Venezuela e Stati Uniti ristabiliscono le relazioni diplomatiche
Di Gennaro Carotenuto, 25.06.09
I governi del Venezuela e degli Stati Uniti hanno annunciato il ristabilimento di normali relazioni diplomatiche. Queste erano state rotte dal Venezuela ancora in epoca di Bush, nel settembre 2008, per solidarietà con la Bolivia aggredita dagli Stati Uniti che stavano fomentando una possibile guerra civile nel paese andino appoggiando e finanziando l’eversione secessionista delle province più ricche del paese.
Il ritorno degli ambasciatori, concordato con il governo del paese nordamericano, avverrà già nei prossimi giorni, come ha confermato oggi il Ministro degli Esteri venezuelano Nicolás Maduro: “così la comunicazione tra i due paesi potrà essere più fluida”.
Fonti statunitensi hanno confermato che dall’incontro tra il segretario di stato Hillary Clinton e il presidente venezuelano Hugo Chávez dello scorso aprile a Trinidad e Tobago in occasione del Vertice delle Americhe, i rispettivi governi hanno lavorato per dirimere controversie e creare le premesse al pieno ristabilimento di relazioni diplomatiche piene che si concretizza oggi.
Si chiude così la fase più nera nelle relazioni tra Venezuela e Stati Uniti caratterizzata dalla continua ingerenza del regime di George Bush nella politica venezuelana, culminata l’11 aprile 2002 nell’organizzazione del fallito colpo di stato contro il governo legittimo di Hugo Chávez e con successivi continui tentativi di destabilizzazione della democrazia venezuelana.
Da parte del governo di Hugo Chávez, nonostante questo abbia già espresso alcune critiche nei confronti di Barack Obama, negli ultimi mesi era stato manifestato più volte il desiderio di normalizzare le relazioni diplomatiche con il nuovo governo statunitense, fino ad affermare che il ristabilimento di relazioni potesse coincidere con “una nuova era nelle relazioni politiche ed economiche tra i due paesi”. Gli Stati Uniti sono per il Venezuela il principale partner commerciale e gli ambasciatori che dovrebbero riprendere possesso delle rispettive sedi diplomatiche dovrebbero essere gli stessi allontanati nel settembre scorso, Patrick Duddy per gli Stati Uniti a Caracas e Bernardo Álvarez per il Venezuela a Washington.
L’annuncio è stato dato in coincidenza con l’inaugurazione del sesto vertice dell’ALBA, la comunità che vorrebbe essere un modello alternativo di organizzazione internazionale basata sulla solidarietà tra i popoli di fronte al capitalismo selvaggio. L’ALBA, riunita in queste ore a Maracay, riunisce Bolivia, Cuba, Dominica, Honduras, Nicaragua y Venezuela e si rafforza accogliendo tre nuovi membri, l’Ecuador e due microstati caraibici, San Vicente e Granadine e Antigua e Barbuda.
fonte www.gennarocarotenuto.it
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Colpo di stato in Honduras: il presidente Manuel Zelaya con al fianco movimenti sociali, resiste
Di Gennaro Carotenuto, 25.06.09
Le parole drammatiche nella notte del presidente dell’Honduras Manuel Zelaya: “È in corso un colpo di stato nel paese” sono state confermate e supportate dall’ONU. Il presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Manuel D’Escoto, nella notte ha condannato con parole fermissime il tentativo di colpo di stato in corso in Centroamerica: “condanniamo fermamente il colpo di stato in Honduras contro il governo democraticamente eletto di Manuel Zelaya” dove i poteri di fatto di sempre, le élite, l’esercito, le alte gerarchie cattoliche, le casta politica, sono disposti a tutto perché nel paese neanche si parli di Assemblea Costituente. È infatti questo l’oggetto del contendere che ha scatenato la sedizione: un referendum che domenica prossima dovrà decidere se convocare o no l’elezione di un’assemblea Costituente voluta secondo i sondaggi dall’85% della popolazione.
È bastato solo l’odore di una Carta costituzionale che per la prima volta mettesse nero su bianco diritti civili e strumenti per ottenerli in un paese per molti versi ancora premoderno come l’Honduras, perché si mettesse in moto la macchina golpista che durante tutta la storia ha impedito giustizia sociale e democrazia in tutto il Centroamerica. Il presidente Manuel Zelaya, “Mel”, con una storia di centro-destra nel partito liberale che durante il suo mandato ha virato con molta dignità verso il verso il centro-sinistra, aveva indetto per dopodomani domenica 28 giugno una consultazione con la quale si chiedeva ai cittadini se nel prossimo novembre si dovesse convocare o meno un’Assemblea Costituente nel paese contemporaneamente alle elezioni presidenziali, legislative e amministrative già previste a fine anno.
Quella per l’Assemblea costituente sarebbe stata, sarà, la “quarta urna”, una svolta che secondo i sondaggi è voluta da almeno l’85% del paese ma indesiderata dalle élite tradizionali, dal sistema dei partiti incluso quello del presidente che oramai si oppone apertamente, dai media di comunicazione, che in Honduras come nel resto del continente sono dominio esclusivo del potere economico, dalla Corte Suprema e dall’esercito. Queste non solo non vogliono contribuire al processo eleggendo propri rappresentanti all’Assemblea Costituente nel prossimo novembre, ma né vogliono una nuova Costituzione né accettano di verificare se la maggioranza della popolazione la desidera. La scrittura di Costituzioni partecipative, condivise con gli strati popolari della popolazione, dal Venezuela, alla Bolivia all’Ecuador è stata vista nell’ultimo decennio con crescente rifiuto da parte delle oligarchie tradizionali che, soprattutto nel caso boliviano, si è trasformato apertamente in eversione.
Di conseguenza settori numericamente preponderanti dell’esercito di Tegucigalpa, che rispondevano al Capo di Stato Maggiore Romeo Vázquez, si sono rifiutati di operare per permettere la consultazione di domenica, distribuendo le urne e permettendo il regolare svolgimento della stessa adducendo che il referendum sarebbe illegale e che sarebbe propedeutico all’installazione di una dittatura di Mel Zelaya nel paese.
A quel punto al presidente non è restata che la destituzione del generale Vázquez che nella giornata di ieri non è stata però confermata dalla Corte Suprema che ha così appoggiato la sedizione. A questo punto le informazioni nella notte honduregna si fanno confuse. Di fronte al rifiuto di Zelaya di reintegrare Vázquez come Capo di Stato Maggiore parti importanti dell’esercito avrebbero occupato punti nevralgici del paese. I movimenti popolari, indigeni e sociali che appoggiano un presidente, divenuti unici riferimenti per Zelaya osteggiato da tempo dal proprio partito, sarebbero scesi al contrattacco, avrebbero occupato sotto la pioggia battente la base militare della Forza Aerea nell’aeroporto internazionale di Tocontín, sottratto a questa le urne e le schede referendarie con l’intenzione di distribuirle comunque nel paese.
Nel corso delle ultime ore sono successi due fatti nuovi che fanno inclinare all’ottimismo. Il presidente Zelaya ha parlato alla nazione, circondato da rappresentanti dei movimenti sociali del paese, confermando il recupero del materiale elettorale e riaffermando che domenica si terrà comunque il referendum. Intanto almeno il comandante dell’Aviazione, Generale Javier Price, si è schierato con il presidente democraticamente eletto. Intanto i movimenti sociali honduregni, di fronte al silenzio dei media rispetto al colpo di stato in corso nel paese, invitano a far circolare al massimo l’informazione e la solidarietà internazionale sul golpe in Honduras. Le prossime ore saranno decisive per capire se il golpe prospererà o se siamo di fronte ad un nuovo 13 aprile 2002 quando a Caracas in Venezuela i movimenti sociali e popolari sconfissero pacificamente il golpe dell’11 aprile contro il governo democraticamente eletto di Hugo Chávez.
fonte www.gennarocarotenuto.it
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Nanosfere per la diagnosi dei tumori 18.06.09
Alessandra Luchini vince il “The Premio Award” per la migliore ricercatrice italiana negli Usa
Ha un nome la migliore ricercatrice italiana negli Stati Uniti: Alessandra Lucchini, novarese di 32 anni, dal 2005 alla George Mason University di Fairfax (Virginia). A far vincere alla ricercatrice la prima edizione del “The Premio Award”, istituito dall’associazione californiana noprofit Bridges to Italy e dall’Associazione italiana delle donne inventrici e innovatrici (Itwin), è stata la realizzazione – ottenuta in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità – di un sistema per individuare quelle molecole che segnalano la presenza di un tumore nell’organismo (marcatori tumorali) che sfuggono ai metodi d’indagine tradizionali.
Per far questo occorre realizzare alcune microscopiche nanosfere di idrogel che una volta inserite nei campioni di sangue prelevato per le analisi diagnostiche intrappolano alcuni marcatori e li proteggono dal deterioramento.
“Queste nanosfere, fatte della stessa plastica soffice e idratata delle lenti a contatto, sono equipaggiate con particolari molecole che, una volta nel sangue, agganciano specifici marcatori tumorali e li inglobano. In questo modo li proteggono da enzimi che altrimenti li deteriorerebbero. Normalmente le analisi del sangue non riescono a individuare questi marcatori proprio perché vengono precocemente distrutti”, spiega Alessandra Luchini.
“Il bello di questo sistema”, continua la ricercatrice, “è però il fatto che non ha bisogno di strumenti particolarmente sofisticati, che è semplice ed economico: con cento dollari possiamo realizzare nanosfere per più di duecento pazienti”. Il nuovo metodo, infatti, non va a sostituire la strumentazione standard, ma interviene in una fase precedente alle analisi fornendo un campione qualitativamente migliore.
La diagnostica oncologica non è l’unico ambito di applicazione di questa nuova tecnologia, come racconta la stessa scienziata: “In questo momento stiamo lavorando su un sistema per le analisi antidoping ed esistono progetti per l’utilizzo di questo sistema nell’ambito del filtraggio di acque inquinate”.
Alessandra Luchini verrà premiata oggi a Milano a Palazzo Serbelloni; nella stessa occasione saranno presentati al pubblico anche i progetti delle migliori ricercatrici che hanno partecipato al concorso. Sempre a Milano, Itwiin in questi giorni sta portando avanti anche una serie di eventi “Il genio delle donne, innovazione e invenzioni made in Italy” per promuovere il ruolo delle donne nella ricerca. (c.v.)
Riferimenti: Itwiin
Qui: http://www.galileonet.it/news/11664/nanosfere-per-la-diagnosi-dei-tumori
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L’altruismo? E’ legato agli ormoni
Rendersi utili a chi ne ha bisogno fa sentire bene. A procurare questa sensazione di benessere è un ormone. Scienziati dell’università del Michigan (Usa) hanno dimostrato che sentirsi emotivamente vicini a un amico, sacrificando il proprio tempo libero, aumenta nelle donne i livelli di progesterone, un ormone legato al buonumore e al benessere, poiché riduce ansia e stress. Lo studio, pubblicato sulla rivista ‘Hormones and Behaviour’, evidenzia il ruolo che il “progesterone ha nelle basi neuroendocrine dei legami fra gli esseri umani”.
Questo ormone, legato al ciclo mestruale, è presente nelle donne, anche in menopausa, e negli uomini, ma a livelli bassi. Non è la prima ricerca a dimostrare che alti livelli di progesterone aumentano il desiderio di creare legami, ma è la primo a dimostrare che legarsi agli altri e rendersi loro utili fa aumentare le concentrazioni di questo ormone. “Ciò spiegherebbe perché le persone che vivono relazioni coinvolgenti sono più felici e più sane dei coetanei soli o isolati a livello sociale”, spiega Stephanie Brown, prima autrice dell’articolo.
Monitorare il progesterone è semplice: bastano campioni di saliva. I ricercatori hanno preso in esame il legame fra stretti rapporti sociali e progesterone presente nella saliva di 160 volontarie, studentesse di un college. Hanno misurato la presenza dell’ormone delle volontarie all’inizio della ricerca, valutando l’influenza del ciclo mestruale, dell’uso di anticoncezionali o di altri farmaci. Le ragazze sono state sottoposte, poi, a un test che prevedeva l’esecuzione di compiti insieme a una partner scelta a caso. Gli esercizi miravano ad aumentare l’intimità e la vicinanza emotiva fra le due, ma c’erano anche test emotivamente neutri. Quindi le ragazze hanno fatto una partita a carte al pc, in squadra con la compagna di test, e alla fine hanno fornito nuovi campioni di saliva.
Risultato: i livelli di progesterone delle donne impegnate in compiti neutri tendevano a ridursi, mentre in quelle che facevano le prove ‘di amicizia’ salivano o restavano gli stessi. Dopo una settimana le volontarie sono tornate a eseguire un gioco di carte al pc con la partner della volta precedente e hanno compilato un questionario in cui spiegavano quanto sarebbero state disposte a rischiare per aiutare la compagna. Il legame più forte ha fatto registrare un aumento dei livelli di progesterone. Insomma, alla base dell’altruismo ci sarebbero alterazioni ormonali, che si manifestano dopo una serie di esperienze vissute insieme. E si riflettono sull’umore e sulla salute delle persone. Almeno delle donne.
Rosanna Dassisti
Qui: http://www.almanacco.cnr.it/articoli.asp?ID_rubrica=8&nome_file=01_11_2009
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Musica: direttore sony, ‘Michael Jackson un jukebox umano’
Wellington, 26 giu. – (Adnkronos/Dpa) – “Michael Jackson era un jukebox umano, conosceva a memoria i testi di tutte le piu’ grandi canzoni scritte dagli anni ’20 fino ad oggi”. A rendere omaggio con queste parole al re del pop e’ stato il neozelandese Paul Ellis, che ha lavorato con Jackson negli Stati Uniti in qualita’ di senior director per A&R Sony/ATV Publishing America. Ellis, che ha rilasciato le sue dichiarazioni al sito web “Stuff”, ha espresso il suo cordoglio per la scomparsa del cantante, ricordandolo come “un genio della musica e un artista di eccezionale talento”.
Fonte: http://www.libero-news.it/adnkronos/view/144281
Approfondimento qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Michael_Jackson
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Le sue ali sono avvolte da una specie di pelle fatta di celle solari ultrassotili.
Il primo aereo a energia solare si chiama “Solar Impulse” e debutta, con la presentazione ufficiale, durante una conferenza stampa all’aeroporto di Dubendorf, in Svizzera, tenuta dal suo ideatore Bertrand Piccard.
L’idea viene da lontano. Il progetto ha infatti mosso i primi passi nel 2003, con uno studio di fattibilitá. Fra il 2004 e il 2006 è stato sviluppato il concept; fra il 2007 e il 2009 è stato progettato e prodotto il prototipo Hb-Sia (di 61 metri). Nel 2010 è previsto il test e la prima notte di volo. Il percorso a tappe, però, continuerà. Nel 2011 sará costruito un aereo con un’apertura alare di 80 metri e con una cabina pressurizzata che consentirá missioni non stop, di lunga distanza, come la traversata continentale e quella dell’oceano Atlantico.
Il prototipo Hb-Sia, presentato a Dubendorf in Svizzera, ha una apertura alare di 61 metri. È equipaggiato di una cabina non pressurizzata per convalidare le tecnologie selezionate. Mai prima d’ora un velivolo di questo tipo era riuscito a volare di notte con un pilota a bordo. La missione, di 36 ore, sará la prima in assoluto.
Il decollo avverrá nel 2012, volando vicino all’equatore ma essenzialmente nell’emisfero boreale. Sono previsti cinque scali per sostituire il pilota e per presentare questo esperimento al pubblico, alle istituzioni politiche e scientifiche. Ogni tratta durerá 3 o 4 giorni, considerato il tempo massimo di resistenza di un singolo pilota. Quando l’efficienza delle batterie consentirá la riduzione del peso, nel velivolo potranno sedere due piloti per voli ancora più lunghi e non stop: a questo punto si potrá prevedere il giro del mondo.
Riguardo la tecnologia aeronautica, Solar Impulse ha un design rivoluzionario e una larghezza inusuale rispetto al suo peso: l’apertura alare del suo modello definitivo misurerá 80 metri di lunghezza (simile a quella dell’Airbus A-380), in modo da disporre di una superficie abbastanza larga per le cellule fotovoltaiche.
Sará il primo aereo di tali dimensioni ad affrontare una sfida del genere. Le ali saranno avvolte da una pellicola di cellule solari ultra-sottili, incapsulate e flessibili, in modo da sopportare i colpi e le distorsioni. Riprendendo il precedente paragone, mentre Airbus A-380 pesa 560 tonnellate, Solar Impulse peserá solo 2 tonnellate.
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Pneumatici da costruzione
Riutilizzare la gomma, senza riprocessarla chimicamente, come materiale per costruzioni…
25.06.2009
Nuova frontiera del riuso: pneumatici… da costruzione
Discariche a cielo aperto invase da pneumatici, densi fumi neri che si sollevano da inceneritori per gomme. Scenari diffusi ovunque, fino a pochi anni or sono, e non ancora scomparsi nei paesi del sud del mondo. Dopo tante proposte per il riciclo dei pneumatici di scarto, arriva una nuova idea dal carattere più ecologico: riutilizzare la gomma, senza riprocessarla chimicamente, come materiale per costruzioni resistenti a terremoti e alluvioni.
Ogni anno in Italia vengono prodotte 430.000 tonnellate di pneumatici di scarto (in Europa circa 2,5 milioni); secondo l’Agenzia di Protezione Ambientale degli Stati Uniti, per ogni americano c’è ogni anno uno pneumatico di rifiuto.
Come evitare di essere seppelliti da montagne di gomme? Come si può fare per non deturpare l’ambiente abbandonando tanto materiale non degradabile?
Si tratta di una problematica per nulla di poco conto, per affrontare la quale da tempo si svolgono ricerche e si cercano soluzioni. Da qualche anno è ormai proibito in molti paesi (tra cui l’Italia) l’incenerimento dei pneumatici, ma anche il loro abbandono in discariche a cielo aperto, come del resto il seppellimento. Si è infatti appurato che ad essere altamente tossici sono non solo i gas emessi per combustione, ma anche le sostanze che possono essere rilasciate nel suolo in seguito a parziale decomposizione della gomma (soprattutto in terreni umidi).
Attraverso molteplici processi è possibile trattare i pneumatici di scarto al fine di reimpiegarne il materiale per scopi vari.
Mediante pirolisi si possono separare alcuni componenti originari, quali carbonio, metalli (per lo più acciaio), gas vari ed oli artificiali: essi sono poi riuniti in miscele per la produzione di nuovi pneumatici o materiali termoplastici, con cui si fabbricano cavi speciali.
La devulcanizzazione (effettuata mediante agenti chimici) consente invece di produrre una gomma rigenerata assimilabile a quella vergine, che può essere impiegata per esempio per la fabbricazione di suole di scarpe, tappeti e involucri.
Molto comune è anche la frantumazione (e successivo parziale setacciamento) dello pneumatico, al fine di produrre granulati o polveri con cui realizzare materiali da riempimento, miscele bituminose o cementizie e termoplastiche.
Ognuna di queste soluzioni prevede, però, il trattamento dei pneumatici in processi costosi che comportano un certo dispendio di energia ed emissione di gas serra, visto che si tratta di lavorazioni chimico-industriali. In tal caso si parla infatti di “riciclo”. Ma l’obiettivo più ambito, per il minor impatto ambientale, è sempre il “riuso”.
Una nuova proposta, a tal proposito, giunge ora da un’azienda di New York, la quale ha pensato di trasformare i pneumatici in materiale da costruzione e rivestimento, senza riprocessare la gomma, bensì semplicemente facendola a fette. In pratica, le parti laterali dei pneumatici vengono tagliate ed unite per formare lunghe strisce. Queste poi sono avvolte insieme, molto serratamente, in configurazione a spirale, in modo da costituire un robusto nucleo centrale di (quasi) qualunque diametro e lunghezza. A seguire tale avvolgimento viene ricoperto di uno strato di fibra di vetro che lo rende rigido.
Da questo processo nasce Tire Log, articolo brevettato dall’azienda “Re-Tread Products Inc.”.
Così realizzato, il nucleo di gomma (e fili di acciaio, presenti nello pneumatico) rappresenta un modulo da costruzione dotato di ottime proprietà strutturali: esso è estremamente resistente ma allo stesso tempo flessibile. Ciò gli consente di essere impiegato come materiale per fabbricare strutture che debbano resistere ad eventi atmosferici violenti, come terremoti, alluvioni, frane.
Tire Log può essere utilizzato per costruire argini, dighe e pareti di contenimento, è, infatti, in grado di assorbire le forze provenienti da spostamenti d’acqua, vento violento, pressioni di neve e ghiaccio. Inoltre con esso si possono costruire piattaforme per sostenere strutture pesanti, strade a tronchi, rampe per barche, sponde e argini, barricate, rifugi in caso di tornado e terremoti.
“Devi pensare qualcosa di differente per fare la differenza” è lo slogan dell’azienda.
L’idea è senza dubbio originale ed interessante e le prospettive appaiono ampie. Proprio per sviluppare e incrementare la produzione, l’azienda ha chiesto una sovvenzione federale.
Vale la pena di sottolineare che lo pneumatico non viene recuperato integralmente, in quanto ad essere tagliata a fette è la parte più esterna. Senza dubbio però il fatto che la gomma recuperata non subisca trattamenti complessi comporta una significativa riduzione di spesa ed emissioni nocive e dannose per l’ozono, nonché risparmio di energia.
Se la produzione di tali materiali da costruzione si rivelerà vantaggioso, si potrà auspicare di veder sparire le montagne di pneumatici abbandonati anche in vari paesi del sud del mondo, dove purtroppo normative meno stringenti non impediscono la discarica a cielo aperto e spesso l’incenerimento di tali materiali di scarto. Per altro in molti casi sarebbero proprio tali paesi a potersi giovare dell’impiego di materiali speciali, particolarmente resistenti a violenti fenomeni naturali.
A margine di tutto ciò, comunque, ci si accorge di dover aggiungere un altro buon motivo ai tanti per cui sarebbe il caso di lasciare il più possibile l’auto in garage; per mantenere elevate le prestazioni, ma soprattutto la sicurezza delle nostre vetture è, infatti, necessario cambiare con una certa frequenza i pneumatici. Senza dubbio sarebbe meglio cambiare più spesso scarpe (con suole riciclate, preferibilmente).
Virginia Greco
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Scegli il pannello giusto
I ricercatori del Politecnico di Milano hanno ideato il “Gallo Fotovoltaico”, uno strumento per comparare le performance degli impianti, che variano a seconda delle condizioni ambientali
I pannelli fotovoltaici che si trovano in commercio non sono tutti uguali, e anche la performance di uno stesso pannello può variare molto, a seconda delle condizioni ambientali e della posizione in cui è installato. Come scegliere allora quello più adatto alle diverse situazioni? Per confrontare le prestazioni di due o più pannelli, il Dipartimento di elettronica e informazione (Dei) del Politecnico di Milano ha ora messo a punto un strumento ad hoc, chiamato Gallo fotovoltaico perché entra in funzione ai primi raggi del sole: il sistema valuta la prestazione dell’impianto in ogni momento e informa il suo proprietario in tempo reale, via wireless o Gsm.
L’efficienza di ciascun modulo dipende da diverse variabili. Tra queste, fondamentali sono le caratteristiche istantanee della radiazione solare: con un cielo parzialmente nuvoloso, per esempio, le componenti predominanti dello spettro sono diverse da quelle del cielo terso. “Quando è nuvoloso in proporzione arrivano più radiazioni ad alta energia (luce diffusa, ndr.), quelle che nello spettro sono spostate verso il blu e il violetto, perché le altre vengono in parte bloccate dalle nubi”, spiega a Galileo Sergio Brofferio, docente del Politecnico: “Con il cielo sgombro, invece, la luce diretta rappresenta l’80 per cento della radiazione che arriva alle celle e solo il 20 per cento è luce diffusa. Allo stesso tempo però, le alte temperature abbassano il rendimento dei moduli”. Nella pratica questo significa che le condizioni in alta montagna sono differenti da quelle della Pianura Padana e che, per catturare al meglio l’energia solare, c’è bisogno di differenti tecnologie. I pannelli che utilizzano silicio amorfo, per esempio, sono più adatti a Milano, dove vi è più spesso la luce diffusa che non quella diretta; al contrario, a Palermo funzionano meglio quelli a silicio cristallino.
L’apparecchio del Dei, delle dimensioni di un piccolo trolley, si collega ai moduli fotovoltaici e ne misura la potenza, la tensione e la corrente elettrica generata. Lo strumento è autonomo perché utilizza l’energia fornita dagli stessi pannelli che monitora ed è dotato di una batteria di backup per brevi periodi di assenza di luce. (a.d.)
Fonte: http://www.galileonet.it/news/11669/scegli-il-pannello-giusto
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Un flauto di 35.000 anni fa
Gli scavi a Hohle Fels, in Germania, hanno portato alla luce i frammenti dei più antichi strumenti musicali mai rinvenuti, costruiti in osso e avorio
Non si sa se i primi esseri umani usassero gli strumenti musicali a fini ricreativi o religiosi, ma di certo la musica veniva già suonata 35.000 anni fa. Nella cava di Hohle Fels, nel sud ovest della Germania, sono stati trovati piccoli frammenti di flauti in avorio e tutte le parti di un flauto fabbricato con ossa di uccello, che si aggiudica il primato di strumento musicale completo più antico del mondo. Nicholas Conard dell’Università di Tubinga pubblica oggi la scoperta su Nature, dimostrando che i primi esseri umani anatomicamente moderni giunti in Europa possedevano una tradizione musicale importante.
Lo strumento è stato trovato in 12 pezzi durante gli scavi effettuati nell’estate del 2008 sul sito di Hohle Fels and Vogelherd. La porzione rimasta intatta ha una lunghezza di quasi 22 centimetri, un diametro di 8 millimetri e sono evidenti cinque buchi per il passaggio dell’aria. La superficie del flauto e la struttura dell’osso (il radio di un grifone, che ha un’apertura alare di oltre due metri) sono in perfette condizioni e rivelano molti dettagli della manifattura.
Gli scavi hanno anche portato alla luce due frammenti di quelli che certamente sono due flauti in avorio attribuiti al primo Aurignaziano (ovvero più antichi di 34 mila anni). Le differenti dimensioni del frammento indicano che non appartengono allo stesso strumento. Secondo gli studiosi, questa scoperta è importante soprattutto per il materiale usato: la tecnologia richiesta per la creazione di uno strumento in avorio, infatti, è complessa e richiede mani esperte: il processo prevede l’utilizzo di un pezzo di avorio curvato naturalmente; attraverso rotture e successive saldature, si arriva poi alla creazione dell’artefatto. I ricercatori ipotizzano che i nostri antenati suonassero strumenti musicali in diversi contesti sociali. (p.f.)
http://www.galileonet.it/news/11680/un-flauto-di-35000-anni-fa
Originale:
http://www.nature.com/nature/journal/v459/n7244/full/nature07995.html
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Steven Vromman, belga, 48 anni regola la sua vita per consumare il meno possibile
L’uomo che vive a impatto zero. O quasi
Produce energia in bici, compra solo abiti usati, raccoglie l’acqua piovana e le sue bollette sono scese del 60%
GENT (BELGIO) – Ridurre l’impatto ambientale consumando meno risorse del nostro pianeta è possibile? Secondo Steven Vromman, cittadino belga di 48 anni, sopracciglia chiare e fisico asciutto, sì. Steven, più conosciuto come Low Impact Man, ha deciso il Primo Maggio 2008 di vivere con una impronta ecologica bassissima, mantenendo, comunque, una buona qualità della vita. «Sulla terra ci sono sei miliardi settecentomila abitanti, dividendo il pianeta per ogni singolo individuo, la quantità di terra a disposizione di ognuno è di 1,6 ettari. Se tutti vivessero come i cittadini del mondo occidentale, come i belgi con una media di 5,1 ettari, ci vorrebbero tre pianeti!». Steven aveva già una coscienza ambientalista e non possedeva un automobile: il suo impatto ambientale era di 3,5 ettari. Low Impact Man non è andato a vivere nella foresta come un eremita, è rimasto a casa sua, a Gent, ricca città delle Fiandre a 56 km da Bruxelles. Ha deciso di modificare le sue abitudini quotidiane e ha apportato innovazioni “verdi” alla sua abitazione.
ENERGY BIKE – Per alimentare il suo computer, utilizza l’energia generata pedalando su una bicicletta da passeggio collegata con un generatore di corrente e una batteria. Con venti minuti di pedalate ha elettricità per utilizzare 1 ora il computer. Ha scelto un computer portatile perché consuma meno di un normale computer da scrivania. Low Impact Man non è un bieco oppositore della tecnologia, anzi, crede nel suo valore informativo, usa Facebook per trovare velocemente notizie, ha un blog – che ritiene essere un grande strumento divulgativo – seguitissimo . Usa il weblog, che è diventato anche un libro, per condividere la sua esperienza e riceve moltissimi commenti. Ha un lettore mp3 che funziona a manovella con una dinamo. «Quando lo uso in pubblico qualcuno mi guarda con espressione sorpresa». Ha sostituito tutte le vecchie lampadine di casa con quelle ecologiche, ha messo uno strato di carta velina trasparente sui vetri delle finestre ottenendo così lo stesso effetto delle finestre a doppio vetro. Trattenere il calore è fondamentale per consumare minore quantità energia possibile. La temperatura in casa è di 18 gradi. Tra i termosifoni e il muro c’è uno strato di alluminio, così il calore non si disperde sulla parete, ma è reindirizzato nell’ambiente casalingo. Il pavimento è isolato tramite un soppalco di 10 centimetri fatto di sughero – «È un ottimo materiale isolante ed è naturale» – dice Steven Vrommer che ha “cacciato di casa” la televisione, il ferro da stiro, il bollitore e il forno a microonde. I giornali non li compra, li consulta in biblioteca.
DOCCIA CON ACQUA PIOVANA – Steven ha fuori dalla sua casa a piano terra una cisterna nella quale raccoglie acqua piovana che utilizza per il bagno. L’acqua corrente del rubinetto serve solo per bere, cucinare e lavare i piatti. Bagnoschiuma e shampoo sono banditi, preferisce una tradizionalissima saponetta. Si rade con lamette usa e getta e schiuma da barba. I suoi due bambini Adam (10 anni) e Marieke (13 anni) usano la doccia e non sono obbligati ad alcuna restrizione perché “i bimbi fanno l’opposto di quello che gli si comanda. Ogni tanto sono loro a dirmi papà ma questo non è ecologico!” Steven è divorziato e i figli vivono con lui due settimane al mese.
BOLLETTE MENO SALATE – «Prima pagavo 100 euro al mese, ora solo 40». Il costo delle bollette di Steven è sceso vertiginosamente. «D’estate anche l’impianto di riscaldamento dell’acqua rimane spento e, se serve, l’acqua la scaldo sul fornello a gas. L’impatto ecologico è minore». In media utilizza 2 o 3 kilowatt al giorno di elettricità, arrivando saltuariamente a 7 e il consumo di acqua è enormemente basso: 15 litri al giorno per Low Impact Man contro i 120 litri consumati generalmente procapite. Anche il cibo gli costa meno, infatti Steven Vrommer compra solo prodotti locali, spesso dalle fattorie, il latte per esempio. «Se compri alimenti che vengono da paesi lontani c’è il consumo di energia per il trasporto con navi e aerei». Così facendo acquista cibo non confezionato: prezzo basso e assenza di produzione di rifiuti perché ha dei contenitori – sempre gli stessi – che utilizza per andare a fare la spesa. Di buste di plastica neanche a parlare. Nel salotto ha varie piante e coltiva pomodori e insalate. È vegetariano – infatti con la carne si produce un alto tasso di emissioni di CO2 – ma non vegano. «Ho tentato, ma con i miei due figli, è difficile».
SCARPE NUOVE SOLO PER IL JOGGING – Compra solo indumenti di seconda mano, unica eccezione le scarpe da jogging: «Mi piace andare a correre e le scarpe usate non sarebbero comode». Il concetto di Low Impact Man è, appunto, quello di mantenere un buono stile di vita. «La mia vita costa il 20% in meno rispetto a prima». In un mese Low Impact Man produce 1 kilo di immondizia generica. Il suo recipiente per le lattine e i contenitori vari è lì da un anno senza mai essere stato svuotato, non ancora riempito per i suoi 500 grammi di capacità. Steven in un anno e 1 mese è arrivato ad avere un’impronta ecologica di 1,9 ettari. Il suo traguardo di 1,6 sarà raggiunto quando, a breve, isolerà – in accordo con il proprietario di casa – anche il tetto. Il suo stile di vita vuole essere un esempio per tutti i cittadini, per questo ha rifiutato la candidatura alle prossime elezioni europee nel partito dei Verdi. «Non è difficile vivere in armonia con il pianeta, dobbiamo, però, tenere sempre in mente che ne abbiamo uno. Dobbiamo solo cambiare un po’ il nostro modo di pensare”.
Giovanni de Paola
giovannidepaola@gmail.com
29 giugno 2009
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Piccoli “alberi” sintetici per catturare CO2
È stato creato il prototipo di un “albero sintetico” in grado di incamerare il carbonio dell’aria con una velocità mille volte superiore a quella naturale delle piante. Responsabile del progetto, che sta per essere preso in esame dalla US Department of Energy , è Klaus Lackner, professore presso il Dipartimento di Ingegneria per l’Ambiente e la Terra alla Columbia University. La ricerca è iniziata nel 1998, ha richiesto lunghi anni di studio per raggiungere l’obiettivo di creare dispositivi di dimensioni ridotte, che possano essere posti ovunque e in grado di svolgere il loro lavoro sempre, liberandoci dell’eccesso di carbonio presente nell’aria, anche di quello che finora è impossibile eliminare.
La tecnologia applicata è simile a quella utilizzata per la cattura del carbonio nelle centrali termoelettriche a carbone; l’ albero è in realtà un blocco hi-tech, grande come un televisore, che somiglia a una persiana alla veneziana; quando il vento soffia sulle foglie di plastica, il carbonio rimane intrappolato in una camera, compresso e stoccato come anidride carbonica liquida.
Secondo Lackner, i nuovi “alberi” assorbitori sono quasi ideali e funzioneranno con una quantità ridotta di energia. Si potrà ottenere anidride carbonica liquida spendendo circa 50 KJ (chilojoule) di energia elettrica per ogni mole di anidride carbonica. Risultato oltremodo soddisfacente, soprattutto se rapportato alla potenza media degli impianti elettrici negli Stati Uniti, che producono una mole di CO2 ogni 230 chilojoule di energia elettrica. Facendo funzionare l’apparecchio allacciato alla rete, ogni 1000 chilogrammi di CO2 catturata se ne re-immettono in atmosfera solo 200 per i consumi elettrici, con un saldo positivo di 800 chilogrammi sequestrati definitivamente.
Dal punto di vista dei costi l’ albero sintetico non può competere con le moderne centrali a carbone progettate per avere basse emissioni di carbonio e non è pensato come alternativa agli attuali sistemi di cattura del carbonio prodotto dalle grandi centrali elettriche, ma per catturare il carbonio in ogni momento e in ogni luogo.
Infine, poiché una unità di “albero sintetico” potrebbe costare circa quanto un’auto e potrebbe catturare una tonnellata di CO2 al giorno, ovvero la produzione giornaliera media di 20 auto negli US, un sovraprezzo del 5% per auto consentirebbe di avere lo strumento per togliere dall’atmosfera la CO2 prodotta dalle auto stesse.
Giugno 2009
http://www.scienzaegoverno.org/n/064/064_01.htm
Fonte: www.cnn.com
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Nuove prospettive per la fusione nucleare
Uno studio condotto dai ricercatori del Consorzio RFX, una organizzazione di ricerca di Padova, apre nuove e promettenti prospettive per la ricerca sulla fusione termonucleare.
I ricercatori padovani hanno, infatti, prodotto in laboratorio un plasma da fusione a 15 milioni di gradi, scoprendo la sua naturale tendenza ad assumere la forma di un’elica e a raggiungere in tal modo un equilibrio spontaneo, agendo da ottimo contenitore di energia.
Importante conferma a quanto già previsto da studi teorici, tanto da essere pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica internazionale Nature Physics, nonché importante momento per le attività del Consorzio stesso, che conferma così il ruolo leader nella ricerca di fisica per applicazioni energetiche, sia a livello europeo, sia nel panorama mondiale.
Scienziati di tutto il mondo stanno sviluppando le ricerche sulla fusione quale fonte di energia seguendo percorsi diversi e complementari: i ricercatori padovani in particolare producono plasmi denominati RFP (Reversed field Pinch), ottenuti in una ciambella del diametro di 4 metri (l’esperimento RFX – Reversed Field eXperiment) al cui interno si crea un plasma di idrogeno, ovvero un gas estremamente caldo e rarefatto.
Nel plasma usato per le ricerche sulla fusione gli atomi non sono completamente disgregati: le temperature usate strappano gli elettroni mettendo “a nudo” i nuclei . Questa condizione, secondo gli scienziati, è la via più semplice per favorire il processo della fusione nucleare, cioè l’accorparsi di due nuclei atomici, un processo che produce energia.
La fusione nucleare è da molti scienziati, considerata una promettente fonte energetica del futuro, anche perché i materiali che si potrebbero usare per questo processo (il litio per esempio) sono praticamente inesauribili, ma fino ad oggi non si è ancora messo a punto un modo efficiente e sicuro di utilizzarla. Una via privilegiata per studiare la fusione è secondo alcuni scienziati l’uso del plasma. Il plasma è uno stato della materia in cui le particelle che formano gli atomi, elettroni, protoni e neutroni non sono più legati fra loro ma fluttuano tutti mescolati, una condizione simile a quella che si osserva nel nucleo delle stelle.
La realtà del Consorzio RFX dal 2006 non riguarda solo la gestione e lo sviluppo della macchina RFX, ma anche la realizzazione, in collaborazione con alcuni altri laboratori europei e giapponesi, di un iniettore di particelle neutre per il riscaldamento del plasma di ITER, il proto-reattore sperimentale in costruzione a Cadarache, nel sud della Francia.
Giugno 2009
Fonte: Università di Padova
http://www.scienzaegoverno.org/n/064/064_02.htm
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Benvenuti nella città verde
Un architetto visionario immagina gli ambienti urbani del futuro: case a forma di piante e fiori costruite con materiali naturali, edifici che immagazzinano energia, dirigibili e miniauto
http://www.flickr.com/photos/34146259@N04/sets/72157620858976874/show/
Giardini pensili che adornano grattacieli, cascate d’acqua piovana che sgorgano dai tetti, biomateriali e forme organiche, veicoli elettrici e dirigibili alati che sorvolano gli abitati. Quando si inizia a esplorare la mostra “Vegetal city”, allestita al Museo del Cinquantenario di Bruxelles e partner della Green Week organizzata dalla Commissione Europea (23-26 giugno), si ha la sensazione di vivere in un sogno, nel quale l’essere umano è riuscito a liberarsi della dipendenza dai combustibili fossili e a trovare un nuovo modo di vivere e di pensare le città. È così che l’architetto visionario Luc Schuiten, nato a Bruxelles, immagina gli ambienti urbani del prossimo futuro: luoghi dove gli abitanti vivono in armonia con gli ecosistemi naturali, veri protagonisti delle aree urbane, perché “forse abbiamo dimenticato che siamo prima di tutto esseri biologici che abitano un Pianeta che è esso stesso vivo”, come sottolinea lo stesso autore.
L’esposizione, fatta di disegni, modellini e fumetti, si snoda attraverso progressive visioni di un futuro sostenibile, ambientate in diversi ecosistemi. Un’architettura vegetale insomma, definita dal suo creatore “archiborescenza”, la cui originalità sta anche nei materiali organici utilizzati, ispirati all’artista dall’amicizia con i biologi dell’associazione Biomimicry Europa.
Se da un alto l’urbanismo visionario di Schuiten va a integrarsi nel tessuto già esistente, con la sola aggiunta di innesti vegetali o di biomateriali per incoraggiare l’idea di uno stile di vita più sostenibile, come nel caso dei progetti per alcune città del Belgio, dall’altro lato l’eco-architetto stravolge l’immaginario urbano comune per dare vita a una progettazione viva, per la quale viene coniato anche un vocabolario ad hoc. Così troviamo gli “habitarbes”, alloggi ispirati ad alberi o fiori costruiti con materiali organici. Come quelli della “Lotus city”, dove le case hanno la forma di un loto. Questo fiore, per le proprietà repellenti all’acqua delle sue foglie e le qualità interne alla struttura, offre svariate applicazioni. Per esempio, partendo dal meccanismo di apertura e chiusura dei suoi petali, dice Schuiten, è possibile progettare un sistema per immagazzinare il gas metano prodotto dai rifiuti organici della città.
Anche nel caso della “Tree house city”, ambientata in una foresta, le pareti esterne degli edifici sono fatte di un rivestimento di proteine traslucenti o trasparenti, ispirate alla chitina delle ali delle libellule. I pavimenti e i muri interni sono creati in modo da immagazzinare il calore e ridistribuirlo nei periodi freddi e di notte queste abitazioni si illuminano imitando la biologia dalle lucciole o di certi pesci dell’oceano.
Sono svariati gli ecosistemi in cui Schuiten immagina i suoi progetti. C’è l’“urbancanyon”, ambiente che ricorda il Grand Canyon dove le costruzioni sono progettate per catturare, immagazzinare e diffondere l’energia solare, con ponti sospesi per permettono il passaggio a piedi o in bicicletta. Poi c’è la “City of waves”, la città delle onde, un villaggio vicino a un lago dove le abitazioni hanno la forma di un’onda e sono dotate di pannelli solari. Nei fumetti che descrivono il progetto della “Hollow city”, invece, l’architetto progetta una città solare ispirata alle costruzioni dei nativi americani del Nuovo Messico e immersa in una vallata verde, con case alimentate da una turbina eolica a forma di piramide. In “The woven city”, infine, gli edifici sorgono intorno ad alti alberi di fico e le pareti esterne sono in materiale biotessile, simile a quello dei bozzoli dei bachi da seta o delle ragnatele dei ragni. Anche qui gli abitanti, nella visione di Schuiten, si muovono usando delle passerelle.
Futuristici anche i mezzi di trasporto per muoversi in queste città, come la “click car”, una piccola macchina urbana completamente automatica che può trasportare due o tre persone e progettata in modo da occupare poco spazio: si può infatti legare ad altri veicoli simili per creare dei convogli, un po’ come si fa con i carrelli della spesa. Poi ci sono i “cyclos”, veicoli individuali che si muovono con la forza dei muscoli e dotati di energia elettrica su richiesta. Infine, gli “ornithoplanes”. Questi aeromobili, simili a dirigibili, sono fatti di membrane la cui superficie cattura l’energia solare e la trasforma in elettricità per far funzionare i motori elettrici che azionano le eliche e fanno sbattere le ali.
Luc Schuiten è stato uno dei primi architetti europei a costruire una casa energeticamente autonoma grazie al Sole e al vento, l’Orejona house in Belgio. Tra i suoi progetti già realizzati ricordiamo anche Place du jardin aux Fleurs, a Bruxelles. A breve, infine, è atteso il completamento de “La cascata”: un getto spiovente di acqua piovana azionato da pompe ad energia solare, mentre alcuni ornamenti in materiali naturali sulle pareti degli edifici creano un angolo verde nella città. (r.p)
BRUXELLES
Vegetal City
Fino al 30 agosto
Musée du Cinquantenaire
Parc du Cinquantenaire
Orario: martedì-domenica 10.00-17.00
lunedì chiuso
di Roberta Pizzolante
http://www.galileonet.it/multimedia/11697/benvenuti-nella-citta-verde
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decreto sicurezza, immigrati, welfare di Anna Simonazzi , Roberta Carlini
Se chiude la fabbrica delle badanti
06/07/2009
Il welfare sommerso che diventa criminale. Un ministro che fa la legge e nasconde la mano. Un paese che chiede gli immigrati e li respinge. Un paradosso che diventa ipocrisia di Stato. E alla fine il governo capitola: la sanatoria si fa, ma non si dice
Restate pure, ma ben nascoste. Sembra essere questo l’effetto del “decreto sicurezza” su una delle fasce più rilevanti della popolazione immigrata in Italia: le persone che prestano servizi di cura nelle famiglie, badanti, colf o baby sitter. Le tantissime donne (almeno 500mila) alle quali il ministro degli Interni Roberto Maroni, consegna una contraddizione in termini: sostenendo e rivendicando la legge che introduce il reato di clandestinità per chi “entra” e per chi “soggiorna” senza permesso nel nostro paese, ma allo stesso tempo dicendo loro che possono stare tranquille perché “la legge non ha effetto retroattivo”. Affermazione pleonastica ma niente affatto tranquillizzante: perché se è vero che la legge penale non è retroattiva – se non a favore del reo – è anche vero che le persone di cui parliamo sono entrate nel nostro paese prima dell’entrata in vigore della legge ma vi soggiornano adesso, dunque la nuova legge colpisce tutti gli immigrati non regolari presenti nel nostro paese.
Ma non è questa l’unica contraddizione di una legge che – oltre che profondamente ingiusta e razzista – è sbagliata sin nei suoi presupposti. Infatti il suo impianto normativo e la sua filosofia sembrano dare per scontato che tutti gli immigrati vengano in Italia unicamente spinti dalle condizioni economiche dei loro paesi (push factors). Questa interpretazione sembra in parte condivisa anche da alcune associazioni caritative, e dalla Chiesa, che si oppongono alla legge appunto sulla base di principi di carità o di giustizia.
Ma in realtà – come risulta evidente a chiunque abbia dedicato alla materia un minimo approfondimento, e come viene svelato anche dalle stesse contraddizioni che caratterizzano l’attuale atteggiamento maggioritario verso gli stranieri – l’immigrazione è anche stata causata da fattori di domanda (pull factors), che continuano a essere rilevanti anche ora, in periodo di crisi. Ne sono esempi evidenti i servizi domestici e il lavoro di cura, in casa e negli ospedali, l’agricoltura, le costruzioni (sia alle dipendenze che nella forma, più o meno corrispondente alla sostanza, di imprese autonome, letteralmente esplose negli ultimi anni), il commercio, l’industria manifatturiera con particolare riguardo ai settori meno specialistici e più “duri” della metalmeccanica (qualche esempio: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Non-solo-braccia.-Immigrati-e-specializzati e http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-corsa-all-oro-delle-infermiere).
Di fronte a questa realtà, l’ipocrisia del governo non fa che ricalcare e cavalcare l’ipocrisia di larga parte della società italiana: delle tante famiglie che tuonano contro gli immigrati giudicandoli come “invasori” nel loro insieme, con l’unica eccezione della badante – spesso clandestina – che hanno in casa; o degli operai che hanno nei loro cantieri e nelle loro imprese. E questo succede con maggiore evidenza proprio nelle aree del paese dove più forti sono stati i “fattori di domanda” e dunque più forte è stata l’immigrazione: una contraddizione quotidiana, che diventa sistemica con la legge sul reato di clandestinità. E che proprio sul “caso badanti” può disvelarsi al punto da far saltare tutto l’impianto che regge la legge e ha retto in questi anni il consenso che si è coagulato attorno ai partiti anti-immigrati. Infatti, se si dovesse davvero applicare la legge, le 500.000 badanti irregolari che sono in Italia dovrebbero essere espulse, e 500.000 famiglie sarebbero perseguibili (con pene fino a 3 anni di carcere). Non sono numeri che vengono da ipotesi o stime, ma dalle stesse domande di regolarizzazione debitamente compilate e presentate in occasione dell’ultimo decreto flussi, che giacciono nei cassetti del ministero in attesa che si sblocchino di nuovo gli ingressi legali o che arrivi una sanatoria. Si tratta di una quantità enorme di persone, ben più (per fare un esempio) degli iscritti a un partito politico di medie dimensioni. E si tratta di un nervo scoperto e dolente del nostro welfare “sommerso” (1): un esercito clandestino di riserva, che consente la sopravvivenza a un sistema di welfare pensato per un paese giovane e mai adattato a un paese invecchiato; che copre – male – le carenze dei nostri servizi, in particolare quelli di sostegno al lavoro femminile; che, anche quando emerge, sovvenziona il sistema previdenziale senza niente riceverne in cambio.
E’ ovvio dunque che la legge non potrà essere applicata, almeno nel caso delle badanti, pena la crisi dell’intero settore dell’assistenza agli anziani (e più in generale alle persone) non autosufficienti. Proviamo solo a pensare cosa succederebbe se la Lega, negli enti locali che governa, facesse davvero applicare la legge e mandasse a casa le badanti, e in prigione i loro datori di lavoro: famiglie in rivolta, comunità nel panico. Per questo il ministro Maroni tranquillizza e lancia segnali. Per questo spunta fuori dallo stesso governo l’idea di una sanatoria limitata a badanti e colf, ipotizzata da un sottosegretario (Giovanardi) e smentita da un altro ministro (Calderoli). Tutti elementi che aggiungono confusione a confusione, e fanno intuire una via d’uscita all’italiana: la legge c’è, ma si chiude un occhio.
Però una non-applicazione di fatto della legge, permanendo la vigenza di diritto, oltre che una mostruosità giuridica sarebbe anche un danno criminale per la vita, l’equilibrio, la salute delle persone che si troverebbero ad essere clandestine ma tollerate, e per le famiglie che le ospitano e a loro affidano anziani e bambini. A meno che, per evitare il trionfo dell’ipocrisia di Stato, non si ricorra all’autodenuncia di massa, delle badanti e delle loro famiglie. Cinquecentomila persone, un milione di persone che si presentano ai Carabinieri dicendo: siamo illegali, espelleteci, multateci, arrestateci. Sarebbe la chiusura della fabbrica delle badanti. Un disastro, per l’Italia. Ma anche per chi ha vissuto e prosperato sulla fabbrica della paura.
Aggiornamento. Infine, il governo ha capitolato: per colf e badanti che sono già in Italia il nuovo reato di clandestinità è sospeso. A stare a fonti di stampa, saranno regolarizzate, senza bisogno del finto ritorno e reingresso in Italia (quello previsto in caso di assunzione in base ai flussi), e con pagamento di un forfait per i contributi arretrati. Il provvedimento è stato annunciato da un sottosegretario, smentito da un ministro (il fine Calderoli: “ma che badanti, sono tutte prostitute o drogate”), confermato da un altro ministro (il coerente Maroni: “ma non è una sanatoria”), criticato da un altro ministro (il solito Tremonti, per motivi economici). 500mila badanti attendono un testo scritto. Per le altre centinaia di migliaia di persone che lavorano in Italia – nei cantieri, nelle fabbriche, nei campi – e i cui datori di lavoro hanno chiesto l’assunzione in base al decreto flussi, invece, resta il reato di clandestinità.
(1) Bettio, F., Simonazzi, A. e Villa, P., “Welfare mediterraneo per la cura degli anziani e immigrazione”, in A. Simonazzi (a cura di), Questioni di genere, questioni di politica, Carocci, Roma 2006.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Se-chiude-la-fabbrica-delle-badanti
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07.07.09
Il programma anti-dollaro di Londra: non ci sono altri passi dopo il piccolo passo
Due passi verso la realizzazione del programma del G20, concordato lo scorso 1 Aprile a Londra tra il Presidente Obama e Gordon Brown, hanno spinto il mondo più vicino ad un disastroso abbandono del dollaro come moneta di riserva internazionale. Lyndon LaRouche ha ripetutamente ammonito contro la “follia” dell’idea di sostituire il dollaro, dato che la maggior parte del commercio e degli assets mondiali sono denominati in dollari, e ha attaccato la “fazione del caos” che la propone.
Il Fondo Monetario Internazionale ha emesso obbligazioni per la prima volta nella storia il 30 giugno, creando moneta al di fuori del controllo dei governi. I bonds, denominati in Diritti Speciali di Prelievo (DSP) sono stati acquistati principalmente da Cina, Russia, India e Brasile, rispettivamente per 50 miliardi la Cina e 10 miliardi ciascuno gli altri. I DSP sono una forma di valuta internazionale che di fatto sostituisce il dollaro, ma finora erano stati usati solo come unità di conto. Avveniva che il paese che richiedeva un prestito lo riceveva denominato in una valuta nazionale. Per esempio, se voleva dollari, l’importo veniva addebitato sul suo conto in DSP, mentre veniva accreditato il conto in DSP degli USA. Ora i DSP acquistano vita autonoma.
I bonds in DSP verranno trattati sul mercato secondario come gli altri titoli di stato. Questo significa che avranno un prezzo e diverranno oggetto di speculazione sul mercato dei derivati. Riceveranno un rating dalle agenzie private e presumibilmente, che grazie ai ratings amichevoli, diventeranno il benchmark per i Credit Default Swaps. Di fatto, anche se l’emissione è piccola, assistiamo alla nascita di un sistema interamente sovrannazionale.
Contemporaneamente, la Banca per i Regolamenti Internazionali – che negli anni ’30 funse da veicolo dell’oligarchia britannica per facilitare l’ascesa di Hitler al potere, e che il Presidente Roosevelt cercò di chiudere nei suoi ultimi giorni di vita – il 28-30 giugno ha ospitato un dibattito sulle valute di riserva alternative, “super-valute globali” e commercio senza il dollaro, con la partecipazione dei banchieri centrali di Cina, Brasile, Argentina, Filippine e del capo del Fondo Monetario Arabo. Apparentemente alla BRI la Cina e il Brasile hanno stipulato un accordo commerciale non in dollari.
Al G20 di Londra, il Presidente Obama ha concordato con i britannici di conferire nuovi poteri sovrannazionali alla BRI, anche attraverso il Financial Stability Board (FSB). Il Financial Stability Forum, organismo nato in seno alla BRI, è stato trasformato da organo consultivo in un ente regolatore internazionale con potere su cambi, “rischi” e altri “standard e codici” nei confronti di banche centrali e governi nazionali. Il capo del FSB è Mario Draghi, che oltre ad essere governatore di Bankitalia è ex uomo Goldman Sachs e noto come “Mister Britannia”.
Uno dei “global standards” che il FSB ha ricevuto incarico di applicare è quello dei “pagamenti e concordati internazionali”. Questo nuovo Standard Committee è presieduto da Lord Turner della British Financial Services Agency. Coloro che credono alla possibilità di “abbandonare gradualmente il dollaro” credono nella saggezza dei piccoli passi. Ma stavolta, dopo il piccolo passo potrebbe esserci nessun altro passo.
La Corte Costituzionale tedesca pone limiti al Trattato di Lisbona
Il 30 giugno, la Corte Costituzionale tedesca ha emesso la sua sentenza su quattro ricorsi contro il Trattato di Lisbona, definendo “anti-costituzionale” la legge di ratifica e dando così uno schiaffo al Bundestag, il Parlamento tedesco, che l’aveva approvata con una maggioranza del 90% il 24 aprile 2008. E’ da ritenere positivo il fatto che la sentenza della Corte dichiari che il Parlamento tedesco ha rinunciato alla sovranità, invece di promuovere una legge che proteggesse e rafforzasse i poteri del Parlamento nazionale ed, implicitamente, del governo. Verrà dunque presentato una nuova legge che garantisca i diritti del Bundestag nelle decisioni prese dall’Unione Europea, affermando in particolare che i parlamentari nazionali dovranno votare su ogni cambiamento del trattato o ogni estensione delle competenze dell’Unione Europea. Tale legge verrà inclusa in un documento che accompagnerà il “sì” tedesco al Trattato. Fino a quel momento il Presidente tedesco è tenuto a non sottoscrivere il Trattato.
In una dichiarazione del 3 luglio, la presidente del Movimento Solidarietà Tedesco (BueSo) Helga Zepp-LaRouche ha apprezzato la sentenza dichiarando che i giudici hanno “difeso la Costituzione ed interrotto la dinamica con la quale l’Unione Europea è stata progressivamente trasformata in una burocrazia imperiale votata all’auto-contenimento economico, fin dal Trattato di Maastricht” del 1992. Tuttavia, la sentenza è carente in quanto dichiara il nuovo Trattato generalmente compatibile con la Costituzione tedesca, benché il nuovo trattato trasformi il sistema di Maastricht in un regime oligarchico, come abbiamo più volte denunciato. I giudici hanno inoltre omesso ogni menzione del fatto che le sentenze precedenti a favore del sistema di Maastricht si fondassero su argomentazioni in seguito invalidate dagli effetti del crollo economico, come ha sottolineato Helga Zepp-LaRouche.
Un segnale della degenerazione della cultura politica in Germania, aggiunge la signora LaRouche, è il fatto che tra la firma del Trattato di Lisbona il 13 dicembre 2007 da parte dei capi di stato e di governo dell’UE, ed il voto del Bundestag dopo un dibattito in aula durato solo due ore, non sia stata messa a disposizione del Parlamento o della popolazione alcuna informazione sul Trattato, e che il Bundestag lo abbia approvato senza conoscerne i contenuti. Se Helga Zepp-LaRouche non avesse lanciato un appello per mobilitare il pubblico contro il Trattato di Lisbona il 13 febbraio 2008, e se non fossero stati presentati quattro ricorsi alla Corte Costituzionale nelle settimane successive, il Trattato sarebbe stato ratificato dalla Germania alla fine del maggio scorso e la Corte Costituzionale non sarebbe neanche stata scomodata.
L’inazione e la mancanza di principii del Parlamento tedesco, aggiunge Helga Zepp-LaRouche, dimostrano ancora una volta come la burocrazia dell’Unione Europea, controllata da interessi monetaristi ed ultra-liberisti che fanno capo all’oligarchia finanziaria londinese, sia già riuscita a “sdemocratizzare” gli stati membri dell’Unione. Resta da vedere se la Corte Costituzionale tedesca riuscirà a fungere anche in futuro da guardiano della democrazia e della Costituzione. Quanto al Bundestag, la signora LaRouche ha chiesto agli elettori tedeschi di punire col loro voto, alle elezioni politiche del 27 settembre, tutti i parlamentari che hanno votato a favore del Trattato di Lisbona svendendo così la sovranità nazionale tedesca.
La politica di Obama spinge gli stati americani verso la bancarotta
Mentre la crisi finanziaria della California domina sui media, quasi nessun stato riesce ad evitare le conseguenze del rifiuto da parte dell’Amministrazione Obama di attuare un programma di ripresa economica competente. Alcuni stati hanno iniziato il loro nuovo esercizio (1 luglio) senza aver approvato il relativo bilancio, mentre altri si sono affrettati a raggiungere delle intese che probabilmente non dureranno neanche fino a dicembre.
Mentre gli stati che faticano a trovare i fondi necessari, quali la California, attuano dei tagli che aumenteranno sicuramente il tasso di mortalità della popolazione, anche gli stati che affermano di aver rispettato il pareggio di bilancio (spesso imposto per legge per i singoli stati), preparano degli aumenti delle tasse controproducenti e altri tagli di bilancio disastrosi. Il fatto è che le entrate fiscali di molti stati diminuiscono più velocemente di quanto il legislatore riesca a tagliare il bilancio; infatti le entrate fiscali totali in 37 dei 41 stati che hanno un sistema di imposizione fiscale esteso sono scesi del 26% nel periodo gennaio-aprile 2009, rispetto allo stesso periodo del 2008.
In California, ci sono volute poche settimane perché il deficit di bilancio passasse dai 24 ai 26 miliardi di dollari. Il 3 luglio, l’ufficio del Controllore del Fisco dello Stato ha cominciato a stampare cambiali (IOU) per certi tipi di pagamenti ai fornitori, e anche per alcune categorie di pagamenti sociali e sanitari ai cittadini. Il Tesoriere della California Bill Lockyer ha ammonito della possibilità di un ulteriore declassamento del merito creditizio dello stato, forse a BBB+, se lo stato continuerà ad emettere gli IOU; una tale circostanza potrebbe costare più di 8 miliardi di dollari di interessi sulle obbligazioni per lavori pubblici già emessi.
Lo scellerato governatore Arnold Schwarzenegger ha proposto di eliminare i programmi di assistenza sociale per i disoccupati e i minori senza copertura sanitaria, ma si rifiuta di aumentare le tasse. In questo modo la California – che rappresenta la sesta economia mondiale – si trova sull’orlo di una implosione, che provocherebbe una reazione a catena internazionale.
In tutti gli stati degli USA, i congedi temporanei degli impiegati statali sono diventati la scelta preferita da parte dei governatori. Secondo i dati della Conferenza Nazionale dei Parlamentari Statali (NCSL) e della Federazione Americana di Impiegati degli Stati, Contee e Comuni (AFSCME), più di 728.500 impiegati in almeno 21 stati sono stati o saranno mandati in congedo, e 54.000 sono stati licenziati. I congedi temporanei si traducono in tagli di stipendio considerevoli e anche in riduzioni dei servizi forniti dallo stato. I procedimenti penali vengono rinviati, manca la vigilanza per gli ex-detenuti in libertà condizionata, i tempi di erogazione degli assegni di invalidità e dei sussidi per la disoccupazione si allungano, ecc.
Non ci sono dubbi che gli stati sono in difficoltà; soltanto il governo federale può generare il credito necessario per rilanciare l’attività economica. Significa che la crisi è sul tavolo del presidente, ma finora Obama ha deciso di iniettare trilioni di dollari nel settore finanziario piuttosto che di riavviare l’economia fisica.
Peggio ancora, in un’intervista alla Associated Press, la reazione del presidente alla disoccupazione di massa è stata di dire: “Dobbiamo capire quale sarà il prossimo motore dello sviluppo dopo il debito sulle carte di credito, i secondi mutui e i derivati”. Motore di crescita? I fenomeni citati sono state delle bolle finanziarie mostruose che ora sono scoppiate, e Obama intende che la prossima si baserà sul mercato delle emissioni del CO2. Quella politica non ha niente a che fare con la protezione dell’ambiente.
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Giugno 2009
La Camera di commercio di Torino vince un World Chambers Award
“From Concept to Car” questo il miglior progetto internazionale secondo la giuria della ICC’s World Chambers Federation. Il progetto della Camera di commercio di Torino è stato premiato per la sua capacità di promuovere l’internazionalizzazione del settore auto piemontese.
Il riconoscimento è stato consegnato al Presidente della Camera di commercio di Torino Alessandro Barberis nell’ambito del 6° Congresso mondiale delle Camere di commercio che si è recentemente svolto a Kuala Lumpur, in Malesia.
La Federazione internazionale rappresenta oltre 14.000 Camere di commercio nel mondo (locali, regionali, nazionali e internazionali), che operano in oltre 100 Paesi. È la prima volta che un ente camerale italiano si aggiudica uno dei quattro premi della World Chambers Competition:
1. Miglior progetto per piccole imprese
2. Miglior progetto originale
3. Miglior progetto di rete
4. Miglior progetto internazionale.
From Concept to Car, in gara con 48 proposte provenienti da 31 Paesi per la categoria internazionale, ha battuto in finale le Camere di commercio di Malaga, Istanbul, Parigi e Sheffield.
Il progetto
Ideato nel luglio 2002 (con il supporto della Regione Piemonte) il progetto, gestito dal Centro Estero per l’Internazionalizzazione, punta a promuovere in tutto il mondo le eccellenze del settore auto piemontese.
Un team di lavoro composto da figure di profilo tecnico, promozionale e amministrativo, fornisce supporto alle attività di marketing internazionale e facilita l’avvio dei primi contatti con la committenza.
Sono ad oggi 65 le commesse generate nell’ambito del progetto per un valore di 40 milioni di euro (numeri rilevati grazie alla Balanced Scorecard, strumento scientifico di misurazione dei risultati, realizzato in collaborazione con l’European School of Management Italia).
Il Presidente della Camera di commercio di Torino ha sottolineato che: ”Il progetto ha avuto il merito di contribuire concretamente allo sviluppo di un settore economico come quello dell’auto, coinvolto in grandi cambiamenti internazionali e strategicamente legato al territorio. Questo risultato non sarebbe stato possibile senza il contributo di tutte le aziende eccellenti del settore e delle associazioni di categoria che le rappresentano”.
Leggi l’intervista a Gianpiero Masera, dirigente Area Promozione e sviluppo del territorio della Camera di commercio torinese realizzata dalla redazione di Euroreporter.eu.
Informazioni:
Ufficio Stampa Settore Comunicazione esterna
Camera di commercio di Torino
Tel. 011 571 6652
ufficio.stampa@to.camcom.it
http://www.newsmercati.com/Article?ida=4053&idl=2282&idi=1&idu=49647
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11.07.2009
Honduras, dialogare con i golpisti è stata una pessima idea
Dopo due giorni di conversazioni in Costa Rica tra la delegazione dei golpisti e quella del governo legittimo dell’Honduras, nella quale ognuno accusa l’altro di essere un criminale e di meritare di andare in carcere o peggio, le cose non si sono spostate di un centimetro. E non spostarsi di un centimetro vuol dire che i golpisti guadagnano terreno, si stabilizzano, guadagnano legittimità, vedono il fronte internazionale perdere unità d’intenti.
Tanto è vero ciò che i golpisti propongono un nuovo incontro tra otto giorni, un’eternità per chi in ogni angolo del paese da due settimane è mobilitato contro il golpe e, nonostante cresca e si radicalizzi la resistenza popolare, sta subendo i colpi sempre più duri della repressione. L’ultima su questo fronte è l’arresto da parte di un commando golpista di José David Murillo, pastore protestante, dirigente ambientalista ma soprattutto padre di Isis Obed Murillo, il ragazzo di 19 anni assassinato domenica scorsa.
Dall’Honduras il Fronte Nazionale di Resistenza al Golpe, che ha appena bloccato per oltre due ore la strada più importante del paese, è il primo a bocciare le riunioni di San José: “il dialogo in Costa Rica è una tattica per prolungare il conflitto, una strategia per allungarlo e indebolire la resistenza”. Mentre la diplomazia internazionale è incapace di sbloccare la situazione, la sorte della democrazia in Honduras è sempre più nelle mani del suo popolo che da due settimane non smette di resistere e di forgiarsi all’unità della lotta antigolpista tra movimenti sociali, popolari, sindacali e indigeni.
Ma per Óscar Arias, l’ex presidente costaricano e premio Nobel scelto come mediatore va bene così, l’importante era sedersi intorno a un tavolo pacificamente e poco importa che in Honduras non c’è pace.
Intanto il governo degli Stati Uniti, che quelle conversazioni sterili ha voluto e ha finora governato, pur giocandosi la faccia, sembra star agendo con tempi ancor più lenti di quelli dell’assassino di Bergamo alta, Roberto Micheletti. Secondo l’analista della BBC Robert Scanlon “è vero che il governo statunitense, dopo aver condannato senza possibilità di fraintendimenti il golpe, tiene in mano i fili sui quali la giunta golpista può resistere. Ha infatti tagliato alcuni aiuti economici, ma c’è molto di più che può essere fatto da Washington e questo di più può davvero obbligare i golpisti a fare un passo indietro”.
La BBC è in buona sostanza d’accordo con il presidente venezuelano Hugo Chávez che, forse per la prima volta, si è trovato in una crisi internazionale a stare dalla stessa parte di Washington, ma che considera “troppo timida” l’azione statunitense ed è stato il primo a rompere gli indugi, sommarsi alle voci provenienti dalla resistenza interna al golpe e considerare il dialogo in Costa Rica “un grave errore”.
Gli argomenti del presidente Chávez danno, come spesso succede, pane al pane in maniera stridente per i barocchismi della diplomazia internazionale: “Il dialogo con i golpisti honduregni è una trappola per la democrazia, un pericolo e un grave errore per l’Honduras e per tutto il continente americano”. Chi ha vissuto sulla propria pelle un golpe, l’11 aprile 2002, e ha all’interno del proprio paese ancora una parte rilevante dell’opposizione che considera un colpo di stato una soluzione praticabile al “chavismo”, si rende conto che se il tempo dei gorilla torna per l’Honduras allora può tornare anche per paesi ben più solidi di questo.
Allo stesso tempo, anche se il dialogo è stato voluto unilateralmente da Washington, facendolo accettare al concerto latinoamericano dopo il fallimento dell’operazione rientro di Zelaya, nella quale si erano esposti in particolar modo l’OSA, con il proprio segretario generale José Miguel Insulza, l’ONU, il presidente brasiliano Lula e lo stesso Chávez, la bocciatura del dialogo stesso da parte dell’influente presidente venezuelano, che fornendo petrolio a prezzo politico all’Honduras permetteva per la prima volta nella storia a questo paese di tener testa agli interessi delle multinazionali, rischia di aprire delle crepe nell’unitarietà del fronte antigolpista internazionale.
Per il portavoce di Hillary Clinton le affermazioni di Chávez sono premature e il dialogo non è [ancora] fallito. Forse ha ragione, ma alle domande di Chávez non ha voluto o saputo dare risposta: “se siete così fermi in difesa del governo legittimo perché siete praticamente gli unici a non aver ritirato l’ambasciatore da Tegucigalpa? Perché non fate tutto il possibile in tema di pressioni economiche?” Se Micheletti resta al potere non è certo Chávez ma il governo di Barack Obama a giocarsi la faccia.
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09.07.09
Lo stile dello zar
In autunno Prato tornerà, anche se solo per una breve stagione, alle antiche glorie di capitale internazionale dei tessuti preziosi
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Dal 19 settembre la città toscana tornerà, anche se solo per una breve stagione, alle antiche glorie di capitale internazionale dei velluti e broccati. Fino al 10 gennaio del 2010 a Prato andrà in scena “Lo stile dello zar”, un grande evento espositivo realizzato in collaborazione con L’Ermitage di San Pietroburgo. Oltre 130 opere tra tessuti, documenti e quadri per raccontare la storia di una antica via di scambio tra Italia e Russia, una via di commerci, mode e ricercate frivolezze, ma anche di arte e cultura.
Le pellicce di Kiev arrivarono nelle corti europee molto prima che le sete di Lucca e Firenze conquistassero il mercato russo. Già nell’XI secolo, per esempio, le fiere di Bruges e Compiègne offrivano un vasto assortimento di abiti in ermellino e vaio, lo scoiattolo grigio tipico delle foreste russe. Queste pellicce dai colori chiari furono per secoli furono le più diffuse nelle corti europee, divenendo simbolo di regalità. Poi, nel XV secolo, con la disponibilità di pelli di zibellino, si diffuse anche il gusto per le tonalità scure. In quest’epoca, dal connubio tra pellicce russe e sete italiane, prese il via la produzione raffinatissima che la mostra documenta. Uno stile unico nel suo genere di cui lo zar fu primo estimatore.
A partire dal XVI secolo lo zibellino da mano o da spalla era un accessorio irrinunciabile per ogni dama a la mode, mentre gli uomini prediligevano maculate pellicce di lince, che avrebbero conferito loro un tono di ferina virilità. All’epoca, gli italiani più facoltosi iniziarono a sfoggiare caftani turchi e capi d’ispirazione ungara o polacca, riflesso dei sempre più stretti rapporti con le corti dell’Est. Si innescò così una sorta di corsa all’opulenza. Mentre i russi impreziosivano le già sofisticate sete italiane con diademi e gioielli, la Chiesa committenti alcuni dei massimi capolavori delle più celebri maestranze toscane. Ne sono testimonianza paliotti e paramenti della prima sezione della mostra, dall’Incoronazione della Vergine di Jacopo di Cambi proveniente da Firenze, alla tonacella del Parato di Santo Stefano in velluto cesellato e laminato d’oro che appartiene invece al Museo dell’Opera del Duomo di Prato.
La seconda sezione introduce il visitatore nel vestibolo dello zar. Tra drappi di velluto, damaschi e sete ritroviamo i doni che i sovrani europei inviavano alla corte del signore di Moscovia e i paramenti commissionati dalle chiese del Cremlino. Scopriamo cosi che mentre lo zibellino era offerta di prassi dall’Oriente all’Occidente, il made in Italy più ambito dalle corti russe era il drappo d’oro. E’ comunque nella terza sezione che ci si può documentare con dovizia di particolari sul gusto della nobiltà dal Cinquecento a Pietro il Grande. Dalle sopravvesti per gentiluomini in lupo cerviero agli zibellini alla mano delle nobildonne, dalle principesche sete operate agli arazzi di seta cinese, molte sono le testimonianze, già nel tardo Rinascimento, di una moda globalizzata, che è però legata all’eccellenza di maestranze locali. La passerella di abiti e vestimenti che segue l’evoluzione dell’eleganza da un’epoca all’altra scorre in parallelo all’esposizione delle opere di artisti che l’hanno celebrata nei loro quadri. In un magico gioco di specchi, ritroviamo cosi il “Ritratto di giovane donna” di Tiziano, proveniente dall’Ermitage San Pietroburgo, e “L’ambasciatore Ivan Chemodanov” di Justus Suttermans, in prestito dal Palazzo Pitti di Firenze. Di quest’ultima opera, che è anche l’immagine-simbolo dell’intera mostra, si pensava fino ad oggi che rappresentasse la prima ambasceria russa Firenze. E invece no, si tratta della seconda ambasceria: un’altra scoperta dovuta agli studi per l’allestimento della mostra.
Tra le occasioni offerte da questo evento espositivo, che dal Museo del Tessuto s’irradierà in tutti i principali centri culturali della città, segnaliamo infine quella di poter ammirare la pala della Circoncisione realizzata nei primi anni del Seicento dal Cigoli per la chiesa pratese di San Francesco. Acquistata dallo zar nel 1835 e conservata all’Ermitage di San Pietroburgo, tornerà per la prima volta a casa dopo quasi 2 secoli di assenza.
di Luisa De Paula
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banche, crisi, Europa, Usa di Vincenzo Comito
Banche: come prima, peggio di prima?
10/07/2009
Mentre i governi di Usa ed Europa arrancano nella ri-regolazione, emerge un sistema finanziario ancorapeggiore di quello precedente alla crisi. E non si affronta il nodo principale: alle banche non manca la liquidità, ma il capitale
Si materializza sempre più la possibilità di uno sviluppo degli eventi che soltanto alcune settimane fa sembrava pressoché impensabile; in altri termini, sembra ormai che il sistema bancario e finanziario, che ha prodotto guasti così profondi al mondo dell’economia, ai budget pubblici dei vari paesi, alle tasche dei cittadini, possa uscire dalla crisi tornando tranquillamente a fare più o meno quello che faceva prima, senza che siano introdotti particolari nuovi e incisivi sistemi di regolamentazione e di controllo. Il non cambiare se non marginalmente le regole porterà alla probabile conseguenza che le banche ci trascineranno verso una nuova e potenzialmente più grave crisi entro poco tempo.
E questo mentre le attuali difficoltà rimangono peraltro largamente non risolte – così, ad esempio, i dati statunitensi relativi ai livelli di disoccupazione nel paese per il mese di giugno 2009 contribuiscono a mostrare come i green shoot che annunciavano la ripresa rischino in gran parte di appassire- e mentre le banche centrali sono costrette a continuare ad iniettare ingenti risorse a basso prezzo nel sistema per cercare, quasi inutilmente, di far continuare a scorrere il credito, come mostriamo più avanti. Così, in queste settimane, la Banca Centrale Europea ha offerto al settore bancario della zona euro circa 450 miliardi di euro di nuovi prestiti ad un tasso di interesse sostanzialmente simbolico –l’uno per cento.
I segni del cambiamento
I segni del ribaltamento della situazione “politica” del settore finanziario e del ritorno alle vecchie pratiche si vanno diffondendo. Così, negli uffici della Goldman Sachs è stato detto ai funzionari di aspettarsi uno degli anni di maggiore redditività nella storia della società, mentre la Barclays sta distribuendo bonus per 730 milioni di sterline ai suoi manager e mentre si sta avviando una nuova ondata di caccia ai manager bancari più bravi esistenti sul mercato a colpi di offerte sostanziose. Intanto diverse grandi banche stanno mettendo in opera nuove e più raffinate forme di cartolarizzazione, a suo tempo uno dei punti di attacco principali della crisi.
Per altro verso, paradossalmente, non ci potrebbe essere un momento migliore di quello attuale per svolgere l’attività bancaria: i governi di molti paesi garantiscono una parte consistente dei crediti e dei debiti del sistema; così gli istituti possono tenersi in casa i profitti e continuare a scaricare sui contribuenti le perdite. Il denaro è per essi a buon mercato e possono prestare contemporaneamente i soldi in maniera calibrata a delle imprese disperate e pronte a pagare prezzi molto elevati. I governi sperano, in questo modo, che tali nobili istituzioni ritornino in salute dopo tutte le perdite incontrate. Ma questo potrà forse succedere solo nell’arco di un numero di anni abbastanza lungo e salvo ovviamente nuove sorprese che potrebbero nel frattempo manifestarsi. La crisi del sistema finanziario non si risolverà per questa via.
Intanto, i rappresentanti dell’establishment finanziario stanno contestando con molta durezza e arroganza le pur timide nuove misure che i pubblici poteri vorrebbero introdurre per governare meglio il sistema. Essi arrivano al punto di affermare che il rischio maggiore cui ci si trova oggi di fronte è quello che i regolatori reagiscano troppo bruscamente, demonizzando il settore ed affossando alla fine l’industria finanziaria che avrebbe portato tanti benefici a Londra come e New York.
In questa loro campagna mediatica essi riescono ad approfittare di varie circostanze favorevoli, tra le quali il fatto che essi negli Stati Uniti trovano delle sponde molto amichevoli nello stesso governo del paese, infiltrato di regolatori riluttanti, mentre in Gran Bretagna il timore che le nuove potenziali normative possano portare ad un ridimensionamento della City e quindi del ruolo del paese nell’industria finanziaria mondiale portano G. Brown a premere in misura rilevante e in senso restrittivo su Bruxelles, che non è certo peraltro, da parte sua, sede di audaci riformatori. Inoltre, il fatto stesso che la crisi sembri ora mostrare un volto meno allarmante riduce la volontà di intervento di molti politici: Il cancelliere dello scacchiere britannico, A. Darling, appena qualche giorno fa, ha affermato che la City rimane un immenso punto di forza del paese e che essa merita di essere protetta (Roberts, Inman, Moya, 2009). In realtà lo sviluppo della vicenda mette in rilievo come ci sarebbe la necessità di cambiare, accanto al sistema bancario, anche la politica.
Così va emergendo, nella coda della crisi, un sistema finanziario ancora per alcuni versi peggiore di quello precedente alla crisi stessa (Wolf, 2009). Le banche che sono sopravvissute rappresentano ormai, in Gran Bretagna come negli Stati Uniti, un oligopolio fatto di poche istituzioni troppo grandi e tra di loro interconnesse per fallire. Esse sono sopravvissute non perché erano le migliori, ma perché erano le più supportate politicamente (Wolf, 2009). In ogni caso, mantenere la mano leggera nella regolamentazione del sistema ha già mostrato chiaramente, con il caos degli ultimi due anni, di essere una ricetta che non funziona.
I progetti di riforma degli Stati Uniti
Comunque, abbiamo perlomeno ora a disposizione i progetti messi a punto dal governo degli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Lasciamo invece da parte come del tutto irrilevanti politicamente le proposte preparate sul tema dal nostro governo in occasione del G8 e di cui si conoscono comunque solo alcuni aspetti.
Quello varato a metà del mese di giugno da Obama ha sicuramente dei meriti; esso introduce, tra l’altro, una maggiore protezione dei consumatori per quanto riguarda i prodotti e le istituzioni finanziari attraverso la messa in opera di un’apposita agenzia e affida alla Fed compiti di sorveglianza accresciuti; in particolare, essa si occuperà di controllare la stabilità sistemica dell’area finanziaria – la crisi ha mostrato tra l’altro, in effetti, che non basta controllare i singoli istituti bancari- e dovrà monitorare l’andamento dei grandi gruppi finanziari. La proposta, poi, che le banche siano obbligate a mantenere in casa almeno il 5% dei prestiti da essi concessi, senza poterli rivendere sul mercato, introduce un principio in se giusto, ma fissa la soglia in proposito ad un livello troppo ridotto per risultare in qualche modo efficace.
D’altro canto, il progetto evita di semplificare il sistema di supervisione dell’area finanziaria, oggi affidato ad una miriade di enti, a volte in conflitto tra di loro. Il potere di resistenza delle varie lobbies appare a questo proposito troppo forte. Non si è neanche tornati alla separazione tra banche commerciali e banche di investimento, come era invece richiesto da tante parti. Non viene inoltre affrontato in maniera adeguata il problema della regolamentazione degli enti non bancari. Non viene per nulla toccato il problema della capitalizzazione delle banche – si veda peraltro su questo più avanti. Nulla viene detto sulle agenzie di rating e nulla di specifico è previsto, almeno per il momento, per i compensi al management del settore. Niente di nuovo viene indicato in tema di trasparenza delle informazioni. E si potrebbe continuare a lungo sull’analisi critica del provvedimento.
Si può quindi parlare di un progetto che fa qualche passo in avanti, ma certamente non a sufficienza.
Una menzione a parte merita lo specifico progetto di legge relativo alla nuova regolamentazione dei prodotti derivati.
Le nuove disposizioni obbligherebbero a commercializzare certi tipi di derivati, anche se comunque non tutti, solo attraverso delle clearing houses specializzate, mentre, come è noto, una gran parte di essi oggi sono negoziati in privato – “over the counter” -; richiederebbero, inoltre, che i singoli contratti derivati siano sostenuti da adeguate garanzie monetarie, mentre oggi il livello di copertura di molti contratti appare ridicolo; permetterebbero agli organismi federali di regolamentazione di controllare i mercati, per investigare su eventuali reati di frode e manipolazione. La proposta obbligherebbe, inoltre, i partecipanti al mercato a detenere dei livelli minimi di capitale; imporrebbe, infine, la tenuta di un’adeguata contabilità in proposito e obbligherebbe a mantenere degli standard informativi minimi, anche se tali standard appaiono nella sostanza insufficienti. E sino a questo punto va quasi tutto bene.
I problemi sorgono per quello che invece dalle norme non è previsto.
Così, le nuove disposizioni non richiedono che i contratti passino per delle borse pienamente regolate. Esse fanno poi una distinzione netta tra derivati di tipo standard e derivati di tipo non standard – customized -; si propone un sistema di regolamentazione più leggero per questo secondo tipo di prodotti, aprendo così le porte alla possibilità di aggirare con facilità il sistema dei controlli anche sui primi. L’amministrazione Obama ha inoltre proposto di nominare alla guida della Commodity Futures Trading Commission (CFTC), che dovrebbe governare tale mercato, Gary Gensler, che, durante l’amministrazione Clinton, è stato uno dei campioni della deregolamentazione degli stessi derivati, anche se adesso egli si proclama pentito. Non è poi chiaro se le nuove regole si applicheranno anche ai contratti in essere o solo a quelli nuovi, questione importante.
E quelli dell’Unione Europea
Ma le proposte avanzate a livello di Unione Europea sulla regolamentazione del settore finanziario sono certamente ancora meno incisive di quelle statunitensi.
Bisogna intanto considerare che nel nostro continente esistono rilevanti divisioni ideologiche tra i vari paesi su almeno due punti (The Economist, 2009): il primo riguarda il grado di libertà che dovrebbe essere lasciato ai mercati, con una netta differenza di valutazioni tra Gran Bretagna da una parte e Francia e Germania dall’altra, mentre il secondo registra una differenza tra i paesi che vorrebbero che le banche operanti internazionalmente stiano sotto il controllo di un unico ente a livello europeo e quelli che invece le vogliono mantenere sotto la supervisione delle istituzioni nazionali.
Tra le proposte specifiche avanzate c’è quella di creare un consiglio per la sorveglianza del rischio sistemico, progetto che assomiglia in qualche modo alla analoga proposta statunitense. Ma le similitudini con gli Stati Uniti si fermano qui. Tale organismo, al contrario che nel caso Usa, nasce come molto debole, senza alcun potere di intervento; si tratta chiaramente di una scelta deliberata, dal momento che le nostre autorità nazionali non vogliono perdere nessuna delle loro prerogative. Al di là di questo, ci si propone di creare delle nuove autorità di supervisione europea per le istituzioni finanziarie operanti in più paesi, ma anche questi istituti non avranno sostanzialmente alcun potere che non sia loro lasciato dalle singole autorità nazionali.
L’Unione propone poi, apparentemente in maniera meritoria, una più rigida regolamentazione degli hedge fund e dei fondi di private equity; il progetto presenta qualche motivo di interesse, ma d’altro canto esso sottopone i due tipi di istituzioni alle stesse regole per quanto riguarda le informazioni che esse devono fornire, i limiti al livello di indebitamento, ecc., ciò che non ha molto senso, trattandosi di organismi operativamente molto diversi tra di loro.
Sul fronte della regolamentazione dei derivati, di nuovo la proposta ricalca grosso modo quella statunitense e presenta quindi più o meno le stesse debolezze dell’altra.
E’ possibile ancora credere, a questo punto, che l’Europa possa avere la minima volontà di varare delle riforme incisive sul fronte finanziario, come tra l’altro aveva manifestato l’intenzione di fare in sede di G20 qualche mese fa? Quello a cui stiamo assistendo appare alla fine uno spettacolo sostanzialmente desolante, con pochi aspetti positivi.
E i flussi di credito al sistema produttivo?
Ma tutta l’indulgenza mostrata dalle autorità verso il sistema finanziario serve almeno a qualcosa, in particolare a contribuire ad accrescere il livello dei finanziamenti alle imprese e ai cittadini? Molto poco, come sottolineano ad esempio W. Buiter (Buiter, 2009) e W. Munchau (Munchau, 2009).
Le banche centrali stanno allargando a dismisura in molti paesi la massa monetaria in circolazione. Ma sia il quantitative easing – con le banche centrali che acquistano titoli emessi dal governo-, che il credit easing – con acquisti diretti da parte delle banche centrali di titoli emessi dalle imprese-, che un accresciuto supporto finanziario al sistema bancario –attraverso la provvista di prestiti garantiti al settore a tassi uguali a quelli ufficiali, come è il caso dell’ultima iniziativa della BCE sopra citata-, non stanno riuscendo a spingere le banche ad aumentare il livello dei prestiti al settore produttivo.
Ma appare per altro verso normale che questo accada, dal momento che le politiche sopra ricordate risultano in genere efficaci quando il problema cui ci si trova di fronte è quello della mancanza di liquidità. Ma la liquidità è oggi persino eccessiva e le banche rigurgitano di denaro. Il fatto è che gli istituti stanno tendendo a mantenere un basso livello di attività e di prestiti, puntando, per fare profitti, sostanzialmente sugli alti margini oggi esistenti tra tassi passivi e tassi attivi. Solo le imprese più grandi e quelle con un passato di eccellenza hanno così accesso al mercato dei capitali, mentre le aziende piccole e medie e quelle create da poco non riescono ad ottenere credito in alcun modo. Questo comporterà inevitabilmente che la ripresa, se mai ci sarà, sarà lenta ed anemica.
Il fatto è che le banche non mancano di liquidità, ma mancano invece crudelmente di capitale. Sino a che non ci saranno in qualche modo forti iniezioni di mezzi propri nel sistema e non sarà notevolmente ridotto il livello di indebitamento dello stesso i prestiti – e l’economia- non ripartiranno. Dal momento del varo del piano Paulson sino ad oggi siamo sempre allo stesso irrisolto nodo della questione.
Testi citati nell’articolo
– Buiter W., Quantitative easing, credit easing and henanced credit support aren’t working: here’s why, http://www.ft.com, 3 luglio 2009
– Lenzner R., Stress-testing the Obama plan for Wall Street, http://www.forbes.com, 20 giugno 2009
– Munchau W., Liquidity injections alone are not enough, http://www.ft.com, 5 luglio 2009
– Plender J., How fading political will has let banks off the hook, The Financial Times, 27/28 giugno 2009
– Roberts D., Inman P., Moya E., Return of the gravy train –did the crash really change the City at all?, http://www.guardian.co.uk, 24 giugno 2009
– The Economist, Divided by a common market, 2 luglio 2009
– Wolf M., The cautious approach to fixing banks will not work, The Financial Times, 30 giugno 2009
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Banche-come-prima-peggio-di-prima
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debito, deficit, istat di Roberto Romano
Debito, quando la realtà è peggiore di un incubo
13/07/2009
Esplode il debito pubblico, senza che si spenda un euro contro la crisi. L’aumento della spesa non è andato né allo stato sociale né alla politica industriale
L’Istat ha reso pubblici, nonostante il Ministro Scaiola, che il debito delle amministrazioni pubbliche nel primo trimestre dell’anno ha raggiunto il 9,3% del pil, contro il 5,7% dell’anno scorso. Nonostante i dati siano grezzi e ancora soggetti ad una forte variabilità, cioè non sono depurati dalla componente stagionale, l’aumento dell’indebitamento pubblico rispetto al 2008 è pari a 3,6 punti percentuali di pil.
Tutti gli indicatori di finanza pubblica sono condizionati dalla minore crescita economica, che per quest’anno si stima in un meno 4,2% di pil, ma la minore crescita strutturale dell’Italia rispetto all’area euro suggerisce una stima ben più grave. Infatti, la minore crescita strutturale del pil dell’Italia rispetto all’area euro è progressivamente aumentata, fino a raggiungere 1,8 punti percentuali nel 2008, ovvero 30 mld di euro di mancata crescita. Se consideriamo, inoltre, gli anni che vanno dal 1997 al 2008, l’Italia è cresciuta meno dell’Europa (15) di ben 12 punti percentuali; sostanzialmente il paese vive una doppia crisi: la prima legata alla riduzione della domanda internazionale causata dalla bolla speculativa finanziaria, la seconda legata alla struttura produttiva che non riesce ad agganciare neppure il “debole” modello europeo.
L’effetto è quello di un aumento dell’indebitamento dell’amministrazione pubblica, e di tutti gli indicatori di “qualità” della finanza pubblica: il saldo corrente è pari a meno 6%, mentre nel 2008 era pari a meno 3% del pil; il saldo primario, cioè l’indebitamento al netto della spesa per interessi, è negativo per il 4,6% del pil; le entrate sono diminuite in termini tendenziali del 2,8%, con una incidenza sul pil del 39,9%.
L’aspetto più inquietante è, però, legato alla crescita della spesa. Queste sono aumentate in termini tendenziali del 4,6%, con un valore rispetto al pil pari al 49,2%. Sostanzialmente l’aumento delle spese di 8 mld di euro non è coinciso con nessun provvedimento di struttura, dallo stato sociale alla politica industriale. L’aumento della spesa è legato sostanzialmente agli automatismi della spesa pubblica legati all’andamento del pil, cioè il governo ha impegnato solo lo 0,5% del pil per affrontare la crisi economica.
Il governo non è responsabile della crisi internazionale, ma delle politiche per farvi fronte certamente si. Il paradosso è quello di un aumento dell’indebitamento pubblico senza che via sia un euro per affrontare la crisi. Il più delle volte il governo “storna” le risorse finanziarie da un capitolo all’altro, e quando utilizza risorse aggiuntive, lo 0,3% del pil come indicato dal fondo monetario internazionale, lo fa per una platea di soggetti così ampia che diventa ininfluente o inutile, se non dannosa.
I problemi dell’Italia sono molti e non tutti si possono risolvere in breve periodo, ma almeno 2 sono i nodi principali: 1) la bassa produttività degli investimenti delle imprese che tendenzialmente incorporano tecnologia realizzata in altri paesi; 2 una polarizzazione dei redditi ante intervento pubblico che non ha nessun confronto con i paesi di area euro.
Invece che sostenere l’aumento degli investimenti delle imprese detassando gli utili reinvestiti del 50%, cioè minori entrate per lo stato, sarebbe il caso che lo stato si impegni direttamente o attraverso start up a realizzare una politica industriale di anticipo della domanda, cioè investire in energia rinnovabile, ambiente e conoscenza come delineato dall’UE. Se lasciamo alle imprese private questo obiettivo, considerando che solo in Italia la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese è più bassa di quella pubblica, la tendenza sarà quella di importare conoscenza, non generarla. Dare i soldi alle imprese così come sono e con questa specializzazione significa consegnare il lavoro buono al di fuori dei nostri confini.
Per affrontare la polarizzazione dei redditi ante intervento pubblico ci sono poche soluzioni, ma quelle disponibili sono efficacissime e sostanzialmente a costo zero per lo stato. Se la polarizzazione dei redditi si realizza nel mercato, occorre rafforzare i soggetti che possono controbilanciare la forza di una parte del sistema economico. Si tratta di allinearsi ai principi liberali di giustizia sociale o dei diritti presi sul serio di Einaudi (lezioni del ’44), oppure di riprendere almeno una parte del new deal, cioè quella di consegnare più potere ai sindacati. Per affrontare la polarizzazione dei redditi determinata dal mercato occorre dimensionare, superare tutte le norme che indeboliscono il sindacato. 44 modelli contrattuali di inserimento lavorativo sono veramente troppi, così come sono troppe le ore lavorate in Italia rispetto alla media europea. In Italia si lavora un mese e mezzo in più dei paesi europei. La via fiscale è troppo debole e, a conti fatti, agisce solo a margine.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Debito-quando-la-realta-e-peggiore-di-un-incubo
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Questo è la mia quarta visita al vostro sito! Siamo un gruppo di volontari e stiamo considerando di aprire una nuova comunità. Il tuo blog è per noi da esempio. Avete fatto un grande e incredibile lavoro!