali nei paesi emergenti, abbassa il valore della moneta americana e sottrae domanda ai partner con cui l’America commercia.
La risposta è venuta dalla Cina e da paesi come Brasile e India. Questi ultimi a Washington hanno lamentato l’afflusso di dollari che li costringe ad alzare i tassi per contenere l’inflazione. Il ministro brasiliano Guido Mantega ha parlato di guerra valutaria. Scenari di svalutazioni competitive e di risposte protezioniste non possono essere esclusi. L’esito delle riunioni del Fondo monetario non è incoraggiante ed è improbabile che un mese di tempo sia sufficiente a trovare un accordo al G-20 di Seul.
L’incapacità di trovare un accordo fotografa una condizione di debolezza degli Stati Uniti. La credibilità americana è stata danneggiata dalla crisi finanziaria e ora non sta migliorando a causa delle decisioni unilaterali di politica economica. L’Amministrazione si è presentata indebolita dalle difficili prospettive elettorali al voto di mid-term e con un pacchetto di negoziatori economici meno accreditato del solito, essendo usciti, o in uscita, tutte le figure chiave tranne il segretario al Tesoro Tim Geithner e il presidente della Fed Ben Bernanke. Il tono intransigente delle risposte cinesi agli appelli americani sono la misura di una situazione nuova in cui gli americani, privatisi anche del sostegno europeo, rischiano di figurare più isolati.
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Prendendo la Fiom sul serio 15.10.2010
Riccardo Realfonzo
In pochi dubitano che il modello delle relazioni industriali del nostro Paese sia in crisi. Il punto è come uscirne, se spingendo ancora sulle leve della decentralizzazione contrattuale e della flessibilità, come chiedono la Fiat e l’intera Confindustria, ovvero se conservando il peso del contratto nazionale e irrobustendo le tutele del mondo del lavoro, come vorrebbero la Cgil e in particolare la Fiom che, a questo proposito, ha indetto la manifestazione nazionale del 16 ottobre.
Le ragioni dei sostenitori della decentralizzazione e della flessibilità vertono sulle esigenze di competitività del sistema produttivo nazionale. La tesi di fondo è che se le istituzioni del mercato del lavoro non si metteranno al passo con le trasformazioni dell’economia globalizzata, la dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto delle imprese italiane si appesantirà ulteriormente rispetto ai competitor stranieri. Con effetti deleteri, tanto sugli equilibri della bilancia commerciale quanto sui livelli di occupazione. Si tratta di argomentazioni note, che godono di sostegno nella letteratura internazionale, e che hanno ispirato in Italia e in genere nei paesi industrializzati le politiche del lavoro, negli ultimi due decenni almeno.
Tuttavia, sarebbe auspicabile che i responsabili della politica economica e la stessa Confindustria provassero a guardare al di là delle tensioni sviluppatesi in questi mesi, e a prendere sul serio le tesi della Fiom e degli altri sostenitori del contratto nazionale e delle tutele.
Una prima serie di argomentazioni di questi ultimi concerne il nesso tra flessibilità e produttività del lavoro. A riguardo, l’unica certezza di cui disponiamo è che la crescita della produttività del lavoro in Italia è andata molto al rilento rispetto ai nostri principali concorrenti[1]. Sulle motivazioni di ciò possono essere avanzate tesi diverse. Incluse quelle che tendono a spiegare la piatta dinamica della produttività italiana con fattori quali la bassa dimensione media delle imprese, il volume contenuto degli investimenti in nuove tecnologie, il ridotto grado di infrastrutturazione del territorio[2]. E se la bassa produttività delle nostre imprese dipendesse effettivamente da questi fattori, agire sulla contrattazione non costituirebbe certo la via maestra per risolvere il problema. Piuttosto, occorrerebbe evocare nuove e incisive politiche industriali.
A queste argomentazioni i sostenitori della decentralizzazione contrattuale e della flessibilità replicano osservando che una revisione dei meccanismi della contrattazione salariale potrebbe contribuire a legare maggiormente la dinamica dei salari alla produttività, e quindi per questa via a salvaguardare la competitività. Tuttavia, sugli effetti benefici della flessibilità sono state avanzate a più riprese numerose perplessità. E a riguardo è opportuno sviluppare alcune considerazioni di ampio respiro.
Per cominciare, occorre osservare che l’aumento della flessibilità, e in generale la deregolamentazione del mercato del lavoro, abbattono gli indici di protezione del lavoro[3]. Ed è bene chiarire che le ricerche a disposizione tendono a negare l’esistenza di una relazione significativa tra la contrazione degli indici di protezione del lavoro e l’occupazione[4]. In breve, non abbiamo prova che la sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro registrata negli ultimi lustri in Italia e in Europa abbia avuto successo nell’incrementare i livelli di attività dell’economia e dunque anche l’occupazione.
Viceversa, sembra emergere una correlazione tra la contrazione degli indici di protezione del lavoro e l’andamento dei salari reali. Più precisamente, stando ad alcuni studi, le politiche di flessibilità e deregolamentazione del mercato del lavoro spiegherebbero in buona misura la drastica caduta della quota dei salari sul prodotto interno lordo registrata negli ultimi decenni in Italia e in Europa (in media poco meno di dieci punti percentuali negli ultimi trenta anni)[5]. Una tesi questa che è stata recentemente confermata persino dal Fondo Monetario Internazionale (IMF) nel documento The Challenges of Growth, Employment and Social Cohesion, presentato a metà settembre ad Oslo, insieme all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). Infatti, nel documento la caduta della quota dei salari reali viene spiegata con le “pressioni della globalizzazione”, che avrebbero “incrementato la vulnerabilità dei lavoratori attraverso aumenti dell’intensità del lavoro, la diffusione di contratti più flessibili, la diminuzione delle protezioni sociali e un declino del potere contrattuale dei lavoratori”[6].
Molto più che sulla occupazione, la caduta degli indici di protezione del lavoro avrebbe dunque influito sulla quota dei salari nel Pil. E ciò, secondo una parte della letteratura scientifica contemporanea, costituisce un fattore recessivo non trascurabile. Ad esempio, la recente “Lettera degli economisti” contro le politiche restrittive in Europa, sottoscritta da oltre 250 studiosi, ha avanzato l’ipotesi che uno dei fattori di fondo della crisi – al di là delle variabili strettamente congiunturali – potrebbe essere la tendenza di lungo periodo alla contrazione della quota dei salari sul Pil. Da questo fattore, infatti, viene fatta dipendere la scarsa dinamica della domanda complessiva di merci e servizi che, nell’insieme delle economie industrializzate, non avrebbe retto il ritmo di crescita dell’offerta potenziale delle imprese.
È ben noto che la letteratura tradizionale ha sempre sostenuto la tesi opposta, e cioè che il contenimento dei salari favorisca la crescita della produzione e dell’occupazione. Ancora una volta, la questione è molto controversa. La letteratura scientifica ha tentato di dipanare la matassa e una serie di ricerche si sono cimentate nello stimare l’impatto della riduzione della quota dei salari nel reddito nazionale su tutte le componenti della domanda aggregata, per i diversi paesi. Viene fuori che quando la quota dei salari si riduce, la domanda di beni di consumo si comprime, mentre in senso opposto tendono a muoversi soprattutto le esportazioni, a seguito degli effetti favorevoli che la “moderazione” salariale può avere sulla competitività. In generale, tuttavia, non senza risultati contrastanti, questi studi lasciano ben pochi spazi di ragione alla tesi tradizionale, e piuttosto tendono ad confermare l’idea che la riduzione della quota salariale effettivamente abbatta la domanda aggregata, con ripercussioni negative sui livelli di produzione e occupazione[7].
Il numero di coloro che pensano che la flessibilità e la deregolamentazione abbiano generato un ruolo recessivo si allarga sempre più, anche al livello internazionale. Nello studio del FMI e dell’ILO già citato, ad esempio, si legge che la crisi in atto è conseguenza dell’“ampiezza della caduta della domanda aggregata”. E questa, a sua volta, viene fatta dipendere “dalla diminuzione della quota dei salari nel reddito nazionale”, considerata una delle “cause delle crisi passate e presenti”[8]. Certo, le ricerche non mettono a disposizione risultati definitivi, e ulteriori verifiche sono in corso con riferimento all’Italia e all’UE. Ma c’è evidentemente tanta materia per guardare con scetticismo a ulteriori iniezioni di flessibilità nel mercato del lavoro e decidersi a prendere sul serio le ragioni dei critici.
[1] Fatta pari a 100 la produttività del lavoro di ciascun paese nel 2000, il valore dell’Italia nel 2009 si è addirittura ridotto a 98,3. Per contro, la produttività degli altri paesi cresce: l’UE a 12 paesi è a 107,7; la Francia a 107,8; la Germania a 108; gli Stati Uniti addirittura a 120,3 (dati OCSE).
[2] Alcuni di questi aspetti vengono ad esempio sostenuti nel contributo di E. Saltari e G. Travaglini, “Il rallentamento della produttività del lavoro e la crescita dell’occupazione. Il ruolo del progresso tecnologico e della flessibilità del lavoro”, in Rivista italiana degli economisti (2008, n.1).
[3] L’indice del grado di protezione dei lavoratori, l’EPL (Employment Protection Legislation), viene calcolato dall’OCSE. L’indicatore misura la rigidità della regolamentazione sui licenziamenti e l’utilizzo di contratti di lavoro non a tempo indeterminato. L’EPL registra una caduta molto forte per l’Italia. Infatti, il valore dell’indice è passato dal 3,57 registrato nel 1990, all’1,89 del 2008. Ciò significa che la legislazione ha reso ben più flessibile il mercato del lavoro. Mentre più orientate alla rigidità sono le legislazioni di paesi come la Germania e la Francia, dove si registrano valori dell’indicatore EPL più alti: 2,12 in Germania e 3,05 in Francia.
[4] Per una critica di carattere generale agli effetti positivi della flessibilità del mercato del lavoro rinvio al libro L’economia della precarietà, a cura di Paolo Leon e mia (manifestolibri 2008). Tra gli altri, il contributo di E. Brancaccio mostra l’assenza di una significativa correlazione tra la riduzione dell’indice EPL e l’occupazione.
[5] La quota dei salari sul Pil si è ridotta drasticamente in Italia. Dopo il picco, registrato nei primi anni ’70, allorché il salari si “appropriavano” di quasi il 74% del Pil, nel 2009 il valore è sceso al 63,9%. Un valore più basso della media dei paesi dell’UE a 12 ( 64,9%), ed anche inferiore a quelli registrati in Germania(64,3%), Francia (66,4%) e Gran Bretagna (71,7%). I dati sono tratti dal database AMECO della Commissione Europea.
[6] La frase è alla pagina 7 dell’ampio documento dell’ILO e dell’IMF.
[7] Tra i lavori più significativi vi è quello di E. Stockhammer, O. Onaran e S. Ederer del 2009 (“Functional income distribution and aggregate demand in the Euro area”, Cambridge Journal of Economics). Nel saggio gli autori arrivano alla conclusione che, tenuto anche conto dei possibili effetti positivi sulle esportazioni, la caduta della wage share (la quota dei salari sul Pil) determina una forte caduta della domanda di beni di consumo e dunque una contrazione della domanda aggregata e del Pil. Per queste ragioni, essi aggiungono, la “moderazione salariale” non è “amica dell’occupazione” (p. 155) e l’area euro avrebbe le caratteristiche di un’area wage-led (e non profit-led), nella quale cioè la crescita sarebbe assicurata dall’incremento della quota dei salari sul Pil. A risultati simili, con una metodologia diversa, erano arrivati anche E. Hein e T. Schulten nel 2004 (“Unemployment, Wages and Collective Bargaining in the European Union”, WSI-Discussion Paper n. 128). Di rilievo anche i risultati di E. Hein e L. Vogel del 2008 (“Distribution and growth reconsidered: empirical results for six OECD countries”, Cambridge Journal of Economics) per i quali la natura wage-led o profit-led di un Paese viene a dipendere dal grado di apertura ai rapporti con l’estero (misurata dalla somma delle esportazioni più le importazioni in rapporto al Pil). Paesi come la Germania, la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti avrebbero le caratteristiche di paesi wage-led; mentre solo paesi di piccole dimensioni, e per ciò particolarmente aperti agli scambi con l’estero, potrebbero beneficiare dal calo della quota dei salari sul pil (profit-led). Solo in questi casi, infatti, l’impatto negativo sui consumi potrebbe essere più che compensato da quello espansivo sulle esportazioni.
[8] Le frasi citate sono a pagina 8 del documento congiunto ILO-IMF.
http://www.economiaepolitica.it/index.php/distribuzione-e-poverta/prendendo-la-fiom-sul-serio/
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I nuovi ricchi cinesi all’assalto di Picasso 14.10.2010
Investitori e collezionisti cinesi non nascondono il crescente interesse per l’arte occidentale. Lo dimostra il buon successo di una serie di aste da Sotheby’s ad Hong Kong dove il protagonista, manco a dirlo, è stato Pablo Picasso.
La città della Cina meridionale negli ultimi anni è diventata il terzo più grande centro del mondo per vendite all’asta dopo New York e Londra. I nuovi ricchi cinesi comprano quadri, sculture, gioielli e vini.
Ultimo ad essere stati battuto è un quadro di Picasso del 1965 Le Modele dans l’Atelier, che ha realizzato 1,5 milioni di euro. Nella prossima vendita, dal 26 al 28 novembre, ci saranno sette quadri di Picasso appartenenti a diverse fasi della sua carriera, compreso periodo blu, cubismo, neoclassicismo e gli ultimi dipinti espressionisti.
Uno dei pezzi chiave della vendita è il ritratto di Dora Maar (nella foto), chiamato Jeune Fille aux Cheveux Noirs, del 1939, ma ci saranno anche Monet, Renoir, Chagall e Degas.
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SBARCA A LECCE IL BAZAR DEL DONO
Aprirà a Ottobre un “Luogo Comune” dove dare e prendere in libertà
L’associazione di educatori ambientali “Il Formicaio”, darà vita a Lecce, da metà Ottobre, al progetto “Luogo Comune”, finanziato dall’Agenzia Nazionale Giovani, nell’ambito del programma europeo “Youth in Action”.
Il “Luogo Comune” sarà uno spazio di incontro, informazione, autoformazione per chi vorrà attivarsi in un circuito di iniziative basate su ecosostenibilità, decrescita, autoproduzione, cultura del dono, equità sociale e bene comune. Fra le varie attività in programma: laboratori e corsi a tematica ambientale e bazar del dono. In particolare, nel locale sito in via Adua 32 (alle spalle del Liceo classico Palmieri), chiunque potrà donare l’oggetto che non usa o gli è di troppo, semplicemente portandolo e curandone la sistemazione sugli scaffali. Allo stesso modo, in forma libera e gratuita, potrà prendere ciò di cui ha bisogno o che semplicemente gli piace. Non sarà necessario donare un oggetto per prenderne un altro, né viceversa, perché principale obiettivo è la ridistribuzione, il riutilizzo degli oggetti e, in definitiva, la riduzione dei rifiuti. Ci si propone inoltre di riattivare quel circuito di “scambio dei saperi” tra le persone, di tipo orizzontale e reciproco, l’unico in grado in grado di affermare e diffondere la cultura e la felicità collettiva.
Umberto Cataldo
Referente dell’Associazione “Il Formicaio”
Indirizzo:
cell.: +3934882…..
e-mail: ilformicaio.lecce@gmail.com
Pervenuto via email il 15.10.2010 per decrescita@liste.decrescita.it
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Microorganismi per migliorare la benzina 10.2010
Sviluppare strumenti efficienti ed economicamente efficaci per la produzione di bioetanolo da biomassa lignocellulosica. È questo l’obiettivo del progetto europeo DISCO, condotto da un team di ricerca composto da esperti provenienti da istituti di ricerca, università e industria, che sta cercando i microorganismi che potrebbero degradare la lignocellulosa, miscela complessa di lignina e cellulosa che rende più forti e quindi durevoli le cellule delle piante legnose.
Il progetto DISCO (Targeted DISCOvery of novel cellulases and hemicellulases and their reaction mechanism for hydrolysis of lignocellulosic biomass) è stato lanciato nel 2008 sotto la guida del Centro di ricerca tecnologica (VTT) finlandese, cui sono stati affidati quasi 3 milioni di euro di sostegno grazie ad un finanziamento del Settimo programma quadro dell’UE (7° PQ), per consentire la ricerca di nuovi modi di convertire materiali rinnovabili in biocarburanti.
I ricercatori di DISCO stanno producendo bioetanolo da varie fonti tra cui la crusca di scarto della molitura, la paglia del grano prodotta dall’agricoltura e i trucioli di abete rosso dall’industria della carta. E sperano di sviluppare strumenti enzimatici cellulasici ed emicellulasici migliori e meno costosi per un’ottimale idrolisi della biomassa lignocellulosica pretrattata nelle condizioni di saccarificazione e fermentazione (SSF) per la produzione di bioetanolo. Vale a dire che il team determinerà quali microorganismi sono in grado di scomporre meglio i resistenti materiali lignocellulosici.
La lignocellulosa è un complesso di polimeri di carboidrati (cellulosa per circa 45% del peso secco, emicellulosa per il 30% del peso secco e lignina per il restante 25% circa) ed è componente importante di una vasta gamma di materiali, tra cui rifiuti solidi urbani e materiali di scarto dell’agricoltura, della silvicoltura, delle industrie del legno, tanto da ricoprire circa il 50% della biomassa mondiale (qualche decina di miliardi di tonnellate). Abbondanza che rappresenta, quindi, una buona opzione per la conversione in bioetanolo. Il suo sfruttamento è, però, impegnativo a causa della natura della sua struttura densamente compatta e complessa, che deve essere suddivisa in molecole di zucchero molto più semplici che consentono la fermentazione in bioetanolo.
Il progetto DISCO mira proprio a trovare nuovi enzimi in grado di attivare una fermentazione più efficiente di quella attuale. La sinergia di enzimi che lavorano assieme e la loro riciclabilità contribuirà ad aumentare ulteriormente l’efficienza del processo.
I partner di DISCO stanno ora lavorando su diverse librerie di microorganismi (raccolte ospitate da istituti scientifici nelle quali si conservano i caratteri genetici), una delle quali si trova presso la Budapest University of Technology and Economics (BUTE) in Ungheria, comprendente oltre 4000 diversi microorganismi raccolti da varie fonti, che stanno aiutando il team a identificare candidati più “promettenti”.
“Stiamo osservando la natura per trovare risposte al problema di produrre efficacemente biocarburanti di prossima generazione da fonti rinnovabili, in questo caso da abbondanti materiali di scarto prodotti da agricoltura e industria – spiega Kristina Kruus del VTT – e la risposta potrebbe letteralmente trovarsi per terra, in un microorganismo ancora sconosciuto e non caratterizzato”.
Fonte: www.disco-project.eu
http://www.scienzaegoverno.org/n/089/089_01.htm
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Umberto Veronesi presidente dell’Agenzia per la sicurezza nucleare 15.10.2010
Veronesi sì, Veronesi no. Alla fine sciolte le riserve, l’oncologo ha deciso di accettare l’incarico e di assumere il ruolo di Presidente dell’Agenzia nazionale per la sicurezza nucleare.
Di fatto da oggi si apre il ritorno del nucleare in Italia. Spiega Veronesi che il nucleare non fa paura e dice:
Chi ha studiato sa benissimo che il disastro di Chernobyl è stato provocato dalla follia di un direttore che ha voluto fare un esperimento. E per farlo ha tolto almeno 12 livelli di sicurezza. È stata una follia umana che non si ripeterà. Sono sicuro che non c’è alcun rischio.
Ha espresso soddisfazione anche Stefania Prestigiacomo, ministro per l’Ambiente.
Gli unici che hanno alzato una voce contro sono quelli del Pd, ma per una questione puramente formale. Dichiarano:
Non possiamo che augurare buon lavoro a Veronesi e attendere che si dimetta quanto prima da parlamentare, come del resto nei mesi scorsi egli stesso aveva detto di voler fare.
Dopo il salto la lettera scritta da Milena Gabanelli al direttore del Corriere della Sera, lo scorso 26 luglio in cui esprime notevoli perplessità circa la nomina politica e non tecnica del prof. Veronesi.
Caro direttore, premetto che non ho interesse per le preferenze politiche del Prof. Veronesi; è un oncologo di fama e mi aspetto che faccia tutto quello che può per curare il cancro. Da un paio d’anni è anche senatore, carica che ha accettato a patto che non gli porti via tempo per i suoi pazienti. Intento nobile verso i pazienti, meno verso i cittadini che, pagando un lauto stipendio ai senatori, si aspettano che dedichino le loro energie alla gestione politica del Paese.
Ora è stato proposto il suo nome come Presidente dell’Agenzia per la Sicurezza del Nucleare, nomina che accetterebbe volentieri, di nuovo a condizione che non sottragga tempo ai suoi pazienti. Ovvero, bisognerebbe adattare le necessità di un’agenzia così delicata e fondamentale agli impegni del candidato presidente. Intanto venerdì scorso in Senato è stato approvato un decreto che gli consentirebbe, se volesse, di andare in deroga alla legge che vieta a chi ha incarichi politici di presiedere un’authority.
Riguardo invece alla sua competenza in materia, scrive: Sono un appassionato di fisica, non a caso ho ricevuto la laurea honoris causa. Nuclearista convinto, cita la Francia come modello di qualità di vita per noi italiani. Partendo dal presupposto che l’agenzia non sia un bluff ma qualcosa di straordinariamente serio, non è affatto rassicurante l’idea che venga diretta (nei ritagli di tempo) per 7 anni, da un uomo che oggi ne ha 85, anche se è il più bravo oncologo del pianeta.
Presiedere l’agenzia per il nucleare vuol dire affrontare problemi di carattere tecnico, elaborare i regolamenti insieme ai commissari, dare il parere sui progetti, verificare il rispetto delle regole e prescrizioni a cui sono sottomesse le installazioni. Un lavoro certamente a tempo pieno, meglio se subordinato a una competenza specifica, più che a una passione.
Siccome il Prof. Veronesi cita il modello francese, saprà che la loro agenzia (ASN) è diretta da Jean Christophe Niel, 49 anni (laureato in fisica teorica che ha ricoperto incarichi di vertice nel controllo sul ciclo del combustibile e dei rifiuti, ed è stato per anni capo del dipartimento per la sicurezza dei materiali radioattivi). Il presidente è Andrè-Claude Lacoste, 69 anni, ingegnere, da 17 anni con incarichi direttivi nel settore sicurezza nucleare.
Il Prof. Veronesi ha poi espresso un’opinione sul fattore rischio (oggi calcolato quasi vicino allo zero), che sembra non tener conto dei cosiddetti piccoli incidenti quotidiani, riportati da tutte le Agenzie, che si verificano proprio in Francia; per non parlare delle basse emissioni permanenti degli impianti, come dimostra lo studio del Prof. Hoffman ordinato dalla Cancelliera Merkel.
Parlare invece di nucleare come l’alternativa più valida al petrolio è solo suggestivo, poiché il petrolio serve soprattutto a far muovere le macchine e solo in minima parte ad alimentare le centrali elettriche. Infatti in Francia, Paese più nuclearizzato d’Europa, il consumo procapite di petrolio è più alto rispetto a quello italiano. Succede di essere approssimativi quando ci si occupa di troppe cose.
Milena Gabanelli
Via | Il Post
Foto | Napoli punto e a capo
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Edgar Morin: filosofia eretica ed etica della comprensione 08.10.2010
Che cosa significa “pensiero complesso”? Perchè il paradigma della “complessità” è comparso solo di recente, cosa significa e quali sono i suoi rapporti la società contemporanea?
Sottolineo il valore dell’articolo di Nicola Giusto, dedicato a E. Morin, alla sua filosofia e all’etica della comprensione che l’autore francese sostiene e approfondisce. In polemica con le più conosciute analisi di Debord e Baudrillard, Morin ha ben valorizzato la natura critica, e non puramente conformista, della cultura di massa, se compresa fino in fondo e adeguatamente rielaborata. La cultura di massa non sarebbe così in rottura con la cultura classica, come comunemente si ripete. A queste prime interpretazioni, Giusto ricollega l’approfondimento delle istanze progettuali contenute nei molti saggi pubblicati da Morin: in essi si può rinvenire una genuina profezia, un tentativo di riprendere il controllo del nostro futuro, riconquistandolo, e non abbandonandosi ad esso. Nella parte conclusiva del suo scritto, Nicola Giusto, in concordia discorde con Morin, approfondisce il tema della complessità, nei suoi contenuti filosofici più profondi, ma anche nelle prospettive pedagogiche di straordinaria attualità. È in gioco la necessaria riforma del pensiero, una riforma che non può essere rinviata, giacché il futuro del mondo non esige una mente zeppa di nozioni, bensì “vitalmente impostata”. È di eccezionale interesse che simili contributi fioriscano dall’Università, nel momento in cui l’Università ricerca una sua nuova progettazione, oltre le resistenze e le inerzie del passato, e diviene una specie di grande laboratorio corale, un laboratorio di insegnamento e apprendimento secondo nuove chiavi, ma anche un grandioso laboratorio di progettazione del futuro dell’umanità intera.
prof. Giuseppe Goisis
Ca’ Foscari (Ve)
abstract. In questo articolo, mostro come l’opera L’esprit du temps. Essai sur la culture de masse contenga già implicitamente i presupposti dell’intero itinerario speculativo del pensatore francese che partendo dalla teoria sociale si muove verso l’ontologia prima, l’etica e la pedagogia poi. In particolare, cosa significa pensiero complesso? Perché il paradigma della complessità è comparso solo recentemente? Quale relazione intrattiene con la società contemporanea? Insieme alla lettura del saggio, vi invito alla discussione.
Leggi qui:
http://www.scribd.com/doc/38986289/Edgar-Morin-filosofia-eretica-ed-etica-della-comprensione
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La guerra afgana è finita
Stefano Rizzo, 15.10.2010
Finalmente, dopo doppi e tripli giochi da parte di tutti – talebani, americani, governativi afgani, contingenti stranieri – è arrivata l’altro ieri la notizia ufficiale: il comando americano a Kabul ha annunciato di avere consentito l’arrivo nella capitale di “alti dirigenti talebani” per dare inizio alle trattative di pace
Si è spesso detto che la guerra in Afghanistan è come una seconda edizione della guerra del Vietnam. Lo è per chi vi si oppone perché ha sempre considerato futile (oltre che moralmente sbagliato) cercare di fermare una insurrezione – nella migliore delle ipotesi una guerra civile – in un paese lontano da cui prima o poi bisognerà andarsene e “il nemico” avrà a quel punto il campo libero. Lo è per chi, al contrario, la vuole combattere – i generali americani – perché così sperano di dimostrare che le loro forze armate non solo possono vincere qualunque conflitto convenzionale, ma anche una guerra di insurrezione: una sorta di secondo appello o di rivincita sul Vietnam.
Le due guerre hanno seguito lo stesso percorso. Sono passate attraverso le stesse illusioni e gli stessi fallimenti e hanno conosciuto entrambe la discesa agli inferi della tortura, del sadismo, delle uccisioni senza scopo. Iniziate entrambe per motivi ideologici (quella del Vietnam contro il comunismo, quella afgana contro il terrorismo) e non di difesa, all’inizio sono state combattute in sordina con mezzi e uomini insufficienti pensando di poter vincere rapidamente con la superiorità tecnologica e la superiore “professionalità” militare (cosa potevano fare quei contadini vietnamiti e quei talebani analfabeti contro le truppe corazzate, l’aviazione e i marines superaddestrati?). E invece per entrambe, dopo quasi un decennio di combattimenti non si è visto nessun risultato apprezzabile, anzi. “Il nemico” è rimasto al suo posto, è cresciuto, si è fatto sempre più aggressivo, in grado di controllare aree sempre maggiori del territorio che, nei piani degli strateghi militari, dovevano essere stabilizzate già molti anni fa.
Anche se il numero dei morti nella guerra del Vietnam fu enormemente superiore, le due guerre hanno in comune la brutalità e l’assenza di regole: i civili sono un obbiettivo non meno degli armati. In Afghanistan non è ancora spuntano un tenente Calley (il massacratore di Mi Lay), ma ci sono numerosi sergenti Gibbs (adesso sotto corte marziale negli Stati Uniti) che si divertono ad ammazzare la gente disarmata e poi dichiarano che erano dei combattenti. Nel Vietnam erano i bombardamenti a tappeto e la distruzione dei villaggi con i loro abitanti (“per salvarli dal nemico”); in Afghanistan sono i “danni collaterali”, per i quali si chiede scusa, ma non sempre: i passanti ai posti di blocco, le donne e i bambini obliterati in una casa per colpire un “dirigente” talebano. La quantità è diversa — in Vietnam alla fine i morti furono milioni, in Afghanistan saranno “solo” nell’ordine delle centinaia di migliaia — ma la qualità è la stessa.
Da qualche tempo un altro elemento ha avvicinato le due guerre. I bombardamenti, non per scopi di guerra, ma per scopi di “pace”. Bombardare e trattare, bombardare per trattare. Negli ultimi mesi i bombardamenti con missili, aerei e drones senza pilota sono più che raddoppiati. Si colpiscono duramente (o almeno si pensa di colpire duramente) i concentramenti di talebani per piegarli alla trattativa. Come in Vietnam con i terribili bombardamenti del natale 1972 voluti da Nixon (e ideati da Kissinger) per piegare i vietnamiti al tavolo dei negoziati. Allora, come adesso, l’obbiettivo dichiarato era la “pace con onore”, vale a dire porre fine alla guerra senza perdere troppo la faccia, senza ammettere di essere sconfitti. Per questo obbiettivo, a guerra ormai di fatto finita, perché giudicata non più vincibile, furono sacrificati nei mesi che durarono ancora i negoziati di pace decine di migliaia di vietnamiti e migliaia di soldati americani.
Oggi per l’Afghanistan nessuno parla di pace con onore; adesso si chiama stabilizzazione o “exit strategy”, ma la sostanza è la stessa. Già da tempo Hamid Karzai parlava della necessità di una “riconciliazione” con i talebani e aveva anche offerto loro di entrare nel suo governo (del resto nella provincia di Kandahar suo fratello governa con il consenso dei talebani e dei trafficanti di oppio). Da circa un anno anche negli Stati Uniti, attraverso editoriali di esperti militari e indiscrezioni fatte filtrare dalla Casa bianca e dal Pentagono, ha preso corpo l’opzione “trattavista”. Che peraltro poteva leggersi in controluce nella stessa decisione di Obama, a fine 2009, di aumentare il numero delle truppe per riprendere l’offensiva e preparare il terreno all’inizio del ritiro, in sostanza alla trattativa con il nemico. La conferma che a questo si puntava sta proprio nell’aumento dei bombardamenti, che tutti gli specialisti sanno non hanno nessuna influenza sulla guerra (le guerre si vincono occupando un territorio, non bombardandolo, comunque non andandosene dopo averlo bombardato), ma possono averla per negoziare la pace.
Finalmente, dopo doppi e tripli giochi da parte di tutti – talebani, americani, governativi afgani, contingenti stranieri – è arrivata l’altro ieri la notizia ufficiale: il comando americano a Kabul ha annunciato di avere consentito l’arrivo nella capitale di “alti dirigenti talebani” per dare inizio alle trattative di pace. E ieri dal quartier generale della Nato a Bruxelles è arrivata la conferma da parte del ministro della difesa Gates e del segretario di stato Clinton. Ecco come è finita: per anni i talebani sono stati terroristi spietati, fanatici persecutori del loro stesso popolo, nemici e minaccia per l’umanità intera, e adesso ci si appresta a sedersi intorno ad un tavolo per trattare con loro. Del resto, l’ha detto la stessa Hillary Clinton: “la pace non la si fa con gli amici”. Per il momento, almeno ufficialmente, gli americani staranno a guardare, ma più in là, se i colloqui (e i bombardamenti) avranno effetto, usciranno allo scoperto. Poi, quando tutto sarà deciso, verranno informati gli alleati.
Insomma la guerra afgana è finita. Solo che nessuno l’ha detto ai soldati sul campo – americani, inglesi, tedeschi, italiani e tanti altri – che continueranno a saltare sulle mine, a cadere negli agguati, a morire e a uccidere per molti mesi ancora.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15995
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Afghanistan, ecco la verità
di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi
I civili uccisi. Le battaglie dei parà che La Russa non ha mai rivelato. I feriti italiani tenuti nascosti. E poi le stragi di talebani, le azioni coperte degli 007, i tradimenti e i doppi giochi. Ecco il vero volto della nostra ‘missione di pace’. Nei file scoperti da Wikileaks e consegnati a L’espresso
(15 ottobre 2010)
«Molti leader talebani nel distretto di Farah vogliono organizzare attacchi contro gli italiani. Gli abitanti sono favorevoli alle truppe della Nato e sostengono gli italiani perché si stanno impegnando per rendere sicura la regione. I guerriglieri hanno paura dei “veicoli neri” della Folgore mentre non temono le jeep color sabbia degli americani e delle forze occidentali. Il capo dell’intelligence locale ritiene che questo terrore nasca dalle perdite che la Folgore ha inflitto ai miliziani nelle ultime operazioni». Eccoli i due volti della guerra in Afghanistan. Quello che ci viene raccontato da anni, con i nostri soldati che lavorano per aiutare la popolazione e proteggerla dagli estremisti islamici. E quello che è sempre stato nascosto, con i reparti italiani che combattono tutti i giorni e uccidono centinaia di guerriglieri. Una sterminata serie di scontri, con raid dal cielo e anche tra le case dei villaggi. Ma anche una missione che deve fare i conti con traditori e doppiogiochisti, con militari afghani addestrati dalla Nato che invece aiutano i talebani, con sospetti sul destino di centinaia di milioni di euro di aiuti pagati anche dall’Italia per la ricostruzione del Paese e scomparsi nei ministeri di Kabul. Una cronaca di reparti con la bandiera tricolore che sparano migliaia di proiettili in centinaia di battaglie, sfidando le trappole esplosive e le imboscate, convivendo con il terrore dei kamikaze che rende ogni auto una minaccia, mentre gli elicotteri Mangusta esplodono raffiche micidiali, incassando spesso i razzi dei talebani.
“L’espresso” è in grado per la prima volta di ricostruire la guerra segreta degli italiani grazie ai nuovi documenti concessi da Wikileaks: l’organizzazione creata da Julian Assange che raccoglie atti riservati e li diffonde sul Web. Si tratta di oltre 14 mila rapporti dell’intelligence americana non ancora noti che il nostro settimanale presenta in esclusiva mondiale e che integrano i files divulgati due mesi fa: dossier che mostrano anche la lotta senza quartiere tra spie con una serie di episodi misteriosi. Funzionari italiani che sparano contro uomini dei servizi afghani e vengono poi arrestati da questi ultimi, un presunto terrorista prigioniero degli americani che viene consegnato al nostro governo e trasferito a Roma. Sono tutti documenti ufficiali, raccolti dai comandi Usa, in cui i reparti italiani spesso compaiono con i loro nomi di battaglia, Lupi, Fenice, Vampiri, Cobra, Tigre, Lince, o con gli acronimi delle loro Task Force, Center, North, South, TF45: resoconti in codice che raccontano l’orrore di battaglie e spesso anche la correttezza degli uomini che rischiano la pelle per non coinvolgere civili negli scontri. Un diario impressionante in cui sono elencate diverse centinaia di combattimenti, con decine di italiani feriti in modo più o meno grave di cui non si è mai saputo nulla. Il database parte dal 2005 e arriva fino al 31 dicembre 2009: “L’espresso” si è concentrato sulle informazioni dello scorso anno, quando rinforzi e nuove regole d’ingaggio hanno provocato l’escalation delle operazioni sotto bandiera tricolore.
Battaglie taciute
Tra maggio e dicembre la Folgore ha cambiato il volto della presenza italiana in Afghanistan. I parà, sostenuti da elicotteri da combattimento Mangusta e dai blindati dei bersaglieri, sono andati alla caccia dei talebani per riprendere il controllo di territori sperduti. E, altra differenza, hanno cominciato ad operare fianco a fianco con gli americani, oltre che con le truppe afghane. I files segnalano oltre 200 scontri in cui sono stati coinvolti i nostri soldati, ma è una raccolta parziale che contiene solo le notizie trasmesse agli Usa.
Uno dei combattimenti più discussi avviene il 31 maggio 2009 intorno alla base Colombus. Siamo a Bala Murghab sulla frontiera occidentale, il settore strategico per esportare l’oppio che finanzia i talebani. Un confine invisibile: i files segnalano inseguimenti che proseguono nel territorio turkmeno. Poco prima del tramonto, sulle postazioni italiane e su quelle degli alleati afghani cominciano a piovere razzi. I parà rispondono anche con i mortai pesanti da 120 millimetri, quattro granate potenti come cannonate. Poi arriva una coppia di elicotteri Mangusta, che spara almeno un missile Tow «neutralizzando gli avversari». Il primo rapporto del comando italiano sostiene che siano stati uccisi 25 guerriglieri: 20 dai mortai e cinque dal missile.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/afghanistan-ecco-la-verita/2136377
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La scomparsa del ceto medio 16.10.2010
Particolarmente rilevante, negli stralci della lezione dello storico anglo-italiano, la sintetica analisi del berlusconismo. La Repubblica, 16 ottobre 2010
Che cos’è oggi il ceto medio italiano? Tre elementi ci colpiscono subito. In primo luogo l’incessante crescita numerica. In base ai dati forniti da Paolo Sylos Labini, i ceti medi urbani italiani, in cui l’autore raggruppa le principali categorie dei piccoli imprenditori, degli impiegati pubblici e privati, degli artigiani e dei commercianti rappresentavano nel 1881 il 23,4% della popolazione, mentre nel 1993 toccavano il 52%. Oggi secondo le stime si attestano attorno al 60%…
Accanto a questo primo, grande fatto strutturale ve n’è un secondo: il livello sempre più alto di istruzione che li caratterizza. Nel 2001… gli italiani in possesso di un titolo di studio medio, superiore o universitario erano diventati il 63,4% per cento della popolazione. Questa rivoluzione scolastica non colma il divario esistente rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna, ma è innegabile che il paese può vantare un ceto medio sempre più esteso e istruito. Il terzo elemento strutturale riguarda la composizione interna dei ceti medi. L’Italia ha una quota di occupazione indipendente (o lavoro autonomo) molto alta (il 26,4% dell’occupazione totale nel 2006) più elevata di qualsiasi altro paese europeo. Ma attenzione: in questi anni i media e la destra politica hanno tentato con martellante insistenza di presentare il mondo del lavoro autonomo in generale e quello del piccolo imprenditore in particolare come predominante nel paese… In realtà, il lavoro autonomo è in lento declino dal 2003, costituisce solo un quarto del lavoro complessivo in Italia e meno della metà dell’occupazione dei ceti medi presi nel loro insieme. Esso cela in sé un gran numero di figure diverse – non solo quella del piccolo imprenditore dinamico ma anche il vasto e perdurante mondo dei commercianti e degli artigiani, nonché moltissimi ‘autonomi precari’, specialmente giovani, che hanno la partita Iva ma non un’ occupazione stabile…
Negli ultimi quindici anni il ceto medio si è diviso in due mondi, piuttosto diversi uno dall’altro… Chiamerei l’uno il ceto medio riflessivo, capace di bridging (cioè capacità di costruire ponti verso altri) e, in termini occupazionali, caratterizzato dal lavoro dipendente; l’altro il ceto medio concorrenziale, tendente al bonding (cioè tendenza a rafforzare i legami interni a uno specifico gruppo) e prevalentemente dedito al lavoro autonomo.
Partiamo con la prima componente, il ceto medio riflessivo. In tutta l’Europa si è sviluppato un ceto medio attivo nelle professioni socialmente utili, nel terzo settore e tra gli assistenti sociali, ma anche tra gli insegnanti e gli studenti, gli impiegati direttivi e di concetto del settore pubblico, i nuovi operatori nel mondo dell’informazione e della cultura… Ad ingrossarne le file è stato un numero sempre crescente di donne molto istruite, alla ricerca di un impiego adeguato alla loro professionalità, ma in forte difficoltà nel trovarlo, soprattutto al Sud… Questa componente dei ceti medi contemporanei in apparenza è dotata di notevole potenziale civico. Se guardiamo il caso italiano vediamo come l’opposizione al regime di Berlusconi provenga in parte considerevole da questi settori dei ceti medi. A partire dalle grandi manifestazioni della primavera e dell’autunno 2002, fino alle dimostrazioni organizzate attraverso internet dal ‘Popolo Viola’ del dicembre 2009 e di ottobre 2010, numerosi appartenenti a questi strati sociali si sono mobilitati contro il regime… Non bisogna in nessun modo esagerare le capacità civiche di questa parte dei ceti medi, né la loro consapevolezza di sé come gruppo sociale… Essi hanno sempre possibilità di scelta e, di fronte alla ripetitività delle proteste e soprattutto allo scarso incoraggiamento proveniente dal ceto politico di sinistra, perdono slancio e speranza…
Vengo ora alla seconda agglomerazione – i ceti medi – prevalentemente dediti al lavoro autonomo e fortemente orientati al mercato… Storicamente una componente di spicco di questo mondo sono sempre stati i distretti industriali italiani, apprezzati da numerosi studi internazionali e considerati anche portatori di un specifico modello di coesione sociale… Viene da chiedersi, però, quanto questo quadro sia ancora valido nel Nord Italia, di fronte alla crescita della Lega… Nella Lombardia e nel Veneto, se non nella Toscana e nell’Emilia-Romagna, si è sviluppato un modello diverso, fortemente basato sul bonding territoriale e sull’appartenenza etnica, sullo sfruttamento di una sottoclasse di immigrati, sulla scarsa presenza di equità sociale e su una forma di democrazia fortemente personalizzata e di partito. Davanti a quest’onda gli studiosi devono dirci cosa resta dell’ethos dei vecchi gloriosi distretti industriali…
Qual è l’apporto del ‘Berlusconismo’ a questo quadro generale?… La singolarità del ‘Berlusconismo’ risiede nell’uso particolare che egli ha fatto delle opportunità che il degrado democratico degli anni ‘80 gli ha offerto. In modo precoce (1984) ha potuto stabilire un controllo mediatico sulla televisione commerciale unico in Europa, senza la sorveglianza di un qualsiasi garante pubblico, e ha potuto utilizzare questa libertà per reiterare incessantemente determinati valori e stili di vita, e per trascurarne o denigrarne altri… Questo sfrenato potere mediatico è il primo elemento del Berlusconismo. Un secondo è il comportamento di Berlusconi nei confronti dello Stato e della sfera pubblica. Qui riscontriamo una forte diversità rispetto alla signora Thatcher. Quest’ultima, per quanto radicale, non mise mai in dubbio le istituzioni e le pratiche della democrazia britannica. Berlusconi, al contrario, come dimostra anche la sua famosa videocassetta del 26 gennaio 1994, quella della ‘discesa in campo’, ha sempre considerato la sfera pubblica una zona di conquista, di occupazione, di trasformazione… L’ultimo apporto del Berlusconismo… è l’esplicito appoggio a un elemento dei ceti medi – quello del lavoro autonomo e concorrenziale – a spese dell’altro, quello più riflessivo e basato sul lavoro dipendente. Berlusconi blandisce il primo con tutta una serie di carezze – agevolazioni fiscali, condoni edilizi, la depenalizzazione sostanziale del falso in bilancio… All’altro elemento dei ceti medi, il ‘Berlusconismo’ riserva solo schiaffi – lo smantellamento progressivo della scuola pubblica, il degrado senza fine delle grandi istituzioni culturali, gli stipendi in calo verticale in termini di potere d’acquisto. Così – e questo forse è la sua eredità più dannosa – Berlusconi contribuisce in modo drammatico a spaccare il ceto medio, e ad incrementare il livello di incomunicabilità tra le sue due componenti principali. Ogni tanto mi sembra che i moniti ottocenteschi di Disraeli circa il rischio di creare due Nazioni siano di scottante attualità per l’Italia contemporanea…
Questo testo è tratto dal discorso che terrà oggi a Firenze, al convegno “Società e Stato nell’era del berlusconismo”.
http://eddyburg.it/article/view/15997/
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MARCHIONNE DOPO CRISTO
Di Franco Berardi
All’inizio dell’autunno 2010 Sergio Marchionne ha dichiarato che lui vive nell’epoca dopo Cristo, e non può stare ad ascoltare le considerazioni che provengono da gente che vive nell’epoca prima di Cristo. La blasfema metafora di Marchionne vuol dire che da quando esiste la globalizzazione non si possono rivendicare quei diritti e quelle garanzie sociali che vigevano prima della globalizzazione.
Se dobbiamo competere con economie emergenti nelle quali il costo del lavoro è inferiore al costo del lavoro degli operai europei, dobbiamo abbassare i salari europei. Se dobbiamo competere con economie nelle quali l’orario di lavoro è illimitato e le condizioni di lavoro sono selvagge – scarse garanzie di sicurezza sul lavoro, turnazioni massacranti, precarietà del rapporto di lavoro – anche in Europa bisogna abolire i limiti all’orario settimanale, rendere obbligatorio lo straordinario, rinunciare alla sicurezza del posto di lavoro e così via.
In termini brutali così potremmo tradurre il pensiero di Sergio Marchionne (che del resto esprime il pensiero ufficiale dell’Unione europea dopo la svolta seguita alla crisi greca di primavera): l’evoluzione del capitalismo richiede l’abrogazione di fatto dei principi che discendono dalle tradizioni Socialista, Illuminista e Umanista, e naturalmente dei principi che definiscono la democrazia, ammesso che questa parola significhi qualcosa. Vorrei aggiungere un’ultima considerazione, giocando un po’ con la metafora cristologica del signor Marchionne. Nell’epoca dopo Cristo di cui parla lui anche il principio cristiano dell’amore per il prossimo va cancellato, ridotto al più a predica domenicale.
E’ questa l’Europa che vogliamo? A questa immagine di sé ha deciso di piegarsi l’Europa? Ed il pensiero marchionnico coincide con la politica dell’UE?
Naturalmente più che di principi qui si tratta di rapporti di forza. Negli ultimi anni la classe finanziaria, dominante nel governo economico del mondo, ha usato le potenze tecniche globalizzanti per aumentare enormemente la quota di ricchezza che in forma di profitto e di rendita finanziaria va nelle tasche di una minoranza. La classe operaia, e il lavoro cognitivo multiforme non hanno potuto resistere all’attacco seguito alla globalizzazione.
Questa distribuzione della ricchezza confligge però con la stessa possibilità di uno sviluppo ulteriore del capitalismo perché la riduzione del salario globale provoca una generale riduzione della domanda. Si sta verificando un effetto di impoverimento che rende la società sempre più fragile e aggressiva, ma anche un effetto deflattivo che rende impossibile lo stesso rilancio della crescita.
Come se ne esce?
Il signor Marchionne e i suoi sodali, che vivono nell’epoca dopo Cristo, fanno questo ragionamento: se la deregulation ha prodotto il collasso sistemico col quale sta facendo i conti l’economia globale, allora occorre maggiore deregulation. Se la detassazione degli alti redditi ha portato al restringimento della domanda, allora ci vuole un’ulteriore detassazione degli alti redditi, se l’iper-sfruttamento ha portato a una sovraproduzione di automobili invendute ed inutili, allora occorre intensificare la produzione di auto. Sono forse pazzi, costoro? Penso di no, penso che siano incapaci di pensare in termini di futuro, che siano nel panico, terrorizzati dalla loro stessa impotenza. Hanno paura. Tutto quello che sanno fare è aumentarsi lo stipendio (vero, Marchionne?) e i dividendi per i loro commensali.
La borghesia moderna era una classe fortemente territorializzata, legata a un patrimonio materiale che non poteva prescindere dal rapporto con il luogo, con la comunità. Il ceto finanziario che domina la scena del nostro tempo non ha alcun rapporto di affezione col territorio né con la produzione materiale, perché il suo potere e la sua ricchezza si fondano sull’astrazione perfetta della finanza moltiplicata per il digitale. L’iper-astrazione digital-finanziaria sta liquidando il corpo vivente del pianeta, e il corpo sociale.
Ma può durare? Dopo la crisi greca si è costituito un direttorio Merkel Sarkozy Trichet che ha stabilito, senza alcuna consultazione dell’opinione pubblica, di concentrare dal 2011 il potere di decisione sull’economia dei diversi paesi esautorando di fatto ogni istanza parlamentare. Potrà davvero questo direttorio commissariare la democrazia nell’Unione, sostituirla con un comitato d’affari che fa capo ai direttori delle grandi banche? Potrà imporre un sistema di automatismi per i quali, se vuoi far parte dell’Unione devi ridurre i salari dei dipendenti pubblici, licenziare un terzo degli insegnanti e così via?
Il 16 ottobre a Roma e a Parigi si sono tenute due immense due manifestazioni che mi fanno pensare che la dittatura finanziaria non riuscirà a stabilizzarsi.
Può darsi che Sarkozy riesca a far passare la legge che prolunga il tempo di vita lavoro fino a 65 anni, e in Italia le politiche di taglieggiamento del salario operaio e dei diritti operai non finiranno certo con la prossima caduta del governo Berlusconi.
Questo lo so.
Ma nei paesi latini (cattolici) del mondo europeo la dittatura europea non si stabilizzerà, perché nei prossimi mesi e nei prossimi anni assisteremo a un diffondersi, contraddittorio, talvolta violento, ma persistente di insubordinazione sociale che sempre più individuerà il vero nemico – non nei governi nazionali, ma nell’Unione stessa, nel suo direttorio granitico e nelle sue tecniche di governance apparentemente neutrali. E allora a quel punto occorrerà abbattere l’Europa presente, perché l’Europa possibile emerga finalmente.
Allora dovremo chiederci: ma è proprio vero che dobbiamo competere secondo la regola economica? Se proprio di competizione dobbiamo parlare (e la parola è sbagliata) perché non pensare alla competizione tra stili di vita, modalità dello spirito pubblico, livelli di felicità e di godimento per l’organismo sensibile collettivo? Non sono forse questi criteri che nel lungo periodo dell’evoluzione umana possono avere una forza attrattiva superiore al prodotto nazionale lordo, alla quantità di petrolio bruciato, e al numero di centrali nucleari?
Quello che vogliono gli esseri umani (fin quando non sono preda di un’ossessione psicotica che si chiama avarizia) è vivere in modo piacevole, tranquillo, possibilmente a lungo, consumando ciò che è necessario per mantenersi in forma e per fare all’amore.
Tutti quei valori politici o morali che hanno reso possibile il perseguimento di uno stile di vita di questo genere li abbiamo chiamati un po’ pomposamente “civiltà”.
Ora vengono i Marchionne a raccontarci che se vogliamo continuare a giocare il gioco che si gioca nelle borse e nelle banche, dobbiamo rinunciare a vivere in modo piacevole, tranquillo, eccetera. Ovvero dobbiamo rinunciare alla civiltà. Ma perché dovremmo accettare questo scambio? L’Europa è ricca non perché l’euro è solido sui mercati internazionali o perché i manager fanno quadrare i conti del loro profitto. L’Europa è ricca perché ci sono milioni di intellettuali di scienziati e di tecnici, di poeti e di medici, e milioni di operai che hanno affinato per secoli il loro sapere. L’Europa è ricca perché nella sua storia ha saputo valorizzare la competenza e non solo la competitività, ha saputo accogliere e integrare culture diverse. E’ ricca anche, bisogna pur dirlo, perché per quattro secoli ha sfruttato ferocemente le risorse fisiche e umane degli altri continenti.
Dobbiamo rinunciare a qualcosa, ma a cosa precisamente?
Certamente dovremmo rinunciare all’iper-consumo imposto dalle grandi corporation, ma non credo che dovremmo rinunciare alla tradizione umanistica, a quella illuminista e a quella socialista, cioè alla libertà, al diritto e al benessere. Non perché siamo affezionati a dei principi del passato, ma perché questi rendono possibile una vita decente, mentre i criteri che propongono in Marchionni garantiscono per la maggioranza una vita infernale.
La prospettiva che si apre non è quella di una rivoluzione, concetto che non corrisponde più a niente perché implica un’esagerata considerazione della volontà politica sulla complessità della società presente. Quella che si apre è la prospettiva di una transizione paradigmatica.
Un nuovo paradigma, che non sia più centrato intorno alla crescita del prodotto, intorno al profitto e all’accumulazione, ma fondato sul pieno dispiegamento della potenza dell’intelligenza collettiva.
Non credo che l’Europa abbia qualcosa da insegnare alle altre civiltà del pianeta. Può dare un contributo originale, come nel bene o nel male ha fatto nel passato in più occasioni.
Abbiamo imposto il modello capitalistico, e ora cerchiamo la via per venirne fuori. Non per venire fuori dal capitalismo, che come ogni altro modello economico (lo schiavismo, il feudalesimo) è incancellabile – ma per venire fuori dalla sua dominanza incontrastabile. Autonomia della società dal dominio del capitale, dispiegamento delle potenze che il capitale ha realizzato nella sua convivenza conflittuale con il lavoro.
Questo è il contributo originale che l’Unione europea, quella possibile, quella del dopo-dopo-Cristo che Marchionne non riesce neppure a immaginare, potrebbe consegnare alla storia del mondo.
Da Facebook, del 18.10.2010
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IMMINENTI LE RIVELAZIONI DELLA ONG DOPO LO SCOOP SULL’AFGHANISTAN
Task force al Pentagono contro le “verità” di Wikileaks 18.10.2010
Il sito di Assange pubblicherà 400 mila documenti segreti
WASHINGTON
Il Pentagono ha esortato i media a «non facilitare la pubblicazione di documenti classificati» riguardanti la guerra in Iraq, con un chiaro riferimento all’annunciata pubblicazione di 400.000 dossier sul conflitto da parte di Wikileaks. E ha rimesso in servizio una task force di 120 persone per valutare i danni che possono venire dalle informazioni in possesso di Wikileaks.
«I media devono essere messi in guardia – ha detto il colonnello Dave Lampan, portavoce del Pentagono – Non dovrebbero facilitare la pubblicazione di documenti classificati che organizzazioni poco raccomandabili come Wikileaks» intendono pubblicare online. Secondo il portavoce del Pentagono i media che aiutano i propositi di Wikileaks «offrono una patente di rispettabilità» al sito. Il gruppo di Julian Assange aveva confermato poco prima che pubblicherà «molto presto» nuovi documenti, senza precisare se effettivamente i dossier riguarderanno l’Iraq come anticipato dai media Usa.
«Sono state fatte circolare voci su una pubblicazione lunedì o addirittura domenica, ma si tratta evidentemente di notizie non corrette», ha detto Kristinn Hrafnsson, responsabile islandese del sito: «Posso solo dire che Wikileaks pubblicherà qualcosa molto presto», ha aggiunto Hrafnsson, senza confermare che la pubblicazione riguarderà effettivamente l’Iraq. Da circa un mese circola la notizia, in parte confermata dal fondatore Assange il 30 settembre scorso a Londra, che il sito avrebbe posto in secondo piano la pubblicazione di circa 15.000 documenti del Diario Afghano rimasti nel cassetto, per mettere online 400.000 dossier sull’Iraq. Il Pentagono ha confermato di aver «richiamato in servizio» la squadra di 120 persone che analizzò i 77.000 documenti del Diario afghano, per affrontare la pubblicazione di nuovo materiale sull’Iraq. Il team del Pentagono, ha detto il portavoce Dave Lapan, sta già passando in rassegna gli archivi sull’Iraq per valutare quale possa essere l’impatto della loro pubblicazione. L’origine, ha detto Lapan, Š una banca dati con base in Iraq che contiene «documenti su azioni significative, rapporti da parte delle unità, rapporti tattici».
Fonti vicine a Wikileaks insinuano però che il Pentagono voglia «depotenziare» i documenti sull’Iraq rendendo pubblici circa 100.000 documenti, il cui elenco è già disponibile online in forza del Freedom of Information Act, la legge statunitense che obbliga le autorità a rendere pubblici su richiesta i documenti segreti. Intanto, una nuova tegola piove sulla testa di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks: l’ente svedese che si occupa di immigrazione ha respinto la sua richiesta di residenza. «Non aveva i requisiti richiesti per ottenere un permesso», ha detto Gunilla Wikstrom, incaricata di esaminare la pratica presentata dall’australiano all’Ufficio nazionale svedese dei migranti. La Svezia sembra proprio non amare Assange, sul cui capo pende ancora una inchiesta dai contorni oscuri avviata dalla procura di Stoccolma per stupro e molestie nei suoi confronti.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201010articoli/59550girata.asp
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Mandelbrot, il padre della geometria frattale 16.10.2010
di Stefano Natoli
Il matematico franco-statunitense, Benoit Mandelbrot, fondatore della geometria dei frattali, è morto giovedì scorso a Cambridge, nel Massachusetts (nord-est Usa), all’età di 85 anni. Lo riferisce il quotidiano New York Times. Con un approccio considerato a margine della matematica convenzionale, Benoit Mandelbrot ha sviluppato gli oggetti frattali, una branca speciale della geometria.
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La geometria frattale aveva per oggetto la misurazione di fenomeni naturali come fiori, alberi, fulmini, fiocchi di neve, cristalli o linee costiere che si pensava non fossero misurabili. Mandelbrot ha applicato questa teoria alla biologia, alle finanze, alla scienza fisica e ad altri settori. Nel 1973 ha pubblicato “Gli oggetti frattali: forma, caso, dimensione”. Poi altre opere sullo stesso tema.
Nato il 20 novembre del 1924 a Varsavia, Mandelbrot fu costretto a fuggire dalle persecuzioni naziste a Parigi e poi nel sud della Francia. Dopo la guerra, venne ammesso all’ecole Polytechnique. Dopo un master a Caltech in California, è tornato a Parigi, dove ha conseguiì il dottorato per poi tornare negli Usa ed essere ammesso all’Institute for Advanced Studies di Princeton, dove lavorò con John von Neumann. Passò poi all’Ibm, al celebre centro di ricerca di Yorktown Heights, alle porte di New York, dove, paradossalmenete, ottenne i massimi successi accademici. Nella seconda metà degli anni ottanta tornò a insegnare, a Yale.
Cinque anni fa, il 9 ottobre 2005, Mandelbrot insieme a Nassim N. Taleb ( l’autore del fortunato saggio “Il Cigno nero” ) scriveva per Il Sole 24 Ore Domenica I rischi dell’azzardo finanziario, un articolo che metteva in guardia i risparmiatori e li invitava a diversificare al massimo e a ricordare che «le misure convenzionali del rischio sottovalutano gravemente le perdite potenziali, e i guadagni. Nel bene e nel male, siete più esposti di quanto pensate».
Mandelbrot è anche autore di un libro, Il disordine dei mercati. Una visione frattale di rischio, rovina e redditività pubblicato negli Usa l’anno scorso da Einaudi e recensito per Il Sole 24 Ore da Armando Massarenti.
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La Russia del 2010 – prospettive economiche e politiche (parte 1)
Antonio Grego 13.10.2010
(Parte Prima)
Politica interna
Domenica 10 ottobre si sono svolte le elezioni amministrative per il rinnovo del parlamento di alcune importanti regioni russe e anche per alcuni sindaci. Stando ai primi dati sembra che il partito “Russia Unita” abbia stravinto questo test, con consensi che in alcune zone sfiorano l’80% dei votanti[1]. Questo significa che il partito di governo ha riconquistato quanto aveva perso alle precedenti elezioni amministrative svoltesi alcuni mesi fa, dove ne era uscito ridimensionato. Il 14 marzo scorso, infatti, si sono tenute le elezioni dei parlamenti regionali in otto regioni della Russia[2], in relazione alle precedenti elezioni regionali dell’ottobre 2009, il partito “Russia Unita” perse circa il 10% dei consensi, restando tuttavia il principale partito russo con un largo distacco dagli altri tre partiti[3] che sono riusciti a superare la soglia del 7% prevista per le elezioni regionali. In ogni caso il sistema di distribuzione dei seggi ha premiato largamente il partito fondato da Putin che con il 59% dei consensi ha ottenuto il 79% dei seggi. Al secondo posto si piazzava il Partito Comunista della Federazione Russa che ha aumentato i suoi consensi arrivando al 21%. Il partito di Putin-Medvedev usciva quindi vittorioso ma leggermente ridimensionato da un calo dei consensi dell’elettorato più conservatore e nazionalista che va a favore del Partito Comunista. Le elezioni tenutesi la scorsa domenica invece sembra abbiano quasi riportato la situazione al 2009, ridimensionando i comunisti e ridando un larghissimo margine di maggioranza al partito di governo.
Negli ultimi anni la Russia ha subito molteplici attacchi terroristici di grande impatto sull’opinione pubblica: Nord Ost (23/10/2002), bombe nei palazzi (diversi attacchi a Ryazan, Mosca, Volgodonsk, Bujnaksk nel settembre 1999), Beslan (settembre 2004), l’esplosione del treno sulla linea ferroviaria Mosca-San Pietroburgo (novembre 2009) e l’ultimo episodio nella stazione della metropolitana di Mosca (29/03/2010). Senza contare i quotidiani attentati che avvengono nella regione del Caucaso.
È solo dopo il crollo dell’URSS che il terrorismo è diventato una delle piaghe più gravi e urgenti da risolvere nell’agenda degli affari interni del Cremlino, insieme con le tensioni nelle regioni del Caucaso. Questi problemi sembrano essere strettamente connessi: la maggioranza delle persone ritiene che “la questione del Caucaso” sia la causa degli ultimi attacchi terroristici (51% dei soggetti intervistati indica i terroristi ceceni come responsabili degli attacchi)[4].
I responsabili politici sono consapevoli che la soluzione non è facile da trovare: dovrebbe essere abbastanza forte per sradicare il problema, ma allo stesso tempo dolce abbastanza per non superare i limiti e innescare ulteriori violenze. Le azioni intraprese dal governo russo, dopo gli attacchi terroristici (e altri simili pericoli per la società, basti pensare all’emergenza incendi di questa estate) mostrano quanto in questi casi è percepita come una priorità di sicurezza, sia dai cittadini che dai leader politici. Nel settembre 2004, pochi giorni dopo la presa degli ostaggi nella scuola di Beslan, l’ex presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che i governatori delle regioni russe sarebbero stati nominati dal presidente e non più eletti. Egli ha anche introdotto alcune misure per limitare i poteri del Parlamento e per rafforzare il potere esecutivo: la riforma ha imposto agli elettori di votare solo per i partiti e non per i leader politici della Duma. Inoltre, la soglia di sbarramento per ottenere seggi in Parlamento è stata sollevata dal 5% al 7%, e i partiti non sono più autorizzati a formare blocchi per raggiungere questa soglia.
Dopo l’inizio della guerra in Georgia (agosto 2008), il presidente Medvedev ha nominato un nuovo rappresentante presidenziale nel Caucaso del Nord, il cosiddetto “uomo forte”. Gli attentati terroristici nella metropolitana di Mosca e gli attacchi in Daghestan e Inguscezia hanno mostrato che il controllo sul Caucaso non è ancora perfettamente nelle mani del Cremlino. Tuttavia, per quanto riguarda la prevenzione del terrorismo, il presidente Medvedev sembra non avere altra scelta che perseguire la strategia binaria di comprare la lealtà delle élite locali con le riforme economiche e allo stesso tempo eliminare pericolosi potenziali criminali usando la forza militare. Oltre al pericolo del terrorismo e alle onnipresenti tensioni nel Caucaso, la vita di ogni giorno è ancora percepita come in pericolo di fronte alla violenza nelle strade. Resta alta l’allerta per l’attività di gruppi estremisti (come i neo-nazisti) e della criminalità organizzata. Questi sono fra i principali motivi per i quali è stata approvata a luglio dalla Duma una nuova legge che espande i poteri dell’FSB (Federal’naja služba bezopasnosti Rossijskoj federacii, Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa). Tale documento permette ai capi dell’FSB, o ai loro delegati, di rilasciare delle avvertenze ai cittadini sulle azioni che potrebbero portare a commettere reati, come indagine preliminare in ciò che per legge si riferisce alle competenze dell’FSB. Il mancato adeguamento all’ordine legittimo di un ufficiale dell’FSB, da parte di funzionari pubblici, comporta una multa o un arresto amministrativo fino a 15 giorni[5]. D’altra parte, i sondaggi mostrano che una larga fetta di russi sostiene chiaramente le azioni preventive del governo contro il terrorismo e i disordini sociali.
I russi sembrano preferire la sicurezza e l’ordine garantito da un forte stato centralizzato (72%) piuttosto che la democrazia (16%), come un recente sondaggio del russo Public Opinion Research Center mostra[6]. Non sorprende quindi, che il rafforzamento del potere tende ad essere accettato dalla società sotto la minaccia del terrorismo e del disagio sociale. In tali situazioni le persone sono pronte a rinunciare a parte della loro libertà civili in cambio della sicurezza, garantita da un forte stato centrale. È difficile definire le modalità con cui i russi percepiscono la democrazia, infatti, nel quadro dello stesso sondaggio, alla gente è stato chiesto cosa pensa della democrazia, e l’11% dei soggetti intervistati (rispetto al 2007 un aumento del 5%), l’ha definita come una “parola vuota e priva di significato”.
Putin e Medvedev
Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del 2012, il livello di popolarità dei due leader e potenziali concorrenti, Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev, si è avvicinato. Un recente sondaggio[7] sembra suggerire che, come tendenza generale, la confidenza in Putin è progressivamente diminuita mentre quella in Medvedev è in crescita. Il primo continua ad essere il leader più amato dai russi (49%) e il secondo lo segue a distanza ravvicinata (42%). Dal punto di vista della politica internazionale Putin resta l’interlocutore preferito per quei Paesi che intendono opporsi alle mire egemoniche degli USA (Venezuela, Iran, Siria, Nord Corea, ecc.) mentre Medvedev è di gran lunga preferito nei circoli atlantici americani e dell’Unione Europea, per le sue apparenti posizioni moderate e aperte al dialogo.
I due leader sono sostenuti da segmenti della popolazione che tendono ad essere ben distinti. Infatti, da un lato Putin raccoglie gran parte della sua popolarità dagli strati più bassi della popolazione (quelli con redditi più bassi, che vivono al di fuori delle grandi città e nelle aree meno sviluppate) e da soggetti il cui reddito dipende dal governo (cioè burocrati, impiegati pubblici, militari, pensionati, ecc.). Questa è forse la causa dell’alta visibilità del primo ministro russo sui canali televisivi statali, che sono i soli mass media in grado di raggiungere gli elettori degli strati più bassi della popolazione, i più anziani e i meno istruiti. Dmitrij Medvedev, d’altro canto, è generalmente più popolare tra gli elettori più ricchi e tra coloro che sostengono la modernizzazione e l’innovazione, esattamente i gruppi che Medvedev ha cercato di conquistare durante la sua presidenza. La sua apertura nei confronti dei think tanks, delle ONG e il suo uso della blogosfera attira coloro che fanno affidamento più su Internet e sui giornali che sulla televisione come fonte primaria di informazione[8]. Medvedev è preferito dai liberali e dagli ambienti filo-occidentali, i quali, invece, accusano Putin di eccessivo autoritarismo.
In questa cosiddetta “tandemocrazia”[9], come l’hanno battezzata i media russi, la bilancia del potere non sembra essere ancora stabile e potrebbe accelerare e arrivare ad una evoluzione prima del 2012, data delle elezioni presidenziali. All’inizio del suo mandato (marzo 2008), Medvedev era percepito come l’ombra del più esperto e carismatico primo ministro Vladimir Putin. Quest’ultimo, infatti, è stato spesso guardato come quello che tiene il manubrio del tandem, anche se la posizione di presidente dovrebbe essere la più importante in base alla Costituzione russa. Pertanto nel settembre 2009, molti politici (insieme con l’opinione pubblica) sono rimasti estremamente sorpresi dalla critica tagliente di Medvedev alla situazione economica e politica contemporanea[10], che prende nettamente le radici nella legislazione di Putin. Questo episodio fu seguito da altri segnali di rottura con il passato, per quanto riguarda anche questioni importanti negli affari esteri come i negoziati per l’accesso nell’OMC[11], la sottoscrizione del trattato START sul nuovo disarmo, e la decisione di appoggiare le misure di sanzione contro l’Iran. Nel corso dell’ultimo anno Medvedev sembra effettivamente aver preso alcune decisioni indipendenti: egli ha dovuto affrontare la crisi economica e l’inasprimento dei rapporti con le regioni del Caucaso nelle quali Putin continua ad avere un ruolo di primo piano. L’approccio di Medvedev, nel complesso sembra essere più liberale e pronto ad impegnarsi al dialogo. Alcuni esempi sono gli sforzi per migliorare le relazioni con gli Stati Uniti (si veda sotto), diversi incontri con le ONG, le interviste con i giornali dell’opposizione liberale come Novaja Gazeta.
Medvedev, nel suo piano di governo, si propone cinque priorità per avviare un processo di modernizzazione nel Paese. Vuole puntare sull’efficienza nella produzione, nel trasporto e nell’energia. Crede, in special modo, che sia arrivato il momento di sostenere una crescita tecnologica di qualità collegata ad una serie di infrastrutture terrestri e spaziali destinate al trasferimento di tutti i livelli di informazione. A questi obiettivi si aggiunge la volontà di assumere un ruolo leader nella produzione di alcuni tipi di attrezzature mediche. Affinché questo progetto vada a buon fine è necessaria la collaborazione dell’Europa di cui la Russia ha bisogno per modernizzare la sua industria e le infrastrutture. A questo scopo è necessario affrontare i pregiudizi sulla Russia ancora molto diffusi in Europa, tra i più ricorrenti ci sono, ad esempio, quello sull’assenza di uno stato di diritto e il presunto non rispetto dei diritti civili. Le autorità russe, sono state costrette a prendere posizione, in maniera esplicita, per sfatare definitivamente questi pregiudizi alimentati dalla russofobia diffusa in Occidente. Senza una politica di appeasement nei confronti delle pelose pretese umanitarie europee – ‘pelose’ perché indotte dai circoli politici e finanziari atlantici e non minimamente richieste dalla popolazione europea e dai centri produttivi ‘sani’ – non sarebbe stato possibile, ad esempio, stringere un’alleanza strategica con la Germania della Merkel. Il presidente russo, così, è richiamato ad introdurre una serie di meccanismi di rinnovamento nel proprio sistema interno per assicurarsi una partnership economica europea nel tempo. A questo si deve, quindi, l’“apertura al dialogo” di Medvedev e le molte riforme annunciate in senso liberale e tecnocratico.
Molti osservatori occidentali affermano che esista una frattura tra i due leader che si andrà allargando in previsione delle elezioni del 2012. Alcuni addirittura paragonano Medvedev a Gorbachev dimostrando di conoscere ben poco la situazione interna della Russia e quella internazionale. È evidente che la presidenza di Medvedev tenderà sempre più a diversificarsi da quelle di Putin, da diversi punti di vista, non solo per quanto riguarda l’utilizzo dei mass-media e dei gruppi di sostegno elettorale. L’attuale presidente ha un approccio di apertura al pubblico, uno stile diverso nei rapporti diplomatici, è stato più volte definito “l’uomo del futuro”. Tutti questi segnali potrebbero portare a sospettare che Dmitrij Medvedev stia costruendo il suo personale consenso e la propria base di potere, in modo, forse, da correre autonomamente per le elezioni presidenziali del 2012. Quello che i suddetti osservatori dimenticano, però, è che la guida del partito Russia Unita è saldamente nelle mani di Putin e che lo stesso programma di modernizzazione è stato approvato dal partito e quindi da Putin stesso.
Molti si fanno abbindolare dal circo mediatico che tende a differenziare al massimo le figure di Putin e Medvedev, a metterli in contrapposizione, facendo credere che una determinata decisione sia da addebitare all’uno o all’altro. Si è veramente convinti che la politica sia svolta da questo o quell’uomo; l’importante è credere (perché un’opportuna campagna mediatica lo fa credere) che sia buono o cattivo, intelligente o mediocre, soprattutto ‘etico’ o furfante. Il presidente degli Stati Uniti, si ripete spesso, è “il più potente uomo della Terra”, mentre in realtà è quasi un burattino in mano alle lobby e ai gruppi di potere che hanno deciso e supportato la sua elezione. Il presidente conta fino ad un certo punto. Come sempre, la personalità ha una qualche ‘funzione nella storia’. Una funzione, tuttavia, decisamente meno importante di quella di un gruppo dominante compatto e che riconosca, in modo abbastanza unitario o comunque senza grosse crepe intestine, come i propri interessi siano ben difesi da quella data “amministrazione”, come è il caso del gruppo che si esprime attraverso Putin e Medvedev e che con il partito “Russia Unita”, che gode di consensi ‘bulgari’, ha praticamente blindato il sistema politico russo, reso impermeabile ad eventuali avversari politici esterni (si pensi all’affaire Khodorkovsky).
Relazioni con gli Stati Uniti
I presidenti Barack Obama e Dmitrij Medvedev hanno mostrato un profondo interesse nel
miglioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Federazione Russa. I segni di un disgelo tra i due paesi sono i seguenti:
Medvedev ha chiesto di rimuovere le barriere agli investimenti russi e chiesto la pressione politica degli Stati Uniti per aiutare la Russia a entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC)[12]. Eppure, il sostegno degli Stati Uniti da soli potrebbe non essere sufficiente per aprire la strada dell’OMC alla Russia. Al fine di essere in linea con i requisiti richiesti dall’OMC, la Russia deve ancora intraprendere alcune riforme importanti, come, ad esempio, abbassare i dazi doganali e le tariffe sui legnami[13]. In realtà, il gruppo di lavoro in merito all’adesione all’OMC è stato istituito già nel 1993. In una recente conferenza (16/04/2010) di chiusura del Business Week russo, Aleksej Mordashov (Presidente del Comitato per la Politica Commerciale e dell’OMC dell’Unione Russa degli industriali e imprenditori) ha annunciato che la Russia è pronta ad aderire all’OMC, non meno di altri paesi come la Mongolia o Cuba, che fanno già parte di esso. La Russia aveva preso in considerazione di entrare nell’OMC sola, poi in seguito, congiuntamente con la Bielorussia e il Kazakhstan[14], ma dopo trattative infruttuose il Ministro Shuvalov ha annunciato che – a causa di considerazioni tattiche – la Russia tenta di entrare da sola.
L’8 aprile, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il Presidente russo Dmitrij Medvedev hanno firmato a Praga il nuovo trattato START[15], che sostituisce l’accordo START del 1991. Le testate nucleari saranno ulteriormente ridotte a 1550 per ognuno dei due contraenti. L’Iran, contemporaneamente, ha organizzato una sua conferenza sul disarmo nucleare, contrapposta a quella di Obama. A seguito di ciò il Vice Ministro degli Esteri Sergej Rybakov ha avvertito l’Iran di adottare misure orientate a costruire fiducia reciproca e cooperazione nei rapporti.
La Russia ha aumentato la collaborazione con gli Stati Uniti nella guerra in Afghanistan, contribuendo anche con denaro e attrezzature, oltre che consentendo il passaggio dei rifornimenti NATO. Tra gli obiettivi dei russi c’è la guerra al traffico di droga (la Russia è il più grande consumatore di eroina e il principale paese di transito nel mondo) e l’aumento dell’influenza della Russia nel campo politico ed economico dell’élite afgana.
Tuttavia, alcuni attriti persistono nelle relazioni russo-americane:
La Russia resta fortemente preoccupata per il programma di difesa missilistica degli Stati Uniti. In particolare, dopo che la Romania ha approvato la proposta americana di ospitare missili intercettori anti-balistici sul suo territorio, anche se il Presidente romeno Basescu ha assicurato che i missili USA non sono diretti contro la Russia[16].
Il presidente Barack Obama ha sostenuto la sovranità territoriale della Georgia e la sua integrità. La Georgia – insieme con gli Stati baltici – offre in cambio di questa garanzia il sostegno militare agli Stati Uniti in Afghanistan e la disponibilità ad ospitare basi USA e NATO[17].
Relazioni con L’Unione Europea
Il programma di cooperazione tra Russia ed Europa è iniziato nel 1997, con la firma del cosiddetto “Accordo di cooperazione e partenariato UE-Russia (ACP)”. In seguito i rapporti si sono sviluppati in “Quattro Spazi Comuni”, o settori di cooperazione:
spazio economico comune;
spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia;
spazio comune per la sicurezza esterna;
spazio comune per l’istruzione, ricerca e cultura.
Dal 1994 è stato attivato un programma di sostegno economico alla CSI[18], chiamato TACIS (assistenza tecnica alla CSI). In questo quadro la Russia è stata il maggior beneficiario del fondo. Il TACIS è scaduto nel 2006 ed è stato sostituito da un nuovo regolamento per lo Strumento europeo di vicinato e partenariato (ENPI). Più di recente, l’impulso a sviluppare i rapporti politici e diplomatici con la Russia è arrivato quasi esclusivamente dalle singole nazioni europee, piuttosto che dalla burocrazia centrale di Bruxelles.
Tuttavia, nel febbraio 2010 il Ministro degli Affari Esteri Sergej Lavrov ha scritto, in un documento indirizzato al presidente Medvedev, il “Programma per un’efficace uso della politica estera nello sviluppo a lungo termine della Russia”. In questo documento si afferma che è venuto il momento per la Russia di stabilire stretti rapporti con l’Unione europea nel suo complesso al fine di aiutare
l’economia russa ad uscire dalla crisi economica. Tutti i membri dell’UE sono nominati nel documento, ad eccezione di Polonia e Regno Unito, con i quali la Federazione russa ha recentemente avuto problematiche relazioni diplomatiche.
In particolare, il documento mette in evidenza tre paesi cruciali per le alleanze commerciali:
Germania, per il Nord Stream Pipeline e il progetto Airbus A350.
Francia, per la costruzione di fabbriche di auto Renault, Peugeot e Citroen nel territorio russo, nonché per la cooperazione tra Gazprom e Électricité de France (EDF), il programma spaziale congiunto in Guinea e l’impianto nucleare di Belene in Bulgaria.
Italia, per il coinvolgimento in South Stream, la ristrutturazione ed il potenziamento delle ferrovie russe, di porti e aeroporti e la cooperazione alle Olimpiadi invernali 2014 di Sochi (vedi anche sotto).
Per quanto riguarda l’Unione europea nel suo complesso, a livello generale, la Russia ha preparato un programma di “Partenariato per la Modernizzazione” varato ufficialmente al vertice UE-Russia tenutosi il 1° giugno 2010 a Rostov-sul-Don, che include, tra le sue priorità: l’espansione delle opportunità di investimento in settori chiave che spingono la crescita e l’innovazione, rafforzano e approfondiscono le relazioni bilaterali sul piano commerciale ed economico e promuovono le piccole e medie imprese; la promozione dell’allineamento delle regolamentazioni e delle norme tecniche, nonché di un elevato livello di attuazione dei diritti di proprietà intellettuale; il miglioramento dei trasporti; la promozione di un’economia sostenibile a bassa emissione di carbonio e dell’efficienza energetica nonché di negoziati internazionali sulla lotta al cambiamento climatico; il miglioramento della cooperazione nel campo dell’innovazione, della ricerca e sviluppo e dello spazio; la garanzia di uno sviluppo equilibrato affrontando le conseguenze regionali e sociali della ristrutturazione economica; la garanzia del funzionamento efficace del sistema giudiziario e il rafforzamento della lotta alla corruzione; la promozione dei legami interpersonali e il rafforzamento del dialogo con la società civile per favorire la partecipazione di individui e imprese; invita la Commissione Europea e il governo russo a elaborare più in dettaglio il partenariato per la modernizzazione; accoglie con favore l’impegno del Presidente Medvedev di basare la modernizzazione della Russia nel XXI secolo sui valori democratici e sullo Stato di diritto, costruendo un’economia moderna diversificata e dinamica e incoraggiando la partecipazione attiva della società civile. In realtà, ci sono due punti che restano ancora critici: il rafforzamento di una presenza economica russa nei paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e l’acquisizione di partecipazioni di controllo nelle raffinerie di petrolio e negli oleodotti e gasdotti della Bielorussia e dell’Ucraina.
Relazioni con l’Italia
Negli ultimi anni le relazioni tra la Russia e l’Italia hanno raggiunto un livello di eccellenza e, tra i paesi dell’Unione europea, l’Italia è quello che ha stretto di più i legami con la Russia. La solidità ed importanza strategica di queste relazioni è tale che lo stesso primo ministro russo ha recentemente dichiarato: “Le relazioni tra la Russia e l’Italia non sono solo una questione di buone relazioni personali tra Berlusconi e me, esse sono basate su reciproci interessi di Stato”[19]. Infatti, anche con i precedenti governi italiani una fruttuosa e costruttiva collaborazione era in azione, anche se va notato che proprio con l’attuale governo Berlusconi queste relazioni hanno subito una decisa spinta in avanti. La natura di questi interessi reciproci è varia e abbastanza sostanziosa.
Dal punto di vista politico, l’Italia è un buon supporto alle relazioni della Russia o ai piani di ammissione a diverse organizzazioni internazionali occidentali, come l’UE, l’OMC e l’OCSE. Le relazioni tra Italia e Federazione russa si sono sviluppate attraverso numerose riunioni e accordi di alto livello[20]: la visita di Stato in Russia del Presidente della Repubblica Italiana Napolitano nel luglio 2008; la visita del ministro degli Affari Esteri Frattini a Mosca nel settembre 2008, durante la crisi tra Russia e Georgia; il vertice governativo italo-russo tenutosi a San Pietroburgo il 7 novembre 2008 (il precedente si è tenuto a Bari nel marzo 2007); l’incontro del Presidente Berlusconi con il Presidente Putin a Istanbul il 3 dicembre 2009 e, infine, il vertice intergovernativo allargato svoltosi a Roma il 3 dicembre 2009.
Per quanto riguarda il commercio, l’Italia esporta diversi beni in Russia, come macchinari, attrezzature meccaniche, abbigliamento, prodotti in cuoio e mobili, mentre la Russia è soprattutto un grande esportatore di materie prime[21]. A causa della crisi finanziaria internazionale, l’export italiano è sceso nel 2009 di oltre il 30% rispetto all’anno precedente. Le esportazioni dalla Russia sono stati meno compromesse, essendo calate “solo” del 24,7%[22], probabilmente a causa della minore elasticità della curva di domanda del gas. Al momento si stimano circa 500 aziende italiane operanti sul territorio russo. I principali settori in cui operano sono l’alta tecnologia, la meccanica e le telecomunicazioni, il settore auto, gli elettrodomestici e il settore bancario[23].
Nel giugno 2009 l’Italia e la Russia hanno firmato il Trattato per la prevenzione della doppia imposizione, che potrebbero rafforzare ulteriormente i legami commerciali tra i due Paesi[24].
Recentemente, i ministri della ricerca russo e italiano hanno avviato un progetto congiunto di ricerca sulla fusione nucleare. Il progetto è quello di costruire un reattore nucleare sperimentale appena fuori Mosca[25]. Oltre ad essere un importante partner in campo energetico, l’Italia è anche uno dei maggiori importatori di gas dalla Russia: al fine di facilitare strategicamente la consegna, nel 2012 inizierà la costruzione del cosiddetto gasdotto South Stream, che dovrebbe essere pronto nel 2015. Il progetto coinvolge Gazprom e Eni[26].
Alcune delle principali aziende italiane operanti nella Federazione Russa
L’Eni ha iniziato ad operare in Russia già durante la Guerra Fredda, quando l’allora presidente Mattei ha firmato con la Russia un accordo di scambio del petrolio russo con prodotti italiani (gomma, pompe, tubazioni, compressori). Alla fine degli anni ’60 Eni e URSS iniziarono la costruzione del gasdotto TAG che nel 1974 ha iniziato a portare il gas in Italia attraverso il suolo austriaco. Fu in quegli anni che la cooperazione tra Eni e governo sovietico si ampliò con la fornitura di macchinari per gli impianti energetici. Oggi una joint venture con Gazprom basata nei Paesi Bassi ha realizzato il gasdotto Blue Stream che va dalla Russia alla Turchia[27]. La partnership con Gazprom si è trasformata in una cooperazione strategica a lungo termine: nel 2006 le due aziende hanno firmato un importante accordo finalizzato ad avviare progetti comuni nel midstream e downstream del gas, nell’upstream e nella cooperazione tecnologica. Nel giugno 2007 le due compagnie hanno sottoscritto un memorandum d’intesa per la realizzazione del gasdotto South Stream, che collegherà direttamente la Russia e l’Europa attraverso il Mar Nero. Un altro balzo in avanti ad operare nel mercato russo è stato l’accordo con TGK-9, che Eni ha firmato nel giugno 2008 attraverso la propria società Eni-Energhia e che ha consentito ad Eni di iniziare a vendere gas in Russia[28]. I progetti dell’Eni in Russia sono ancora in piena espansione. Nel mese di ottobre 2009 l’Eni, Calik Holding[29], Transneft e Rosneft[30] hanno firmato un memorandum d’intesa per la realizzazione del gasdotto Samsun-Ceyhan.
UniCredit è una banca italiana, con sede a Milano. È operativa in Russia sin dal 1989, quando sbarcò a Mosca con il nome di International Moscow Bank. Nel 2001 si è fusa con Bank Austria Kreditanstald, presente anche lei in Russia. Il passo decisivo avvenne nel 2005, quando Bank Austria entra in UniCredit, in questo modo iniziando ad operare in Russia. Dal 2007, quando International Moscow Bank cambia nome in UniCredit, ha iniziato ad operare sotto questo marchio. Al momento UniCredit è ampiamente diffusa in tutta la Federazione russa, ha più di 100 uffici, 3.700 dipendenti, un capitale di 64,2 miliardi di rubli[31]. Forbes[32] ha valutato Unicredit al sesto posto tra le banche più affidabili della Russia.
Enel[33] è il terzo fornitore di energia più grande in Europa e il più grande in Italia, Spagna e Slovacchia. Fornisce energia (gas ed elettricità) a più di 61 milioni di clienti. Il primo passo nel mercato russo è stato fatto nel 2004, quando in collaborazione con ESN Energo ha ottenuto la gestione dell’impianto elettrico North-West Thermal Power Plant (NWTPP) di San Pietroburgo. La gestione si è rivelata estremamente efficiente e di successo da diversi punti di vista: la centrale ha quasi raddoppiato la sua capacità ed è stata la prima centrale russa a ricevere un certificato di qualità ambientale. Sulla base di questo successo, Enel nel 2006 ha acquisito una quota del 49,5% di RusEnergoSbyt, il principale operatore indipendente di energia in Russia[34]. Nel 2007 Enel e Rusatom[35] hanno firmato un accordo di cooperazione per lo sviluppo congiunto dell’energia nucleare. Nello stesso anno, in una joint venture con Eni, Enel ha acquisito depositi di gas, che dovrebbero essere congiunti con i principali gasdotti russi, sulla base di un accordo firmato con Gazprom. Dopo l’acquisizione di una quota di OGK-5[36] nel 2009, Enel è ulteriormente presente sul mercato russo. Gli impianti di proprietà di OGK-5 saranno migliorati e implementati, al fine di aumentare la loro produttività e la sicurezza e ridurre al minimo l’impatto ambientale. Altri impianti sono stati pianificati per essere aperti sul suolo russo nei prossimi anni.
La presenza della Fiat in Russia ha radici sin nel 1966, quando aiutò alcune industrie di auto dell’URSS ad aprire uno stabilimento produttivo nella città di Togliatti. La nuova società così creata si chiamò AvtoVaz e iniziò a produrre una piccola “auto del popolo”, chiamata Lada, sulla base del modello Fiat 124, adattato alle condizioni climatiche e alle strade russe. La produzione si è evoluta ed è diventata più indipendente dal contributo italiano: già nel 1977 il corpo e il sistema di trazione a quattro ruote della Lada Niva erano interamente progettati dall’AvtoVaz. Nel 2008 Fiat e Sollers[37] hanno annunciato alcune joint venture per produrre e vendere auto Fiat in Russia. L’11 febbraio 2010 è stato annunciato[38] che la joint venture avrebbe immesso sul mercato russo fino a 500.000 auto all’anno entro il 2016. La joint venture al 50% è sostenuta da un prestito di 1,2 miliardi di euro del governo russo. Un nuovo impianto di produzione verrà aperto in Tatarstan[39] e ospiterà la produzione di vari modelli di Fiat e del gruppo Chrysler.
Finmeccanica opera nel mercato russo dal 1967, quando il primo Ufficio di Rappresentanza fu aperto a Mosca. Già nel 1970 Selenia forniva i centri di controllo di Mosca, Kiev e Mineral’nye Vody con radar che sono ancora in attività. Da questi primi passi, Finmeccanica ha costantemente aumentato e ampliato il suo interesse per il Paese, espandendo le sue operazioni in molti settori strategici e ad alta tecnologia. Riconoscendo l’elevato potenziale del mercato e l’impegno del governo determinato a IED, la tecnologia e il know-how transfer, strategia d’investimento attuale del Gruppo Finmeccanica nella Federazione Russa va oltre il semplice attività commerciale. Approfittando dei forti legami politici, economici e culturali tra l’Italia e la Federazione russa, l’obiettivo della Società è quello di stabilire una cooperazione di lunga durata con i partner locali, sviluppando una potente base industriale nella Federazione Russa. Attualmente Finmeccanica opera nei settori dell’aeronautica, dei trasporti ferroviari, dell’energia, delle telecomunicazioni, dello spazio e della logistica e sicurezza integrata.
[1] Fonte: APCOM
[2] Altai, Khabarovsk, Voronezh, Kaluga, Kurgan, Ryazan, Sverdlovsk, Yamalo-Nenets.
[3] Partito Comunista della Federazione Russa – PCFR, Partito Liberaldemocratico di Russia – PLDR, Russia Giusta.
[4] http://wciom.com/, sondaggio del 27 Aprile 2010.
[5] Cfr. http://www.eurasia-rivista.org/5191/la-duma-della-russia-approva-il-disegno-di-legge-per-l’espansione-dei-poteri-della-fsb
[6] http://wciom.com/, sondaggio del 12 Aprile 2010.
[7] VTsIOM (Centro di ricerca sull’opinione pubblica russa), www.wciom.com, http://wciom.com/news/ratings/confidence-in-political-leaders.html
[8] Carol Savez, professore dell’Università di Harvard, voanews.com, 05/01/2010
[9] Il neologismo è stato creato piuttosto sagacemente: come la radice del termine (tandem) suggerisce, tale meccanismo può funzionare solo se entrambi i membri pedalano nella stessa direzione, essendo impossibile per uno dei due andare in una direzione diversa.
[10] Nel suo discorso e piano per il futuro: “Russia, avanti!”
[11] Organizzazione Mondiale del Commercio.
[12] The Moscow Times, 15/04/2010
[13] David G. Tarr, The Moscow Times, 13/02/2010
[14] Questi tre paesi applicato come Unione doganale, un blocco commerciale costituito nel 2010. Era la prima volta nella storia dell’OMC che un’Unione richiesto per l’ingresso, che ha sollevato alcune critiche e dubbi. Dopo 17 anni di attesa la Russia ancora attende l’ingresso nell’OMC finora bloccato dagli Stati Uniti.
[15] Strategic Arms Reduction Treaty
[16] The Telegraph, 04/02/2010.
[17] Reuters, 06/04/2010.
[18] Comunità degli Stati Indipendenti, l’organizzazione che raccoglie gli Stati dell’ex URSS: Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Kazakhstan, Kyrgyzistan, Moldavia, Russia, Tajikistan, Turkmenistan, Ucraina, Uzbekistan.
[19] Xinhua, 12/04/2010.
[20] Gli accordi diplomatici e commerciali attivi al momento riguardano diverse aree: commercio ed economia, ricerca, cultura, diritto, energia, ecc.
[21] Pelo Roberto – Torrembini Vittorio, Sdelano v Italii, La presenza italiana in Russia. Successi, problemi, prospettive, pp. 38–40, Milano, Edizioni Il Sole 24 Ore, 2010.
[22] Dal sito internet del Ministero degli Affari Esteri, www.esteri.it
[23] Pelo Roberto – Torrembini Vittorio, Sdelano…, cit., pp. 74–77.
[24] http://www.worldwide-tax.com
[25] Il progetto è assolutamente significativo e innovativo perché il reattore Alcado C-Mod sarebbe il primo nella storia a raggiungere l’accensione, cioè il punto in cui una reazione di fusione nucleare diventa autosufficiente. Il fisico Bruno Coppi sarà il responsabile del progetto (fonte: nanopatentsandinnovations.blogspot.com, 11/05/2010).
[26] Ma è ormai certo l’ingresso nel progetto della francese EDF e sono in corso le trattative con l’azienda tedesca RWE, si veda: http://www.eurasia-rivista.org/5154/south-stream-cosa-si-muove
[27] La cooperazione con Gazprom continua in joint venture con l’Enel, si veda infra.
[28] Eni è stata la prima azienda europea ad entrare nel mercato della distribuzione ai privati in Russia. NEFTE Compass, 07/07/2008.
[29] Società turca.
[30] Aziende russe.
[31] Sito internet ufficiale di UniCredit in Russia: http://www.unicreditbank.ru
[32] Forbes Russia, edizione di Marzo 2009, N. 3.
[33] Ente Nazionale per l’Energia Elettrica
[34] Tra i suoi clienti ci sono aziende di importanza strategica come, ad esempio, RZD (Ferrovie di Stato Russe).
[35] Agenzia russa per l’energia nucleare.
[36] Una delle aziende che sarà privatizzata, come previsto dal progetto di liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica in Russia.
[37] Sollers ha sei centri produttivi localizzati principalmente nella parte orientale della Russia.
[38] Bloomberg Businessweek.
[39] Una delle repubbliche russe.
*Antonio Grego
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Rapporto del Consiglio nazionale dei Geologi
6 milioni di italiani esposti a rischio idrogeologico 13.10.2010
Sono circa 6 milioni gli italiani che abitano nei 29.500 chilometri quadrati del nostro territorio considerati ad “elevato rischio idrogeologico”.
Lo evidenzia il primo ‘Rapporto sullo stato del territorio italiano’ realizzato dal centro studi del Consiglio nazionale dei Geologi (Cng), in collaborazione con il Cresme, presentato a Roma.
In Italia, precisa il documento, 1.260.000 edifici sono “a rischio frane e alluvioni. Di questi oltre 6 mila sono scuole, mentre gli ospedali sono 531”.
Della popolazione a rischio, secondo il primo Rapporto Cng-Cresme, il 19% ovvero un milione di persone vivono in Campania; 825 mila in Emilia Romagna, oltre mezzo milione in ognuna delle tre grandi regioni del Nord: Piemonte, Lombardia e Veneto. “E’ in queste regioni, insieme alla Toscana, dove persone e cose sono maggiormente esposte a pericoli, per l’elevata densita’ abitativa e per l’ampiezza dei territori che registrano situazioni a rischio” sottolinea il Rapporto.
http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=146265
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La multinazionale a impatto zero 18.10.2010
Nel 1994 Ray Anderson, presidente e fondatore della InterfaceFlor di Atlanta, specializzata nella produzione di tappeti e moquettes, annuncio’ che entro il 2020 l’azienda sarebbe diventata a impatto zero: energie rinnovabili, riduzione dei rifiuti e riciclo di tutti i propri prodotti.
Ad oggi hanno ridotto del 71% le emissioni di gas nell’atmosfera, dell’80% il consumo d’acqua per unita’ di produzione e del 43% il consumo di energia. Premiato anche l’aspetto economico: oggi la InterfaceFlor detiene il 30% del mercato globale di moquettes modulari e genera profitti per un miliardo di dollari all’anno. L’impatto zero avrebbe fatto risparmiare 433 milioni di dollari.
Illuminanti le dichiarazioni di Ramon Arratia, responsabile sostenibilita’ dell’azienda: “Il riciclo vero consiste nel separare tutti i pezzi di un prodotto e nel riusarli per lo stesso prodotto. Per esempio riduciamo in polvere un tappeto e ne facciamo uno nuovo”. E ancora: “Il 90% dei Paesi non ha un contesto fiscale adeguato a far si’ che le imprese siano innovative perche’ non c’e’ un sistema di gratifiche che premi la sostenibilita’. Inoltre i governi dovrebbero ridefinire la tassazione facendo in modo che i prodotti che lasciano una maggiore impronta di carbonio paghino di piu’”.
(Fonte: Ilsole24ore)
Fonte imm
http://www.jacopofo.com/multinazionale-impatto-zero-interfaceflor-atlanta-risparmio-energetico
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Scoperto ‘interruttore’ genetico depressione 18.10.2010
Scoperta la chiave genetica della depressione: un vero e proprio ‘interruttore’ che attiva le sindromi depressive attaccando i neuroni e favorendo la comparsa dei sintomi.
La scoperta, da parte dei ricercatori della Yale University, può portare a un nuovo ‘superfarmaco’ che, attaccando il gene incriminato e inibendone le funzioni, potrà impedire o curare molte forme depressive.
“Questo studio – ha detto Ronald S. Duman, professore di psichiatria e farmacologia all’Università di Yale e autore senior dello studio – ha individuato il gene che potrebbeessere una causa primaria, o almeno un fattore di contributo importante, per le anomalie che portano alla depressione“.
La depressione, che solo negli Stati Uniti ha un costo sociale ed economico annuale di 100 miliardi di dollari, è dovuta a una serie di componenti psicologiche, ma anche da fattori fisiologici.
Questo spiega perchè le persone rispondono in modo diverso agli antidepressivi più comunemente prescritti, che operano manipolando l’assorbimento del neurotrasmettitore serotonina.
Tuttavia, ben il 40 per cento dei pazienti depressi non rispondono ai farmaci attualmente disponibili, che richiedono settimane o mesi per produrre una risposta terapeutica. Il team di Yale ha condotto analisi del genoma su campioni di tessuto da 21 persone decedute, a cui era stata diagnosticata la depressione, e li hanno confrontati con i livelli di espressione genica di 18 individui sani.
Scoprendo che un gene chiamato MKP-1 aumenta di più di due volte nei tessuti del cervello di individui depressi. Il gene, infatti, riesce a disattivare una molecola essenziale per per la sopravvivenza e la funzione dei neuroni, e quando questa molecola viene deteriorata subentrano i sintomi tipici della depressione.
Quando il ‘cattivo’ gene MKP-1 è disattivato nei topi, hanno inoltre scoperto gli scienziati, i topi diventano resistenti allo stress. Quando il gene viene attivato, i topi presentano sintomi depressivi.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, conclude sottolineando che la scoperta del ruolo negativo del MKP-1 può identificarlo come un potenziale bersaglio per una nuova classe di agenti terapeutici, in particolare per il trattamento della depressione resistente.
Per approfondire:
Depressione e disturbi dell’affettività
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Ad Antigua, coi nostri soldi
Stefano Olivieri, 18.10.2010
Emerald Cove, baia di Nonsuch dell’isola di Antigua. Un paradiso terrestre lontano dalla pazza folla, da quei miserabili sciatti e sudati, urlanti e volgari che fanno i cortei. Un covo di pirati di ieri e certo anche di oggi, guarda caso ora anche di Berlusconi. A proposito, sapevate che il progettista del “villagigo turistico” esotico è lo stesso dei moduli abitativi de L’Aquila?
Emerald Cove, baia di Nonsuch dell’isola di Antigua. Ettari ed ettari, una intera collina fronte mare dove le ville miliardarie crescono da qualche anno come funghi, e ad abitarle in buona parte saranno gli amici, e gli amici degli amici. E poi ristoranti, supermercati e negozi, piscine, un campo di golf e un porto. Insomma un vero villaggio, se volete saperne di più guardatevi anche questa pagina che ho trovato su internet, dove il progettista dell'”Emerald Cove Resort ” racconta la sua creatura definendola testualmente “villaggio turistico ad Antigua”. E nella stessa pagina web – particolare raccapricciante – si scopre che si tratta dello stesso progettista dei moduli abitativi usati per i terremotati dell’Aquila. Bello, eh ?
Come racconta la puntata di Report, il premier piange il morto ma frega il vivo. Da quando è al governo i suoi fantastiliardi, chissà perché, si sono centuplicati e lui, che ormai di case in Italia ne ha davvero troppe, ormai costruisce altrove. E per non trovarsi più tra i piedi Zappadu pronto a scattare foto sulle sue festicciole divertenti, se ne è andato a fare il palazzinaro ad Antigua. Un intero villaggio di villette e villoni, la sua dimora personale naturalmente sul cocuzzolo della collina perché è così che si addice al sovrano, e sotto tutte le altre. Naturalmente ci spiegheranno che lui non c’entra niente, con il solito e noto giochetto delle società una dentro l’altra come le matrioske russe, o se preferite le scatole cinesi, ma il succo alla fine resta lo stesso, noi affondiamo e lui naviga sempre più nei miliardi come paperon de paperoni.
Perché dico “coi nostri soldi”? Perchè Berlusconi governa pressoché ininterrottamente l’Italia da 10 anni durante i quali il paese si è impoverito allo stremo mentre lui si è imballato di miliardi di euro, anche grazie a un numero indefinito di conflitti di interessi intrecciati fra di loro come le mangrovie, a succhiare il sangue e il lavoro degli italiani. E oggi, mentre l’Italia non sa dove sbattere la testa per arrivare alla fine del mese, lui continua ad arricchire tornando palazzinaro di ville esotiche e miliardarie, altro che bicamere a Montecarlo.
Non dico un pizzico di etica pubblica, ma almeno di buon gusto potrebbe averlo il cavaliere, o forse è chiedere troppo? E poi, ripensando a questa estate appena trascorsa, ricordate la parabola della pagliuzza e della trave ? Beh, parliamo di quello. Pensate che terribile assillo avrà quest’uomo quando dovrà andare in pensione: in quale paradiso andrà a riposarsi ?
Io un’idea ce l’avrei, ma la tengo per me.
http://democraticoebasta.ilcannocchiale.it
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16012
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Torna a splendere il Crocifisso di Ognissanti di Giotto 18.10.2010
È tornato a splendere il Crocifisso di Ognissanti di Giotto, presentato oggi alla stampa dopo il restauro ad opera dell’Opificio delle Pietre Dure.
Il crocifisso tornerà a pendere nella chiesa di Ognissanti di Firenze dal prossimo sabato 6 novembre. Nel frattempo, fino a venerdì 22 ottobre sarà visibile su prenotazione nei laboratori dell’Opificio (055.2651339/340/347/348).
In realtà il restauro ha portato fuori anche un dubbio sull’attribuzione a Giotto. Proprio gli stessi ricercatori, dopo una pulizia della vernice, avevano parlato di “un parente di Giotto”. Ulteriori studi non invasivi, compreso un test di riflettografia a raggi infrarossi, hanno rivelato disegni preparatori sotto il dipinto che hanno permesso di attribuire definitivamente il crocifisso all’artista nato a Vicchio.
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Cina e Usa ai ferri corti per i sussidi alle rinnovabili 18.10.2010
Scambio di accuse tra Cina e Stati Uniti sugli aiuti pubblici all’industria delle rinnovabili. Tutto inizia ai primi di settembre, con una petizione lanciata dal sindacato statunitense United Steelworkers per chiedere che gli aiuti statali cinesi venissero riconosciuti come lesivi della concorrenza internazionale.
Le convinzioni dei lavoratori americani dipendevano essenzialmente da cinque fattori. Il primo ha a che fare con le materie prime necessarie all’industria dell’energia pulita: la Cina produce il 90% di queste materie prime e ostacolerebbe le aziende straniere che vogliono acquistarle. Il secondo ha a che fare con tecnologie e brevetti: secondo il sindacato in Cina si lavora solo in JV con le aziende locali alle quali si deve cedere l’utilizzo dei brevetti.
Il terzo fattore deriva dal fatto che almeno l’80% dei materiali utilizzati negli impianti eolici prodotti in Cina deve essere, a sua volta, prodotto in Cina. Il quarto ha a che fare con i sussidi cinesi all’industria delle rinnovabili che, a detta di United Steelworkers, sono pari a cinque volte i sussidi elargiti dal governo americano. Il quinto, infine, driva dal quarto: con tutti questi contributi pubblici l’industria cinese delle rinnovabili sta soppiantando senza pietà quella europea e statunitense.
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Picasso, Monet, Dalì in un database online delle opere trafugate dai nazisti 19.10.2010
Una grande raccolta di capolavori dell’arte moderna e contemporanea saccheggiate dai nazisti, che comprende opere di Pablo Picasso, Vincent Van Gogh, Salvador Dalì e Claude Monet, potrebbe presto smembrarsi e tornare ai legittimi proprietari.
Si tratta del bottino di guerra dei soldati del Fuhrer, che alcuni soldati americani si sono trovati davanti liberando una chiesa di Elligen, in Germania. Tra di loro c’era il generale Dwight D. Eisenhower.
Oggi è stato finalmente creato un database online di catalogazione delle opere trafugate, più di 20.000 pezzi. Ci sono dipinti milionari come gli Elefanti di Dalì, un Pierrot di Picasso, un dipinto a pastello di Monet, ma per una volta, forse, le firme sulle tele sono meno rilevanti rispetto alla storia dei legittimi proprietari dei quadri.
Picasso, Monet, Dalì in un database online delle opere trafugate dai nazisti
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Libano e Iran, accordo di cooperazione su petrolio e gas
di Carlo M. Miele
Osservatorio Iraq, 07.10.2010
La notizia farà discutere sicuramente le potenze occidentali, che da tempo stanno cercando di allontanare il Libano dalla sfera di influenza dell’Iran.
A pochi giorni dalla visita ufficiale a Beirut del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, i due paesi hanno firmato diversi accordi che aprono la strada a una stretta cooperazione in materia di energia, attraverso i settori del gas e del petrolio.
L’annuncio è stato fatto ieri da Masoud Mir Kazemi, ministro del Petrolio di Tehran, ripreso dai media dei due paesi.
Gli accordi presi prevedono la costruzione di nuove raffinerie in Libano, con l’ausilio della tecnologia iraniana, e l’esportazione del petrolio iraniano nel paese arabo.
Ma gli interventi dovrebbero interessare anche i nuovi e consistenti giacimenti di gas ritrovati a largo delle coste mediterranee, contesi tra Libano e Israele
E, al tempo stesso, Tehran si impegnerà a sistemare l’antiquata rete elettrica libanese, in modo da renderla più efficiente e da eliminare i problemi di approvvigionamento che costantemente affliggono il Paese dei cedri.
In cambio, Beirut avvantaggerà le compagnie iraniane interessate a investire in Libano, mediante una serie di incentivi e agevolazioni fiscali.Entrambe le parti – stando ai media iraniani e libanesi – si sono dette soddisfatte per l’intesa.
In particolar modo il ministro libanese dell’Energia, Jibran Bassil, ha espresso apprezzamento per l’ausilio che verrà offerto dagli iraniani, vista la lunga esperienza accumulata da questi ultimi nel settore dell’energia.
“Il Libano – ha dichiarato Bassil – è interessato a beneficiare delle capacità scientifiche e tecnologiche dell’industria petrolifera iraniana per la costruzione di gasdotti, oleodotti e raffinerie”.
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=9788
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I Rotoli del Mar Morto in un click 20.10.2010
Avviata la partnership tra Israele e Google per la digitalizzazione dei manoscritti risalenti al primo secolo dopo Cristo. Il progetto sfrutta una tecnologia sviluppata alla NASA
Roma – Una notizia interessante per archeologi, filologi e appassionati di sacre scritture di tutto il mondo: Google, in collaborazione con le autorità archeologiche israeliane, digitalizzerà i Rotoli del Mar Morto e metterà a disposizione il risultato su Internet.
Prosegue, dunque, l’impegno di Mountain View, in partnership con le biblioteche di tutto il mondo, rivolto alla acquisizione in digitale di libri e documenti preziosi allo scopo di renderli accessibili a tutti attraverso la Rete (e, ovviamente, preservarne una copia). Per quanto riguarda i famosi manoscritti risalenti al primo secolo dopo Cristo, BigG ha investito alcuni milioni di dollari su una tecnologia di elaborazione delle immagini sviluppata alla NASA.
Il progetto congiunto con Israele rappresenta il più recente passo nella direzione dell’accesso a documenti vecchi di 2mila anni, in passato disponibili solo per una ristretta cerchia di studiosi e, solo negli ultimi decenni, diffusi attraverso riproduzioni ad hoc. Gli organizzatori affermano che le prime immagini del nuovo lavoro saranno visibili online già tra qualche mese.
Pnina Shor, capo del progetto per le autorità archeologiche israeliane, sostiene che la collaborazione con Google unisce “una delle scoperte più importanti del secolo precedente e una delle tecnologie più avanzate del prossimo secolo”. E poi: “Stiamo mettendo insieme passato e futuro con lo scopo di condividere il risultato”.
I Rotoli del Mar Morto sono stati ritrovati nel 1940 nella località di Qumran, Cisgiordania: sono scritti in giudaico, aramaico e greco e contengono parte della Bibbia ebraica. Oltre alla traduzione, Mountain View si occuperà della digitalizzazione dei novecento manoscritti costituiti da circa 30mila frammenti. L’intera collezione dei Rotoli venne fotografata negli anni ’50, ma l’accesso alle foto e ai documenti è stato limitato per molto tempo agli studenti e, a oggi, solo quattro restauratori sono autorizzati a maneggiare il materiale.
Cristina Sciannamblo
http://punto-informatico.it/3015123/PI/News/rotoli-del-mar-morto-un-click.aspx
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di Paul Ginsborg
TEANO
Quei rami della nostra storia 20.10.2010
Si impara nelle scuole italiane e perfino in certe facoltà universitarie: non si scrive mai la storia con i «se». A prima vista può sembrare un consiglio sensato e pragmatico. Ma escludere l’esplorazione delle vie alternative, dei sentieri che la storia avrebbe potuto prendere (senza poi farlo) si rivela quasi subito un condizionamento ingiustificabile, quasi ideologico. Il grande albero della storia ha il suo tronco, maestoso e imponente, di fattualità, cioè di quello che è accaduto. Ma ha anche i suoi rami di contro-fattualità, cioè di quello che avrebbe potuto accadere. Nella costruzione di una storia nazionale, i rami hanno un’importanza quasi uguale al tronco. Sono le spie di un’altra storia, non quella predominante ma quella possibile, che offre spesso gli spunti più suggestivi per le future generazioni.
È con questa chiave che vorrei esaminare due temi di grande importanza nella storia d’Italia. Il primo è l’autogoverno come processo di educazione e presa di coscienza. Carlo Cattaneo, impropriamente adottato ora dalla Lega come suo ideologo, scrisse nel 1864 un saggio intitolato «Sulla legge comunale e provinciale». In essa pregò il nuovo governo italiano di rispettare le leggi locali esistenti in Lombardia e altrove, molto più avanzate e democratiche di quelle piemontesi, allora da poco imposte a livello nazionale. Per Cattaneo i piccoli comuni democratici e ben funzionanti erano «la nazione nel più intimo asilo della sua libertà».
L’arte di governo italiana era tutta qui, nel comune e nella città: «Pare anzi che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi». Naturalmente, la nuova classe dirigente italiana disse di no alle proposte ben sostanziate di Cattaneo, ma le sue parole hanno continuato a volare attraverso i decenni, e costituiscono un esempio significativo di quello che avrebbe potuto essere ma non fu. Nel suo bell’articolo (il manifesto 2ottobre) Pierluigi Sullo insiste sulla necessità di incoraggiare e immaginare comunità «neo-democratiche», capaci di guardare al territorio come un bene comune, e aperte al mondo. Sullo suggerisce che Pisacane si troverebbe a suo agio al Presidio No Dal Molin. Aggiungiamo pure Cattaneo, anche con il rischio di uno scontro immediato tra i due – l’uno lombardo, e poi ticinese, l’altro napoletano, l’uno professore universitario, l’altro ex-ufficiale dell’esercito, un liberale di ferro contrapposto a un sognatore socialista.
Se l’autogoverno è un primo tema sconfitto dalla storia italiana, un ramo più che un tronco, un secondo ramo di grande interesse e attualità è quello dell’uguaglianza. Oggi l’Italia è uno dei paesi più disuguali del mondo, vicino nelle tabelle internazionali ai quattro peggiori – Portogallo, Gran Bretagna, gli Usa e Singapore. In Italia il 20% più ricco della popolazione è distanziato dal 20% più povero da un reddito circa sette volte superiore. Ma questa cifra complessiva rischia di mascherare la drammaticità di due altre componenti della disuguaglianza italiana – una geografica – il divario tra Nord e Sud, e l’altra tra individui. Marco Revelli ha riportato, all’affollato convegno fiorentino sul berlusconismo della scorsa settimana, le cifre impressionanti sulle disparità della ricchezza individuale nell’Italia neo-liberista.
Torniamo al Risorgimento. Poche ma significative sono le voci che si sollevano contro le grandi disuguaglianze del tempo, quelle soprattutto tra bracciante affamato e proprietario terriero spesso assenteista.
Una di queste è di nuovo Pisacane che nel suo Testamento politico (1857) dichiara la società moderna governata da «una legge economica e fatale», che avrebbe accumulato tutte le ricchezze «in ristrettissime mani». Dopo 150 anni nulla si rivela di più sensato. Specialmente alla luce degli studi più recenti, come quello di Richard Wilkinson e Kate Pickett (The Spirit Level), che dimostrano come le società più disuguali siano le più infelici. In moltissimi ambiti – basso livello di fiducia, alto livello di sorveglianza, scarsa parità di genere, obesità, percentuale di carcerati … – le società diseguali nel complesso hanno risultati assai peggiori di quelle più paritarie.
Forse le figure più autorevoli del Risorgimento avrebbero dovuto dare un po’ più di ascolto a quell’isolato ex-ufficiale dell’esercito napoletano che, pallidissimo, sul molo di Genova, dettava il suo testamento politico a Jessie White Mario, prima di andare a morire nel Cilento. Se l’avessero fatto, forse l’Italia sarebbe oggi una nazione più felice. Ma la storia, come si sa, non si scrive con i se.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20101023/pagina/01/pezzo/289635/
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Il Galles punta sullo sviluppo dell’energia marina 20.10.2010
Che un po’ in tutto il mondo, seppur con diverse velocità fra Stato e Stato, ci si stia muovendo verso la formulazione di piani di sviluppo che contemplino nel medio-lungo termine la crescita della quota rinnovabile nei mix energetici, è oramai realtà consolidata; tuttavia il caso del governo del Galles è abbastanza particolare.
L’Assemblea gallese infatti, per portare a compimento il proprio piano di riduzione delle emissioni di carbonio, ha dato all’energia ricavata dalle maree e dal moto ondoso un ruolo cruciale. Assegnato un valore 100 al mix di rinnovabili si è pianificato per coprire questa quota con il 40% di eolico, il 20% di biomasse e pensate un po’, addirittura il 40% con l’energia marina, il tutto cercando di raddoppiare la quota di energia verde nei prossimi dieci anni.
Al di là del fatto che si tratti di un intento programmatico, è evidente che il Governo locale creda fermamente nel proprio documento avendo posto degli obiettivi particolarmente ambiziosi ovvero quelli di riduzione del 3% all’anno delle emissioni di CO2 nei settori strategici individuati. Credere o meno che fra vent’anni si potrà assistere a quanto programmato è forse troppo presto per dirlo, tuttavia rimane un grosso dubbio circa la quota di energia marina impegnata nei propri intenti.
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La Finanza Etica cresce. La speculazione fallisce 20.10.2010
Quando la finanza fa rima con l’etica e la sostenibilità diventa la base del finanziamento, investire in modo “virtuoso” e non solo speculativo diventa possibile e anche vantaggioso. Siamo davanti ad un Fondo Etico, che ha la funzione di sostenere le aziende che operano nei diversi mercati di riferimento con il massimo rispetto per i valori sociali, la promozione dell’ambiente e dei diritti umani. Nonostante la crisi economica e dei mercati, la finanza etica continua a crescere, arrivando a segnare negli ultimi due anni un +87% degli investimenti.
È quanto emerge dalla ricerca appena pubblicata (.pdf), dall’associazione dei forum europei per la finanza sostenibile Eurosif, che rileva come le risorse investite in modo “sostenibile” in Europa sono passate dai 2,7 mila miliardi di euro alla fine del 2007 ai 5 mila miliardi di euro alla fine del 2009, con un notevole incremento degli investitori istituzionali.
Di questi 5 mila miliardi, 1.200 miliardi sono investiti secondo criteri definiti da Eurosif “core SRI” (.pdf), cioè particolarmente selettivi: i gestori non si limitano a escludere dai portafogli aziende controverse come produttori di armi, di energia nucleare, ma adottano anche criteri positivi di valutazione selezionando le aziende e gli Stati più virtuosi sul piano delle politiche sociali, ambientali e di governance.
Gli altri 3.800 miliardi di dollari sono investiti secondo criteri definiti “broad SRI” (.pdf), vale a dire meno stringenti, che si limitano a escludere i titoli di aziende e stati particolarmente controversi. Per quanto riguarda l’Italia, lo studio registra 312,4 miliardi investiti secondo criteri di responsabilità sociale, di cui appena 13,1 miliardi sono investiti utilizzando i criteri più stringenti.
Per Ugo Biggeri, presidente di Banca Popolare Etica, la prospettiva della finanza etica oggi è anche garanzia di stabilità, oltre che di lungimiranza economica. “Basti pensare al caso BP: considerata un’azienda abbastanza responsabile in senso lato e inserita nel Dow Jones Sustainability Index, (l’indice di borsa che afferma di monitorare le performance finanziarie delle aziende più sostenibili del mondo), ne è stata poi esclusa in tutta fretta dopo il disastro ecologico scatenato con la marea nera”.
I fondi etici più scrupolosi, come quelli promossi da Etica sgr, escludono a priori il settore petrolifero dall’universo investibile, mettendo anche al riparo i clienti dalle pesanti perdite che questi titoli registrano in occasione di disastri di queste proporzioni. “Un’ulteriore dimostrazione del fatto che efficienza economica e sostenibilità, nel lungo periodo, vanno di pari passo”.
“La crescita della Finanza Etica in tutto il mondo – conclude Biggeri, – impone l’elaborazione di parametri che offrano ai risparmiatori e agli investitori responsabili reali garanzie circa l’eticità dei prodotti su cui investono, per evitare che la patente etica venga attribuita in modo discrezionale e finisca con il rispecchiare più strategie di marketing che reali scelte responsabili. Dal nostro punto di vista non può che destare perplessità, ad esempio, il recente inserimento di Finmeccanica, che è tra le prime 10 aziende che producono e commerciano armamenti nel mondo, nel Dow Jones Sustainability Index”.
Secondo Alessandra Viscovi, direttrice generale di Etica sgr, società di gestione del risparmio del gruppo Banca popolare Etica, unica in Italia a proporre esclusivamente fondi etici e tra i leader del mercato italiano dei fondi socialmente responsabili, “i dati del mercato europeo sono particolarmente incoraggianti, soprattutto in un momento così difficile per il mercato finanziario”.
L’Italia è ancora piuttosto indietro, specialmente per la mancanza di investitori istituzionali che, invece, sono presenti fortemente in mercati come quello inglese e scandinavo, ma anche da noi non mancano indici positivi e buoni risultati. “Nel triennio 2007-2009 – spiega Viscosi – in Italia si è registrato un calo del 33% (pari a 220 miliardi di euro) negli asset del risparmio gestito, mentre Etica Sgr, nello stesso periodo, ha visto raddoppiare il proprio patrimonio, diventando il secondo player sul mercato italiano degli investimenti socialmente responsabili con performance, soprattutto della componente azionaria dei fondi, tra le più alte del mercato”.
Non mancano, inoltre, in Italia numerose esperienze positive e di lungo corso capaci di investire con criteri simili sulle persone, ancor prima che sulle aziende. Il Fondo Etico e Sociale delle Piagge guidato a Firenze da don Alessandro Santoro è una di queste realtà. Nato nel 2000 come esperienza di finanza alternativa, il 16 ottobre scorso ha compiuto i suoi primi dieci anni di vita.
“La nostra esperienza di microcredito è partita in punta di piedi ma con obiettivi ambiziosi. A dieci anni di distanza dalle prime riunioni, possiamo dire con soddisfazione di avere fatto molta strada” ci spiega don Santoro. “Abbiamo deciso di festeggiare questa data come una tappa importante nella nostra micro-rivoluzione: ripensare completamente il concetto di denaro e su questa base costruire una rete di solidarietà nel nostro territorio – ha aggiunto Maria Chiara Manetti, referente per il Fondo – qui il Fondo Etico funziona perché esistono delle relazioni tra persone, relazioni di conoscenza e fiducia che sostituiscono le garanzie tradizionali”.
Questa modalità, è l’unica che rende possibile l’accesso al credito anche ai “non bancabili”, il cui numero è in costante aumento: disoccupati, precari, cassaintegrati… tutte persone che non potrebbero fornire ad una banca nemmeno le garanzie minime per un prestito. E anche in questo caso la scommessa del fondo, giocata sulla relazione e non sul patrimonio, funziona. Lo dimostra il tasso d’insolvenza, per un bancario una percentuale inconcepibile: zero! [A.G.]
http://www.unimondo.org/Notizie/La-Finanza-Etica-cresce.-La-speculazione-fallisce
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Giovani. Servizio civile al capolinea? 21.10.2010
Solo 113 milioni. Mai così basso il finanziamento. Il picco nel 2007, con i quasi 300milioni, poi un calo costante
Saranno appena 113 milioni (112.995.000 per l’esattezza), quelli a disposizione per il Fondo nazionale del servizio civile nel 2011. Lo conferma l’allegato 1 a pagina pag. 12 del Disegno di legge: “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2011” (n. 3778), approvato dal Consiglio dei Ministri il 14 ottobre scorso ed ora alla discussione della Commissione V “Bilancio e Tesoro” della Camera dei Deputati.
Nel documento la stessa cifra, la più bassa di sempre, viene prevista anche per il 2012 e il 2013, e questo porterà a poter finanziare nei prossimi anni molti meno dei 18.459 volontari dell’ultimo bando, quando lo stanziamento era stato di 170milioni.
Con un comunicato diffuso ieri «la Rappresentanza Nazionale dei Volontari in Servizio Civile Nazionale, da sempre disponibile al dialogo con tutti i soggetti coinvolti nella definizione del Servizio Civile Nazionale, appoggia ufficialmente la petizione organizzata dalla CNESC e promossa dal Forum del Terzo Settore e annuncia la volontà di mobilitarsi a livello regionale e nazionale».
Per Cristina Peppetti, Corrado Castobello, Fania Alemanno e Manfredi Sanfilippo, Rappresentanti nella Consulta nazionale del servizio civile, «il Servizio Civile Nazionale è un patrimonio culturale per i giovani, sociale per gli utenti e di ricchezza vera e propria per il Paese. Pertanto la Rappresentanza Nazionale dei Volontari continuerà a battersi per la salvaguardia di questa importante istituzione e delle sue caratteristiche fondanti».
http://www.vita.it/news/view/108141
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Comunicato Stampa su Terzigno
22 ottobre 2010 – Coordinamento Regionale Rifiuti
L’emergenza di questi giorni potrebbe essere fronteggiata immediatamente senza l’apertura di nuove discariche: quella che pare una provocazione è in realtà il frutto di un ragionamento cha parte dalle cause dell’emergenza e termina con un nuovo piano dei rifiuti, incentrato sulla tutela della salute pubblica e della dignità dei cittadini.
Per incominciare questo ragionamento bisogna anzitutto premettere che quanto sta accadendo in queste ore a Terzigno è la conseguenza del modo dissennato con cui la classe politica nazionale e locale ha gestito i 16 anni di emergenza rifiuti in Campania: durante questi anni infatti non solo non si è rispettata la legislazione europea sulla gerarchia dei rifiuti, che parte dalla riduzione a monte e dalla raccolta differenziata finalizzata al riciclo dei materiali, ma si sono anche approvate leggi criminali che hanno incentrato il piano rifiuti sulla costruzione di enormi discariche da riempire di rifiuti indifferenziati e tossici, nell’attesa della costruzione di grandi inceneritori; In essi la legge emergenziale n.123/08 autorizza a bruciare anche i rifiuti indifferenziati, consentendo ai gestori di tali impianti di intascare i soldi dei contribuenti italiani derivanti dai CIP6, soldi pubblici destinati alle energie rinnovabili che in Campania vengono impropriamente dirottati verso l’incenerimento dei rifiuti.
Questo piano scellerato viene portato avanti senza tenere in alcun conto la devastazione ambientale, sanitaria, civile e morale dei territori campani, già sottoposti ad una lunga e selvaggia pressione ambientale causata da decenni di sversamenti illegali di rifiuti tossici provenienti dal Nord Italia e dall’Europa. Questi rifiuti tossici sono stati disseminati nei più fertili terreni agricoli della Campania, nelle migliaia di cave del casertano e lungo le coste, pregiudicando in modo criminale le preziose risorse idriche e agronomiche regionali, al solo scopo di arricchire il blocco sociale costituito da ecomafie, amministrazioni compiacenti ed industriali corrotti.
Tali interessi criminali, che si contrappongono alla salute pubblica, hanno sfruttato un’interminabile catena di ordinanze e leggi emergenziali “in deroga” ad interi settori della normativa italiana ed europea, calpestando anche i diritti fondamentali dei cittadini campani, come il diritto alla salute e ad un ambiente salubre che consenta una vita dignitosa senza la continua e fondata paura di vedere i propri cari ammalarsi gravemente.
La gestione commissariale ha imposto per anni l’apertura di nuove discariche di tal-quale, quasi sempre fuori norma e quasi sempre realizzate in luoghi inadeguati per le loro caratteristiche idrogeologiche, spesso servite al duplice scopo di “risolvere” in modo grossolano una “emergenza rifiuti” creata ad arte (anche grazie all’appoggio di media compiacenti o superficiali) e di coprire con una montagna di rifiuti urbani indifferenziati ogni tipo di sversamento illecito, sovrapponendo ad uno strato di rifiuti tossici uno strato di “monnezza” ordinaria.
La scelleratezza della politica commissariale è emersa anche dal modo in cui si è affrontata la questione della frazione umida dei rifiuti: mentre si lamentava l’emergenza, come se si trattasse di un’inaspettata catastrofe naturale, si lasciavano chiusi e abbandonati in uno stato di degrado desolante decine di impianti di compostaggio che avrebbero potuto trattare adeguatamente la frazione umida dei rifiuti trasformandola in compost, sostanza fertilizzante da utilizzare per le coltivazioni o per combattere la desertificazione dei territori. In alcuni casi gli impianti di compostaggio sono stati addirittura utilizzati dal commissariato come deposito di ecoballe non a norma, impedendone quindi l’entrata in funzione e prolungando l’emergenza dei rifiuti organici abbandonati nelle strade, con la conseguenza dei miasmi e del pericolo di un’emergenza sanitaria.
La raccolta differenziata, come ha anche rilevato già nel 2005 la Corte dei Conti, non è mai stata organizzata adeguatamente, mentre si è continuato ad insistere sull’emergenza dei rifiuti e delle discariche sature senza che fosse adottata alcuna politica in grado di evitare che tonnellate di rifiuti indifferenziati fossero abbandonati per le strade. Ad esempio la raccolta differenziata porta a porta non è stata estesa all’intera città di Napoli, tra le principali produttrici di rifiuti della Campania, privilegiando la raccolta stradale e dunque vanificando di fatto tutti i vantaggi derivanti dalla differenziazione a monte dei rifiuti.
I sette impianti di vagliatura campana (i famosi CDR), il cui malfunzionamento è stato causato non da errori di progettazione ma dalla volontà di produrre una quantità smisurata di ecoballe indifferenziate in modo da bruciarle ed ottenere finanziamenti pubblici, non sono stati riprogettati ma continuano a triturare il rifiuto indifferenziato, rendendo in questo modo impossibile la separazione meccanica e il recupero di materali riciclabili contenuti nella massa dei rifiuti indifferenziati. Una grave conseguenza di questo malfunzionamento è la produzione, da parte di questi impianti, di una falsa frazione organica stabilizzata da smaltire nelle discariche; infatti la frazione organica non è affatto stabilizzata ma produce percolato letale per le falde acquifere, in cui sono spesso mischiati anche inquinanti che provengono dai rifiuti tossici.
Il CO.RE.ri,, ha smascherato questa gestione criminale con una certosina attività di indagine e documentazione dei fatti, avanzando proposte concrete per la soluzione definitiva della finta emergenza campana, avviando per di più innumerevoli azioni legali a tutela dei cittadini, dalla Corte dei Conti al Consiglio di Stato, alla Procura delle Repubblica ed inoltrando infine circostanziate petizioni alla Commissione Europea.
Grazie all’impegno profuso dai comitati nello studio del problema dei rifiuti, il CO.RE.ri. ha compreso i limiti del cosiddetto “ciclo integrato”, che, anche secondo la normativa europea, termina con impianti di incenerimento e discariche. Questo limite europeo in Italia si trasforma in un business a causa della distrazione del mercato rappresentata dai fondi pubblici per l’incenerimento, che spingono gli imprenditori a premere sulle amministrazioni per bloccare la raccolta differenziata e costruire enormi inceneritori. In Campania questa sciagura raggiunge una forma paradossale, dato che le leggi straordinarie emanate dal governo centrale consentono non solo la costruzione continua di questi enormi forni, ma autorizzano anche a sversarne le ceneri e le scorie, contenenti sostanze pericolose e cancerogene, nelle discariche per i rifiuti urbani.
A questa gestione folle il CO.RE.ri. ha contrapposto concetti innovativi e una nuova visione dei rifiuti orientata alla sostenibilità ambientale e al recupero dei territori compromessi: raccolta differenziata finalizzata al riciclo totale della materia, un’economia basata sul recupero delle materie prime seconde senza impianti inquinanti e dannosi per la popolazione.
L’emergenza di questi giorni potrebbe essere fronteggiata immediatamente con una separazione della frazione umida dei rifiuti (scarti alimentari e vegetali) da quella secca (carta, plastiche, vetro…): la frazione umida, recuperata attraverso una raccolta differenziata porta a porta, potrebbe essere subito trasformata in sostanza nutriente per i suoli, evitando in tal modo il pericolo sanitario delle sostanze organiche in putrefazione per strada o del percolato prodotto nelle discariche di tal-quale. A tal fine sarebbe importante coinvolgere le aziende agricole esistenti in Campania, che potrebbero dare un prezioso contributo accorciando la filiera del riciclo del materiale organico.
Inoltre gli impianti di CDR potrebbero essere riadeguati in modo tale da separare le diverse frazioni secche e recuperare i flussi di materiali dai rifiuti per avviarli al riciclo, evitando la costruzione di inceneritori e discariche. In una sola parola: “riciclo totale della materia“, da contrapporre al business della combustione, che guadagna fondi pubblici distruggendo la materia e mettendo a rischio la salute dei cittadini.
E’ per questi motivi che il CO.RE.ri., nel denunciare la continua azione di sabotaggio di qualsiasi percorso virtuoso che possa risolvere in maniera seria e definitiva il problema dei rifiuti in Campania, non può che esprimere piena solidarietà ai cittadini dei comuni vesuviani ai quali, come già accaduto per quelli di Chiaiano, Savignano, Sant’Arcangelo Trimonte, Serre e Santa Maria La Fossa, viene negato il diritto alla salute, alla partecipazione democratica ed alla sovranità popolare, militarizzando i territori ed utilizzando le forze pubbliche contro i cittadini, con azioni militari degne dei peggiori regimi dittatoriali.
Il business dei rifiuti dev’essere superato rilanciando un’economia sana basata sul riciclo dei materiali, in grado di garantire un futuro dignitoso alle popolazioni campane ed offrire un modello virtuoso al resto dell’Italia e dell’Europa.
CO.RE.ri – Coordinamento Regionale Rifiuti della Campania
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Dal Pd una proposta di legge per l’acqua pubblica
C.R., 21.10.2010
No alla privatizzazione forzata dell’acqua e una “gestione industriale” del servizio idrico nell’interesse dei cittadini e non dei profitti e del mercato. Saranno gli Aato ad affidare la gestione a un soggetto che valuteranno loro, in rappresentanza degli enti locali. Il controllo rimane in mano pubblica rafforzato dalla supervisione di un Autorità di garanzia nazionale. E’ l’obiettivo di una proposta di legge per l’acqua pubblica presentata dal Pd. Ne parliamo con l’estensore della proposta, il senatore Filippo Bubbico
Il Pd presenta una proposta di legge per ribadire che l’acqua è un bene pubblico, ma non si accoda al referendum promosso dal comitato per l’acqua pubblica (di cui fanno parte centinaia di associazioni oltre che movimenti politici).
In particolare, sul referendum, Bersani ha spiegato che è “un messaggio importante e giusto, ma non è in grado di consegnare un esito normativo che dia razionalità al problema”, senza contare il rischio di mancato raggiungimento del quorum che lo trasformerebbe in un “boomerang”.
Anche Franceschini, che ha firmato per il referendum, ha voluto testimoniare l’assoluta unità del partito su questo tema ed ha sottolineato che la proposta di legge “traduce in un articolato il tema dell’acqua pubblica che è oggetto del referendum. Del resto l’aspetto prevalente della battaglia referendaria era culturale perché i quesiti referendari sono sempre limitati al merito delle questioni poste”.
Durante una conferenza stampa il segretario Pierluigi Bersani e i capigruppo di Camera e Senato Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, hanno illustrato motivi e contenuti della proposta di legge su cui i democratici avvieranno un confronto con iscritti, amministratori, ambientalisti e consumatori. Primo obiettivo: quello di evitare la “privatizzazione forzata” che è stata introdotta dal decreto Ronchi. Il secondo obiettivo di fondo è quello di realizzare in tutto il Paese una “buona gestione industriale” che abbia le dovute “garanzie” perché possa funzionare senza squilibri nelle diverse parti dell’Italia. “L’acqua e la sua buona salute sono valori indisponibili: l’acqua va riconsegnata al buon Dio così come ce l’ha data” ha detto Bersani: “L’intero ciclo deve avere una responsabilità pubblica nella programmazione e nel controllo, ma questo può avvenire con un progetto industriale che può dare al ciclo una sua razionalità”.
Nella proposta del Pd la presenza dei privati è infatti possibile ma sotto la responsabilità pubblica. Per Bersani ora si deve cercare su questo testo “un largo coinvolgimento” e Franceschini ha spiegato: “vogliamo capire se è possibile che anche qualcuno nella maggioranza si ravveda rispetto al decreto Ronchi”. “La proposta – ha detto Anna Finocchiaro – è coerente con le scelte del Pd: cominciamo a introdurre l’idea di una gestione federalista delle risorse, con livelli essenziali e fondi che garantiscano l’accesso”. “La nostra non è un’iniziativa estemporanea – ha proseguito Anna Finocchiaro, prima firmataria della proposta di legge -, e si inserisce nel quadro di modifica del codice civile riguardo ai beni comuni”.
Per capirne di più abbiamo contattato il senatore Filippo Bubbico, principale artefice della proposta di legge.
La proposta del Pd è volta ad affermare un “diritto all’acqua” garantendo un “livello minimo di prestazione per evitare diritti di serie A e di serie B”. Ma come si articolerebbero questi diritti?
L’iniziativa referendaria va valorizzata, ma il referendum non risolve il problema. L’acqua è un bene comune dell’umanità, va preservata per le future generazioni. Va garantito il governo della risorsa perché gli usi risultino sostenibili e venga data priorità al consumo umano. In più l’acqua deve essere restituita ai corpi idrici in condizioni di qualità soddisfacenti per preservarla per le future generazioni. L’accesso al servizio è livello essenziale di cittadinanza come definito dall’articolo 17 della Costituzione: tutti i cittadini non solo hanno diritto all’acqua, ma hanno diritto all’accesso al servizio idrico (quindi ricevere acqua in casa e godere di un altro servizio fondamentale che è quello del collettamento delle acqua reflue e della depurazione delle stesse per la loro restituzione ai fiumi in condizioni di qualità accettabile per far sì che l’oro blu rientri virtuosamente nel circolo ambientale).
Parlando di sevizio, emerge il tema dell’efficienza nella sua gestione…
Già, acqua prelevata alla fonte; portata a casa dei cittadini; ri-prelevata e restituita ai fiumi senza sprecare nulla e gestendo un processo industriale perché entrano in campo competenze saperi sensibilità ambientali e principi etici. Ecco perché il servizio deve essere gestito secondo logiche industriali e criteri di efficacia ed economicità. Perché un servizio gestito male spreca risorse e ricade sulla fiscalità generale e sui cittadini, colpendo ancora una volta i cittadini più deboli.
Questi sono i principi generali. Parliamo ora della gestione.
L’uso della risorsa idrica deve svilupparsi in condizioni di sostenibilità e la risorsa non è altra cosa rispetto al territorio, e quindi chiama in causa l’autorità del distretto geografico, le regioni, province e comuni titolari della tutela dell’assetto del suolo. Insomma, l’uso della risorsa idrica risultare compatibile con i bilanci idrici governati dalle autorità di distretto alle quali partecipano le regioni e lo Stato.
Saranno quindi le regioni a decidere l’ambito territoriale ottimale (Aato) procedendo comune per comune o aggregando su base più ampia il servizio, avendo come riferimento obiettivo l’efficienza e l’uso sostenibile della risorsa che vanno declinati luogo per luogo. Anche dal punto di vista energetico insito, per esempio, nel trasferimento e il pompaggio.
Una volta definito il perimetro, i titolari dell’Aato saranno i sindaci in carica, e quindi risolviamo il problema della moltiplicazione delle figure con conseguenti costi, responsabilità e perdita di relazione diretta tra amministratori e amministrati. A sua volta, l’assemblea dei sindaci è presieduta dalla figura apicale dell’ambito di riferimento (se è la regione è presieduta dal presidente regionale, se è la provincia è il presidente della provincia; se non coincide neppure con la provincia decidono i sindaci quale comune porre al vertice della catena di decisione, ndr).
L’assemblea dei sindaci assume le decisioni con un unico passaggio: l’adozione degli atti che vengono sottoposti ai singoli consigli comunali e gli altri soggetti come le associazioni dei cittadini chiamati ad esprimere le loro valutazioni. A questo punti i sindaci tornano all’Aato arricchiti dalle valutazioni dei consigli comunali, delle associazioni dei cittadini etc.
Vediamo se ho capito bene: a questo punto l’assemblea d’ambito definisce l’impianto strategico: per esempio: la necessità di garantire l’acqua 24 ore su 24 a tutti i cittadini, anche nelle frazioni più impervie, la garanzia che l’acqua sia depurata e che la qualità sia alta, e ultimo – ma non certo per importanza – ne definisce anche il costo. A quale costo? Attraverso quali soggetti?
L’ assemblea d’ambito stabilisce quello che possiamo definire il livello massimo della sostenibilità della tariffa, vale a dire il tetto di costo che non deve e non può essere superato. Per tutti. A questo punto possono entrare in gioco vari attori: si può optare per una società solo pubblica, una mista o una meramente privata. In ogni caso la decisione è assunta dalla comunità locale e non imposta per legge come avviene con il decreto Ronchi.
Ciascun soggetto pubblico o privato deve presentare un piano esecutivo con il quale dimostra di soddisfare tutti gli obiettivi del piano strategico varato dall’assemblea d’ambito e nel quale presenta anche gli eventuali miglioramenti che intende introdurre…
Puoi farci un esempio?
Mettiamo che l’Aato stabilisca a 1 euro il tetto di costo massimo per metro cubo d’acqua. Il soggetto che presenta il piano esecutivo (pubblico, misto o privato) può decidere che il servizio arrivi a costare 90 centesimi di euro. Non 1 euro e 10. Stiamo parlando di acqua per uso umano e civile. Non per usi industriali e agricoli che rispondono ad altre logiche.
A questo punto, gli Aato assegnano la gestione del trasporto dell’acqua. Quella che può essere chiamata “la brocca”. Per quanto tempo e con quali controlli?
Assumiamo che si opti per un soggetto pubblico: avrà la gestione per trenta anni con verifica e conferma biennale. Vale a dire che, anche il soggetto pubblico non può fare tutto ciò che vuole, le verifiche intermedie valgono per tutti. Ci sono poi problemi di garanzie affinché l’assemblea d’ambito non assuma decisioni punitive (per esempio con il cambio di colore politico): la proposta di conferma o sospensione della gestione viene valicata da un’Autorità indipendente del servizio idrico integrato, costituita a livello nazionale.
Torniamo alla “brocca” o ai tubi. Spesso sono fatiscenti. L’Italia paga pesantemente l’insufficiente manutenzione delle infrastrutture. Anche in termini di dispersione dell’acqua. Come fare a trovare i soldi necessari?
Nella nostra proposta di legge si prevede che all’interno della tariffa a carico del cittadino sia conteggiata una quota (un venti per cento) da stornare per finanziare le dotazioni idriche. Questa quota non viene riscossa dal titolare della gestione ma viene versata in un Fondo nazionale. Fondo affidato ad un regolamento successivo che però potrebbe essere allestito per esempio presso la Cassa depositi e prestiti e alimentato anche da una quota di fiscalità generale tanto da rendere effettivo l’accesso all’acqua di tutti i singoli cittadini.
Chi presidia queste azioni?
L’Autorità nazionale di regolazione segue anche gli interventi in termini di riequilibrio. In sintesi, la nostra proposta di legge cammina su due gambe: un principio di forte autonomia locale e strumenti solidi dal punto di vista nazionale. Due gambe con un’unica idea in testa: Non si deve mai mettere in discussione i diritti di cittadinanza che devono valere ovunque nel Paese.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16047
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Dalla newsletter di http://www.caffeeuropa.it/ del 25.10.2010
Le aperture
IL Corriere della Sera: “L’Italia un peso per la Fiat”. Le parole di Sergio Marchionne, che ha spiegato che i due miliardi di utile della Fiat “vengono solo dall’estero”, sono sui titoli di apertura di tutti i quotidiani. “Il manager: al 118° posto per efficienza del lavoro. La Fiom: parla da straniero”. “Domande senza risposta” è il titolo del commento di Massimo Mucchetti. L’apertura del quotidiano milanese è però dedicata alla politica: “Il Pdl avverte Fini: non c’è altro governo. Micciché lancia a Palermo ‘Forza del Sud’. Bersani: ritirate il Lodo e dialogo sull’economia”. L’editoriale, firmato da Aldo Cazzullo, è titolato: “I divorziandi della libertà”. A centro pagina i rifiuti in Campania: “I sindaci non firmano. Bertolaso: lo Stato va avanti. Il capo della protezione civile promette di pulire Napoli in pochi giorni”. In evidenza anche la vignetta di Giannelli, con un Berlusconi vestito da poliziotto che – su un cumulo di rifiuti – dice: “E’ tutto sotto controllo”.
La Repubblica: “Fiat, la sfida di Marchionne. Il manager: su due miliardi di utili neanche un euro viene dagli impianti nazionali. ‘Senza l’Italia faremmo meglio’. Epifani accusa: se ne vogliono andare”. E anche: “Calderoli replica: ‘Si ricordi gli aiuti che hanno avuto'”. A centro pagina: “Rivolta dei sindaci: ‘No al piano rifiuti’. Caos a Terzigno, Bertolaso: ‘Non torno indietro'”. In prima pagina anche la politica: “Il Pd e i finiani: pronti a un governo con l’Udc di Casini. Via libera di Franceschini e Bocchino”.
Il Giornale: “Anche Tremonti nel tritacarne Rai”. Si parla del “solito Report”, che ieri dedicava la sua puntata al ministro dell’economia: “Dopo le ville di Antigua di Berlusconi, ecco le parcelle del ministro: la Gabanelli colpisce ancora e come sempre lo fa a senso unico. E la Rai non dice una parola, se non per annunciare l’ennesimo aumento di canone”. Una foto a centro pagina per Marchionne, sotto il titolo: “Senza l’Italia la Fiat andrebbe meglio”. Sotto, i rifiuti: “Il vaffa di Bertolaso ai sindaci. Salta l’accordo sulla discarica. ‘Avanti da soli, puliremo tutto in 4 giorni'”. Di spalla anche un richiamo per il congresso di Sinistra Ecologia e Libertà: “Nichi, oh bello ciao, già sorpassato dalla storia”:
L’Unità: “Al miracolo di Terzigno. La promessa di Berlusconi: risolvo tutti in dieci giorni”. Il quotidiano descrive il “muro contro muro” con gli amministratori dei comuni interessati. E poi: “sfilano anche i medici. I camici bianchi in piazza per denunciare il disastro ambientale. Un inferno che ci costa 11,4 miliardi”.
La Stampa: “Il pugno duro di Bertolaso: ‘Napoli pulita in 3 giorni’. ‘La nuova discarica rinviata alle calende greche’. Ma a Terzigno è sempre muro contro muro. No dei sindaci al piano del governo. Il sottosegretario: avanti lo stesso”. A centro pagina: “Se tagliassimo l’Italia la Fiat farebbe meglio”. “L’ad del Lingotto: pronto ad aumentare i salari. Marchionne: qui nessun utile”. In prima anche un richiamo sul Lodo Alfano, sul quale “Fini pensa all’astensione”.
Il Sole 24 Ore si occupa di piccole imprese: “Rischio valute per le Pmi. Le tensioni sui cambi e lo scontro tra Cina e Stati Uniti producono effetti rilevanti su export e competitività. Dai contratti in euro ai gruppi di acquisto, le contromosse delle aziende”.
Marchionne
Il Corriere della Sera intervista il segretario della Cisl Raffaele Bonanni e il vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei. Per Bonanni, che non è rimasto sorpreso dalle parole di Marchionne, “occorre vedere insieme come si può arrivare ad un itilizzo intensivo degli impianti adeguandoci a ciò che avviene in altri Paesi europei. Sappiamo tutti che le vere difficoltà stanno lì più che nel costo del lavoro. E di questo che dobbiamo parlare”. A patto, però, che si faccia “alla luce del sole”, perché “è assurdo” che di fronte alla perdita ogni giorno di posti di lavoro si “continui a discutere di altro”. Il governo appare a Bonanni “immobile”, e l’opposizione “dovrebbe essere più realistica, meno ideologica e populista”. Quanto alla offerta di Marchionne di discuter edi aumenti di stipendi, Bonanni dice: “Arriviamo al pieno utilizzo degli mpianti in cambio non solo del salario di produttività, ma anche della ripartizione degli utili e, questione che reputo molto importante, si arrivi ad un livello alto di partecipazione delle decisioni aziendali”.
Bombassei spiega di condividere le osservazioni di Marchionne, dice che la competitività non è solo questione di costo del lavoro “ma anche di costi dell’energia, di fisco, di infrastrutture”. E “purtroppo tutte queste voci vedono l’Italia soccombere al cospetto di altri Paesi”. “Può darsi che in quelle parole ci fosse un po’ di provocazione”, ma “le cose dette sono drammaticamente vere: sul fronte della competitività e della competitività siamo in fondo alle classifiche”.
Massimo Mucchetti scrive che Marchionne ha speso sull’Italia parole di verità che “non vorremmo leggere come prologo di un addio”. “Se si limita a citare la triste posizione dell’Italia nelle classifiche sulla competitività industriale, ma non spiega come mai con le sue medie e piccole imprese sia la seconda potenza esportatrice d’Europa, Marchionne finirà col dare fiato a chi lo sospetta di manovrare perdite e profitti Paese per Paese, allo scopo di contrattare al meglio aiuti pubblici e sconti sindacali”. “Che cosa ha inventato di grande in ques’ultimo lustro la Fiat?”, chiede Mucchetti. O “come intende cambiare stabilimento per stabilimento, e con quale spesa, l’obsoleta struttura produttiva italiana?”. Secondo Mucchetti “la Fiat non sta investendo al ritmo promesso”: Marchionne dovrebbe “rispondere ai sindacati moderati che gli hanno firmato una cambiale in bianco rischiando la propria reputazione”. E si chiede: perché non istituzionalizzare la collaborazione sfidando Fim, Fiom e Uilm, ma anche le altre grandi imprese private e pubbliche, sul terreno ambizioso della codecisione? Il modello è la Germania, dove il governo taglia la spesa pubblica, ma fa politica industriale e conserva “il ruolo centrale stabilizzatore del sindacato; e poi, quando torna il bello, ripaga”.
Del modello tedesco (“Così lavorano le tute blu in Germania”) parla La Stampa in focus a pagina 5. Rievoca il caso di Wolfgang Bernhard, che fece capire di voler ristrutturare in profondità la Mercedes perdendo l’appoggio dei sindacati interni e, con esso, il posto di nuovo amministratore delegato. Il caso di Bernhard illustra bene il potere che nel sistema tedesco possono avere i dipendenti, e che si basa tutto sulla parola Mitbestimmung, cogestione. Consente ai dipendenti di influenzare l’organizzazione dei processi lavorativi e, nelle società più grandi, di intervenire direttamente nelle decisioni aziendali grazie al consiglio di sorveglianza, in cui i rappresentanti dei lavoratori siedono insieme a quelli degli altri azionisti. Altro cardine del sistema tedesco è la Tarifautonomie: sono le imprese e i sindacati a concordare stipendi e salari, non lo Stato. Le parti sociali stipulano contratti collettivi a livello regionale validi per un intero macrosettore. All’interno di questo macrosettore un ingegnere specializzato ha una busta paga mensile base pari a circa 4721 in Baden Wuttemberg, e di 4450 in Baviera. Un lavoratore semplice, invece, incassa circa 1874 Euro in entrambi i Lander. I sindacati possono convocare uno “sciopero di avvertimento” se c’è stallo nelle trattativa per il rinnovo dei contratti. Se i contatti falliscono viene organizzato un vero e proprio sciopero, ma solo se il 75 per cento degli iscritti si dichiara a favore. Gli scioperi politici sono vietati per legge, lo sciopero generale è praticamente sconosciuto.
(Comunque è notizia fresca che Fini si sia un po’ adirato)
Politica
La Repubblica dà conto della posizione espressa da Italo Bocchino, esponente di punta di Futuro e Libertà, secondo cui il governo tecnico è possibile e legittimo “nell’interesse del Paese, se la situazione precipita. Ci sono i numeri per farlo”. Parla di un “governo di legittimazione parlamentare”. Il quotidiano intervista Dario Franceschini, capogruppo del Pd alla Camera, che ha appena chiuso il seminario della sua Area Democratica: “Dobbiamo avere il coraggio di guardare ad alleanze più ampie”, “la coalizione più facile, ossia Pd, Idv e Sel è poco sopra il 35 per cento”. Per Franceschini “il terzo polo di fatto esiste già”, è necessario “chiudere la stagione del berlusconismo e preparare il Paese a una alternanza di governo che avviene tra avversari rispettosi di un sistema di regole condiviso”. L’alleanza sarebbe limitata alla riforma elettorale? “No. Dovrebbe formarsi una sorta di ‘governo delle regole’.
L’Unità intervista Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc: “La Costituzione, l’unica vigente, dice che il capo del governo ha la maggioranza in Parlamento: se la perde, il governo si disfa e se ne fa uno nuovo sempre in Parlamento. Il presidente della Repubblica ha non il diritto ma il dovere di accertare se ci sono nuove maggioranze”. Buttiglione dice che con Futuro e Libertà c’è una “convergenza e una elevata possibilità che in caso di elezioni a breve si vada a costituire insieme una terza posizione: un’area di responsabilità nazionale si sta delineando, c’è un blocco elettorale del 15-25 per cento che non è né di destra né di sinistra”. Lei vede un posto per il Pd in questo quadro? Risponde Buttiglione: un’alleanza con il Pd su posizioni riformiste cambierebbe scenario, potrebbe porsi l’ambizione di governare.
Il Corriere della Sera intervista il ministro e coordinatore del Pdl Bondi, secondo cui resta illegittimo un esecutivo non guidato da Berlusconi.
Su Il Giornale: “Governo tecnico? La truffa dei vinti”. Per il quotidiano “Fini, Casini e D’Alema vogliono rovesciare Berlusconi perché sanno che andando al voto sarebbero sconfitti”. Si tratta di una “consorteria di interessi mai legittimata dagli italiani”.
Esteri
Dopo le rivelazioni di Wikileaks sulla guerra in Iraq, il vicepremier britannico LibDem Nick Clegg ha affermato che si tratta di “accuse estremamente serie”, e chiede agli Usa di rispondere. Una richiesta – sottolinea La Repubblica – che chiama in causa implicitamente anche il Regno Unito, alleato numero 1 degli Usa. L’intervento di Clegg appare significativo perché prende le distanze dalla reazione ufficiale del proprio governo, che ha condannato la diffusione dei dati ed ha minimizzato l’importanza delle rivelazioni, segnalando al contempo che, svelando l’identità di militari americani e britannici, se ne mette a rischio l’incolumità. Clegg e il suo partito erano però sempre stati contrari alla guerra in Iraq.
Se ne occupa anche L’Unità, riferendo ancora le parole di Clegg: “Tutto lascia pensare che le regole di base della guerra siano state violate e che la tortura sia stata tollerata”.
Il Corriere della Sera sottolinea che le dichiarazioni di Clegg potrebbero avere ripercussioni all’interno del governo di cui è vicepremier.
La Repubblica riproduce un articolo del New York Times, in cui due giornalisti che hanno incontrato il fondatore di Wikileaks Assange, raccontano la sua vita da “braccato”, che teme le agenzie di intelligence occidentali. Ormai non sono soltanto i governi a denunciarlo, scrive il quotidiano. Alcuni dei suoi stessi colleghi lo stanno abbandonando perché sembra avere poca consapevolezza che i segreti digitali che rivela possono costare molto cari in termini di vite umane.
La Stampa riproduce uno tra i 40 mila files segreti resi pubblici da Wikileaks e riprodotto domenica sull’Observer. E’ quello che ricostruisce istante per istante cosa accadde in Iraq il 17 ottobre 2006, nel corso di un “giorno ordinario di guerra”. Alla fine della giornata i morti sono 146.
Il Giornale approfondisce le notizie date dal New York Times, secondo cui l’Iran avrebbe ampiamente finanziato l’Afghanistan del presidente Hamid Karzai, per promuovere gli interessi di Teheran a Kabul. Obiettivo di Teheran sarebbe creare una frattura tra i vertici afghani e gli alleati americani e Nato. Milioni di dollari che il governo di Kabul utilizzerebbe per pagare deputati, capi tribù e comandanti talebani nell’intento di assicurarsene la fedeltà. Un analista pakistano, intervistato dal britannico Telegraph, Yusuf Zai, dice che l’Iran sta lavorando su più fronti: da una parte finanzia i talebani, dall’altra i vertici di Kabul, poiché “non possono permettersi di avere l’America forte su due confini”:
La Stampa dedica una intera pagina alla conversione all’islam della cognata di Tony Blair, Lauren Boot. L’ispirazione le sarebbe venuta durante una visita alla moschea di Fatima, in Iran. Lavora per PressTv, l’emittente iraniana in lingua inglese.
Mario Pirani, su La Repubblica, sottolinea come sia stato pressoché ignorata la gravità delle dichiarazioni del presidente iraniano Ahmadinejad all’estremo Sud del Libano, “a due passi dal confine israeliano”. Fa notare che a lanciare l’allarme è stato il quotidiano francese Le Monde, non sempre compiacente con Israele: “Immaginiamo per un istante -ha scritto Le Monde- che un presidente in carica in qualche altro Paese del mondo, vada alla frontiera di uno Stato straniero” e “inciti pubblicamente alla sparizione di questo Stato (non di un governo, ma dello Stato!)”. Vi sarebbe una immediata levata di scudi, raccolta dal Consiglio di sicurezza Onu, sottolinea Le Monde. Alla luce di queste considerazioni, Pirani critica un documento del dipartimento internazionale della Cgil e, soprattutto, una raccolta di firme avallata e diffusa dalla Fiom in cui si chiede conto al Pd dell’adesione di alcuni suoi parlamentari ad una manifestazione pro-Israele e si intima al Pd di chiarire la propria posizione sulla questione israelo-palestinese.
Il Corriere dà conto del vertice a Vienna di molte formazioni europee di destra (dall’Fpo austriaco al Vlaams Belang fiammingo belga, al Dansk Folkeparti danese), intenzionate ad ottenere un referendum in tutta Europa su un eventuale ingresso della Turchia nell’Ue.
E poi
Su La Repubblica Ilvo Diamanti commenta i dati emersi da un’indagine Demos-Coop sull’informazione in Italia, che il quotidiano sintetizza così: “Tg 1 e Rg 5, fiducia a picco. Ma la fame di tv-verità spinge Ballarò e Annozero”. Leggendo nel dettaglio i dati: il 53 % degli interpellati ha fiducia in Ballarò; al secondo posto c’è Report, con il 48,4%; al terzo Anozero 46 %, al quarto Matrix con il 43%; Porta a Porta 40% e via di seguito. Sui tg: alla domanda “quanta fiducia ha nei seguenti notiziari?”, in testa restano i Tg3 regionali (72%), quindi Tg3 (64%). In questi due casi non ci sono state variazioni negli ultimi anni, nel gradimento. Si arriva poi al Tg2: 53,4%, ovvero un calo del -9.2 tra il 2007 e il 2010. Tg1: 53,2%, ovvero -15,8 per cento in meno tra il 2007 e il 2010; Tg5 sta al 48,6%, ovvero -10,7. Sale invece la fiducia in Rainews24 (+17,6%), nel tg di Sky (+13,7%) e nel Tg La7 (+11,5%).
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