La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 24.11.2010
Le aperture
Il Corriere della Sera: “L’Irlanda fa tremare l’euro e le Borse. E la Merkel lancia l’allarme: situazione molto grave per la moneta unica. Timori di contagio: Milano perde il 2 per cento, Francoforte l’1,7, Madrid il 3. Il Fondo Monetario: ripresa a rischio”. L’editoriale è firmato dall’economista Francesco Giavazzi: “Giochi pericolosi”. Nel senso che non si può continuare ad affrontare la crisi che da quasi un anno attraversa i Paesi dell’Euro “a spizzichi e bocconi, sempre i ritardo, senza mai risolvere i problemi fino in fondo”.
A centro pagina: “Berlusconi attacca in diretta tv: mistificatori, la Rai non è vostra. Telefonata a Ballarò. Maggioranza battuta due volte. I finiani: sfiducia”. In prima pagina anche un richiamo per la crisi tra le Coree: “I cannoni della Corea del Nord riaccendono il fronte asiatico”. “Un’ora di fuoco su un’isola del sud”.
La Repubblica: “Governo due volte ko. Rifiuti, Berlusconi attacca Ballarò”. Commento di Barbara Spinelli dal titolo: “L’osceno normalizzato”.
Accanto, a caratteri più grandi: “L’Irlanda affossa euro e Borse. L’Europa brucia 81 miliardi, Milano è la piazza che perde di più dopo Dublino: meno 3 per cento. Allarme Fmi. La Merkel: situazione eccezionalmente seria”. “Il continente strabico” è il titolo di una analisi di Andrea Bonanni.
Una foto racconta i “venti di guerra tra le due Coree, il Nord bombarda un’isola del sud”.
La Stampa: “L’effetto Irlanda affossa le Borse. Merkel: allarme euro. In attesa dell’austerity di Dublino, i mercati bruciano 81 miliardi. Il Fondo Monetario: crescita a rischio”. A centro pagina: “Il governo battuto in due votazioni. Carfagna ci ripensa. Il ministro: segnali positivi, non mi dimetto più”. E poi: “Rifiuti, Berlusconi chiama Ballarò. ‘Mistificatori’, ed è lite in diretta”. Accanto, la Corea: “Venti di guerra tra le Coree. Il Nord bombarda un’isola del Sud. Pyongyang: siamo stati provocati”. Bill Emmott firma un comento: “Attenti al rischio nucleare”. Secondo un retroscena anticipato in prima pagina “ora Pechino pensa di scaricare il vicino”, la Corea del Nord, perché l’ultimo raid dimostra che è “fuori controllo”.
Il Sole 24 Ore: “Irlanda e Coree, male Borse ed europ. Banche irlandesi ‘in vendita’ secondo il governatore. Le crisi a Dublino e Seul colpiscono i listini. Piazza affari perde il 2 per cento. L’allarme di Merkel manda la valuta Ue a 1,34, ansia per il blitz in Asia. Martin Wolf commenta: “L’Europa paga gli errori di Berloni”. In alto un richiamo alla situazione politica: “Maggioranza battuta alla Camera. Berlusconi ai suoi: serve sobrietà”.
Libero: “Silvio sfida il Pd in piazza. E’ già cominciata la campagna elettorale. L’11 dicembre risponderà alla manifestazione di Bersani e compagni con un comizio e gazebo nelle città. Il premier: Basta personalismi, penso io a Pdl e Sud. Poi telefona a Ballarò e Floris lo aggredisce”. L’editoriale, firmato dal direttore Belpietro, è dedicato al Presidente della Repubblica: “Napolitano, grillo parlante a spese nostre”. Belpietro si riferisce al ruolo del presidente della Repubblica, alle sue esternazioni, e al rapporto con l’Esecutivo.
Il Giornale: “Berlusconi pronto alle elezioni. Mobilitazione l’11 e 12 dicembre. Gazebo e raccolta di firme: è l’avvio della campagna elettorale. Il voto appare infatti inevitabile: Casini vuol soccorrere il governo solo dopo il suo decesso. Intanto il leader Udc scarica Fini, che ne uscirà con le ossa rotte”. E poi: “Il premier telefona a Ballarò: ‘Sui rifiuti mantenute le promesse. Siete dei mistificatori'”. A centro pagina, con foto: “E’ ufficiale: Saviano ha dato i numeri. Con le cifre che ha sparato, ogni giorno dovrebbero viaggiare in Italia 30 mila Tir di rifiuti da Nord a Sud”. Sotto: “Il libro di Ratzinger: l’omosessualità noin è giusta’. Il Papa fa il Papa: lo attaccano”.
Il Riformista, evidentemente ignaro della telefonata serale del premier, titola in apertura: “Silvio il sobrio. Mentre alla Camera il governo va due volte sotto. Richikamo al Pdl: ‘Basta personalismi’. Il premier dice che risolverà lui i problemi del suo partito, e in privato aggiunge: sono già a 314 voti di fiducia. Ma intanto la maggioranza non c’è più”. Sotto, la crisi economica: “La Merkel avverte: ora rischia l’Euro. Borse a picco per l’Irlanda. Padoan: crisi seria ma gestibile”.
Il Foglio: “C’è munnezza e munnezza. Nessuno ritorno al 2008, Napoli si può ripulire, dice Caldoro. Il presidente della Campania illustra il piano d’emergenza del govrno (regioni permettendo). Torna l’esercito. 10 mila tonnellate mediatiche”. Di spalla: “La battaglia tra le due Coree guasta i piani di Obama per l’oriente. L’artiglieria del Nord all’attacco sull’Isola di Yeonpyeong. Seul dichiara lo stato di crisi e promette una ‘risposta forte’. Kim e la successione atomica”.
L’Unità: “Vuoto di memoria. L’Avvocatura dimnentica il processo per la bomba ai Georgofili: morirono in 5, tra cui due bambine. Familiari e pm indignati. Il procuratore Quattrocchi: assenza priva di giustificazioni. Il Pd: l’Italia chiede verità”. A fondo pagina: “‘Riforma’ Gelmini. Da Pisa a Torino atenei occupati. Mobilitazione per fermare la legge.Napolitano: non si può mortificare la cultura”.
Euro
Il Corriere della Sera, raccontando la paura del contagio in Europa, che ha spinto in giù le Borse, focalizza l’attenzione sulla risposta tedesca: il fatto che le decine di miliardi promessi all’Irlanda non abbiano tranquillizato i mercati e, anzi, abbiano spostato l’attenzione sulle difficoltàò del Portogallo, fa temere l’effetto domino. Il governo di Berlino chiede che i governi nazionali siano messi di fronte alle proprie responsabilità e non vengano più coperti dall’ombrello di un’Euro indifferenziato. La Cancelliera Merkel e il ministro delle Finanze Schauble non escludono che qualche Paese possa essere costretto ad abbandonare l’Euro, poiché un Paese che non è in grado di avere conti pubblici stabili mina la solidità della moneta europea.
Martin Wolf, editorialista del Financial Times, sul Sole 24 Ore contesta invece la visione tedesca, secondo cui i problemi dell’Euro solo legati alla indisciplina di bilancio e la scarsa flessibilità dell’economia: l’Irlanda, ad esempio, si trova nei guai per gli eccessi finanziari e non per negligenze di bilancio, e necessita di un intervento di salvataggio nonostante possieda una economia flessibilissima. In Irlanda e in Spagna – fa notare Wolf – non è lo Stato che ha fatto corto circuito, ma il settore privato. E il caso dell’Irlanda non ha nulla a che vedere con la Grecia. In Irlanda il costo unitario del lavoro è precipitato, e questo sul lungo periodo le garantische chances di uscire dalle difficoltà: ma sul breve periodo la caduta dei prezzi e dei salari rende ancor più pesante il fardello del suo debito in Euro. Il fatto è che – su iniziativa tedesca – i Paesi membri dell’Euro hanno concordato di introdurre un meccanismo di ristrutturazione del debito pubblico. E “l’accordo del 18 ottobre tra la Cancelliera Merkel e il Presidente Sarkozy, in cui si dichiara l’intenzione di procedere a una modifica dei trattati per introdurre questo meccanismo, ha scatenato un crollo dei prezzi dei titoli di Stato in Grecia, Irlanda e Portogallo”.
Sullo stesso quotidiano un intervento di Giorgio Barba Navaretti si occupa ancora della crisi irlandese e chiede che Dublino non alzi le tasse delle imprese: “Chiedere imposte più elevate in cambio di aiuti è soltanto inutile demagogia”.
Anche su La Repubblica si rievoca il “diktat dell’asse franco-tedesco” con cui, al vertice di Deauville, la Merkel convinse Sarkozy a condividere la richiesta di revisione dei trattati e di corresponsabilizzazione degli investitori privati. Al successivo summit europeo, “nessuno ha avuto il coraggio di prendere la parola” per opporsi a quel diktat, e la linea Merkel è passata senza contraddittorio. Lei, del resto, deve rispondere alla propria opinione pubblica e al proprio interesse nazionale.
L’Unità intervista l’economista Tito Boeri, che spiega: “La crisi del debito non era certo finita con il salvataggio della Grecia, a prescindere dalle dichiarazioni intempestive che abbiamo sentito negli ultimi mesi. Adesso è la volta dell’Irlanda, che pure può essere considerata un’economia sana, in grado di competere csui mercati inteerrnazionale e con buone prospettive di ripresa nel medio-lungo periodo”. Ancora sull’Irlanda, la sua crescita “era troppo sbilanciata sul settore delle costruzioni, così lo scoppio della bolla immobiliare ha causato il tracollo del prodotto interno lordo e del reddito delle famiglie”. Sui pericoli per l’area Euro: “Finché l’emergenza si limita ad economie relativamente piccole come quelle greca e irlandese, e gli interventi arrivano tempestivamente, non ci sono rischi sistemici. Ma se la crisi arriverà anche al Portogallo e soprattutto alla Spagna, allora si presenteranno problemi più seri”. L’Italia si trova “nella situazione opposta a quella dell’Irlanda: non rischia nell’immediato, ma nel medio lungo periodo”.
Il Foglio riprende le parole del capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Lipsky, che ha detto: “C’è un rischio di contagio sull’economia globale”. “L’Italia dovrà vendere l’argenteria? Imporre una patrimoniale? Prfevedere dismissioni in blocco del patrimonio pubblico? O addirittura riflettere su una uscita dall’euro?”. In vista del Consiglio europeo che il prossimo 16 dicembre sarà dedicato alla situazione economica e alla nuova governance dell’Ue, “il fronte degli allarmisti si amplia”, racconta il quotidiano.
Politica
Due mesi fa Giuseppe Pisanu, presidente della Commissione Antimafia, intervistato dal Corriere della Sera, aveva proposto un governo di responsabilità nazionale con Fini e Casini. Oggi, interpellato dallo stesso quotidiano, si dice convinto che l’idea si sia addirittura “consolidata”: resta totalmente contrario alle elezioni anticipate perché teme che dal cozzo devastante tra crisi politica e crisi economica emerga una “tempesta perfetta” sul nostro Paese. Dice che la richiesta di scioglimento delle Camere fatta da Berlusconi “romperebbe il patto con gli elettori, che ci hanno dato una maggioranza senza precedenti” e premierebbe, in termini risultato elettorale, le ali estreme dei due schieramenti. Esclude di poter essere lui a guidare un governo tecnico, invoca una mobilitazione delle “energie migliori”, conta sul senso di responsabilità di Confindustria e dei sindacati per un nuovo patto sociale.
Secondo un retroscena de La Repubblica il Cavaliere avrebbe in mente, dopo la data fatidica della fiducia in Parlamento il 14 dicembre, un grande rimpasto con l’Udc e con i finiani moderati, senza passare quindi per le sue dimissioni.
Secondo Vittorio Feltri, il premier strapperà la fiducia il 14 dicembre, “ma non potrà governare serenamente”. E allora i casi saranno due: o avrà l’appoggio esterno di Casini per approvare i decreti attuativi del federalismo fiscale e subito dopo si dimetterà, presentandosi alle urne con l’Udc; oppure cadrà entro Natale. Intanto, Berlusconi, “per non sbagliare”, ha indetto una grande mobilitazione nazionale con gazebo etc, in varie città, per raccogliere firme a favore della propria leadership.
Libero scrive che Bersani è “prigioniero della tenaglia Vendola-Montezemolo”, ovvero “teme il governatore sulle primarie ma anche l’attivismo di Luca sul fronte terzo polo”. E intanto venerdì torna in campo con Chiamparino e i cosiddetti Modem il rivale Veltroni. E Chiamparino, va ricordato, è un altro dei politici che si è detto pronto a presentarsi alle primarie.
Va altresì notato che Luca Cordero di Montezemolo, con la sua fondazione ItaliaFutura, ha comprato una intera pagina de Il Corriere della Sera per lanciare un convegno che andrà in onda in diretta oggi su un canale Sky. Il convegno è dedicato a giovani e lavoro: insieme a lui ci sarà il presidente di Mtv Antonio Campo dell’Orto. Anche la pagina accanto del quotidiano è dedicata a questo argomento.
Niente politici, fa notare La Repubblica, via ad un “patto generazionale” per tagliare le tasse ai giovani lavoratori, azzerare per tre anni le imposte alle aziende di giovani imprenditori, aumentare l’età pensionabile di un anno per finanziare centomila Borse di studio.
Esteri
Oggi i quotidiani raccontano la grottesca figuraccia fatta dalla coalizione internazionale in Afghanistan, nel momento in cui si è scoperto che – alle trattative con i talebani avviate nel Paese- aveva preso parte un presunto leader talebano. Si è scoperto che era un impostore. Aveva viaggiato su aerei Nato ed aveva anche ricevuto soldi. Un leader afghano che aveva conosciuto il vero Mansour (il mullah che si pensava avrebbe negoziato) si è reso conto della beffa. A raccontare la storia per primo è stato il New York Times, la notizia oggi è su tutti i quotidiani.
Il premier britannico Cameron aveva detto che l’immigrazione in GB ha raggiunto “livelli inaccettabili”. Ieri – racconta il quotidiano – il ministro dell’Interno ha annunciato in Parlamento i primi limiti mai imposti da Londra all’ingresso di stranieri. Da Paesi extra Ue non potranno arrivare più di 21700 lavoratori qualificati all’anno. Il giro di vite sull’immigrazione, secondo il quotidiano, colpirà soprattutto gli studenti. Parlando di loro, la ministra dell’Interno ha detto: “Troppi studenti di corsi inferiori al livello universitario vengono qui per vivere e lavorare, non per studiare. Bisogna bloccare questo abuso”.
L’inserto R2 de La Repubblica racconta invece, con Vittorio Zucconi, che non c’è mai stata “tanta voglia d’America come nello scorso anno: sono 15 milioni le persone che hanno tentato di ottenere i 50 mila permessi dilavoro negli Usa. Il gigante americano continua ad esercitare la sua attrazione nonostante la crescita di altri big nel mondo. Finito il sistema delle quote, dal 1990 il “premio” viene assegnato con una lotteria. Si chiama “Legge sulla diversità nell’immigrazione”, l’ha varata il Congresso 20 anni fa, consentendo permesso di soggiorno e lavoro a chiunque abbia almeno 18 anni e un diploma di scuola superiore. Si chiama DV, programma sulla diversità, ed è finito nel mirino dei Tea party.
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Cina, Pil, Usa di Vincenzo Comito
A quanto ammonta veramente il pil cinese? 16.11.2010
Nel 2012 il prodotto interno cinese potrebbe superare quello degli Stati uniti. Alcuni calcoli sensati a sostegno di un’ipotesi solo apparentemente clamorosa
“… osservare la situazione con calma; consolidare le nostre posizioni; trattare le questioni sul tappeto in maniera tranquilla; nascondere le nostre capacità e aspettare che venga il nostro tempo; essere capaci di mantenere un profilo basso, non cercare mai di reclamare un ruolo di guida…” (Deng Xiaoping)
Negli scorsi mesi i principali media dei vari paesi hanno dato molto risalto alla notizia secondo la quale il pil cinese dovrebbe superare quest’anno quello del Giappone, collocando così il grande paese emergente al secondo posto nella classifica mondiale delle potenze economiche, dopo gli Stati Uniti.
Per alcuni aspetti si tratta peraltro di una non- notizia, perché il calcolo del pil per i due paesi, nelle valutazioni sopra citate, è fatto utilizzando il criterio dei prezzi di mercato; pochi media hanno invece ricordato come, in realtà, usando il più corretto metodo della parità dei poteri di acquisto, la Cina abbia superato il pil del Giappone già circa una decina di anni fa.
Ma l’informazione, per quanto incompleta, ci porta a riflettere meglio sull’attuale peso relativo dell’economia cinese rispetto a quella statunitense, con gli inevitabili riflessi che il risultato di tale misura si può portare inevitabilmente dietro rispetto alla situazione e alle prospettive economiche e politiche del mondo.
Tale riflessione viene stimolata, più di recente, dalla pubblicazione, a cura dello statunitense Conference Board (The Conference Board, 2010), di uno studio, citato con un certo dettaglio dal Wall Street Journal (Di Leo, 2010), in cui si fa l’ipotesi che il pil cinese, utilizzando come misura dell’output il criterio della parità dei poteri di acquisto, possa superare quello statunitense già nel 2012 e come esso nel 2020 potrebbe superare quello del paese rivale di circa il 60%.
Dal momento che tali conclusioni, che possono apparire sorprendenti, coincidono abbastanza, anche se non esattamente, con alcune mie valutazioni in merito, valutazioni che avevo peraltro evitato di pubblicare perché mi sembravano troppo stravaganti rispetto a quelle che circolavano correntemente, a questo punto riporto di seguito i miei appunti.
Parto dalla considerazione che gli organi di informazione hanno ricordato come il pil cinese – che dovrebbe crescere quest’anno intorno al 10%- dovrebbe raggiungere nel 2010, utilizzando per il calcolo il criterio tradizionale dei prezzi di mercato, all’incirca i 5.500 miliardi di dollari, ciò che rappresenterebbe, di fronte ad un’economia statunitense il cui corrispondente valore del pil dovrebbe quest’anno collocarsi intorno ai 14.800 miliardi, una percentuale di circa il 37% “soltanto”. Incidentalmente, ricordiamo che le stime più accreditate danno il pil cinese in crescita ancora almeno del 9,5% nel 2011, mentre per quello statunitense si avanza la corrispondente cifra dell’1,5-1,6%.
Ma bisogna poi aggiungere al calcolo, cosa che fanno in pochi, anche il peso dell’economia sommersa, che, nel caso cinese, secondo i calcoli del National Economic Research Institute, un ente non governativo dello stesso paese, sarebbe molto rilevante, come è del resto comune sensazione tra gli addetti ai lavori; essa ammonterebbe a circa 1500 miliardi di dollari (Lex, 2010), ciò che rappresenterebbe una percentuale di circa il 27% rispetto a quella ufficiale. Il pil cinese, così ricalcolato, raggiungerebbe allora i 7000 miliardi di dollari, un valore che sarebbe a questo punto pari a circa il 47% di quello Usa.
Evitiamo di aggiungere ancora qualcosa al valore delle cifre cinesi in relazione al fatto che, secondo molti, nei calcoli del governo la stima quantitativa per il settore dei servizi appare per alcuni aspetti sottovalutata; tale potenziale aggiunta potrebbe, grosso modo, essere bilanciata dal peso del settore dell’economia sommersa sul pil statunitense, peso in genere stimato come relativamente poco significativo.
Ma si pone la questione relativa al calcolo del pil utilizzando, invece del criterio dei prezzi di mercato, quello, già citato, della parità dei poteri di acquisto. Si tratta di una valutazione molto delicata da effettuare, soggetta come è a molte incertezze anche metodologiche.
Ricordiamo a questo proposito, ad esempio, come la Banca Mondiale, alcuni anni fa, abbia ad un certo punto clamorosamente rettificato del 40% -in senso negativo- delle precedenti stime che essa aveva fatto con lo stesso criterio relativamente al peso dell’economia cinese e di quella indiana.
Sulla complessità e sulle differenze tra di loro delle varie metodologie disponibili in proposito si veda sempre la ricerca del “Conference Board” (The Conference Board, 2010). Lo studio ricorda i differenti criteri utilizzati dall’Ocse, dal Fmi, dalla Banca mondiale, da A. Maddison e da altri studiosi, nonché quello impiegato dallo stesso Conference Board. Il metodo scelto da quest’ultimo organismo fornisce comunque dei valori un po’ superiori a quelli della Banca mondiale e del Fmi.
Nelle mie stime, abbastanza grossolane, faccio riferimento semplicemente a dei possibili coefficienti di conversione da utilizzare per passare, nel caso specifico cinese, dal pil a prezzi di mercato a quello calcolato con il criterio della parità dei poteri di acquisto.
Fatto 100 il valore del pil con il metodo dei prezzi di mercato, il problema fondamentale fa riferimento a questo punto a quale coefficiente di variazione utilizzare.
Se si impiegasse il criterio molto grossolano cosiddetto del “Big Mac”, che prende in considerazione il prezzo relativo del grande panino di Mc Donald’s nei vari paesi del mondo, bisognerebbe ricordare che in questo momento la cifra corrispondente è a Pechino pari a 1,95 dollari, contro i 3,90 dollari a New York; allora il coefficiente da utilizzare sarebbe di 2 volte e il pil cinese risulterebbe uguale a circa 14.000 miliardi di dollari, valore non molto discosto già oggi da quello statunitense. Presumibilmente, allora, nel 2011 l’economia cinese si collocherebbe al primo posto.
Se volessimo essere più cauti, potremmo utilizzare un coefficiente più ridotto, preso del resto in considerazione da alcuni studiosi e che si colloca al livello di 1,8. In questo secondo caso la stima del pil cinese risulterebbe pari nel 2010 a 12.600 miliardi di dollari, valore che equivarrebbe all’85% di quello Usa e in questa seconda ipotesi si può presumere, salvo qualche clamorosa e imprevedibile novità, che il pil cinese arrivi a superare quello statunitense “soltanto” verso il 2014.
Supponendo, ciò che non è peraltro del tutto scontato, che il coefficiente meno elevato utilizzato in questo secondo caso sia almeno relativamente realistico, ci troveremmo di fronte comunque ad una novità abbastanza clamorosa, destinata probabilmente a cambiare in maniera rilevante le prospettive del nostro pianeta. Va sottolineato, tra l’altro, che le previsioni attuali più correnti su quando l’economia cinese potrebbe superare quella statunitense, prima di quelle fatte ora dal “Conference Board”, facevano riferimento ad una data compresa tra il 2025 e il 2030, legando comunque, indirettamente, tale possibile risultato anche ad una serie di incertezze rilevanti su quello che potrebbe succedere da oggi sino a un tempo relativamente così distante.
Naturalmente, non si può evitare di sottolineare come, se anche la Cina raggiungesse gli Stati Uniti entro pochissimo tempo a livello di dati quantitativi complessivi, permarrebbero ancora per il paese importanti problemi.
Se intanto il paese asiatico sta attivando rapidamente al primato come pil complessivo, esso appare ben lontano dall’ottenerlo invece per quanto riguarda quello pro-capite; peraltro, le cifre sopra indicate mostrano che quello degli Stati Uniti, secondo il criterio della parità dei poteri di acquisto, è ormai pari a 4-5 volte quello cinese e non a 13-15 volte, come si suggeriva sino ad oggi.
Per altro verso, si può certo ricordare che al livello del profilo qualitativo dei rispettivi sistemi economici, quello cinese appare certamente meno sofisticato di quello statunitense, presentando in particolare un’impronta tecnologica media certamente e notevolmente inferiore; va, d’altro canto, a questo proposito, ricordato che alcuni autorevoli studi, sulla base delle tendenze recenti, valutano che la Cina potrebbe diventare il primo produttore di sapere scientifico del mondo entro il 2020 (Cookson, 2010). E’ comunque di poche settimane fa l’annuncio della messa in funzione nel paese asiatico del calcolatore più grande del mondo.
Infine, non bisogna certamente dimenticare i grandi problemi dell’economia e della società di quel paese e che vanno dalla grande diseguaglianza nella distribuzione del reddito – simile, per altro verso e per molti aspetti, a quella statunitense; il coefficiente di Gini è ormai sostanzialmente identico per i due paesi- , al grande livello di inquinamento del territorio, alle vistose crepe nel suo sistema di welfare, sino agli squilibri che uno sviluppo fortemente centrato sulle esportazioni comporta sull’economia mondiale.
Alla fine, resta comunque la sensazione che si vada assistendo già in questi anni ad una svolta fondamentale, svolta che le istituzioni ed i governi occidentali tendono ad affrontare, quando provano a farlo, in maniera del tutto inadeguata a livello economico, sociale, politico.
Testi citati nell’articolo
– Cookson C., China leads world in growth of scientific research, The Financial Times, 26 gennaio 2010
– Di Leo L., China could surpass U.S. in 2012, http://www.wsj.com, 11 novembre 2010
– Lex, China’s grey economy, www.ft.com, 19 agosto 2010
– The Conference Board, Global Economic Outlook 2011, New York, 2010; i risultati sintetici dello studio si trovano all’indirizzo www.conference-board.org/data/globaloutlook.cfm
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/A-quanto-ammonta-veramente-il-pil-cinese-6847
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250.000 famiglie senza acqua a causa dell’arsenico? 24.11.2010
di Paolo Borrello
In 128 comuni italiani (250.000 le famiglie interessate), quelli in cui vi è una concentrazione di arsenico nelle acque a uso alimentare superiore ai limiti previsti dall’Unione Europea, c’è la possibilità che i cittadini non possano più utilizzare a fini alimentari quelle acque, fino a che le Amministrazioni Comunali non interverranno per abbassare sotto i limiti previsti l’arsenico in esse contenute, poichè l’Unione Europea non ha concesso a questi comuni un’ulteriore deroga per continuare a non osservare quei limiti. Del resto sembra provato scientificamente che quantità superiori di arsenico provochino notevoli danni alla salute, favorendo addirittura il diffondersi di alcune forme di tumore. Ne riferisce Alessandro Fulloni in un articolo pubblicato su www.corriere.it:
“L’intimazione indirizzata il 28 ottobre al ministero della Salute dall’Ufficio Ambiente della Ue apre un pesantissimo problema sanitario in 128 comuni dello Stivale divisi tra 5 regioni.
In testa c’è il Lazio, con 91 città e borghi (sparsi tra le provincie di Roma, Latina e Viterbo) dove i sindaci, a meno di soluzioni miracolose dell’ultimo istante, potrebbero essere costretti a firmare un provvedimento per vietare di bere l’acqua. Nell’elenco segue la Toscana, con 16 località; altre 10 sono in Trentino, 8 in Lombardia e 3 in Umbria.
Tutte con lo stesso problema: negli acquedotti c’è una concentrazione elevata di arsenico, talvolta con valori massimi di 50 microgrammi per litro mentre la legge ne consente al massimo 10. Quantitativi che sarebbero fuori norma – ha spiegato l’Italia in un dossier spedito alla Ue – per cause «naturali»: in qualche modo originati da stratificazioni geologiche di origine lavica, come nel caso dei Castelli Romani e del Viterbese.
Giustificazioni inascoltate però dall’Unione Europea che non vuole più, nelle acque potabili, quelle cifre superiori ai 10 microgrammi di arsenico per litro. Il motivo è che «valori di 30, 40 e 50 microgrammi» possono determinare «rischi sanitari, in particolare talune forme di cancro». Ecco perché le deroghe, soltanto per tempi limitati, possono essere richieste sino a concentrazioni di 20 microgrammi per litro.
A febbraio l’Italia – che ha recepito le direttive comunitarie in una legge sulle acque potabili in vigore dal 2001 – ha chiesto di innalzare i limiti consentiti temporaneamente, appunto, a 50. Ma la Ue ha bocciato la domanda facendo esplodere un problema che, stando al documento ufficiale indirizzato al ministero della Salute, riguarda i rubinetti di circa 250.000 famiglie.
Ad essere coinvolte sono grandi capoluoghi e paesi di poche decine di anime: per restare al Lazio, gli «utenti interessati» a Latina sono 115.490, ad Aprilia 66.624, a Viterbo 62.441 e poi ancora 10.000 ad Albano e 18.000 a Sabaudia. In Toscana acque a rischio in località vacanziere come Piombino, Cecina, Porto Azzurro e Porto Ferraio, ma anche Foiano della Chiana, Montevarchi, Campo nell’Elba, Rio Marina, San Vincenzo. Problemi anche a Orvieto in Umbria…
Quel che succederà adesso ancora non è chiaro. Contatti frenetici sono in corso tra il ministero della Salute e gli assessorati all’Ambiente delle Regioni coinvolte…
In sostanza: dovrà essere data la massima informazione all’utenza riguardo la nuova regolamentazione. Poi la responsabilità passerà ai sindaci che dovranno valutare se firmare le ordinanze di divieto. Nel frattempo (nel caso del Lazio) Acea, Regione e Commissariato alle acque potabili stanno sistemando delle specie di «filtri» per abbassare la presenza dell’ arsenico e miscelare acque provenienti dagli acquedotti come quello del Simbruino – prive di arsenico – con quelle raccolte dai pozzi, i principali accusati per i valori fuori norma…”
L’aspetto più incredibile e più censurabile della vicenda è che dal 2001 in quei 128 comuni le Amministrazioni, con in testa i Sindaci, non abbiano fatto niente per ridurre le quantità in eccesso di arsenico contenute nelle acque. Quindi le responsabilità di questa situazione non possono essere addebitate all’Unione Europea ma alle Amministrazioni comunali coinvolte le quali, evidentemente, non sono affatto interessate alla salute dei cittadini. Non c’è altra spiegazione possibile.
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http://www.gliitaliani.it/2010/11/250-000-famiglie-senza-acqua-a-causa-dellarsenico/
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Auto a metano: il serbatoio diventa mini 24.11.2010
Tra i 15 finalisti del premio Start Cup 2010, promosso dal Consiglio nazionale delle ricerche e Il Sole 24, il progetto promosso dall’Istituto per i processi chimico fisici (Ipcf) del Cnr in collaborazione con la società MetEnergia: un recipiente per gas ad alta capacità che, a parità di dimensioni, è in grado di racchiudere una quantità di metano maggiore rispetto a quella contenuta da un tradizionale serbatoio per autovetture. Il suo segreto è nel materiale con cui è realizzato, che permette l’assorbimento reversibile del gas in maniera efficace e sicura. Questa caratteristica garantisce una notevole autonomia del veicolo e una riduzione dei volumi d’ingombro, a tutto vantaggio dello spazio interno dell’autovettura, particolarmente importante per le utilitarie che impiegano il sistema dual power (alimentazione a benzina e a gas).
“Il materiale sviluppato, ecocompatibile ed economico”, spiega il capo progetto Alfonso Policicchio, “funziona come una spugna nanometrica: le molecole di metano, intrappolate dai nanopori della superficie del materiale, si condensano e il rilascio del gas avviene in modo spontaneo e sicuro a temperatura ambiente. Questa straordinaria capacità di assorbimento del materiale nanoporoso consente di realizzare nuovi serbatoi per l’accumulo di gas metano per autoveicoli. Il serbatoio, riempito con la nano-polvere, accumula una quantità di metano maggiore del 250% rispetto a quella contenuta oggi in un equivalente serbatoio a bassa pressione. Ne consegue una più elevata autonomia del veicolo, una più ampia sicurezza per i passeggeri e un risparmio sull’impianto, meno costoso e con forme e dimensioni consone alle esigenze di qualsiasi autoveicolo”.
Ai vantaggi economici e di abitabilità dell’auto va aggiunto anche il beneficio per l’ambiente. L’alimentazione a metano è infatti una tecnologia di facile applicazione, particolarmente adatta per veicoli ibridi, in grado di ridurre quasi del 50% l’emissione di CO2 nel percorso cittadino, e di ridurre il valore del PM10, più comunemente detto polvere sottile, di dieci volte rispetto a un propulsore euro 4 a benzina.
Riccardo Pasquini
Fonte: Salvatore Abate , Centro di responsabilità scientifica INFM, tel. 0984/496175, email salvatore.abate@cnr.it
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Pannelli efficienti con il Quantum solar 24.11.2010
Una nuova tecnologia promette di contribuire al perfezionarsi e all’ulteriore diffondersi delle energie rinnovabili: il Quantum solar (QS), un filtro ottico in grado di aumentare l’efficienza e, di conseguenza, l’energia prodotta dai pannelli fotovoltaici.
Il filtro ottico Qs è stato ideato e progettato dai ricercatori dell’Istituto per i materiali compositi e biomedici (Imcb) del Cnr di Napoli. Alla base della nuova tecnologia la scoperta del fenomeno della superfluorescenza emessa dai quantum dots, (in italiano punti quantici): strutture il cui diametro è compreso tra i due e i dieci nanometri, che formano una particolare classe di semiconduttori.
La superfluorescenza ha trovato immediata applicazione nel campo della realizzazione di impianti fotovoltaici. “Le celle al silicio dei comuni pannelli”, illustrano i ricercatori dell’Imcb-Cnr, “convertono in energia la porzione di luce compresa all’interno dello spettro del visibile, ma non sono in grado di catturare la radiazione ultravioletta, che corrisponde al 10% della luce proveniente dal Sole”. Ad assorbire questa porzione evitando che si disperda ci pensano proprio i quantum dots.
“Il filtro Quantum solar”, chiariscono gli scienziati, “è, in sintesi, una pellicola trasparente che, grazie ai quantum dots, cattura e assorbe la radiazione ultravioletta, la emette a una frequenza più bassa, nello spettro della luce visibile, che può essere trasformata in energia dal dispositivo fotovoltaico. La pellicola, in quanto trasparente, lascia contemporaneamente passare senza alcuna dispersione la luce visibile, che viene normalmente convertita in energia dall’impianto”.
Il Quantum solar ha inoltre il vantaggio di un facile impiego, tanto che questo progetto è stato selezionato tra i 15 finalisti della prima edizione della Start Cup Cnr-Il Sole 24 Ore, la competizione volta a favorire la nascita di imprese high tech a partire dai più promettenti risultati di ricerca. “Queste pellicole trasparenti”, concludono i ricercatori dell’Imcb, “possono essere applicate su qualsiasi pannello fotovoltaico, sia durante il processo di produzione, sia a impianto completato”.
Efficienza e facilità di applicazione, un mix che, in termini di competizione industriale, risulta decisivo e promettente, soprattutto in un mercato florido come quello delle energie rinnovabili.
Luigi Rossi
Fonte: Gianfranco Carotenuto , Istituto per i materiali compositi e biomedici, Napoli, tel. 081/775883, email giancaro@unina.it
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Con i campi elettromagnetici l’autotrapianto è più facile 24.11.2010
Tra i 15 finalisti della prima Start Cup Cnr-Il Sole24Ore c’è anche il progetto sviluppato dall’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Siena in collaborazione con l’Ispesl e con Magta, un gruppo di professionisti e ricercatori che lavora da anni nel campo delle biotecnologie e dei dispositivi elettromedicali, dal titolo ‘Come addomesticare le cellule staminali per favorire gli autotrapianti dopo l’infarto’. Grazie a questi studi si mira a riparare danni ai tessuti cardiaci, al sistema neurologico o a quello scheletrico e migliorare l’efficacia dei farmaci mediante l’utilizzo delle cellule degli stessi pazienti.
Le cellule staminali adulte presenti in ciascuno di noi possiedono la capacità di rigenerare naturalmente una grande varietà di tessuti danneggiati. Per poterle utilizzare con tecniche di autotrapianto, occorre però, una volta espiantate, indurle ad assumere la capacità di rigenerare lo specifico tessuto (differenziazione), un processo che richiede molto tempo, a meno di non usare sostanze che inducono pesanti effetti collaterali.
Il team di Cnr, Ispesl e Magta ha scoperto che, applicando opportuni campi elettromagnetici di bassa intensità, le cellule staminali adulte si differenziano e si moltiplicano in tempi compatibili con l’efficacia delle tecniche di autotrapianto e senza alcun bisogno di stimolazione chimica. “E’ sufficiente un normale incubatore per colture cellulari, opportunamente schermato e dotato di un elettromagnete pilotato da un sistema di controllo specificamente sviluppato, per trasformare velocemente le cellule espiantate in materiale idoneo per autotrapianti rigenerativi”, spiega Caterina Cinti dell’Ifc-Cnr e capo progetto.
“L’utilizzo di differenziatori Ispesl-Magta”, continua Cinti, “permette di eseguire auto trapianti di cellule staminali differenziate entro la prima settimana da un evento di infarto del miocardio, permettendo la ricostruzione del muscolo cardiaco del paziente ben prima che questo perda la capacità di autorigenerarsi”.
Per il futuro si prevedono farmaci più efficaci e totalmente biocompatibili. Il team, infatti, si propone di sviluppare e realizzare sistemi di drug delivery basati sull’utilizzo di cellule degli stessi pazienti per indirizzare, sempre grazie a campi elettromagnetici, i principi attivi direttamente negli organi affetti da patologie. L’obiettivo è di trasformare in prodotti affidabili per il mercato biomedicale i suoi prototipi che hanno dimostrato la loro efficacia in tre anni di intensa sperimentazione.
Gaia Rovelli
Fonte: Caterina Cinti , Istituto di fisiologia clinica, Siena, tel. 0577/4572451, email ccinti@ifc.cnr.it
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Pervenuto da degadan@hotmail.com per decrescita@liste.decrescita.it il 24.11.2010
CITTA’ DELL’ALTRA ECONOMIA
NON FERMATE IL PROGETTO !!
ALTRA ECONOMIA A ROMA
IL PROGETTO DELLA CITTA’ NON CHIUDE
Il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha incontrato questa mattina una delegazione del Consorzio “Città dell’Altra Economia” con la quale ha discusso del futuro dello spazio dell’ex Foro Boario che da tre anni vede impegnate imprese e associazioni nello sviluppo dell’idea di un’economia diversa per la città.
Il sindaco, riconoscendo il valore del lavoro delle realtà insediate e delle attività svolte come occasione di ripresa per Roma, ha accolto la proposta presentata dal Consorzio in una nota: aprire un tavolo di progettazione cittadina per il futuro degli spazi della Città dell’Altra Economia, in continuità con il percorso svolto dal Consorzio.
Il tavolo, nelle intenzioni del Consorzio e del Sindaco, vedrà coinvolte altre realtà impegnate nell’altra economia in città, disponibili a condividere i principi del progetto Città dell’Altra Economia e di rilanciarlo.
Il sindaco, con questo atto, ha dichiarato di essere disponibile ad un confronto istituzionale che parta dalla vicenda della Città dell’Altra Economia per approfondire e sostenere le politiche pubbliche più adatte a valorizzare il contributo economico e sociale delle realtà che fanno altra economia a Roma.
“Riteniamo questo incontro un frutto importante della mobilitazione e dell’impegno delle associazioni e imprese del Consorzio – hanno dichiarato i delegati del Consorzio al termine dell’incontro – e di tutte quelle realtà che hanno sostenuto il progetto. Il 26, 27 e 28 novembre alla Città dell’Altra Economia si terrà una tre giorni di Festival delle Altre Economie. Invitiamo tutte le persone e le realtà che ci hanno sostenuto a partecipare, ed apriremo domenica mattina, nell’ambito dell’iniziativa ‘Roma in movimento’ che si terrà nella Sala Convegno ‘Renato Biagetti’ a partire dalle ore 10.30, una prima discussione con le realtà interessate a partecipare al tavolo di confronto e progettazione con le istituzioni cittadine”.
Roma, 24 novembre 2010
Informazioni stampa:
Cesare Budoni – 349 6040937
Responsabile comunicazione
Consorzio “Città dell’Altra Economia”
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beni culturali, Bondi, spesa di Carla Bodo , Innocenzo Cipolletta
Il crollo della cultura, in cifre 24.11.2010
In dieci anni la spesa del ministero per i Beni culturali è scesa del 31% in termini reali. Il calo delle risorse è stato costante e progressivo, con la sola eccezione della spesa burocratica nelle alte sfere. Un’analisi dettagliata dei flussi di cassa, a opera dell’Associazione Economia della Cultura
Le ripercussioni dell’attuale crisi economica sulla spesa per la cultura variano notevolmente da paese a paese. In Francia, in Germania, negli Stati Uniti, i finanziamenti statali hanno tenuto – e sono anzi lievemente aumentati – proprio per il ruolo anticiclico attribuito agli investimenti culturali. Nella maggior parte degli altri paesi, la crisi ha imposto invece una brusca battuta d’arresto a una dinamica della spesa pubblica per la cultura generalmente positiva nel recente passato.
L’ anomalia italiana consiste nel fatto che tale inversione di tendenza è tanto più gravida di conseguenze negative in quanto avvenuta, come è noto, con largo anticipo. Per verificare più da vicino la misura e l’ impatto della contrazione dei finanziamenti alla cultura, e i modi e la reale portata dei tagli di bilancio, l’Associazione per l’ Economia della Cultura ha ritenuto di condurre una sintetica analisi dei rendiconti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, prendendo in considerazione, anziché le previsioni di spesa, come generalmente accade, i pagamenti di cassa: gli unici indicativi dei flussi di spesa effettivamente affluiti alla cultura in un anno dato, a valere sia sulla competenza che sui residui.
1.L’andamento dei pagamenti di cassa del Ministero
Dopo un andamento stagnante nella prima parte degli anni ’90 – a cui aveva fatto seguito una dinamica molto positiva nella seconda metà del decennio1, di pari passo con il completamento del processo di riunificazione delle competenze culturali nel MiBAC (1998) – la spesa del Ministero ha raggiunto il picco, in termini di cassa, nell’anno 2000, con 2.499 milioni di euro. Da quell’anno è iniziato un trend negativo, con un calo sotto quota 2000 già nel 2002, e con il picco più basso raggiunto nel 2006 (1917 milioni), seguito da un lieve recupero (2062 milioni nel 2008). Nel decennio la spesa del ministero è diminuita del 17% a euro correnti e del 31% a euro costanti.
Continua completo di grafici
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Il-crollo-della-cultura-in-cifre-6918
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deregolamentazione, Forges Davanzati, globalizzazione, Marchionne, mobilità dei capitali, precarietà, salari
La spirale perversa delle delocalizzazioni 24.11.2010
Guglielmo Forges Davanzati
I commenti critici alle recenti dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, in ordine alla scarsa redditività degli stabilimenti Fiat in Italia e alla conseguente necessità delle delocalizzazioni, si sono – per lo più – concentrati sulle capacità gestionali del management dell’azienda e sulla censurabilità di quelle dichiarazioni alla luce dei cospicui finanziamenti pubblici ricevuti in passato da Fiat.
Si tratta di rilievi condivisibili che, tuttavia, sembrano non tener conto di una considerazione che prescinde dal singolo caso e che può porsi nei seguenti termini: l’accelerazione dei processi di delocalizzazione industriale conferma che il capitalismo contemporaneo è sempre più caratterizzato dalla piena sovranità della grande impresa. Una piena sovranità che si manifesta anche mediante il potere che essa esercita sulle scelte di politica economica e, in particolare, di politica del lavoro[1]. Sono in molti a ritenere che gli assetti istituzionali e decisionali ereditati dal Novecento siano oggi inadeguati e che le norme giuridiche debbano adeguarsi alle ‘nuove’ esigenze di competizione delle imprese nell’economia globale. A ben vedere, si tratta di una opzione ideologica; d’altronde, non sempre ciò che è nuovo è necessariamente meglio di ciò che lo ha preceduto[2].
Schematicamente, le scelte di delocalizzazione vengono ricondotte a due ordini di fattori.
1) Si ritiene che le delocalizzazioni dipendano dall’eccessiva regolamentazione dei mercati, dall’elevato onere burocratico, dall’elevata imposizione fiscale e, più in generale, dalla peggiore ‘qualità delle istituzioni’ del Paese dal quale le imprese migrano. Si tratta di una tesi che non sembra trovare adeguati riscontri empirici. Può essere sufficiente, in questa sede, richiamare l’ultimo rapporto della Banca Mondiale che certifica che, con riferimento ai governi italiani, in una scala compresa fra lo 0 e il 100%, la qualità delle istituzioni italiane (in primis, la continuità governativa) si è ridotta dall’80% del 1996 al 55% del 2009, essendo di gran lunga superiore la qualità delle istituzioni tedesche. Ma, a fronte della migliore qualità delle istituzioni tedesche, le delocalizzazioni sono state più massicce in Germania che in Italia.
2) E’ opinione diffusa che le imprese decidano di delocalizzare se i salari sono più alti nel Paese nel quale operano e più bassi nel Paese nel quale potrebbero migrare[3]. Evidentemente occorre che sussistano le condizioni che rendano possibile la delocalizzazione sul piano tecnico, ovvero che sia possibile investire altrove con costi ragionevolmente bassi. Si consideri, a riguardo, che l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello che ha dato maggiore accelerazione alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro (e nel quale i salari medi sono fra i più bassi in ambito europeo) e, contestualmente, che ha sperimentato un’intensificazione dei processi di delocalizzazione in uscita molto significativa, con ben scarsi flussi in entrata.
Quest’ultima interpretazione razionalizza parte del fenomeno. Altri fattori concorrono a determinarlo e, fra questi, è opportuno considerarne almeno due.
a) La quantità e qualità delle delocalizzazioni è significativamente influenzata dall’erogazione di finanziamenti per l’attrazione di investimenti nel Paese ospitante. Il caso della Serbia, in tal senso, è emblematico[4]. Con il Decreto 70/2008 della repubblica serba è stato stanziato un fondo specificamente destinato a questo fine, con la clausola che – per l’erogazione di finanziamenti – occorre tener conto in primis della quotazione in borsa dell’impresa e della sua capacità di trasferire “alte tecnologie” (art.13). Questo dispositivo costituisce una spinta rilevante, per le grandi imprese, a lasciare nei Paesi d’origine le filiere di produzione a bassa intensità tecnologica e, conseguentemente, ad occupare prevalentemente lavoratori con basse competenze o sottoccupati. Ovvero, di norma, lavoratori ai quali viene somministrato un contratto di lavoro a tempo determinato.
b) Le delocalizzazioni possono essere favorite dalla precarietà del rapporto di lavoro non solo nel Paese di destinazione ma anche in quello di partenza. Infatti, la diffusione di rapporti di lavoro precario costituisce una condizione permissiva per la mobilità dei capitali, almeno nel senso che consente all’impresa di non rinnovare i contratti di lavoro nel Paese dal quale intende migrare[5]. Ciò accade a ragione del fatto che, somministrando contratti a tempo determinato, l’impresa non è vincolata a produrre in loco, o comunque lo è meno rispetto al caso in cui vi siano vincoli alla libertà di licenziamento. In quest’ultimo caso, infatti, l’impresa dovrebbe sostenere costi di licenziamento che, in regime di precarietà, non sostiene.
Occorre chiarire che la piena mobilità internazionale dei capitali contribuisce ad aggravare la crisi, in quanto rafforza la concorrenza fra Stati al ribasso dei salari e della spesa pubblica e, dunque, alla caduta della domanda aggregata e dell’occupazione, su scala globale, riducendo i mercati di sbocco e rendendo, conseguentemente, più difficile la realizzazione monetaria dei profitti per le imprese nel loro complesso[6]. E in fine dei conti, per ogni singolo Paese, le politiche di bassi salari, precarizzazione del lavoro e riduzione dei diritti dei lavoratori – oltre a essere socialmente dannose – possono non risultare efficaci nel contrastare le scelte di delocalizzazione e il conseguente aumento del tasso di disoccupazione. E ciò per il possibile innescarsi di una spirale perversa, che va dalla caduta dei salari al ristagno della domanda aggregata interna (a causa della contrazione della domanda di beni di consumo[7]) e può portare al disinvestimento in quell’area e ad ulteriori compressioni salariali[8]. A ciò si aggiunge che, a fronte del calo della domanda, le imprese sono disincentivate ad introdurre innovazioni, generando, per questa via, riduzioni della produttività del lavoro[9].
Le scelte di localizzazione possono essere, dunque, significativamente determinate dall’ampiezza dei mercati di sbocco e dalla dinamica della produttività e, per le cause qui individuate, i bassi salari sono, di norma, associati a bassa produttività. E la reiterazione di politiche di deflazione salariale e di precarizzazione del lavoro non può che accentuare il problema.
[1] Si veda, fra gli altri, e con riferimento al c.d. statuto dei lavori, Piergiovanni Alleva, Cosa c’è dietro lo Statuto dei lavori, “Liberazione”, domenica 14 novembre 2010.
[2] Si pensi, a riguardo, al dibattito sulla revisione del dettato costituzione o dello Statuto dei lavoratori: il fine è chiaro, e consiste nel comprimere i diritti dei lavoratori estendendo, nel contempo, gli spazi di discrezionalità delle imprese, dunque il loro potere economico e politico. In tal senso, affermare che i diritti acquisiti dai lavoratori sono oggi non più accordabili significa con ogni evidenza affermare che la crescita economica oggi è necessariamente trainata dall’accumulazione dei profitti (e da bassi salari). Con ogni evidenza, questa proposizione non può considerarsi ‘neutra’, né sul piano etico e tantomeno sul piano dell’analisi economica. Sul tema, si rinvia a A. Bhaduri, and S. Marglin, Unemployment and the real wage: The economic basis for contesting political ideologies, “The Cambridge Journal of Economics”, 1990, 14, pp.375-393.
[3] Si stima, a riguardo, che il rapporto tra la retribuzione di un lavoratore di un paese industrializzato e quella di un lavoratore bulgaro o filippino è di 10 a 1. Questo differenziale è ancora più evidente se, ad esempio, si confronta il costo di un lavoratore di Zurigo con uno di Bombay o Karachi: in questo caso il rapporto è di 26 a 1.
[4] Lo è soprattutto perché, come evidenziato dalla X Indagine sulle imprese manifatturiere pubblicata da Unicredit, le delocalizzazioni delle imprese italiane riguardano per oltre il 50% i paesi dell’Europa a 15, per quasi il 15% i nuovi paesi membri dell’Europa a 27 e per oltre il 27% i paesi asiatici (Cina innanzitutto).
[5] Per una verifica empirica di questo effetto si rinvia a A. Aminghini, A.F. Presbitero, M.G. Richiardi, Delocalizzazione produttiva e mix occupazionale, Mofir working paper n.42, May 2010.
[6] Per una trattazione divulgativa del problema, si rinvia al mio articolo Sciopero del capitale, austerità e bassi salari.
[7] La precarietà del lavoro è associata a bassa domanda aggregata perché comprime la propensione al consumo, in condizioni di incertezza sul rinnovo del contratto di lavoro. Sul tema si rinvia al mio La precarietà come freno alla crescita.
[8] Il che, a sua volta, può spingere le imprese (se internazionalizzate) a vendere all’estero, almeno nei casi in cui i costi di trasporto siano sufficientemente contenuti. Diversamente, non essendovi incentivo ad accrescere la produzione, politiche di bassi salari concorrono a determinare il ‘nanismo’ imprenditoriale che caratterizza la struttura produttiva italiana e meridionale, in particolare. Sulle dinamiche delle localizzazioni di imprese, si rinvia al pionieristico lavoro di Paul Krugman, Increasing returns and economic geography, “Journal of Political Economy”, vol.99, n.3, 1991 .
[9] Cfr. H.Hein and A. Tarassow, Distribution, aggregate demand and productivity growth: Theory and empirical results for six OECD countries based on a post-Kaleckian model, “Cambridge Journal of Economics”, 2009, 34, pp.727-754. Sui fattori che determinano avanzamento tecnico, si rinvia, fra gli altri, a S. Davidson and H.Spong, Positive externalities and R&D: Two conflicting traditions in Economic Theory, “Review of Political Economy”, vol.22, n.3, July 2010, pp.355-372. Stando al ben noto teorema smithiano, la produttività del lavoro cresce al crescere della divisione del lavoro all’interno dell’impresa, che, a sua volta, dipende dall’estensione del mercato. Politiche di riduzione dei salari, riducendo la domanda, riducono – per questa via – la divisione del lavoro e, conseguentemente, la produttività.
http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/la-spirale-perversa-delle-delocalizzazioni/
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Iraq, I laureati tagliati fuori dal boom petrolifero di Bassora
Molti fanno fatica a trovare un lavoro decente, nonostante investimenti e sviluppo siano improvvisamente aumentati di molto
di Ali Abu Iraq
Institute for War and Peace Reporting
Iraq Crisis Report, no. 359, 8 novembre 2010
Un pomeriggio di poco tempo fa, a Bassora, città del sud dell’Iraq, nel bazar locale si è sentito un urlo: stava arrivando la polizia. In un attimo, i venditori ambulanti hanno arrotolato i loro prodotti e si sono sparpagliati. Uno di loro, Gasim Talib, non è stato così fortunato.
Mentre riceveva una ramanzina dagli ufficiali locali, Talib aveva anche lui qualcosa da dire senza peli sulla lingua.
“Che cosa volete che faccia? Non c’è lavoro; non c’è neppure un governo che possa trovarci un lavoro. Come posso guadagnarmi da vivere se non vendo per strada?”, aveva detto.
Potrebbe essere una scena tipica di qualsiasi città irachena, mentre la disoccupazione cresce rapidamente in tutto il Paese. Ma questo è il polo petrolifero di Bassora, dove si dice che adesso ci sono soldi in abbondanza, uno sviluppo rapido è ovunque, e le grandi corporation internazionali stanno arrivando in gran numero. Talib non è neppure un caso tipico; e la sua è una storia comune fra una parte crescente dei disoccupati di Bassora.
“‘Ho 28 anni, mi sono laureato alla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bassora nel 2005. Ho fatto di tutto per trovare un lavoro, ma non ci sono riuscito: non avevo 5.000 dollari Usa [di tangente] o un aggancio nel governo, e ho rifiutato di entrare in qualunque partito politico. Ecco perché faccio il venditore ambulante, sempre inseguito dalla polizia perché vendo in posti dove è proibito”, dice Talib all’IWPR.
Chi si è laureato da poco in una delle due istituzioni dell’istruzione superiore di Bassora dà voce alla stessa lamentela: trovare lavoro qualificato è quasi impossibile, e per molti lavori ci vogliono agganci, bustarelle, o legami con un partito politico, dicono. A peggiorare le cose c’è l’arrivo delle multinazionali petrolifere che finora hanno per lo più importato il loro personale tecnico.
Suad Abdul Nabi, 26 anni, si è laureata in Informatica nel 2007 all’università privata della provincia, lo Shaat al-Arab College. Dice che il suo livello di istruzione si sta rivelando senza nessun valore mentre a casa si accumulano i debiti.
“Ho oberato la mia famiglia delle spese per l’università. Per me questo è il terzo anno [dopo la laurea] e non sono riuscita a trovare un lavoro. Mi sento colpevole per aver oberato la mia famiglia senza ridare indietro nulla. Non ci sono posti di lavoro disponibili, tranne per quelli che hanno influenza e potere”, aggiunge la Nabi.
Secondo il dr. Agil Abdul-Hussein, direttore dell’Informazione all’Università di Bassora, ogni anno si immatricolano in media 4.000 studenti, con 4.500 laureati nel 2010. Ma, a suo avviso, offrire lavoro ai laureati non è responsabilità dell’università.
“Siamo responsabili della loro preparazione attraverso l’istruzione, nonché programmi di formazione e laboratori”, aggiunge, anche se nessuno dei laureati che hanno parlato con l’IWPR ha detto di avere frequentato questi ultimi.
Hashem Laibi, responsabile della comunicazione del Consiglio Provinciale di Bassora, dice che il tasso di disoccupazione per l’intera provincia nel 2010 è del 25 %, ma ammette che potrebbe essere anche più elevato per quanto riguarda i laureati.
Il dr Nabil al-Jaafar, professore alla Facoltà di Management ed Economia dell’Università di Bassora, ha stimato che il tasso di disoccupazione complessivo è più vicino al 30 %, e dice che fra i settori più poveri della società, inclusi i laureati di recente, il dato arriva fino al 50 per cento.
“Desideriamo vivamente sostenere i laureati assicurando loro posti con le compagnie straniere che vogliono investire in Iraq. Vorremmo iniziare un processo nel quale per poter avere una licenza per investire a Bassora queste compagnie devono assumere un certo numero di giovani laureati”, dice Abidi, aggiungendo che il Consiglio ha avallato progetti di micro-credito finanziati dalla Gran Bretagna per offrire prestiti ai laureati per aprire piccole attività.
Secondo gli esperti, la provincia di Bassora conterrebbe fra il 40 e il 60 per cento del petrolio iracheno, una risorsa non sfruttata che potrebbe rilanciare l’economia paralizzata. Da quando sono stati assegnati i contratti alle compagnie straniere, l’agosto scorso, giganti petroliferi come Exxon Mobil, British Petroleum, e la cinese CNPC sono arrivati assieme a centinaia di imprese più piccole. Un po’ di tempo fa, questo mese, il Guardian aveva definito Bassora come una città che “solleva di continuo nuovi soldi”.
Il dr Mohammad Saleh, rappresentante del ministero dell’Istruzione presso il ministero del Petrolio, dice che il governo centrale ha intenzione di trasformare gli investimenti in arrivo in posti di lavoro.
“Il ministero del Petrolio sta incoraggiando le compagnie petrolifere a sostenere finanziariamente ingegneri e laureati per ridurre la disoccupazione e al tempo stesso fornire professionisti all’industria petrolifera”, dice Saleh.
Continua dicendo che il ministero del Petrolio ha messo a punto piani per una Facoltà degli Idrocarburi a Bassora con l’obiettivo di creare lavoratori qualificati per i giganti petroliferi in arrivo. La scuola, dice, potrebbe essere una realtà entro il 2012.
Fino a quel momento, i laureati che entrano nella forza lavoro a Bassora dicono che hanno poche probabilità di riuscire a trovare un lavoro.
“Il sentimento prevalente fra i giovani è la disperazione”, dice Amin Ali, matricola all’Università di Bassora.
“E’ qualcosa di veramente frustrante. Mi fa sentire che sarò solo un altro laureato senza lavoro o un futuro come tanti dei miei amici. Non riesci a trovare un lavoro se non supplichi o non paghi. Sembra che la società sia diventata un gioco nel quale i criteri di idoneità non hanno nulla a che vedere con l’istruzione o l’esperienza”.
Ali Abu Iraq è un giornalista formatosi presso l’IWPR in Iraq
(Traduzione di Ornella Sangiovanni)
Articolo originale
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=9951
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Doing business 2011
Il Rapporto annuale analizza il contesto del business da vari punti di vista: facilità nel creare una nuova impresa e nell’ottenere permessi per costruire, costo della burocrazia, protezione investitori e proprietà intellettuale, accesso al credito, sistema fiscale, rapporti di lavoro, rispetto dei contratti.
La premessa logica del “Doing business” è che l’attività economica richiede buone regole che devono essere trasparenti ed accessibili a tutti. Non tutti i fattori rilevanti per il business vengono però presi in considerazione da International Finance Corporation e World Bank (ad esempio, nel definire la classifica non si valutano le condizioni macroeconomiche, le infrastrutture, o le competenze della forza lavoro).
Secondo World Bank, negli ultimi 5 anni, l’85% delle 183 economie analizzate ha semplificato il contesto del business in cui operano le imprese (i maggiori progressi si sono registrati in Cina, India e nell’Africa sub sahariana).
Nel corso del 2010 molti governi, a seguito della crisi finanziaria internazionale, hanno adottato politiche tese a favorire le piccole medie imprese e a sostenere l’occupazione.
Più della metà delle riforme si sono concentrate nel facilitare lo start up di un’impresa, nel semplificare le regole commerciali e il pagamento delle tasse e nello snellire le procedure fallimentari. Il diffuso impiego di nuove tecnologie ha consentito di ridurre i costi e di portare maggior trasparenza nei processi burocratico – amministrativi.
Per il quinto anno consecutivo in testa alla classifica troviamo Singapore (seguito da Hong Kong, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti).
I Paesi che hanno impresso una forte accelerazione al processo di riforme e hanno guadagnatopiù posizioni rispetto al 2010 sono stati: il Kazakstan (+15 posizioni), Tajikistan (+10) e Ungheria (+6).
L’Italia arranca
L’Italia continua a perdere inesorabilmente posizioni. Nel ranking 2011 occupa il posto 80, nella classifica 2010 compariva al 76° posto e in quella del 2009 al 74°.
Fattori più critici del nostro sistema Paese:
difficoltà nel pagamento delle imposte
rigidità del mercato del lavoro
inefficacia del sistema giudiziario civile
accesso al credito.
Un’unica frase dell’executive summary rende un po’ meno amara la lettura: “L’Italia ha intrapreso riforme (?) che daranno frutti solo nel lungo periodo, come quella del settore giudiziario o della procedura fallimentare.
Enrico Forzato
http://www.newsmercati.com/Article?ida=5365&idl=3180&idi=1&idu=49647
prelevato il 25.11.2010
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PM10, Italia deferita alla Corte di giustizia perché l’aria è troppo inquinata 24.11.2010
L’Europa ha deferito l’Italia (con Cipro, Portogallo e Spagna) per non aver rispettato le norme Ue in merito ai livelli di PM10 presenti nell’aria. La Commissione specifica che:
Il particolato fine (PM10) è presente soprattutto nelle emissioni inquinanti provenienti dall’industria, dal traffico e dai riscaldamenti domestici e può causare asma, problemi cardiovascolari, cancro ai polmoni e morti premature.
Non avendo l’Italia adottato una politica di contenimento delle emissioni viene deferita alla Corte di Giustizia:
Su raccomandazione del commissario per l’ambiente Janez Potočnik.
Che vuol dire? Che se non ci adeguiamo alla norma europea 2008/50/Ce, ci sarà rifilata una multa salatissima. Secondo la norma gli stati membri si sarebbero dovuti adeguare entro il 2005 portando la concentrazione annua di PM10 a 40 microgrammi al metro cubo e a 50 microgrammi al metrocubo la concentrazione quotidiana che non deve essere superata oltre 35 volte in un anno di calendario.
E’ vero che è possibile chiedere un esenzione fino al giugno 2011 ma a patto che siano rispettate alcune condizioni quali:
Lo Stato membro deve dimostrare di aver adottato misure per rispettare gli obblighi entro il termine prorogato e di attuare un piano per la qualità dell’aria che preveda le misure di abbattimento pertinenti per ogni zona considerata per la qualità dell’aria. Le informazioni a disposizione della Commissione indicano che dall’entrata in vigore della normativa nel 2005 i valori limite per il PM10 non sono stati rispettati in diverse zone a Cipro, in Italia, Portogallo e Spagna. Per quanto tutti i quattro Stati membri abbiano chiesto la proroga, la Commissione ritiene che le condizioni per concederla non siano state rispettate per diverse zone non in regola e per questa ragione ricorre alla Corte di giustizia europea contro tali Stati membri.
Via | Press release Europa
Foto | Issnaf
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Acqua all’arsenico, Fazio: “Non prevedevamo un parere negativo alle deroghe”. Per Federconsumatori si preannuncia il reato di avvelenamento 24.11.2010
L’arsenico è tossico. Non solo, è anche cancerogeno. E ovviamente le deroghe che prevedevano un continuo innalzamento delle soglie per rendere per legge l’acqua potabile, non potevano essere concesse per sempre. Lo stop della Commissione europea al meccanismo delle deroghe è arrivato l’11 novembre scorso ma la notizia è stata resa nota solo ieri.
Ma questo Ferruccio Fazio Ministro per la Salute dichiara di non saperlo e dice secondo quanto riporta Terra di oggi a pag. 2:
Non ce lo aspettavamo. Non prevedevamo un parere negativo.
A essere interessati dal meccanismo delle deroghe che concedevano continui innalzamenti di presenza legale di arsenico nelle aque potabili sono 128 comuni di cui 91 nella provincia di Roma (alla fine del documento della Ue l’elenco dei comuni coinvolti). Scrive perciò la Commissione Europea:
Per quanto riguarda l’arsenico, le prove scientifiche nei documenti indicati in riferimento negli orientamenti dell’Organizzazione mondiale della sanità e nel parere del comitato scientifico dei rischi sanitari e ambientali consentono deroghe temporanee fino a 20 μg/l, mentre valori di 30, 40 e 50 μg/l determinerebbero rischi sanitari superiori, in particolare talune forme di cancro. Pertanto occorre autorizzare unicamente deroghe per valori di arsenico fino a 20 μg/l.
Le associazioni dei cittadini e dei consumatori, intanto, stanno predisponendo una class action mentre secondo Federconsumatori si prefigura il reato di avvelenamento colposo. Dichiara il presidente Rosario Trefiletti:
Bisogna, quindi, intervenire subito, ponendo dei filtri negli acquedotti ed applicando opportune miscelazioni per purificare l’acqua potabile. In mancanza di ciò Federconsumatori metterà in campo i suoi uffici legali, per denunciare tali comportamenti vergognosi e sconsiderati, che prefigurano il reato di avvelenamento colposo.
Foto | Federazione sanità
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La sentenza di Brescia: lo Stato e le stragi.
Aldo Giannuli
Fonte: http://www.aldogiannuli.it/
22 novembre 2010
Come è noto, alcuni giorni fa, la Corte d’Assise di Brescia ha mandato assolti tutti gli imputati della strage del 28 maggio 1974. In molti mi hanno sollecitato a commentare il fatto.
Sono stato consulente del Pubblico Ministero in quel processo -che è ancora in corso, perchè è possibile che il Pm si appelli. Pertanto non è nè corretto nè elegante che mi io mi pronunci in merito, sia per rispetto dei diritti della difesa, sia perchè la Corte deve ancora depositare le motivazioni. Per ora è noto solo il dispositivo. Avendo seguito passo passo sia l’istruttoria che il dibattimento, posso dire di essere stato moderatamente sorpreso da questo esito. Dunque mi asterrò da ulteriori commenti in merito.
Posso però fare delle considerazioni più generali in merito all’atteggiamento della magistratura a proposito delle stragi fasciste (si: anche se la verità processuale vorrebbe che si tratti di stragi ad “opera di ignoti”, in sede storica è raggiunta, e non da ora, la consapevolezza che si è trattato di stragi ad opera della destra fascista protetta ed istigata da apparati dello Stato e da settori dei partiti di maggioranza).
Come si sa, mentre nei casi riguardanti il terrorismo rosso si è spesso formata una verità processuale e sono fioccate le condanne (peraltro meritate), nel caso del terrorismo stragista nero questo è stato possibile solo in pochissimi casi molto particolari: per la strage di via Fatebenefratelli dove fu condannato il solo Bertoli (arrestato in flagranza), per la strage di Peteano (perchè Vincenzo Vinciguerra è reo confesso spontaneamente costituitosi) e per Bologna (dove risultano condannati i soli Fioravanti e Mambro ma fra molti dubbi ). Per il resto è notte fonda: piazza Fontana, Gioia Tauro, Brescia, Italicus, Savona restano senza colpevoli.
Il sospetto più immediato è quello di un pregiudizio favorevole agli imputati dettato da simpatie politiche. Oppure si pensa ad interventi del potere politico a loro favore o, infine, alla conseguenza dei depistaggi da parte di polizia e carabinieri. Ma si tratta spiegazioni valide per il passato, non certo oggi, con una magistratura che non sembra esprimere simpatie per la destra. Quanto alle ingerenze del potere politico, ricordiamo che alcune delle sentenze più disinvolte sono venute fuori durante i governi di centro sinistra. E neppure la spiegazione dei depistaggi oggi regge: sono stato consulente sia di Salvini che della Procura bresciana e posso dire che gli ufficiali di polizia giudiziaria hanno operato al meglio e con assoluta lealtà (diventando, così, assai poco simpatici ai corpi di appartenenza). Dunque, le ragioni sono altre.
Ovviamente ha influito il tempo passato: in trenta o quaranta anni i testimoni muoiono o smemorano, le prove materiali deperiscono e tutto diventa più difficile. Eppure, le inchieste avevano comunque raggiunto risultati importanti che avrebbero potuto portare alla condanna almeno di alcuni degli imputati. Ma ciò non è accaduto per un insieme di ragioni.
In primo luogo la struttura del processo, così come prevista dal codice. Il processo penale ordinario è pensato per casi molto circoscritti, con pochi testi, due o tre perizie, pochi imputati. Ma, quando si deve ricostruire una vicenda terribilmente complicata ed articolata come le stragi, dove entrano in gioco gruppi eversivi ed apparati dello Stato, agenti stranieri e uomini politici d’alto livello, il processo esige centinaia di testimoni, valanghe di documenti, decine e decine di perizie, una pioggia di sequestri, intercettazioni ecc. Ed il fascicolo processuale si gonfia di centinaia di migliaia di pagine che conosce solo il Pm e che, in gran parte, non leggeranno neppure gli avvocati.
La cosa è poi ulteriormente complicata dalla mancanza di prove dirette: in processi di questo genere non c’è quasi mai un testimone che riconosca una persona vista nell’atto di deporre la bomba o una foto o una intercettazione inoppugnabili ed occorre lavorare sulla convergenza di cento elementi indiziari; quel che richiede studio ed applicazione di cui le corti, il più delle volte, non hanno alcuna voglia. Molto meglio affidarsi alle “impressioni” durante il dibattimento e ad una rapida sfogliata di carte. In questo modo il processo acquista una caratteristica eminentemente suggestiva, per cui l’abilità dell’abilità retorica dell’avvocato nel creare il “colpo di scena” vale più di dieci perizie e di venti intercettazioni che nessuno si va a leggere.
Ma, anche quando il testimone oculare esiste e, magari, è di forte memoria, il magistrato non gli crede perchè “il suo ricordo è troppo preciso a distanza di tanti anni per essere credibile” (accadde, durante il secondo processo per la strage di Brescia, ad un prete, Don Gasparotto, che aveva riconosciuto in Cesare Ferri la persona vista nella sua chiesa poco prima della strage). E qui entrano in gioco gli elementi specifici del come è fatta la magistratura del nostro paese.
Non si tratta di simpatia politica o di corruzione, la verità è ben più banale e perciò stesso più grave.
Il magistrato medio italiano è una persona mossa da una sola vera motivazione: la carriera. Spesso si tratta di persone non corrotte e sicuramente non simpatizzanti di eversori ed assassini, ma di persone mediocri, amanti del quieto vivere e poco inclini allo studio ed al rigore. In molti anni di pratica delle carte forensi, ho letto sentenze che gridano vendetta per la lingua in cui sono scritte e per la manifesta ignoranza giuridica.
Soprattutto la magistratura giudicante (che non ha l’incentivo dei riflettori dei mass media, concentrati sui colleghi inquirenti) tende ad uniformare il propri verdetti alla vulgata corrente: le sentenze coraggiose rischiano di essere riformate in Appello o in Cassazione e questo non facilita la carriera, anzi…
E l’andazzo di questi anni -complice una inadeguata pressione dell’opinione pubblica- è stato quello di assolvere sempre e comunque. E se in primo grado c’è stata una condanna, già il giudizio d’appello ha “riparato” il torto.
Non parliamo poi se fra gli imputati c’è un ufficiale dei carabinieri o un questore! Come si fa a condannare il membro di una corporazione con cui si deve collaborare quotidianamente? E poi, in casi di questo genere, che hanno avuto due o tre cicli processuali precedenti, occorre anche riconoscere -quantomeno implicitamente- che i giudici precedenti hanno lavorato da bestie e questo non sta bene. Che figura ci farebbe la corporazione giudiziaria?
Il modo migliore per evitare impicci e fastidi è quello di trovare nelle pieghe del processo la comoda scappatoia dell'”insufficienza di prove”. La formula non esiste più nel nuovo codice, ma nelle motivazioni si trova modo di utilizzare il concetto con cento espressioni equivalenti. Insomma: “l’accusa ha fatto un buon lavoro, gli indizi ci sono e neppure pochi, però… manca quell’ultimo anello che ci avrebbe permesso di condannare per cui, con rammarico, siamo costretti ad assolvere. E se non siete d’accordo non siete garantisti”.
Così l’accusa può consolarsi, gli imputati sono accontentati e sono serviti anche i garantisti.
Quanto al garantismo (quello vero, non quello “peloso”), chi ne abbia voglia si prenda la briga di confrontare le prove a carico di Adriano Sofri, testardamente riconosciuto colpevole in 9 giudizi su 10, con gli elementi a carico -ad esempio- di Cesare Ferri nel secondo processo per Brescia. Magari ci si farà l’idea che in qualche caso i giudici si fanno bastare le prove ed in altri non ci sono prove che bastino.
D’altra parte, la magistratura giudicante ha dimostrato di considerare questi processi con molto fastidio: processi lunghi, complessi, difficili, con centinaia di testimoni e per storie di trenta o quaranta anni fa di cui non interessa più a nessuno. Perchè mai occuparsene?
La verità è che processi del genere occorrerebbe avere grande scrupolo professionale, capacità di studio e di lavoro, coraggio morale e alta considerazione del proprio ruolo.
Ma ci si può attendere tutto questo da una corporazione selezionata più in base al grado di parentela che sulla conoscenza del codice? Da una corporazione che elegge i suoi controllori che mandano prosciolti il 97% dei giudici contro cui ricorre un cittadino?
Il bilancio dei processi sulle stragi, colpi di Stato, vicende che vedono accusati membri delle forze di polizia per la morte violenta di cittadini ecc. è questo. Esso esprime esattamente il valore morale della nostra magistratura.
Aldo Giannuli, 22 novembre ’10
http://www.reti-invisibili.net/piazzadellaloggia/articles/art_14783.html
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 26.11.2010
Le aperture
Il Corriere della Sera, con foto della Torre di Pisa: “Gli studenti occupano i monumenti. Dal Colosseo alla Torre di Pisa, blitz degli universitari nelle grandi città. Scontri con la polizia. Rinviato il voto sulla riforma. Gelmini: se la stravolgono la ritiro”. A centro pagina: “Lite sul diritto di replica dopo gli interventi di Englaro e Welby”. Si parla della trasmissione Vieni via con me. “Non ospitiamo il gruppo pro vita. La risposta di Fazio e Saviano al Cda Rai”.
L’editoriale è dedicato alla situazione politica e alla “strategia della guerriglia parlamentare” in Parlamento. “Mordi e fuggi”, il titolo. In prima anche un richiamo per il “sorprendente lieto fine della Carfagna”, e per la “marcia indietro” del Ministro ex dimissionario
La Repubblica: “Gli studenti fermano la riforma”. “Governo di nuovo battuto, slitta l’approvazione della legge Gelmini. La Carfagna fa pace con Cosentino. Napolitano: da riscrivere il decreto rifiuti”. “Berlusconi: meglio il voto, Fini e Casini vogliono il Quirinale e Palazzo Chigi”. L’editoriale, firmato da Ezio Mauro, è titolato: “Il ritorno dei cittadini”, dove ci si chiede se non ci sia un elemento unificante tra le proteste per i rifiuti a Napoli e le manifestazioni degli studenti. Secondo Mauro nel Paese si sta taccogliendo “la sensazione che il sentimento politico degli italiani stia cambiando”. Agli studenti è dedicato un altro commento, a firma di Curzio Maltese: “Generazione rubata”. A centro pagina: “Rai: Fazio e Saviano invitino i pro life. I conduttori: diktat inaccettabile. Oggi Masi vede Ruffini”. A fondo pagina una “inchiesta italiana” dedcicata al nuovo boom del contrabbando. “In testa sigarette, animali e farmaci. I contrabbandieri cinesi del Viagra”:
La Stampa, con foto e veduta sulla Mole di Torino: “La protesta sale sui monumenti. Slitta la riforma dell’università. Nuovi scontr. Governo ancora battuto in aula, martedì il voto finale”. In prima un richiamo ad una intervista e ad una inchiesta. Viene intervistato il Ministro Gelmini, che dice: “Sono preoccupata, temo che qualcuno si faccia male. Ma con i giovani la politica cambi atteggiamento”. Il titolo è: “Bersani su quei tetti legittima gli eccessi”. L’inchiesta si sofferma su “come corre la rivolta ai tempi di facebook”. Sono i social network gli strumenti usati per “organizzare blitz simultanei” e “raggiungere con un clic centinaia di migliaia di giovani”.
Il Foglio: “Pochi studenti e quattro finiani bloccano una riforma che piace a molti. Franzini (Statale di Milano): ‘Il novanta per cento dei docenti è d’accordo con il ddl Gelmini’. Atenei e monumenti occupati”.
Libero: “Fini frega pure gli studenti. In odio al Cav, i futuristi votano contro la riforma Gelmini sull’università che hanno contribuito a fare. Gioco sporco sulla scuola”. E poi: “Scontri ragazzi-polizia: monumenti occupati e feriti. Granata sul tetto: se forziamo, il partito si spacca”. A centro pagina, con caricatura, si parla di Luca Cordero di Montezemolo: “Luca scalda i motori ma non parte mai. L’ingresso di Montezemolo in politica”. Accanto, il Pdl: “Berlusconi ha fretta di andare alla conta. Fli ha modi criminali, Pier e Gianfranco due poltronari”.
Il Riformista, con foto di Gelmini e Bondi: “Anelli deboli. Due ministri nella bufera. La prima mette a rischio il governo con la riforma univeristaria che ogni giorno fa sotto in Aula. Il secondo usa il Ministero per scopi ‘familiari'”.
Il Sole 24 Ore: “Successo per l’asta del Tesoro. Sale il rischio-Spagna: spread record rispetto ai titoli tedeschi. Nel 2011 stress test più severi sulle banche Ue. Forte richiesta per 10,5 miliardi di Bot e Ctz, tassi il lieve rialzo”. Il titolo di apertura è per la situazione interna: “Sul riassetto degli atenei la maggioranza va sotto. Slitta il voto alla Camera”. In prima, con foto, anche una notizia che viene da Bruxelles: “La Corte Ue boccia l’Italia sulla denominazione ‘puro'”.
Il Fatto quotidiano: “L’allarme dei medici. ‘A Napoli rischio epidemia’. Ignazio Marino e altri esperti: topi e gabbiani tra i rifiuti possono diffondere gravi malattie. Non bastano le mascherine ai bambini”. “Interrogazione urgente di 106 deputati Pd ma il ministro Fazio minimizza. ‘Patologie in lieve crescita ma è colpa dello smog’. Sul decreto ancora in atto lo scontro tra Palazzo Chigi e il Quirinale”. A centro pagina: “Altro che riforma Gelmini, c’è una generazione in rivolta”. “Gli studenti bloccano le città e occupano i monumenti”. “I ricercatori restano sui tetti fino al voto finale di martedì. Il governo battuto alla Camera”.
Giustizia e 41 Bis
L’ex ministro dell’interno Nicola Mancino scrive una lettera a La Repubblica per replicare ad un articolo di Barbara Spinelli nel quale – scrive Mancino – “apoditticamente mi si attribuisce l’opinione favorevole alla abolizione del carcere duro” decisa, nel novembre 1993, dall’allora ministro della giustizia Conso nei confronti di 140 mafiosi. Mancino ribadisce di aver mai espresso in nessuna sede opinioni a favore di un allegerimento o della abolizione del regime di 41 bis. Mancino cita la sua risposta (giugno 1993) alla polemica sollevata nei suoi confronti da Tiziana Maiolo (allora nelle liste di Rifondazione comunista) e dal radicale Sergio D’Elia, che lo accusavano di voler creare “carceri speciali”: “Mi sono battuto e mi batto contro il lassismo penitenziario quando consente ai mafiosi di comunicare con l’esterno e di guidare, dalle carceri, la lotta contro lo Stato”. Cita altresì una sua dichiarazione di analogo tenore al Giornale di Sicilia e ricorda che nei giorni scorsi l’ex Ministro Conso, alla Commissione antimafia, ha dichiarato di aver preso la decisione di non rinnovare il 41 bis “in assoluta solitudine, senza consultarsi con nessuno”.
Segue controreplica di Barbara Spinelli, che trova allora “tanto più preoccupante” l’orientamento in quegli anni del direttore del Dap Niccolò Amato, che, in un appunto indirizzato all’allora ministro Conso, riferiva: in sede di comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, nella seduta del 12 febbraio, sono state espresse da parte del capo della Polizia, riserve sulla eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario. Ed anche recentemente, da parte del ministero dell’Interno, sono venute pressanti insistenze per la revoca dei decreti applicati agli istituti di Poggioreale e Secondigliano. C’era quindi, secondo la Spinelli, non soltanto una parte del ministero dell’Interno che la pensava in modo diverso dal proprio ministro, ma agiva esercitando pressioni.
Su Libero Filippo Facci commenta la puntata di ieri di AnnoZero e ricorda che nei giorni scorsi “la famosa inchiesta sulla trattativa era stata già smontata, nel momento in cui Conso aveva dichiarato di esser stato lui, in piena autonomia, a non rinnovare il carcere duro per 140 mafiosi in carcere all’Ucciardone. E nessun magistrato, allora, si oppose: “Ma nessuno AnnoZero lo ha mai invitato o intervistato”.
Silvio Berlusconi ha preannunciato che martedì prossimo il Consiglio dei ministri varerà la riforma della giustizia. Secondo il Corriere della Sera conterrà la separazione delle carriere e l’istituzione di due Consigli superiori della magistratura. Ma riprenderà anche il capitolo delle intercettazioni telefoniche. Il senso della revisione viene riassunto così: “il cittadino, anche se inquisito o imputato, potrà presentare un esposto alla Corte di appello se riterrà di esser stato danneggiato. In particolare se l’indagine ha prodotto intercettazioni inutili, non attinenti all’inchiesta o – peggio ancora – se i brogliacci irrilevanti per i capi di imputazione sono stati pubblicati illegittimamente”. Il magistrato “condannato all’equo indennizzo per ingiusta intercettazione” ne risponderà poi al Csm in sede disciplinare e alla Corte dei conti per danno erariale.
Esteri
Spiega Il Sole 24 Ore che è imminente la pubblicazione di tre milioni di documenti del Dipartimento di Stato Usa ad opera di Wikileaks. “Un crescendo rossiniano”. “Wikileaks avrebbe già passato il materiale ad alcuni giornali, come New York Times, Guardian, Der Spiegel. Ma ad avere motivo di preoccuparsi non è solo il governo italiano, ma anche molti altri Paesi nel mondo. Un ex diplomatico americano che chiede l’anonimato dice: “Il timore è che vengano alla luce attività di nostri diplomatici che non potrebbero non piacere a governi stranieri”. E ci sarebbero anche riferimenti ad episodi di corruzione che coinvolgono capi di governo. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Crowley, ha ricordato e sottolineato che “le comunicazioni inviate a Washington dalle nostre missioni diplomatiche all’estero nascono per rimanere riservate”.
Su La Repubblica: “Wikileaks fa tremare gli Usa, ‘a rischio i rapporti con gli alleati’. In arrivo i file riservati del Dipartimento di Stato, indirizzati alle ambasciate sparse nel mondo”. Qualche settimana fa – ricorda il quotidiano – il fondatore di Wikileaks Assange aveva anticipato che le prossime rivelazioni avrebbero riguardato Cina e Russia. Secondo il quotidiano Al Hayat i files conterrebbero un duro attacco alla Turchia, colpevole, secondo l’Amministrazione Obama, di aver consentito il passaggio di bombe e munizioni per miliziani che combattono in Iraq. E nei documenti ci sarebbero anche le prove di un supporto americano ai guerriglieri curdi del Pkk, definiti “guerrieri della libertà e cittadini turchi”: l’appoggio Usa sarebbe stato finalizzato alla creazione di una forza in grado di costrastare il passaggio di uomini e mezzi verso l’Iraq attraverso il Kurdistan.
Alle rivelazioni annunciate di Wikileaks è dedicato uno degli editoriali de Il Foglio, secondo cui alcuni documenti potrebbero provare che la Turchia, Paese Nato, ha aiutato Al Qaeda durante la guerra in Iraq, mentre gli Usa hanno finanziato il PKK: “Le rivelazioni diplomatiche hanno l’aria di essere anche più pericolose di quelle belliche”. Sarà un colpo molto grave per gli equilibri, soprattutto tra gli alleati americani. Wikileaks cerca di rompere questo equilibrio “fatto di cose che si possono sapere e di cose che è nell’interesse di tutti non dire. Con le sue massime moraliste sulla democrazia a cielo aperto suscita in realtà più conflitti di quelli che si propone di fermare”.
Parla di cyberguerre l’intervista all’esperto Usa Scott Borg, al Riformista: dice che il virus che ha azzoppato il programma iraniano è stato prodotto al novanta per cento da Gerusalemme. A Teheran è stato assestato un duro colpo, ma domani potrebbe toccare a noi, perché le offensive virtuali si moltiplicheranno. Sullo stesso quotidiano si riferisce dell’incontro del quotidiano britannico Guardian con un “talebano stagionale”: sono immigrati che lavorano tutto l’anno e che – con i soldi messi da parte – d’estate vanno a combattere in Afghanistan.
E poi
Si occupa ampiamente del rapporto 2010 sulla libertà religiosa nel mondo, messo a punto dall’Acs (Aiuto alla chiesa che soffre) e tradotto in sei lingue, il vaticanista de La Stampa Giacomo Galeazzi, raccontando i Paesi in cui le minoranze sono vittime.
Sulla prima pagina de Il Foglio si parla della vicenda del Nobel anglo indiano Naipaul, che ha deciso di non presentarsi a Istanbul, dove sarebbe stato ospite d’onore al “Parlamento degli scrittori europei” creato da Orham Pamuk e José Saramago. Alcuni importanti autori turchi avevano minacciato di boicottare l’evento, considerando la presenza di Naipaul “un insulto per i musulmani”. Dall’11 settembre – ricorda Il Foglio – Naipaul ha iniziato a martellare sul fondamentalismo islamico, ricevendo in cambio accuse di razzismo e intolleranza. “La guerra religiosa è alla base dell’Islam”, aveva scritto Naipaul dopo le Twin towers. Ma il caso non è isolato in Turchia, poiché la caccia alle streghe islamista aveva persino pensato di mettere al bando il poeta Apollinaire, troppo sensuale e occidentalizzante, così come si è accusato di blasfemia Edim Gursel, professore di letteratura alla Sorbona di Parigi.
Dacia Maraini, sul Corriere della Sera, prende spunto dalle contestazioni al premio Nobel Naipaul per le sue posizioni anti islamiche e racconta una Istanbul attraverso gli occhi degli scrittori, in un Paese che vive di modernità e tradizione, pieno di contraddizioni, ma in cui le ragioni dei diritti civili hanno ancora un ampio ascolto.
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«Consumi e salari massacrati: non si può uscire così dalla crisi»
di Vittorio Bonanni
su Liberazione del 25/11/2010
Intervista ad Emiliano Brancaccio, economista, docente all’Università del Sannio
Emiliano Brancaccio, classe 1971, economista, è ricercatore e docente di Fondamenti di Economia politica e di Economia del lavoro presso l’Università del Sannio, a Benevento. E’ uno dei principali interlocutori di Liberazione sulle grandi questioni economiche nazionali e internazionali e dunque un suo parere sulla crisi economica e finanziaria che sta investendo l’Irlanda è fondamentale per capire che cosa sta esattamente avvenendo.
Difficile capire le ragioni della crisi in Eire. Quando gli stessi fatti si sono verificati in Grecia il governo di Atene era stato considerato responsabile per i troppi “privilegi” dei quali godevano, o avrebbero goduto, i lavoratori ellenici. Insomma, troppo stato sociale avrebbe causato la bancarotta. Ma come spieghiamo che lo stesso è avvenuto a Dublino dove sono state adottate politiche restrittive fatte di tagli e di contenimento del debito?
Per i pasdaran del capitalismo senza freni l’Irlanda ha rappresentato un esempio da seguire. Debito pubblico irrisorio, stato sociale minimo, tutela del lavoro inesistente e invece una politica di abbattimento delle tasse sulle imprese e di deregolamentazione finanziaria. Questa politica per un certo tempo ha generato una bolla speculativa con tassi di sviluppo piuttosto alti. Ma anche un enorme indebitamento del settore privato. L’esplosione della crisi globale ha reso questo debito in larga misura inesigibile. E’ questo il motivo principale per cui gli speculatori si sono scatenati. Adesso il governo irlandese cerca di metterci una pezza scaricando le insolvenze dei privati sul debito pubblico e chiede aiuto all’Europa e al Fmi in cambio di misure draconiane che colpiranno in primo luogo i lavoratori.
Ma in questo modo la crisi non si risolve….
Anzi si aggrava. Ricordo che nel giugno scorso abbiamo pubblicato la “Lettera degli economisti”, sottoscritta da oltre 250 studiosi. La “Lettera” ci dice che la crisi economica globale iniziata nel 2008 trova una delle sue cause scatenanti in una contraddizione sociale tra i tentativi di reprimere progressivamente le capacità di spesa del lavoro e al tempo stesso di aumentare il grado di sfruttamento del lavoro. Questa contraddizione genera una crisi di realizzo che rischia di aggravarsi proprio a causa di politiche restrittive che ancora una volta ricadono sul lavoro. Il problema è che tali politiche sono sostenute da un coacervo di interessi al momento prevalenti, che si riflettono soprattutto nel modo in cui il paese-guida della zona dell’euro, cioè la Germania, ha deciso di interpretare e sfruttare la crisi.
Unicamente a proprio vantaggio mi sembra….
Il punto è che l’economia tedesca gode di un grado di organizzazione e di centralizzazione dei capitali molto alto, che genera forte crescita della produttività. A ciò si aggiunge una politica tedesca di contenimento della spesa e dei salari in rapporto alla produttività. Questa combinazione ha consentito ai capitali tedeschi di penetrare nei mercati esteri più deboli, e ha fatto sì al tempo stesso che la Germania comprasse poco accumulando crediti verso gli altri paesi europei, i quali invece si sono corrispondentemente indebitati. Questa profonda asimmetria all’interno della Unione europea, nella crisi globale che stiamo attraversando, alimenta una ulteriore contraddizione di tipo territoriale, dagli esiti potenzialmente distruttivi.
Che idea c’è dietro questa ulteriore contraddizione?
La visione che prevale nell’establishment tedesco è che il riequilibrio tra i vari paesi europei deve restare interamente a carico dei paesi debitori, i quali dovranno riaggiustare la loro posizione attraverso l’abbattimento dei salari e delle capacità di spesa. Ma questa linea accentua e non corregge gli squilibri, poiché tra l’altro determina ritmi di sviluppo ancor più sbilanciati tra i paesi. Per cui evidentemente la Germania riesce a risalire un po’ la china della crisi mentre gli altri entrano in una situazione di crisi strutturale, che può diventare irreversibile. Il rischio è quello di una vera e propria desertificazione produttiva delle aree periferiche dell’Unione europea e processi migratori ancor più intensi verso le aree centrali. Ma in fondo questo pericolo viene messo in conto da chi mira a fare dell’Europa una sorta di “grande Germania”, con il capitale accentrato in mani tedesche e i paesi periferici che fungono da meri azionisti di minoranza e fornitori di manodopera a basso costo.
Come si esce da questa situazione?
Molti si augurano che esca fuori una “borghesia illuminata” che rimetta in sesto le cose. La storia tuttavia ci insegna che “i lumi” in genere scaturiscono dal conflitto sociale, in particolare dal pungolo del movimento operaio.
Venendo all’Italia, anche qui la crisi economica potrebbe costringerci a seguire le indicazioni del Consiglio europeo che il prossimo 15 dicembre potrebbe “consigliare” una manovra pesantissima per il nostro Paese. E con un governo traballante. Che cosa dobbiamo aspettarci?
Mi auguro che il 15 dicembre,
quale che sia lo status del governo in carica quel giorno, l’Italia dica con chiarezza “no” a una eventuale stretta europea sulla gestione del nostro debito pubblico. Dire “no” è senz’altro possibile. La Lettera degli economisti offre una traccia per una linea di indirizzo alternativa. Del resto, uscire dalla linea di recessione e di repressione sociale in cui si è infilata l’Unione europea richiede oggi una netta presa di posizione da parte delle autorità dei paesi periferici. Soprattutto gli eredi della tradizione del movimento operaio devono capire che in Europa questo è il tempo della dialettica politica, non della vuota retorica.
http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=33794&lang=ita
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La crisi coreana e l’asino di Buridano
Stefano Rizzo, 24.11.2010
E’ esploso un altro conflitto tra le due Coree, anche se meno grave, dal punto di vista delle vittime, di quello di qualche mese fa. La dinamica conflittuale tra i due stati è ormai la medesima da decenni, con il Nord che utilizza la minaccia del nucleare per accreditarsi come super potenza e tenere in scacco il mondo interno. Ma quello che colpisce più di tutto è l’impotenza della Cina
Lo scambio di colpi di artiglieria tra la Corea del Nord e quella del Sud (170 secondo i calcoli degli esperti militari) è avvolto nei fumi della guerra. L’unica cosa certa è che sono morti due militari sudcoreani e 15 civili sono rimasti feriti. Sulle sue vittime la Corea del Nord non ha fornito indicazioni. Come sempre in questi casi, è incerto chi abbia cominciato. I nordcoreani sostengono sono state le batterie del Sud, ed in effetti sembra che nell’ambito di esercitazioni al largo delle coste nordcoreane alcuni vascelli sudcoreani abbiano sparato alcune salve in direzione della costa (senza tuttavia raggiungerla).
Anche il bersaglio dell’attacco nordcoreano è contestato. L’isoletta di Yeonpyeong si trova ad appena 12 chilometri ad ovest della costa nordcoreana e fu assegnata al Sud dall’armistizio che nel 1953 pose, temporaneamente, fine alle ostilità tra i due stati; ma nel 1998 il dittatore nordcoreano Kim Jong-il la rivendicò come appartenente al Nord ridisegnando unilateralmente il confine marittimo come prosecuzione della linea armistiziale che divide tuttora i due paesi. All’attacco del Nord, come a quello ben più grave del mese di marzo che provocò la morte di 46 marinai (attacco peraltro negato dal Nord), la Corea del Sud ha reagito con ammirevole autocontrollo. Ha risposto ai tiri di artiglieria, ha allertato le sue squadriglie di caccia, ma non li ha fatti alzare in volo. Ha denunciato l’attacco contro la popolazione civile, ma ha solo minacciato che – se il Nord attaccherà di nuovo – bombarderà i suoi siti militari. Come altre precedenti provocazioni anche questa sembra destinata a rientrare, ma il pericolo di uno scontro armato tra due potenti eserciti che si guardano sospettosamente attraverso un confine arbitrario, rimane.
Con buona pace dei teorici dello “scontro di civiltà”, in questo caso il conflitto che periodicamente esplode è tra due stati che contengono uno stesso popolo, con una stessa cultura millenaria, una stessa lingua e una stessa religione. Negli anni della guerra fredda il conflitto Nord-Sud o Est-Ovest non era una anomalia, ma la regola: il risultato di una frattura ideologica che in varie parti del mondo – in Germania, in Vietnam, in Corea – contrapponeva coloro che erano schierati con l’Unione sovietica nel campo comunista e coloro che erano schierati nel campo occidentale con gli Stati Uniti. Nel 1975 il Vietnam fu riunificato dalla vittoria del Nord, dopo che gli Stati Uniti avevano lasciato il paese. Con la fine della guerra fredda nel 1989 la Germania fu riunificata e pochi anni dopo si risolsero in Africa e in America latina numerosi conflitti la cui unica ragione d’essere era stata il fatto che fossero guerre per procura tra le due superpotenze.
Da allora è iniziata un’altra storia, quella che un politologo neoconservatore, Charles Krauthammer, fin dagli anni ’90 ha chiamato l’emergere dei “weapon states”, cioè gli stati armati, ma armati di un’unica fondamentale arma che faceva la differenza: la bomba atomica. Le armi nucleari sono state considerate la scorciatoia di stati poveri e industrialmente sottosviluppati per raggiungere rapidamente e a basso costo la preminenza militare, minacciare i propri vicini e contare sulla scena internazionale. E’ la strada che fu seguita, anche dopo la firma del trattato di non proliferazione nucleare (1968), da stati come l’India, il Pakistan, il Sudafrica e, in condizioni diverse, da Israele. Una strada solo tentata, senza essere raggiunta, grazie alle pressioni della comunità internazionale, da numerosi altri stati, tra cui la Libia, l’Iraq (con quello che ne è seguito), l’Egitto, l’Iran, la Corea del Nord.
Eccetto che l’obbiettivo della bomba atomica la Corea del Nord l’ha raggiunto. Nonostante le pressioni diplomatiche e le sanzioni economiche, nonostante le ispezioni sulle navi dirette nei suoi porti, il regime di Pyongyang è a tutti gli effetti una potenza nucleare, anche se rimane incerto il numero degli ordigni che possiede e la loro efficacia. E’ un “weapon state” perché dietro l’arma atomica che possiede e il poderoso apparato militare convenzionale fornitogli nel corso degli anni dall’Unione sovietica e dalla Cina, non ha niente altro. E’ un paese poverissimo, con un PIL pro capite tra i più bassi del mondo (di venti volte inferiore a quello dei vicini del Sud), che dipende dalla Cina per gli aiuti alimentari e per il combustibile; un paese privo di un apparato industriale in grado di sostenere uno sforzo bellico prolungato, chiuso ad ogni influenza del mondo esterno e governato da un regime dittatoriale e dinastico (giunto alla terza generazione) che di comunismo ha soltanto il nome.
Ma è un weapon state e quindi è uno stato pericoloso. Anche in assenza di un attacco atomico, la capitale del Sud, Seoul, è a tiro della sua artiglieria pesante e verrebbe completamente distrutta se si arrivasse alla guerra. Così l’arma principale della Corea del Nord è la minaccia dei danni devastanti che potrebbe provocare, pur non avendo alcuna speranza di prevalere. Ma con quale obbiettivo? Qui la scienza delle relazioni internazionali si dichiara impotente a comprendere i motivi, che più che razionali (per quanto malvagi) e pubblici, appaiono arbitrari e personali.
L’ultima fiammata di ostilità è stata interpretata come una prova di forza nel momento in cui il regime si appresta ad un passaggio di consegne tra il malato Kim Jong-il e il di lui figlio venticinquenne Kim Jong-un, di cui nulla si sa. Altri lo interpretano come un disperato tentativo di farsi notare e di ricattare non solo la Corea del Sud, ma il mondo intero a fornire aiuti e riconoscimento al regime in cambio della disponibilità a trattare sul proprio arsenale nucleare. Si tratta di una strategia che la Corea del Nord persegue da anni, facendo promesse che poi non ha mantenuto, offrendo collaborazione in cambio di petrolio e di denaro, per poi continuare indisturbata nel proprio programma di nucleare.
Ciò che più colpisce in questa vicenda non è tanto l’impotenza degli Stati Uniti, che da almeno quindici anni cercano inutilmente di piegare la Corea del Nord al tavolo delle trattative e non hanno più alcun strumento di pressione se non quello di confermare la propria alleanza con il Sud (cosa che puntualmente hanno fatto). Ciò che più colpisce è l’impotenza della Cina. Pechino ha ogni interesse a non avere ad oriente un vicino provvisto di armi nucleari e, al di là di una comunanza ideologica del tutto evanescente, ha cercato di dissuaderlo e di “comprarlo” con aiuti economici e militari. Ma allo stesso tempo la Cina sa benissimo che se cadesse il regime nordcoreano dopo poco ci sarebbe l’unificazione con il Sud e questo vorrebbe dire avere ai propri confini orientali, direttamente e senza l’interposizione di uno stato cuscinetto, la potenza militare degli Stati Uniti. Così, non sapendo quale dei due sia il peggior male, come l’asino di Buridano, oscilla tra blande condanne e sostegno del suo scomodo alleato, senza decidersi. E il mondo sta a guardare.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16322
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Internet in Italia, la burocrazia non finisce mai 25.11.2010
Un decreto per recepire la direttiva europea rischia di creare un nuovo pseudo-balzello. Per installare un router sarà necessario il tecnico autorizzato? Multe a partire da 15mila euro (a salire)
Roma – Mentre si attende la riunione Agcom (in programma oggi) che approverà il regolamento sulle WebTV e che dovrebbe, nonostante i dubbi dell’Autorità, prevedere oneri a carico dei siti che mostrano video online, Internet in Italia non rischia di restare a digiuno di burocrazia.
Infatti, se quanto scovato da Stefano Quintarelli dovesse essere confermato nei fatti, nel decreto del Consiglio dei Ministri del 22 ottobre 2010 si legge che se si vuole installare un device e collegarlo alla rete di comunicazione pubblica, occorre chiamare un installatore iscritto all’albo. In altre parole: se sei deve installare un router, uno switch, qualsiasi dispositivo che si colleghi in Rete, occorre chiamare un tecnico iscritto all’albo: prevista, in caso contrario, una sanzione da 15.000 a 150.000 euro.
Secondo l’art. 2 del provvedimento gli utenti sono tenuti ad affidare i lavori di installazione, di allacciamento, di collaudo e di manutenzione delle apparecchiature terminali che allacciano il PC alla rete pubblica (direttamente o indirettamente) di telecomunicazioni per trasmettere, trattare o ricevere informazioni (sia via cavo, fibra ottica o via elettromagnetica) ad un operatore riconosciuto come qualificato dalla legge. E questo onere si applica a tutte le situazioni di questo tipo, eccetto ciò che verrà esplicitamente escluso ma che resta ancora da stabilire: si parla di scelta “in ragione della semplicità costruttiva e funzionale delle apparecchiature terminali e dei relativi impianti di connessione”, ma nient’altro è ancora specificato.
L’applicazione del provvedimento significa (come specifica negli articoli successivi) la creazione dell’albo richiesto (con tutte le sue procedure interne), con la definizione dei requisiti di qualificazione tecnico-professionali che devono possedere le imprese per l’inserimento nell’elenco delle imprese abilitate all’esercizio delle attività.
E per l’utente burocrazia e costi destinati ad aumentare, quanto meno per le regole di mercato che vede diminuire coloro che possono provvedere all’allaccio e aumentare le richieste. Anche farlo autonomamente, in teoria, fa infatti incappare nella multa salata.
Il decreto così approvato dal legislatore italiano, peraltro, dovrebbe rappresentare l’attuazione della direttiva europea 2008/63/CE relativa alla concorrenza sui mercati delle apparecchiature terminali di telecomunicazioni. In questa si prescrive l’adozione di misure di liberalizzazione del settore e il controllo sulle apparecchiature terminali funzionali all’adozione di standard condivisi che permettano che la competizione si svolga a livello di mercato europeo. Nello spirito, tuttavia, l’interpretazione data dal decreto italiano parebbe distante dall’originale continentale.
Claudio Tamburino
http://punto-informatico.it/3044427/PI/News/internet-italia-burocrazia-non-finisce-mai.aspx
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Con nuova tecnica imaging biopsie in 5 minuti 25.11.2010
Presto le biopsie potrebbero essere fatte in cinque minuti, grazie a una scoperta pubblicata dalla rivista Cancer Research.
I ricercatori dell’Università dell’IIlinois hanno sviluppato un metodo di imaging che permette di analizzare i tessuti in poco tempo con un’accuratezza nel rivelare i tumori e le loro dimensioni del 99%.
La nuova tecnica sfrutta le proprietà vibrazionali delle molecole: due raggi a frequenza diversa colpiscono il tessuto e, a seconda delle molecole che incontrano, vengono respinti in modo diverso.
Le cellule sane sono ricche di lipidi, mentre quelle tumorali di proteine, e questo determina una risposta diversa del tessuto. Il risultato finale dell’analisi, che richiede 5 minuti di tempo, è un’immagine in cui il tessuto sano è colorato di verde mentre quello tumorale di rosso, con i confini tra i due evidenziati con una precisione di 100 micron.
“Questo – scrivono gli autori – permette di avere risposte più precise rispetto all’analisi tradizionale delle biopsie, che viene fatta solo guardando il tessuto con un microscopio tradizionale ed è spesso soggettva“.
Il microscopio è stato testato finora su tessuti tumorali animali, e i ricercatori stanno cercando di affinare la tecnica prima di passare ai test sull’uomo.
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Per proteggere New York dall’innalzamento degli oceani si ricorre a più “natura” 23.11.2010
FIRENZE. Le grandi piogge di questo periodo hanno portato in Veneto alluvioni e come di consueto si è ripresentato a Venezia il problema dell’acqua alta. Il costoso “Progetto Mose” il grande sistema di paratoie mobili che dovrebbe proteggere la città lagunare sia dalle acque alte che dall’eventuale innalzamento del livello dei mari forse entrerà in funzione nel 2014. Intanto a Chioggia “il piccolo Mose” quasi completamente realizzato ha dato i suoi frutti: le paratoie hanno impedito che l’acqua (alta marea di circa 110 cm) entrasse in città. Ovviamente quanto si è verificato a Chioggia ha dato grande slancio e infuso ottimismo in prospettiva veneziana.
Alla via tecnologica New York invece risponde con più natura. L’innalzamento degli oceani previsto in seguito ai cambiamenti climatici è più che una minaccia per la “Grande Mela”. In base ha quanto si apprende da fonte Ansa il gruppo di lavoro New York State Sea Level Rise Task Force ha predisposto un rapporto consegnato all’amministrazione dello Stato di New York in cui sono elencate le principali soluzioni per difendere la città e non solo. Infatti il piano, messo a punto dalla task-force istituita nel 2007, riguarda anche le aree costiere (da Long Island alla valle del fiume Hudson), più esposte alla minaccia che viene dal mare. Secondo gli esperti l’area dello Stato di New York, è tra le più vulnerabili alla crescita degli oceani dove si prevede che entro il 2020 il livello delle acque possa salire da 5 a 12 centimetri. Se questo avvenisse sarebbe coinvolto il 62% della popolazione dello Stato di New York. Il rapporto poi riporta le soluzioni: secondo gli studiosi si dovrebbero inasprire le norme per la costruzione nelle aree costiere e considerare l’ipotesi di abbandonare queste coste e favorire la nascita di barriere naturali grazie all’espansione dei parchi naturali.
«Si tratta – ha dichiarato Adam Freed, dell’ufficio del sindaco di New York Michael Bloomberg – di un importante passo nello sviluppo di un progetto statale per fronteggiare i rischi posti dalla crescita del livello degli oceani e dell’aumento della frequenza delle tempeste e degli uragani sulle coste». Lo spostamento di edifici proposta è impegnativo economicamente (come del resto riparare i danni a eventi avvenuti, bisognerebbe sempre ricordarlo ndr) ma gli studiosi spiegano che si dovrebbe senza dubbio ricollocare almeno gli edifici a maggior rischio (scuole, ospedali, stazioni polizia, infrastrutture di trasporti). Poi si dovrebbero adottare soluzioni definite di “ingegneria soft” come l’estensione delle paludi di acque salata e barriere di isole artificiali che potrebbero offrire una protezione più vasta a un costo inferiore rispetto a soluzioni “hard” come le paratie in cemento.
http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=7773
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In Cile i Tribunali Ambientali diventano legge 19.11.2010
Commissione per le Risorse Naturali della Camera dei Deputati in Cile ha approvato, all’unanimità, il progetto (boletìn 6747), al secondo dibattito legislativo, per la creazione dei Tribunali Ambientali; tale istanza va a completare la riforma lanciata dal Parlamento nel Gennaio di quest’anno, che aveva già considerato la creazione di un Ministero dell’Ambiente e di un sottosegretariato e una sovrintendenza ambientale.
Il Presidente della Commissione, il deputato Leopoldo Pèrez (RN), ha posto l’accento sulla portata del progetto, anche se ha preso atto della presenza di molteplici punti di vista tra i membri, soprattutto per quanto concerne i temi della territorialità e della competenza dei tribunali.
“È un argomento molto sentito da parte di numerosi deputati. La discussione si muove attorno al tema della territorialità più che sulla composizione o i contenuti essenziali dei tribunali, come deve essere in un progetto di legge di questa natura”, afferma Pèrez.
In particolare, ha sostenuto che la proposta proveniente dal Senato costituisce quella più adeguata, sia per quanto concerne la collocazione delle istanze giudiziarie che per i temi di cui si occuperà. Ha inoltre sottolineato che, sotto il punto di vista giuridico, tale iniziativa è un’innovazione per il Cile in quanto introduce tribunali amministrativi con competenze specifiche in materia ambientale.
Ha poi reso noto che la Commissione procederà, nelle prossime due settimane, ad un’analisi dei resoconti e delle indicazioni che si presenteranno, nonché alle proposte da parte dell’Esecutivo formulate durante la riunione e che hanno a che vedere soprattutto con la volontà del Governo di proseguire nei prossimi anni con la creazione di nuove sedi in regioni distinte da quelle attualmente considerate.
A proposito di quest’ultimo punto, i deputati DC Roberto Leòn e Patricio Vallèspin hanno sostenuto la necessità di conoscere le intenzioni dell’Esecutivo, da cui dipenderà la forma di attuazione del progetto. “È possibile che a breve si decida la fondazione dei primi tre tribunali, ma tenendo presente che a seguire, ve ne saranno altri in tutto il paese”, ha commentato Leòn.
Il deputato Juan Lobos (UDI) è intervenuto nel dibattito affermando che se l’Esecutivo deciderà di mantenere soltanto tre sedi (ad Antofagasta, Santiago e Valdivia) bisognerà assicurare un margine di flessibilità a coloro che hanno subito un danno, di modo che possano scegliere di seguire i loro casi anche presso tribunali civili locali, tenendo conto delle difficoltà che potrebbero incontrare per raggiungere tali esercizi.
Lobos ha anche detto che i temi della territorialità e delle specifiche autorità dovranno essere necessariamente associati perché solo così si contribuirà alla specializzazione dei tribunali; ha per questo criticato la divisione dei compiti, che porterebbe solo a dover ricorrere ai tribunali ambientali per accreditare i danni e ai civili per ottenere l’indennizzo.
Per il deputato Alfonso De Urresti (PS), la scelta di insediare uno dei tribunali a Valdivia si deve a motivazioni storiche e alla diffusa coscienza locale in tema di conflitti relazionati con l’ambiente. Secondo Urresti questa iniziativa è di fondamentale importanza per l’applicazione della legge ambientale e per questo si è detto impegnato a rendere il processo legislativo più rapido possibile.
La deputata Cristina Giraldi (PPD) ha espresso la necessità di considerare un ampliamento dell’ambito di competenza dei tribunali, come richiesto alla Commissione da parte della organizzazione civile “Programma Cile Sostenibile”. Ha inoltre affermato che bisognerebbe contemplare la possibilità che i tribunali ambientali si occupino anche di risarcimenti ai singoli e non soltanto di riparazioni a danni accertati.
A questo proposito, il sottosegretario all’Ambiente, Rodrigo Benìtez, ha risposto che questi tribunali dovrebbero specializzarsi in materie ambientali, lasciando gli indennizzi al di fuori delle loro competenze e ha inoltre ricordato che il progetto prevede la risoluzione di tali istanze per mezzo di tribunali civili.
All’incontro sono intervenuti anche gli avvocati Alex Quevedo e Jorge Bermùdez, che hanno espresso pareri contrastanti su alcuni dei temi trattati, e in particolar modo relativamente alle competenze dei tribunali. Mentre il primo ha dichiarato indispensabile ampliare le materie di pertinenza, il secondo ha difeso l’attuale legislazione, affermando che essa già rende possibile, attraverso la definizione di ciò che costituisce ambiente, la conoscenza di tutte le materie relazionate con quest’ambito, al di là della semplice contaminazione.
Traduzione di Valentina Veneroso
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 29.11.2010
Le aperture
Il Corriere della Sera: “Giudizi e misfatti della diplomazia Usa. Nei file svelati da Wikileaks critiche ai principali attori della politica mondiale. La Clinton ordinò azioni di spionaggio alle ambasciate. ‘Berlusconi leader vanitoso, stanco e inefficiente, sembra il portavoce di Putin”. L’editoriale di Franco Venturini è titolato “Amicizie pericolose”, e anche la vignetta mostra il premier insieme a Vladimir Putin. Ancora a centro pagina: “L’Europa salva l’Irlanda. Un piano da 85 miliardi. Tremonti: siamo un po’ più unicit di fronte alla speculazione”.
La Stampa: “Berlusconi megafono di Putin. Resi noti i documenti di Wikileaks. Dalle ambasciate imbarazzanti rapporti sui leader mondiali. Spiate anche le Nazioni Unite. Duri giudizi Usa sul premier: ‘Incapace, vanitoso, inefficace’. ‘Stanco per le feste selvagge’. Nelle carte la richiesta saudita di attaccare l’Iran e l’accusa alla Cina di pirateria informatica”. In alto le foto di Putin, Gheddagfi (“Usa il botulino, è un vero e proprio ipocondriaco…”), Merkel, Karzai, Sarkozy, Cameron. Commento di Maurizio Molinari: “Una tempesta sul mondo”. Editoriale di Mario Calabresi: “Quelle parole che lasciano il segno”: Per Lucia Annunziata “il vero obiettivo è Obama”. Altro commento, firmato da Juan Carlos de Martin, dal titolo: “Trasparenza senza responsabilità”. In prima pagina anche un articolo sull’Irlanda (“via libera Ue agli aiuti”) e un richiamo sulle comunali a Torino: “Profumo, no al Pd. ‘Troppa pressione'”. Si tratta di Francesco Profumo, rettore del Politecnico.
Foto di leader anche su La Repubblica: Berlusconi, Sarkozy, Merkel, Putin, Gheddafi, Karzai, Ahmadinejad, Hu Jintao. Il titolo: “Wikileaks, tempesta sul mondo. Gli Usa su Berlusconi: ‘Vanitoso, incapace, portavoce di Putin’. L’allarme di Hillary. Pubblicati i dispacci segreti delle ambasciate americane. L’Iran ha un missile che può colpire l’Europa. Spiata l’Onu. Frattini: E’ l’11 settembre della diplomazia”. Commenti di Federico Rampini (“Le pagelle di Washington”) e di Vittorio Zucconi (“L’arma letale”). Sui riflessi italiani, un commento di Giuseppe D’Avanzo (“Perché allarmano i festini selvaggi”) e un retroscena dal titolo “La risata del premier”, perché Berlusconi si arebbe fatto una “risata” a leggere i rapporti pubblicati ieri. A centro pagina: L’Ue salva l’Irlanda, sì al piano aiuti. Accordo a Bruxelles tra ministri finanziari. Prestito da 85 miliardi di euro, 35 per il salvataggio delle banche”. A fondo pagina: “Il caso. Fazio: ‘Gli italiani vogliono una nuova tv. Viale Mazzini no”. Oggi ultima puntata del programma curato da Fazio e Saviano, e il quotidiano offre una intervista con Fabio Fazio.
Il Giornale: “Ecco i segreti dei potenti. Le rivelazioni di Wikileaks. Su Internet tutti i retroscena della diplomazia americana: la Clinton ha fatto spiare i vertici Onu, i Paesi arabi volevano la guerra contro l’Iran, i pettegolezzi sulla vita privata di Gheddaffi, le critiche a Sarkozy e agli altri leader europei. Berlusconi nel mirono per i rapporti con Putin e le ‘feste selvagge'”. In prima anche due editoriali: Luca Cordero di Montezemolo (“Un diritto parlare di politica”), che spiega risponde ad un editoriale di Feltri di ieri. Una risposta dello stesso Feltri (“Sì, ma alla fine devi dire con chi stai”). In prima sul quotidiano milanese (ma anche su tutti gli altri) la foto di Yara Gambirasio, tredicenne scomparsa da venerdì in provincia di Bergamo.
Il Messaggero: “Il terremoto delle carte segrete. Wikileaks. Nei documenti americani critiche shock al premier italiano. Che replica: ci rido su”. “Berlusconi sembra il portavoce di Putin. E’ incapace, stanco per i festini”. Editoriale di Giovanni Sabbatucci: “Regole violate, credibilità infrante”. L’analisi, firmata da Carlo Jean, è titolata: “Uno schiaffo per Washington”. Un articolo sulle rivelazioni online spiega: “Gli Usa spiavano l’Onu, Paesi arabi alleati volevano attaccare l’Iran”. Spazio anche per la definizione del ministro Frattini: “E’ l’undici settembre della diplomazie”.
L’Unità, con foto di Putin e Berlusconi: “Il capobranco e il portavoce. Silvio e Putin ‘Alpha dog’. ‘Generosi regali e contratti sul gas’. Hillary Clinton chiese informazioni sguli investimenti privati dei due”. In prima anche le notizie sulle proteste contro la riforma universitaria: “Studenti, il tetto diventa una piazza contro tutti i tagli. La protesta anti Gelmini si salda alla battaglia per la difesa della cultura. A Pompei protesta dei napolitani. Bondi vacilla”. Accanto, la situazione parlamentare. “Sì al governo di transizione. Fli apre a D’Alema e si fa beffe di Bossi”. Un documento dei finiani cita le parole che il leader della Lega usò nel 1994: “Premier al capolinea”.
Wikileaks
Tutti i quotidiani dividono in capitoli i Paesi e i personaggi cui sono dedicati i leaks. Sull’Iran, ad esempio, La Repubblica riassume: il re dell’Arabia Saudita manda a dire a Washington che Teheran deve essere fermata, “bisogna schiacciare la testa del serpente prima che sia troppo tardi”. Sull’Arabia Saudita: “Le reti caritatevoli islamiche dell’Arabia Saudita e del Qatar sono tra i maggiori sostenitori economici delle formazioni militanti estremistiche di ispirazione sunnita, come Al Qaeda”. Su Guantanamo si parla dei milioni di dollari di incentivi economici per l’eventuale accettazione di un gruppo di detenuti da parte di piccoli Paesi, oppure la ricompensa di un incontro con il presidente Obama offerta a dirigenti politici sloveni. Sul Pakistan: dal 2007 si racconta lo sforzo per rimuovere un reattore nucleare dal Paese. Sulla guerra informatica cinese nei confronti di Google, considerata una campagna di sabotaggio organizzata da funzionari, esperti di sicurezza privati e pirati del governo cinese. Sulla Gran Bretagna: David Cameron non gode di grande considerazione presso la Casa Bianca, ma nemmeno il suo predecessore Brown era amato dall’Amministrazione Usa.
Spostandoci a La Stampa: la Russia considerata come uno Stato “virtualmente della Mafia”. Il premier turco Erdogan viene criticato perché troppo condizionato dal suo ministro degli esterni Davutoglu, pericoloso per le influenze fondamentaliste che eserciterebbe sul governo. Sulla Libia: Gheddafi viene considerato “un vero ipocondriaco, che usa il botulino e si circonda di infermiere voluttuose”. Nel Corno d’Africa, il governo eritreo viene accusato di appoggiare le milizie legate ad Al Qaeda in Somalia.
Dal Corriere della Sera, sulla Corea: “Non escludendo il collasso della Corea del Nord, Washington e la Corea del Sud discutono di una possibile riunificazione, coinvolgendo anche la Cina con incentivi economici”. Il premier israeliano Netanyahu viene definito “elegante e affascinante”, ma si nota che “non mantiene mai le promesse”. Sullo Yemen: il governo yemenita ha più volte negato la partecipazione di forze Usa ai raid contro Al Qaeda, ma in un incontro con il generale Petraeus, il presidente yemenita Saleh affermava: “Noi continueremo a dire che le bombe sono nostre e non vostre”.
Un capitolo a parte è costituito dalla rivelazione che il Dipartimento di Stato americano, a guida Clinton, nel luglio 2009, avrebbe ordinato di spiare i vertici delle Nazioni Unite. Tutti, senza eccezioni, compreso il segretario generale Ban Ki Moon. La direttiva viene spedita a 30 ambasciate a nome della Clinton e chiede la raccolta di dati personali di dirigenti, sottosegretari, consiglieri e collaboratori. Ne parla ampiamente La Stampa. Una indicazione identica era stata data dall’Amministrazione Bush attraverso Condollezza Rice. Il quotidiano britannico The Guardian ha dato ampio rilievo a questo documento, che avvelena i rapporti con un alleato di primo piano.
Una cartina mostra la “provenienza dei dispacci”, e riassume le parole chiave associate ai dispacci, la maggiorparte dwei quali sono definiti “confidenziali”. Ankara ha oltre 7000 dispacci, Baghdad oltre 6000, Pechino oltre 3000, l’Aja oltre 3000, come Mosca, Tel Aviv, Khartoum.
Sul Corriere della Sera Franco Venturini scrive della “coincidenza maligna” che vuiole che Berlusconi si trovi oggi in Libia e stia per andare in Russia proprio mentre è iniziata la divulgazione dei documenti di Wikileajs. “I rapporti tra il capo del governo italiano e i massimi dirigenti russi: è certamente questo il tema che maggiormente preoccupa gli americani. Ma nello stesso tempo “si dovrà riflettere, a proposito di presunti complotti, se un complotto non ci sia davvero, ma contro Obama, che dovrà probabilmente pagare prezzi altissimi nella sua già poco fortunata politica estera”.
Secondo Maurizio Molinari “ciò che forse preoccupa più la Casa Bianca”, a proposito dei giudizi sui leader stranieri, sono i contenuti dei telegrammi sull’Afghanistan per via della valigia con 52 milioni di dollari trovata negli Emirati in possesso del vicepresidente Massoud e del ruolo del fratello del presidente Karzai descrito come implicato in “corruzione e traffico di stupefacenti”. E poiché i fondi Usa all’Afghanistan vengono deliberati dal Congresso, è probabile che i leader repubblicani ne chiedano conto a Obama. La Casa Bianca, in un comunicato, ha spiegato che “i contenuti di questi documenti non esprimono politiche governative”.
Su Il Messaggero una intervista con Vincent Cannistraro, “uno che di segreti se ne intende”, essendo stato responsabile dell’Intelligence per il Consiglio per la sicurezza nazionale Usa e capo dell’antiterrorismo della Cia. Spiega che per qualche settimana ci sarà “una grande tempesta”, ma “queste rivelazioni non sono veramente segrete”, perché le informazioni “realmente top secret passano su diversi canali, e sono poche decine”. Questi messaggi appartengono ad ambasciate e consolati, “ogni messaggio spesso arriva a centinaia di destinatari. Possono essere dispacci imbarazzanti per il candore con cui descrivono un capo di governo, ma stiamo scoprendo l’acqua calda. Davvero si crede che Sarkozy o Berlusconi, Angela Merkel o Putin non sappiano cosa pensano i diplmatici americani di loro?”. Diverso il discorso per altri Paesi, perché “è reale il rischio di vita per certe persone in certi Paesi. Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen sono luoghi instabili, dove i pericoli sono veri e preoccupanti”. Su Assange, il canale televisivo Fox vorrebbe che venga denunciato per spionaggio. E’ verosimile? “No. La legge americana protegge il giornalista che pubblica dati confidenziali. Chi rischia è la persona che li ha resi pubblici”. E poi di documenti davvero segreti ce ne sono pochi, e nessuno definito “top secret”. “Quindi non so neppure se si può parlare di spionaggio”.
Sul Corriere della Sera viene intervistato Edward Luttwak, consulente del National Security Council: “Verrano svelati molti segreti di Pulcinella: come ad esempio che Berlusconi frequenta molte persone dell’altro sesso e che ha uno stile vi tia personale diverso da quello di De Gasperi”. “I segreti, quelli veri, non sono trascritti e inviati in giro. Non so,se esistesse una intercettazione di una telefonata tra Berlusconi e Putin fatta dai satelliti della Nsa non ci sarebbe nessuna trascrizione”.
Il Direttore de La Stampa Mario Calabresi, sottolinea, riferendosi alle considerazioni fatte su Berlusconi (“megafono di Purin in Europa”), quanto quelle parole, pur non rivelando “nulla di terribilmente nuovo”, lascino il segno, e ricorda che nel 2009 l’Amministrazione Obama si mostrò preoccupata per la nostra politica energetica, troppo dipendente da Mosca, e troppo sbilanciata sull’accordo con Gazprom per dar vita al progetto South Stream. Ma il giorno dopo il ministro degli esteri Frattini rispose che non esisteva nessun malumore americano nei confronti della nostra politica energetica. Un’altra prova su l’atteggiamento assunto da Berlusconi durante la guerra tra Russia e Georgia, quando parlò di aggressione georgiana mettendosi in netto contrasto con la linea della Nato.
Lucia Annunziata, sullo stesso quotidiano, in una analisi che va sotto il titolo “il vero obiettivo è Obama”, paragona l’operazione Wikileaks, che ha messo alla berlina il sistema di sicurezza Usa, al piccolo aereo che un giovane tedesco, poco prima della caduta del Muro di Berlino, riuscì a far atterrare sulla piazza Rossa. Ma sottolinea che c’è un lato oscuro nella storia: chi sta aiutando Assange? C’è solo la sua fede e quella di pochi volontari della libertà di stampa a sostenerlo? Non è il caso di chiedere allo stesso Assange “trasparenza” sulle sue operazioni? Non si può essere così ingenui – sottolinea la Annunziata – da non vedere che l’imbarazzo creato all’Amministrazione di Obama, “rende molto popolare il creatore di Wikileaks presso molti nemici di Obama”. In un momento in cui il potere degli Usa è in forte declino, al centro di molti attacchi e in cui lo stesso Obama è combattuto da potenti forze nel suo Paese.
Su Il Giornale una intervista a Fabio Ghioni, “l’hacker più famoso d’Italia, già mente informatica del Tiger team che proteggeva la rete Telecom. Ritiene impossibile che Assange e Wikileaks “facciano tutto da soli”, “basta dare un’occhiata alla mole dei documenti raccolti e resi pubblici. Stiamo parlando di intere banche dati”. Ghioni ricorda che, quando Wikileaks era poco conosciuto, Assange non riusciva neppure a pagare le bollette del sito. “Poi sono esplosi. Qualche servizio segreto deve essersi reso conto della potenzialità di uno strumento del genere”. Ghioni cita organizzazioni cybercriminali come Russian business network che, secondo documenti americani, è collegata all’intelligence russ (Fsb). E’ poi significativo, secondo Ghioni, che Wikileaks non abbia mai pubblicato documenti della Cia, ma solo del Pentagono e del Dipartimento di Stato. Poi dice: “Non penso che Pechino e Teheran passino informazioni ad Assange. Però è plausibile che un colosso come la Cina finanzi Wikileaks”. Naturalmente esclude che sia soltanto una la gola profonda e aggiunge che una struttura come Wikileaks ha un costo molto elevato, che potrebbe aggirarsi sul milione di Euro.
E poi
Il Giornale in prima pagina, si chiede: “E se l’Italia imitasse la Svizzera?”. La proposta viene rilanciata da Paolo Granzotto all’indomani del sì svizzero al referendum che propone l’espulsione degli stranieri che delinquano. Anche Repubblica dedica una pagina all’argomento. La proposta è passata con il 52,9 per cento, ed era stata lanciata dal partito del miliardario populista Cristoph Blocher, Ludc. Omicidio, rapina, violenza sessuale, ma anche abuso delle prestazioni sociali, figurano tra i reati che prevedono l’allontamento dalla Svizzera. Tensioni con l’Ue per una prova di forza che va contro i trattati internazionali e gli accordi di libera circolazione delle persone, stabiliti dalla Svizzera con l’Ue. Solo i cantoni francofoni hanno respinto l’iniziativa referendaria. Quelli tedeschi hanno votato in blocco a favore.
Sul Sole 24 Ore, in prima pagina, si ricorda che si apre oggi la conferenza Onu sui cambiamenti climatici,a Cancun. Ma l’editoriale sottolinea che non succederà niente, non verrà firmato nessun trattato, non ci sarà alcun accordo globale, né saranno fissati vincoli rigorosi sull’emissione dei gas serra. Tuttavia Cancun non sarà un flop, perché l’obiettivo primario sarà evitare che il mondo archivi il modello Onu della contrattazione globale. E il fallimento potrebbe innescare un circolo virtuoso, in parte già in atto: uno studio del 2009 di Pricewaterhouse Cooper svela che il 46 degli Ad delle aziende Usa prende già decisioni su prodottti e servizi in base alla nuova consapevolezza climatica, mentre il 40 per cento inizia a tenerne conto. A Cancun i Paesi partecipanti troveranno l’accordo su obiettivi meno ambiziosi, ma non poco importanti: piccole azioni concrete per ridurre la deforestazione, consigli ai Paesi poveri per adattarsi ai cambiamenti climatici,
Anche La Repubblica dedica l’inserto R2 al vertice mondiale sull’ambiente. “La sfida verde. I governi si presentano divisi”. Viene intervistato James Hansen, direttore del Goddard Institute della Nasa e il primo a dire al Senato americano (era il 1988) che era in atto un riscaldamento climatico determinato dall’uomo. Hansen torna a proporre la carbon tax per tagliare subito le emissioni. Federico Rampini parla invece dell’esempio California e delle sue sequoie a nord di San Francisco: è uno Stato laboratorio per salvare l’ambiente, dove gli alberi secolari trattengono Co2 e invecchiando crescono, moltiplicando quindi la capacità di sequestrare emissioni di Carbonio.
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Report del 28.11.2010 sull’eolico
http://www.report.rai.it/dl/Report/Page-8200206a-0877-46c1-ab57-c774db2c6d38.html
http://www.rai.tv/dl/replaytv/replaytv.html#ch=3&day=2010-11-28&v=40129&vd=2010-11-28&vc=3
http://www.youtube.com/watch?v=bpEG0ezb_rM
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Tac e terapia mirata per sconfiggere il tumore polmonare
La mortalità cala del 20% con la Tac spirale
Uno screening salvavita contro una delle forme tumorali più temuta, il cancro del polmone. La Tac spirale a basse dosi, che permette di evidenziare, in 15-20 secondi, lesioni anche di 2/3 millimetri in oltre il 92% dei casi nei fumatori e permettendo quindi un intervento chirurgico tempestivo, l’unico in grado oggi di guarire il malato. Secondo una ricerca americana l’utilizzo della Tac spirale riduce del 20% i casi di morte da tumore ai polmoni. Lo studio, effettuato dal National Cancer Institute e finanziato dal governo USA, ha coinvolto 53.500 pazienti tra fumatori ed ex fumatori.
Ogni anno 196 mila americani si ammalano di cancro ai polmoni, i casi di morte ammontano a 159 mila. Lo studio, pubblicato sul New York Times, è stato condotto per 5 anni.
La Tac spirale, rispetto alle radiografie tradizionali, permette di individuare precocemente i tumori ai polmoni.
Oggi arriva la conferma di questi dati anche dall’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) guidato dall’oncologo Umberto Veronesi. Allo IEO in dieci anni sono state eseguite 40 mila Tac di nuova generazione che hanno permesso di diagnosticare 287 carcinomi polmonari, nel 75% dei casi allo stadio iniziale. Secondo Veronesi, utilizzare questo metodo di screening in maniera diffusa e mirata potrebbe ulteriormente ridurre la mortalità. Proporre questo esame alla popolazione a rischio, cioè ai forti fumatori, diventa quindi un atto etico.
I volontari che hanno partecipato alla ricerca americana sono stati divisi in due gruppi: sul primo venivano eseguite radiografie polmonari annuali mentre il secondo veniva sottoposto alla tecnica più moderna. Dopo 5 anni, la mortalità tra le persone del secondo gruppo è stata di 354 persone, contro 442 decessi tra chi veniva sottoposto ai soli raggi X.
“Questa tecnica ha grandi potenzialità – ha affermato Denise Aberle, che ha condotto lo studio – e potrebbe salvare milioni di vite.
I dati confermano uno studio prospettico portato avanti negli scorsi anni all’Istituto Regina Elena di Roma e in cui sono state arruolate 1973 persone considerate ad alto rischio: fumatori o ex fumatori, tra i 55 e i 69 anni, che per dieci anni si sono accesi almeno venti sigarette al giorno (o 40 per 5 anni) e che non avevano smesso di fumare da oltre un quinquennio.
Risultati importanti che dimostrano come la Tac spirale è sicuramente molto più sensibile e accurata della radiografia del torace, con un notevole vantaggio anche di costo-beneficio nell’identificare tumori polmonari di piccole dimensioni aumentando considerevolmente le possibilità di diagnosi precoce e di cura e guarigione.
Alla radiografia possono infatti sfuggire anche noduli di due centimetri se posizionati per esempio dietro una costola o una vertebra.
Il tumore del polmone rappresenta la prima causa di morte per patologia neoplastica nei paesi occidentali. In Italia ogni anno sono stimate tra le 35 e le 40.000 nuove diagnosi con pressoché altrettante morti. Di questi 6.700 sono donne. Nel Lazio gli uomini colpiti sono 2.800 e 700 le donne. Il numero complessivo dei casi è in progressivo aumento, ma i tassi di incidenza e mortalità corretti per l’età mostrano un costante decremento nei maschi e un incremento nelle femmine, dovuto in primo luogo all’abitudine al fumo nel gentil sesso, ma anche ad una maggiore predisposizione all’effetto cancerogeno del tabacco.
Fino a non molto tempo fa l’incidenza della neoplasia era maggiore negli uomini con un rapporto maschi-femmine di 5:1; oggi tale rapporto è 2,5:1. Lo screening portato avanti dal Regina Elena di Roma è solo una porzione di un grande studio prospettico americano coordinato dall’International Early Lung Cancer Action Project (Ielcap), la più grande organizzazione scientifica che si occupa dello screening del cancro al polmone, diretta dalla prof. Claudia Henschke della Cornell University di New York. L’Ielcap coinvolge trentasette istituzioni in tutto il mondo.
http://italiasalute.leonardo.it/tumorepolmonare.asp
Silvia Maglioni
http://italiasalute.leonardo.it/copertina.asp?Articolo_ID=7356
Prelevato il 29.11.2010
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Design partecipato
A Bari le lezioni di Riccardo Dalisi sono una guida per uscire dalla crisi e rivalutare territorio, impresa ed economia. Coinvolgendo anche fasce sociali svantaggiate
Le idee, se sono buone, hanno le gambe lunghe per andare dappertutto. Il 26 novembre apre a Bari la mostra 3/DDD. Design Della Decrescita. Dopo il suo lancio lo scorso anno a Roma, arriva nel luogo dove è stata concepita. Curatore è Alfio Cangiani, grafico e designer, fondatore dell’associazione culturale Made in Puglia, con cui l’ha organizzata. Presenta progetti e opere di diciassette artisti e designer pugliesi. È parte di una mostra più ampia dedicata a Riccardo Dalisi, “Il Teatro della Decrescita: Architettura e Design della Nuova Innocenza”, titolo tratto dal suo libro più recente (L’Architettura della Nuova Innocenza, Corraini 2009).
Atto creativo, partecipazione, suggestioni, anti-design. Sono le parole che comunicano il lavoro artigiano di Dalisi interprete dei rituali racchiusi negli oggetti, nelle azioni che compiamo per usarli e nelle relazioni invisibili, e personalissime, che ci inducono a sceglierli. Trovano rinnovata eco nel tema della “Decrescita” che lui immagina e applica a un’architettura programmata sugli sviluppi nel tempo dell’ambiente circostante e dove l’elemento naturale del verde è parte integrante del costruito. Un’architettura viva, capace di autogenerarsi, allontanando il degrado.
“Abbiamo pensato che le teorie hanno un senso solo se trovano realizzazione. E che invece di aspettare, potevamo fare”. Scrive il curatore, fondatore di Made in Puglia nel 2006, per spiegare come dalle teorie di Dalisi sono nati gli oggetti di “Design Della Decrescita” e l’impegno dell’associazione. “Ispirati dalle esperienze dalisiane, dal poco e dal piccolo, siamo partiti col desiderio di innescare un cambiamento dal basso. Abbiamo tentato di recuperare abilità artigianali, fasce sociali svantaggiate, produttività in crisi da ravvalorare, cercando di ridurre i cicli produttivi e la produzione degli scarti”.
L’iniziativa è sostenuta e coinvolge anche il Consorzio Costellazione Apulia in particolare con tre aziende: Irigom di Massafra, Scrimieri Arredamenti di Martina Franca e Tecnoarredo di Bari. Con le quali sono in fase di realizzazione importanti progetti. Racconta Cangiani: “Irigom – industria di riciclaggio della gomma – ha indirizzato una parte della produzione verso l’outdoor, ampliando il mercato e recuperando la manualità dei mastri cartapestai del Carnevale di Massafra”.
“Con il Gruppo Scrimieri Arredamenti, invece, abbiamo ripensato il circuito degli scarti aziendali, cambiando modalità di selezione e raccolta e realizzando nuovi prodotti, con l’obiettivo di contenere i prezzi al pubblico. Infine, con Tecnarredo, stiamo tentando, col supporto del Consorzio, di coinvolgere il Riformatorio di Bari, integrando i giovani nella produzione di una ‘collezione’ di oggetti realizzati con scarti produttivi: una ‘collezione da scarti’ fatta da una ‘umanità di scarto’, con la possibilità, una volta fuori, di entrare nel circuito produttivo e commerciale dell’azienda”.
Esperimenti di “Design ultrapoverissimo”, basati sempre sulle lezioni e azioni di Dalisi nei quartieri napoletani, saranno l’oggetto di due workshop aperti alle etnie straniere e nelle scuole d’arte presenti nel territorio. Un esempio da seguire: finché ci saranno idee e cultura progettuale ci potrà essere crescita, sviluppo e cooperazione.
Riccardo Dalisi
Il Teatro della Decrescita: Architettura e Design della Nuova Innocenza e 3/DDD
Design Della Decrescita
26 novembre – 14 dicembre 2010
Bari Cittadella della Cultura
Archivio di Stato
Via Pietro Oreste 45
Link correlati:
www.dalisi-architetturanatura.it
www.archiviodistatodibari.beniculturali.it
www.madeinpuglia.biz
www.costellazioneapulia.net
www.irigom.it
www.scrimieri.it
di Porzia Bergamasco
http://atcasa.corriere.it/Tendenze/Dove-andare/2010/11/26/design-decrescita-dalisi_3.shtml
Prelevato il 29.11.2010
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Sudafrica nuova frontiera per le energie rinnovabili. Anche per le aziende italiane 23.11.2010
di Chiara Albanese
Nella miniera economica del Sudafrica non ci sono solo oro e diamanti. Nuove opportunità di business si apriranno nei prossimi mesi per chi opera nel settore delle energie rinnovabili con all’implementazione di un piano di incentivi fortemente voluto dal Governo sudafricano.
// Per fare fronte a una domanda di energia che supera l’offerta e che è soddisfatta oggi per oltre il 90% dal carbone, dal 2003 il Governo del Paese ha iniziato a strutturare un programma Refit (renewable energy feed in tariff) in grado di attrarre nella punta meridionale dell’Africa investitori da tutto il mondo.
Il Sudafrica è l’economia più sviluppata del Continente e questa condizione si riflette nella domanda di energia, dove i 40mila megawatt installati (un volume che non regge il confronto con i 600 della vicina Namibia) non sono più sufficienti a sostenere la crescita del mercato.
Le stime parlano di altri 50mila megawatt da installare entro il 2018 per soddisfare la domanda di energia, e introdurre fonti rinnovabili è fondamentale per garantire la sostenibilità della produzione. Allo stesso tempo, l’energia prodotta in Sudafrica potrà sempre più facilmente essere esportata nei paesi vicini grazie al cavo di interconnessione Caprivi, un collegamento ad alta tensione inaugurato pochi giorni fa tra Namibia, Zambia, Botswana e Zimbabwe.
«L’interesse delle società italiane è soprattutto nel settore fotovoltaico, e in parte nell’eolico», commenta Scott Brodsky, avvocato sudafricano dello studio Dewey & LeBoeuf, che ha spiegato a un gruppo di circa 60 investitori italiani le opportunità e le criticità che presenta il mercato del suo Paese di origine.
In attesa che il piano governativo debutti ufficialmente (la data prevista è il mese di novembre ma ci potrebbero essere ritardi), Dewey & LeBoeuf sta seguendo alcune società italiane e diverse europee nella conduzione di studi di fattibilità.
«A differenza del Conto Energia già sperimentato in Italia, il piano sudafricano assegna gli incentivi a seconda di criteri predefiniti e questo crea una competizione diretta tra i progetti presentati. Per questo motivo saranno avvantaggiate le società che hanno già investito nel Paese acquisendo delle opzioni sui terreni dove saranno costruiti i parchi eolici o fotovoltaici», spiega il professionista.
Per il momento in Sudafrica non sono presenti operatori italiani nel settore rinnovabili, ma la rappresentanza tricolore è garantita da società che operano in ambiti affini, tra cui Almec, società specializzata nella produzione di metalli e componenti industriali.
Il governo sudafricano ha invece annunciato l’intenzione di realizzare nel Nord-Ovest del Paese l’impianto solare più grande del mondo con 5mila megawatt di potenza e un costo complessivo di circa 16 miliardi di euro.
Anche se è ancora nelle fasi preliminari, il progetto ha già catturato l’interesse di oltre 400 rappresentanti di industrie legate all’energia solare che sono volati nella città di Upington, dove dovrebbe essere realizzato il parco, per informarsi sui dettagli. Secondo alcune indiscrezioni una società europea sarebbe interessata a investire un miliardo di euro.
In attesa dell’inizio dei lavori, previsto nel 2012, la compagnia elettrica statale Eskom ha utilizzato un prestito della Banca Mondiale per sviluppare un impianto a concentrazione di 100 megawatt che dovrebbe essere inglobato in futuro nel parco fotovoltaico.
«Le società internazionali interessate al mercato hanno iniziato a fare studi di fattibilità per lo sviluppo degli impianti e chi sarà in grado di dimostrare di potere rendere operativo un impianto in tempi brevi e di aumentarne la capacità sarà favorito nell’assegnazione degli incentivi», riprende Brodsky.
«Allo stesso tempo molti clienti che si sono rivolti a noi per discutere le opportunità di investimento non vogliono mettere mano al portafogli prima che il piano di incentivi sia già operativo», continua il sudafricano.
«Nonostante il principio del “first country served” del sistema incentivante che valorizza i primi impianti in grado di produrre, chi preferisce aspettare non perde in modo definitivo questa opportunità di investimento. Il nostro consiglio per chi entrerà in un secondo momento è di “agganciarsi” con una joint venture a player già stabili», precisa l’avvocato.
Anche perché il mercato sudafricano presenta alcune peculiarità che possono risultare nuove per gli operatori europei.
«Oltre a un contesto normativo differente e caratterizzato da una burocrazia particolarmente complessa, in Sudafrica è necessario tenere conto del programma di “black economic empowerement” a cui anche le aziende straniere devono partecipare», conlude Brodsky.
In altre parole, avrà vita più facile chi sarà in grado di garantire lavoro e posizioni dirigenziali alla comunità di colore e in particolare alle donne.
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I beni comuni ripensano la democrazia 26.11.2010
Autore: Cacciari, Paolo
Se il capitalismo è basato sul predominio della proprietà individuale, per cambiarlo occorre partire da un diverso concetto (e una diversa pratica) della proprietà. Il manifesto , 26 novembre 2010
Un nuovo spettro si aggira sul mondo: la socializzazione dei beni comuni. Moltitudini inquiete stanno imparando a riconoscerli. Alcuni gruppi hanno cominciato a rivendicarne l’uso. Altri sperimentano già forme di gestione fuori mercato. Commons movment lo si trova tra le popolazioni indigene delle foreste dell’Amazzonia e nei Free Culture Forum ( digital commons) delle principali città europee, come è nelle innumerevoli vertenze contro il saccheggio del territorio e nei movimenti per una agricoltura contadina, nelle reti di economie solidali e nei gruppi che fanno cooperazione decentrata, nei movimenti per l’acqua pubblica e per la giustizia climatica. Rivendicano l’accesso alla conoscenza, la sovranità alimentare e non solo, l’autonomia nella gestione dei propri bisogni e dei propri desideri. I beni comuni sono stati sdoganati nel mondo scientifico dagli studi del primo premio Nobel donna per l’economia Elinor Ostrom. Sono entrati nelle Costituzioni nazionali grazie all’Ecuador di Evo Morales. Sono osservati e studiati da sociologi e politologi grazie al lavoro di Paul Hawken che ha creato un gigantesco database (www.wiserearth.org ) delle organizzazioni che se ne occupano. Da ultimo sono stati rilanciati da un convegno della fondazione Heinrich Böll Stiftung: ” Costructing a Commons-Based Policy Platform“, che si è svolto a Berlino i primi di novembre (materiali preparatori, documento finale reperibile nel loro sito e persino un piccolo cartone animato sta girando su: youtube.com/watch?v=WT6vbAu_UjI ) con il contributo anche di studiosi e attivisti italiani come Giovanna Ricoveri e Marco Berlinguer.
Cosa accomuna questi movimenti? La scoperta dell’esistenza di beni naturali, cognitivi, relazionali che sono di tutti e non appartengono a nessuno: res communes omnium. Beni speciali, doni del creato e lasciti delle generazioni precedenti di cui tutti necessitiamo e di cui tutti dobbiamo poter beneficiare. Elementi primari, basici. Scrive la fondazione Heinrich Böll: «I beni comuni sono la precondizione di tutti gli obiettivi sociali, inclusi quelli ambientali». Beni e servizi che nessuno può dire di aver prodotto in proprio e che quindi nessuno può arrogarsi il diritto di possedere, comprare, vendere, distruggere. Alcuni, gli ecosistem service, sono semplicemente indispensabili alla preservazione di ogni forma di vita: atmosfera, acqua, suolo fertile, energia, cicli trofici. Altri, i beni cognitivi, sono indispensabili a connettere le relazioni umane: lingue, codici, saperi, istituzioni sociali. Inoltre, vorrei sommessamente ricordare che il sole, l’aria, il territorio, le parole… non sono solo pannelli fotovoltaici, turbine, suolo edificabile, linguaggi tecnici per ottimizzare la produttività sociale, ma anche profumi, fragranze, paesaggi, creatività. Ingredienti anch’essi diversamente utili alla preservazione della salubrità mentale di ciascuno di noi.
Chi decide quali sono i beni comuni? L’attività stessa di commoning (come l’ha battezzata Peter Linebaugh), le pratiche di cittadinanza attiva ( Engin Isin), il fare comunanza, condividere conoscenze, risorse, servizi rendendoli accessibili a tutti. I beni comuni sono ciò che la società stessa sceglie di gestire collettivamente. I beni comuni hanno una essenza naturale ed una sociale. Oggi, da noi, è l’acqua. A dicembre a Cancun sarà di scena il clima. Nelle università e nei centri di ricerca è in gioco la libertà di ricerca. Nei territori colpiti dalla crisi economica è il lavoro (come ha ben scritto la Fiom sui manifesti della manifestazione del 16 ottobre). Pezzo dopo pezzo, momento per momento, i beni comuni sono i tasselli di una idea di società che si prende la libertà di pensare al dopo-crisi o, meglio, al dopo crisi di civiltà e di senso che stiamo vivendo.
Il riconoscimento, la rivendicazione e la gestione dei beni comuni rappresentano un rovesciamento dei criteri con cui siamo abituati a pensare il mondo. Dentro i parametri dei beni comuni natura e lavoro non sono più utilizzabili come “carburante” nei processi di produzione e di consumo, fattori da sacrificare all’imperativo della massima resa del capitale investito, ma come il fine stesso dello sforzo cooperativo sociale che deve essere mirato alla rigenerazione delle risorse naturali (preservandole il più a lungo possibile, adoperandosi per rallentare, non per incrementare, l’entropia naturale del sistema) e alla realizzazione della creatività umana, consentendo a ciascuno di apportare un contributo utile al proprio e all’altrui benessere. Niente di meno che una trasformazione delle relazioni sociali a partire da un cambio di modello dell’idealtipo umano assunto come riferimento da qualche secolo a questa parte: da egoista, individualista, proprietario a consapevole, cooperante.
Proviamo ad elencare alcuni capisaldi della società dei beni comuni. Essa richiede una salto nell’orientamento del diritto: gli oggetti naturali possono essere titolari di diritti legittimi indipendentemente dagli utilizzatori. Nemmeno lo Stato può essere considerato sopra le leggi che presiedono la conservazione della biosfera che costituisce un patrimonio non disponibile, inviolabile. A Cancun si parlerà della proposta di istituire un tribunale internazionale di giustizia climatica e ambientale. L’orizzonte del diritto tradizionale e della democrazia liberale verrà messo in discussione.
Un salto nelle concezioni filosofiche che regolano la scienza con la rinuncia al dominio assoluto dell’uomo padrone e signore sulla natura. La vita sulla terra non è frazionabile, serve una ricomposizione tra bios ed ethos. Le scienze cosiddette post-normali mettono in discussione il riduzionismo e il meccanicismo.
Una idea radicale di democrazia orizzontale, non gerarchica, in cui le comunità abbiano la libertà di disporre dei beni di riferimento a loro afferenti. Un’idea di democrazia che va oltre il concetto di sovranità e di proprietà. Nessun “interesse generale”, nessuna “maggioranza”, nessuna “superiore razionalità tecnica” può giustificare il dominio su altri, la distruzione di beni irriproducibili e insostituibili, unici, come lo siamo ognuno di noi.
Qualche tempo fa, rispondendo a Carla Ravaioli, Guido Rossi si lamentava: «Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce? Nessuno ha un’idea in testa» ( il manifesto 31.10.2010). Lo stesso concetto ha sviluppato Slavoj Zizek: «Siamo letteralmente sommersi da requisitorie contro gli orrori del capitalismo: giorno dopo giorno veniamo sommersi da inchieste giornalistiche, reportage televisivi e best-seller che ci raccontano di industriali che saccheggiano l’ambiente, di banchieri corrotti che si ingozzano di bonus esorbitanti mentre le loro casseforti pompano denaro pubblico, di fornitori di catene prêt-à-porter che fanno lavorare i bambini dodici ore al giorno. Eppure, per quanto taglienti queste critiche possano apparire, si smussano appena uscite dal loro fodero: mai infatti rimettono in discussione il quadro liberal-democratico all’interno del quale il capitalismo compie le sue rapine». ( Le Monde Diplomatique, novembre 2010). Ecco, seguire l’idea della gestione collettiva dei beni comuni può servire a costruire un progetto concreto dell’alternativa possibile.
http://eddyburg.it/article/articleview/16254/0/283/
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I barbari e la peste 07.11.2010
di Nicola Lagioia
Invasioni barbariche e fine della civiltà sono due paure che la cultura occidentale coltiva in maniera talmente ricorsiva – e spesso con tale voluttà – da far venire il sospetto che siano a essa addirittura costitutive. Perennemente scisso tra la brama paranoide di annichilire tutto ciò che è diverso da sé e il desiderio inconfessabile di un crollo rigeneratore, il cuore stesso dell’occidente è riuscito nella macabra e vertiginosa impresa di battere in virtù di ciò che non esiste: i nostri sogni sono alimentati dal terreno e dal mercato e dalle culture ancora da conquistare o assimilare, mentre una certa nostra profonda infelicità – che di quel sogno imperiale è il lato oscuro – arriva ciclicamente-ciclotimicamente a tali vertici negativi che un violento e disastroso rovesciamento del tavolo da gioco diventa addirittura una speranza. Sogni di conquista e speranze di crollo. Siamo, appunto, tutto ciò che ci manca.
Per limitarci al campo della cultura e della rappresentazione artistica, l’ultimo decennio (quello iniziato con l’attacco alle Due Torri) ha visto il rifiorire degli scenari apocalittici. The road di Cormac McCarthy è solo tra i più recenti e noti capitoli di una poetica che nel Novecento ha molti precedenti. Con esiti e linguaggi completamente diversi, si possono facilmente ricordare le Cronache del dopobomba di Philip Dick o il modo in cui Samuel Beckett rilesse la paura dell’olocausto nucleare che permeò la Guerra Fredda. E ancora, pensiamo a Don DeLillo: molti libri della sua produzione tardo novecentesca – da Mao II fino a Underworld – sono stati in fondo un lungo e quasi sciamanico esercizio di corteggiamento stretto a spirale intorno a quel fantasma a cui l’11 settembre ha attribuito un nome adatto ai tempi (allo stesso modo, grazie alla speculare, mostruosa capacità di tastare il polso del sentimento popolare propria di Hollywood, si sono moltiplicati a cavallo tra i due secoli i kolossal che avevano al proprio centro l’idea di catastrofe: invasioni aliene, disastri naturali, estinzione della razza umana). E se non tutti ricordano che una delle prime rappresentazioni apocalittiche – se non forse la prima in assoluto – scaturite dal cuore della modernità è contenuta in un romanzo italiano (la distruzione del nostro pianeta evocata nell’ultimo capitolo della Coscienza di Zeno), è forse Antonin Artaud, con il suo teatro della peste, a spiegare, o meglio a “sentire” con più profondità la natura del nostro terrore e insieme del nostro desiderio di invasione/distruzione. Sogniamo traumaticamente che la peste entri nella città perché – in modo più o meno consapevole – riconduciamo la parola Apocalisse al suo significato etimologico: rivelazione, svelamento di senso. Abbiamo, vale a dire, il timore o il sospetto o addirittura la consapevolezza di abitare una civiltà che fa dell’occultamento di senso uno dei propri capisaldi, e dunque di stagione in stagione qualcosa viene a dirci che solo colpendo questa civiltà al cuore (peste o disastro nucleare o invasione aliena o barbarica non importa) il senso delle cose potrà tornare a manifestarsi. Più che pensare questo pensiero, ne siamo abitati e posseduti, e a tale possessione reagiamo in maniera diversa a seconda delle circostanze.
In un racconto di Borges – intitolato Storia del guerriero e della prigioniera – lo scrittore argentino narra la storia di Droctulft, il longobardo che, giunto a Ravenna per metterla a ferro e fuoco, abbandona l’esercito dei suoi finendo con lo schierarsi a fianco degli assediati, spinto dal desiderio imprevisto di difendere e salvare la città. Al momento di violare le porte di Ravenna, Droctulft non ha mai visto un mosaico in vita sua e ignora qualunque tipo di architettura che non si regga sui rozzi, tristi e monolitici concetti elaborati nelle terre paludose da cui proviene. L’immersione improvvisa in una bellezza e in una complessità che non capisce del tutto ma che riescono a toccarlo in quel profondo che appartiene al più semplice degli uomini, lo spinge a passare dall’altra parte.
Il disprezzo verso i barbari (cioè in parole povere verso gli oltreconfine) e il timore di una loro invasione è un altro topos della cultura occidentale, indistricabilmente connesso al sogno-incubo di fine della civiltà di cui si è detto. Il racconto di Borges è tuttavia emblematico di come, da molto tempo a questa parte, gli intellettuali non diano per scontato che l’invasione debba arrivare da fuori: Droctulft, in fondo, decide di difendere Ravenna. Tra i tanti esempi a disposizione, basterebbe citare la nascita del jazz e la letteratura post-coloniale per capire come mai le élite culturali d’occidente – specie quelle progressiste – abbiano ridimensionato la loro paura di un cataclisma culturale proveniente dall’esterno. Il tramonto di questo timore è andato tuttavia di pari passo con l’esplosione del suo opposto: le invasioni arriveranno non da fuori ma da dentro. Sarebbe cioè proprio il capitalismo avanzato (lo stato attuale della nostra civiltà) a produrre i neo-barbari, visto che la natura del suo sogno di conquista sarebbe tale da possedere già in sé, a tutti i livelli, i presupposti di un’implosione: “pop will eat itself” recitava meno banalmente di quanto possa sembrare il nome di una band di rock alternativo.
Il timore dell’“invasione dall’interno” (che ha avuto anch’esso negli scorsi decenni le proprie degne rielaborazioni romanzesche e cinematografiche: libri come Regno a venire di James Ballard, film come Il demone sotto la pelle di David Cronenberg, per fare solo qualche esempio) godeva di un’ampia e complessa letteratura critica già ai tempi della Scuola di Francoforte, ma ha subito ultimamente un’impennata di cui è difficile non rendersi conto.
L’invadenza dei mezzi di comunicazione di massa e soprattutto la continua rivoluzione tecnologica cui siamo sottoposti, alimenta la paura che un’onda di neo-barbari si stia stringendo sempre più minacciosamente intorno alla cittadella della cultura fino a che di questa non resterà più nulla (l’oggetto del timore sarebbero insomma gli analfabeti di ritorno nati in occidente, cresciuti a pane e televisione, internet e social network, in grado di spedire 50 sms al minuto quanto incapaci di comprendere un testo scritto che contenga più di una subordinata). Alla fondatezza di un tale pericolo è sensato dare qualche credito, se è vero che persino un grande della critica letteraria come Harold Bloom ha paventato – nel suo libro più noto, Canone occidentale – il possibile arrivo di una teocrazia audiovisiva capace di fare piazza pulita della civiltà e del concetto di umano così come siamo stati abituati a intenderli e praticarli dalla fine del Medioevo. Allo stesso tempo però è forte il sospetto, soprattutto in una gerontocrazia dell’intelletto com’è Italia, che tra quelli che urlano “al barbaro!” ci sia anche chi, semplicemente, è incapace di riconoscere i nuovi linguaggi (quelli che racconteranno il mondo di domani) e chi – peggio – si straccia le vesti per conservare la propria posizione di privilegio.
Droctulft passò a difendere Ravenna e Shakespeare era considerato ai suoi tempi un mezzo barbaro assetato di sangue. Siamo sicuri insomma che il pericolo arrivi dalle periferie oceaniche dei supposti analfabeti di ritorno (tra i quali – nascosti com’è fisiologico in una folla di reali analfabeti per vocazione – si muovono i nuovi Céline e i nuovi Stravinskij e i nuovi Carmelo Bene, quest’ultimo a suo tempo percepito come barbarico massacratore del già barbarico Shakespeare) più di quanto non provenga dalle centralissime stanze dei bottoni che forgiano ogni giorno l’immaginario mainstream? Presentarsi sulle scene parlando una nuova lingua – anche una lingua in apparenza rozza e brutale rispetto a ciò che fino a quel momento è considerata la lingua ufficiale della civiltà – non ha niente di incivile se la neo-lingua in questione è in grado di restituire la complessità del mondo. Mi sembra questa la vera chiave di volta ed è qui, insomma, che si gioca la partita. Non è forse rozza e brutale la lingua del Cantico delle creature se la leggiamo dal punto di vista della latinità agonizzante? Eppure sarà proprio questa lingua barbarica (volgare) a raccontare la ricchezza e la meravigliosa complessità di un mondo che ha semplicemente cambiato pelle e codice d’accesso. E d’accordo, le sinfonie psichedeliche dei Pink Floyd potevano suonare barbariche se confrontate con la tetralogia wagneriana, ma per raccontare musicalmente – in tutta la loro ricchezza e confusione – gli anni sessanta e settanta del Novecento The piper at the gates of dawn e Atom Heart Mother sono probabilmente più efficaci del Sigfrido o del Crepuscolo degli dei.
Il problema è che la lingua ufficiale coincide spesso con quella del potere, e la lingua del potere (politico, giornalistico, culturale eccetera) è esattamente l’antitesi di una lingua in grado di restituire complessità, e dunque bellezza, sia che la lingua del potere si esprima attraverso l’idiozia monolitica dello slogan, sia che baratti la reale complessità del mondo con i vuoti a rendere del bizantinismo o dell’estetica spettacolare. Chi è in definitiva il vero barbaro? È un barbaro chi fa scempio di ogni complessità parlando dal pulpito del proprio potere ufficiale (di solito, proprio in nome della cultura e della molteplicità) o chi, ridotto il proprio mondo in macerie grazie alla distruttività culturale di quel potere, ne tira fuori una nuova lingua, rozza e volgare e clandestina quanto vogliamo, ma spesso più ricca e vitale di chi fatica a comprenderla e ad accettarla? Sono più barbarici i nuovi rap di Fabri Fibra o le prolusioni di un ministro della cultura? Era più distruttivo American Psycho o i “pedagogici” editoriali contro Bret Easton Ellis pubblicati a proprio tempo su quotidiani che fanno della pornografia e dell’ultraviolenza la propria fonte d’ispirazione neanche troppo occulta? È più blasfemo Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco o il macabro esercizio collettivo di sciacallaggio e pedofilia mediatica (da parte di intellettuali, psicologi, sociologi, giornalisti…) andato in scena recentemente in Italia intorno all’omicidio di Sarah Scazzi?
Se si vuole trovare la vera Apocalisse del mondo in cui viviamo, sarebbe meglio così guardare ai luoghi, centralissimi e ufficiali, da cui promana la nostra lingua ufficiale – e si scoprirà che il cuore della nostra Apocalisse quotidiana è come l’occhio di un ciclone: non un luogo violento ma un luogo morto, disabitato, dove non accade assolutamente niente, ed è quel niente che governa o pretende di governare il movimento che si espande verso lo spazio circostante. A ben guardare, però, si tratta di una contro-Apocalisse, un’Apocalisse rovesciata rispetto a quella evocata da Artaud (lì entrava la peste in città sovvertendo follemente ogni ordine; qui regna una stasi e un ordine che assomiglia all’assenza di vita, per cui la famosa “rivelazione di senso” non è semplicemente impedita fino a prova contraria, ma resa impossibile in via definitiva). Contrastare l’espandersi di questo niente è di conseguenza la vera battaglia culturale a cui siamo chiamati. Fino a quando si riuscirà a evitare che l’occhio del ciclone diventi il ciclone stesso, tra i nuovi barbari in marcia dalle periferie ci sarà sempre un Droctulft o (ancora meglio) un Charlie Parker. La presenza di ognuno di essi impedisce al crollo nel vuoto di essere compiuto e definitivo, dunque scongiura la possibilità che sia reale in maniera assoluta.
http://www.sinistrainrete.info/cultura/1085-nicola-lagioia-i-barbari-e-la-peste
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Con e-Part, il monitoraggio ambientale da cittadino a amministrazione è sul web 26.11.2010
e-Part è una piattaforma su cui i cittadini possono segnalare emergenze, malfunzionamenti o bisogni nella loro città e poi,volendo, proporre una possibile soluzione al problema.
Il programma, acquistabile dalle P.a., permette ai Comuni aderenti un monitoraggio del territorio in tempo reale grazie alla partecipazione attiva dei cittadini.
Il sito è veramente intuitivo, ben progettato e in perfetto stile 2.0.
Via | Terranews
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Breaking news da Medio Oriente e Africa 26.11.2010
http://www.flickr.com/photos/34146259@N04/sets/72157625341263957/show/
Da un lato, una bandiera israeliana sradicata per far posto a un albero di ulivo. Dall’altro, palestinesi di origine beduina che si arruolano nell’esercito israeliano pur di sopravvivere. In mezzo un muro che, come a Gaza, che spacca in due lo spazio. E’ questo il cuore della mostra “Breaking news. Fotografia contemporanea da Medio Oriente e Africa”, allestita a Modena nelle sale dell’Ex Ospedale Sant’Agostino dal 28 novembre. A confronto non solo due mezzi espressivi – rispettivamente, video e fotografia – ma soprattutto due punti di vista diversi: quello dell’israeliana Yael Bartana e quello della palestinese Ahlam Shibli.
L’iniziativa, curata da Filippo Maggia, propone oltre un centinaio opere tra video, foto e installazioni realizzate nel corso di alcuni decenni da 21 artisti di nazionalità diversa ma provenienti da due aree geopolitiche segnate da molte criticità: il Medio Oriente e l’Africa. C’è l’Armenia del fotografo siriano Hrair Sarkissian, l’Iran e le sue contraddizioni dei collages di Jinoos Taghizadeh, il fondamentalismo religioso raccontato nel video di Mounir Fatmi. Ma soprattutto c’è il conflitto arabo-israeliano, tutto racchiuso nel confronto tra la filmaker Bartana e la fotografa Shibli. Della prima viene proiettato il film “A Declaration”, del 2006, dove si vede un uomo a bordo di una barca accostarsi a uno scoglio su cui sventola la bandiera israeliana per sradicarla e piantarvi al suo posto un albero di ulivo. Di Shibli ci sono le foto della serie “Trackers”, realizzata nel 2005 e dedicata al fenomeno dei beduini che si arruolano volontari nell’esercito israeliano, considerati dei traditori dai compatrioti e trattati con diffidenza dagli israeliani.
L’Africa in mostra è, invece, un paese sospeso tra le lotte e le conquiste del passato e la complessità del mondo moderno. Le fotografie scattate dagli anni Cinquanta ad oggi da un gruppo di autori sudafricani tracciano la parabola storica di un paese che, uscito dall’apartheid, si trova ad affrontare oggi una fortissima disgregazione sociale e nuove forme di classismo.
Breaking News. Fotografia contemporanea da Medio Oriente e Africa
28 novembre 2010 – 13 marzo 2011
Modena, Ex Ospedale Sant’Agostino
Martedì-domenica ore 11:00-19:00
Ingresso gratuito
http://www.galileonet.it/articles/4cefc42872b7ab2710000043
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