ambiente, crisi, Europa di Matteo Lucchese
Dall’economia dei disastri al Green New Deal 05.10.2009
Prevenzione e tutela del territorio, trasporti, energia. Ecco il piano per un rilancio verde e sostenibile dell’economia, elaborato dall’Istituto Wuppertal per i Verdi del parlamento europeo. Per uscire dalla crisi in un nuovo clima
Crisi economica, crisi ambientale. Il “new deal verde”, del quale si parla da tempo, prende concretezza a opera dell’Istituto Wuppertal, che in un Rapporto commissionato dal gruppo dei Verdi del Parlamento europeo analizza il potenziale economico e occupazionale di una politica europea basata su tutela e protezione dell’ambiente (politica di cui l’Italia, come confermano le tragiche cronache da Messina, ha disperatamente bisogno) e sviluppo ecosostenibile. Il Rapporto, intitolato A Green New Deal for Europe. Towards a green modernization in the face of crisis, (http://www.greens-efa.org/cms/default/rubrik/16/16475.documents) chiede all’Unione europea di coordinare un piano di azione capace di consolidare le attività eco-innovative già esistenti, aumentando la qualità e il raggio d’azione delle sue politiche ambientali: un New Deal verde che, in analogia con il famoso piano di rilancio economico del presidente statunitense Franklin D. Roosevelt, che tragga impulso da una visione di modernizzazione ambientalista dell’economia e crei al tempo stesso milioni di posti di lavoro.
Un piano per l’Europa
Basandosi sulla definizione di eco-industrie fornita dall’Eurostat e dall’Ocse, il Green New Deal può essere definito come un piano pubblico di investimenti in attività dirette alla produzione di beni e servizi che “misurano, prevengono, limitano, riducono e correggono i danni ambientali causati all’acqua, all’aria e alla terra così come i problemi legati ai rifiuti, all’inquinamento acustico e più in generale all’eco-sistema”. L’obiettivo di tali investimenti è di far convergere i programmi europei di sviluppo eco-innovativo già esistenti entro piani più ambiziosi di crescita eco-sostenibile. Il Piano sottolinea la necessità di raccordare le scelte di investimento di breve periodo con una visione di più lungo termine, muovendo nella direzione di una rottura delle vecchie strutture produttive e di una loro ristrutturazione verso uno sviluppo più sensibile all’utilizzo delle risorse ambientali. Esso, dunque, non si basa tanto su un maggior impiego di risorse quanto sullo sfruttamento ad ampio raggio del potenziale di crescita del settore eco-industriale europeo.
Per far questo, l’Europa deve muoversi sui piani delle strategie, delle politiche e dei programmi:
Dal punto di vista delle strategie, il Rapporto propone di dotare l’Unione di un quadro di valutazione più omogeneo nel monitoraggio e nella valutazione delle politiche, equilibrando la Strategia di Lisbona del 2000 con le linee guida della Strategia di Sviluppo Sostenibile (sviluppate solo pochi anni dopo dal Consiglio Europeo). Le politiche ambientali dovrebbero così essere guidate dalla riduzione del gap di produttività nell’intensità dell’utilizzo delle risorse all’interno dell’Unione Europea. In alcune regioni dell’Est, infatti, l’intensità è 8 volte più grande rispetto alle regioni occidentali. Tale gap andrebbe ridotto in quanto una maggiore uniformità nella produttività garantirebbe contemporaneamente meno pressione all’ambiente e maggiore competitività nei settori industriali.
Sul versante delle politiche, il Rapporto propone di adottare azioni più mirate, indirizzando i fondi a diposizione delle politiche di “Common Agricultural Policy” e di “Regional Policy” (che costituiscono ad oggi la maggior parte del bilancio dell’Unione) ad attività che promuovano l’eco-sostenibilità delle attività produttive. In questo senso, la cooperazione fra fondi nazionali e fondi europei potrebbe procedere dando assoluta priorità a piani che aumentino la produttività di imprese e infrastrutture.
Infine, sul piano dei programmi per l’implementazione di tali politiche, l’Unione dovrebbe puntare sulla convergenza fra i differenti piani di innovazione ambientale di breve e di medio termine (che già sono parte dell’attività dell’Unione Europea) ed ad una maggiore integrazione con i Fondi di Coesione.
Tre le possibili linee di intervento, corrispondenti ad altrettante aree di priorità: la riduzione della dipendenza dai trasporti privati attraverso il passaggio a forme di trasporto pubblico sostenibili; la scelta di politiche energetiche di lungo periodo per edifici privati e pubblici; la definizione di obiettivi di miglioramento dell’efficienza nell’utilizzo delle risorse disponibili per ridurre i costi dell’approvvigionamento energetico.
Il merito di tali politiche sarebbe quello di promuovere un deciso passo avanti nello sviluppo ambientale dell’Unione Europea in una fase in cui la necessità di stimolare la domanda globale e di mantenere alti livelli di occupazione potrebbe facilitare l’implementazione di nuove politiche pubbliche.
Ambiente e pacchetti anti-crisi
Secondo il Rapporto, nella fase di spesa successiva alla crisi economica (si tratta dei pacchetti di rilancio approvati negli ultimi mesi del 2008 e nei primi del 2009 e aventi come riferimento di azione il biennio successivo), l’Unione Europea ha destinato alla produzione ambientale circa 17,61 miliardi di euro sui circa 30 miliardi previsti dal pacchetto comunitario di stimolo all’economia. La maggior parte di queste risorse si è tuttavia rivolto alla riduzione delle emissioni carboniche. In termini assoluti, in campo ambientale, l’Europa ha speso meno di Stati Uniti e Cina. Quest’ultima ha riservato all’ambiente circa il 37% dei fondi di rilancio dell’economia (171,07 miliardi di euro su un totale di 453,1) con investimenti dedicati al potenziamento delle reti ferroviarie e delle infrastrutture idriche. Gli Stati Uniti hanno speso 751,4 miliardi di euro con una quota riservata al comparto ambientale pari al 21% (86,77 miliardi), destinando tali risorse ad energie rinnovabili e alla costruzione di edifici a basso impegno energetico.
Il pacchetto comunitario di sostegno risulta del tutto insufficiente anche se comparato alle misure adottate da Germania e Francia. La Germania, da sola, ha infatti destinato al settore ambientale 11 miliardi di euro su un totale di 81. La Francia 5,52 su un totale di 26,1. Mentre la Francia ha speso di più in energie rinnovabili, la Germania si è concentrata sulla spesa nell’edilizia a basso impatto energetico. Degli 80 miliardi di euro che il governo italiano sostiene di aver messo nel pacchetto di stimolo, invece, solo l’1,3% (circa 1 miliardo) è destinato alla riduzione del rischio ambientale. E per di più, dentro tale voce per la quasi totalità di questi fondi si intendono gli incentivi alla costruzione di veicoli a basso impatto ambientale.
Pur ricordando la difficoltà nel valutare con efficacia la qualità degli interventi pubblici di spesa, sembra dunque necessario agire per aumentare il budget messo a disposizione dell’Unione Europea e contemporaneamente ampliare la varietà degli interventi per attivare più convincenti politiche verdi.
Il potenziale verde
Nel 2004 il fatturato totale del settore eco-industriale generato dall’Eu-15 è stato stimato a 214 miliardi di euro, il 7% in più del 1999 valutato a prezzi costanti. Fra il 1999 e il 2004, il settore finlandese è cresciuto del 54%, seguito da quello irlandese (27%), olandese (26%) e danese (20%). L’Italia ha visto crescere il settore eco-industriale solo del 6%, mentre Germania e Francia rispettivamente dell’8% e del 9%. Va tuttavia rilevato che circa il 50% del fatturato totale del settore è generato dalle eco-industrie francesi e tedesche.
Nel 2004 sono state stimate circa 3,4 milioni di persone che lavorano direttamente o indirettamente nel settore ambientale, di cui 2,3 nel settore della gestione dell’inquinamento e 1 milione nel settore della gestione delle risorse. Le proiezioni riferiscono di quasi 8 milioni di posti di lavoro potenziali che potrebbero essere creati in Europa nei prossimi 20 anni nei settori dell’energia solare ed eolica. Inoltre, nuovi stimoli all’occupazione verranno dalla costruzione di strutture energetiche efficienti, dalla riqualificazione degli edifici, dall’adattamento a nuove forme di coltivazione, dall’espansione del re-cycling e dall’ammodernamento del comparto del trasporto pubblico.
L’esempio più promettente di rilancio ambientale è sicuramente quello della Germania. Secondo il Ministero dell’Ambiente tedesco, fra il 2004 e il 2006, il 40% delle industrie legate al settore ambientale è cresciuto a tassi annui del 10%. Dal 2005 al 2007, la produzione totale nell’industria ecologica è cresciuta del 27% con aziende che hanno registrato un aumento medio del 15% nella forza lavoro fra il 2004 e il 2006. Nel 2006 quasi 1,8 milioni di tedeschi era impiegato nel settore ambientale pari al 4,5% dei lavoratori occupati. La Germania è anche uno dei maggiori esportatori mondiali di prodotti a tecnologia eco-sostenibile con una quota attuale intorno al 16% dell’intero commercio internazionale.
L’esempio tedesco ci insegna che la chiave del rilancio “verde” passa per una chiara leadership politica, fatta di investimenti mirati e di chiari interventi legislativi volti allo sviluppo del settore. Per il Rapporto del Wuppertal Institute, più che di fondi, l’Europa avrebbe bisogno di capitale politico, molto più difficile da acquisire.
Tuttavia, la crisi economica può rappresentare un punto di svolta per le politiche ambientali europee. Perché questo si realizzi, l’Europa deve farsi promotrice di una visione di sviluppo sostenibile che sia il più possibile funzionale alla crescita e al mantenimento di alti livelli occupazionali.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Dall-economia-dei-disastri-al-Green-New-Deal
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Presa diretta – La stangata 04.10.2009
La stangata è quella che si prenderanno i contribuenti italiani, quelli di oggi e quelli di domani, per i costi dell’alta velocità in Italia.
“18 anni fa è stato presentato per la prima volta il progetto della Tav. Era prevista una spesa di 15 miliardi euro, quasi tutti da capitali privati. I politici dell’epoca, infatti, avevano promesso che l’opera si sarebbe in parte autofinanziata e che il 60 per cento dei quindici miliardi necessari alla sua realizzazione sarebbero arrivati da investitori. La realtà è stata ben diversa…”
Questo lo spot di Iacona della puntata: l’inchiesta dell’ex iena Sciortino è partita dalla TAV Milano Torino per cercare di capire a cosa sono dovuti i maggiori costi, i maggiori tempi della TAV.
I numeri: il tratto Milano Torino è costato 7188 miliardi di euro (54 milioni al Km).
In Francia, la Parigi Strasburgo, nel 2007 è costata 4 miliardi di euro (12 milioni di euro al km).
Come mai? In Italia si è scelto il tracciato più costoso per la linea. Assieme alla Ferrovia sono stati fatti svincoli, sottopassi, todonde (12 ad Arluno). Strutture antirumore (forse per non disturbare le auto?).
Poi ci sono i “costi di penetrazione nelle città” agguingeva il dottor Moretti: un opera faraonica, rispetto a quanto hanno fatto all’estero, dove forse era più importante il treno e i trasporti. In Italia, la tesi emersa dal servizio, è stato prioritario spendere: far durare i lavori più a lungo, costruire il più possibile.
Questo è frutto di due anomalie italiane: la legge obiettivo, che consente carta bianca ai general contractor sui lavori senza poi assumersi alcuna responsabilità di gestione sull’opera.
Lo spiegava Ivan Cicconi, esperto di contratti e appalti per grandi opere.
General contractor (scelti senza gara anche dall’attuale governo Berlusconi) che hanno l’interesse ad allungare la catena di appaltatori e subappaltatori, facendo lievitare il prezzo.
Altra anomalia, la commistione di interessi nei lavori: come il caso di Marcellino Gavio (e della CAV.TO.MI.), che dalla Torino Milano ci ha guadagnato sia come costruttore (ha realizzato lavori su un tratto) sia come concessionario dell’autostrada.
E Gavio è anche azionista della Impregilo.
Dunque figura sia come controllore che come controllato.
Allo stato conviene? No, come emergerebbe dal rapporto del servizio vigilanza grandi opere.
Come emerge anche dalla relazione della Corte dei conti sulla Tav.
Le denunce non hanno avuto risonanza: come quelle della Cogefer, del geometra Santini.
“Dopo questa intervista mi allontanerò dalle grandi opere” raccontava.
I suoi lavori, di movimentazione terra, sono costati 18 milioni. Allo stato, alla fine della catena di contractor e appaltatori, sono costati 64 milioni.
La TAV ha anche causato danni ambientali. Nel Mugello, per le falde prosciugate dai lavori.
Lo stato spenderà altri 600 milioni di euro, per danni ambientali.
A Firenze, hanno deciso (perchè lo faceva già Bologna) di modificare il progetto per l’alta velocità, interrando la stazione. E facendo attraversare i binari della TAV (separati dagli altri) dentro la città.
Costi che sono aumentati, come i disagi per le persone che abitano accanto ai cantieri: i terremotati della TAV.
Costo del progetto? 1700 miliardi di euro. Costi evitabili, spiegava Marco Ponti del politecnico di Milano, non sta scritto da nessuna parte che si doveva procedere con la stazione sotteranea.
Altro punto discusso, da dove vengono i soldi per la TAV?
Dovevano essere dei privati, così spiegava la brochure del 1991.
Ma era solo un trucco del ministro di allora, Cirino Pomicino (ultimo governo Andreotti). Un trucco così come per il ponte: i soldi li cacceremo noi e le future generazioni, che sono già indebitate per 2 miliardi di euro/anno, per 30 anni.
Ci hanno guadagnato le banche, per i prestiti stipulati con lo stato. Stato che ha provato, nel 2002, a togliere dai bilanci, i debiti della TAV. Con la ISPA, una società finta privata.
Ma la commissione europea scoprì il trucco e costrinse l’Italia a pagare cash 12,5 miliardi di euro per ripianare i debiti della Ispa.
Nessun giornale ne parlò, racconta Ponti, eccetto il sole 24 ore con un trafiletto.
Per pagare i debiti, nel 2005 si arrivò a stipulare dei derivati con la Lehmann: anche questi sono stati criticati dalla Corte dei conti.
E intanto a Viareggio.
Secondo l’ ex A.D. della TAV Ercole Incalza, dovremmo ringraziare il cielo per le opere fatte con la TAV.
Forse a Viareggio meritavano almeno la piccola opera: quel muretto per separare le case di Ponchielli dalla ferrovia. Muro che avrebbe contenuto la tragedia e salvato qualche vita.
Ma forse, deve aver pensato qualcuno, non ne valeva la pena di spendere i soldi per così poco. Meglio le opere faraoniche.
La battaglia degli operai dell’Innse.
Dopo la protesta degli operai sui tetti (dopo 15 mesi di protesta civile che non aveva causato alcun effetto), qualche ministro e politico si è pure permesso di criticare quegli operai.
Non di certo il signor S.G., che dopo aver preso per 700000 euro l’azienda, anzichè rilanciarla come da accordi, la stava svendendo.
Nel film di Silvia Luzzi: si racconta “una settimana di resistenza: in una Milano deserta e sotto al cocente sole di agosto, 4 operai ed un sindacalista della FIOM si arrampicano su un carroponte per difendere il posto di lavoro e centinaia di persone si radunano fuori la fabbrica per sostenerli. “
Il sito di Presa Diretta.
Technorati: Presa diretta
http://unoenessuno.blogspot.com/2009/10/presa-diretta-la-stangata.html
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F. Dossier “Le navi dei veleni” del WWF e di Legambiente
(settembre 2004)
Il dossier è stato presentato il 29 settembre 2004 a Roma per richiamare l’attenzione delle istituzioni e dei media.
La complessità della vicenda delle navi dei veleni, affermano Legambiente e WWF, richiede lo sforzo congiunto di tutti gli organismi istituzionali con competenze in materia. E’ questo l’ appello avanzato dal Wwf e da Legambiente in occasione della presentazione del dossier intitolato “Le navi dei veleni”. Nel documento elaborato vengono avanzate 10 proposte al Governo, al Parlamento e alle Commissioni parlamentari d’ inchiesta tra cui compiere un indagine nelle acque territoriali italiane per individuare i relitti delle “navi a perdere” e approfondire l’ eventuale ruolo della criminalità organizzata nel traffico illecito di rifiuti via mare.
Le navi dei veleni
Cronistoria di un intrigo internazionale
Le proposte di Legambiente e WWF
Roma, 29 settembre
1. Premessa
C’è un fatto specifico dietro l’urgenza, avvertita da Legambiente e WWF, di richiamare l’attenzione delle istituzioni e dei media su una vicenda, quella delle cosiddette “navi dei veleni”, già denunciata negli anni scorsi dalle associazioni ambientaliste: l’inchiesta ancora aperta dalla Procura di Paola per il caso dello spiaggiamento della motonave Rosso in località di Formiciche, nel Comune di Amantea, in provincia di Cosenza.
I fatti in questione emergono dall’inchiesta giornalistica “Una nave rosso veleno” del settimanale L’Espresso, a firma del capo redattore inchieste e servizi speciali del settimanale Riccardo Bocca, ma trovano in larga misura un’autorevole conferma in due atti istituzionali: la risposta del 27 luglio scorso del Ministro per i rapporti con il Parlamento, On. Carlo Giovanardi (DRP – Prot. 22003) all’interrogazione sull’argomento presentata dall’On. Ermete Realacci e altri e quella resa dal Sottosegretario di Stato per i Rapporti con il Parlamento, On. Cosimo Ventucci, il 15 luglio alla Camera dei Deputati a fronte dell’interpellanza urgente dell’On. Michele Vianello sulla stessa vicenda.
Le fonti istituzionali e il settimanale L’Espresso riferiscono di accertamenti e ulteriori indagini di cui ha la titolarità il sostituto procuratore Francesco Greco della Procura della Repubblica di Paola, tesi a dimostrare il dolo nel tentativo di affondamento e l’eventuale l’occultamento di rifiuti speciali pericolosi e radioattivi in relazione, rispettivamente, alla dinamica dell’incidente in cui è rimasta coinvolta la M/N Rosso e al carico che questa trasportava di cui non si conoscerebbe la destinazione finale.
Si tratta di un episodio specifico che rientra, però, come emerge con chiarezza soprattutto nella già citata risposta del Ministro Giovanardi, in uno scenario davvero inquietante, peraltro già più volte denunciato dalle associazioni ambientaliste: quello del traffico illecito di rifiuti pericolosi e radioattivi e delle sue possibili sovrapposizioni con i traffici di armi. In queste vicende vengono alla ribalta personaggi e aziende i cui nomi ricorrono in diverse inchieste legate a queste attività illegali ma sembrerebbero emergere anche collusioni, connivenze o fenomeni di tolleranza da parte di organismi istituzionali dello Stato italiano e di Stati stranieri.
Uno scenario che richiede, ad avviso di Legambiente e WWF Italia sia il massimo sostegno possibile all’autorità giudiziaria inquirente sia, soprattutto, un fattivo e sinergico interessamento delle Commissioni parlamentari competenti, ciascuna per quanto rientra nelle proprie specifiche attività. Un impegno teso a delineare con maggiore chiarezza di quanto non sia avvenuto finora protagonisti, rotte, caratteristiche e dimensioni di questi traffici illeciti, delle eventuali coperture di cui godono, delle azioni possibili per contrastarli.
2. I dossier delle associazioni ambientaliste
Dal 1995 ad oggi, le associazioni scriventi hanno avuto modo di occuparsi in diverse occasioni delle delicate e complesse vicende oggetto di questa nota. Può essere utile riassumere i passaggi più significati dei dossier finora prodotti:
Legambiente nazionale nel suo dossier “Rifiuti radioattivi: il caso Italia” del 19 giugno 1995 ricorda che la vicenda delle navi dei veleni è stata al centro del lavoro di diverse procure (che ha visto impegnanti soprattutto il Procuratore capo di Matera, Nicola Maria Pace, il Procuratore capo di Napoli, Agostino Cordova, il Sostituto procuratore della Pretura di Reggio Calabria, Francesco Neri nonché la Procura di Catanzaro e quella di Padova).
Nel dossier redatto all’epoca dei fatti si sottolinea anche come l’inchiesta relativa all’auto-affondamento di navi nel Mediterraneo abbia una rilevanza di carattere internazionale e costituisca senz’altro il tassello più importante delle complesse attività giudiziarie in corso. Al centro delle indagini figuravano le attività svolte da un ingegnere italiano, Giorgio Comerio. Il suo nome era emerso, come ha raccontato allora lo stesso Comerio a Legambiente, dal fermo di un personaggio con una “fedina penale pulita”, a causa di reati contro l’ambiente, alla frontiera di Chiasso. Questa persona era in possesso di documenti elaborati dalla società dello stesso Comerio e relativi ad un progetto di smaltimento in mare di scorie radioattive. Secondo Comerio si sarebbe trattato di elaborazione ingegneristiche di uno studio realizzato con fondi della Cee e di altri Paesi (Stati Uniti, Giappone, Svizzera e Canada), costato circa 120milioni di dollari (circa 200 miliardi di lire) avviato nel 1977 e concluso 1989. Lo studio prevedeva la possibilità di seppellire in mare, attraverso “penetratori” (siluri lunghi 16 metri del peso di circa 200 tonnellate ciascuno), fatti “scivolare” verso i fondali argillosi da navi opportunamente attrezzate. Lo studio non è mai stato utilizzato in modo operativo dagli organismi istituzionali. Lo stesso Comerio ha raccontato a suo tempo a Legambiente che questo studio era già stato presentate a numerosi governi (ad esclusione di quello italiano) e che sarebbero stati presto disponibile su internet. Nella conversazione avuta con Legambiente, Comerio aveva anche fatto riferimento a possibili “interessi” industriali che sarebbero dietro il tentativo di screditarlo.
Nel dossier si ricorda che le indagini svolte, in prima battuta, dal Corpo forestale dello Stato, soprattutto attraverso perquisizioni, hanno consentito di acquisire una ricca documentazione relativa a questi presunti traffici: in sostanza, questa era l’ipotesi al centro delle attività giudiziarie, era prevista la trasformazione di alcune navi in vere e propri “depositi” affondabili di rifiuti radioattivi. Almeno una ventina gli affondamenti sospetti.
Le indagini furono effettuate con la collaborazione dei Lloyds di Londra perché, secondo gli inquirenti, si tratterebbe di auto-affondamenti, con conseguente truffa ai danni della compagnia assicuratrice.
Legambiente nazionale il 2 febbraio 1996 nel dossier dal titolo significativo “L’intrigo radioattivo” nel capitolo 2. Scenari internazionali e misteri italiani” cita i seguenti dati di fatto relativi alle vicende in corso in quegli anni:
le attività della società ODM (Oceanic Disposal Management) e del suo principale artefice, Giorgio Comerio, proseguono indisturbate, e anzi sembrano in una fase di ulteriore sviluppo, nonostante i gravi sospetti alla base delle indagini in corso in Italia e la censura già scattata in sede internazionale da parte dell’organismo di controllo della London dumping convention (che vieta gli smaltimento in mare di rifiuti radioattivi);
la società ODM sembra aver indirizzato le proprie attività verso Paesi, soprattutto quelli dell’ex Unione sovietica, che già presentano serissimi problemi per quanto riguarda il controllo delle attività nucleari, e verso Paesi africani che sembrano già essere candidati a ospitare i nuovi cimiteri di rifiuti radioattivi;
la società ODM indica tra i siti ideali di smaltimento, una zona immediatamente a ridosso della costa della Somalia, Paese già al centro in Italia di inchieste sia giudiziarie che parlamentari per le vicende connesse agli scandali sulla cooperazione e ai traffici d’armi;
oltre alle navi su cui indaga la magistratura di Reggio Calabria esistono altri relitti affondati nel Mediterraneo, dall’Adriatico, a ridosso delle coste jugoslave, al basso Ionio, sulle quali non è in corso alcuna attività di indagine, né da parte dei governi interessati, né da parte di organismi internazionali;
nessuna verifica è stata svolta, sempre in sede internazionale, circa i reali rapporti tra la ODM e alcuni governi europei e/o enti di gestione di attività nucleare (in particolare la Svizzera, l’Austria, la Francia, il Belgio, l’Inghilterra, la Germania);
i presunti traffici internazionali di rifiuti, con relativi affondamenti in mare, hanno avuto inizio almeno a partire dal 1987; non si è a conoscenza di nessun accertamento da parte dei servizi di sicurezza italiani (Sismi e Sisde) il ché lascia aperte due ipotesi: inefficienza degli stessi oppure la segnalazione di queste attività agli organismi competenti senza, però, alcun esito;
le denunce circostanziate da parte sia dei magistrati di Reggio Calabria che di Catanzaro sui tentativi di intimidazione e sulle attività di controlli illegali di cui sono stato oggetto (verosimilmente da parte di soggetti legati ai servizi segreti) non hanno avuto, finora, alcun esito;
Legambiente ha già denunciato i forti sospetti circa un ruolo diretto di clan della criminalità organizzata, in particolare della ‘ndrangheta, sia nei traffici internazionali di rifiuti radioattivi, che nelle attività logistiche connesse all’affondamento delle navi; identica segnalazione, secondo quanto pubblicato su alcuni giornali, sono state fatte da parte del Sisde agli stessi magistrati calabresi.
Legambiente nazionale il 28 novembre 1996 redige il documento “La Spezia crocevia dei veleni” in cui si afferma che il porto di La Spezia era il centro nevralgico del malaffare ambientale italiano per le presunte attività illecite che si svolgevano in ambito portuale e per la concentrazione a corona della città di discariche tra cui quella di Pitelli, su cui da poco era iniziata l’inchiesta della magistratura.
Nelle conclusioni del dossier viene rilevato, chiedendo un opportuno intervento dell’autorità giudiziaria, che quanto accadeva all’epoca a La Spezia è analogo a quanto avviene nelle zone più degradate del nostro Mezzogiorno: una associazione criminale è diventata in sostanza padrona del territorio. Nel documento vengono ricordati i traffici di rifiuti tossico-nocivi della fine degli anni ’80 legati alle vicende delle “navi dei veleni” e al loro trasporto e all’occultamento nelle coste africane e mediorientali (dalla Guinea al Libano). Viene ricordato, tra gli altri, un episodio di importazione illegale di materiali contaminati radioattivamente, avvenuto nel 1994: le autorità sanitarie competenti accertarono la presenza di 16.700 tonnellate di rottami ferrosi radioattivi, contaminati da Cesio 137 provenienti dal Sudafrica, che dopo lo sbarco a La Spezia avrebbero dovuto essere trasferiti in Austria. Grazie alla segnalazione di Legambiente, il carico venne rifiutato dal Governo austriaco.
Nel dossier viene anche ricordato che nel 1993 i magistrati di Napoli Narducci e Policastro fecero scattare l’operazione “Adelphi” che coinvolse alcuni soggetti attivi nell’area di La Spezia. L’inchiesta prese le mosse dalle rivelazioni di numerosi pentiti della camorra, in particolare appartenenti ai clan che operano e controllano la provincia di Caserta. L’operazione “Adelphi” è stata sicuramente la prima grande inchiesta mai portata a termini in Italia contro la “Rifiuti SpA”.
Greenpeace nel settembre 1997 ha pubblicato il dossier La Rete, che ha come argomento “le basi finanziarie internazionali dei traffici illegali di rifiuti” che descrive l’attività e i collegamenti internazionali di una rete di faccendieri soprattutto italiani che operano nel mercato internazionale di rifiuti e risultavano collegati alla ODM – Oceanic Disposal Management Inc., società che pretendeva mettere in opera su scala mondiale operazioni di seppellimento nei fondali marini di scorie radioattive, in violazione della convenzione di Londra del 1993 sull’inquinamento marino provocato dallo scarico i n mare di rifiuti.
ODM secondo il dossier di Greenpeace internazionale, aveva le principale basi operative in Italia, con estensioni in Austria, Francia, Germania e Russia. La rete di individui e soggetti societari di cui faceva parte il progetto ODM teneva accuratamente separato il settore operativo da quello finanziario e sarebbe stata composta in Italia da 26 aziende, che avrebbero trattato illegalmente nel 1997 qualcosa come 3 mila tonnellate di rifiuti al giorno per un valore complessivo equivalente di 4.8 milioni di dollari d’allora, esportando tra l’altro illecitamente i rifiuti in paesi come Romania, Libano e Venezuela e ricavandone proventi illeciti che sarebbero stati esportati e ripuliti da compagnie finanziarie italiane in paesi quali Panama, le Isole Vergini, il Liechtenstein e l’Irlanda. Tra il 1987 e il 1996, come riportato dal dossier la rete formata da queste aziende avrebbero avuto rapporti d’affari con grandi aziende pubbliche e private italiane e con multinazionali, quali tra le altre: Castalia SpA, Termomeccanica SpA, Waste Management Tecnologies (WMX) e la Compagnie Generale des Eaux.
La rete di cui ODM faceva parte, a quanto risultava nel 1997, aveva stabilito un controllo quasi monopolistico nel campo del trattamento dei rifiuti nell’area tra La Spezia (che è anche porto militare di grande importanza e polo dell’industria degli armamenti) e Livorno. Greenpeace attestava che la rete avesse libero accesso al porto di La Spezia, uno dei maggiori terminal container del Mediterraneo.
Nel dossier di Greenpeace si legge che il direttore tecnico di ODM era all’epoca tale Giorgio Comerio, ingegnere, cittadino italiano, nato a Busto Arsizio (Varese) nel 1945, residente allora nell’isola di Guernesey, ampiamente citato nelle risposte rese dagli esponenti del Governo e nell’articolo dell’Espresso. Comerio, secondo il rapporto, era già da allora in contatto e in rapporti d’affari, con una rete di personaggi da lungo tempo attivi nel traffico illegale di rifiuti, che avrebbe come base di partenza l’Italia e vanterebbe contatti e contratti internazionali con soggetti pubblici e aziende multinazionali per lo smaltimento dei rifiuti in Paesi come la Romania, il Brasile e l’Africa. Il 10 gennaio 1996, dietro richiesta dei paesi contraenti della Convenzione di Londra, il segretariato della Convenzione scrisse a Comerio chiedendo di rivedere le attività di ODM vista l’illegalità dei loro piani.
Altro personaggio chiave della rete ODM è Filippo Dolfus, azionista di ODM e collegato alla società svizzera Celtica Ambiente S.A. che faceva capo al duo Gianlorenzo Binaghi/Arcasio Camponovo. Quest’ultimo è stato responsabile finanziario di ODM fino al dicembre 1995.
Camponovo è stato presidente del consiglio di amministrazione di Celtica Ambiente S.A. e nel 1990 uno dei fondatori di Celtica Ambiente srl a Roma, società di brokeraggio di rifiuti. Celtica Ambiente srl è stata a sua volta azionista di Profis Italia srl, facente capo a Camillo Meoli. Queste due società nel 1997 erano a capofila delle attività italiane della rete nel camp dei rifiuti, insieme a quelli facenti parte del gruppo di Orazio Duvia ed alla Jelly Wax di Renato Pent.
Dal dossier di Greenpeace, emergono quindi chiaramente il ruolo non secondario svolto da Orazio Duvia – che con le sue società (prima la Sistemi Ambientali e poi la Ipodec) gestiva la discarica di Pitelli in provincia di La Spezia, porto di partenza della Jolly Rosso, poi M/N Rosso, con Camillo Meoli (manager della Syntal Italia srl, Asti Ambiente srl MC srl e MB srl), altro importante anello della rete e con Giulio Bensaja, altro terminale della rete ODM, amministratore di Celtica Ambiente. Duvia, prima dell’inchiesta della magistratura (partita il 28 ottobre 1996 dalla procura della Repubblica di Asti, Pubblico ministero Franco Tarditi) su Pitelli aveva partecipazioni in almeno 15 società attive nella raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti, oltre a quelle citate, nella Contenitori Trasporti di Duvia.
Il WWF Italia, Sezione Liguria e Legambiente Liguria, presenta il 15 luglio 1997 nel corso di un’audizione alla Prefettura di Genova alla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse il dossier “Rifiuti Connection Liguria”, allegando anche la versione in italiano (aggiornata al settembre 1997) del dossier di Greenpeace “La Rete”. Del dossier “Rifiuti Connection Liguria” e dei suoi numerosi allegati come risulta. dagli atti della Commissione, fu richiesta la secretazione. Nei documenti prodotti il 15/7/1997 veniva ipotizzato un ruolo centrale della Liguria e in particolare del porto di La Spezia, porto di provenienza della M/N Rosso, oggetto dell’inchiesta del settimanale L’Espresso, nel traffico internazionale via terra e via mare di rifiuti.
In particolare nel dossier si ipotizzava che nelle oltre 15 discariche autorizzate e non e nelle oltre 35 cave poste a corona dell’area di La Spezia si svolgessero attività difficilmente controllabili tali da far sospettare, come poi venne accertato nel caso della discarica consortile di Valle Scura e della discarica di Pitelli, attività di interramento o di instradamento via mare di rifiuti pericolosi e radioattivi.
Nel dossier emerge il ruolo centrale di Duvia nella gestione della discarica di Vallescura (il Pretore di La Spezia condanna i componenti del CdA per gravi reati ambientali nel 1993 e poi nel 1994) tramite la Valtec, partecipata anche dalla Termomeccanica, e della discarica di Pitelli, gestita tramite la Sistemi Ambientali e poi la Ipodec (tutte e due società di Duvia) su cui è ancora aperta un’inchiesta prima dalla magistratura astigiana, poi trasferita per competenza alla magistratura spezzina per disastro ambientale. L’udienza preliminare si è conclusa con l’assoluzione o la dichiarazione di intervenuta prescrizione per alcuni imputati e con il rinvio a giudizio degli altri, tra cui Duvia, per i reati di disastro ambientale, avvelenamento delle acque, corruzione e falso ideologico. Alcuni imputati di corruzione avevano già definito la propria posizione richiedendo il giudizio abbreviato, concluso con la derubricazione del reato e l’applicazione della prescrizione. La prossima udienza è già fissata nell’autunno di quest’anno.
Dal dossier del WWF e di Legambiente, emergono anche i legami di Duvia, attraverso la sua Contenitori Trasporti con al società di brokeraggio Ekoground, coinvolta nei traffici illeciti di rifiuti via mare verso la Nigeria.
Inoltre, nel dossier “Rifiuti Connection Liguria” si ricorda che la rilevanza del fenomeno delle navi a perdere era ben nota alla Commissione bicamerale sui rifiuti. Infatti, nella relazione conclusiva dell’11/3/1996 della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti, come riportato nel dossier, proprio in riferimento alle indagini avviate nel 1994 dalla magistratura di Reggio Calabria sulla M/N Rosso, si parla esplicitamente delle “navi a perdere, che si ipotizza siano state utilizzate per l’affondamento di rifiuti radioattivi” nel Mar Mediterraneo e in particolare a largo delle coste ioniche e calabresi o “lungo tratti di mare antistanti…paesi africani come la Somalia, la Sierra Leone e la Guinea” e del ruolo di Comerio.
Nel dossier si ricorda come sempre nella stessa relazione conclusiva del 1996 della Commissione esprima: “la sua più viva preoccupazione per tutta una serie di episodi che meritano immediati approfondimenti e che fanno sospettare anche in presenza di ex uomini di Governo, dell’interesse che alcuni paesi dell’UE avrebbero per possibili forme di smaltimento illecito di rifiuti pericolosi o radioattivi. Si segnala, in particolare l’esistenza, documentalmente provata, di intense attività di intermediazione poste in essere dai titolari di queste presunte attività di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi e la Somalia, paese notoriamente al centro di intensi traffici illegali di ogni tipo”.
A proposito del dossier “Rifiuti Connection Liguria”, consegnato il 15 luglio 1997 in occasione dell’audizione resa dalle associazioni nella Prefettura di Genova, nel primo periodo della “Relazione Liguria e Piemonte” del 2 luglio 1998 della Commissione Parlamentare sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, votata all’unanimità, si rilevava a proposito del dossier consegnato il 15 luglio 1997 che “La puntualità ed il dettaglio delle informazioni contenute nel citato rapporto, unitamente ad altri elementi in possesso della Commissione ed ai primi riscontri con le autorità giudiziarie della Regione, hanno indotto la Commissione medesima ad avviare un’approfondita indagine su tutto il territorio regionale”.
Sempre il WWF Italia, infine, il 23 febbraio 2004 ha presentato istanza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Paola per il riconoscimento quale persona offesa nel procedimento penale per l’accertamento dei reati in materia ambientale relativi all’incidente della nave ex Jolly Rosso oggi Motonave Rosso, verificatosi in data 14 dicembre 1990, nel tratto costiero compreso tra Amantea e Campora San Giovanni.
3. I nuovi documenti istituzionali
A proposito dello spiaggiamento della motonave Rosso e alle analogie fra questa vicenda ed altre relative allo smaltimento in mare di rifiuti radioattivi o pericolosi nel Mediterraneo, si legge: Dalle indagini eseguite dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia sulle cause ‘spiaggiamento’ della nave, o meglio del suo “non riuscito” affondamento, risulta una similitudine con le modalità che hanno visto come protagonisti gli equipaggi delle motonavi già menzionate ;
Sempre con riferimento alla vicenda della Rosso e alle indagini in corso si afferma quanto segue: Nel corso delle indagini, volte a verificare la fondatezza di un presunto traffico di rifiuti tossici è stato evidenziato un ulteriore scavo nella zona di Serra D’Aiello, comune limitrofo ad Amantea, da parte delle maestranze della nave. Questa notizia ha assunto un particolare interesse poiché era già stato autorizzato l’interramento nella discarica comunale di Grassullo dell’agro Amantea, del carico ufficiale di bordo. Presso la procura di Paola le indagini sono ancora in corso in quanto anche sulla base di riprese videoamatoriali, acquisite dallo stesso ufficio, risulta che al momento dell’incidente la nave ‘galleggiava’ e, solo in fase successiva,, presentava un’apertura sulla fiancata;
Riguardo inoltre al contesto in cui si svolgono i traffici internazionali via mare di rifiuti ed armi e al ruolo di faccendieri quali Giorgio Comerio, il Ministro dichiara: “Evidenti segnali di allarme si sono colti in alcune vicende giudiziarie da cui è emersa una chiara sovrapposizione tra queste attività illegali ed il traffico d’armi. (…) Numerosi elementi indicavano il coinvolgimento nel suddetto traffico di soggetti istituzionali di governi europei ed extraeuropei, nonché di esponenti della criminalità organizzata e di personaggi spregiudicati, tra cui il noto Giorgio Comerio, faccendiere italiano al centro di una serie di vicende legate alla Somalia ed alla illecita gestione degli aiuti della Direzione generale per la cooperazione e lo sviluppo”;
Rispetto ai collegamenti tra la vicenda della Jolly Rosso, poi motonave Rosso, e i traffici gestiti da Giorgio Comerio, nell’atto in questione si legge quanto segue: “Le indagini avviate dalla magistratura calabrese nel 1994 su alcuni affondamenti sospetti nel Mediterraneo e, in particolare, lungo le coste calabresi e ioniche, hanno evidenziato un ruolo chiave del faccendiere Giorgio Comerio, in contatti con noti trafficanti di armi e coinvolto anche nella fabbricazione di telemine destinate a Paesi come l’Argentina. Da un’attenta analisi di documenti è emerso un imponente progetto per lo smaltimento in mare di rifiuti radioattivi con la scelta di vari sirti che, nel pianeta ed anche nel mare Mediterraneo, avrebbero accolto i pericolosi rifiuti, In particolare il Comerio, peraltro noto trafficante d’armi, aveva in animo di modificare una nave RO-RO (le stesse navi utilizzate per affondare le scorie radioattive), precisamente la Jolly Rosso, per la costruzione di particolari ordigni (le telemine) o per l’alloggiamento e lancio dei penetratori. Successivamente il LLOYD di Londra appurava che la ‘Rosso’ si era spiaggiata nel dicembre del 1990 (…). Dai registri dei Lloyds si rileva, infatti, che numerose sono le navi affondate in modo sospetto nel Mediterraneo. Tra queste assumono particolare rilievo, oltre alla ‘Rigel’, la motonave ASO, affondata il 16 maggio 1979 a largo di Locri, carica di 900 tonnellate di solfato ammonico, la motonave Michigan, carica di granulato di marmo, affondata il 31 ottobre 1986 nel mar Tirreno. Fortemente sospetto è anche l’affondamento della ‘Four Star I’, battente bandiera dello Sri Lanka, con carichi vari, affondata il 9 dicembre 1988 in un punto neppure noto dello ionio meridionale, durante il viaggio da Barcellona ad Antalya (Turchia). Per quanto riguarda la motonave ‘Rosso’ (ex ‘Jolly Rosso’ – famosa per essere la ‘nave dei veleni’), risulta che doveva essere adattata alla costruzione delle ‘telemine’, o alla collocazione ed al lancio dei “penetratori” contenenti i rifiuti delle centrali nucleari di tutti i paesi europei con i quali, lo stesso Comerio, ha trattato e concluso contratti di smaltimento”.
4. L’inchiesta del settimanale L’Espresso
sia il titolare della ditta che si occupò della demolizione della M/N Rosso, Nunziante Cannevale, sia un sommozzatore incaricato dal Registro Navale Italiano (RINA) dichiarano di non aver rinvenuto alcuna falla nella fiancata della nave spiaggiata. Ulteriore riprova viene fornita anche dalle riprese contenute in una videocassetta amatoriale realizzata a Formiciche nei giorni immediatamente successivi all’incidente, acquisita agli atti dalla Procura di Paola;
lo stesso Cannevale riferisce ai carabinieri che le ditte intervenute prima della demolizione incomprensibilmente aprono in una fase successiva, dopo lo spiaggiamento della Rosso, uno squarcio enorme sulla fiancata sinistra non visibile da terra e questi rilevano che tale apertura è servita ”per fare uscire dalla stiva qualcosa di importante e voluminoso” ;
nel 1991 viene chiamata dalla Compagnia Ignazio Messina la società olandese Smit Tak “società specializzata in bonifiche a seguito di incidenti radioattivi”, secondo quanto attestato dal procuratore capo di Reggio Calabria, Franco Scuderi davanti alla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti. Società, che secondo un rapporto dei carabinieri, rinuncia dopo 17 giorni all’incarico;
sembrerebbero esistere testimonianze rese alla Procura di Paola che attesterebbero l’interramento illegale dei rifiuti provenienti dalla Rosso in almeno due diverse località (località Grassullo, comune di Amantea, provincia di Cosenza e in località Foresta, comune di Serra D’Aiello, provincia di Cosenza);
Giuseppe Bellantone, comandante in seconda della Capitaneria di Vibo Valentia, ha testimoniato che già il 15 dicembre 1990, ad un giorno dallo spiaggiamento, a bordo del relitto della M/N Rosso si sarebbero presentati “agenti dei servizi segreti” ed è lui stesso a rinvenire sulla plancia della motonave documenti che a suo dire, come riporta il settimanale L’Espresso: “richiamavano la natura della radioattività ed erano introdotti dalla sigla ODM” ossia Oceanic Disposal Management Inc., società creata da Giorgio Comerio, nato a Busto Arsizio (Varese) nel 1945;
tra le carte che sarebbero state rinvenute sulla plancia della M/N Rosso, secondo quanto attestato dal procuratore capo di Reggio Calabria Scuderi, c’era pure una mappa marittima con evidenziati una serie di siti. La stessa documentazione, mappa compresa (pubblicata sulle pagine dell’Espresso), è nella disponibilità dalla magistratura di Paola. La mappa riporta una lunga lista di nomi di navi affondate nel Mediterraneo;
il ruolo di Comerio negli affari legati alla vicenda delle “navi a perdere” vengono confermati dal procuratore Capo di Reggio Calabria e dagli stessi atti della Commissione bicamerale dei rifiuti del 1996 (come abbiamo già visto) e, come riportato nell’inchiesta giornalistica dell’Espresso, e nella Relazione della stessa Commissione del 25 ottobre 2000 in cui lo stesso viene indicato come “il faccendiere italiano al centro di una serie di vicende legate alla Somalia”;
Renato Pent, definito dagli inquirenti, come riportato dall’Espresso, “noto trafficante di rifiuti tossico-nocivi” ha parlato di accordi tra Comerio e i governi austriaco e svizzero;
secondo la testimonianza resa ai carabinieri nel 1995 da Maria Luigia Giuseppina Nitti, sua compagna dal 1986 al 1993, Giorgio Comerio “verso la fine del nostro rapporto mi esternò di appartenere ai servizi segreti”, nonché di vendere armi a vari Governi tra cui quelli brasiliano e argentino e di avere contatti con ambienti mafiosi;
a proposito dei legami tra Comerio e La Società di navigazione Ignazio Messina nel servizio del settimanale l’Espresso viene riportato che in una nota informativa i carabinieri scrivono: “La Società Ignazio Messina imbarca presso il porto di Napoli e presso altri porti del Sud merci pericolose e rifiuti radioattivi con destinazione sconosciuta…Per quanto riguarda la parte (delle indagini) riferita ai rifiuti radioattivi, un ruolo importante è assunto da Giorgio Comerio… (La Ignazio Messina risulta inoltre) collegata a importanti personaggi legati a Giorgio Comerio, e precisamente Gastone Molaschi, socio del Comerio per il progetto ODM. Nel corso di perquisizioni effettuate presso l’abitazione di Molaschi, oltre ad avere trovato la documentazione sulla Rosso identica a quella rinvenuta al Comerio, veniva acquisita importante documentazione circa continui traffici internazionali di armi tra Paesi esteri, nonché varie tecnologie anche militari a servizio di altri Stati”;
a proposito delle connessioni tra i traffici denunciati nel servizio giornalistico e la vicenda di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, come riportato dall’Espresso che riferisce: “Un lavoro investigativo con al centro ‘affondamento di una serie di navi avvenuto nei mari Tirreno e Jonio, ma che al suo interno racchiude molteplici ragioni d’allarme. Il sospetto degli inquirenti è che a bordo di quelle navi ci fossero rifiuti tossici e radioattivi, e che attorno a questa vicenda, legata a nazioni europee e non, si sia mossa una rete impressionante di faccendieri, trafficanti d’armi e agenti dei servizi segreti, uomini di governo e mafiosi. Tutti connessi da affari che in alcuni passaggi si incrociano con la Somalia e gli eventi che il 20 marzo 1994 sono costati la vita alla giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e all’operatore Miran Hrovatin”.
Viene riportato nel prosieguo del testo dell’indagine giornalistica de L’Espresso uno stralcio della relazione conclusiva dell’11/3/1996 della Commissione bicamerale sui rifiuti in cui proprio in relazione al ruolo di Comerio e al “suo progetto ODM” la Commissione segnala, come riportato dall’Espresso “l’esistenza, documentalmente provata di intense attività di intermediazione poste in essere tra i titolari di queste presunte attività di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi e la Somalia (…)” sottolineando le coincidenze con il caso Alpi/Hrovatin.
5. Le dieci richieste di Legambiente e WWF Italia
Legambiente e WWF Italia sono preoccupate, innanzitutto, per la situazione in cui è costretta ad operare la procura della Repubblica di Paola: due dei tre agenti di polizia giudiziaria che erano stati assegnati dal sostituto procuratore Francesco Greco alle indagini relative alla vicenda della motonave Rosso sono stati riassegnati alle loro originarie funzioni. Alla Procura in questione andrebbe, al contrario, garantito il massimo supporto possibile, anche attraverso l’immediata ricomposizione del nucleo investigativo di Polizia giudiziaria e il suo rafforzamento.
Al di là degli aspetti relativi alle indagini giudiziarie ancora in corso, Legambiente e WWF Italia hanno rivolto dieci proposte specifiche alle diverse Commissioni parlamentari che a vario titolo possono svolgere un ruolo attivo in questa vicenda.
Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse
1) approfondire in maniera esauriente quanto già conosciuto e paventato da stessa Commissione sin dal 1996 in relazione all’esistenza di una rete internazionale per il traffico illecito di rifiuti speciali pericolosi e radioattivi via mare;
2) verificare quali e quanti altri procedimenti, a partire da quello in svolgimento a Paola, o indagine giudiziarie siano in corso per fatti inerenti o comunque collegabili alle vicende del traffico internazionale di rifiuti;
3) chiedere alla Presidenza del Consiglio, per quanto di sua competenza relativamente ai compiti di Protezione Civile, al Ministero dell’Interno e al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio di compiere un’indagine nelle acque territoriali italiane per individuare i relitti delle “navi a perdere” e, quindi, metterle in sicurezza, procedendo laddove possibile al recupero del relitto e alla bonifica delle aree eventualmente contaminate;
4) impegnarsi affinché sia garantito il massimo sostegno possibile, di uomini e mezzi, alla procura della Repubblica di Paola, a cominciare dal reintegro del personale di Pg destinato ad altre attività, con serie ripercussioni sulle indagini in corso;
5) chiedere al Ministro degli Interni o al Ministero degli Esteri, se non registrato nel territorio nazionale, ogni intervento utile per far oscurare il sito web di ODM ancora oggi attivo, (www.tinet.ch/odm01/start-2.html , mentre la sede legale risulta essere in via Landriani 7 6900 a Lugano – Svizzera).
Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare:
6) condurre un approfondimento per verificare su scala nazionale e internazionale quali sia stato il ruolo della criminalità organizzata nelle attività di traffico illecito via mare di rifiuti radioattivi e pericolosi (valorizzando in tal senso l’ottimo lavoro di analisi già svolto dalla Direzione investigativa antimafia) e di come questi traffici si intreccino con il traffico di armi;
Comitato Parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di stato
7) verificare lo stato di conoscenza presso i servizi d’informazione e sicurezza dei presunti traffici illeciti di rifiuti riconducibili alle vicende segnalate in questo dossier nonché ai personaggi coinvolti (in particolare Giorgio Comerio) e più in generale al fenomeno delle cosiddette “navi a perdere”;
Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin
8) assumere gli scenari descritti nel servizio giornalistico de L’Espresso per l’attività di indagine relativa alla vicenda oggetto dell’attività della Commissione stessa;
9) acquisire tutti i materiali utili alla verifica delle presunte attività di smaltimento illegale di rifiuti avvenute al largo delle coste della Somalia nonché durante i lavori di realizzazione della strada Garoe-Bosaso, in particolare le immagini satellitari relative all’epoca dei lavori e dei presunti affondamenti in mare, già denunciati alla commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti (vedi punto successivo);
10) appurare cosa risulti alla Commissione bicamerale sui rifiuti sulla vicenda Alpi/Hrovatin in relazione a quanto accennato nel servizio giornalistico citato e che riportiamo testualmente quale estratto dalla Relazione Conclusiva dell’11/3/1996. In detta Relazione (con riferimento alle segnalazioni di attività sospette di occultamento in mare di container a Bosaso, pervenute all’ufficio Unicef, all’Ufficio del dipartimento della Nazioni Unite, e all’ufficio OMS, tutti con sede a Bosaso) viene rilevato: “Peraltro la Commissione ritiene doveroso segnalare un’altra coincidenza: proprio nell’area in questione, e in particolare a Bosaso, ha svolto i suoi ultimi servizi televisivi prima di essere uccisa la giornalista della RAI Ilaria Alpi, impegnata secondo quanto emerso finora, in un’inchiesta giornalistica relativa a presunti traffici d’armi. Non si tratta peraltro dell’unica coincidenza emersa al riguardo nelle attività di indagine tutt’ora in corso”.
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Estratti da http://www.caffeeuropa.it del 05.10.2009
– “La svolta”, e prima è stato ospite di Lucia Annunziata: “Se cadesse Berlusconi dovremmo andare ad elezioni anticipate? O non sarebbe meglio unire le forze sane e responsabili di questo Paese per raddrizzare l’economia, per mettere una tregua ai veleni? Per evitare le prove di forza, più che un governo politico, serve un governo che affronti i problemi economici e istituzionali e faccia le riforme”. Alla domanda su chi potrebbe farne parte, Rutelli non fa nomi. Ma su Montezemolo dice: “E’ il presidente della Fiat e ora non può impegnarsi in politica, ma da molti mi aspetto un contributo di idee”.
– E’ necessario puntare sul fatto che l’Afghanistan ha potenti vicini come il Pakistan, l’India, la Cina, la Russia e l’Iran: ciascuno di essi viene minacciato da un Afghanistan – base del terrorismo ed ha la capacità di difendere i propri interessi. Il vertice di Paesi limitrofi dell’Afghanistan proposto dal Segretario di Stato americano insieme agli alleati della Nato potrebbe trovare una soluzione e “cancellare tentazioni miopi di trarre beneficio dall’imbarazzo degli avversari”.
– Ieri il capo dell’Agenzia Internazionale per l’energia atomica si è recato in Iran per concordare il calendario delle ispezioni al nuovo impianto nucleare di Qom. Secondo La Repubblica ha voluto smentire indiscrezioni della stampa americana, ma anche ricomporre gli attriti in seno all’Agenzia: “L’Iran – ha detto – si è ormai impadronito della tecnologia dell’arricchimento, è in grado di produrre combustibile nucleare”, “ma restano ancora alcune domande sulle intenzioni iraniane e per questo le ispezioni andranno avanti”. Il 25 ottobre l’Iran aprirà le porte del sito di Qom all’Aiea. Nei giorni scorsi il New York Times aveva dato spazio ai malumori all’interno della Aiea nei confronti di El Baradei, giudicato troppo conciliante. Ieri intanto in Iran la Guida Suprema Khameney ha promosso a capo della milizia dei Bassidji il generale che ha coordinato la repressione durante le manifestazioni contro i brogli elettorali.
Secondo il Corriere della Sera a Washington si comincia a pensare di aver sottostimato le capacità iraniane e ci si chiede quanti altri impianti segreti simili a quelli di Qom hanno realizzato in questi anni. Il quotidiano parla anche del viaggio segreto a Mosca del premier israeliano Netanyahu nei giorni scorsi, che avrebbe presentato al Cremlino una lista di scienziati russi impegnati nel progetto di ricerca iraniano.
Sul Corriere della Sera, Focus su “L’Iran e le nuove rotte delle armi”, secondo cui i fucili e i proiettili iraniani arrivano via nave in Africa, e da lì proseguono via terra verso Gaza. Gli Usa temono che il binomio Hezbollah Iran possa infiltrarsi in alcuni Stati africani dove vivono comunità sciite. Gli iraniani hanno incontrato nel periodo 2008-2009 i governi di Kenya, Gibuti, Tanzania, Eritrea e Sudan per firmare accordi bilaterali di ogni tipo e mettere radici.
– In una intervista al Corriere della Sera George Papandreu, leader del Partito socialista greco Pasok e vincitore delle elezioni di domenica, illustra cosa intende fare da premier: “lotta durissima alla corruzione”, “garantire lavoro ai giovani”, “aiutare i disoccupati, combattere il nero sommerso, creare una più equa politica fiscale; puntare su una economia verde”. Pensa che ci sia un futuro per il socialismo democratico? “Sì, decisamente, ma socialismo deve diventare anche e soprattutto trasparenza”.
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E la destra, in Grecia, è ora la quarta forza.
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Napolitano non aveva alternative 05.10.2009
CARLO FEDERICO GROSSO
Lo scudo fiscale approvato dal Parlamento, politicamente, è molto criticabile: un regalo inaccettabile a chi ha evaso le tasse trafugando illegalmente denari all’estero e che, ora, potrà farli rientrare puliti in Italia versando pochi spiccioli.
E’ tuttavia, altresì, grave che un politico di prima fila si sia permesso di attaccare con accuse inaccettabili il Presidente della Repubblica che, promulgando la legge, non ha fatto altro che esercitare, legittimamente, il suo potere. Di fronte allo sconcerto della gente che ha assistito all’incredibile polemica, credo sia opportuno cercare di fare, sommessamente, chiarezza in punto di diritto.
Partiamo dal dato di fatto. Il Presidente, ricevuto il testo della legge, lo ha promulgato. Una decisione, a mio parere, giuridicamente corretta. La Costituzione prevede che le leggi siano promulgate dal Presidente della Repubblica (art. 73) e soggiunge che egli, prima di promulgarle, può con messaggio motivato chiedere una nuova deliberazione, ma una volta soltanto. Se le Camere approvano nuovamente la legge, essa dev’essere comunque promulgata (art. 74). È pacifico che questa disciplina non attribuisce al Presidente nessun potere di veto all’entrata in vigore di una legge.
Nella prassi costituzionale per qualche tempo si è ritenuto che i Presidenti potessero motivare anche soltanto politicamente le loro eventuali richieste di una nuova lettura parlamentare. A partire dalla Presidenza Ciampi si è cominciato a ritenere che le richieste presidenziali di una nuova deliberazione dovessero invece essere ancorate a profili ritenuti di manifesta, clamorosa illegittimità costituzionale.
Il vaglio di costituzionalità
Profili «manifesti», «clamorosi», poiché nel nostro sistema giuridico il vaglio di costituzionalità delle leggi non compete al Capo dello Stato ma alla Corte Costituzionale.
Nel caso di specie, al di là delle possibili critiche politiche, si deve comunque escludere l’esistenza di un «vistoso» profilo di illegittimità costituzionale. Vi sarebbe palese illegittimità se la prevista esclusione della responsabilità penale per determinati reati dovesse essere considerata, nella sostanza, una amnistia (le leggi di amnistia devono essere infatti approvate dai due terzi dei componenti delle Camere, cosa che nel caso di specie non è avvenuto). Ma ciò deve essere escluso. Meccanismi analoghi di condono penale collegato al rientro di capitali dall’estero sono già stati utilizzati in passato dal nostro Paese, senza che la Corte Costituzionale sia mai intervenuta per dichiarare la loro illegittimità (essa, anzi, ha più di una volta escluso che in tali casi si potesse parlare di amnistia). La non punibilità dei reati, nella legge sullo scudo fiscale, è stata circoscritta ai casi in cui non sia già iniziato un processo penale; l’amnistia, invece, ha sempre coinvolto anche reati per i quali era già in corso un processo o vi era già stata, addirittura, una condanna.
La valutazione del Capo dello Stato
Passiamo ora a valutare il contenuto della legge. Un giudizio politico negativo non può condizionare, di per sé, la valutazione di un Capo dello Stato in sede di promulgazione. Perché possa essere ragionevolmente prospettata una ipotesi di messaggio motivato alle Camere devono essere riscontrati profili che rendano il contenuto della legge del tutto irragionevole.
La legge sullo scudo fiscale prevede una «copertura» penale ampia. Se si segue il suo iter legislativo, si scopre che il suo impianto originario è stato comunque modificato. Originariamente era stato previsto che la documentazione relativa al rimpatrio del denaro non potesse essere utilizzata quale prova a carico in nessun processo penale pendente o futuro. Il che avrebbe di fatto impedito l’accertamento di reati di ogni specie, anche gravissimi, come il riciclaggio, il traffico di droga, l’associazione a delinquere, l’omicidio e via dicendo. Una vera assurdità.
L’inutilizzabilità dei documenti è stata tuttavia successivamente, anche per l’intervento del Capo dello Stato, circoscritta ai processi amministrativi, civili e tributari non ancora aperti, mentre il loro impiego come prova di reato è stato consentito in tutti i processi penali pendenti o futuri. Nello stesso tempo si è mantenuto l’obbligo degli intermediari finanziari di segnalare le operazioni sospette, neutralizzando i ripetuti tentativi del governo di eliminarlo a tutela degli evasori. L’ambito della copertura penale è stato circoscritto ai settori, sia pure estesi, dei reati tributari e di quelli strumentali all’evasione fiscale, come i falsi materiali e i falsi in bilancio. I profili più evidenti di illegittimità costituzionale sono stati, peraltro, eliminati.
Su questa base bloccare la legge in sede di promulgazione non era né semplice né, probabilmente, consentito. Piuttosto, se fra le pieghe della legge dovessero emergere, in futuro, profili di illegittimità, a pronunciarsi dovrà essere la Corte Costituzionale, come prevede la Costituzione.
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Montanelli e le colpe della generazione che fece il lungo viaggio attraverso il fascismo 05.10.2009
di Dino Messina
C’è una scena madre nell’inatteso e inedito ritratto autobiografico di Indro Montanelli che la casa editrice Le Lettere manda in libreria domani nella collana Il salotto di Clio con il titolo “Le passioni di un anarco conservatore” (prefazione di Francesco Perfetti, pagine 88, € 9,50). È l’episodio centrale per capire la vita e la visione storica che del Novecento ebbe il nostro maggiore giornalista. Arrivato in Svizzera attraverso la frontiera di Bellinzona, nell’agosto 1944, dopo l’evasione dal carcere di San Vittore per fuggire dalla condanna a morte, venne accolto con grande freddezza nel circolo dei fuorusciti. «In quella fine del 1944 i tempi erano davvero duri, soprattutto in Italia, e capisco che anche i fuorusciti avessero i nervi a fior di pelle. Mi trattarono con sospetto, qualcuno addirittura si spinse ad accusarmi di “apologia di fascismo”. A me, che avevo appena rischiato la pelle, quell’accusa giunse davvero inaspettata. Poi capii: erano loro che non capivano, non potevano, che noi giovani, da soli, avevamo fatto nascere, dal di dentro del fascismo, un altro antifascismo, ben diverso da quello di quanti erano andati in esilio».
Questa confessione è il nucleo centrale della lunga e appassionante intervista, che ci restituisce un Montanelli in tutto il suo stile e carattere, realizzata da Marcello Staglieno nel maggio 2000. Quel dialogo doveva fare da introduzione ai “Diari 1945-1950” di un’altra grande penna del Novecento, Giovanni Ansaldo, con cui Montanelli aveva collaborato alla redazione di «Omnibus», nella casa editrice Longanesi e nell’avventura del primo «Borghese», quando un gruppo di intellettuali inseguiva il sogno di una destra normale. Una destra che aveva come numi tutelari Quintino Sella e Max Weber. Niente a che fare con la linea missina che il settimanale avrebbe poi assunto sotto la direzione di Mario Tedeschi. Dopo aver fatto la lunga intervista e averla sottoposta anche all’approvazione del figlio di Ansaldo, Giovanni Battista, Montanelli si tirò indietro, ricordando una norma del contratto che lo legava alla Rizzoli: non poteva pubblicare per altri editori testi memorialistici. Così pregò l’amico Staglieno, che per anni aveva diretto le pagine culturali del suo «Giornale», di lasciar perdere. L’intervista rimase inedita e i “Diar” di Ansaldo uscirono nel 2003 dal Mulino con un singolare testo introduttivo: la memoria scritta che lo stesso Ansaldo aveva reso alla polizia italiana, quando fu arrestato al ritorno in Italia dalla prigionia in Germania.
«Il tempo delle chimere» aveva definito Ansaldo il primo quinquennio del secondo dopoguerra. Montanelli condivide il giudizio dello scrittore e giornalista genovese, che reputa il principe dei memorialisti. Un conservatore che era arrivato al fascismo quando questo era diventato regime e si era identificato con lo Stato, dopo un’iniziale opposizione dalle colonne della «Rivoluzione Liberale» e il confino nel 1927 nell’isola di Lipari. Un fascista atipico, come lo era diventato, per motivi e in modi diversi, il più giovane Montanelli.
Attraverso il racconto dell’amicizia con Ansaldo («perenne conservatore» che faceva soggezione allo stesso Mussolini), con Berto Ricci, di cui era stato collaboratore al gruppo dell’«Universale» dove si coltivava l’utopia di un «italiano nuovo», e soprattutto con il geniale Leo Longanesi («esempio — rarissimo in Italia — di uomo indipendente», «fosse stato vivo nel ’74, non ho dubbi che a dirigere “il Giornale” sarebbe stato lui»), Montanelli traccia la propria autobiografia. Dalla giovanile adesione al fascismo e all’avventura in Africa, da cui nacque “XX battaglione eritreo”, alla precoce disillusione per il regime, poi testimoniata in “Qui non riposano”. Che Montanelli non fosse proprio in linea con la retorica di regime lo aveva dimostrato già nella corrispondenza per il «Messaggero» dalla Spagna, definendo la battaglia di Santander «una lunga passeggiata militare con un solo nemico: il caldo». Una battuta che gli costò la radiazione dal Pnf, ma che non interruppe la sua carriera, grazie soprattutto alla stima del direttore del «Corriere della Sera», Aldo Borelli. Il primo servizio per il «Corriere» fu dall’Albania, ribattezzata «Granducato di Toscana» per via degli «investimenti che vi avevano fatto Ciano, Benini e altri fascisti livornesi». Poi i viaggi in Estonia, Lettonia, Lituania, Finlandia durante il conflitto con l’Urss («le mie corrispondenze da Helsinki, tutte a favore dei finlandesi, entusiasmarono gli italiani»), Norvegia e Svezia. «A Stoccolma — racconta Montanelli — unico straniero invitato a un banchetto di giornalisti anglo-francesi per festeggiare l’avvento al potere del “giornalista” Churchill, ricevetti una proposta che avrebbe potuto cambiarmi il destino: lascia l’Italia, rifugiati a Londra e collabora alla propaganda antifascista… Rifiutai e non me ne pento: anche se poi, dopo i rimproveri ricevuti in Svizzera nel 1944, a Milano a fine giugno 1945 qualcuno che era venuto con gli americani a bombardare le città italiane ebbe la faccia tosta di rinfacciarmelo…».
Torniamo alla scena madre in Svizzera davanti «al Sant’Uffizio di stampo azionista»: «Ch’io fossi scampato alla fucilazione nazista poco importava, avevo il difetto di esistere, di essere generazionalmente cresciuto nel ventennio. E nessuno voleva certo ricordare, in quello strisciante neoconformismo, che io mai gradito alla gerarchia fascista, non lo ero stato soprattutto durante la Repubblica di Salò».
In una puntuale appendice all’intervista, Marcello Staglieno contesta i sospetti avanzati da alcuni biografi del grande giornalista sulla reale esistenza della sentenza di condanna a morte e sull’effettiva presenza di Montanelli in piazzale Loreto il 29 aprile 1945, come testimone della «macelleria messicana». Veleni, cui rispondono i documenti.
http://lanostrastoria.corriere.it/2009/10/montanelli-e-le-colpe-della-ge.html
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Da Rossana rossana@comodinoposta.org per la lista neurogreen il 05.10.2009
Un’epidemia di suicidi in France Telecom
Anche sull’Internazionale di questa settimana si parla della catena di suicidi fra i lavoratori dell’azienda francese.
Oggi si sa che questa si è decisa a trattare con i sindacati.
Certo non è un fenomeno solo francese e neanche solo europeo ma mondiale (Cina, India, Giappone, ecc.).
The public health effect of economic crises and alternative policy responses in Europe: an empirical analysis
http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736%2809%2961124-7/fulltext
Liberation di ieri mandava un articolo a proposito di un incontro con responsabili della gestione risorse umane : I direttori delle risorse umane sono dei mostri?
Alla domanda su che cosa ne pensassero dell’ondata di suicidi fra i lavoratori, ci sono state più risposte: – La questione dei suicidi è rivelatrice del fatto che non si considera più l’essere umano – Il suicidio è una forma di rabbia che non hatrovato una dimensione collettiva – La gente ha tendenza a ripiegarsi su se stessa -.
Pare che queste frasi non abbiano convinto e allora si è passati alla responsabilità dei sindacati: – Sono sempre meno presenti – .
Ma ancora non va bene e allora si discute del ruolo dei mass media : C’è un rischio di contagio. Argomento mediatico dunque.
Uno si arrabbia e dice: “Non ho ascoltato una spiegazione soddisfacente sul nostro fallimento. Non si parla dell’organizzazione del lavoro. E dunque :“Vedendo la storia dell’uomo che si è pugnalato a France Télécom, ci si
chiede: si è dei mostri? Non si potrà più prendere alcuna decisione? -.
Nuovo suicidio a France Telecom: sono 24 in 18 mesiI dipendenti sono sottoposti a pressioni sempre più forti per essere più produttivi, subiscono trasferimenti del posto di lavoro e la devalorizzazione delle competenze. Il tutto in un periodo in cui, con la valutazione individuale, si sono rotte le solidarietà tradizionali, scatenando una lotta di tutti contro tutti sul luogo di lavoro http://mir.it/servizi/ilmanifesto/franciaeuropa/?p=328
24 suicidi dopo, France Telecom ci ripensa
http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=132319
http://www.liberation.fr/vous/0101594332-suicide-au-travail-les-drh-sont-ils-des-monstres
Crisi e disoccupazione influenzano suicidi e criminalità
Per ogni aumento dell’uno per cento del tasso di disoccupazione, si ha in media un incremento dello 0,8 per cento nei suicidi, ma calano gli incidenti stradali
“Alcuni effetti negativi della Grande Depressione – scrivono gli autori – si sono manifestati solo 5 anni dopo la crisi delle banche fra le fine degli anni Venti e i primi anni Trenta. Vi è quindi il timore che la
crisi attuale possa avere effetti di lunga durata; anche una volta che i mercati si siano ripresi, non è detto che le persone si riprendano dai timori e dai comportamenti a essi associati.”
http://iriospark.splinder.com/post/20919619
La Cina scopre la disoccupazione venti milioni tornano
Nelle campagneTra allievi e professori, da gennaio, si registra un boom di suicidi. Liu Wei, laureanda in informatica nello Hebei, ha lasciato un diario. La sua testimonianza, diffusa in internet, è diventata lo specchio del dramma nascosto dalle autorità. “Mi vergogno – si legge – perché i miei hanno fatto grandi sacrifici per non ridurmi a seguire la loro fine. Ora non possono più pagare la mia retta e io non troverò un lavoro per mantenerli”. Si è uccisa per 70 euro al mese.
http://www.repubblica.it/2009/08/sezioni/esteri/cina-disoccupazione/cina-disoccupazione/cina-disoccupazione.html
Giappone: allarme suicidi per crisi economica
http://www.instablog.org/ultime/52415.html
Uttar Pradesh, depressioni e suicidi fra i tessitori di seta a causa
della crisi economica
http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=14191
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È morto Giugni, padre dello Statuto dei Lavoratori 05.10.2009
Amava definirsi un socialista ‘turatiano’ per sostanziare l’essere un ‘riformista’ attento al mondo del lavoro, ai diritti sindacali in fabbrica e, a partire dagli Anni 60, a quelli della programmazione economica e dell’avvio del primo centro-sinistra, alle ricette economiche in grado di favorirne l’emancipazione e il benessere. Gino Giugni non è stato solo l’estensore della legge 300 del 1970, che sancì, con l’art.18, il licenziamento per giusta causa, e che fu opera dell’iniziativa del Ministro del Lavoro, il socialista, Giacomo Brodolini, cui si aggiunse negli anni ’80 la legge sull’autoregolamentazione dei diritto di sciopero, ma anche il fautore della politica di concertazione, da cui vennero gli accordi triangolari dell’83 e dell’84
Il mondo della politica e del lavoro in lutto per la scomparsa di Gino Giugni. Colui che era universalmente considerato il padre dello Statuto dei lavoratori – si è spento a Roma a 82 anni in seguito a lunga malattia. Era nato il primo agosto del 1927 a Genova. Laureato in giurisprudenza, Giugni è stato sia avvocato che docente di diritto del lavoro, insegnando alla Università di Bari, all’Università di Roma La Sapienza e alla LUISS Guido Carli. Dottore honoris causa alle Università di Buenos Aires e di Nanterre, ha insegnato a Parigi e Los Angeles, ed è stato presidente dell’Accademia europea di diritto del lavoro.
Il giuslavorista ha avuto un ruolo fondamentale nella stesura della legge n. 300 del 20 maggio 1970 sulle “norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, ovvero del provvedimento noto come “Statuto dei lavoratori”, alla cui stesura lavorò con Giuseppe De Rita, Giuseppe Tamburrano, Federico Mancini, Ubaldo Prosperetti, Luciano Spagnuolo Vigorita, Antonio Francois D’Harmant, Luciano Ventura e Nino Freni. Una vera e propria rivoluzione, un passo epocale e probabilmente la battaglia più grande vinta dai lavoratori. Tutto è cambiato con l’introduzione della legge 300 del ’70: dalle condizioni di lavoro, ai rapporti con i datori fino alle rappresentanze sindacali.
Negli anni ’80 Giugni ha presieduto le commissioni ministeriali per la riforma delle liquidazioni e sul costo del lavoro. Il 3 maggio 1983 è stato vittima di un attentato delle Brigate rosse che ha portato alla “gambizzazione” del giuslavorista come primo atto di una rinnovata strategia terroristica di attacco ai “tecnici” piuttosto che alle grandi figure istituzionali come Aldo Moro. Nello stesso anno Giugni entra al Senato nelle file del Psi e diventa presidente della commissione per il lavoro, incarichi che confermerà anche dopo le elezioni successive del 1987. Dal 1993 al 1994 è presidente del PSI e nello stesso arco di tempo diviene ministro del Lavoro del governo Ciampi.
Negli ultimi anni ha ricoperto tra l’altro la carica di presidente della Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Aveva aderito al Pd di Walter Veltroni. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato un messaggio alla famiglia del giuslavorista: “Pagò il suo impegno democratico – ha scritto il Capo dello Stato – con la vile aggressione del terrorismo brigatista che colpì gravemente il suo fisico. Gino Giugni, al quale sono stato legato da una larga comunanza di idee e da una schietta amicizia personale, resta esempio di appassionata dedizione allo stato democratico e di assoluta coerenza e integrità. Sono vicino con affetto al dolore dei famigliari”. Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, ha annunciato che dedicherà a Giugni una delle sedi del ministero del Lavoro.
“Gino Giugni – ha detto – lascia un grande vuoto. E’ stato protagonista dello sviluppo sociale dal dopoguerra e padre, insieme con Brandolini, dello Statuto dei lavoratori, ministro e presidente della commissione Lavoro del Senato”.
Dario Franceschini, segretario del Partito democratico, ha commentato: “Padre dello Statuto dei lavoratori, uomo attento e acutissimo capace di non perdere mai di vista i cambiamenti nel mondo del lavoro, equilibrato e coraggioso: con Gino Giugni se ne va un vero riformista. Lo Statuto che porta la sua firma è uno dei grandi passaggi della modernizzazione e della crescita sociale del nostro Paese. Per questo la sua scomparsa ci addolora e colpisce. Esprimo alla sua famiglia, ai suoi collaboratori la vicinanza mia personale e quella di tutto il Pd”. “La notizia della scomparsa di Gino Giugni – ha ricordato Tiziano Treu, senatore del Pd – suscita dolore autentico e profondo. Io personalmente e tutti lo ricordiamo come il maestro che fin dal dopoguerra ha segnato con il suo impegno e la sua intelligenza la storia dei temi sociali e del lavoro nel nostro Paese. Gino Giugni ha, direttamente e indirettamente, contribuito a quelle riforme che hanno ispirato e permeato una politica del Lavoro autenticamente riformista nella quale ancora oggi il Pd si riconosce. Anche per questo gli siamo riconoscenti ed esprimiamo alla sua famiglia cordoglio e amicizia per la perdita di un grande uomo”.
Il ritratto. Non gli bastava dirsi socialista, amava aggiungere ‘turatiano’ per sostanziare l’essere un ‘riformista’ attento al mondo del lavoro, ai diritti sindacali in fabbrica e, a partire dagli Anni 60, a quelli della programmazione economica e dell’avvio del primo centro-sinistra, alle ricette economiche in grado di favorirne l’emancipazione e il benessere. Gino Giugni non è stato così solo l’estensore della legge 300 del 1970, lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, che sancì, con l’art.18, il licenziamento per giusta causa, e che fu opera dell’iniziativa del Ministro del Lavoro, il socialista, Giacomo Brodolini, cui si aggiunse negli anni ’80 la legge sull’autoregolamentazione dei diritto di sciopero, ma anche il fautore della politica di concertazione, da cui vennero gli accordi triangolari dell’83 e dell’84. E’ stato una delle “teste d’uovo” negli Anni 60 con gli economisti Giorgio Ruffolo e Paolo Sylos Labini, il giurista Giuliano Amato, di quel gruppo di esperti che lavorarono alla “programmazione economica” ideata da Riccardo Lombardi e portata avanti dal Ministro del Bilancio, Antonio Giolitti.
Vicino alle tre confederazioni sindacali, alla Cgil di Di Vittorio e Santi, poi alla Cisl di Pierre Carniti, alla Uil di Giorgio Benvenuto, ebbe un grosso feeling ideale ed umano con Bruno Trentin e Pierre Carniti. Questa sua attività, pressoché quotidiana di individuare le migliori soluzioni alla tutela dei diritti dei lavoratori – la contrattazione nazionale e aziendale – con le modifiche imposte dai cambiamenti, lo espose a bersaglio delle Brigate Rosse che lo gambizzarono nel marzo 1983: si salvò per una questione di millimetri, un proiettile sfiorò appena la vena femorale. Imperterrito e animato “dalla pazienza certosina – lo ripeteva spesso – caratteristica del riformista turatiano”, lavorò nel silenzio e nell’ombra alla stesura del testo dell’accordo di San Valentino dell’84 che la Cgil non firmò e per lui fu una vera ‘sorpresa’.
Poi il giorno in cui (27 marzo 1985) uno dei più stretti collaboratori, l’economista Ezio Tarantelli, teorico della predeterminazione dei punti di contingenza e della concertazione, fu ucciso dalle Br, nel suo studio, in via Livenza, assieme ad altri intellettuali, come Tiziano Treu, stava confezionando l’appello per il referendum sull’accordo separato voluto e perso dal leader del Pci, Enrico Berlinguer.
E’ stato anche Senatore, nel 1983, e presidente della Commissione Lavoro del Senato, poi dall’aprile ’93 al maggio ’94 fu Ministro del Lavoro. “La politica è un fare per gli altri, per i più deboli, per i lavoratori – era il suo motto – una missione che richiede per me una dose di certosina pazienza, perché appartengo alla razza riformista turatiana e non sono solo un socialista”.
Alla “certosina pazienza” del ‘riformista turatiano’, Giugni abbinava uno stile di vita sobrio e riservato, mai al di sopra delle righe: le invettive o la dichiarazione irruenta e minacciosa non gli appartenevano.
Era uno dei pochi per i quali valeva la definizione ‘socialisti ministri’ e non ‘ministri socialisti’. Per cui poteva fare o il Ministro del Lavoro o il Presidente di una Commissione, o il titolare della Cattedra di Diritto del Lavoro, o fondare una rivista come ‘Lavoro Informazione’, senza che ciò cambiasse il suo stile di vita, il suo modo d’essere.
“La legge 300 del 1970, lo statuto dei lavoratori, non è uno strumento invecchiato, né superato: semmai va aggiornato in alcune parti, senza per questo esser radicalmente cambiato”: era questa la sua opinione. “Esso, lo statuto, ha introdotto regole di civiltà. I principi di esso vanno salvaguardati e non esito a dire che – aggiungeva – questi principi sono intangibili”. A giudizio di Giugni lo statuto va rivisitato in quattro direzioni: “la non adattabilità nelle imprese minori, rispetto alla struttura normativa concepita per la grande impresa; la mutabilità delle mansioni; l’esigenza di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, in mancanza della quale si può determinare uno squilibrio tra condizioni di iperprotezione e di sottoprotezione; il rapporto nuovo con le tecnologie sofisticate”. Insomma, il principio del licenziamento senza giusta causa, l’art. 18, deve restare un principio a tutela della dignità del lavoratore.
Alla domanda un po’ provocatoria: ma il Pci nel 1970 si astenne perché lo riteneva un cedimento ai padroni, per poi a distanza di trent’anni fare le barricate sull’art. 18, rispondeva: “nel Pci c’erano molti che in silenzio e nell’ombra hanno lavorato per la sua realizzazione per cui al riformista turatiano si richiede sempre una certosina pazienza per far maturare le situazioni”.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13074
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La privatizzazione dei servizi pubblici locali
Sergio Marotta – 05 Ottobre 2009
Il 9 settembre scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato l’ennesima riforma dei servizi pubblici locali. L’intervento precedente risaliva a poco più di un anno fa quando, all’inizio di agosto del 2008, all’ultimo minuto, era stato inserito nella manovra anticrisi del ministro Tremonti l’art. 23 bis con il quale si intendeva riprendere il percorso di privatizzazione.
Il nuovo intervento viene ora a modificare alcuni commi dell’art. 23 bis della legge 133 del 2008 che si sono rivelati di incerta applicazione al punto che, nonostante la forte volontà politica espressa dal Governo, il ministro per gli Affari regionali non era riuscito ad emanare il regolamento attuativo nel termine di centottanta giorni fissato dalla norma.
L’art. 15 del decreto legge varato il 9 settembre, da un lato, torna a ribadire che i servizi pubblici locali dovranno essere affidati al mercato – salvo casi del tutto eccezionali nei quali si potrà ancora procedere ad affidamenti diretti a società a capitale pubblico –, dall’altro, stabilisce dettagliatamente le modalità di cessazione delle vecchie gestioni di servizi pubblici locali affidate senza gara. E ciò con l’intento di disciplinare, in modo puntuale, la fine di tutte le gestioni pubbliche le cui radici storiche risalgono alla prima legge sui servizi municipalizzati voluta da Giolitti all’inizio del Novecento.
In più il decreto torna a proporre, come ordinaria modalità di affidamento dei servizi, anche quello a società mista pubblico/privata che in Italia ha dato pessima prova di sé e che, anche per questo, era stato almeno temporaneamente accantonato dal provvedimento del 2008[1].
La nuova riforma dovrebbe costituire, nelle intenzioni del Governo, il completamento del processo di liberalizzazione e privatizzazione iniziato negli anni Novanta attraverso l’introduzione dei principi del libero mercato nel settore dei servizi pubblici locali dove ancora sopravvivono residuali gestioni giuspubblicistiche.
È del tutto evidente che ad essere penalizzate dalla riforma saranno soprattutto le regioni del Sud dove il processo di esternalizzazione ‘forzata’ dei servizi pubblici di interesse generale – imposto agli enti locali dalle leggi Bassanini e completato dal secondo governo Berlusconi con l’art. 35 della finanziaria per il 2002 – era stato realizzato con maggiore lentezza nel corso degli anni Novanta mentre si era del tutto bloccato negli ultimi tempi. Ciò è avvenuto a causa della debolezza finanziaria delle imprese pubbliche venute fuori dalla trasformazione delle ex aziende speciali che nel Sud non sono certo un modello di efficienza e di economicità. Ma la differenza tra Nord e Sud è stata determinata soprattutto dal fatto che sulle amministrazioni pubbliche del Mezzogiorno grava l’ulteriore difficoltà di dover assicurare servizi essenziali in un territorio ancora afflitto da complessi problemi sociali e in grave ritardo nello sviluppo economico.
Così se nel resto del Paese le ex municipalizzate, trasformate dapprima in aziende speciali e poi in società per azioni, sono diventate moderne multiutility che producono utili per i Comuni proprietari; nel Sud, al contrario, le s.p.a. pubbliche continuano a dover affrontare notevoli problemi di efficienza e di economicità e, invece di produrre utili, finiscono per assorbire costantemente nuove risorse finanziarie pubbliche.
Da un punto di vista più generale si può senz’altro affermare che la crisi economica più grave dopo quella del ’29, mentre ha sconvolto le politiche liberiste imperanti costringendo gli Stati ad intervenire in modo massiccio per il salvataggio delle banche e delle grandi industrie, non ha cambiato di una virgola le strategie del Governo italiano sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali. D’altra parte l’esecutivo di centrodestra non fa che continuare sulla strada già intrapresa dal centrosinistra imponendo in modo del tutto artificioso la liberalizzazione del mercato dei servizi pubblici locali che è costituito, nella maggior parte dei casi, da monopoli naturali[2].
Il Governo, inoltre, sembra deciso a proseguire la battaglia tutta ideologica contro il cosiddetto «socialismo municipale». Tale locuzione, mentre nella sua originaria accezione indicava la necessità che i Comuni e in generale gli enti pubblici locali facessero gravare sui propri bilanci le spese per assicurare servizi essenziali che il mercato non era in grado di fornire, viene oggi utilizzata per indicare la tendenza degli enti pubblici locali a mantenere la proprietà delle società per azioni venute fuori dalla trasformazione delle ex municipalizzate. Così se i Comuni ricavano utili, in forma di dividendi azionari, dall’attività delle loro aziende che forniscono servizi pubblici in regime di monopolio naturale e li utilizzano per le spese delle comunità locali, ciò assume una accezione del tutto negativa alla luce dei principi del liberismo economico. Tanto che i vertici di Confindustria hanno più volte sollecitato la fine di questo moderno «socialismo municipale» con un ragionamento che si può così riassumere: se la gestione dei servizi pubblici locali produce profitti, questi non possono essere appannaggio esclusivo delle casse dei Comuni proprietari ma devono essere lasciati al mercato.
L’accordo raggiunto in Consiglio dei ministri tra Calderoli e Fitto sulla riforma dei servizi pubblici locali, tuttavia, non sembra rimuovere del tutto le ultime sacche di «socialismo municipale» dal momento che tende a stabilire un compromesso in base al quale le grandi multiutility del Nord e del Centro quotate in borsa potranno conservare le gestioni loro affidate senza gara e mantenere la possibilità di acquisire la gestione di servizi pubblici locali al di fuori dei loro ambiti territoriali, a patto che i Comuni proprietari compiano il “sacrificio” di ridurre al 30 per cento la propria quota di controllo. Gli enti pubblici locali che vorranno conservare il controllo sulle loro società dovranno cedere le quote eccedenti «attraverso procedure ad evidenza pubblica ovvero forme di collocamento privato presso investitori qualificati e operatori industriali» entro il 31 dicembre 2012. Se scontro politico ci sarà al momento della conversione del decreto dipenderà, soprattutto, dalle forze che i Comuni del Centro-Nord riusciranno a mettere in campo per difendere le proprie prerogative. D’altro canto è chiaro che le ex municipalizzate del Centro-Nord pur essendo ormai divenute colossi industriali operanti sui mercati internazionali, fondano pur sempre la loro solidità finanziaria sui flussi di cassa derivanti proprio dalla gestione di servizi pubblici locali nei loro ambiti territoriali originari ottenuta quasi sempre senza gara in forza di un affidamento diretto da parte degli enti pubblici proprietari. Pertanto, paradossalmente, mentre nel Centro-Nord più ricco le s.p.a. a controllo pubblico, nella maggior parte dei casi, potranno mantenere ancora le gestioni cosiddette in house fino alla loro scadenza naturale – con buona pace del libero mercato e con la prospettiva di partecipare successivamente alle prime gare per la gestione del servizio originariamente gestito –, nel Sud non resterà altro che la gara pubblica, il ricorso a società miste ovvero il tardivo ricorso alla gestione in house. Tra l’altro l’accesso a quest’ultima modalità di gestione è stato reso ancor più arduo dalla necessità del parere preventivo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato[3].
Quel che è certo è che quest’ulteriore spinta verso la privatizzazione non porterà alcun vantaggio per le bollette delle famiglie italiane, come è peraltro ampiamente dimostrato dal fallimento delle privatizzazioni dei grandi servizi pubblici di livello nazionale, e finirà per penalizzare ulteriormente le regioni del Mezzogiorno destinate a diventare mercati di conquista per le imprese pubbliche e private del resto del Paese e per le multinazionali del settore.
[1] L’occasione per riproporre la formula della società mista è stata presumibilmente fornita dalla Comunicazione interpretativa della Commissione sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI) [2008/C 91/02 – Gazzetta ufficiale C 91 del 12.4.2008]. Il Legislatore italiano sancendo la necessità di una gara che abbia come «oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio» e una partecipazione minima del privato non inferiore al 40 per cento sembra, infatti, volersi orientare verso forme di partenariato pubblico privato istituzionalizzato in cui il socio privato deve essere necessariamente un partner industriale dal momento che il semplice conferimento di capitali non sarebbe sufficiente a costituire un PPPI.
[2] L’ex ministro per gli Affari regionali del governo Prodi, Linda Lanzillotta, in diverse interviste e dichiarazioni pubbliche ha sempre ribadito che l’obiettivo del suo governo non era quello di privatizzare ma di introdurre nel mercato dei servizi «elementi di concorrenza che determinino efficienza e qualità. Tante società pubbliche hanno partecipato a gare, a volte le hanno anche vinte. Il punto è applicare il meccanismo della concorrenza anche nei monopoli naturali: energia, trasporto, rifiuti. Far emergere il gestore più efficiente, in modo che i comuni responsabili di garantire i servizi ai cittadini si occupino anzitutto di definire e monitorare lo standard più adeguato al servizio» (intervista a «La Stampa», 7 novembre 2006).
[3] A giudizio di chi scrive anche nella nuova versione il parere dell’Antitrust continua ad avere la natura di parere non vincolante.
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