Cameron chiede scusa per il Bloody Sunday 16.06.2010
di Leonardo Maisano
LONDRA – Sui muri del Bogside non lo cancellerà mai nessuno. L’immagine di un prete che scuote un fazzoletto macchiato, che chiede la tregua sventolando la morte, agitando in aria il bianco della pace offeso dal rosso delle violenza. Padre Edward Daly, il 30 gennaio del 1972 quando a Londonderry si consumò il Bloody Sunday con quattordici morti, falciati da un reparto di paracadutisti britannici, aveva 39 anni, era il sacerdote della cattedrale di St Eugene e mai avrebbe pensato di diventare icona di un giorno storico per l’Irlanda del nord. Era lui a mostrare quello straccio con il sangue di Jackie Duddy, 17 anni, colpito per le vie del Bogside dove oggi resta il murale e dove ieri una città intera, o quasi, ha festeggiato. Ad applaudire c’era la fetta che chiama Londonderry solo Derry, mutilandola dell’odiato prefisso, London, la fetta cattolica della comunità. E, forse, non solo quella.
Applaudiva alle parole di un primo ministro conservatore, catarsi umana e politica dell’Ulster che si è consumata 38 anni dopo la domenica di sangue. In migliaia, hanno salutato David Cameron che appariva ai Comuni ed era proiettato su uno schermo immenso, issato in Guildhall square. Gigantesco e strabordante, ma fermo, Cameron, nel dire «I am sorry, deeply sorry», per una tragedia che ieri è stato riconosciuto atto «del tutto ingiustificato e ingiustificabile».
Ad esprimere quel giudizio adottato dal premier è il rapporto Saville, l’inchiesta ordinata da Tony Blair e depositata ieri. Dodici anni di indagini, 2.500 testimonianze, 160 volumi di prove e 195 milioni di sterline dopo, il Regno Unito ha capito che quella domenica di fine gennaio i paracadutisti britannici avevano perso la testa sparando per le vie di Londonderry su migliaia di partecipanti a una marcia pacifica di cattolici che chiedevano il rispetto dei diritti umani. I troubles, gli scontri, erano già cominciati da tempo, cattolici e protestanti erano due comunità quantomai divise dalla condizione sociale più che dalla religione, dalle opportunità più che dalla fedeltà, o meno, alla corona. Erano gli anni di Bernadette Devlin che giovanissima deputata dell’Ulster repubblicano prese a pugni il ministro dell’Interno, Reginald Mauding, per la sua ricostruzione dei fatti di Londonderry. Non erano ancora arrivati gli anni di Bobby Sands e dei militanti dell’Ira che si lasciarono morire di fame nel carcere di Maze.
A saldare quelle due epoche della storia nord irlandese c’è una sola data: il 30 gennaio 1972, il Bloody Sunday. Per questo quanto è accaduto ieri con la presentazione del rapporto Saville, con le scuse di Cameron e con quelle, lette in diretta, del generale Mike Jackson che era fra i paracadutisti impegnati a Londonderry, in Gran Bretagna ha risolto un caso eterno e una menzogna infinita.
Il rapporto Saville ha stabilito che non fu dato altolà ai civili, nessun soldato fu provocato da lanci di pietre o bottiglie molotov, alcuni furono uccisi mentre stavano scappando o mentre aiutavano altre vittime, numerosi soldati dichiararono il falso e via così con infiniti dettagli che danno tutte le colpe all’esercito. Un rapporto «shocking» per usare le parole di Cameron. «Un grande giorno», per Gerry Adams, leader dello Sinn Fein, un po’ meno per il suo vice e vicepremier dell’Ulster, Martin Mc Guinness.
Il rapporto Saville sostiene che c’era anche lui quel giorno a Londonderry con imbracciata una mitraglietta per nome e per conto dell’Ira. Per anni si era detto che proprio Mc Guinness era stato il comandante dei “provos” di Londonderry. Ieri ha negato di aver mai avuto armi, ma il rapporto Saville non lo accusa di violenza. Anche da parte sua, nonostante l’arma in mano, non ci sarebbe stata provocazione. Scettica, molto scettica, la parte politica protestante che con lo Sinn Fein condivide un difficile governo a Belfast. «Il rapporto non dice – ha dichiarato il deputato unionista Jeffrey Donaldson – che cosa faceva quel giorno l’Ira».
Scintille di una disputa che si potrebbe riaccendere? Difficile immaginarlo, ma le conseguenze del rapporto Saville rischiano di essere destabilizzanti per l’equilibrio politico delle contee nell’angolo nord orientale dell’isola d’Irlanda. Dipenderà molto dal seguito. Se cioè il rapporto farà da prologo ad indagini penali per incriminare i responsabili. L’avvocato che ha difeso gli interessi dei soldati lo ha escluso, contestando l’inchiesta nella forma e nella sostanza. Il seguito di oggi resta, quindi, un’incognita, la certezza è solo che quel giorno «quando l’inferno occupò la città», come disse padre Daly, ha ora una dinamica precisa, con i nomi dei colpevoli al fianco degli innocenti. Consolazione, magra consolazione, per i parenti delle vittime.
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Costituzione usata come scusa 16.06.2010
IRENE TINAGLI
Al di là dello scontro quasi ideologico che si solleva ogni volta che si tocca la Costituzione, ciò che colpisce del dibattito sull’articolo 41 è la tesi che questo articolo sia ciò che ha frenato e frena la competitività italiana e che, modificandolo, l’Italia possa tornare a competere sui mercati internazionali. Ma è davvero così? E’ vero che la competitività di un Paese dipende dalla sua Carta costituzionale? Questa è la domanda che dovremmo porci in questo momento. In questa prospettiva è interessante andare a guardare le classifiche internazionali sulla competitività e scoprire che i Paesi più competitivi del mondo hanno alle spalle Costituzioni, modelli di Stato e di governo completamente diversi l’uno dall’altro.
In vetta alle classifiche troviamo infatti Paesi di tradizioni liberali e liberiste, come gli Stati Uniti. Ma anche Paesi di tradizione social-democratica, come la Svezia e la Danimarca, così come troviamo democrazie parlamentari e presidenzialiste, Stati unitari e Stati federali, repubbliche e monarchie. Già da queste riflessioni sorge quindi più di un ragionevole dubbio. Il dubbio che forse la competitività dipenda da altri fattori. Ed infatti è così.
La competitività – che altro non è che la capacità di crescere nel lungo periodo – è legata ad altro. Si tratta chiaramente di una molteplicità di fattori, ma tre in particolare sono fondamentali: un sistema della ricerca e dell’istruzione moderno e competitivo, una pubblica amministrazione funzionale e trasparente, ed un sistema fiscale e redistributivo efficiente ed equo, che supporti il lavoro e gli investimenti. Investimenti non solo materiali ma anche e soprattutto immateriali, a partire proprio da quelli in ricerca, istruzione e formazione. E’ così che si crea un circolo virtuoso: una forza lavoro preparata e competitiva e un sistema di imprese che fa leva su tale capitale umano per generare innovazione e crescita.
Certamente mantenere questi investimenti e questo ciclo virtuoso in tempi di crisi non è facile, ma non impossibile. Basta guardare la Germania, che, pur dando alla luce una manovra finanziaria durissima con i tagli più pesanti dalla Seconda Guerra Mondiale, ha lasciato intatti tutti gli investimenti in istruzione e ricerca, dando mostra di una lungimiranza e di una prospettiva strategica invidiabili. L’Italia invece non solo ha tagliato pesantemente scuola, formazione, università e ricerca, ma non è stata nemmeno capace di portare fino in fondo alcune riforme avviate da questo stesso governo che avrebbero perlomeno dato un contributo a quei cambiamenti strutturali necessari per un eventuale reinvestimento futuro.
La riforma dell’Università è ancora ferma, rallentata non solo dai tanti emendamenti ma anche dall’evidente priorità data ad altri provvedimenti, dai vari Lodo Alfano fino all’ultimo provvedimento sulle intercettazioni, sui quali sono state spese molte più energie.
La riforma della pubblica amministrazione di Brunetta è stata in pratica mutilata dall’ultima manovra del governo che, per introdurre il blocco dei salari nel pubblico impiego, ha di fatto congelato (anche se non formalmente sospeso) tutta la parte della riforma che avrebbe introdotto un po’ di meritocrazia, valutazione e responsabilità nella pubblica amministrazione. Di riforma fiscale invece è stato quasi tabù parlare fino ad oggi. Adesso viene rispolverata, ma posta come subordinata alla più alta questione della «libertà di impresa» e alla modifica della Carta costituzionale. Creando un po’ di confusione sulle finalità di tale provvedimento, facendo quasi credere che questo articolo impedisca la creazione d’impresa. Non solo non è cosi, ma la creazione d’impresa, di per sé, non è un problema per il nostro Paese. In Italia si fa già abbastanza impresa, non a caso abbiamo una densità imprenditoriale tra le più alte d’Europa (circa 66 imprese ogni 1000 abitanti, contro 22 della Germania, 39 della Danimarca, e 40 della Francia).
Il problema delle imprese italiane è un altro: è la difficoltà di crescere avendo a che fare con una pubblica amministrazione lenta ed inefficiente, con una fiscalità complessa e penalizzante per chi davvero investe in innovazione e ricerca, e la difficoltà a trovare giovani (giovani veri, non quarantenni) preparati e ben formati sul mercato del lavoro. Questi sono i veri problemi delle imprese, e la modifica dell’articolo 41 non servirà a cambiare molto questo stato di cose. Anche la semplificazione della complessità normativa, la razionalizzazione di autorizzazioni e controlli può essere realizzata subito, senza modifiche costituzionali. D’altronde, è proprio questo governo che ha istituito il ministero per la Semplificazione normativa. Ed è proprio quel ministro, il senatore Calderoli, che pochi mesi fa si è fatto immortalare armato d’ascia e fiamma ossidrica mentre dava fuoco alle 375 mila tra leggi e regolamenti abrogati dal suo ministero. Viene naturale chiedersi come mai tra tutte quelle migliaia di leggi non ce ne fosse nemmeno una che sia servita a rendere più semplice la vita delle imprese e dei cittadini, tanto che oggi siamo ancora a parlare di normativa asfissiante.
Ecco, potremmo ripartire da lì, dal rilancio di una semplificazione normativa più mirata e selettiva, in modo da andare più incontro alle esigenze di aziende e cittadini. E da una riorganizzazione delle procedure e degli adempimenti burocratici per le imprese, per esempio realizzando in modo capillare su tutto il territorio gli sportelli unici per le attività produttive, istituiti per legge dodici anni fa ma nella realtà ancora largamente incompiuti, o, quando esistenti, raramente accompagnati dalle necessarie semplificazioni amministrative e dalla necessaria formazione del personale. Per realizzare tutto questo non è necessario creare una nuova Costituzione. Magari un nuovo ministro sì, potrebbe servire, visto che il ministro per le Attività produttive si è dimesso quasi due mesi fa e ancora non si è trovato un sostituto.
Insomma, se l’obiettivo è rilanciare la competitività del nostro Paese, investire tempo ed energie per modificare la Costituzione potrebbe non essere la strategia più efficace. Ci sono molte altre cose più incisive e fattibili subito che possono servire assai meglio a questo scopo. Se poi l’obiettivo è un altro, allora è un altro discorso.
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Manovra, le regioni dicono No
Paola Di Fraia, 15.06.2010
I governatori contro il governo:”Ha scritto la Finanziaria senza consultarci. A rischio il federalismo fiscale”. I presidenti delle autonomie accusano: “Contro la Costituzione: ci tolgono i soldi ma non le funzioni”. I tagli avranno ricadute pesanti sul sistema territoriale. Formigoni: “E’ insostenibile”. Vendola, annuncia 100 cantieri per il lavoro e lo sviluppo della sua Regione
Un no unanime quello dei governatori delle Regioni italiane alla fine della Conferenza che comprende anche le province autonome. Il documento parla di mancata condivisione delle misure adottate dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti che pesano sugli enti locali per oltre il 50% del loro bilancio.
“La manovra è stata costruita dal governo senza condivisione né sulle misure né sull’entità del taglio, riproponendo una situazione di assenza di coinvolgimento diretto”.
Il mancato coinvolgimento, in realtà, si riferisce allo scarso margine di manovra lasciato agli amministratori con pesanti tagli in bilancio. Per i trasporti la Lombardia si vedrebbe costretta a tagliare 100 milioni per la sola ATM di Milano, la Puglia 214 milioni; la Toscana perderebbe 200 milioni per le infrastrutture pubbliche di viabilità; altri 41 milioni in meno in Puglia per l’edilizia residenziale pubblica; un po’ ovunque tagli all’istruzione, ambiente e agricoltura, per cui a sentirne il peso sarebbero soprattutto le piccole e medie imprese, perché i fondi Fas (Fondi per le Aree Disagiate) vengono tagliati.
Per questo i governatori insistono: “Sostanzialmente si riducono i margini della riforma del federalismo fiscale, è un problema gravissimo”.
Anche in questo caso dietro al malcontento per la mancata applicazione dei criteri previsti con la riforma federalista si nasconde l’insofferenza verso il ministro Tremonti che tutto sa e tutto dispone senza che vi si possa metter bocca e questa partita, nonostante i vertici blindati della maggioranza su questo o quel tema caro al premier Silvio Berlusconi, non si è mai risolta perché chi tiene i lacci della borsa in questo momento tiene i lacci del governo. Lo stesso Roberto Formigoni, pluripresidente della Regione Lombardia, che tempo fa è stato indicato come possibile successore di Vasco Errani a capo della Conferenza delle Regioni, è lapidario sulla manovra correttiva 2011/2012: “Lanciamo un grido di allarme, la manovra uccide il bambino in culla che è il federalismo, mentre il Paese ne ha assolutamente bisogno; ora si va nella direzione opposta”. E ancora: “Siamo come una famiglia che deve affrontare delle ristrettezze: il padre di famiglia distribuisce su tutti il carico dei tagli ed anche su se stesso: qui invece il padre fa spallucce. Siamo in presenza di un padre sciamannato”.
A spiegare le ragioni degli amministratori insiste anche Vasco Errani: “La nostra posizione è costituzionale. Non segnata da ragioni di schieramento politico. Non è corporativa. Non sta tutelando le risorse delle Regioni ma spiegando che i tagli avranno ricadute pesanti sul sistema territoriale”. “Le Regioni vogliono partecipare e dare il loro contributo alla riduzione dei costi della pubblica amministrazione, all’interno di una manovra che si inquadra in un contesto europeo, tuttavia riteniamo irricevibile e non sostenibile la manovra”.
E proprio ricordando che la cura di rigore a cui le Regioni si sono già sottoposte, esclude il ricorso ad ulteriori sacrifici che si traducono in effetti immediati per la vita dei cittadini, proprio mentre i sondaggi registrano che gli italiani si stanno infine accorgendo della congiuntura economica e sono preoccupati. “Le Regioni hanno ridotto il contributo al debito pubblico del 6%. Lo Stato centrale ha invece incrementato il suo di oltre il 10%”. In questo modo dal 2011 verranno tagliati 4,3 miliardi.
Il governatore della Puglia Nichi Vendola, invece, annuncia oggi 100 nuovi cantieri per il lavoro e lo sviluppo della sua Regione: “Ho proposto 100 cantieri da aprire in cento Comuni prima della fine dell’anno. Abbiamo in corso un approfondimento per fare nelle prossime ore la presentazione di un progetto concreto su questo”.
Il nodo politico che ha accompagnato la presentazione della manovra finanziaria in Consiglio dei Ministri resta quindi intatto anche nel confronto con le Regioni. In gioco non c’è solo la decisione di tagliare posti letto negli ospedali per tenere i conti in ordine, che pure ha ripercussioni gravi sulla qualità della vita dei cittadini, ma anche di come il potere esecutivo e la famosa “catena di comando” decisionale, il governo del fare, come voleva Berlusconi, disponga di che cosa i cittadini potranno o non potranno fare, in base a quello che potranno o meno permettersi, pur pagando le tasse, pur facendo un lavoro onesto. Anche questo è un modo per mettere sì le mani in tasca agli italiani ed incidere sul loro reddito.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=15138
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Lettera degli economisti
lettera aperta – 15 Giugno 2010
LA POLITICA RESTRITTIVA AGGRAVA LA CRISI,
ALIMENTA LA SPECULAZIONE E PUO’ CONDURRE ALLA
DEFLAGRAZIONE DELLA ZONA EURO. SERVE UNA
SVOLTA DI POLITICA ECONOMICA PER SCONGIURARE
UNA CADUTA ULTERIORE DEI REDDITI E
DELL’OCCUPAZIONE
Ai membri del Governo e del Parlamento
Ai rappresentanti italiani presso le Istituzioni dell’Unione europea
Ai rappresentanti delle forze politiche e delle parti sociali
E per opportuna conoscenza al Presidente della Repubblica
La gravissima crisi economica globale, e la connessa crisi della zona euro, non si risolveranno attraverso tagli ai salari, alle pensioni, allo Stato sociale, all’istruzione, alla ricerca, alla cultura e ai servizi pubblici essenziali, né attraverso un aumento diretto o indiretto dei carichi fiscali sul lavoro e sulle fasce sociali più deboli.
Piuttosto, si corre il serio pericolo che l’attuazione in Italia e in Europa delle cosiddette “politiche dei sacrifici” accentui ulteriormente il profilo della crisi, determinando una maggior velocità di crescita della disoccupazione, delle insolvenze e della mortalità delle imprese, e possa a un certo punto costringere alcuni Paesi membri a uscire dalla Unione monetaria europea.
Il punto fondamentale da comprendere è che l’attuale instabilità della Unione monetaria non rappresenta il mero frutto di trucchi contabili o di spese facili. Essa in realtà costituisce l’esito di un intreccio ben più profondo tra la crisi economica globale e una serie di squilibri in seno alla zona euro, che derivano principalmente dall’insostenibile profilo liberista del Trattato dell’Unione e dall’orientamento di politica economica restrittiva dei Paesi membri caratterizzati da un sistematico avanzo con l’estero.
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La crisi mondiale esplosa nel 2007-2008 è tuttora in corso. Non essendo intervenuti sulle sue cause strutturali, da essa non siamo di fatto mai usciti. Come è stato riconosciuto da più parti, questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori. Per lungo tempo questo divario è stato compensato da una eccezionale crescita speculativa dei valori finanziari e dell’indebitamento privato che, partendo dagli Stati Uniti, ha agito da stimolo per la domanda globale.
Vi è chi oggi confida in un rilancio della crescita mondiale basato su un nuovo boom della finanza statunitense. Scaricando sui bilanci pubblici un enorme cumulo di debiti privati inesigibili si spera di dare nuovo impulso alla finanza e al connesso meccanismo di accumulazione. Noi riteniamo che su queste basi una credibile ripresa mondiale sia molto difficilmente realizzabile, e in ogni caso essa risulterebbe fragile e di corto respiro. Al tempo stesso consideriamo illusorio auspicare che in assenza di una profonda riforma del sistema monetario internazionale la Cina si disponga a trainare la domanda globale, rinunciando ai suoi attivi commerciali e all’accumulo di riserve valutarie.
Siamo insomma di fronte alla drammatica realtà di un sistema economico mondiale senza una fonte primaria di domanda, senza una “spugna” in grado di assorbire la produzione.
L’irrisolta crisi globale è particolarmente avvertita nella Unione monetaria europea. La manifesta fragilità della zona euro deriva da profondi squilibri strutturali interni, la cui causa principale risiede nell’impianto di politica economica liberista del Trattato di Maastricht, nella pretesa di affidare ai soli meccanismi di mercato i riequilibri tra le varie aree dell’Unione, e nella politica economica restrittiva e deflazionista dei paesi in sistematico avanzo commerciale. Tra questi assume particolare rilievo la Germania, da tempo orientata al contenimento dei salari in rapporto alla produttività, della domanda e delle importazioni, e alla penetrazione nei mercati esteri al fine di accrescere le quote di mercato delle imprese tedesche in Europa. Attraverso tali politiche i paesi in sistematico avanzo non contribuiscono allo sviluppo dell’area euro ma paradossalmente si muovono al traino dei paesi più deboli. La Germania, in particolare, accumula consistenti avanzi commerciali verso l’estero, mentre la Grecia, il Portogallo, la Spagna e la stessa Francia tendono a indebitarsi. Persino l’Italia, nonostante una crescita modestissima del reddito nazionale, si ritrova ad acquistare dalla Germania più di quanto vende, accumulando per questa via debiti crescenti.
La piena mobilità dei capitali nell’area euro ha favorito enormemente il formarsi degli squilibri nei rapporti di credito e debito tra paesi. Per lungo tempo, sulla base della ipotesi di efficienza dei mercati, si è ritenuto che la crescita dei rapporti di indebitamento tra i paesi membri dovesse esser considerata il riflesso positivo di una maggiore integrazione finanziaria dell’area euro. Ma oggi è del tutto evidente che la presunta efficienza dei mercati finanziari non trova riscontro nei fatti e che gli squilibri accumulati risultano insostenibili.
Sono queste le ragioni di fondo per cui gli operatori sui mercati finanziari stanno scommettendo sulla deflagrazione della zona euro. Essi prevedono che per il prolungarsi della crisi le entrate fiscali degli Stati declineranno e i ricavi di moltissime imprese e banche si ridurranno ulteriormente. Per questa via, risulterà sempre più difficile garantire il rimborso dei debiti, sia pubblici che privati. Diversi paesi potrebbero quindi esser progressivamente sospinti al di fuori della zona euro, o potrebbero decidere di sganciarsi da essa per cercare di sottrarsi alla spirale deflazionista. Il rischio di insolvenza generalizzata e di riconversione in valuta nazionale dei debiti rappresenta pertanto la vera scommessa che muove l’azione degli speculatori. L’agitazione dei mercati finanziari verte dunque su una serie di contraddizioni reali. Tuttavia, è altrettanto vero che le aspettative degli speculatori alimentano ulteriormente la sfiducia e tendono quindi ad auto-realizzarsi. Infatti, le operazioni ribassiste sui mercati spingono verso l’alto il differenziale tra i tassi dcinteresse e i tassi di crescita dei redditi, e possono rendere improvvisamente insolventi dei debitori che precedentemente risultavano in grado di rimborsare i prestiti. Gli operatori finanziari, che spesso agiscono in condizioni non concorrenziali e tutt’altro che simmetriche sul piano della informazione e del potere di mercato, riescono quindi non solo a prevedere il futuro ma contribuiscono a determinarlo, secondo uno schema che nulla ha a che vedere con i cosiddetti ‘fondamentali’ della teoria economica ortodossa e i presunti criteri di efficienza descritti dalle sue versioni elementari.
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In un simile scenario riteniamo sia vano sperare di contrastare la speculazione tramite meri accordi di prestito in cambio dell’approvazione di politiche restrittive da parte dei paesi indebitati. I prestiti infatti si limitano a rinviare i problemi senza risolverli. E le politiche di “austerità” abbattono ulteriormente la domanda, deprimono i redditi e quindi deteriorano ulteriormente la capacità di rimborso dei prestiti da parte dei debitori, pubblici e privati. La stessa, pur significativa svolta di politica monetaria della BCE, che si dichiara pronta ad acquistare titoli pubblici sul mercato secondario, appare ridimensionata dall’annuncio di voler “sterilizzare” tali operazioni attraverso manovre di segno contrario sulle valute o all’interno del sistema bancario.
Gli errori commessi sono indubbiamente ascrivibili alle ricette liberiste e recessive suggerite da economisti legati a schemi di analisi in voga in anni passati, ma che non sembrano affatto in grado di cogliere gli aspetti salienti del funzionamento del capitalismo contemporaneo.
E’ bene tuttavia chiarire che l’ostinazione con la quale si perseguono le politiche depressive non è semplicemente il frutto di fraintendimenti generati da modelli economici la cui coerenza logica e rilevanza empirica è stata messa ormai fortemente in discussione nell’ambito della stessa comunità accademica. La preferenza per la cosiddetta “austerità” rappresenta anche e soprattutto l’espressione di interessi sociali consolidati. Vi è infatti chi vede nell’attuale crisi una occasione per accelerare i processi di smantellamento dello stato sociale, di frammentazione del lavoro e di ristrutturazione e centralizzazione dei capitali in Europa. L’idea di fondo è che i capitali che usciranno vincenti dalla crisi potranno rilanciare l’accumulazione sfruttando tra l’altro una minor concorrenza sui mercati e un ulteriore indebolimento del lavoro.
Occorre comprendere che se si insiste nell’assecondare questi interessi non soltanto si agisce contro i lavoratori, ma si creano anche i presupposti per una incontrollata centralizzazione dei capitali, per una desertificazione produttiva del Mezzogiorno e di intere macroregioni europee, per processi migratori sempre più difficili da gestire, e in ultima istanza per una gigantesca deflazione da debiti, paragonabile a quella degli anni Trenta.
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Il Governo italiano ha finora attuato una politica tesa ad agevolare questo pericoloso avvitamento deflazionistico. E le annunciate, ulteriori strette di bilancio, associate alla insistente tendenza alla riduzione delle tutele del lavoro, non potranno che provocare altre cadute del reddito, dopo quella pesantissima già fatta registrare dall’Italia nel 2009. Si tenga ben presente che sono altamente discutibili i presupposti scientifici in base ai quali si ritiene che attraverso simili politiche si migliora la situazione economica e di bilancio e quindi ci si salvaguarda da un attacco speculativo. Piuttosto, per questa via si rischia di alimentare la crisi, le insolvenze e quindi la speculazione.
Nemmeno si può dire che dalle opposizioni sia finora emerso un chiaro programma di politica economica alternativa. Una maggior consapevolezza della gravità della crisi e degli errori del passato va diffondendosi, ma si sono levate voci da alcuni settori dell’opposizione che suggeriscono prese di posizione contraddittorie e persino deteriori, come è il caso delle proposte tese a introdurre ulteriori contratti di lavoro precari o ad attuare massicci programmi di privatizzazione dei servizi pubblici. Gli stessi, frequenti richiami alle cosiddette “riforme strutturali” risultano controproducenti laddove, anzichè caratterizzarsi per misure tese effettivamente a contrastare gli sprechi e i privilegi di pochi, si traducono in ulteriori proposte di ridimensionamento dei diritti sociali e del lavoro.
Quale monito per il futuro, è opportuno ricordare che nel 1992 l’Italia fu sottoposta a un attacco speculativo simile a quelli attualmente in corso in Europa. All’epoca, i lavoratori italiani accettarono un gravoso programma di “austerità”, fondato soprattutto sulla compressione del costo del lavoro e della spesa previdenziale. All’epoca, come oggi, si disse che i sacrifici erano necessari per difendere la lira e l’economia nazionale dalla speculazione. Tuttavia, poco tempo dopo l’accettazione di quel programma, i titoli denominati in valuta nazionale subirono nuovi attacchi. Alla fine l’Italia uscì comunque dal Sistema Monetario Europeo e la lira subì una pesante svalutazione. I lavoratori e gran parte della collettività pagarono così due volte: a causa della politica di “austerità” e a causa dell’aumento del costo delle merci importate.
Va anche ricordato che, con la prevalente giustificazione di abbattere il debito pubblico in rapporto al Pil, negli anni passati è stato attuato nel nostro paese un massiccio programma di privatizzazioni. Ebbene, i peraltro modesti effetti sul debito pubblico di quel programma sono in larghissima misura svaniti a seguito della crisi, e le implicazioni in termini di posizionamento del Paese nella divisione internazionale del lavoro, di sviluppo economico e di benessere sociale sono oggi considerati dalla piu autorevole letteratura scientifica altamente discutibili.
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Noi riteniamo dunque che le linee di indirizzo finora poste in essere debbano essere abbandonate, prima che sia troppo tardi.
Occorre prendere in considerazione l’eventualità che per lungo tempo non sussisterà una locomotiva in grado di assicurare una ripresa forte e stabile del commercio e dello sviluppo mondiale. Per evitare un aggravamento della crisi e per scongiurare la fine del progetto di unificazione europea è allora necessaria una nuova visione e una svolta negli indirizzi generali di politica economica. Occorre cioè che l’Europa intraprenda un autonomo sentiero di sviluppo delle forze produttive, di crescita del benessere, di salvaguardia dell’ambiente e del territorio, di equità sociale.
Affinchè una svolta di tale portata possa concretamente svilupparsi, è necessario in primo luogo dare respiro al processo democratico, è necessario cioè disporre di tempo. Ecco perchè in via preliminare proponiamo di introdurre immediatamente un argine alla speculazione. A questo scopo sono in corso iniziative sia nazionali che coordinate a livello europeo, ma i provvedimenti che si stanno ponendo in essere appaiono ancora deboli e insufficienti. Fermare la speculazione è senz’altro possibile, ma occorre sgombrare il campo dalle incertezze e dalle ambiguità politiche. Bisogna quindi che la BCE si impegni pienamente ad acquistare i titoli sotto attacco, rinunciando a “sterilizzare” i suoi interventi. Occorre anche istituire adeguate imposte finalizzate a disincentivare le transazioni finanziarie a breve termine ed efficaci controlli amministrativi sui movimenti di capitale. Se non vi fossero le condizioni per operare in concerto, sarà molto meglio intervenire subito in questa direzione a livello nazionale, con gli strumenti disponibili, piuttosto che muoversi in ritardo o non agire affatto.
L’esperienza storica insegna che per contrastare efficacemente la deflazione bisogna imporre un pavimento al tracollo del monte salari, tramite un rafforzamento dei contratti nazionali, minimi salariali, vincoli ai licenziamenti e nuove norme generali a tutela del lavoro e dei processi di sindacalizzazione. Soprattutto nella fase attuale, pensare di affidare il processo di distruzione e di creazione dei posti di lavoro alle sole forze del mercato è analiticamente privo di senso, oltre che politicamente irresponsabile.
In coordinamento con la politica monetaria, occorre sollecitare i Paesi in avanzo commerciale, in particolare la Germania, ad attuare opportune manovre di espansione della domanda al fine di avviare un processo di riequilibrio virtuoso e non deflazionistico dei conti con l’estero dei Paesi membri dell’Unione monetaria europea. I principali Paesi in avanzo commerciale hanno una enorme responsabilità, al riguardo. Il salvataggio o la distruzione della Unione dipenderà in larga misura dalle loro decisioni.
Bisogna istituire un sistema di fiscalità progressiva coordinato a livello europeo, che contribuisca a invertire la tendenza alla sperequazione sociale e territoriale che ha contribuito a scatenare la crisi. Occorre uno spostamento dei carichi fiscali dal lavoro ai guadagni di capitale e alle rendite, dai redditi ai patrimoni, dai contribuenti con ritenuta alla fonte agli evasori, dalle aree povere alle aree ricche dell’Unione.
Bisogna ampliare significativamente il bilancio federale dell’Unione e rendere possibile la emissione di titoli pubblici europei. Si deve puntare a coordinare la politica fiscale e la politica monetaria europea al fine di predisporre un piano di sviluppo finalizzato alla piena occupazione e al riequilibrio territoriale non solo delle capacità di spesa, ma anche delle capacità produttive in Europa. Il piano deve seguire una logica diversa da quella, spesso inefficiente e assistenziale, che ha governato i fondi europei di sviluppo. Esso deve fondarsi in primo luogo sulla produzione pubblica di beni collettivi, dal finanziamento delle infrastrutture pubbliche di ricerca per contrastare i monopoli della proprietà intellettuale, alla salvaguardia dell’ambiente, alla pianificazione del territorio, alla mobilità sostenibile, alla cura delle persone. Sono beni, questi, che inesorabilmente generano fallimenti del mercato, sfuggono alla logica ristretta della impresa capitalistica privata, ma al contempo risultano indispensabili per lo sviluppo delle forze produttive, per l’equità sociale, per il progresso civile.
Si deve disciplinare e restringere l’accesso del piccolo risparmio e delle risorse previdenziali dei lavoratori al mercato finanziario. Si deve ripristinare il principio di separazione tra banche di credito ordinario, che prestano a breve, e società finanziarie che operano sul medio-lungo termine.
Contro eventuali strategie di dumping e di “esportazione della recessione” da parte di paesi extra-Ume, bisogna contemplare un sistema di apertura condizionata dei mercati, dei capitali e delle merci. L’apertura può essere piena solo se si attuano politiche convergenti di miglioramento degli standard del lavoro e dei salari, e politiche di sviluppo coordinate.
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Siamo ben consapevoli della distanza che sussiste tra le nostre indicazioni e l’attuale, tremenda involuzione del quadro di politica economica europea.
Siamo tuttavia del parere che gli odierni indirizzi di politica economica potrebbero rivelarsi presto insostenibili.
Se non vi saranno le condizioni politiche per l’attuazione di un piano di sviluppo fondato sugli obiettivi delineati, il rischio che si scateni una deflazione da debiti e una conseguente deflagrazione della zona euro sarà altissimo. Il motivo è che diversi Paesi potrebbero cadere in una spirale perversa, fatta di miopi politiche nazionali di ”austerità” e di conseguenti pressioni speculative. A un certo punto tali Paesi potrebbero esser forzatamente sospinti al di fuori della Unione monetaria o potrebbero scegliere deliberatamente di sganciarsi da essa per cercare di realizzare autonome politiche economiche di difesa dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione. Se così davvero andasse, è bene chiarire che non necessariamente su di essi ricadrebbero le colpe principali del tracollo della unità europea.
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Simili eventualità ci fanno ritenere che non vi siano più le condizioni per rivitalizzare lo spirito europeo richiamandosi ai soli valori ideali comuni. La verità è che è in atto il più violento e decisivo attacco all’Europa come soggetto politico e agli ultimi bastioni dello Stato sociale in Europa. Ora più che mai, dunque, l’europeismo per sopravvivere e rilanciarsi dovrebbe caricarsi di senso, di concrete opportunità di sviluppo coordinato, economico, sociale e civile.
Per questo, occorre immediatamente aprire un ampio e franco dibattito sulle motivazioni e sulle responsabilità dei gravissimi errori di politica economica che si stanno compiendo, sui conseguenti rischi di un aggravamento della crisi e di una deflagrazione della zona euro e sulla urgenza di una svolta di politica economica europea.
Qualora le opportune pressioni che il Governo e i rappresentanti italiani delle istituzioni dovranno esercitare in Europa non sortissero effetti, la crisi della zona euro tenderà a intensificarsi e le forze politiche e le autorità del nostro Paese potrebbero esser chiamate a compiere scelte di politica economica tali da restituire all’Italia un’autonoma prospettiva di sostegno dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione.
Promotori dell’iniziativa sono Bruno Bosco (Università di Milano Bicocca), Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), Roberto Ciccone (Università Roma Tre), Riccardo Realfonzo (Università del Sannio) e Antonella Stirati (Università Roma Tre).
Adesioni: Nicola Acocella (Università di Roma ‘La Sapienza’), Roberto Artoni (Università Bocconi), Aldo Barba (Università di Napoli ‘Federico II’), Enrico Bellino (Università Cattolica di Milano), Sergio Beraldo (Università di Napoli ‘Federico II’), Paola Bertolini (Università di Modena e Reggio Emilia), Mario Biagioli (Università di Parma), Salvatore Biasco (Università di Roma ‘La Sapienza’), Adriano Birolo (Università di Padova), Giovanni Bonifati (Università di Modena e Reggio Emilia), Bruno Bosco (Università di Milano Bicocca), Paolo Bosi (Università di Modena e Reggio Emilia), Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), Katia Caldari (Università di Padova), Rosaria Rita Canale (Università Parthenope di Napoli), Francesco Carlucci (Università di Roma ‘La Sapienza’), Maurizio Caserta (Università di Catania), Duccio Cavalieri (Università di Firenze), Sergio Cesaratto (Università di Siena), Laura Chies (Università di Trieste), Guglielmo Chiodi (Università di Roma ‘La Sapienza’), Roberto Ciccone (Università Roma Tre), Giorgio Colacchio (Università del Salento), Lilia Costabile (Università di Napoli ‘Federico II’), Francesco Crespi (Università Roma Tre), Carlo Devillanova (Università Bocconi), Carmela D’Apice (Università Roma Tre), Marcello De Cecco (Scuola Normale Superiore di Pisa), Pasquale De Muro (Università Roma Tre), Elina De Simone (Università Orientale di Napoli), Giancarlo De Vivo (Università di Napoli ‘Federico II’), Davide Di Laurea (ISTAT), Amedeo Di Maio (Università Orientale di Napoli), Antonio Di Majo (Università Roma Tre), Fernando Di Nicola (ISAE), Giuseppe Di Vita (Università di Catania), Leonardo Ditta (Università di Perugia), Sebastiano Fadda (Università Roma Tre), Riccardo Faucci (Università di Pisa), Alberto Feduzi (Università Roma Tre), Stefano Figuera (Università di Catania), Massimo Florio (Università di Milano), Giuseppe Fontana (Università del Sannio), Guglielmo Forges Davanzati (Università del Salento), Saverio Fratini (Università Roma Tre), Lia Fubini (Università di Torino), Stefania Gabriele (ISAE), Pierangelo Garegnani (Università Roma Tre), Adriano Giannola (Università di Napoli ‘Federico II’), Andrea Ginzburg (Università di Modena e Reggio Emilia), Enrico Giovannetti (Università di Modena e Reggio Emilia), Claudio Gnesutta (Università di Roma ‘La Sapienza’), Augusto Graziani (Università di Roma ‘La Sapienza’), Andrea Imperia (Università di Roma ‘La Sapienza’), Bruno Jossa (Università di Napoli ‘Federico II’), Paolo Leon (Università Roma Tre), Sergio Levrero (Università Roma Tre), Paolo Liberati (Università Roma Tre), Stefano Lucarelli (Università di Bergamo), Giorgio Lunghini (Università di Pavia), Vincenzo Maffeo (Università di Roma ‘La Sapienza’), Ugo Marani (Università di Napoli ‘Federico II’), Maria Cristina Marcuzzo (Università di Roma ‘La Sapienza’), Ferruccio Marzano (Università di Roma ‘La Sapienza’), Fabio Masini (Università Roma Tre), Giovanni Mazzetti (Università della Calabria), Luca Michelini (Università LUM), Salvatore Monni (Università Roma Tre), Mario Morroni (Università di Pisa), Marco Musella (Università di Napoli ‘Federico II’), Oreste Napolitano (Università di Napoli ‘Parthenope’), Sebastiano Nerozzi (Università Cattolica di Milano), Mario Nuti (Università di Roma ‘La Sapienza’), Guido Ortona (Università del Piemonte Orientale), Ugo Pagano (Università di Siena), Daniela Palma (ENEA), Antonella Palumbo (Università Roma Tre), Sergio Parrinello (Università di Roma ‘La Sapienza’), Marco Passarella (Università di Bergamo), Rosario Patalano (Università di Napoli ‘Federico II’), Stefano Perri (Università di Macerata), Cosimo Perrotta (Università del Salento), Fabio Petri (Università di Siena), Antonella Picchio (Università di Modena e Reggio Emilia), Marco Piccioni (Università di Napoli ‘Federico II’), Federico Pirro (Università di Bari), Massimo Pivetti (Università di Roma ‘La Sapienza’), Felice Roberto Pizzuti (Università di Roma ‘La Sapienza’), Elena Podrecca (Università di Trieste), Paolo Ramazzotti (Università di Macerata), Fabio Ravagnani (Università di Roma ‘La Sapienza’), Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), Angelo Reati (ISEG), Sergio Rossi (Università di Friburgo), Francesco Scacciati (Università di Torino), Giovanni Scarano (Università Roma Tre), Roberto Schiattarella (Università di Camerino), Ernesto Screpanti (Università di Siena), Annamaria Simonazzi (Università di Roma ‘La Sapienza’), Riccardo Soliani (Università di Genova), Luca Spinesi (Università di Macerata), Antonella Stirati (Università Roma Tre), Francesca Stroffolini (Università di Napoli ‘Federico II’), Stefano Sylos Labini (ENEA), Valeria Termini (Università Roma Tre), Mario Tiberi (Università di Roma ‘La Sapienza’), Guido Tortorella Esposito (Università del Sannio), Paolo Trabucchi (Università Roma Tre), Attilio Trezzini (Università Roma Tre), Pasquale Tridico (Università Roma Tre), Domenica Tropeano (Università di Macerata), Vittorio Valli (Università di Torino), Michelangelo Vasta (Università di Siena), Alessandro Vercelli (Università di Siena), Carmen Vita (Università del Sannio), Adelino Zanini (Politecnica delle Marche), Gennaro Zezza (Università di Cassino).
Per ulteriori informazioni consulare il sito www.letteradeglieconomisti.it o scrivere a info@letteradeglieconomisti.it.
http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/lettera-degli-economisti/
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Un indice borsistico reintroduce il marco tedesco 16.06.2010
Il sito Boersennews.de di Lipsia ha cominciato a pubblicare il valore delle azioni anche nella valuta nazionale tedesca. I prudenti gestori dell’indice affermano di non voler abbandonare l’euro, ma di voler “riconoscere un tributo al sentimento popolare che è sempre più favorevole al marco”. L’indice ha una media di 300.000 clienti al giorno.
In questo contesto risulta interessante che un rapporto del Stuttgarter Zeitung sulle prospettive di sicurezza per gli investitori, offerte dall’oro: avverte che la corsa a questo metallo prezioso potrebbe “rivelarsi un investimento rischioso”, poiché “se la crisi dell’euro dovesse aggravarsi e causare un ritorno al marco tedesco, vi sarebbe un effetto sul valore di mercato dell’oro. Infatti, la nuova moneta partirebbe con un vantaggio rispetto al dollaro. Così qualunque investimento determinato in dollari perderebbe in modo repentino il suo valore.
http://www.movisol.org/10news118.htm
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Hanno sfilato in 20 mila: “Basta promesse, le tasse ci strozzano” 16.06.2010
Di Ferruccio Sansa inviato a L’Aquila.
Sorridono mentre imboccano l’autostrada. Senza biglietto. A piedi. Ragazzi che suonano le vuvuzelas come alle partite dei Mondiali, il sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, insieme con i colleghi arrivati dai paesi vicini. Poi mamme con i figli in spalla, professori universitari e contadini, anziani che si fanno fresco con il ventaglio sotto il sole rovente. Ventimila persone (secondo il sindaco e gli organizzatori), un quarto degli abitanti de L’Aquila che imbocca l’autostrada. Quella per Roma: “Dovevamo ricordare alla Capitale e all’Italia che L’Aquila sta morendo”, Giulia Donati, professoressa di scuola media la spiega così.
E il miracolo dell’Abruzzo ricostruito a tempi di record? Camminando per corso Vittorio Veneto si incontra un’altra storia. La vetrina del fotografo con le immagini di due sposi sbiadite. I poster che annunciano un concerto di un anno fa. Una finestra con i vetri rotti e un topo che cammina dove una volta c’era il salotto. I manichini da un anno nudi e immobili nel negozio di vestiti. Le insegne – trattorie, bar, alberghi, banche, gioiellerie – che non indicano più nulla. Viene in mente Pompei . Oppure il set di un film con le facciate dei palazzi – splendidi – tenute su dalle impalcature: dietro le finestre il vuoto. Ieri, però, L’Aquila è stata di nuovo una città. Per un giorno. “Un fiume di gente sul corso, come quando il giovedì sera gli studenti si ritrovavano per festeggiare”, racconta Attilio, uno dei 23 mila studenti che non hanno mollato l’università. Nessuna bandiera di partito, solo quelle verdi e nere della città. E gli stendardi dei comuni.
“Sos” è scritto con lettere alte dieci metri sul monte che domina la città. Vuol dire aiuto, ma anche “Sospensione delle tasse, Occupazione e Sostegno all’economia”. Un messaggio all’Italia: non lasciateci soli, il terremoto non dura solo il minuto della scossa. Ma la gente sfila anche per tornare insieme nelle strade, sentire di nuovo le voci. Per incontrarsi, sentirsi vivi. Già, perché nel resto d’Italia sono convinti che L’Aquila sia rinata. Invece giorno dopo giorno sta morendo. Non c’è tempo da perdere. Così ieri gli aquilani si sono dati appuntamento alle porte del centro storico. Gente che magari non si vedeva dal 6 aprile del 2009 quando il terremoto l’aveva dispersa come una ventata. La città si sgretola, rischia di restare solo un’idea. Massimo Cialente, il sindaco, allarga le braccia: “Gli abitanti cominciano ad andarsene. Non ci sono i soldi. La ricostruzione è un sogno”. Aggiunge: “Non capisco perché alle altre regioni terremotate hanno fatto pagare le tasse arretrate dopo dodici anni e a noi dopo un anno. Agli altri hanno concesso di restituire il 40 per cento, da noi vogliono tutto. Dovremo pagare oltre un miliardo. Ma qui c’è gente che non ha da mangiare”.
Il corteo avanza, si ingrossa, tiene insieme tutte le anime della città. Ecco il sindaco, poi il vescovo ausiliario Giovanni D’Ercole, il presidente della Provincia Antonio Del Corvo (Pdl), i sindacati, le associazioni di categoria. Tutti, insomma. Una manifestazione con tanti registri diversi: la protesta per le tasse, ma anche il desiderio di salvare l’identità. La strana euforia per essersi ritrovati e la malinconia del ricordo. L’Aquila racchiude tutto nei suoi slogan: “Vogliamo essere trattati come trattate gli evasori fiscali”. Dietro lo striscione, non agguerriti ragazzi dei centri sociali , ma pensionati. Poi un signore che inalbera il suo cartello solitario: “Noi all’Aquila non spariamo a nessuno. A Roma c’è qualcuno che spara cazzate”. Pochi gli slogan politici (mai violenti). Tre nomi ricorrono: Silvio Berlusconi, Guido Bertolaso e Gianni Chiodi (il Governatore dell’Abruzzo, Pdl, assente, ma c’era lo stendardo della Regione). Il vento è cambiato da quando un anno fa il Cavaliere camminava per le vie dell’Aquila a braccetto con Obama. E Bertolaso veniva salutato come un santo.
“L’Aquila sta morendo sotto i nostri occhi”, racconta Camilla Inverardi, discendente di una dinastia di architetti cittadini. Spiega: “Noi siamo pronti a ricostruire. Ma dopo quattordici mesi mancano ancora le linee guida e non si possono presentare progetti”. C’è un altro punto: i progetti di recupero sono stati riuniti in “aggregati”. Non si può ricostruire per conto proprio, bisogna farlo tutti insieme. Così devi fare la gara di appalto. Come dire: decideranno le autorità chi ristrutturerà casa tua. Un’altra storia che qui fa storcere il naso.
Ma lo stesso non c’è violenza. Dopo un’ora si abbandona l’autostrada ricordando i “308 morti che aspettano giustizia e i 16 mila disoccupati”. Intonando tutti insieme “Doma’”, canzone scritta dagli artisti de L’Aquila: “Retrovo ji amici co na tazza e n’abbraccio. E di nuovo ju centro è la vita per me”.
http://idv-voghera.blogspot.com/2010/06/laquila-reale-macche-miracolo-stiamo.html
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“Attenti alla Gran Bretagna i suoi conti pubblici un pericolo per l´Europa”
Fonte: Anais Ginori – La Repubblica | 17.06.2010
L´economista francese: Madrid preoccupa meno di Londra
Attali: basta aiuti all´Europa dall´Fmi
Ricordiamoci che Strauss-Khan è un uomo condizionato dagli Stati Uniti
Un nuovo patto di stabilità? Basterebbe fare applicare quello che già esiste
PARIGI – «Il debito sovrano della Gran Bretagna è più preoccupante di quello spagnolo». L´economista Jacques Attali, già consigliere di Mitterrand e presidente della commissione voluta da Sarkozy per “la liberazione della crescita”, è convinto che ci potrebbero essere nuove crisi del debito sovrano in Europa. «Accadrà solo se non avremo il coraggio di costruire un federalismo europeo per la stabilizzazione dei bilanci pubblici, come hanno fatto gli Stati Uniti alla fine del Settecento». Proprio alla storia del debito pubblico, Attali ha dedicato il suo nuovo libro, “Tutti rovinati entro dieci anni?”, appena pubblicato in Francia, nel quale il punto di domanda sembra l´unica luce di speranza.
Dopo la Grecia, quale sarà la prossima vittima del debito sovrano?
«Nessuno può dirlo. Nel mirino degli speculatori potrebbero entrare anche la Gran Bretagna o l´America, il cui debito è a livelli altrettanto preoccupanti».
Lei ha detto che l´euro potrebbe scomparire, entro il prossimo anno.
«Sì, lo dico da tempo e ne sono ancora convinto».
Cosa succederebbe se l´eurozona si disintegrasse?
«L´Eurozona potrebbe dividersi in due aree: una con i paesi del Nord e un´altra con quelli del Sud, come l´Italia. La conseguenza immediata sarebbe la fine della crescita economica europea. Tutti abbiamo da perdere se finirà l´attuale organizzazione dell´euro, anche i paesi del Nord. Ma spero ancora che non succederà. Ad ogni nuova crisi, l´Europa ha fatto un passo avanti. La crisi del 1983 ha permesso la creazione del mercato unico. La crisi del 1992 ci ha portato alla moneta unica. Oggi dovrebbe essere il momento di approvare un unico governo economico europeo».
Bisogna centralizzare le decisioni solo sulla zona euro, come chiede Nicolas Sarkozy, oppure al livello dei 27 paesi membri, come vuole invece Angela Merkel?
«I paesi della zona euro devono avere un governo economico centrale più forte, integrando la politica di bilancio. Al tempo stesso, bisognerebbe creare un nuovo strumento di rilancio degli investimenti, gli eurobond, emessi al livello dei 27 paesi dell´Unione. Serve avanzare in entrambe le direzioni».
Oggi si riunisce il vertice europeo sul nuovo Patto di Stabilità. E´ favorevole alla revisione?
«Intanto basterebbe fare applicare quello che già esiste. Sono necessari nuovi controlli e sanzioni contro chi non applica il Patto».
Sanzioni come quelle che propone la Germania?
«Sì, ma avranno un senso solo se, in contemporanea, l´Unione europea si occuperà anche di rilanciare l´economia. Non dobbiamo entrare in una visione masochista che mortifica tutti».
Lei ha criticato l´ingresso del Fondo monetario internazionale nel salvataggio della Grecia. Ora se ne riparla per la situazione della Spagna.
«Intanto, è un organismo che si dovrebbe occupare di debito esterno degli Stati e non interno come accade oggi. E poi, anche se sono amico dell´attuale direttore del Fmi, Dominique Strauss-Khan, bisogna ricordare che è un uomo condizionato dagli Stati Uniti. Non avrebbe alcun diritto di chiamare Angela Merkel per dirle di mettere ordine nei conti della Germania. Accettando i soldi del Fmi abbiamo in pratica accettato che gli Stati Uniti interferiscano negli affari economici dell´Europa».
Angela Merkel ha approvato un piano straordinario da 80 miliardi, il più pesante dal dopo-guerra.
«In realtà, sono piccole somme. Rappresentano al massimo 1 o 2 per cento del Pil. Significa tornare alla situazione dell´anno precedente, non vuole dire precipitare ai livelli del Bangladesh. Insomma, non è una tragedia. Occorre soltanto avere il coraggio di fare qualcosa che appare drammatico ma non lo è veramente».
Il rigore nei conti pubblici ci porterà fuori da questa crisi?
«I piani di austerity approvati dai paesi europei sono necessari ma insufficienti. Se ci limiteremo a queste misure, rischiamo di andare verso una Depressione simile a quella che ha conosciuto l´America nel 1938. Una crisi che all´epoca si risolse solo attraverso la guerra».
Lei ha proposto la creazione di un´Agenzia europea del Tesoro.
«L´Europa non è indebitata. Può investire con gli eurobond, emessi dall´Agenzia europea del Tesoro. Uno strumento nuovo, per il quale non serve modificare il nostro Trattato. Solo così potremmo sostenere la crescita e uscire davvero dal tunnel».
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Lettera dei lavoratori FIAT di Tychy (Polonia) ai lavoratori di Pomigliano d’Arco (Italia)
La lettera di un gruppo di lavoratori della fabbrica di Tychy, in Polonia, ai colleghi di Pomigliano che stanno per votare se accettare o meno le condizioni della FIAT per riportare la produzione della Panda in Italia
(Questa lettera è stata scritta il 13 giugno, alla vigilia del referendum a Pomigliano d’Arco in cui i lavoratori sono chiamati a esprimersi sulle loro condizioni di lavoro. La FIAT ha accettato di investire su questa fabbrica per la produzione della Panda che al momento viene prodotta a Tychy in Polonia. I padroni chiedono ai lavoratori di lavorare di sabato, di fare tre turni al giorno invece di due e di tagliare le ferie. Tre sindacati su quattro hanno accettato queste condizioni, la FIOM resiste)
La FIAT gioca molto sporco coi lavoratori. Quando trasferirono la produzione qui in Polonia ci dissero che se avessimo lavorato durissimo e superato tutti i limiti di produzione avremmo mantenuto il nostro posto di lavoro e ne avrebbero creati degli alti. E a Tychy lo abbiamo fatto. La fabbrica oggi è la più grande e produttiva d’Europa e non sono ammesse rimostranze all’amministrazione (fatta eccezione per quando i sindacati chiedono qualche bonus per i lavoratori più produttivi, o contrattano i turni del weekend)
A un certo punto verso la fine dell’anno scorso è iniziata a girare la voce che la FIAT aveva intenzione di spostare la produzione di nuovo in Italia. Da quel momento su Tychy è calato il terrore. Fiat Polonia pensa di poter fare di noi quello che vuole. L’anno scorso per esempio ha pagato solo il 40% dei bonus, benché noi avessimo superato ogni record di produzione.
Loro pensano che la gente non lotterà per la paura di perdere il lavoro. Ma noi siamo davvero arrabbiati. Il terzo “Giorno di Protesta” dei lavoratori di Tychy in programma per il 17 giugno non sarà educato come l’anno scorso. Che cosa abbiamo ormai da perdere?
Adesso stanno chiedendo ai lavoratori italiani di accettare condizioni peggiori, come fanno ogni volta. A chi lavora per loro fanno capire che se non accettano di lavorare come schiavi qualcun altro è disposto a farlo al posto loro. Danno per scontate le schiene spezzate dei nostri colleghi italiani, proprio come facevano con le nostre.
In qusesti giorni noi abbiamo sperato che i sindacati in Italia lottassero. Non per mantenere noi il nostro lavoro a Tychy, ma per mostrare alla FIAT che ci sono lavoratori disposti a resistere alle loro condizioni. I nostri sindacati, i nostri lavoratori, sono stati deboli. Avevamo la sensazione di non essere in condizione di lottare, di essere troppo poveri. Abbiamo implorato per ogni posto di lavoro. Abbiamo lasciato soli i lavoratori italiani prendendoci i loro posti di lavoro, e adesso ci troviamo nella loro stessa situazione.
E’ chiaro però che tutto questo non può durare a lungo. Non possiamo continuare a contenderci tra di noi i posti di lavoro. Dobbiamo unirci e lottare per i nostri interessi internazionalmente.
Per noi non c’è altro da fare a Tychy che smettere di inginocchiarci e iniziare a combattere. Noi chiediamo ai nostri colleghi di resistere e sabotare l’azienda che ci ha dissanguati per anni e ora ci sputa addosso.
Lavoratori, è ora di cambiare.
(Originale http://libcom.org/news/letter-fiat-14062010)
http://roma.indymedia.org/node/21620
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Pet Coke, l’anomalia italiana. Intervista esclusiva a Saverio Di Blasi di Aria Nuova Gela 16.06.2010
Al link la videointervista
Cos’è il Pet Coke? Me lo spiegò tempo fa un dirigente di Legambiente: “è quel che resta in fondo al barile dopo aver tratto dal maiale petrolio tutto quello che è possibile”. In pratica è uno scarto di lavorazione del petrolio, che andrebbe smaltito a norma di legge come rifiuto speciale altamente inquinante.
O, almeno, così è nel resto del mondo, ma non in Italia dove, nel 2002, il governo Berlusconi per decreto trasformò la denominazione del Pet Coke da “rifiuto” in “combustibile”. E, se è un combustibile, si può bruciare in centrale elettrica per produrre energia.
Lo si fa a Gela, all’interno della centrale termoelettrica dell’Eni.
Saverio Di Blasi è la persona che, da dieci anni, cerca di eliminare questa anomalia tutta italiana. Con risultati a volte positivi, a volte negativi, come nel caso del decreto governativo. Oggi è in attesa di una sentenza della magistratura gelese che ha il dossier Pet Coke sul tavolo dal 2005.
Nel frattempo ignoti malviventi gli hanno bruciato la macchina. Tre volte…
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Europa, Italia condannata per il DTT 16.06.2010
Confermate le conclusioni della Commissione: gli incentivi per i decoder sono aiuti di stato illegittimi. Le emittenti che ne hanno beneficiato devono ora rimborsare
Roma – Il Tribunale di primo grado europeo ha respinto il ricorso di Mediaset che chiedeva di annullare la decisione con cui la Commissione imponeva all’Italia di recuperare dai beneficiari (le emittenti dei digitale terrestre) le somme erogate e i relativi interessi.
La decisione riguarda gli incentivi concessi per l’acquisto o il noleggio di decoder in vista del passaggi al digitale terrestre, giudicati aiuti di stato dalle istituzioni europee: un contributo pubblico di 150 euro a favore di ogni utente che avesse comprato o affittato un apparecchio per la ricezione di segnali televisivi digitali previsto dalla Finanziaria 2003 (e sbloccati dalla legge Gasparri del 2004) e poi rifinanziato nel 2005 per un importo di 70 euro, in entrambi i casi con un limite di spesa di 110 milioni di euro l’anno.
La nuova sentenza T-177/07 del primo grado di giudizio europeo (impugnabile davanti alla Corte di giustizia) conferma le conclusioni della Commissione e giudica aiuto di stato illegittimo il vantaggio concesso a determinate emittenti (quelle digitali terrestri e via cavo) a discapito delle tv satellitari. Motivo per cui Europa 7 e Sky Italia avevano fatto ricorso.
Sebbene il passaggio al digitale terrestre costituisse un obiettivo di interesse comune, spiega l’Europa, la misura viola il principio della neutralità tecnologica e risulta sproporzionato non evitando inutili distorsioni della concorrenza. D’altro canto un contributo simile erogato nel 2006 non è stato tirato in ballo dall’autorità europea, in quanto a beneficiarne potevano esserne anche i decoder satellitari.
Mediaset si era peraltro appellata al principio della certezza del diritto, minacciato, secondo la difesa, dalla difficoltà (o vera e propria impossibilità) a determinare le somme da recuperare, dovendo distinguere il calcolo dell’aiuto erogato, il numero di telespettatori attirati e gli interessi maturati.
L’Italia, dunque, dovrà ora provvedere a recuperare le somme erogate e i relativi interessi dai beneficiari, individuati nelle emittenti non satellitari: si tratta, evidentemente, di vantaggi indiretti (in quanto il giudice europeo ha ritenuto che la coincidenza con il lancio dell’offerta pay-per-view Mediaset Premium non sia direttamente correlata con l’offerta dei decider digitali) e sarà competenza dei giudici italiani stabile la somma debita.
Mediaset ha già annunciato l’intenzione di fare ricorso, anche perché ritiene che i contributi sono stati versati non all’emittente ma ai consumatori (ma di vantaggio indiretto parla lo stesso giudice europeo). In ogni caso ricorda di aver già accolto una richiesta del ministero delle Comunicazioni italiano di versamento preventivo della somma imputabile al presunto aiuto di stato, denaro per cui ha già chiesto la restituzione al tribunale competente.
Claudio Tamburino
http://punto-informatico.it/2915780/PI/News/europa-italia-condannata-dtt.aspx
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Idrogeno con le scorie della Lucchini 05.06.2010
Un brevetto Asiu permetterà di ottenere energia e ridurre l’inquinamento
di Giorgio Pasquinucci
PIOMBINO. Dalle scorie siderurgiche della Lucchini si potrà produrre idrogeno, alimentare una centrale elettrica in grado di fornire 22.300 Mwh all’anno e contemporaneamente sottrarre all’atmosfera 685mila tonnellate di anidride carbonica, principale responsabile dell’effetto serra. Il progetto “Hysteel”, per il quale l’Asiu ha richiesto una quindicina di giorni fa il brevetto internazionale, è primo al mondo nel suo genere. Frutto di una collaborazione con il Cnr di Pisa che aveva come obiettivo la ricerca di un nuovo mix – ribattezzato “Conglomix” – per qualificare il materiale che uscirà dall’impianto della Tap (Tecnologie ambientali pulite), che entrerà finalmente in produzione a luglio. Nei laboratori dell’Istituto per l’ingegneria ambientale e le georisorse del Cnr di Pisa pochi chilogrammi di scorie hanno già acceso la prima fiammella. Ora si tratta di passare ad un prototipo che, entro un paio di anni, dovrebbe consentire di realizzare l’impianto industriale. «Un effetto collaterale positivo e inaspettato – ha detto ieri il presidente dell’Asiu-Tap Fulvio Murzi, presentando il brevetto nell’ambito del Festival dell’economia ecologica “Quanto basta” – partito dalla esigenza di migliorare la qualità del conglomerato della Tap». Il primo progetto per riciclare i rifiuti industriali è in effetti partito una decina di anni fa, con la partecipazione minoritaria nella Tap della Lucchini. Sfruttava un brevetto già collaudato per produrre Cic (Conglomerato idraulico catalizzato). «Abbiamo abbandonato questo brevetto – ha spiegato Murzi – perché prevedeva l’uso di loppe che la Lucchini riesce a vendere sul mercato, materiali edili da demolizioni che scarseggiano e almeno il 30% di prodotti di cava». Il risultato per il momento è sorprendente. Studiano il nuovo mix delle scorie da inserire nel processo di riciclaggio, al Cnr hanno scoperto che, lavandole opportunamente, si produceva una reazione acida e alcalina che sviluppava idrogeno con cui alimentare motori a gas, ma anche catturare il 30-50% di anidride carbonica prodotta dal processo siderurgico. Un doppio risultato in termini ambientali. «Per ogni tonnellata di Conglomix (l’impianto Tap può produrne 300mila, ndr) si potranno assorbire 2mila tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente di quella prodotta da un’auto che percorre 15mila chilometri all’anno». Secondo il Dipartimento dell’energia statunitense, l’uso di scorie di siderurgia può permettere addirittura di sequestrare l’85% della Co2 emessa dall’industria. L’Asiu ha inoltre ottenuto anche il suo obiettivo principale. «La ricerca – spiega ancora Murzi – ci ha consentito di ottenere dalle scorie un materiale di elevata qualità, già ora superiore al Cic. Potrà essere usato sia come inerte per sottofondi stradali o, con l’aggiunta di un 2,5% di cemento, anche per ottenere calcestruzzo per impieghi più qualificati, ricavandone dai 20 ai 30 euro a tonnellata». Uno dei problemi è il mercato. Le prime 200mila tonnellate di Conglomix serviranno nei primi due anni per pavimentare l’area Tap, ma l’azienda dice di avere già in mano un accordo con un’azienda di opere strada per piazzarne 90mila tonnellate. Il resto dovrà avvenire anche sotto la spinta dei capitolati d’appalto delle amministrazioni pubbliche». «Partecipiamo volentieri – ha detto il sindaco Gianni Anselmi – al campionato del riuso, soddisfatti perché si è compiuto un percorso iniziato da alcuni anni che ha creato, strada facendo, un ulteriore salto dal punto di vista scientifico. Uno sforzo per candidare una città industriale inquinata ad un esempio di riuso».
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I velieri che raccolgono energia pulita 06.2010
Ritornare ai velieri per contribuire alla soluzione dei problemi energetici del pianeta. L’idea è di due scienziati dell’università di California, Max Davis e Nesrin Sarigul-Klijn, secondo i quali navi a vela munite di appositi generatori potrebbero accumulare idrogeno che, portato a terra, potrebbe essere trasformato in energia elettrica. L’idea è nata con l’obiettivo di sfruttare l’energia eolica anche nei tratti in alto mare in cui non è possibile realizzare un’installazione di pale eoliche ed è stata presentata nel maggio scorso a un convegno della Società americana d’ingegneria meccanica e poi pubblicata in un articolo di New Scientist.
È nato così il progetto dei velieri dotati di un generatore di energia idroelettrica che comprende due lame che tendono a oscillare perché spinte dalla forza dell’acqua e che sono collegate all’albero motore, a sua volta collegato con il generatore. Grazie a questo meccanismo, sarebbe prodotta energia utilizzata per il processo di scissione dell’acqua marina che porta alla produzione di idrogeno, il quale potrebbe essere immagazzinato a bordo per produrre energia.
In questo modo si potrebbe sfruttare la forza del vento anche in alto mare, là dove non è possibile o conveniente installare un campo di pale eoliche. E si potrebbe così ottenere una quantità di energia tre volte superiore a quella ottenuta con un generatore a pale tradizionale, utile a ricavare idrogeno dall’acqua marina.
Secondo Platzer e Sarigul-Klijn un veliero dotato di 400 metri quadri di vele, spinto da un vento forza 7 da 15 metri al secondo, potrebbe generare 100 kW. Aumentando la velatura si potrebbe arrivare a 1 MW per ogni nave. Buona parte di questa energia sarebbe perduta nella doppia trasformazione elettricità-idrogeno-elettricità ma, stimano i due scienziati, il sistema avrebbe comunque un’efficienza intorno al 30% e si otterrebbero risultati straordinari se si costruisse una flotta adeguatamente grande.
Platzer afferma che ricavare energia dal movimento dell’acqua è molto più efficiente rispetto all’aria (turbine eoliche) a causa della maggiore densità dell’acqua. Un flusso d’acqua attraverso un generatore sottomarino possiede una densità di potenza di 36 kW/mq rispetto a 1,2 kW/mq tipico dell’aria che soffia in un rotore eolico. Ne risulta inoltre che, a parità di energia, la struttura sottomarina può essere notevolmente più piccola.
Stando a quanto sostengono i due scienziati, con un numero sufficiente di navi si potrebbe produrre l’energia necessaria per l’intero pianeta. “Ovviamente questo è un modo indiretto di produrre elettricità, invece di convertire il flusso di energia del vento e dell’acqua direttamente in energia elettrica utilizzando mulini a vento stazionari o idroturbine” ha messo in luce Platzer. Questa nuova tecnica, inerente l’estrazione di energia dall’acqua, ha un vantaggio: la densità di potenza è superiore. È possibile fabbricare navi in grado di generare, quando le condizioni di tempo sono favorevoli, anche 1 megawatt ciascuna. “La nostra proposta rende l’energia dell’oceano disponibile per lo sfruttamento, un immenso serbatoio di energia poiché gli oceani coprono il 70 per cento del globo” hanno dichiarato i due scienziati.
Fonte: New Scientist
http://www.scienzaegoverno.org/n/083/083_01.htm
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Ombre nere sull’ecosistema 14.06.2010
A più di 50 giorni dall’inizio del disastro, un panel di esperti riuniti a Washington discute sui danni della perdita di greggio nel Golfo del Messico. Dal plancton al tonno rosso del Mediterraneo, gli effetti sono imprevedibili
di Giulia Belardelli
Tutti gli ecosistemi marini del Golfo del Messico risentiranno delle centinaia di milioni di litri di petrolio fuoriusciti dalla piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum. E verranno alterati in maniera imprevedibile. Gli effetti, a più di 50 giorni dalla prima esplosione, sono infatti tutt’altro che noti, e tanto meno pronosticabili. Queste le conclusioni del convegno che si è tenuto a Washington lo scorso 8 giugno, in occasione della Giornata Mondiale degli Oceani istituita dalle Nazioni Unite.
Da un lato il contatto fisico con la sostanza, data la sua natura oleosa, porta al soffocamento, alla perdita delle attività sensoriali e all’alterazione degli equilibri termici. Dall’altro lato il greggio è altamente tossico e causa danni alla pelle, alle cellule del sangue, al sistema immunitario e a quello respiratorio. Al di là delle conseguenze dirette, poi, ci saranno quelle indirette, che interesseranno tutti i nodi della rete alimentare. Come ha sottolineato Celine Cousteau, nipote del celebre Jacques Cousteau ed esperta in conservazione degli ambienti marini, ci sono inoltre da considerare gli effetti subletali che, sebbene non portino alla morte, riducono notevolmente le capacità riproduttive e hanno dunque profonde ripercussioni a livello ecosistemico.
Oltre al greggio in sé, a fare ancora più paura alla comunità scientifica è la totale mancanza di informazioni sugli effetti delle interazioni tra il petrolio e gli agenti disperdenti usati per limitare la formazione delle chiazze di superficie (vedi Galileo). Secondo Thomas Shirley, professore della Texas A&M University, le sostanze utilizzate potrebbero causare altri danni agli animali, facilitando l’ingresso dei componenti tossici nella catena alimentare. Uno dei timori principali, infatti, è rappresentato dal fatto che le micro-gocce generate dall’interazione petrolio-agenti disperdenti possano avere un effetto altamente tossico per il gradino più basso della rete ecologica, vale a dire il plancton. “Questi minuscoli organismi sono la base dell’intero ecosistema marino – ha commentato Robert Twilley, docente alla Lousiana State University – e i loro continui movimenti tra acque profonde e acque di superficie li espongono a enormi quantità di micro-gocce”.
Le sostanze tossiche così si potrebbero accumulare nei vari animali, dalle larve dei pesci e dei gamberetti a quelle dei granchi, fino ad arrivare alle tartarughe e ai grandi mammiferi, attraverso un processo noto come biomagnificazione. “E in questo caso – ha sottolineato Shirley – la perdita sarebbe incalcolabile, vista la lentezza del ciclo riproduttivo di animali come il capodoglio e la tartaruga di Kemp, che inizia a riprodursi verso il nono anno d’età” (per una panoramica sulla biodiversità nel Golfo del Messico si veda il sito dell’Harte Research Institute Gulf of Mexico Studies).
L’unica nota positiva viene dal fatto che l’ecosistema del Golfo del Messico è in parte abituato al petrolio. Nella zona si verifica una dispersione di greggio continua, come ha ricordato Twilley: “Ogni anno si riversano nel Golfo decine di milioni di litri di petrolio e, per questo, esistono batteri specializzati nel metabolizzarlo”. Sebbene non possano azzerarne gli effetti, questi batteri potrebbero accelerare la convalescenza degli ecosistemi. È però estremamente difficile fare previsioni. A ventuno anni dalla tragedia della Exxon Valdez in Alaska (in cui da una petroliera finirono in mare 40 milioni di greggio, vedi Galileo), i danni si fanno ancora sentire e gli animali continuano a morire.
Il pericolo riguarda anche le specie migratorie del Mediterraneo, in particolare il tonno rosso, specie già ridotta al 20 per cento a causa dello sfruttamento ittico. I giovani, infatti, trascorrono parte della loro vita proprio nel Golfo del Messico (vedi Galileo). Il tonno che verrà pescato il prossimo anno potrebbe quindi essere contaminato.
http://www.galileonet.it/primo-piano/12841/ombre-nere-sullecosistema
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I pesanti danni ambientali che l’Enel potrebbe provocare in Patagonia 20.06.2010
L’Enel, con l’attuazione del progetto Hidroaysen, che prevede tre dighe nel fiume Pascua, due nel fiume Baker e 2.300 chilometri di linee di trasmissione per portare l’energia dalla Patagonia a Santiago, in Cile, contribuirà a realizzare un’opera ad altissimo impatto ambientale, secondo quanto ritenuto da diverse organizzazioni ecologiste, supportate da uno studio di un gruppo di ricercatori del Mit di Boston.
Lo ha sostenuto Juan Pablo Orrego, vincitore nel 1998 del Right livelihood award, considerato il Nobel alternativo, e uno dei leader del Consiglio di difesa della Patagonia (Cdp), in un’ intervista rilasciata ad Andrea Fagioli e pubblicata da “Peacereporter”.
Così scrive Andrea Fagioli:
“…Dal suo ufficio al secondo piano di un anonimo edificio nella zona est di Santiago in cui lo incontriamo, Orrego porta avanti, con la sua Ecosistemas e insieme a molte altre organizzazioni cilene e internazionali – tra cui le italiane Omal, Mani tese, Per la riforma della Banca mondiale, Servizio civile internazionale e A sud – la battaglia per fermare il mega-progetto, in attesa del via libera definitivo, di cui il gigante italiano dell’elettricità possiede il 51 % attraverso la controllata Endesa.
Il 17 maggio, al termine di un tour che ha portato Orrego e il vescovo di Aysen, Luis Infanti de la Mora, a parlare di fronte all’assemblea degli azionisti dell’Enel e al Parlamento europeo di Bruxelles, il Cdp ha denunciato Enel ed Endesa al Tribunale permanente dei popoli di Madrid (Tpp), per voler degradare il patrimonio naturale della Patagonia e violare il diritto dei suoi abitanti a vivere in un ambiente libero dall’inquinamento”.
Ecco le risposte di Orrego ad alcune sue domande:
Sì, ma dov’è l’aggressività?
Da una parte continuano a corrompere le autorità locali con progetti di volontariato, pacchetti di opere sociali, sussidi rurali, borse di studio e corsi di informatica. Sono arrivati anche a offrire connessione wifi gratis a interi villaggi in cui per entrare si passa obbligatoriamente per la pagina di Hydroaysen. Ma dall’altra hanno alzato il tiro. Pablo Yrarrazaval, direttore di Enersis, consorzio che controlla Endesa, ha donato 10 milioni di dollari per la ricostruzione post-terremoto del paese, e poi ha chiesto en passant al presidente Pinera di non ostacolare l’approvazione del progetto. Questo dimostra la prepotenza e l’arroganza di queste persone. Arrivano a usare la Moneda per i propri scopi.
Chi ci guadagna con il progetto?
Hydroaysen è un business incredibile, si considera che i lavori dureranno 12 anni e i costi si aggireranno intorno ai 7 miliardi di dollari (dai 3,5 previsti dal progetto originario), ma una volta che le centrali saranno a pieno regime gli utili saranno tra gli tra 1,2 e 1,4 miliardi di dollari, questo significa che i costi saranno coperti in pochissimi anni. Poi solo profitti.
E l’energia, a chi serve?
Dicono che sia per tutti i cileni, a sentire loro sembra sia un’opera filantropica. In effetti l’energia di queste dighe verrebbe immessa nel Sistema interconnesso centrale (Sic) che rifornisce il 93 % della popolazione. In realtà chi ne ha bisogno è la grande industria della regione metropolitana, ma soprattutto l’industria mineraria del nord che ne consuma circa il 40 %. Alla fine dei conti per uso residenziale ne rimane meno del 15. Ma c’è di più, per trasportare l’energia senza perdite per 2.300 chilometri, questa viene trasformata in corrente continua non utilizzabile per essere poi ritrasformata alle porte di Santiago e distribuita. Di conseguenza il 51 % di paese attraversato dalle 6.000 torrette di 60/70 metri di altezza pagherà un prezzo altissimo dal punto di vista ambientale, senza trarne alcun vantaggio in termini energetici.
Lo sapevate che l’Enel operava anche in Cile? Lo sapevate che intende realizzare un progetto così criticabile?
Molto probabilmente no.
E’ l’ennesima dimostrazione di quanto i nostri mass media si “distraggano” facilmente.
http://paoloborrello.ilcannocchiale.it/2010/06/20/i_pesanti_danni_ambientali_che.html
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Kirghizistan, un perno geopolitico
Fonte: http://www.voltairenet.org/article165835.html 13 giugno 2010
Nel profondo dell’Asia centrale, il Kirghizistan è quello che lo stratega inglese Halford Mackinder avrebbe chiamato un perno geopolitico, un territorio che, in virtù delle sue caratteristiche geografiche, occupa una posizione centrale nelle rivalità delle superpotenze. Oggi questo piccolo paese lontano è stato scosso da ciò che può apparire come una sommossa popolare, molto ben organizzata, per destabilizzare il presidente atlantista Kurmanbek Bakiyev. Nelle loro prime interpretazioni, alcuni analisti ipotizzavano che Mosca avrebbe trovato più di un interesse passeggero per sostenere un cambiamento di regime in Kirghizistan. Gli eventi che si svolgono sarebbero dovuti al fatto che il Cremlino avrebbe messo in scena una propria versione, in negativo, delle “rivoluzioni colorate” istigate da Washington: la rivoluzione delle rose in Georgia nel 2003, la rivoluzione arancione ucraina nel 2004, e la rivoluzione dei tulipani nel 2005, che ha messo al potere, in Kirghizistan, il Presidente pro-USA Bakiyev. Eppure, nel contesto del cambiamento di potere in Kirghizistan che si svolge, capire chi fa che cosa e nel cui interesse, è tutt’altro che facile. In ogni caso, sappiamo che ciò che vi si svolge ha implicazioni enormi per la sicurezza militare per tutta la zona centrale (isola del mondo) del continente eurasiatico, dalla Cina alla Russia, e anche oltre. Infatti, tale situazione pregiudica la futura presenza degli Stati Uniti in Afghanistan e, per estensione, in tutta l’Eurasia.
Una polveriera politica
Le proteste contro il presidente Bakiyev esplosero nel marzo dell’anno scorso, dopo le rivelazioni di sospetti di corruzione su di lui e i suoi familiari. Nel 2009, Bakiyev aveva rivisto un articolo della Costituzione, recante disposizioni riguardanti la successione alla presidenza in caso di morte improvvisa o per dimissioni. Questo approccio, ampiamente interpretato come un tentativo di stabilire un “sistema di trasferimento dinastico del potere, è uno dei fattori all’origine della recente ondata di proteste in tutto il paese. Ha messo suo figlio, e altri parenti, nei posti chiave, dove hanno accumulato ingenti somme di denaro – stimate in 80 milioni di dollari l’anno – per aggiudicare agli Stati Uniti il diritto di installare una base aerea a Manas, e altri contratti” [1].
Il Kirghizistan è uno dei paesi più poveri dell’Asia centrale, oltre il 40% della sua popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Bakiyev ha nominato suo figlio Maxim (che si trova anche il tempo e i soldi per essere proprietario di una società di calcio inglese), a capo dell’Agenzia centrale per lo sviluppo, gli investimenti e l’innovazione, una posizione che gli ha permesso di controllare le risorse, le più lucrose del paese, tra cui la miniera d’oro di Kumtor [2].
Alla fine del 2009, Bakiyev ha nettamente aumentato le tasse sulle imprese piccole e medie e, all’inizio del 2010, ha introdotto nuove tasse in materia di telecomunicazioni. Ha privatizzato il maggiore fornitore di elettricità nel paese, mentre nel gennaio di quest’anno, la società privatizzata, di cui si vociferava che fosse stata venduta agli amici della famiglia per meno del 3% del suo valore stimato, raddoppiava il prezzo dell’elettricità. Il prezzo del gas di città è aumentato del 1000%. L’inverno è molto duro in Kirghizistan.
L’opposizione ha accusato Maxim Bakiyev di aver organizzato una privatizzazione di convenienza della rete di telecomunicazioni nazionale, vendendola a un amico, la cui compagnia offshore è domiciliata nelle isole Canarie. Dans les grandes lignes, la colère populaire contre Bakiev et consort se comprend. In generale, la rabbia popolare contro Bakiyev e la sua gente può capire. La questione cruciale è con quale successo la rabbia è incanalata e da chi.
Le proteste accese dopo la decisione del governo, nel marzo scorso, di aumentare drammaticamente i prezzi dell’energia e delle telecomunicazioni, quadruplicandole o più, in un paese già martoriato. Durante le rivolte dei primi di marzo, la signora Otunbayeva è stata nominata portavoce del Fronte Unito formato da tutti i partiti di opposizione. Ha quindi chiesto agli Stati Uniti di assumere un atteggiamento più attivo contro il regime di Bakiyev e per le sue carenze negli standard democratici; l’appello chiaramente rimase senza risposta [3].
Secondo le fonti russe ben informate, al contempo, Roza Otunbayeva parlava con il primo ministro russo Vladimir Putin del deteriorarsi della situazione. In seguito alla formazione del governo provvisorio guidato da Otunbayeva, Mosca è stata la prima a riconoscerlo e a offrire 300 milioni di dollari in aiuti immediati per la stabilizzazione, con il trasferimento di una porzione del prestito di 2,15 miliardi di dollari concesso dai russi nel 2009 al regime di Bakiyev, per costruire una centrale idroelettrica sul fiume Naryn. Inizialmente, 2,15 miliardi di dollari erano stati assegnati solo dopo la decisione di Bakiyev di chiudere la base militare USA di Manas, decisione che i dollari USA ruppero poche settimane dopo. Per Mosca, l’aiuto russo e l’annuncio della chiusura della base di Manas da parte di Bakiyev erano collegati. Questo versamento di 300.000.000 di dollari, tratti dai 2,15 miliardi promessi da Mosca, rilanciato dopo la cacciata di Bakiyev, sarebbe andato direttamente alla Banca Nazionale del Kirghizistan [4].
Secondo un dispaccio da Mosca dell’agenzia RIA Novosti, il Primo Ministro spodestato, Daniar Oussenov, secondo quanto riferito, disse all’ambasciatore russo a Bishkek che i media russi, che godono di una forte presenza nello stato ex-sovietico, in cui la lingua ufficiale è ancora il russo, si erano schierati contro il governo Bakiyev-Oussenov [5]. Le forze di sicurezza del governo Bakiyev, che avrebbero compreso i cecchini delle forze speciali appostati sui tetti, mentre, uccisero 81 dimostranti, provocando una pericolosa escalation di proteste durante la prima settimana di aprile. Ciò che è interessante di questi eventi, suggerendo che dietro le quinte accade di peggio, è che questa sollevazione popolare, esplosa al culmine della sua maturazione, è stata preceduto da alcuni segnali, prima di emergere sulla scena mediatica internazionale.
Le proteste si sono moltiplicate da quanto Bakiyev aveva assunto il controllo della rivoluzione dei tulipani, con il sostegno finanziario degli Stati Uniti [6]. Questo cambiamento di regime, nel 2005, aveva coinvolto l’elenco delle ONG tradizionali degli Stati Uniti, tra cui Freedom House, l’Albert Einstein Institution, la National Endowment for Democracy e la United States Agency for International Development (USAID) [7]. Nessuno di questi moti precedenti a quelli di aprile, aveva la stessa forza o la stessa raffinatezza. Gli eventi sembrano aver colto tutti di sorpresa, prima Bakiyev e il suo sostenitore, gli Stati Uniti. La tranquillità con cui si sono schierati l’esercito, la polizia e la guardia di frontiera, nelle prime ore delle ondate di protesta, suggerisce un coordinamento complesso e ingegnoso, pianificato in anticipo. Ancora oggi, non c’è alcuna indicazione del fatto che la decisione provenisse evidentemente dall’estero o meno, e in caso affermativo, se essa apparteneva al FSB russo, alla CIA o qualche altro servizio.
Il 7 aprile 2010, quando Bakiyev ha perso il controllo della situazione, sembrava essersi precipitato dagli statunitensi. Ma constatando il bagno di sangue per le strade effettuato dai cecchini di Bakiyev, e calcolando la collera della folla contro il governo, gli Stati Uniti avrebbero esfiltrato il presidente e la sua famiglia nella sua città natale di Osh, presumibilmente nella speranza di farlo tornare quando la situazione si sarebbe calmata [8]. Cosa che non è mai accaduta. Come leader del governo, dell’esercito, della polizia nazionale e della guardia di frontiera, Bakiyev il 16 aprile si dimise e si rifugiò nel vicino Kazakhstan. Ultimamente, si è esiliato in Bielorussia, dove il presidente Lukashenko, con poche risorse finanziarie, l’avrebbe ospitato in cambio di 200 milioni di dollari. [9]
Il nuovo governo provvisorio del Kirghizistan, guidato dall’ex opposizione basata sulla persona di Roza Otunbayeva, ex ministro degli Esteri, intende avviare un’indagine internazionale sui crimini commessi da Bakiyev. Un dossier di accuse è già stata formato contro di lui, suo figlio, il fratello e altri parenti. Bakiyev non aveva altra scelta che fuggire. Alcuni giorni prima di fuggire, l’esercito e la polizia erano già schierati con l’opposizione guidata da Otunbayeva, un atteggiamento che sostiene l’idea di eventi estremamente ben pianificata da almeno un partito di opposizione.
Oggi,il Kirghizistan occupa una posizione centrale. Questo paese senza sbocco sul mare, condivide un confine con la provincia cinese dello Xinjiang, un luogo altamente strategico per Pechino. Ponendosi tra i piccoli paesi dell’Asia centrale, è anch’egli un confine, a nord del suo territorio, il Kazakistan e le sue risorse petrolifere, a ovest è delimitato dall’Uzbekistan e sud dal Tagikistan. Inoltre, la Valle di Ferghana, politicamente esplosiva a causa delle sue notevoli risorse naturali, è una parte del Kirghizistan, questa area multietnica afflitta da attriti politici, si estende anche sui territori di Uzbekistan e Tagikistan. Il Kirghizistan è un paese dalle alte montagne, le catene montuose del Tien Shan e Pamir occupano il 65% del suo territorio. Circa il 90% del paese si trova a oltre 1.500 metri sul livello del mare. In termini di risorse naturali, ad eccezione dell’agricoltura, che rappresenta un terzo del suo PIL, il Kirghizistan ha oro, uranio, carbone e petrolio. Nel 1997, la miniera d’oro di Kumtor ha cominciato a sfruttare uno dei più grandi giacimenti di oro del mondo. Fino a poco tempo fa, l’agenzia nazionale Kyrgyzaltyn possedeva tutte le miniere e gestiva maggior parte di esse con joint venture con società straniere. La miniera d’oro di Kumtor, vicino al confine cinese, è di proprietà, nella sua interezza, della società canadese Centerra Gold Inc. Fino alla cacciata di Bakiyev, suo figlio Maxim, capo del Fondo per lo Sviluppo, dirigeva l’agenzia Kyrgyzaltyn, ed è anche il maggiore azionista della Centerra Gold, oggi la proprietaria della miniera d’oro di Kumtor. E’ alquanto significativo che la Centerra Gold, con sede a Toronto, abbia già annunciato la “sostituzione” di Maxim Bakiyev a capo della Kyrgyzaltyn, con Aleksej Eliseev, vice direttore dell’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo del Kirghizistan, dirigente del gruppo Centerra, magari sotto la guida del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e senza che gli elettori del Kirghizistan l’abbiano eletto [10].
Il Kirghizistan ha anche significative risorse di uranio e antimonio. Inoltre, gode di notevoli riserve di carbone stimate a 2,5 miliardi di tonnellate, che si trovano principalmente nel giacimento di Kara-Keche, nel nord del paese. Ma ancora più importante che la ricchezza minerarie, resta la base principale dell’US Air Force di Manas, aperta a tre mesi dal lancio della “guerra globale contro il terrorismo”, nel settembre 2001. Poco dopo, la Russia installava una propria base militare, non lontano da Manas. Oggi, il Kirghizistan è l’unica nazione ad ospitare due basi militari, statunitense e russa, uno stato di disagio per non dire altro.
In sintesi, il Kirghizistan, posizionato al centro del territorio più strategico del mondo, l’Asia centrale, è un ambito trofeo geopolitico.
La politica di Washington cammina sulle uova
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti aveva cercato di mantenere in Bakiyev la speranza, a quanto pare, di poter disperdere i manifestanti, cessare i disordini e mantenere in carica posto l’uomo dei tulipani. Hillary Clinton aveva già chiesto all’opposizione parlamentare (formato dai ministri che condannavano la corruzione e il nepotismo del governo di Bakiyev) di negoziare e di avviare un dialogo con il presidente Bakiyev, finanziato dagli Stati Uniti. Nonostante la pubblicazione dei dispacci che segnalavano le dimissioni di tutta l’amministrazione del Kirghizistan, il Dipartimento di Stato rilasciava dichiarazioni che il governo del presidente Kurmanbek Bakiyev era ancora operativo [11].
Il 7 aprile, al momento più teso dei moti, quando il risultato non era ancora chiaro, il portavoce della segretaria di stato USA, PJ Crowley, aveva detto ai giornalisti: “Vogliamo vedere il Kirghizistan evolvere, come ci auguriamo per gli altri paesi della regione. Ma detto questo, c’è un governo che opera effettivamente. Siamo alleati di questo governo nella misura in cui ci sostiene, sapete, nelle operazioni internazionali in Afghanistan…” [12]. George Orwell avrebbe ammirato questo esercizio di linguaggio doppio diplomatico. Il 15 aprile, quando divenne chiaro che Bakiyev avrebbe avuto solo un supporto limitato in casa, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti dichiarava di non volersi schierare né per il presidente deposto, né l’opposizione parlamentare. A Washington, in un comunicato che mostrava come Washington camminasse sulle uova, temendo di romperne qualcuno, soprattutto sulla questione dei diritti di accesso alla base aerea di Manas, Philip Crowley, dichiarava: “Vogliamo vedere la situazione risolversi pacificamente. E noi non ne vogliamo prendere parte“. [13]. Da allora, dopo i colloqui con il ministro degli Esteri Roza Otunbayeva e il suo staff, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e Obama, hanno calorosamente approvato la nuova situazione politica in Kirghizistan.
Otunbayeva, un membro influente del Partito comunista durante l’era sovietica, divenne il primo ambasciatore post-sovietico negli Stati Uniti, e in seguito è stata una degli assistenti al Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. Il governo ad interim guidato da Otunbayeva annunciava che avrebbe redatto il progetto di un nuova Costituzione entro sei mesi, e preparato le elezioni democratiche nel paese. L’opposizione sosteneva di aver la situazione sotto controllo in Kirghizistan, nonostante il persistere di scontri e saccheggi fuori da Bishkek [14].
Chi guida la danza?
Mentre molti speculano su un ruolo attivo, a livello locale, dei servizi di sicurezza durante la Rivoluzione anti-tulipani, dobbiamo lasciare aperta la questione. In una dichiarazione durante la sua visita a Washington, il 14 aprile, dopo una settimana di agitazioni, il presidente russo Dmitrij Medvedev espresse la sua preoccupazione per la stabilità del Kirghizistan: “Il rischio che il paese sia diviso in due parti – una a nord, uno a sud – è reale. Questo è il motivo per cui è nostro dovere aiutare i nostri partner del Kirghizistan, per trovare una soluzione per un uscire progressivamente da questa situazione.” S’immaginava a grandi linee il peggiore scenario che poteva verificarsi: destabilizzato, il governo del Kirghizistan resterebbe impotente contro gli estremisti che invadono il paese, un ripetersi della situazione in Afghanistan [15]. Dalla tribuna della conferenza sul disarmo nucleare a Praga, il consulente della Casa Bianca per la Russia, Michael McFaul, aveva parlato degli eventi in Kirghizistan: “Non è un colpo di stato montato contro gli statunitensi. Questa, noi ne siamo sicuri, non è un colpo di stato guidato dai russi.” [16].
In teoria, gli Stati Uniti avrebbero ogni ragione di credere di poter “lavorare” con i leader del nuovo governo provvisorio del Kirghizistan. E’ ben nota Roza Otunbayeva a Washington, da quando era presente come ambasciatrice negli anni ‘90. Il numero due del suo governo provvisorio, l’ex portavoce del Parlamento Omurbek Tekebayev, una figura chiave della “Tulip Revolution” del 2005 che portò al potere Bakiyev, è stato poi a Washington, invitato dal Dipartimento di Stato per partecipare a uno dei loro “programmi di scoperta”, dove insegnano alle personalità politiche emergenti estere le virtù del modo di vita americano.
Tekebayev parlava liberamente, allora, di questa esperienza: “Ho trovato che gli americani sanno come selezionare le persone, come fare una valutazione precisa di ciò che sta accadendo e come fare previsioni sugli sviluppi e cambiamenti politici futuri.” [17].
Vi sono indicazioni che il sostegno di Mosca negli recenti eventi in Kirghizistan, sia stato progettato come una rivoluzione colorata al rovescio, per controbilanciare la presenza statunitense in crescita in Asia centrale. Vi sono anche prove di un secondo cambiamento di regime sostenuto dagli Stati Uniti, magari dopo che l’amministrazione Obama aveva capito che il suo uomo, Bakiyev, si avvicinava troppo alla Cina, sul piano economico. Una terza, e improbabile versione, attribuisce le recenti sollevazioni a un’opposizione scadente, disorganizzato e interna al paese, che non sarebbe mai giunta a raccogliere che alcune migliaia di persone in piazza, per protestare contro le politiche di Bakiyev degli ultimi cinque anni. Ciò che appare chiaro è che Mosca e Washington passano attraverso le stessa esitazioni, nel mostrare una parvenza di consenso sugli eventi in atto in Kirghizistan. Il 15 aprile Kanat Saudabayev, presidente dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), ha affermato che l’evacuazione del presidente Bakiyev, sano e salvo, derivava dagli sforzi comuni di Obama e Medvedev [18]. Chiaramente, Washington e Mosca sono desiderose di imporre la loro presenza, qualunque sia il governo che si stabilisce in questo paese dell’Asia centrale di cinque milioni di persone, lacerato dal conflitto. Quello che è meno noto, ma altrettanto evidente, è il problema fondamentale che costituiscono i rapporti stabili dal Kirghizistan con la Cina, con cui condivide un’ampia frontiera. Visto da qui, ciò che sembra più interessante è la svolta che prendono gli eventi in quella terra lontana, ma che sono strategici dal punto di vista geopolitico.
Quale futuro per la base aerea di Manas?
Una delle questioni più pressanti per Washington è quella vitale per il futuro della Manas Air Base, situata vicino alla capitale Bishkek. In una dichiarazione ufficiale del Dipartimento di Stato degli USA, datato 11 aprile, la segretaria di stato Hillary Clinton ha sottolineato “l’importante ruolo che svolge il Kirghizistan, permettendo un centro di transito nell’aeroporto di Manas“. Ha lasciato poco spazio a dubbi sulle priorità di Washington nel paese, che non riguardano né la democrazia o la sua crescita economica [19].
Dopo l’attuazione del piano di “guerra contro il terrorismo” di Washington, il Pentagono ha ottenuto il diritto d’installarsi in diversi stati strategici, in Asia centrale, facendolo apertamente per condurre la guerra contro Usama bin Ladin in Afghanistan. Al momento stesso dei diritti di accesso delle sue truppe in Uzbekistan, Washington ottenne la concessione di Manas. La presenza militare statunitense, in Afghanistan, s’è naturalmente intensificata. Una delle prime decisioni di Obama, come presidente, fu quello di permettere il ‘surge’, l’aumento delle forze di occupazione, inviando 30.000 soldati supplementari e concedendo la sua approvazione per la costruzione di otto nuove basi militari “temporanee” in Afghanistan, portando a 22 il numero di basi statunitensi sul suolo afgano, tra cui i maggiori siti di Bagram e Kandahar. Il segretario alla Difesa, Robert Gates, si rifiuta di fissare un termine alla presenza statunitense in Afghanistan. Non a causa dei Taliban, ma in virtù di una strategia di lungo termine di Washington, per diffondere la sua “guerra contro il terrorismo” in tutta l’Asia centrale, e in particolare nel settore cruciale della Valle di Ferghana, che si trova tra Uzbekistan e Kirghizistan. E’ in questo contesto che i recenti avvenimenti nel Kirghizistan sono più che vantaggiosi per la Russia, la Cina e gli Stati Uniti. Il 14 aprile, Gates ha confidato alla stampa la sua certezza di vedere gli Stati Uniti ottenere i diritti di utilizzo della base di Manas, per sviluppare ciò che il Pentagono chiama il Northern Distribution Network (Rete di Distribuzione del Nord), che permette di approvvigionare per via aerea, le zone di combattimento in Afghanistan [20]. Appena pochi giorni prima, personalità del governo provvisorio di Bishkek avevano indicato che l’assegnazione dei diritti di accesso di Manas agli statunitensi, era uno delle prime cose da cancellare. Durante un colloquio con Medvedev, Barack Obama aveva ammesso che gli eventi in Kirghizistan non erano stati preordinati dai russi. Aveva immediatamente annunciato che gli Stati Uniti riconoscevano la legittimità del governo provvisorio di Roza Otunbayeva.
Ora la questione che rimane irrisolta è il ruolo che svolge il Kirghizistan nel drammatico gioco degli scacchi geopolitico per il controllo dell’Asia centrale e, di conseguenza, del cuore dell’Eurasia, secondo la terminologia del geopolitico inglese Halford Mackinder. I grandi attori esterni in Kirghizistan, in questa partita a scacchi geopolitica in Asia centrale, con un’alta posta in gioco, sono la Cina, la Russia e gli Stati Uniti. La prossima parte di questo dossier analizza gli interessi geopolitici supportati dalla Cina in Kirghizistan, uno dei suoi partner nell’Organizzazione del Trattato per la Cooperazione di Shanghai.
* F. William Engdahl è un associato al Centro per la Ricerca sulla Globalizzazione e autore di diversi libri; frequente contributore alla rivista “Eurasia”
Note
[1] RIA Novosti, Russia’s Medvedev blames Kyrgyz authorities for unrests, says civil war risk high, 14 avril 2010, http://en.rian.ru/exsoviet/20100414/158570646.html
[2] John CK Daly, op. cit.
[3] Leila Saralayeva, Kyrgyz opposition protests rising utility tariffs, AP, 17 mars 2010, http://blog.taragana.com/politics/2010/03/17/thousands-of-kyrgyz-demonstrators-protest-utility-tariffs-hike-and-political-oppression-23948/
[4] RIA Novosti, Russia throws weight behind provisional Kyrgyz govt., 8 avril 2010, http://en.rian.ru/exsoviet/20100408/158480874.html. L’ex ambasciatore indiano ben informato, K. Gajendra Singh, in un articolo pubblicato da RIA Novosti, ha riferito che il signor Putin ha anche incontrato la signora Otunbayeva due volte, dopo gli eventi del 7 aprile, e che si era recata a Mosca a gennaio e marzo di quest’anno. KG Singh, Geopolitical battle in Kyrgyzstan over US military Lilypond in central Asia, RIA Novosti, 13 avril 2010.
[5] RIA Novosti, Kyrgyz prime minister protests Russian media reporting of riots, 7 avril 2010, http://en.rian.ru/world/20100407/158462398.html
[6] Richard Spencer, Quiet American behind tulip revolution, London, The Daily Telegraph, 2 avril 2005, http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/asia/kyrgyzstan/1486983/Quiet-American-behind-tulip-revolution.html
[7] Philip Shishkin, In Putin’s Backyard, Democracy Stirs — With US Help, The Wall Street Journal, 25 février2005.
[8] Kyrgyzstan National Security Service ‘source’, Specially for War and Peace.ru, 10 avril 2010: http://www.warandpeace.ru/ru/news/view/46021/
[9] Report from Russian political blog War and Peace.Ru. http://www.warandpeace.ru/ru/news/view/46417/
[10] Centerra Gold website, Toronto, Canada, http://www.centerragold.com/about/management/
[11] David Gollust, US Urges Dialogue in Kyrgyzstan, 7 avril 2010, Voice of America, http://www1.voanews.com/english/news/US-Urges-Dialogue-in-Kyrgyzstan-90120737.html
[12] PJ Crowley, comments to press regarding events in Kyrgyzstan, 7avril 2010, cité dans John CK Daly, The Truth Behind the Recent Unrest in Kyrgyzstan, http://www.oilprice.com.
[13] AFP, US ‘not taking sides’ in Kyrgyzstan political turmoil, 15 avril 2010, http://news.asiaone.com/News/AsiaOne%2BNews/World/Story/A1Story20100415-210389.html
[14] Hamsayeh.net, New Interim Kyrgyz Government to Shut Down the US Airbase at Manas, 9 avril 2010, http://www.hamsayeh.net/hamsayehnet_iran-international%20news1114.htm
[15] Karasiwo, Nuclear deals and Kyrgyz fears – Medvedev in Washington, 14 avril 2010, http://www.allvoices.com/contributed-news/5610284-nuclear-deals-and-kyrgyz-fears-medvedev-in-washington
[16] Maria Golovnina and Dmitry Solovyov, Kyrgyzstan’s new leaders say they had help from Russia, The Globe and Mail, Toronto, 8 avril 2010, http://www.theglobeandmail.com/news/world/kyrgyzstans-new-leaders-say-they-had-help-from-russia/article1527239/
[17] Sreeram Chaulia, Democratisation, NGOs and ‘colour revolutions’, 19 january 2006, http://www.opendemocracy.net/globalization-institutions_government/colour_revolutions_3196.jsp
[18] BNO News, OSCE says Kyrgyzstan President Bakiyev’s departure is the result of joint efforts with Obama, Medvedev, 15 avril 2010,
[19] Philip Crowley, Assistant Secretary of State, US Clinton Urges Peaceful Resolution of Kyrgyz Situation, 11 avril 2010, citato da RIA Novosti, http://en.rian.ru/world/20100411/158517788.html
[20] Donna Miles, Gates expresses confidence in continued Manas access, American Forces Press Service, 14 avril 2010, http://www.af.mil/news/story.asp?id=123199625
Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/
http://www.eurasia-rivista.org/4646/kirghizistan-un-perno-geopolitico
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Da Pomigliano a Manchester 20.06.2010
Qualcuno ha scritto “meglio Marchionne della camorra”, qualcun altro “meglio la Cina (intesa come condizioni di lavoro) che niente”. Hanno ragione entrambi, come Catalano, la vecchia spalla di Renzo Arbore, che però non è passata alla storia per dire cose intelligenti.
Chi dice “meglio Marchionne della camorra”, che vuol dire la disponibilità totale per l’impresa di questo nuovo-vecchio uomo unidimensionale, ha però anche torto se oramai, tra quest’incudine e martello, nessun colpo d’ali riesce a pensare non tanto un avvenire migliore ma addirittura un qualsiasi avvenire possibile che non sia il sopravvivere ad un immodificabile esistente.
La storia ha così percorso un nuovo cerchio concentrico e, alla “fine della storia” e a 16 anni dalla promessa di un nuovo miracolo italiano, siamo ritornati al “no future” dei Sex Pistols settantasettino.
Già a metà strada tra il ‘77 e noi, quindici anni fa, Jeremy Rifkin ed altri teorizzarono la “fine del lavoro” salariato (fordista nel caso operaio). Una profezia avveratasi nei suoi presupposti nefasti ma elusa colpevolmente dalle classi dirigenti per quanto concerneva le nuove forme di sviluppo necessarie a disegnare un XXI secolo possibile.
Ambiente, nuove fonti energetiche, tecnologia, cultura, terzo settore, non certo la camorra, avrebbero dovuto assorbire la forza lavoro novecentesca, che invece si dibatte oggi tra un infinito precariato prima della cassa integrazione che accompagna (male) ad una pensione insufficiente in un contesto dove per la maggioranza il lavoro, la piena indipendenza economica ricondotta alla capacità del tessuto familiare di sostenerti e inserirti, la semplice pulsione a consumare appaiono non più diritti ma utopie.
E’ la storia del fallimento storico di un modello di società uscito appena vent’anni fa trionfante dalla guerra fredda e soprattutto di una classe dirigente politica ed economica (a Pomigliano, in Campania, in Italia, nell’Unione Europea, nel mondo industrializzato) se oggi Marchionne e la sua abrogazione virtuale del diritto di sciopero vengano presentati come un’alternativa plausibile alla camorra. Marchionne (ammesso e non concesso che lo sia) non è l’unica alternativa possibile alla camorra ma è solo la più arcaica e regressiva delle alternative possibili. Alternative che però non sono state percorse a monte, non oggi.
I media riportano in questi giorni un sondaggio per il quale oltre la metà degli under-40 dei paesi OCSE (non delle vele di Secondigliano) non sanno di cosa vivranno quando andranno in pensione. E’ un eufemismo per dire che non vivranno, non vivremo. Vuol dire che la mia generazione e quelle che mi seguono forse non vedranno mai un giorno di espansione, di ottimismo, di diritti non conculcati ma che invece crescono e permettono di vivere meglio, da cittadini in un regime democratico. Vuol dire che i nostri genitori hanno vissuto in una breve età dell’oro che non tornerà.
Dietro l’insultante ironia antioperaia di Marchionne I il Benefattore si legge tutta la disperante ingiustizia e disuguaglianza dei nuovi “tempi moderni” chaplianiani. Non dovrebbe essere neanche posta l’alternativa tra camorra e Marchionne, tra lavoro nero e lavoro neo-schiavistico. Quando il grande statista tanzaniano Julius Nyerere minacciava che se l’Europa non si fosse comportata con giustizia con l’Africa allora l’Africa si sarebbe manifestata in Europa, era facile pensare che si riferisse ai fenomeni migratori. La presenza di immigrati del Sud nel Nord del mondo è invece solo un capro espiatorio, una spiegazione facile, alla fine della società dei diritti novecentesca. Schiere di economisti neoclassici si ostinano a liquidare una società di diritti (la stessa società di massa) come insostenibile senza preoccuparsi di rispondere alla domanda su come vivranno, come vivremo, senza lavoro oggi e senza pensione domani.
A distanza di tempo nel sottotesto di Nyerere si legge non tanto e non solo l’arrivo di persone (auspicabilmente nuovi cittadini) ma soprattutto il dilagare di rapporti di produzione premoderni e presindacali, non propriamente africani se non intesi come neo-schiavisti, cinesi se preferite, ma che sono comunque preferibili al precariato infinito e al lavoro nero. L’accordo di Pomigliano testimonia così l’avvento di una nuova modernità nella quale, per le maggioranze, l’unica forma di non esclusione possibile è tornare non al “no future” del ‘77 né al ‘67 marcusiano (per quanto possa tediare) ma ben più indietro: a quei rapporti di produzione che qualcuno studiò alla metà degli anni ‘40 a Manchester. Anni ‘40 dell’800.
http://www.gennarocarotenuto.it/13281-da-pomigliano-a-manchester/
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Picchiarono i poliziotti: assolti «Non è reato se la causa è giusta» 18.06.2010
Milano La licenza di resistere ai poliziotti, di fare a botte con loro e di spedirli all’ospedale viene riconosciuta con una sentenza decisamente innovativa del tribunale di Milano: tre militanti della sinistra antagonista vengono assolti dall’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni, nonostante il processo abbia dimostrato che in effetti le botte vi furono e le lesioni anche. Ma per il giudice Lorella Trovato, della quinta sezione penale, il comportamento dei giovani estremisti è pienamente giustificato e giustificabile. Perché i poliziotti avevano cercato di portarli in questura senza motivo, e i tre non avevano altro modo di evitare l’ingiustizia se non ribellandosi. E quindi vanno assolti con formula piena: giusta causa.
Tutto accade il 9 ottobre 2007 in largo Crocetta, nel centro di Milano. La Volante intercetta tre ragazzi, uno dei quali ha appena partecipato a una rissa all’Università statale con militanti dell’ultradestra. Dalla centrale, gli agenti ricevono l’ordine di portarlo in questura. Il giovane rifiuta. Gli amici lo spalleggiano. I poliziotti insistono. Quel che accade in seguito è così raccontato dal capo di imputazione: «In concorso tra loro, al fine di opporsi agli agenti della Volante, usavano violenza nei loro confronti, e in particolare sferravano un calcio e un colpo all’altezza della spalla nei confronti del vice sovrintendente L. facendolo cadere a terra, e ingaggiavano una violenta colluttazione con l’agente O., l’ispettore S., gli agenti F., A. e C, al termine delle quale venivano tutti immobilizzati e condotti in questura». Conseguenze: dodici giorni di prognosi per l’ispettore, che riporta oltre a una serie di traumi anche la distorsione della rachide cervicale, dieci giorni di prognosi per tre dei suoi colleghi, otto per il quinto.
Assistiti dall’avvocato Mirko Mazzali, legale di fiducia dell’ultrasinistra milanese e del «Social Forum» di Genova, i tre vengono portati a processo. Uno viene condannato per la rissa con i neofascisti alla Statale. Ma tutti e tre vengono assolti dall’accusa di resistenza a pubblico ufficiale con una motivazione che merita di essere riportata con una certa ampiezza.
Il giudice inizia con lo stabilire che l’ordine di seguire i poliziotti in questura era illegittimo, perché vi sono solo due casi in cui si può costringere qualcuno ad andare in questura: è quando rifiuta di dare le proprie generalità o esibisce un documento falso, e questo non era il caso; oppure quando riceve un ordine di comparizione e non lo rispetta, e nemmeno questo era accaduto. E a quel punto prosegue: «I tre hanno resistito a un atto oggettivamente illegittimo. Anche se sicuramente gli agenti delle Volanti intervenuti in largo Crocetta non se ne sono resi conto, avendo agito a seguito di ordini ricevuti per via gerarchica e senza nemmeno conoscere il contesto in cui si inseriva il loro operato, la resistenza degli imputati è stata posta in essere a salvaguardia di un diritto costituzionalmente garantito, quello alla libertà personale, e inoltre non vi era modo di opporsi altrimenti all’operato degli agenti, poiché i fatti hanno reso evidente che il rifiuto manifestato a parole di andare in questura e l’affermazione di avere già reso note le proprie generalità e di essere disposto a ripeterle a voce non hanno sortito alcun effetto».
I tre antagonisti, insomma, hanno agito in stato di necessità davanti a un atto «illegittimo e arbitrario» della polizia. Il fatto che gli agenti delle Volanti non fossero affatto consapevoli di compiere un atto illegale, e anzi fossero convinti di fare il proprio dovere, per il giudice Trovato non cambia nulla: una conclusione diversa, scrive, «non solo è contraria ai principi costituzionali di tutela dei diritti dei singoli, ma è anche assai “pericolosa” perché potrebbe impedire al cittadino di opporsi anche ai più gravi soprusi, purché il pubblico ufficiale non si renda conto dell’arbitrarietà del suo operato».
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Federfarma: stop ai medicinali convenzionati con il Ssn 23.06.2010
Sara Todaro
ROMA
Nel giro di pochi mesi i cittadini potrebbero essere costretti ad anticipare di tasca propria i soldi per ritirare i farmaci prescritti a carico del Ssn. E in Campania la stretta potrebbe scattare già a fine mese.
Ad agitare lo spauracchio del passaggio all’assistenza indiretta – costringendo i pazienti a chiedere il rimborso alla Asl – è stato ieri il sindacato dei titolari di farmacia, Federfarma, protestando contro una manovra giudicata “pesantissima e iniqua”.
Nel mirino il taglio del 3,65% dei margini dei grossisti, destinato a scaricarsi interamente sui presìdi mettendone a rischio la sopravvivenza. La promessa del governo di esentare dal pedaggio almeno le farmacie rurali non soddisfa Federfarma, che ieri ha chiesto la spalmatura del sacrificio su tutta la filiera (aziende, grossisti, farmacisti), con un abbattimento dei listini del 3,3%, ipotesi già peraltro presente negli emendamenti di maggioranza in commissione Bilancio al Senato.
Immediato l’allarme del Movimento consumatori e di Federanziani, pronta a battersi contro lo «tsunami che metterebbe a rischio di chiusura l’unico presidio sanitario presente in almeno 3.500 comuni».
Uno tsunami a prescindere sta intanto travagliando il sindacato dei titolari, che rischia di dover risolvere in tribunale la lacerazione sulla revoca del mandato alla presidente, Annarosa Racca. La sfiducia è stata decisa mercoledì da un gruppo di membri del comitato centrale che si è autoconvocato, nominando presidente pro tempore il rappresentante eletto dalle farmacie rurali, Cesare Quey, fino alla convocazione degli organi statutari, prevista per il 30 giugno. La Racca ha reagito con una diffida, ma il fronte dei dissidenti – in cui sarebbero rappresentate 13 regioni – ha fatto sapere che consegnerà probabilmente oggi l’atto steso dal notaio sulle circostanze della sfiducia. Un gran pasticcio, insomma, che ieri ha rischiato anche di far passare in secondo piano la conferma della prossima emanazione dei decreti attuativi della legge 69/2009, sulla trasformazione delle farmacie in front office del Ssn. La notizia l’ha data il ministro della Salute Ferruccio Fazio a una platea di infermieri cui ha garantito anche un sostegno prioritario al Ddl sulle professioni, che trasformerà in ordini i loro collegi. Sempre da Fazio infine la conferma di un confronto in corso con le regioni e l’Economia sulla possibile esclusione dal blocco del turn over del comparto sanità. Una delle tante postille indispensabili – dicono i sindacati – a rendere sostenibile una manovra davvero “indigesta”.
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cambi, Cina, crisi, Obama di Alberto Bagnai
La rivalutazione del renminbi fra mito e realtà 22.06.2010
l tasso di cambio del renmbimbi è un falso problema economico: ecco perché non sarà la rivalutazione della moneta cinese a salvare gli Usa e l’Europa
I giornali plaudono alla promessa di Hu Jintao di lasciar fluttuare il cambio del renminbi in risposta alla lettera di Barak Obama, che il 16 giugno si è rivolto ai “colleghi” del G-20 richiamando la loro attenzione sul fatto che “tassi di cambio determinati dal mercato (nota del traduttore: liberi di fluttuare) sono essenziali per la vitalità dell’economia globale”. Il commento più lucido mi sembra quello di Federico Rampini: “Bel colpo, Hu Jintao”! In effetti, dimostrando disponibilità alla soluzione di un falso problema economico, Hu Jintao ha spostato la pressione politica di Obama (leader del principale importatore mondiale) sull’altro grande esportatore mondiale, la Germania, creando a quest’ultima un vero problema politico.
Ho detto falso problema economico? Come? Ma se gli economisti concordano sul fatto che il disallineamento del cambio cinese è il motore primo degli squilibri macroeconomici globali? Veramente questa è la visione del problema tramandata dai media italiani, che si allineano, in questo come in altri casi, alle posizioni espresse dalle istanze più conservatrici degli Usa. Le indicazioni della letteratura scientifica sono tutt’altro che unanimi. Vale la pena di richiamarle succintamente.
Il cambio del renminbi e il surplus cinese
Il tasso di cambio del quale parlano i giornali è quello nominale: il prezzo di una valuta (in questo caso lo yuan) in termini di un’altra (il dollaro). La competitività di un paese però non dipende solo da quanto costa la sua valuta, ma anche da quanto costano i suoi prodotti e quelli dei concorrenti. Questo calcolo è sintetizzato dal cambio reale, che tiene conto del differenziale di inflazione fra partner commerciali. Bene: i dati del Fmi ci dicono che dal 1994 al 2007 il saldo estero della Cina è cresciuto di circa 9,5 punti di Pil mentre il cambio reale si andava apprezzando del 30%, cioè la competitività di prezzo cinese peggiorava.
Nel periodo citato l’inflazione cinese ha viaggiato in media al 4.5%, quella statunitense al 2.6%. Dato che dal 1994 il cambio cinese era fisso al valore di 8.7 yuan per dollaro, i beni cinesi diventavano progressivamente meno convenienti. Questa dinamica era accentuata dal fatto che dal 1994 al 2002 il dollaro si era apprezzato di circa il 20% in termini effettivi, e quindi mantenendo una parità fissa con esso, la Cina in teoria perdeva competitività rispetto agli altri partner commerciali (ad esempio, l’Europa). In effetti, fino a tutto il 2002 la preoccupazione dei commentatori era che lo yuan, seguendo il dollaro, diventasse troppo forte (non troppo debole). Nel frattempo il surplus cresceva.
Che la sottovalutazione del cambio (posto che ci sia) non spieghi tutto non è una grande novità. Già nel secondo dopoguerra Kaldor (1978) notava come la quota di mercato delle esportazioni tedesche e giapponesi era andata aumentando in concomitanza con una perdita di competitività di prezzo. Trenta anni di ricerche indicano che innovazione e ricerca (gli elementi che riassumiamo come “competitività non di prezzo”) incidono sulle esportazioni molto più del tasso di cambio reale (Fagerberg e altri, 2007).
Alcuni dati di cui non si parla: dal 1996 al 2006 la spesa cinese in ricerca e sviluppo è più che raddoppiata in rapporto al Pil (negli Usa è rimasta costante); lo stesso vale per il numero di ricercatori per milione di abitanti (che negli Usa è aumentato solo del 10%); lo stesso vale per la quota di esportazioni high-tech, che è arrivata a un terzo del totale, superando di qualche punto quella degli Stati Uniti. Certo, queste variabili non spiegano tutto, ma almeno hanno una dinamica compatibile col successo delle esportazioni cinesi (il che non può dirsi del cambio reale!).
Il surplus cinese e il deficit americano
Se il cambio non è il problema, la sua rivalutazione non può essere la soluzione. Questo è esattamente quello che mostrano gli studi scientifici sull’argomento, i quali indicano come gli effetti di una rivalutazione dello yuan sarebbero transitori in Cina e del tutto trascurabili per i paesi partner. Simulazioni recenti (Bagnai, 2009) indicano che una rivalutazione persistente del renminbi in misura pari al 10% determinerebbe una correzione di – 0,6 punti di PIL del surplus cinese (attualmente intorno a 10 punti di Pil), riassorbita rapidamente dopo il primo anno. Naturalmente il deficit Usa migliorerebbe, e sapete di quanto? Di 0.02 punti di Pil. Dato nel prossimo quinquennio lo prevediamo sui 3.5 punti di Pil, non si può dire che questa correzione sarebbe significativa! Svariati altri studi raggiungono conclusioni assolutamente identiche.
Questi risultati sembreranno sorprendenti alla luce dei commenti degli opinionisti, ma sono ovvi se osserviamo gli ordini di grandezza dei dati. Nel 2009 le importazioni degli Usa dalla Cina sono state pari a 296 miliardi di dollari: una bella cifra, che però corrisponde ad appena il 15% delle importazioni totali (pari a 1945 miliardi). Questo significa che una rivalutazione del 10% del renminbi comporterebbe una svalutazione effettiva del dollaro di appena il15% x 10%=1.5%. Ammettendo che una svalutazione si traduca in una pari riduzione percentuale delle importazioni (è un’ipotesi molto generosa perché gli effetti dei prezzi sulle importazioni sono generalmente minori), la correzione delle importazioni complessive sarebbe pari all’1.5% di 1945 miliardi, cioè 29 miliardi di dollari, pari allo 0.2% del Pil Usa.
Perché ne stiamo parlando?
Se questi argomenti hanno un qualche peso (e altri se ne potrebbero aggiungere), rimane da farsi una domanda: perché si parla così tanto di una cosa così irrilevante?
Il fatto è che l’argomento del tasso di cambio ha, accanto ai suoi scarsi meriti scientifici, due impagabili vantaggi tattici: la apparente semplicità, e il fatto di scaricare le colpe sugli altri (ieri i giapponesi, oggi i cinesi). Per questo motivo esso ha giocato un ruolo rilevante durante le ultime presidenziali americane: al consueto “read my lips, no new taxes”, si è aggiunto il “read my lips, China must revalue”. I cinesi servono a Obama come i “clandestini” servono a Bossi: stessa consistenza degli argomenti, stessa spendibilità politica. È la democrazia, bellezza…
Naturalmente parlare di un falso problema serve soprattutto a evitare di parlare della vera matrice degli squilibri globali, quella asimmetria del sistema monetario internazionale alla quale fa un fugace riferimento la recente lettera degli economisti (che però lascia perplessi quando sottolinea che una correzione di questa asimmetria potrebbe disporre la Cina “a trainare la domanda globale”: allo stato i consumi statunitensi corrispondono al doppio del Pil dei Bric, quindi se vogliamo che gli americani si indebitino di meno ci vorrà altro che la buona volontà della Cina per “trainare” la domanda globale!).
Il vero problema
Il motore del deficit Usa non sono quel 15% di importazioni provenienti dalla Cina, ma il fatto che nell’attuale “non sistema monetario internazionale” (Gandolfo, 2002) il dollaro gioca un ruolo preponderante come valuta di riserva. Questa posizione di leadership attribuisce agli Usa ovvi vantaggi, ma determina anche una domanda netta da parte del resto del mondo di attività denominate in dollari, necessarie per regolare le transazioni internazionali. La contropartita reale di un’offerta netta di valuta al resto del mondo è una domanda netta di beni dal resto del mondo, cioè un deficit delle partite correnti, ovvero un crescente indebitamento estero. Anche qui, nulla di nuovo: il problema è ben noto agli economisti, lo pose in evidenza Triffin nel 1960, preconizzando il crollo del gold exchange standard. È questa asimmetria a determinare lo “scandalo monetario mondiale” in virtù del quale paesi relativamente poveri si trovano a finanziare un paese ricco, il quale, da parte sua, non può che continuare a indebitarsi se vuole perpetuare il proprio potere di signoraggio.
Se questa analisi non è del tutto scorretta, la sintesi che possiamo trarne è che forse in Europa, piuttosto che appiattirsi sulle posizioni più “leghiste” del dibattito politico interno agli Stati Uniti, bisognerebbe avere il coraggio politico di proporre architetture alternative del sistema monetario internazionale. Anche qui non mancano i precedenti illustri, come ricordano fra gli altri Fiorentini e Montani (2010). Per un paese che stava per sganciare due atomiche non fu difficile snobbare a Bretton Woods la proposta di Keynes di fondare il sistema monetario mondiale su una moneta sovranazionale, accordando a se stesso il “privilegio esorbitante” di essere il banchiere del mondo. Ora che questo privilegio ha dimostrato una volta di più di essere difficile da gestire, potrebbe forse esserci spazio per un approccio più equilibrato.
Oppure, se volete, insistiamo a parlare del renminbi (o dei bonus dei banchieri, o…), e lasciamo che gli Usa continuino a segare il ramo sul quale sono seduti (e sotto al quale dormiamo noi).
Riferimenti
Bagnai, A. (2009) “The role of China in global external imbalances: some further evidence”, China Economic Review, 20, 508-526.
Fagerberg, J., M. Srholec, e M. Knell (2007) “The competitiveness of nations: why some nations prosper while others fall behind”, World Development, 35, 1595-1620.
Fiorentini, R., Montani, G. (2010) “Global imbalances and the transition to a symmetric world monetary system”, Perspectives on federalism, 2, 1-42.
Gandolfo, G. (2002) International Finance and Open Economy Macroeconomics, Berlin: Springer.
Kaldor (1978) “The effects of devaluation on the trade in manufactures”, in Further Essays on Applied Economics, London: Duckworth.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/La-rivalutazione-del-renminbi-fra-mito-e-realta-4744
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Londra 2012, olimpiadi radioattive? Scoperte scorie sotto lo stadio olimpico 23.06.2010
Bruttissima sorpresa per Londra e per le sue future olimpiadi: dal cantiere dello stadio olimpico della capitale inglese emergono tonnellate di scorie nucleari.
Secondo quanto riporta il Guardian un centinaio di tonnellate di rifiuti di torio e radio sarebbero stati seppelliti a circa 500 metri dallo stadio. Probabilmente si tratta di rifiuti prodotti alcuni decenni fa dalle industrie della zona, che lavoravano materiali radioattivi.
Il seppellimento delle scorie, però, è stato ovviamente illegale e oggi se ne pagano le conseguenze: lo stadio vero e proprio è al sicuro, ma le costruzioni che dovevano sorgere nei paraggi sono oggi a rischio perchè qualunque cantiere disseppellirebbe le scorie, con grave rischio per la salute degli abitanti.
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Marte? Roba da scuole medie 22.06.2010
Studenti neppure adolescenti scovano una caverna sul Pianeta Rosso. Merito di un programma di studio congiunto con l’università e la NASA
Roma – Un gruppo di studenti californiani, impegnati in un progetto di analisi della superficie di Marte svolto in collaborazione con l’Università dell’Arizona, ha prodotto una scoperta molto interessante: alla ricerca di tracce di attività vulcanica sul quarto pianeta del Sistema Solare, si sono imbattuti in quella che sembrerebbe una cavità di oltre un centinaio di metri di larghezza sul suolo marziano, risultato probabilmente di un crollo.
Sedici alunni della Evergreen Middle School di Cottonwood, coinvolti nel progetto denominato Mars Education Program avviato nel 2004, erano impegnati a studiare formazioni associate a condotti lavici risalenti a migliaia di anni fa quando hanno notato un punto nero sulla superficie. Dopo aver osservato con attenzione oltre 200 immagini riprese dalla camera THEMIS (Thermal Emission Imaging System), a bordo della sonda Odissey che orbita attorno a Marte, nelle prossimità del vulcano noto come Monte Pavonis hanno effettivamente individuato le strutture che si aspettavano, ma quella macchia sulle lastre di backup li ha insospettiti.
Non si tratta del primo caso di “macchia nera” sulla superficie del pianeta, e già nel 2007 era stato ipotizzato che, in presenza di condotti lavici che scorrevano sotto il terreno, in alcune situazioni si potesse verificare un crollo che avrebbe generato un “buco” sul Pianeta Rosso. In questo caso la dimensione del pertugio è stata stimata in 190×160 metri, con oltre 110 metri di profondità.
Gli studenti hanno ora sottoposto la propria richiesta di ricognizione visiva addizionale alla NASA: attorno a Marte orbita anche la sonda Mars Reconnaissance Orbiter, dotata a sua volta di una camera (la HiRISE) con una risoluzione inferiore ai 30 centimetri. Se la richiesta degli studenti venisse accettata, le immagini potrebbero addirittura rivelare la struttura dell’interno della cava.
http://punto-informatico.it/2921050/PI/News/marte-roba-scuole-medie.aspx
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Estratto dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 25.06.2010
Obama
“Obama riprende il bastone del comando”: è questo il titolo dell’analisi di Mario Platero, corrispondente de Il Sole 24 Ore a New York, che giudica “straordinaria” la capacità di reazione dimostrata dal presidente Usa nella gestione del caso McChrystal. Obama “ha trasformato uno smacco mediatico in una dimostrazione di solidità. Ha giocato al rilancio, ha licenziato il generale ribelle, ha impugnato il bastone di comando, ha dato l’impressione di essere in controllo di una guerra che non va bene”. Oggi Obama si presenta al G20, dunque sulla scena internazionale, con un “carniere più ricco”: ha chiuso la partita sul cambio dello yuan con la Cina, alla Merkel chiederà di far passare il principio che, sul fronte della crisi, lo stimolo deve prevalere sul rigore se la situazione peggiorerà, ha ottenuto una risoluzione sull’Iran, ha recuperato il dialogo con Mosca. Sul piano interno è più debole, ma, dopo il disastro del Golfo, intende chiedere la riforma dell’energia. Con l’affaire McChrystal, però, “si è accorto che il decisionismo paga più del gesto magnanimo” e, dopo aver manifestato i suoi sentimenti “anti-business” presto si accorgerà che il dialogo con il mondo degli affari è più importante del confronto. Qualche segnale di reazione al suo gioco al rilancio c’è: i sondaggi medi di Real Clear Politics lo danno attorno al 48 per cento, mentre un paio di mesi fa era al 41-44 per cento.
Il Foglio scrive che mentre il presidente Obama era sul punto di licenziare McChrystal, il presidente afghano Karzai avrebbe telefonato per tentare di salvare il militare all’ultimo minuto. I politici di Kabul non capiscono sinceramente il perché di tutto il polverone. Ma capiscono di avere perso il loro alleato migliore: McChrystal è stato l’unico vero protettore del leader afghano, lo ha difeso quando gli uomini del presidente Obama mettevano in dubbio le sue capacità di comando e quando il New York Times pubblicava indiscrezioni sui suoi rapprti con i talebani. ecco perché il quotidiano riassume nei titoli: la missione urgente del generale Petraeus è bloccare la grande coalizione che sta nascendo tra Karzai e i talebani.
L’inserto R2 de La Repubblica ospita le analisi di Angelo Aquaro e Alexander Stille, dedicate ai rapporti tra Obama e i comandanti militari e cerca di spiegare come si è arrivati al “caso McChrystal”. Scrive Stille che la scommessa sul nuovo comandante in Afghanistan Petraeus rilancia adesso la partita a distanza, visto che Obama ha già rimosso quattro comandanti di primo piano in pochi mesi: c’è chi giura che il prossimo scontro scontro sarà solo rinviato di poco. Il presidente è passato dall’antimilitarismo dei tempi dell’università alla condivisione di quella contro-insurrezione, firmata Petraeus, che tra gli stessi democratici ha tanti nemici, a cominciare dal suo vicepresidente Biden.
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Se avessero la faccia, l’avrebbero come il ….
Aldo Brancher, nuovo ministro Mafaf, ha chiesto il legittimo impedimento. 25.06.2010
Italia. Qualcuno sentiva la mancanza di un ministero per l’Attuazione del Federalismo Amministrativo e Fiscale? Perchè già c’era il ministero delle riforme per il federalismo, quello di Umberto Bossi. Ora dobbiamo aspettarci un ministero per il completamento del federalismo politico e sportivo? Poi, quello per il superamento del federalismo bionico e gastronomico? O magari quello per l’ossigenazione del federalismo turistico e ortofrutticolo? Perchè se per ogni amico sotto indagine del presidente del Consiglio occorre inventarsi un ministero inutile, meglio incominciare a pensare alle definizioni.
Nel frattempo, il Ministro per l’Attuazione del Federalismo Amministrativo Fiscale, d’ora in poi Mafaf (per permettere una più facile pronuncia anche ai cittadini di lingua tedesca della provincia di Bolzano) è detenuto dal 18 giugno scorso da Aldo Brancher, un ometto che ha iniziato la sua carriera “politica” nel 1999 “dopo una collaborazione come dirigente del gruppo Fininvest a partire dal 1982”. Come spiega Wikipendia. “durante la XIV Legislatura, sotto entrambi i governi Berlusconi, è stato sottosegretario di Stato nel Dipartimento per le riforme istituzionali e la devoluzione”. In pratica non si è quasi mai occupato di cose serie. Quasi. Perchè i magistrati vorrebbero chiedergli conto, lo avrebbero fatto domani, di alcune sue manovre in relazione a soldi incassati da Giampiero Fiorani nell’ambito della vicenda Antonveneta. Solo che Brancher è sfortunato e proprio domani non può, l’hanno casualmente appena nominato ministro Mafaf, e lui deve organizzarlo questo santo ministero. Almeno le prime questioni fondamentali, i quadri alle pareti, il tappeto di pregio, lo specchio delle sue brame, per cui i suoi legali hanno chiesto il rinvio dell’udienza di domani per “legittimo impedimento”, sfruttando quella normativa fortemente voluto dall’anziano premier, Silvio Berlusconi, che consente il rinvio dei processi per il presidente del Consiglio e dei suoi ministri in caso di legittimo impedimento derivante da funzioni di governo. Sabato il giudice Annamaria Gatto dovrà decidere se accogliere l’istanza, ma anche se separare la posizione di Brancher da quella della sua compagna Luana Maniezzo che nel processo risponde, come il neoministro, di ricettazione.
In attesa della decisione, pare che si stia lavorando al Ministero per l’Attuazione del Federalismo Al Femminile, meglio noto come Mafaf 2.
Non vorremmo però minimizzare la carriera di Aldo Brancher, che non è esattamente un pivello, è, infatti, già stato condannato con giudizio di primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito al Partito Socialista Italiano. In Cassazione il secondo reato è stato prescritto, mentre il primo è stato depenalizzato dal Governo Berlusconi II.
Poche le parole pronunciate, ieri, dal neo ministro Mafaf ai cronisti: “Non ho nulla da rimproverarmi devo organizzare il mio ministero. Sono solo, non ho neppure il capo di gabinetto”. Poi ha chiuso facendo lo spiritoso “io sarei disponibile anche il 15 agosto, ma i Tribunali sono chiusi…”.
redcap
http://www.sabatoseraonline.it/home_ssol.php?site=1&n=articles&category_id=15&article_id=131309&l=it
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