Picco del petrolio, Wikileaks svela stime al 2012 ed il prezzo del barile rischia l’impennata 11.02.2011
Sembra che il picco del petrolio potrebbe essere ancora più vicino di quanto pensassimo. A rivelarlo è l’ultimo documento svelato da Wikileaks e pubblicato dal Guardian, il quale ha rivelato che i diplomatici americani sono convinti che l’Arabia Saudita abbia sopravvalutato le proprie riserve di petrolio, vantando circa un 40% in più di quanto non abbiano davvero. Un particolare che a primo impatto può sembrare insignificante, ma che può essere un duro colpo per l’economia mondiale.
L’Arabia Saudita è il più grande fornitore di petrolio al mondo, ed è considerato un po’ l’ago della bilancia del mercato perché in grado di contrastare le crisi aumentando o diminuendo le sue produzioni. Ma questa rivelazione dimostra che il Paese non può avere abbastanza petrolio per mantenere stabili i prezzi, evitando che aumentino drasticamente nel corso dei prossimi anni, anche di più di quanto non lo siano ora.
Secondo quanto scrive il Guardian:
I cables, pubblicati da Wikileaks, sollecitano Washington a prendere sul serio un avvertimento di un alto dirigente saudita del Governo che afferma che le riserve di greggio del regno potrebbero essere state sopravvalutate di ben 300 miliardi di barili, quasi il 40% […] Sadad al-Husseini, geologo ed ex capo esplorazione della Aramco, monopolista del petrolio saudita, ha incontrato il console generale americano a Riad nel novembre 2007 ed ha detto al diplomatico americano che la capacità di 12,5 milioni di barili al giorno di Aramco era necessaria per mantenere un tappo sui prezzi che non potevano aumentare.
http://www.ecologiae.com/picco-petrolio-wikileaks-prezzo-barile/34184/
—
UniCredit entra nel progetto Desertec 11.02.2011
Anche le banche italiane dentro il progetto Desertec: apre le danze UniCredit che ha annunciato, tramite comunicato stampa, di essere entrata a far parte della Desertec Industrial Initiative (Dii). Un po’ per coscienza, un po’ per soldi.
Abbiamo deciso di diventare azionisti di Dii e ciò rappresenta un ulteriore passo nell’ambito della nostra strategia complessiva volta alla sostenibilità, dando il nostro contributo alla lotta contro il cambiamento climatico
Così parla Vittorio Ogliengo, di UniCredit senza citare le possibilità economiche che, tra l’altro, ancora sono tutte da valutare: Desertec prevede la produzione in nord Africa, entro il 2050, del 15% dell’energia elettrica consumata in Europa partendo da fonti rinnovabili (soprattutto eolico e solare termodinamico a concentrazione). Quel che ancora non è chiaro, invece, è se di qui a quella data ci sarà la possibilità di captare gli incentivi statali europei anche per la produzione elettrica rinnovabile africana.
E sono in molti a sperarlo. Paul van Son, CEO di Dii, punta invece sul lato industriale e sulle sue ricadute economiche (incentivi a parte):
Siamo davvero orgogliosi che UniCredit si unisca alla nostra iniziativa industriale. Il nostro obiettivo è la creazione di una partnership per le energie rinnovabili nella regione del Mediterraneo. Ciò implicherà degli investimenti, lo sviluppo di nuove industrie nei paesi mediorientali e del Nordafrica, la creazione di nuovi posti di lavoro e il trasferimento di conoscenze e know-how. Il sostegno sempre maggiore di istituti finanziari di primo piano come UniCredit dimostra che anche lo sviluppo di energie rinnovabili su larga scala viene considerato un’opportunità di business attraente e promettente
Quindi, delle due una: o qualcuno, più in alto di noi, ha fatto i conti e già sa che tra pochi anni produrre energia rinnovabile in nord Africa sarà molto economico, e quindi redditizio, oppure si sono messi d’accordo per gli incentivi e ancora non ce lo hanno detto.
Le banche non cacciano mai i soldi per beneficenza…
—
BCE: Tremonti sostiene Draghi ma rientra in gioco la Merkel (IL PUNTO)
(ASCA) – Roma, 11 feb – ”Il governo italiano sostiene la candidatura di Draghi” alla presidenza della Bce. Il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, lancia ufficialmente la candidatura del governatore di Bankitalia all’Eurotower parlando davanti alla stampa estera (nota personale: così, vista la sua credibilità, lo ha bruciato). Per una coincidenza le parole di Tremonti arrivano contemporaneamente all’annuncio del governo tedesco sulle dimissioni di Axel Weber dopo l’incontro tra il presidente della Bundesbank e il cancelliere Angela Merkel. Con le dimissioni di Weber, la Merkel segna un punto a suo favore dopo l’imbarazzo degli ultimi due giorni per l’indisponibilita’ di Weber a candidarsi per la Bce.
La Merkel ha preteso le dimissioni del rude e spigoloso banchiere e la prossima settimana verra’ designato il successore che entrera’ in carica il 30 aprile. Una svolta per la Germania. Se Weber non si fosse dimesso dalla Bundesbank, la Merkel non avrebbe potuto presentare un altro candidato per la Bce.
A questo punto dovrebbero definitivamente tramontare le candidature tedesche di Regling (a capo del fondo salva stati) e quella di Otmar Issing, capo economista e membro del board dell’Eurotower con mandato in scadenza nel 2014.
L’annuncio da Berlino e’ stato molto stringato. ”Il cancelliere e il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble – ha detto il portavoce della Merkel – hanno preso atto della decisione del professor Weber, assunta per ragioni personali”.
Weber aveva deciso di non essere disponibile per la Bce lamentando uno scarso sostegno da parte dell’esecutivo di Berlino, spiazzando la Merkel che rivendica la presidenza della Bce dopo l’olandese Duisenberg e Trichet. Ma Weber, a causa della sua conclamata ostilita’ all’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce, e’ da sempre osteggiato dalla Francia.
Nella partita a scacchi per individuare il prossimo guardiano dell’euro, la Merkel recupera posizioni, potendo candidare il nuovo presidente della Bundesbank. E per Sarkozy sara’ complicato porre un nuovo veto sul candidato tedesco, sarebbe l’indicazione di un pregiudizio. Non voleva Weber ed e’ stato accontentato. Ma la svolta odierna non significa che la strada verso la Bce a un tedesco sia in discesa. La candidatura Draghi, grazie al prestigio internazionale di cui gode il governatore di Bankitalia, e’ di quelle autorevoli, anche se nella decisione dei capi di Stato e di governo non conta solo il curriculum. did/rf/bra
—
Scandaloso Milleproroghe: Regione colpita da calamità dovrà alzare tasse 11.02.2011
Lo prevede un emendamento del Pdl al Milleproroghe approvato dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio del Senato. Sostanzialmente saranno i cittadini della Regione a pagare per primi. E se non basta, verrà aumentata anche accise su benzina e su gasolio
Se una Regione sarà colpita da calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari, dovrà alzare le tasse nel caso in cui “il bilancio della Regione non rechi le disponibilità finanziarie sufficienti per effettuare le spese conseguenti all’emergenza”. Lo prevede un emendamento del Pdl al Milleproroghe approvato dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio del Senato.
Sostanzialmente saranno i cittadini della Regione a pagare per primi.
Solo nel caso in cui le misure adottate non fossero sufficienti, “su richiesta della Regione può essere disposto l’utilizzo delle risorse del fondo nazionale di Protezione civile”. Non solo, il fondo della protezione civile dovrà essere “corrispondentemente ed obbligatoriamente reintegrato in pari misura con le maggiori entrate derivanti dall’aumento dell’aliquota dell’accisa sulla benzina e sulla benzina senza piombo, nonché dell’aliquota dell’accisa sul gasolio”. Un aumento che comunque non potrà essere superiore a “cinque centesimi al litro”.
Gli aumenti che dovrà deliberare la Regione saranno “sino al massimo consentito dalla vigente legislazione” e riguarderà i tributi, le addizionali, le aliquote e le “maggiorazioni di aliquote attribuite alla Regione”, nonché ci sarà il via libera “ad elevare ulteriormente la misura dell’imposta regionale” sulla benzina “fino ad un massimo di cinque centesimi per litro, ulteriori rispetto alla misura massima consentita”.
(TMNews)
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16934
—
Ultimo telegramma dall’Europa 12.02.2011
In marzo, insieme alle rondini e alla primavera, arrivano le cambiali europee e l’ultimo telegramma da Bruxelles. Francia e Germania, che posseggono 700 miliardi di euro del nostro debito, per continuare a sostenere i titoli pubblici italiani chiedono un piano di rientro nei parametri di Maastricht per portare il rapporto tra il debito pubblico lordo e il Pil al 60 %. Il rapporto attuale è quasi il doppio, circa il 120%. Il Pil è al palo. Non cresciamo. In 10 anni l’unico Paese a far peggio dell’Italia nel mondo è stato Haiti. Il debito va al galoppo, a botte di 100 miliardi di euro in più all’anno. Se il Pil non cresce e il debito pubblico è arrivato a 1.870 miliardi, c’è un solo modo per rientrare: ridurre il debito di circa 900 miliardi. Il dilemma è quindi: “Debito o default?“. L’Europa non può permettersi un nostro default, rischierebbe di crollare come un castello di carte. I titoli italiani in mano alla Francia equivalgono al 20% del Pil francese e con un default diventerebbero carta straccia. La cosiddetta “ristrutturazione” del debito di cui si discute non è altro che il quasi azzeramento del valore del titolo. Un po’ come quando viene “ristrutturata” un’azienda per mandare tutti a casa.
Se il default è un frutto proibito, resta solo la riduzione del debito. Supponiamo di fare un piano decennale con una rata di tagli di 90 miliardi annui. Una manovra da far tremare la triade Dracula, Attila e Amato. Supponiamo che la manovra sia inevitabile. L’unica domanda che ci resta allora è: “Come si fa?“. Nel 2010 Tremorti tagliò la spesa di “soli” 25 miliardi, scatenando proteste sociali. Un filotto decennale a botte di 90 miliardi (ma anche di 40) non se lo può permettere nessun governo, ma questa volta è inevitabile. Tremorti equipara il debito pubblico al risparmio privato, da quando lo ha detto i capitali hanno cominciato ad emigrare. Topo Gigio Veltroni (9.000 euro di pensione) ha lanciato la patrimoniale chiedendo un sacrificio a chi le tasse le ha sempre pagate fino all’ultimo euro. Dal suo grido di dolore (dei risparmiatori) al Lingotto debenedettiano altri capitali hanno varcato velocemente la frontiera.
Sembra di essere di fronte a un problema impossibile, senza soluzioni. Invece, come direbbe il dottor Spock di Star Trek: “C’è sempre un’alternativa“. Ogni anno l’evasione ammonta a più di 100 miliardi di euro, l’inefficienza amministrativa (inclusi raddoppi di competenze, enti inutlii, stipendi faraonici) vale almeno altri 50 miliardi, la corruzione, che moltiplica il costo dei lavori pubblici, vale circa 60 miliardi. Un calcolo prudente ci consente di disporre di un attivo tra maggiori entrate e minori spese di 150 miliardi all’anno. Ne avanzano 60 all’anno (da investire in innovazione e ricerca), dedotti i 90 necessari per non naufragare. E’ un obiettivo possibile, ma solo con un completo ricambio della classe politica. Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.
http://www.beppegrillo.it/2011/02/ultimo_telegramma_dalleuropa/index.html?s=n2011-02-12
—
Pervenuto da akilis@otenet.gr per ListaSinistra@yahoogroups.com il 12.02.2011
Si vende la sovranita’ di uno stato europeo; chi sra’ il prossimo??
LA GRECIA NELLA MORSA DEL RICATTO FMI – UE – BCE
(ANSA) – ATENE 11 FEB – La Grecia, per riuscire a ridurre il suo debito entro il 2015, deve vendere immobili, azioni e societa dello Stato, per un totale di 50 miliardi di euro. Lo hanno detto i rappresentanti della ‘Troika (Fmi-Ue-Bce) durante una conferenza stampa dopo la fine dei loro incontri nella capitale greca. In una dichiarazione comune, letta durante la conferenza, hanno espresso una valutazione complessiva sul progresso fatto dalla Grecia in questi ultimi mesi, secondo la quale «il programma di stabilizzazione del Paese ha compiuto ulteriori progressi verso i suoi obiettivi. Nonostante i ritardi registrati in alcuni settori, scrivono, le riforme necessarie per il raggiungimento degli obiettivi fiscali di base vengono messe in atto. Tuttavia, sottolineano nella dichiarazione, bisogna programmare e realizzare importanti riforme per giungere alla stabilita finanziaria e alla ripresa economica». I tre funzionari hanno annunciato che e stata data ‘luce verde alla concessione della quarta tranche di 15 miliardi di euro, parte del prestito di 110 miliardi di euro concesso alla Grecia e hanno voluto sottoleneare che il progresso sul fronte delle riforme e tropo lento. “Il programma procede – hanno detto – pero rischia di ‘deragliare senza una importante e amplia accelerazione delle riforme”.[…..]
Vi ricordate il discorso sugli obbiettivi della crisi fra cui la svendita dello stato attraverso le privatizzazioni, ghiotto bottino dei “soccorritori” ?? Bene, questa volta presi dall’ incontenibile entusiasmo per l’avicinarsi della festa, la loro arroganza ha superato ogni limite, scoprendo cosi’ le carte e dichiarando pubblicamente in una conferenza stampa gli accordi raggiunti con il governo sull’ incasso di 50 miliardi di euro attraverso la vendita di proprieta’ dello stato e privatizzazioni entro il 2015.
Si puo’ immaginare lo sputanamento del governo “socialista” … e l’imbarazzo del portavoce governativo che in tarda notte ha cercato in estremis di correre ai ripari … “… inaccettabile il comportamento dei rappresentanti della troica e sulla pretesa delle privatizzazioni da 50 mld …. noi prendiamo ordini solo dal popolo greco…” ecc ecc…
Ovviamente nessuno ci crede ormai quando il programma di svendite era gia in aria anzi e’ gia’ in atto. La notizia e’ solo sull’ammontare dei 50 mld …. cosa comprende? energia, trasporti, salute, istruzione, sono scontati …. ora si aggiunge anche l’acqua … ma basteranno??…Alexis 😉
—
Estratto della rassegna http://www.caffeeuropa.it/ del 14.02.2011
Egitto
“Pieni poteri alla giunta militare”, titola il Corriere della Sera, dando conto dell’annuncio dei generali di sciogliere il Parlamento e sospendere la Costituzione. Il Consiglio delle forze armate ha annunciato che guiderà il Paese per sei mesi o fino al voto per la Presidenza e l’assemblea nazionale. Nel frattempo il governo di Ahmed Shafiq resterà in carica in attesa che ne nasca uno nuovo, mentre una commissione emenderà la Costituzione e le sue decisioni saranno oggetto di un referendum. Il Nobel El Baradei dice: “i militari non possono guidare il gioco. Urge una consistente presenza civile nella transizione”. Il Corriere dice che comunque la piazza ha esultato apprendendo della fine della Costituzione ad personam dell’ex presidente e del suo Parlamento.
La Stampa dà conto del comunicato in nove punti con cui il Supremo consiglio ha indicato la direzione di marcia dell’Egitto. Tra l’altro, il Consiglio supremo ha assunto l’autorità di pubblicare leggi per decreto e il Paese si impegna a mettere in applicazione i trattati e gli accordi regionali e internazionali. “Un decimo punto non scritto aggiunge che saranno i militari a determinare il ruolo di Omar Suleiman, che Mubarak aveva nominato vicepresidente in extremis, nella speranza di salvare la sua poltrona. Invece il premier Shafiq, un altro generale, conserva il posto alla gfuida del governo provvisorio. Ciò rafforza le sue ambizioni politiche, anche in vista delle presidenziali, dove probabilmente il blocco sostenitore del regime cercherà comunque di esprimere un candidato. L’opposizione si divide su un comunicato: se l’ex dissidente Ayman Nour lo considera “la vittoria della rivoluzione”, El Baradei avrebbe preferito un governo di tecnocrati e i Fratelli Musulmani invocano l’eliminazione delle leggi marziali e la definizione di un preciso calendario per la transizione. Dallo stesso quotidiano segnaliamo un reportage da Alessandria, dove si è combattuto forse più che al Cairo, ma di certo con maggiore violenza. E per il quotidiano si tratta di “irriducibili” che dei soldati poco si fidano.
L’Unità intervista Rony Brauman, presidente in passato di Medici senza frontiere e oggi docente alla Facoltà di scienze politiche di Parigi. Sul ruolo dell’esercito ricorda che esso detiene il potere “dal 1952, e non può pertanto non essere responsabile dell’azione dei presidenti, e a questo proposito non so a cosa andremo incontro”. Rappresenta però per il Paese – aggiunge – “un fiore all’occhiello in quanto sconfisse, anche se solo provvisoriamente, l’esercito israeliano nel 1973. Infine, è interamente finanziato dagli Stati Uniti e dunque i suoi rapporti con Washington non possono che essere più che buoni”. Sullo stesso quotidiano, intervista a Yossi Sarid, una delle figure più rappresentative della sinistra israeliana e fondatore del Meretz. Parlando delle rivolte in Egitto, dice: “Non ho visto bruciare una sola bandiera israeliana”, “Israele non deve sentirsi orfano di Hosni Mubarak”, perché ciò che è avvenuto in queste settimane in Egitto è “qualcosa di epocale che mette in crisi vecchie certezze e impone a tutti di ripensare se stessi, compresi i nuovi israeliani”. La ribellione egiziana è un fatto di straordinario significato, “in un mondo arabo in cui l’alternativa ai vecchi regimi sembrava essere, o si sperava che fosse, il fondamentalismo islamico”. Chi lo sperava? “I nostalgici del ‘conflitto di civiltà’, e quanti agitavano lo spauracchio fondamentalista per difendere l’attuale status quo”. Il discorso vale anche per Israele, “perché l’idea di essere circondati da piazze arabe dominate da barbuti che invocano la jihad contro il Nemico sionista, piazze in cui si bruciano bandiere con la stella di David, questa idea, che ha avuto – è bene riconoscerlo – anche conferma dalla realtà, serve per giustificare l’arroccamento e per sostenere che è impossibile fidarsi degli arabi”. Hamas ha esaltato la rivolta egiziana: “A parole, in realtà ne temono il contagio”, dice Sarid.
E poi
La Stampa parla di un documentario choc della BBC che ha indagato sulle scuole musulmane che proliferano in Inghilterra. Un giornalista della tv pubblica britannica si è infiltrato nella scuola “Darul Uloom Islamic High School” di Birmingham, raccogliendo voci di odio contro gli “infedeli”. Nove giorni dopo il discorso del primo ministro Cameron sulla fine del multiculturalismo. La Darul Uloom fa parte di un gruppo di istituti note nel mondo come le “Eton dell’Islam”, che hanno l’obiettivo di formare la prossima generazione di leader musulmani. I responsabili della scuola giurano che l’uomo che incitava all’odio nel filmato non era un insegnante, ma uno studente anziano. E che l’altro protagonista, altrettanto violento, è già stato espulso.
Da segnalare su La Repubblica una intervista al ministro delle finanze tedesco Schauble, alla vigilia della riunione di oggi dell’Eurogruppo: “Fissare un tetto al debito nella Carta Costituzionale” è la proposta avanzata, anche perché in Germania funziona. Problemi come quello greco sarebbero stati evitati meglio, dice Schauble.
“Abbiamo sempre detto che l’Euro non è un pericolo”, aggiunge. “Non ci sarà una spaccatura dell’Eurozona, ma per ridurre i pericoli bisogna lavorare sul patto di stabilità, la competitività, un meccanismo di stabilità europeo”.
Su tutti i quotidiani si racconta la “svolta” britannica (così la definisce, ad esempio, il Corriere): sì ai matrimoni gay, che potranno essere celebrati anche in Chiesa. E la notizia è che l asvolta è del governo conservatore di David Cameron. “Da un punto di vista giuridico e pratico -scrive il Corriere- il cambiamentop no nè epocale. Lo è, invece, il principio che lo ispira: la partnership civile, gay compresa, può formarsi liberamente e va riconosciuta in ogni ambito, sociale, e religioso”.
La Chiesa anglicana è divisa: l’Arcivescovo di York pensa che “la democrazia liberale promuove l’uguaglianza” mentre il portavoce della stesso Chiesa anglicana è più cauto: “La Chiesa d’Inghilterra non impartisce la benedizione a coloro che si registrano per le partnership civili”. Il piano è stato messo a punto dal ministro delle pari opportunità, la Lib Dem Featherstone.
Scrive La Stampa che la ministra è pronta a rivedere la legge sulle unioni civili, il Civil Partnership act del 2004, cancellandone l’unica parte che sancisce ufficialmente una diversità impedendo alle coppie dello stesso sesso di giurarsi amore eterno in un luogo di culto: “Non è una questione di diritti dei gay. E’ un fatto di libertà religiosa”, ha detto un portavoce del governo.
“Scandalo a Londra, il governo vuole le nozze gay in Chiesa”, scrive il vaticanista de Il Giornale, spiegando che gli anglicani sono contrari a una riforma che piace solo ad alcune minoranze religiose. Quaccheri, protestanti unitari, ebrei liberali britannici, oltre ad una parte della Chiesa d’Inghilterra, sono disponibili ad ospitare i matrimoni nei rispettivi luoghi di culto.
—
Berlino dice no all’acqua privatizzata 14.02.2011
Il referendum nella città boccia l’affidamento alle aziende del servizio pubblicoBerlino dice nein all’acqua privatizzata. Il referendum che voleva annullare la privatizzazione parziale della società di gestione dei servizi idrici si è concluso ieri con un trionfo dei sì: ne servivano almeno 616.571, ne sono arrivati 665.713. Un risultato che ha sorpreso gli stessi promotori.
UN BENE ESSENZIALE – In serata, scrive Alessandro Alviano sulla Stampa, nel tendone da circo a due passi dal vecchio tracciato del Muro che hanno affittato per seguire i risultati, si contavano più giornalisti che sostenitori del referendum. «Ci speravo, ma non me l’aspettavo più vista la scarsa affluenza inmattinata », racconta Andreas Fuchs, il cassiere del comitato referendario. «È la prova che si può fare molto anche con pochi mezzi», aggiunge, ricordando che il comitato disponeva di appena 12mila euro ottenuti dalle donazioni. A titolo di paragone: gli organizzatori del referendumsulla religione a scuola, fallito due anni fa, avevano raccolto centinaia di migliaia di euro. «Un bene essenziale come l’acqua non può essere fonte di profitto, vogliamo che torni in mano pubblica» gioisce il portavoce del comitato, Thomas Rudek. «È un segnale anche per voi in Italia», si inserisce la sua collega Dorothea Härlin. Il referendum chiedeva di pubblicare integralmente il contratto con cui nel 1999 il Land di Berlino vendette alle società RWE e Veolia il 49,9% dell’azienda dei servizi idrici comunali (Berliner Wasserbetriebe). Stando a Rudek, dal 2001 le tariffe dell’acqua sono salite del 35% e oggi sono tra le più alte in Germania. A Berlino un metro cubo d’acqua costa 5,12 euro, a Colonia 3,26.
MANI PUBBLICHE – Su pressione dei promotori, il Comune ha pubblicato a novembre circa 700 pagine del contratto di privatizzazione parziale: da esse emerge che la città ha garantito alti margini di guadagno a RWE e Veolia. Non solo, ma dal 1999 al 2009 RWE e Veolia hanno incassato più utili di Berlino (1,3 miliardi contro 696 milioni), e questo sebbene la città- Stato detenga il 50,1% della Berliner Wasserbetriebe. Secondo indiscrezioni stampa, nel 1999 vennero firmate altre cinque intese i cui contenuti sono ancora oggi segreti. Ora il parlamento del Land dovrà votare una legge sulla pubblicazione integrale del contratto di privatizzazione. In caso di rifiuto il comitato referendario è pronto a fare ricorso. Il suo obiettivo ultimo resta però quello di riportare interamente la BerlinerWasserbetriebe nelle mani pubbliche. Evitando al tempo stesso di replicare quanto è successo nella vicina Potsdam, dove la società di gestione dei servizi idrici è stata rimunicipalizzata dieci anni fa ma i prezzi sono aumentati e oggi un metro cubo d’acqua costa più che a Berlino: 5,82 euro. Sabato il governo cittadino aveva dichiarato inutile la consultazione. Ieri sera il sindaco Klaus Wowereit ha provato a contenere i danni. L’esito conferma la nostra politica, ha spiegato. Berlino è infatti in trattative con RWE per riacquistare la sua quota nella Berliner Wasserbetriebe.
http://www.giornalettismo.com/archives/113742/berlino-dice-no-allacqua-privatizzata/
—
Il giallo di Van Gogh a rischio degradazione 14.02.2011
Quando pensate a Van Gogh che colori vi vengono in mente? A me i blu scuri dei crepuscoli, i marroni della sua stanza e poi il giallo vivido dei girasoli. Proprio questo colore è a rischio di degradazione e gli esperti stanno cercando una soluzione applicabile al più presto.
Secondo uno studio congiunto di alcune università (Perugia, Anversa, Delf e Grenoble), un preoccupante processo di degradazione a livello chimico è in corso sui gialli utilizzati da Van Gogh (ma anche da Manet e Renoir). Si tratta del giallo cromo, pigmento a base di cromato di piombo, scarsamente stabile a livello fotochimico.
I girasoli, ma anche altri dipinti come Le rive della Senna (1887) e Vista di Arles con Iris (1888), sono destinati a subire un lento processo di imbrunimento che farà scomparire la loro luminosità, se non si riuscirà a trovare una soluzione.
Adesso capirete anche perché al Van Gogh Museum di Amsterdam, se vi beccano con una macchina fotografica, magari anche dotata di flash, non ve la fanno passare liscia.
—
Italia: mini naja, la Regione Lombardia suona la ritirata 13.02.2011
Come è andata a finire? O meglio, come sta andando a finire l’introduzione silenziosa della “mini naja” nelle scuole italiane? Era il mese di ottobre del 2010 quando l’Ufficio scolastico della Lombardia e l’Esercito stipulavano un accordo per il corso scolastico a base di pratiche militari “Allenati alla vita”. Tre settimane per avvicinare i giovani italiani ai “valori” delle armi e della guerra alla modica cifra di 20 milioni di euro in tre anni. Ora però la Regione Lombardia suona la ritirata e sembrano svanire definitivamente nel nulla i “corsi di guerra” visto che al momento nessuna richiesta di patrocinio regionale per l’organizzazione di questi corsi è mai giunta al Pirellone.
Ma facciamo un passo indietro. Nel luglio 2010 viene introdotta nella finanziaria 2010, una proposta fortemente voluta dal ministro La Russa, e ribattezzata fin da principio dalla società civile “legge Balilla”. Il percorso della “mini naja” era partito con un esperimento nell’estate 2009. ”Quando ho cominciato a fare il ministro – aveva ricordato La Russa nel febbraio di quell’anno – uno dei primi punti che mi sono proposto di attuare era proprio quello di cercare di realizzare stage di preparazione atletica, culturale e militare che riguardasse i giovani che volessero accostarsi per un breve periodo alle forze armate e ai suoi valori”.
Così, dopo il coinvolgimento prova di 145 giovani in un corso di due settimane presso la caserma degli Alpini del 6° reggimento di San Candido, ecco il progetto più ampio con l’emendamento in finanziaria a favore dei corsi.
Non tardarono le reazioni. “Questo Governo taglia i fondi per il servizio civile nazionale con il rischio di far morire l’unica esperienza d’impegno civico, promozione della pace, difesa non armata e nonviolenta della patria messa a disposizione dei giovani per avvicinarli invece alle caserme” era stato il commento della CNESC, la Conferenza Nazionale Enti per il Servizio Civile, al quale faceva eco il presidente della Consulta del servizio civile nazionale, Licio Palazzini, in una lettera al presidente della Repubblica, al Premier e ai Presidenti delle Camere, allarmato per “la grave situazione in cui versa il Servizio civile nazionale”, per il quale i finanziamenti sono calati dai 270 milioni del 2008 ai 125 del 2011.
Ma alla voce della CNESC e della Consulta, si aggiunsero le critiche della Tavola della pace e di Azione Nonviolenta che con il presidente Mao Valpiana ricordava come “il Ministero della Difesa dovrebbe pensare alla difesa della nazione. Il Ministero della Pubblica Istruzione dovrebbe pensare all’istruzione dei giovani. Semplice. Confondere la disciplina militare […] con l’educazione scolastica di una classe è un madornale errore”.
Un fraintendimento sulle finalità del percorso? Non sembra, visto che secondo il progetto, queste attività “permettono di avvicinare, in modo innovativo e coinvolgente, il mondo della scuola alla forze armate, alla croce rossa e ai gruppi volontari del soccorso”. Del resto fin da principio La Russa era stato chiaro: “Allenati alla vita preparerà ad un’attività di volontariato che potrà essere svolta dai giovani in accordo con le associazioni d’arma che, finita la linfa fornita dalla leva obbligatoria, lamentano una mancanza di personale”. Intenti che avevano attivato una larga fetta di studenti, su tutti i Collettivi studenteschi di Milano, che avevano portato la loro protesta direttamente nella sede dell’Unuci con un’irruzione pacifica negli uffici.
Ed ecco l’ultimo atto dell’”allenamento alla vita”. Durante il Consiglio regionale della Lombardia del 3 febbraio, in risposta ad un’interrogazione sulla “mini Naja”, il consigliere Romano La Russa del PdL ha sostenuto che nessuna richiesta di patrocinio era mai pervenuta al Pirellone da parte del progetto “Allenati per la vita”. “Ciononostante – hanno sottolineato i collettivi studenteschi – il logo della Regione continua a capeggiare su tutti i materiali inerenti alle iniziative del progetto militaresco. Forse l’iniziativa è talmente impresentabile che la Regione è costretta a negare pubblicamente il proprio patrocinio… “
A questo punto della storia, anche la Regione sembra essersi ritirata dal progetto, “di cui ora più che mai non resta più motivo di esistenza – concludono i collettivi studenteschi – se non quello di continuare a sottrarre fondi preziosi per le nostre scuole e per il nostro futuro […] Ora esigiamo che il governo smetta di spendere miliardi in armamenti e stupide missioni di guerra, di finanziare progetti degni del Ventennio fascista come Allenati per la vita e la Mini Naja, a favore invece del nostro futuro, che soprattutto in tempo di crisi sembra essere sempre più precario e incerto. Per questo ci uniamo al coro che una generazione in rivolta dall’Europa all’altra sponda del Mediterraneo, sta urlando nelle piazze e nelle città: Fund our Future!”.
Alessandro Graziadei
alessandro.graziadei@unimondo.org
http://www.unimondo.org/Notizie/Italia-mini-naja-la-Regione-Lombardia-suona-la-ritirata
—
Stipendio minimo: in Svizzera un referendum per renderlo costituzionale 15.02.2011
I sindacati elvetici e il Partito Socialista svizzero vogliono che il salario minimo dei loro connazionali sia garantito dalla Costituzione Federale. Si parla in soldoni di circa 4000 franchi mensili (3.100 euro lordi), dato che varia a seconda della situazione famigliare. L’idea è quella di raccogliere le firme necessarie per indire un referendum a riguardo.
Sergio Aureli, sindacalista della Unia spiega che con l’approvazione di questa proposta «il legislatore dovrà stabilire un salario minimo legale di 22 franchi l’ora». Il sindacalista ticinese aggiunge in oltre che «in Svizzera il costo della vita è molto alto e molti lavoratori fanno fatica a vivere: mille franchi per l’affitto e altri mille per gli oneri sociali[…]restano 500 franchi per la qualità della vita».
I dati ufficiali diffusi dai promotori del referendum parlano di 1 svizzero su 7 minacciato dalla povertà. Attraverso il volantinaggio spiegano «che 4000 mila franchi al mese non sono un lusso, ma un diritto fondamentale e la condizione irrinunciabile per una vita dignitosa. Salari minimi rafforzano il potere d’acquisto, creando nuovi posti di lavoro. Rappresentano la risposta al dumping: datori di lavoro senza scrupoli abbassano i compensi, non rispettando i salari previsti per il luogo di lavoro e affidando a basso prezzo incarichi a ditte esterne o a dipendenti interinali con stipendi estremamente bassi».
Il commento a questa iniziativa delle sezioni frontaliere dei sindacati italiani Cgil, Cisl e Uil è stato pressoché unanime «Non si barattano i diritti con i soldi», proponendo attraverso la Csir (organismi sindacali che operano nelle zone di confine) un progetto di contrattazione collettiva interregionale che preservi i diritti di tutti i lavoratori europei.
Una visione, quella dei nostri sindacati in controtendenza se paragonata al loro comportamento durante un altro referendum, quello alla Fiat di Mirafiori. Allora, infatti, la maggior parte dei sindacati (Fiom esclusa) accettò la riduzione di qualche privilegio e diritto in cambio dell’aumento anche minimo dei salari.
Fonte: La Provincia di Lecco
—
Dalle profondità del mare nuovi materiali ‘nano-bio’ 16.02.2011
Studiare i processi attraverso cui invertebrati marini quali spugne, mitili e ricci di mare ‘mineralizzano’, e sviluppare innovative tecniche di caratterizzazione e sintesi di nanobiomateriali di origine marina per applicazioni in campo biomedico, nell’elettronica e nella sensoristica.
E’ questo l’obiettivo del network europeo di ricerca ‘Biomintec’, costituito nell’ambito del settimo programma quadro di ricerca, cui l’Italia partecipa attraverso l’Istituto di biomedicina e immunologia molecolare ‘A. Monroy’ (Ibim) del Cnr di Palermo, unico partner italiano assieme a gruppi di ricerca da diversi Paesi d’Europa e dall’Accademia delle scienze di Pechino.
Il network è stato formalmente avviato nel 2008 e, dopo due anni di attività, si è riunito a Palermo per il ‘middle term report’, due giorni di workshop internazionale dal titolo ‘Biomineralizzazione molecolare in organismi marini: nano biotecnologie e applicazione biomedica’.
Valeria Matranga dell’Ibim-Cnr, a capo di un gruppo dall’expertise unico a livello nazionale nel campo della biologia cellulare-molecolare dello sviluppo degli echinodermi ne è stata l’organizzatrice. “Lo studio della biomineralizzazione, cioè il processo per cui organismi viventi quali invertebrati marini depositano biominerali sotto forma di ‘scheletri’ silicei o calcarei”, spiega Matranga, “permette di acquisire elementi importanti per la messa a punto di tecniche di realizzazione di una classe di materiali nano strutturati biocompositi quali silicati e calcite. Attraverso processi controllati biologicamente, sarà quindi possibile realizzare molecole di grande interesse industriale ed economico, con applicazioni nei settori della biologia cellulare e molecolare, delle scienze dei materiali, delle biotecnologie e della biomedicina”.
“E’ stato un momento importante per riunire tutti i team leaders e gli studenti di dottorato internazionale reclutati nell’ambito del progetto, così come i ricercatori dell’area della ricerca di Palermo”, ha aggiunto il direttore dell’Ibim-Cnr Giovanni Viegi.
Il workshop ha fornito anche l’occasione per affrontare argomenti quali la comunicazione della scienza, la rilevanza delle pari opportunità nella ricerca, la tutela della proprietà intellettuale, i brevetti e le possibili carriere ‘alternative’ nella ricerca. Su richiesta dello stesso coordinatore del progetto ‘Biomintec’ è stato organizzato inoltre un momento di riflessione destinato specificatamente ai giovani dottorandi presenti reclutati tramite la ‘Marie Curie action’ del programma europeo ‘People’, impegnati in un percorso di training volto a fare di loro la nuova generazione di ricercatori europei.
Fonte: Valeria Matranga, Istituto di biomedicina e di immunologia molecolare “Alberto Monroy”, Palermo, tel. 091/6809551, email matranga@ibim.cnr.it
—
Egitto, Google orgogliosa del suo uomo 16.02.2011
Mountain View elogia l’operato di Wael Ghonim per le manifestazioni antigovernative a Il Cairo. Big G prepara per lui il benvenuto per quando sarà pronto a tornare
Roma – Google si dichiara molto orgogliosa del proprio ex manager in Medio Oriente e in Nord Africa Wael Ghonim, oramai noto per la sua leadership carismatica durante le manifestazioni nei giorni di rivolta a Il Cairo, che sono culminate con le dimissioni del presidente egiziano Mubarak.
A dichiararlo è stato il CEO uscente di Google, Eric Schmidt, durante un discorso al Mobile Word Congress di Barcellona a fronte di una domanda circa l’uso della tecnologia nelle proteste politiche.
Google durante queste settimane era stata molto cauta nel fornire dichiarazioni che avrebbero potuto assumere una connotazione politica, riguardanti il coinvolgimento di Ghonim nelle proteste antigovernative. Ghonim ha attivamente partecipato alle vicende che hanno sconvolto Il Cairo nelle ultime settimane. Il manager di BigG aveva aperto una pagina Facebook dedicata a Khaled Said, il ventottenne di Alessandria d’Egitto torturato a morte da due poliziotti in un internet café nel giugno scorso, inoltre, attraverso vari social network, aveva tentato di fornire aggiornamenti sulla situazione nelle strade del paese e aveva animato il dibattito politico attraverso dei filmati caricati su YouTube.
Dichiarando più volte di non voler abbandonare la piazza prima della liberazione del Paese, il manager è stato fermato, prelevato e incarcerato dalle forze di sicurezza egiziane. Dopo due settimane di silenzio, Ghonim è stato rilasciato e ha ripreso il suo posto in prima fila tra i manifestanti.
In una intervista alla CBC, il manager ha dichiarato pubblicamente di aver ingannato l’azienda, tenendola all’oscuro della sua partecipazione alle manifestazioni antigovernative, volendo in tutti i modi dissociare le proprie azioni personali dalla sua vita professionale.
Ghonim, insomma, ha voluto sollevare Google da ogni responsabilità, spiegando che l’azienda non aveva mai saputo direttamente nulla del suo ruolo durante le uscite nella capitale egiziana. Di seguito, Ghonim aveva dichiarato che si sarebbe sentito onorato di poter un giorno eventualmente tornare in Google se l’azienda non avesse deciso di licenziarlo.
Mountain View durante queste settimane si era limitata a dichiarare che aveva rappresentato un “grande sollievo” la notizia che il dipendente fosse stato rilasciato dopo ben 12 giorni di detenzione da parte della polizia egiziana. Ora l’azienda si dice essere “orgogliosa dell’operato del manager” annunciando di dargli il benvenuto quando sarà pronto a tornare.
Raffaella Gargiulo
http://punto-informatico.it/3090581/PI/News/egitto-google-orgogliosa-del-suo-uomo.aspx
—
di Roberto Ciccarelli
IL TEMPO CHE VERRÀ DEL «BOOK BLOK»
La fabbrica DEL SAPERE 16.02.2011
Si è chiuso a Parigi il meeting internazionale organizzato da «Edu-Factory». Dal «debito d’onore» alla critica della precarietà, analisi e proposte per contrastare le politiche di austerità che colpiscono l’università e la ricerca. Lanciata una settimana di mobilitazioni e una carovana che dal vecchio continente arrivi nel Maghreb
Se per Dirk Van Damme, direttore del dipartimento istruzione dell’Ocse, la crisi rischia di cancellare le università europee dai vertici delle classifiche mondiali, le politiche di tagli ai fondi per l’istruzione pubblica adottate dai governi europei negli ultimi due anni condurranno molti atenei a portare i libri in tribunale. Ad un primo sguardo il verdetto contiene il tono apocalittico che ormai pervade le statistiche italiane sulle politiche universitarie. Ad ascoltare le analisi documentate e competenti svolte dagli studenti che hanno partecipato nel fine settimana a Parigi al seminario sulle «lotte contro l’austerità per una nuova Europa», la dismissione dell’università e la privatizzazione delle sue modalità di governo è un processo comune a tutti i paesi dell’Unione Europea, e non solo. Se ad esempio la Polonia ha rinviato gli investimenti nelle infrastrutture, la Lituania, la Repubblica Ceca, l’Ungheria hanno ridotto del 30 per cento gli stipendi degli insegnanti. In Irlanda, dopo una riduzione del fondo per l’istruzione del 60 per cento nel 2010, quest’anno si prevede una riduzione dei docenti universitari mentre diverse facoltà verranno chiuse. In Italia il taglio al fondo per gli atenei è stato del 14 per cento (da 7,4 a 6,1 miliardi di euro all’anno), ma la stessa cosa avviene in Austria dove da 2 anni il movimento studentesco si batte contro l’aumento delle tasse di iscrizione.
La bolla formativa
Questi tagli sono accompagnati da un crescente indebitamento degli studenti. Nel seminario organizzato dalla rete transnazionale di studenti e ricercatori «Edu-Factory» (in cui è maggioritaria la presenza degli italiani che studiano e lavorano all’estero) è stato spiegato come nei Paesi Bassi nel 2011 avverrà la trasformazione delle borse di studio in un sistema di prestiti bancari per i giovani. Questa proposta, in tutto simile al «fondo per il merito» che la riforma Gelmini ha istituito presso il ministero dell’economia facendola gestire dalla concessionaria Consap, è il principale sintomo della trasformazione finanziaria della vita studentesca. In Giappone, ad esempio, il rinvio degli investimenti, il blocco delle assunzioni, il taglio delle risorse e la precarizzazione totale dell’insegnamento sono stati l’antefatto della criminalizzazione degli studenti.
I dati sono impressionanti e li abbiamo appresi da una studentessa nipponica giunta a Parigi per il convegno insieme ad altri 500 coetanei di 15 paesi diversi. L’80 per cento degli studenti giapponesi laureati deve ripagare un debito medio di 8.800 euro alla Japan Student Service Organization (Jasso), un’azienda privata di riscossione che ha il compito di denunciare alle autorità bancarie chi non ripiana il debito. Le pene previste vanno dalla chiusura dei conti correnti al blocco delle carte di credito fino all’arresto degli studenti inseriti in una «lista nera». Verso questo futuro è avviata anche l’Europa che ha trasformato le scuole e le università in luoghi di formazione di lavoratori precari indebitati e non più delle élite nazionali come per molto tempo ha creduto di fare con l’università di massa. Nei paesi mediterranei come il Portogallo l’identificazione tra lo studente e il precario è quasi totale. Il 90 per cento dei nuovi lavori è intermittente. La ricerca della prima occupazione si è allungata a dismisura, mentre aumenta la domanda di specializzazione da ottenere con master o dottorati.
In un sistema dominato da una «bolla formativa» che rischia di esplodere da un momento all’altro, non molto diverso da quanto è già accaduto in Spagna o in Grecia, non si contano i laureati costretti ad accettare lavori dequalificati. In questo scenario che molti nell’assemblea generale tenuta venerdì scorso all’Ecole des Hautes Etudes hanno definito «regressivo», quello che domina è una spaventosa docilità. Le imprese e il settore pubblico cercano persone pronte ad accettare tutto per un lavoro. Pesa la difficoltà di organizzare il lavoro precario della conoscenza, mentre cresce il tasso di individualismo. Cambia inoltre l’organizzazione didattica dei corsi.
I manager della conoscenza
Questa trasformazione porta il nome del «processo di Bologna», una lista di linee guida (e non una legge comunitaria) che l’Italia ha applicato per prima dieci anni fa con la riforma Berlinguer-Zecchino dei cicli didattici e che oggi rappresenta il modello per tutte le università europee e statunitensi. Essa comporta la rigidità e l’iper-regolamentazione degli studi, l’assoggettamento ad un criterio efficientistico della didattica e della ricerca, la liquidazione delle scienze umane e sociali a favore delle discipline come il marketing utili per la caccia ai finanziamenti privati. Dalla Polonia all’Ucraina, dall’Inghilterra alla Grecia, le università sono guidate da rettori manager esperti nella gestione finanziaria della formazione e dei bilanci.
Gli esiti fallimentari di questo processo hanno convinto gli studenti a formare una rete europea di coordinamento delle lotte che entrerà in azione nella settimana tra il 24 e il 26 marzo a Londra e in molte altre città. La mobilitazione prevede l’occupazione delle banche con lezioni e assemblee, la creazione di un giornale comune e di un sito, oltre che il ricorso al «book block» – simbolo dell’autunno studentesco a Roma e Londra. Non è escluso che ad Aprile la carovana farà tappa in Tunisia, dove la generazione precaria è alla guida della rivoluzione democratica.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20110216/pagina/11/pezzo/297349/
—
‘Alemanno voleva proibire gli Ogm
siamo intervenuti su Letta e B.’
Nel 2003 gli Stati Uniti erano preoccupati perché la politica dell’allora ministro dell’Agricoltura avrebbe potuto danneggiare l’export americano di sementi modificate. Allora i diplomatici si rivolgono prima a Frattini e poi al sottosegretario, che subito telefona al premier. E la legge di Alemanno viene subito bloccata
Wikileaks
C O N F I D E N T I A L ROME 005149
SOGGETTO: ITALIA/BIOTECH: BERLUSCONI RASSICURA SULLA PROPOSTA DI DECRETO LEGGE SULLA COESISTENZA DELLE COLTURE
REF: A. ROME 5127
B. ROME 5093
Classified By: CHARGE D’AFFAIRES EMIL SKODON,
FOR REASONS 1.5(B)(D)
1. (C) Riassunto: Il resoconto A descrive il recente tentativo del ministro italiano per le politiche agricole Gianni Alemanno di vietare la produzione di coltivazioni biotech in Italia attraverso l’approvazione di un decreto legge che limita la coesistenza (tra colture). Date le probabili conseguenze negative di questa proposta, quantomeno rispetto all’esportazione di sementi statunitensi in Italia, l’ambasciatore Sembler ha opposto forti obiezioni all’approccio del Ministro in alcuni colloqui separati, che si sono tenuti questo weekend: con il ministro degli Esteri Frattini (in data 10 novembre); con il consigliere di fiducia del primo ministro Silvio Berlusconi, il sottosegretario Gianni Letta; e con il Primo Ministro stesso, in una telefonata che ha avuto luogo nell’ufficio di Letta (l’11 novembre). Il sottosegretario e il Primo Ministro hanno assicurato all’Ambasciatore che, sia a livello tecnico sia politico, la proposta di decreto legge del Ministro Alemanno sarà bloccata. Fine del riassunto.
Incontro con Frattini
———————
2. (C) Come riportato dal resoconto B, l’ambasciatore, in occasione di un colloquio con il ministro degli esteri italiano Frattini, ha sollevato alcune obiezioni sulla proposta di coesistenza delle colture fatta dal ministro Alemanno. Frattini ha detto che Alemanno aveva preferito assumere una posizione più restrittiva sul biotech rispetto ai regolamenti europei. E in quanto ministro degli esteri – dal momento che le proposte di Alemanno superavano quanto approvato dall’UE – si è offerto di spiegare al Consiglio dei ministri che la politica italiana dovrebbe essere in linea con le normative europee.
Colloquio con Letta e con Berlusconi, al telefono
——————————
3. (C) L’11 novembre, l’Ambasciatore, accompagnato da AgAtt e Ecmin ha discusso per 30 minuti con il sottosegretario Letta, il più fidato consigliere del primo ministro Silvio Berlusconi, circa le preoccupazioni statunitensi in merito alla proposta di decreto legge. Anche se la proposta di legge circolava ormai da diversi giorni tra i ministeri italiani, Letta è ci apparso realmente all’oscuro della sua esistenza. Nondimeno, ne ha immediatamente colto il significato. Letta ha spiegato che Alemanno ha subito pesanti pressioni dalla Commissione europea per abolire il cosiddetto Decreto Amato (che vietava la vendita di quattro varietà di mais geneticamente modificato, invece approvate dall’Europa). «Ma sembra che lo stia facendo aumentando le restrizioni invece di diminuirle», ha aggiunto. L’ambasciatore ha pienamente concordato. In seguito ad alcune telefonate, Letta ha spiegato all’Ambasciatore che il decreto legge non era inserito nell’agenda settimanale del Consiglio dei ministri, e che quindi non era prevista nessuna azione imminente.
4. (C) Quindi Letta ha preso il ricevitore per fare un’altra telefonata, stavolta chiamando direttamente il primo ministro Berlusconi. Letta ha brevemente fatto il punto della situazione e dopo aver messo il telefono in modalità viva-voce ha passato la cornetta all’Ambasciatore Sembler. Dopo aver ribadito il suo continuo supporto al presidente Bush negli sforzi per la diffusione della democrazia nel mondo ed essersi augurato che l’Ambasciatore sia stato bene nel suo viaggio a Washington durante la visita del presidente Ciampi, Berlusconi ha quindi promesso che non avrebbe lasciato passare al consiglio dei ministri la proposta di decreto legge del ministro Alemanno per come gli era stata appena descritta. L’ambasciatore ha sinceramente ringraziato.
5. (C) In conclusione, Letta ha annunciato che sarebbero stati trovati meccanismi «tecnici o di procedura» per far non far passare la proposta Alemanno. Ma ha ripetuto che, se necessario, il procedimento poteva e sarebbe stato bloccato politicamente.
Commento
——-
6. (C) Siamo molto incoraggiati dalla rapida e apparentemente decisa risposta di Berlusconi e Letta alla manovra dell’ambasciatore. Noi crediamo che loro assicurino un’alta percentuale di probabilità che il decreto Alemanno sia messo da parte. Tuttavia, ci aspettiamo anche che il ministro delle politiche agricole cerchi in altri modi di realizzare la propria visione di un’Italia libera dal biotech. Alemanno è in procinto di emettere la circolare ministeriale 2004 sulla produzione di semi dove si dichiara tolleranza zero agli Ogm nelle sementi convenzionali. Il protocollo di test sulla produzione di semi si pensa che stabilirà allo 0,1% la soglia massima di biotech nelle sementi convenzionali.
SKODON
http://racconta.espresso.repubblica.it/espresso-wikileaks-database-italia/dettaglio.php?id=2
Prelevato il 18.02.2011
—
Mafia mette in fuga museo italiano
Articolo di Società cultura e religione, pubblicato mercoledì 2 febbraio 2011 in Olanda.
[NRC Handelsblad]
Il CAM_Casoria Contemporary Art Museum vuole trasferirsi a Berlino. Il direttore del museo della zona di Napoli chiede “asilo politico” in una lettera ad Angela Merkel. Il museo subisce minacce dalla mafia da due anni.
I problemi sono iniziati con un’esposizione sull’Africa, in seguito all’assassinio dei sei ghanesi a Napoli. La camorra, che viene sospettata dei delitti, ha cercato di far annullare l’esposizione con minacce telefoniche. Ma il direttore Antonio Manfredi non si è fatto intimorire e ha reagito organizzando un’esposizione sulla camorra stessa. La sua iniziativa non è stata gradita. “A un certo punto, ho trovato una bambola nera sul gradino dell’entrata. Allora capisci che la camorra ti dice di stare attento”. Manfredi ha denunciato il fatto alle autorità locali e persino al Presidente Giorgio Napolitano, il quale in una lettera lo ha invitato a farsi coraggio.
“Ma loro non fanno nulla”, dice Manfredi. “Il governo italiano lascia che la propria cultura venga depauperata. Dopo i crolli avvenuti a Pompei, si tocca di nuovo il fondo. Se le autorità lasciano che un tale patrimonio mondiale venga polverizzato, perché allora dovrebbero preoccuparsi di un modesto museo alle porte di Napoli?”.
Lo scorso anno il governo italiano ha ridotto i sussidi alla cultura di una buona metà. Il curatore tiene in piedi il museo grazie a volontari e sponsor locali. “Ma non si tratta solo di soldi. Nei cinque anni di mia gestione del museo, ho ricevuto le visite di consoli, ministri e altri personaggi di rilievo provenienti da tutto il mondo, ma del governo italiano non ho visto nessuno”.
Manfredi non si fa illusioni che la Merkel conceda ‘asilo politico’ al suo museo. “La Merkel non vorrà mettere in gioco a rischio le relazioni politiche tra Germania ed Italia”.
[Articolo originale “Italiaans museum vlucht voor maffia” di Servaas van der Laan]
http://italiadallestero.info/archives/10859
—
Italia in guerra contro i migranti con i radar d’Israele 10.02.2011
Potenti radar a microonde prodotti in Israele stanno per essere installati all’interno di parchi e riserve naturali del sud Italia per contrastare gli sbarchi dei migranti. La nuova Rete di sensori radar di profondità per la sorveglianza costiera sarà integrata al sistema di comando, controllo, comunicazioni, computer ed informazioni (C4I) della Guardia di finanza. Grazie alle risorse del “Fondo europeo per le frontiere esterne”, programma quadro 2007-08 contro i flussi migratori, il Comando generale della forza armata ha acquistato cinque sofisticati EL/M-2226 ACSR (Advanced Coastal Surveillance Radar) realizzati da Elta Systems, società controllata dalla Israel Aerospace Industries Ltd. (IAI). I radar sono appositamente progettati per l’individuazione di imbarcazioni veloci di piccole dimensioni. “Le immagini ad alta risoluzione captate dal sistema – informano i manager dell’industria bellica israeliana – vengono utilizzate per prevenire l’immigrazione e la pesca illegale, il traffico di droga, gli attacchi terroristici e il contrabbando; per realizzare missioni di ricerca e salvataggio; per individuare target aerei, navali, sottomarini e segnali emessi da antenne radar”.
L’EL/M-2226 ha una portata di oltre 50 chilometri e, posto a livello del mare, è in grado di scoprire uno scafo veloce a 10 miglia o un gommone a 7. “Il duplice esame ottico e all’infrarosso degli obiettivi sospetti scoperti dal radar ne consentono la distinzione in leciti o illeciti”, si legge sulle brochure di Elta Systems. “Il sistema è in grado di mantenere sottocontrollo oltre cento bersagli contemporaneamente; il riconoscimento dei gommoni impiegati nell’immigrazione clandestina avviene con l’analisi, per ogni natante avvistato, della velocità, rotta, provenienza, dimensioni, riconoscimento del numero di persone a bordo. Opera 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, anche in condizioni climatiche particolarmente avverse, in network con altri tipi di sensori installati su imbarcazioni navali, aerei ed elicotteri”.
La società israeliana fornisce pure qualche dato sulle caratteristiche tecniche dell’ultima generazione di strumenti anti-immigrati. “L’EL/M-2226 fa parte della famiglia di trasmettitori Linear Frequency Modulated Continuous Wave (LFMCW) in X-band (dagli 8 ai 12.5 GHz di frequenza)”, quelli che operano cioè emettendo microonde, le onde molto corte comprese tra i 300MHz e i 300 GHz, estremamente pericolose per l’uomo, la fauna e la flora. “L’angolo di esposizione azimutale è di 1.5°, mentre quello in altezza è di 3.5°”, aggiunge Elta Systems. “Il sistema è stato sviluppato nella configurazione a corto, medio e lungo raggio e incorpora un’antenna fissa, un trasmettitore radio, un ricevitore, un processore del segnale ed un’unità di controllo e gestione informatica. Il network dei diversi impianti radar può essere facilmente controllato da un unico Centro di comando/VTMS remoto. L’EL/M-2226 è stato installato lungo la costa israeliana ed integrato alla rete difensiva marittima che verrà potenziata con altre cinque potenti stazioni radar. La marina militare israeliana ha utilizzato questo sistema nel gennaio 2002 per individuare nel mar Rosso l’imbarcazione palestinese Kareen A che trasportava armi”. Adesso è il turno dell’Italia contro i migranti e i profughi in fuga dai conflitti africani e mediorientali.
Anche se il Comando generale della Guardia di finanza mantiene il riserbo sulle località prescelte per installare i cinque radar a microonde, tre di esse sono note. Si tratta di Gagliano del Capo (Lecce), Siracusa e dell’isola di Sant’Antioco in Sardegna. Nel Salento l’impianto sorgerà in un terreno di 300 mq ubicato tra le località “Sciuranti” e “Salanare”, all’interno del perimetro del parco naturale Otranto – Santa Maria di Leuca – Bosco di Tricase. In Sicilia, il radar sarà installato a Capo Murro di Porco presso la stazione di sollevamento fognario del Comune di Siracusa, zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed archeologico e prospiciente l’oasi marina protetta del Plemmirio, istituita nel 2005. Il terzo impianto sarà creato invece all’interno dell’ex stazione radio militare di Sant’Antioco di proprietà della Regione Sardegna, in località Capo Sperone – Su Monti de su Semaforu. Si tratta di una splendida area costiera ricadente nel parco di “Carbonia ed Isole Sulcitane”, dove sono presenti pure fabbricati particolarmente significativi dal punto di vista storico-culturale ed architettonico.
In tutti e tre i luoghi, le antenne radar saranno montate in cima a tralicci alti 36 metri; saranno realizzate estese piattaforme in calcestruzzo, shelter e cabine destinate a contenere gli apparati di trasmissione. I lavori sono stati appaltati il 22 ottobre 2010 alla “Almaviva SpA” di Roma, principale gruppo italiano di consulenza e servizi IT (Information & Communication Technology) per la pubblica amministrazione, gli enti di previdenza, le banche, ecc.. Per complessivi 5.461.700 euro, Almaviva assicurerà l’installazione e la manutenzione dei cinque impianti radar e la formazione “attraverso quattro corsi” del personale della Guardia di finanza. L’appalto è stato concesso dal Comando generale della Gdf senza l’indizione e la previa pubblicazione di un bando di gara nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, con la motivazione che “i lavori e i servizi possono essere forniti unicamente da una determinata fornitrice, la Almaviva SpA, che possiede le prescrizioni di natura tecnica e i diritti esclusivi dei materiali”.
Con un fatturato annuo di 865 milioni di euro, la società romana è particolarmente attiva nel settore della difesa e della sicurezza. Oltre alla Guardia di finanza, tra i suoi clienti compaiono la NATO, lo Stato Maggiore della difesa, l’Aeronautica militare, la Marina militare, l’Arma dei Carabinieri e il Dipartimento di pubblica sicurezza. “Collaboriamo con le forze di polizia nella gestione della sicurezza in mare, dei confini territoriali e degli aeroporti e nella protezione di infrastrutture sensibili”, spiegano i manager di Almaviva. “Sviluppiamo sistemi di comando, controllo e comunicazioni, di videosorveglianza territoriale e messaggistica, applicazioni per la logistica e il personale, tecnologie e soluzioni biometriche per l’identificazione. Abbiamo messo a punto sistemi C4I, strategici e tattici, per la gestione di operazioni terrestri, aeree e navali, l’integrazione dei servizi di sorveglianza radar ed elettro-ottici e delle informazioni provenienti da varie tipologie di sensori dislocati su piattaforme fisse o mobili”.
Almaviva è uno degli attori privati chiave nel campo delle politiche “sicuritarie” e di contrasto all’immigrazione. Oltre ad aver collaborato con il governo nella realizzazione del “permesso di soggiorno elettronico”, la società partecipa ai progetti previsti dal programma operativo nazionale (PON) “Sicurezza per lo sviluppo – Obiettivo Convergenza 2007-2013”, finalizzato ad “aumentare le condizioni di sicurezza e legalità in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia”. Il 21 aprile 2010, in associazione temporanea con Unisys SpA e Secom Srl, Almaviva si è aggiudicata la gara indetta dalla Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere per la realizzazione di un “sistema di raccolta informazioni, analisi e relativo monitoraggio finalizzato al coordinamento delle attività di contrasto all’immigrazione clandestina attraverso il Mediterraneo allargato e le frontiere terrestri (SATM)”.
La società ha assicurato infine l’aggiornamento tecnologico e i software per il funzionamento di quattro sistemi di sorveglianza costiera M.C.S.S. (Mobile Coastal Surveillance System). Si tratta delle configurazione mobile del radar israeliano EL/M-2226 ACSR, che la Guardia di finanza ha dislocato in Calabria e Sicilia a partire dell’estate 2008, grazie ai fondi strutturali europei previsti dal “Programma Operativo di Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno di Italia – QCS 200/2006”. “Il complesso M.C.S.S., interamente allestito dalla società israeliana IAI-Elta Electronics Industries Ltd di Ashdod, si compone di quattro elementi: il radar di scoperta, il sistema di riconoscimento optronico, lo shelter ed il veicolo di trasporto prodotto da Iveco”, spiega il Comando della Gdf. “Per il loro impiego occorrono tre operatori: l’addetto alla scoperta e riconoscimento, l’addetto alle telecomunicazioni ed il conduttore del mezzo. Nello shelter destinato al Corpo sono installati gli apparati radio necessari ad assicurare i collegamenti con le sale operative, i mezzi terrestri e navali e i velivoli di trasporto radar. Il sistema è sicuro: ha superato le prove di radioprotezione e rientra nei parametri stabiliti in ordine alle emissioni di onde elettromagnetiche”. Non la pensano così i residenti del comune di Montallegro, in provincia di Agrigento. Dopo la collocazione del radar mobile nella fascia costiera compresa tra Bovo Marina ed Eraclea Minoa, si registrerebbero con frequenza guasti inspiegabili ad impianti elettrici, sistemi d’allarme ed elettrodomestici.
http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2011/02/italia-in-guerra-contro-i-migranti-con.html
—
La goccia del Bahrein 17.02.2011
La rivolta nel cuore di Manama rappresenta un ulteriore aspetto del cambiamento in atto nel Medioriente
E ora, come finirà la rivolta in Bahrein? La scia di fuoco partita dalla Tunisia che sta percorrendo tutto il Medioriente ha raggiunto il regno della dinastia al-Khalifa, sull’isolotto nascosto in un’ansa del Golfo Persico. Non che l’opposizione sciita si sia svegliata solo adesso: il confronto con il potere sunnita è in atto da anni, ma adesso che anche il “Faraone d’Egitto” Hosni Mubarak è caduto, sembra essere giunto il momento della sfida finale.
La piazza Tahrir di Manama, capitale del Bahrein, si chiama Rotonda delle Perle. Da lunedì gli sciiti – che costituiscono i due terzi dell’intera popolazione (di poco superiore a 700 mila) – hanno occupato la piazza centrale della città per chiedere maggiori diritti e opportunità, le dimissioni del re Sheik Hamid ibn Isa al-Khalifa o, almeno, che il premier venga eletto dal popolo e non imposto dalla famiglia reale. Al momento, sembra che la casa reale non sia disposta al dialogo: i cinque morti, 60 dispersi e i quasi duecento feriti sono una risposta eloquente. Secondo quanto raccontato ai microfoni di Al-Jazeera da un esponente del partito sciita al-Wifaq, i manifestanti sono stati attaccati mentre dormivano, durante la notte, senza alcun preavviso. Inoltre, quando una folla di persone si è messa in fuga, è stata accerchiata dalla polizia proveniente dalla parte opposta che ha cominciato a sparare gas lacrimogeni e bombe stordenti. “Un vero atto terroristico”, lo ha definito Abdul Jalil Khalil, il deputato di al-Wifaq che era in piazza con i dimostranti. Da stamattina, i blindati e l’esercito hanno preso il controllo della piazza ma, secondo testimonianze locali, gli scontri si sono spostati anche in altri quartieri di Manama.
La situazione in Bahrein è altrettanto delicata: il rischio maggiore è che la protesta possa trasformarsi in guerra civile che vedrebbe contrapposta la maggioranza sciita – frustrata e impoverita – alla ricca e potente minoranza sunnita raccolta intorno al re Hamid.
La posta in gioco, però, è molto alta e non riguarda solo la fazione sciita e quella sunnita: tanto il gergo diplomatico, quanto quello degli analisti politici, sta facendo ricorso – a ragione – a termini quali “reazione a catena” ed “effetto domino”, cercando di prevedere quale sia il tassello cruciale, la goccia in più che potrebbe spostare gli equilibri nel Grande Medioriente. Il Baherein, potrebbe essere proprio quel pezzo.
È vero, gli Stati Uniti stanno seguendo con attenzione gli sviluppi in Egitto – perno fondamentale nelle relazioni tra il mondo arabo e Israele; monitorano la Tunisia, l’Algeria e l’Iran. Ma Washington, in questo momento – crediamo – faccia bene a essere tutta concentrata su quanto potrebbe accadere nel Bahrein.
Il regno del Bahrein è strategicamente fondamentale per gli Stati Uniti che lo hanno scelto come base logistica di appoggio alla V Flotta della Marina. Le portaerei e le corvette che incrociano nelle acque del Golfo assicurano il transito tranquillo, ogni giorno, attraverso lo stretto di Hormuz del 20 per cento del petrolio mondiale. Dai ponti delle navi della V Flotta, gli Stati Uniti guardano negli occhi di Teheran e fanno sentire, a intermittenza, agli ayatollah la loro ingombrante presenza. Che cosa succederebbe se un cambio repentino di regime spingesse il Bahrein diretto, diretto nelle braccia dell’Iran? Il primo effetto sarebbe la perdita della base nel Golfo. L’altra, la più vicina, è quella di Diego Garcia, un puntino nel bel mezzo dell’Oceano Indiano che certamente non permetterebbe un pattugliamento efficacissimo nelle acque del Golfo.
Il Bahrein ha fatto parte dei territori iraniani fino al 1782, quando una banda di pescatori di perle e di pirati – il clan al-Khalifa – si impossessò dell’isola e siglò immediatamente accordi commerciali con la Gran Bretagna in cambio di protezione contro ogni tentativo di ritorsione da parte della Persia. La Gran Bretagna ne ha mantenuto il controllo fino al 1971, quando ha riconosciuto l’indipendenza del regno. Non appena lo scià di Persia Reza Pahlavi avanzò rivendicazioni, gli al-Khalifa si sono rivolti agli Stati Uniti che non si sono lasciati sfuggire l’occasione. Ancora oggi l’Iran continua a guardare al Bahrein come a un proprio possedimento e, inutile dirlo, gli sciiti del Bahrein guardano con un certo amore filiale a Teheran.
Nel Medioriente è in corso una Fitna (guarda il dossier di PeaceReporter curato da C. Elia), una vera e propria Guerra Fredda che vede protagonisti i sunniti contro l’asse sciita che va dal Libano all’Iran. Le maggiori preoccupazioni arrivano proprio dall’Arabia Saudita che teme lo sfondamento dell’Iran sciita. E a Ryadh sanno bene quanto importante sia il cuscinetto del Bahrein e della V Flotta degli Usa: l’ex agente della Cia Robert Baer ha definito il cordone di navi statunitensi la Linea Maginot del mondo sunnita. Caduta quella, niente fermerebbe l’espansione sciita.
Nicola Sessa
http://it.peacereporter.net/articolo/26926/La+goccia+del+Bahrein
—
Cgil, finanza, Ituc, Sarkozy, Ttf di Paolo Andruccioli
Finanza, la tassa prende quota 17.02.2011
Il 17 febbraio è stata la giornata mondiale della tassa sulle transazioni finanziarie. Scendono in campo a sostegno della vera Robin-tax anche Ituc e Cgil
Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, non ci aiuta. Pur essendo stato tra i primi leader mondiali che si sono espressi contro gli effetti devastanti della crisi scatenata dai subprime americani (anche se le cause come sappiamo erano anche precedenti) ed essendo stato tra i convinti assertori di una politica di controllo sui flussi finanziari, ora rischia di mandare un messaggio contrario al mondo per i suoi dubbi sulle tasse sui ricchi e sulle tasse sui patrimoni in generale. Il presidente francese pare infatti si sia convinto della necessità di sopprimere la patrimoniale (Isf, imposta sulla fortuna), nonostante il parere assolutamente contrario dell’opposizione e quello molto dubbioso della sua stessa maggioranza politica. ”L’imposta sulla fortuna – ha spiegato Sarkozy – è soppressa ovunque in Europa, è stata soppressa dai socialisti tedeschi e dai socialisti spagnoli”.
Ma se i dubbi del presidente francese – espressi proprio alla vigilia di una grande iniziativa sulle tasse del sindacato mondiale– si concentrano sulla patrimoniale, o meglio sul particolare sistema francese di “tassa della fortuna”, pare invece rimanga convinto di un’altra forma di tassazione, quella sulle transazioni finanziarie internazionali, la cosiddetta Robin Hood Tax. Si tratta di una tassa pensata per reperire le risorse necessarie per rilanciare una crescita fondata sull’economia reale, un’idea che si ispira a quella ben più famosa lanciata qualche anno fa dall’economista premio Nobel, James Tobin. Ora la Robin Tax – meglio conosciuta all’estero come Ttf – è diventata la nuova proposta del sindacato internazionale Ituc Csi, che è riuscito a coinvolgere in una mobilitazione globale tutti i sindacati di tutti i paesi.
Secondo i calcoli della confederazione mondiale, una tassa dello 0,005% sulle transazioni potrebbe generare un flusso di denaro, a livello globale, pari a 400 miliardi di dollari l’anno. In Italia, vista la situazione dei rapporti tra i sindacati confederali, non è stato possibile lanciare in modo unitario la giornata di azione globale. Se ne è fatta carico la Cgil che ha intenzione di creare un vasto movimento intorno alla proposta dell’Ituc.
La tassa sulle transazioni internazionali è stata pensata per reperire risorse, ma anche per regolare i flussi della finanza globale. Come sappiamo, infatti, ci sono operazioni finanziarie e speculative che si consumano nel giro di una manciata di secondi, mentre le acrobazie dell’ingegneria finanziaria si allontanano sempre di più dai problemi concreti dell’economia reale.
La proposta dell’Ituc, il sindacato mondiale diretto in questo momento da una donna, Sharan Burrow, si basa su dieci punti chiave. Tra i dieci punti, ricordiamo che le Ttf o Robin Hood Tax possono produrre un gettito fiscale molto consistente, che secondo i primi calcoli si aggira appunto sui 400 miliardi di dollari; non si tratta di tasse che gravano sulla gente comune, né sui fondi pensione che come è noto agli esperti sono investitori istituzionali che movimentano i loro portafogli in termini di operazioni finanziarie una o due volte l’anno, a differenza appunto di altri investitori che movimentano i loro patrimoni anche più volte al giorno. Le Ttf, secondo gli esperti, possono contribuire a ridurre la volatilità degli investimenti finanziari o quanto meno arginare le pratiche da casinò dell’high frequency trading. La Robin Hood Tax è considerata poi una tassa con una forte caratterizzazione etica, visto che sarebbe pagata da soggetti che possono sicuramente permetterselo.
Negli altri paesi ci sono sponsor autorevoli che hanno preso a cuore la proposta del sindacato mondiale. Oltre a Sarkozy per la Francia, in Germania il cancelliere Angela Merkel spinge nella stessa direzione, mentre a livello mondiale sono molte le personalità che hanno già aderito alla campagna: tra questi l’ex presidente del Brasile, Lula. Tutto aperto il dibattito politico ed economico sull’utilizzo di queste ingenti risorse, qualora il sogno di una tassa sulle transazioni finanziarie diventasse realtà. Alcuni sindacati spingono per utilizzare le nuove risorse per la difesa dell’ambiente. Altri per ridurre la povertà nel mondo, cominciando dai paesi più arretrati. Altri pensano che sia necessario utilizzare le risorse per contribuire a ridurre la disoccupazione giovanile. Ma il percorso è appena stato avviato. La strada è lunghissima.
Paolo Andruccioli è coordinatore dell’ufficio stampa della Cgil. La Cgil nazionale illustra la proposta del sindacato internazionale in una conferenza stampa, giovedì 17 febbraio, a Roma presso la sede della Cgil Nazionale in Corso d’Italia 25 alle ore 11. A spiegare la proposta sarà il segretario confederale della Cgil, con delega alle politiche economiche, Danilo Barbi.
Sulla Ttf si veda anche il capitolo del libro “Dopo la crisi” intitolato “Una tassa sulla speculazione” (scaricabile, con lil pdf della prima parte del libro, qui) e il sito della campagna Zerozerocinque.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Finanza-la-tassa-prende-quota-7770
—
appello, capitali, Clinton, Geithner, Stati Uniti di Carlo Cocuzzo , Francesco Bloise
Facciamogliela pagare 18.02.2011
Cara Clinton, cari Geithner e Kirk… Oltre duecentocinquanta economisti (139 americani, 118 in rappresentanza degli altri paesi) chiedono un ritorno dei controlli sui movimenti di capitale. Tra loro Stiglitz e altri big del pensiero economico. Le lobby partono al contrattacco, il dibattito supera i confini statunitensi
Il dibattito economico statunitense si è arricchito recentemente di un ulteriore capitolo. Gli accordi di libero scambio (FTAs) e gli accordi bilaterali di scambio (BITs) sono stati oggetti di critiche da parte di oltre 250 economisti americani e internazionali. Tra i primi firmatari della lettera inviata il 31 gennaio al Segretario di Stato Hillary Clinton, al ministro del Tesoro Timothy Geithner e all’ambasciatore Ron Kirk (delegato al Commercio estero), figurano Joseph Stiglitz e altre importanti figure di spicco del mondo accademico americano.
La lettera di Stiglitz e colleghi evidenzia l’importanza che le restrizioni dei movimenti di capitale a breve hanno nel contenere il rischio di bolle speculative. Un maggiore controllo consentirebbe, infatti, di limitare la volatilità macroeconomica internazionale evitando l’insorgere di ulteriori crisi finanziarie basate sulla speculazione internazionale. Su queste basi numerosi Paesi emergenti hanno adottato varie misure di controllo dei capitali, cercando di mettersi al riparo da afflussi e deflussi improvvisi in grado di minare i loro fragili sistemi finanziari.
La risposta delle lobby finanziarie, non si è fatta attendere. Nella lettera, firmata dalla camera di commercio americana e da quasi tutte le associazioni di industriali e manager americani e inviata a vari rappresentanti del governo il 7 febbraio, si esprime un giudizio fortemente positivo sugli accordi FTAs e BITs. Le eventuali restrizioni produrrebbero, secondo i firmatari della contro-lettera, effetti negativi sulle imprese e sui lavoratori americani e scatenerebbero una reazione a catena da parte di tutti i paesi del mondo con estensione di misure protezioniste persino sugli scambi commerciali. I rappresentati della finanza americana non esitano ad aggiungere, con spirito apparentemente disinteressato, che controlli generalizzati avrebbero effetti negativi soprattutto per i paesi che hanno più bisogno di capitali e investimenti: i paesi in via di sviluppo.
Le argomentazioni delle lobby sono state puntualmente ed efficacemente smontate nella contro-risposta degli economisti datata 9 febbraio. Le politiche di completa liberalizzazione dei capitali, sponsorizzate a oltranza dagli esponenti della finanza, hanno generato nel corso del tempo numerose crisi di grave entità. Se si pensa, per esempio, alle crisi finanziarie che hanno colpito vari paesi asiatici innestando instabilità sistemiche per colpa di liberalizzazioni selvagge dei flussi di capitali, oppure, ai recenti attacchi speculativi che stanno subendo alcuni paesi dell’area euro, allora si comprende agevolmente come le argomentazioni delle lobby non vertono su solide basi teoriche ed empiriche. Gli interessi di tali organizzazioni appaiono chiari: la liberalizzazione totale dei capitali agevolerebbe l’attività speculativa e i ricchi guadagni a essa legati e permetterebbe inoltre di ottenere elevate remunerazioni sfruttando i differenziali tra i tassi d’interesse.
Il sistema economico ha bisogno, evidentemente, di altro: una maggiore stabilità macroeconomica limiterebbe non solo l’insorgere di nuove crisi ma garantirebbe una crescita sostenibile e stabile, soprattutto per i paesi più poveri.
Parafrasando Keynes, riusciranno questa volta le idee ad abbattere il muro di gomma degli interessi pre-costituiti?
Il testo della lettera sui movimenti di capitale firmata da 257 economisti
Cari Segretario Clinton, ministro Geithner, e Ambasciatore Kirk:
Noi economisti firmatari vi scriviamo per informarvi di importanti sviluppi nella letteratura economica relativi alle regole di finanza prudenziale e per esprimere particolare preoccupazione riguardo a quanto i controlli di capitale siano limitati nel commercio estero e nei trattati di investimento.
Autorevoli ricerche pubblicate recentemente dal National Bureau of Economic Research, dal Fondo monetario internazionale e da altri istituti hanno mostrato che limiti agli afflussi di capitale di breve periodo nei paesi in via di sviluppo possono contrastare il dilagare di pericolose bolle speculative e apprezzamenti di valuta e possono concedere ai Paesi una maggiore autonomia nell’attuazione della politica monetaria.
Data la gravità della crisi finanziaria e le sue conseguenze, le nazioni avranno bisogno di ogni possibile strumento a loro disposizione per prevenire e frenare le crisi finanziarie. Anche se le restrizioni sui movimenti di capitale non sono la soluzione a tutti i problemi, queste nuove ricerche mostrano un consenso crescente intorno all’idea che le tecniche di gestione dei flussi di capitali dovrebbero essere incluse tra le “misure di stabilità macro-prudenziale” (carefully designed macro-prudential measures), promosse dai leader del G-20 al summit di Seul. In questi ultimi mesi, infatti, un certo numero di Paesi, dalla Thailandia al Brasile, ha risposto all’aumentare dei movimenti di capitale adottando varie forme di regolazione dei flussi.
Vi scriviamo, inoltre, per esprimere la nostra preoccupazione sul fatto che molti accordi commerciali e trattati bilaterali d’investimento degli Usa contengono clausole che limitano fortemente la capacità dei nostri partner commerciali di adottare misure di controllo dei capitali. Le disposizioni sui “trasferimenti di capitale” (Capital transfers) di tali accordi richiedono ai governi di consentire che tutti i trasferimenti relativi a investimenti garantiti possano muoversi “liberi e senza dilazioni all’interno e all’esterno del proprio territorio”.
Nell’ambito di tali accordi, gli investitori privati stranieri hanno il potere reale di fare causa ai governi nei tribunali internazionali per presunte violazioni di queste clausole. Alcuni recenti accordi commerciali degli Stati Uniti pongono dei limiti sulla quantità di risarcimenti che gli investitori esteri possono ricevere come compenso per talune misure di controllo dei capitali e richiedono un prolungato “periodo di raffreddamento” prima che gli investitori possano presentare i propri reclami. Queste riforme minori, tuttavia, non sono sufficienti a fare in modo che i governi abbiano la facoltà di utilizzare tali legittimi strumenti di policy. Gli accordi commerciali e d’investimento di altri grandi Paesi esportatori di capitale permettono una maggiore flessibilità.
Noi suggeriamo che i futuri FTAs (accordi di libero scambio) e BITs (accordi bilaterali di scambio) degli Stati uniti permettano ai governi di implementare controlli di capitale senza essere soggetti ai ricorsi degli investitori, come parte di un menu più ampio di opzioni di policy per prevenire e mitigare le crisi finanziarie.
Cordiali saluti,
Primi firmatari
1. Ricardo Hausmann, Director, Harvard University Center for International Development
2. Dani Rodrik, Rafiq Hariri Professor of International Political Economy, John F. Kennedy School of Government, Harvard University
3. Joseph Stiglitz, University Professor, Columbia University, Nobel laureate
4. Arvind Subramanian, Senior Fellow, Peterson Institute for International Economics, and Senior Fellow, Center for Global Development
5. Nancy Birdsall, President, Center for Global Development, Washington, DC
6. Olivier Jeanne, Professor of Economics, Johns Hopkins University, and Senior Fellow, Peterson Institute for International Economics
7. Pranab Bardhan, Professor of Economics, University of California, Berkeley
8. Lance Taylor, Department of Economics, New School for Social Research
9. Jose Antonio Ocampo, School of International and Public Affairs, Columbia University
10. Stephany Griffith-Jones, Initiative for Policy Dialogue, Columbia University
11. Ethan Kaplan, IIES, Stockholm University and Columbia University
12. Dimitri B. Papadimitriou, President, The Levy Economics Institute of Bard College
13. Ilene Grabel, Josef Korbel School of International Studies, University of Denver
14. Alice Amsden, Department of Urban Studies and Planning, MIT
15. Gerald Epstein, Department of Economics, University of Massachusetts-Amherst
16. Kevin P. Gallagher, Department of International Relations, Boston University
17. Sarah Anderson, Global Economy Project Director, Institute for Policy Studies
18. Arindrajit Dube, Department of Economics, University of Massachusetts-Amherst
19. William Miles, Department of Economics, Wichita State University
20. Adam Hersh, Center for American Progress
21. James K. Galbraith, Lloyd M. Bentsen Jr. Chair in Government/Business Relations and Professor of Government, University of Texas at Austin
22. Paul Blustein, Nonresident Fellow, the Brookings Institution, and Senior Visiting Fellow, Centre for International Governance Innovation
23. Anton Korinek, Department of Economics, University of Maryland
altri firmatari degli Stati uniti
24. Rania Antonopoulos, Director, Gender Equality and the Economy Program, Levy Economics Institute
25. Eileen Appelbaum, Center for Economic and Policy Research
26. Leslie Elliott Armijo, Visiting Scholar, Mark O. Hatfield School of Government, Portland State University
27. Ron Baiman, Center for Tax and Budget Accountability
28. Dean Baker, Co-director, Center for Economic and Policy Research
29. Radhika Balakrishnan, Executive Director, Center for Women’s Global Leadership and Professor at Women’s and Gender Studies Rutgers, The State University of New Jersey
30. Nesecan Balkan, Senior Lecturer, Department of Economics Hamilton College
31. Erol Balkan, Department of Economics, Hamilton College
32. Lourdes Beneria, Professor, Cornell University
33. Roger R. Betancourt, Professor of Economics, Emeritus, Department of Economics, University of Maryland
34. Ravi Bhandari, Senior Fulbright Scholar, Department of Economics, Saint Mary’s College of California
35. Cyrus Bina, Distinguished Research Professor of Economics, University of Minnesota
36. William K. Black, University of Missouri-Kansas City
37. Ron Blackwell, Chief Economist, AFL-CIO
38. Robert A. Blecker, Professor and Chair, Department of Economics, American University
39. Howard Botwinick, Associate Professor of Economics, SUNY Cortland
40. James K. Boyce, Director Professor of Economics, University of Massachusetts
41. Aldo Caliari, Director, Rethinking Bretton Woods Project, Center of Concern
42. John Cavanagh, Director, Institute for Policy Studies
43. Aydin Cecen, Professor of Economics and Director, Center for International Trade & Economic Research, Central Michigan University
44. Paul P. Christensen, Associate Professor of Economics, Hofstra University
45. Jens Christiansen, Professor of Economics, Mount Holyoke College
46. Steve Cohn, Professor of Economics, Knox College
47. Jane D’Arista, Research Associate, Political Economy Research Institute
48. Paul Davidson, Editor, Journal of Post Keynesian Economics
49. George DeMartino, Professor and Co-Diretor Program in GFTEI, Josef Korbel School of International Studies, University of Denver
50. James M. DeVault, Associate Professor of Economics, Lafayette College
51. Robert Devlin, Director, Organization of American States (OAS)
52. Rick Doner, Professor, Department of Political Science, Emory University
53. Marie Christine Duggan, Associate Professor of Economics, Keene State College
54. Amitava Krishna Dutt, Professor of Economics and Political Science, University of Notre Dame
55. Todd Easton, Associate Professor, Pamplin School of Business, University of Portland
56. Catherine S. Elliott, Professor of Economics, New College of Florida
57. Kimberly Elliott, Senior Fellow, Center for Global Development
58. Maria S. Floro, Economics Department, American University
59. Mwangi wa Githinji, Economics Department, University of Massachusetts-Amherst
60. David Gold, Associate Professor, International Affairs Program, The New School
61. Neva R. Goodwin, Co-director, Global Development And Environment Institute, Tufts University
62. John M. Gowdy, Rittenhouse Professor of Humanities and Social Science, Department of Economics, Rensselaer Polytechnic Institute
63. Howard Handelman, Emeritus Professor of Political Science, University of Wisconsin-Milwaukee
64. Heidi Hartmann, President, Institute for Women’s Policy Research
65. Soren Hauge, Associate Professor, Economics Department, Ripon College
66. Ann Helwege, Department of International Relations, Boston University
67. Barry Herman, Graduate Program in International Affairs, The New School
68. Ellen Houston, Department of International Studies and Economics, Marymount Manhattan College
69. Amy Ickowitz, Assistant Professor, Clark University
70. Janis K. Kapler, Associate Professor and Chair, Economics Department, University of Massachusetts
71. Shahrukh Rafi Khan, Copeland Fellow, Amherst College
72. Haider A. Khan, Professor of Economics, Josef Korbel School of International Studies, University of Denver
73. Tarron Khemraj, Assistant Professor of Economics, New College of Florida
74. Robin A. King, Non-Resident Associate, School of Foreign Service, Georgetown University
75. Timothy Koechlin, Director, International Studies Program, Vassar College
76. Jan Kregel, Senior Scholar and Program Director, Levy Economics Institute of Bard College
77. William Van Lear, Professor of Economics, Belmont Abbey College
78. Fernando Leiva, Associate Professor, Department of Latin American, Caribbean and US Latino Studies, University at Albany (SUNY)
79. Charles Levenstein, Professor Emeritus, University of Massachusetts
80. Catherine Lynde, University of Massachusetts
81. Arthur MacEwan, Professor Emeritus, Department of Economics, Senior Fellow, Center for Social Policy, University of Massachusetts
82. Jeff Madrick, Editor, Challenge Magazine
83. Markos J. Mamalakis, Professor of Economics Emeritus, University of Wisconsin-Milwaukee
84. David R. Mares, Institute of the Americas Chair for Inter-American Affairs and Director, Center for Iberian and Latin American Studies, University of California
85. Thomas Masterson, Research Scholar, Levy Economics Institute of Bard College
86. Julie Matthaei, Professor of Economics, Wellesley College
87. Kathleen McAfee, Associate Professor, Global Political Economy, Department of International Relations, San Francisco State University
88. Elaine McCrate, Economics and Women’s Studies, University of Vermont
89. Martin Melkonian, Adjunct Associate Professor, Department of Economics, Hofstra University
90. Marcelo Milan, Assistant Professor of Economics, University of Wisconsin-Parkside
91. John A. Miller, Professor of Economics, Wheaton College
92. Daniel R. Miller, Department of History, Calvin College
93. Philip Moss, Professor of Economics, University of Massachusetts
94. Tracy Mott, Associate Professor and Department Chair, Department of Economics, University of Denver
95. Julie A. Nelson, Professor, Department of Economics University of Massachusetts
96. Richard B. Norgaard, Energy and Resources Group, University of California
97. Thomas Palley, Associate, Economic Growth Program, New America Foundation
98. Richard Parker, John F Kennedy School of Government, Harvard University
99. Eva Paus, Professor, Department of Economics, Mt. Holyoke College
100. Karl Petrick, Assistant Professor of Economics, Western New England College
101. Robert Pollin, Department of Economics, University of Massachusetts
102. Thomas M. Power, Professor, Economics Department, University of Montana
103. Martin Rapetti, University of Massachusetts
104. Miriam Rehm, New School
105. Michael Reich, Professor of Economics, University of California
106. Joseph Ricciardi, Associate Professor of Economics, Babson College
107. Charles P. Rock, Professor of Economics, Rollins College
108. Jaime Ros, Professor of Economics, Kellogg Institute for International Studies, University of Notre Dame
109. Helen Scharber, Department of Economics, University of Massachusetts
110. Ted P. Schmidt, Associate Professor of Economics and Finance, SUNY Buffalo State
111. John Schmitt, Senior Economist, Center for Economic and Policy Research
112. Ben Schneider, Professor, Department of Political Science, MIT
113. Juliet Schor, Department of Sociology, Boston College
114. Stephanie Seguino, Professor of Economics, University of Vermont
115. Eric Selbin, Professor of Political Science and University Scholar, Southwestern University
116. Nina Shapiro, Professor of Economics, Saint Peter’s College
117. John Sheahan, Professor of Economics, Emeritus, Williams College
118. Barry Shelley, Professor, Graduate Programs in Sustainable International Development, Heller School for Social Policy and Management, Brandeis University
119. Maria Luiza Falcão Silva, Heriot Watt University, Edinburgh; MSc University of Wisconsin
120. Peter Skott, Department of Economics, University of Massachusetts
121. Bryan Snyder, Department of Economics, Bentley University
122. Rose J. Spalding, Professor, Political Science, DePaul University
123. James Ronald Stanfield, Emeritus Professor of Economics, Colorado State University
124. Howard Stein, Adjunct Professor, Center for Afroamerican and African Studies, Department of Epidemiology, University of Michigan
125. Strom Thacker, Associate Dean of the Faculty, College of Arts and Sciences, Boston University
126. Chris Tilly, Professor of Urban Planning and Director, Institute for Research on Labor and Employment, UCLA
127. Steven Topik, Department of History, University of California
128. Mayo C. Toruño, Professor and Chair of Economics Department, California State University
129. Eric Verhoogen, Associate Professor, Department of Economics and School of International and Public Affairs, Columbia University
130. Matías Vernengo, Associate Professor, University of Utah
131. Tonia Warnecke, Professor, Department of Economics, Rollins College
132. Mark Weisbrot, Co-Director, Center for Economic and Policy Research
133. Thomas E. Weisskopf, Professor Emeritus of Economics, University of Michigan
134. Jonathan B. Wight, Professor of Economics and International Studies, Robins School of Business, University of Richmond
135. Timothy A. Wise, Director of Research and Policy Program, Global Development and Environment Institute (GDAE), Tufts University
136. Marty Wolfson, University of Notre Dame
137. Mickey Wu, Professor, Department of Economics, Coe College
138. David Zalewski, Professor of Finance, Providence College
139. Silverio Zebral, Chief-Economist, Organization of American States (OAS)
altri paesi
140. Absar Alam, Economist, RITES ltd. India, India
141. Derbal Abdelkader, Professor in Economics, Oran University, Algeria
142. Francisco Aguayo, Program Researcher, El Colegio de Mexico, Mexico
143. Gieeta Ahuja, Assistant Professor, Department of Economics, PGDAV(E) College, University of Delhi, India
144. Haroon Akram-Lodhi, Chair of the Department of International Development Studies, Trent University, Peterborough, Canada
145. Fayq Al Akayleh, Quantitative Business Department Head, Al Yamamah University, Saudi Arabia
146. Philip Arestis, Director of Research, Cambridge Centre for Economic & Public Policy (CCEPP) and Senior Research Fellow, Wolfson College, Cambridge, UK
147. Mohamed Aslam, Faculty of Economics and Administration, Department of Economics, University of Malaya, Kuala Lumpur, Malaysia
148. Emilios Avgouleas, Professor of International Financial Markets & Financial Law and Director of the LLM Programme, The School of Law, The University of Manchester, UK
149. Arindam Banerjee, Consultant, Research and Information System in Developing Countries, New Delhi, India
150. Juan José Barrios, Professor, Department of Economics, Universidad ORT, Uruguay
151. Edsel L. Beja Jr., Department of Economics, Ateneo de Manila University, Philippines
152. Janine Berg, Senior Economist, International Labour Office
153. Peter A.G. van Bergeijk, Professor of International Economics and Macro Economics, International Institute of Social Studies of Erasmus University (ISS), Netherlands
154. Sheila Bhalla, Visiting Professor, Institute for Human Development, New Delhi, India
155. Mustapha Ibn Boamah, Assistant Professor of Economics, Department of Social Science, University of New Brunswick, Saint John, Canada
156. Patrick Bond, Professor of Development Studies, University of KwaZulu-Natal, Durban, South Africa
157. Pablo Gabriel Bortz, Ph.D. candidate, Delft University of Technology, Netherlands
158. Sergio Cesaratto, Professor of Economics, Department of Political Economy, University of Siena, Italy
159. Ha-Joon Chang, Department of Economics, University of Cambridge, UK
160. Kyung-Sup Chang, Professor of Sociology, Seoul National University, South Korea
161. Ping Chen, Professor, National School of Development, Peking University, Beijing, and Senior Fellow at the Center for New Political Economy, Fudan University, Shanghai, China
162. Suthiphand Chirathivat, Chairman, Chula Global Network, Chulalongkorn University, Bangkok, Thailand
163. John Christensen, Director and Economic Adviser, Tax Justice Network International Secretariat, London, UK
164. Alan Cibils, Chair, Political Economy Department, Universidad Nacional de General Sarmiento, Buenos Aires, Argentina
165. Andrew Cornford, Counsellor, Observatoire de la Finance, Geneva, Switzerland
166. Christopher Cramer, Professor of the Political Economy of Development, School of Oriental and African Studies (SOAS), London, UK
167. Ludo Cuyvers, Full Professor, Faculty of Applied Economics, University of Antwerp, Netherlands
168. James M. Cypher, Doctoral Program in Development Studies, Universidad Autonoma de Zacatecas, Mexico
169. Anthony P. D’Costa, Professor of Indian Studies and Research Director, Asia Research Centre, Copenhagen Business School, Denmark
170. Xiao-yuan Dong, Department of Economics, University of Winnipeg, Winnipeg MB, Canada
171. Javier M. Iguíñiz Echeverría, Profesor Principal Pontificia Universidad Católica del Perú, Universidad Católica del Perú, Perú
172. Chris Edwards, Senior Fellow, University of East Anglia, UK
173. Ibrahim El-Issawy, Professor of Economics, Institute of National Planning, Egypt
174. Ricardo Ffrench-Davis, Professor, Departamento de Economía, Universidad de Chile, Chile
175. Andrew M. Fischer, Senior Lecturer in Population and Social Policy, Convenor of the Poverty Studies MA specialization, Institute of Social Studies (ISS), part of Erasmus University Rotterdam, The Hague
176. Smitha Francis, Principal Economist, Economic Research Foundation (ERF), New Delhi, India
177. Roberto Frenkel, Professor and Principal Research Associate, University of Buenos Aires and CEDES, Argentina
178. Clara García, Associate Professor of Applied Economics, Complutense University of Madrid, Spain
179. Marina Della Giusta, Department of Economics, University of Reading, Reading, UK
180. Jonathan Glennie, Research Fellow, Centre for Aid and Public Expenditure (CAPE), Overseas Development Institute, London, UK
181. Ummuhan Gokovali, Associate Professor, Economics Department, Mugla University, Turkey
182. Margarita F. Gomez, Coordinator, Bantay Kita Project, Action for Economic Reforms (Secretariat), Philippines
183. Ricardo Grinspun, Department of Economics, York University, Canada
184. Arnold Heertje, Emeritus Professor of Economics, University of Amsterdam, Netherlands
185. Gerry Helleiner, University of Toronto, Canada
186. Carlos Heredia, Professor and Director of International Studies, Centro de Investigación y Docencia Económicas A.C., Mexico
187. Rolph van der Hoeven, Professor of Employment and Development Economics, Institute of Social Studies (ISS), Erasmus University, Netherlands
188. S A Hamed Hosseini, Assistant Professor, expert in Global Studies and Sociology, University of Newcastle, Australia
189. Gustavo Indart, Department of Economics, University of Toronto
190. George Irvin, Professorial Research Fellow in Economics of Development Studies, University of London, SOAS, UK
191. P.N. (Raja) Junankar, Emeritus Professor, University of Western Sydney, Australia
192. Rainer Kattel, Professor of Innovation Policy and Technology Governance, Tallinn University of Technology, Estonia
193. Tadeusz Kowalik, Professor of Economics and Humanities, Institute of Economics, Polish Academy of Sciences, Poland
194. Sanat Kumar, Relationship Manager (Medium Enterprises), State Bank Of India, India
195. Kazimierz Laski, Emeritus Professor of Economics, University of Linz, Austria
196. Hwok-Aun Lee, Faculty of Economics and Administration, University of Malaya, Malaysia
197. Louis Lefeber, Emeritus Professor of Economics and Graduate Faculty for Social and Political Thought, York University, Toronto, Ontario, Canada
198. Noemi Levy-Olrik, Economic Faculty, Universidad Nacional Autonoma de Mexico, Mexico
199. Joseph Anthony Lim, Professor Department of Economics, Ateneo de Manila University, Quezon City, Philippines
200. Julio G Lopez, Full professor of economics, Universidad Nacional Autonoma de Mexico, Mexico
201. Rasigan Maharajh, Chief Director, Institute for Economic Research on Innovation, Tshwane University of Technology, South Africa
202. Pietro P. Masina, Faculty of Political Sciences, University of Naples “L’Orientale”, Italy
203. Terrence McDonough, Professor of Economics, National University of Ireland Galway, Ireland
204. Oudebji Mohamed, Professor of International Economic Law of Development, Faculty of Law in University of Marrakech, Morocco
205. Mritiunjoy Mohanty, Professor, Economics Group, Indian Institute of Management Calcutta, India
206. Sudipto Mundle, Emeritus Professor, National Institute of Public Finance and Policy, New Delhi, India
207. Richard Murphy, Director, Tax Research LLP, UK
208. Sreeram Mushty, Freelance Economist, India
209. Nitya Nanda, Fellow, Centre for Global Agreements, Legislation and Trade (GALT), Resources, Regulation and Global Security Division, Energy and Resources Institute (TERI), India Habitat Centre, India
210. André Nassif, Professor, Department of Economics, Universidade Federal Fluminense Brazil and The Brazilian Development Bank (BNDES), Brazil
211. Machiko Nissanke, Professor of Economics, School of Oriental and African Studies, University of London, UK
212. Lisa L. North, Professor Emeritus, York University, Toronto, Canada
213. Susumu Ono, Professor Emeritus, Ritsumeikan University, Kyoto, Japan
214. José F. Pérez Oya, Retired Secretariat UN member, B.A.- M.A- Oxon, Spain
215. Ignacio Perrotini, Professor, Autonomous National University of Mexico (UNAM), Mexico
216. Cosimo Perrotta, Università del Salento, Italy
217. Alberto Arroyo Picard, Professor of International Economics, Universidad Autónoma Metropolitana, Iztapalapa, Mexico
218. Jan Priewe, University of Applied Sciences, Berlin, Germany
219. Alicia Puyana, D. Phil. Oxon Professor at Facultad Lainoamericana de Ciencias Sociales, FLACSO-Mexico, Mexico
220. Kunibert Raffer, Department of Economics, University of Vienna
221. Arup Rahee, Executive Director, Lokoj Institute, Bangladesh
222. Indira Rajaraman, Honorary Visiting Professor, Indian Statistical Institute, New Delhi, India
223. Angelo Reati, Former official of the European Commission,
224. Y Venugopal Reddy, Emeritus Professor, University of Hyderabad, Former Governor – Reserve Bank of India, India
225. Massimo Ricottilli, Full Professor, Department of Economics, University of Bologna, Italy
226. Simon Roberts, Chief Economist, Competition Commission South Africa and visiting scholar, University of Cambridge, UK
227. Sergio Rossi, Chair of Macroeconomics and Monetary Economics, Department of Economics, University of Fribourg, Switzerland
228. Carlos A. Rozo, Professor of International Economics, Universidad Autónoma Metropolitana-Xochimilco, Departamento de Producción Económica, Mexico
229. Gilson Schwartz, Professor, University of São Paulo, Brazil
230. Paul Segal, Lecturer in Economics, University of Sussex, UK
231. Gita Sen, Professor, Centre for Public Policy, Indian Institute of Management, India
232. Dung Pam Sha, Associate Professor, Center for Political Economy and Development Studies, University of Jos, Nigeria
233. Mehdi Shafaeddin, Institute of Economic Research, University of Neuchatel, Switzerland
234. Prem Sikka, Professor of Accounting, Centre for Global Accountability, Essex Business School, University of Essex, UK
235. Kavaljit Singh, Public Interest Research Centre, India
236. Kannan Srinivasan, Visiting Fellow, Monash Asia Institute Melbourne Victoria, Australia
237. Irene van Staveren, Professor of Pluralist Development Economics, International institute of Social Studies of Erasmus University (ISS), Netherlands
238. Frances Stewart, Professor Emeritus of Development Economics, University of Oxford, UK
239. Eduardo Strachman, Coordinator of Post Graduate Studies in Economics, São Paulo State University, (Unesp), Araraquara, São Paulo, Brazil
240. Jolanta Supinska, Professor of Social Policy, Institute of Social Policy, Warsaw University, Poland
241. Insan Tunali, Associate Professor of Economics and Associate Dean, College of Administrative Sciences and Economics, Koc University, Istanbul, Turkey
242. Oscar Ugarteche, Professor of International Finance, Instituto de Investigaciones Económicas UNAM, Mexico
243. Bal Krishna Upadhyay, Professor, Tribhuvan University, Nepal
244. Marc Vandenberghe, Belgian Risk Management Association, Belgium
245. Alejandro Vanoli, Professor of International Economy, School of Economics, University of Buenos Aires, Chairman of Securities and Exchange Commission of Argentina, Argentina
246. Roberto Veneziani, Queen Mary University of London, UK
247. Victor S Venida, Professor, Ateneo de Manila University, Philippines
248. Alessandro Vercelli, Full professor of Economics, University of Siena, Italy
249. Robert H. Wade, Professor of Political Economy and Development, London School of Economics, UK
250. Erin Weir, Senior Economist, International Trade Union Confederation, Belgium
251. Philip B. Whyman, Professor of Economics, University of Central Lancashire, UK
252. Raymond E. Wiest, Professor Emeritus of Anthropology, University of Manitoba, Canada
253. Yu Yongding, Academician, Chinese Academy of Social Sciences President China Society of World Economics, China
254. Amar Yumnam, Dean/Director/Professor, School of Social Sciences, Manipur University/Center for Manipur Studies, Manipur University/Professor at Department of Economics, Manipur University, India
255. Stefano Zamagni, Dipartimento di Scienze Economiche, Bologna, Italy
256. Vera Negri Zamagni, Professor of Economic History, University of Bologna, Italy
Álvaro S. Zerda, Profesor Asociado, Universidad Nacional de Colombia, Colombia
In allegato, il pdf con la lettera degli economisti sui controlli dei movimenti di capitale, in inglese
CapCtrlsLetter.pdf 105,89 kB
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Facciamogliela-pagare-7797
—
Anti-laser, una mano santa per la nanofotonica 18.02.2011
Un team di ricercatori statunitensi realizza per la prima volta un dispositivo in grado di assorbire la luce a specifiche lunghezze d’onda. Previste applicazioni per l’elettronica
Roma – Per la prima volta un team di ricercatori della Yale University ha realizzato un “anti-laser”, un dispositivo che funziona secondo un principio esattamente opposto a quello dei laser tradizionali e che potrebbe – in un futuro poi non molto lontano – favorire enormemente lo sviluppo della nanofotonica applicata all’informatica.
Se un laser “standard” è pensato per emettere un fascio di fotoni dopo aver amplificato la sorgente di energia in una apposita “camera” di amplificazione, un anti-laser è in grado di fare esattamente il contrario assorbendo la gran parte dei fotoni di due fasci energetici emessi con particolari frequenze elettromagnetiche.
L’idea dell’anti-laser era stata inizialmente definita da Douglas Stone alla Yale University nel 2010, e ora un team guidato da Hui Cao – anch’egli al lavoro presso la prestigiosa università USA – ha messo in pratica la teoria di Stone facendo uso di una “camera assorbente” al silicio larga appena 110 micrometri.
La novità del lavoro di Cao è stata in realtà assemblare un materiale che fosse in grado di assorbire la luce “sparata” a una frequenza elettromagnetica ben definita, che nel caso in oggetto è 998,5 nanometri cioè molto vicina alla lunghezza d’onda della luce infrarossa. Due fasci di laser convergenti sono stati focalizzati sul materiale in silicio, che è stato infine in grado di assorbire il 99,4 per cento dell’energia luminosa trasformandola in calore.
Quali sono i potenziali scenari applicativi della nuova tecnologia sperimentata dai ricercatori di Yale? Douglas Stone ci tiene a sottolineare che l’anti-laser non potrà mai dare vita a una sorta di “scudo” contro le armi energetiche – vista la sublimazione dei fasci di fotoni in calore – ma che piuttosto potrà dare una mano a quanti, come IBM, sperano di integrare il mondo dei transistor al silicio con la trasmissione dei dati attraverso la luce.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3092667/PI/News/anti-laser-una-mano-santa-nanofotonica.aspx
—
In Oman impianto fotovoltatico da 200 MW. E il petrolio? 18.02.2011
Il sultanato di Oman, (siamo nella terra del petrolio) ha commissionato alla Astonfield Renewable Resources, compagnia indiana per le energie rinnovabili, un impianto fotovoltaico da 200 MW.
La prima cosa che ho pensato è stata: ma che diavolo ci devono illuminare? In Oman si produce anche petrolio e gas. Ma evidentemente non basta. O non basterà. Ricordo un post di Debora Billi su Petrolio scritto nel 2006 che si rivela quanto mai profetico: Se Dubai è Las Vegas, l’Oman è la Svizzera. Infatti, sono descritte le peculiarità del sultanato dell’Oman: tanto petrolio e interessi turistici. Dunque si è proceduto dalla fine degli anni ‘90 a metà 2000 a una costruzione esponenziale di alberghi extralusso, destinati ai ricchi europei. L’edilizia è frutto degli enormi guadagni derivati dal petrolio ovviamente. Si vive con i condizionatori a palla e si importa tutto per sostenere i ristoranti, i centri commerciali immensi, le piste da sci (sì in pieno deserto ci sono anche quelle). I campi da golf verdissimi costano enormi quantità di energia: l’acqua dolce è rara e si deve desalinizzare quella del mare. Scrive la Billi:
Per carità, i posti sono belli e le attrezzature superbe. E anche se il petrolio non manca certo, viene però da chiedersi come si pensa di sostenere tali infrastrutture nel corso dei decenni.
Zacchete arriva il conto: si inizia a pompare meno greggio. Ecco correre in soccorso il sole. Poi ho fatto una seconda considerazione: ma perché tutta questa fretta nel volere energia? In fondo i ricchi arabi potrebbero puntare a costruire centrali nucleari che però richiedono quanto meno una decina di anni, prima di essere accese. L’impianto fotovoltaico in questione, invece, viene installato in un paio di anni e produce immediatamente energia. Che non sarà il petrolio ma che più o meno dovrebbe garantire la sussistenza di questo immenso parco giochi per ricchi adulti.
Dunque, il picco è più vicino di quanto ci possiamo immaginare e presto assisteremo alla galoppata del prezzo del petrolio?
Via | Times of Oman, Green Prophet
Foto | Flickr
—
Soldati a Kabul e più basi Usa ecco il prezzo pagato a Obama 18.02.2011
WikiLeaks, per l’aeroporto Dal Molin è stasta una resa. Letta e La Russa: faremo ciò che volete. Via i caveat per i militari italiani in Afghanistan: potranno combattere a fianco dei marines
di LUCA FRAIOLI
ROMA – Più militari italiani in Afghanistan, pronti a combattere al fianco dei marines, senza i tanti vincoli imposti dai “caveat” che impediscono ai nostri soldati di intervenire in tutto il territorio afgano e soprattutto di partecipare a operazioni d’attacco. E poi il via libera all’ampliamento delle basi Usa nella Penisola, alla loro completa autonomia dalle autorità italiane, allo stoccaggio sul suolo nazionale di armi che, almeno in teoria, il nostro Paese ha messo al bando. Dai nuovi cablo sull’Italia venuti in possesso di WikiLeaks emerge che Washington, in cambio del sostegno al governo Berlusconi, chiede la massima collaborazione in campo militare. E la ottiene, sempre.
L’AFGHANISTAN
In alcuni casi gli americani sono persino sorpresi dalla disponibilità dell’alleato: i cablo rivelano che il Pentagono si aspetta dal governo italiano l’invio in Afghanistan di rinforzi limitati: non più di 500 uomini. E invece Roma decide di spedire a Herat 1200 soldati, con più mezzi blindati, aerei ed elicotteri da combattimento. Non solo, il ministro della Difesa Ignazio La Russa assicura al segretario della Difesa americano Robert Gates che saranno eliminati tutti i “caveat” che limitano le operazioni dei soldati italiani. Tutti tranne uno: ci vorrà un preavviso di sei ore per far intervenire i nostri militari insieme ai marines. “Ma” garantisce La Russa “si tratta solo di una misura psicologica che non avrà
alcuna conseguenza pratica”. Insomma, il nostro contingente in Afghanistan ora può combattere in prima linea senza alcun impedimento. Gli americani ringraziano. E apprezzano La Russa quando “con la sua copertura politica” vengono schierati i parà della Folgore. Per la diplomazia Usa questo significa che il ruolo dell’Italia in Afghanistan cambia radicalmente: non più solo a presidio del territorio, ma in prima linea nelle operazioni d’attacco ai Taliban. Rimane una zona d’ombra che, stando ai cablo di WikiLeaks, ci viene rinfacciata in ogni colloquio: gli italiani devono smetterla di pagare tangenti ai guerriglieri in cambio della incolumità delle loro truppe.
LA BASE DI VICENZA
Nei rapporti dei diplomatici americani l’Italia è “una piattaforma strategica unica per le truppe Usa, permettendoci di raggiungere facilmente le aree turbolente del Medio Oriente, dell’Europa orientale e dell’Africa. E con Africom sarà partner ancora più significativo della nostra proiezione di forza”. Africom sta per Africa Command, è il comando responsabile delle operazioni militari americane in Africa che a fine 2009 si insedia a Vicenza. I diplomatici Usa confessano di essere molto soddisfatti per la riuscita dell’operazione e per il contributo di Paolo Costa, commissario straordinario del governo italiano. Le proteste dei pacifisti e dei vicentini, del movimento “No Dal Molin”, sono solo un ricordo. Anche grazie alle rassicurazioni di La Russa: abbiamo fiducia nel Consiglio di Stato, dice il ministro ai suoi referenti dell’ambasciata Usa, ma se vinceranno i ricorsi presentati contro l’ampliamento della base, vi garantiamo comunque una soluzione. Non sarà necessario: il massimo organo di consulenza giuridico-amministrativa emetterà tra il luglio e l’ottobre del 2008 una raffica di pareri favorevoli all’ampliamento della base di Vicenza, che potrà così ospitare la 173esima brigata aviotrasportata delle forze armate Usa.
Resta il problema della extraterritorialità: gli statunitensi esigono che quello all’interno del muro di cinta venga considerato suolo americano, con leggi americane e militari americani a farle rispettare. Gli italiani replicano che l’extraterritorialità vale solo per le basi costruite nell’immediato Dopoguerra, ora la Costituzione lo vieta. Ma non serve. A Vicenza, fa notare Washington, c’era il comando Setaf per l’Europa meridionale. Basta estendere all’Africom la continuità giuridica della vecchia base. E con Gianni Letta si arriva all’aut aut: se non volete l’Africa Command ci sono altri Paesi pronti a ospitarlo. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio accetta. Ancora una volta senza contropartita.
LE ALTRE BASI
Stessa richiesta qualche centinaio di chilometri più a sud. A Gricignano d’Aversa, provincia di Caserta, è stata costruita una caserma da mezzo miliardo di dollari per il personale della Sesta Flotta. Le autorità americane anche in questo caso pretendono l’extraterritorialità. Ma stavolta la base è ex novo e la Costituzione non può essere aggirata. Tuttavia, rivelano i cable di WikiLeaks, il ministro La Russa suggerisce la soluzione: un patto bilaterale che garantisca completa autonomia ai militari americani in fatto di sicurezza e vigilanza. In sostanza: niente carabinieri tra i piedi.
Un altro successo gli americani lo incassano a Sigonella. Nell’aeroporto militare siciliano gli Usa dislocano i Global Hawk, ricognitori teleguidati che possono spiare oltre le linee nemiche. Il via libera era stato dato dal governo Prodi, ma per gli Usa è importante chi concretizza. E anche questa volta è Silvio Berlusconi a portare a termine l’operazione.
Più complessa la situazione a Niscemi. A pochi chilometri dalla cittadina in provincia di Caltanissetta dovrebbe sorgere la mega-antenna del Muos (Mobile User Objective System), perno di un sistema di comunicazioni capace di raggiungere i contingenti Usa in qualsiasi parte del mondo si trovino ad operare. Ma la popolazione è contraria e nonostante le sollecitazioni di Robert Gates (“garantiamo che l’antenna non provocherà danni alla salute”) Letta e La Russa non riescono a superare le resistenze dei siciliani.
A Camp Darby, considerato il più grande deposito di munizioni dell’esercito Usa al di fuori del territorio statunitense, c’è un’altra questione da risolvere: nella santabarbara vicino Pisa sono stoccate anche le terribili cluster bomb, al centro di polemiche in tutto il mondo perché trasformano i terreni su cui cadono in campi minati pericolosissimi per le popolazioni civili. Le autorità americane chiedono a Gianni Letta se questo è un problema. Ma il sottosegretario rassicura: noi non interverremo. E infatti, pur avendo aderito nel 2008 al trattato che mette al bando le cluster bomb, il Parlamento italiano non lo ha ancora ratificato.
http://www.repubblica.it/politica/2011/02/18/news/wikileaks2-12597619/
—
Afghanistan, servilismo bipartisan 18.02.2011
I cablo di WikiLeaks pubblicati da Repubblica e L’Espresso non svelano nulla di nuovo riguardo all’asservimento del governo Berlusconi agli Usa, e celano una realtà scomoda per il Pd
I cablo di WikiLeaks pubblicati da Repubblica e L’Espresso non solo non svelano nulla di nuovo riguardo all’asservimento del governo Berlusconi all’alleato statunitense, ma celano una realtà scomoda per il gruppo editoriale di riferimento del Pd: ovvero che il precedente governo Prodi non fu da meno in termini di servilismo verso gli Usa, con l’aggravante che tutto veniva fatto in segreto.
Non era un mistero che il Cavaliere e il suo scudiero Ignazio, pur di non perdere il sostegno della Casa Bianca, siano stati più lealisti del re, mettendosi sull’attenti e rispondendo signorsì ad ogni ordine del Pentagono: lo si è sempre saputo.
PeaceReporter, come tutta la grande stampa nazionale, ha raccontato ogni tappa di questa triste storia.
Nel maggio 2008, il neo-insediato governo Berlusconi inviava un chiaro messaggio alla Casa Bianca, dove ancora sedeva Bush: ”L’Italia è pronta a discutere con la Nato la revisione dei caveat al fine di garantire una maggiore efficacia e flessibilità di impiego delle nostre truppe”.
Una ”accresciuta disponibilità” dell’Italia a combattere per gli americani che veniva confermata un mese dopo, a giugno, in occasione della visita romana di Bush: Frattini e La Russa annunciavano il ”rafforzamento” del contingente italiano e una maggiore ”flessibilità” del loro impiego con la rimozione del caveat che prevedeva il preavviso di 72 ore per l’impiego bellico delle nostre truppe.
A novembre il governo annunciava l’invio in Afghanistan di quattro cacciabombardieri Tornado che verranno messi a disposizione del comando militare Usa e autorizzati a usare l’armamento di bordo (cannoni a rotazione, non bombe).
Nel dicembre, subito dopo la visita a Roma del generale David Petraeus, il governo Berlusconi annunciava l’invio di altre 500 truppe da combattimento al fronte e la decisione di rimuovere anche l’ultimo caveat, sulle regole d’ingaggio, per consentire alle nostre truppe di ”fare di più”.
A febbraio 2009, Berlusconi lanciava un nuovo messaggio al nuovo inquilino della Casa Bianca: “Obama ha chiesto agli alleati di dare una mano agli Stati Uniti in Afghanistan e noi non ci tireremo indietro”. Una promessa che verrà zelantemente nei mesi successivi.
A partire dal mese di giugno, infatti, le truppe italiane venivano impegnate in massicce operazioni offensive sui fronti di Farah e Bala Murghab, con centinaia di insorti (e anche diversi civili) uccisi dai parà della Folgore, dai mortai e dagli elicotteri da combattimento italiani.
A fine anno, il governo italiano annunciava l’invio al fronte di altri 1.200 soldati e di nuovi mezzi terrestri e aerei da combattimento, surclassando le stesse richieste che il Pentagono aveva avanzato il mese prima al vertice Nato di Bruxelles.
Nell’ottobre 2010, lo zelo italiano diventava tale da mettere in imbarazzo Washington: mentre gli Usa e la Nato discutevano della riduzione dei bombardamenti aerei in Afghanistan, il governo Berlusconi proponeva di armare di bombe i nostri caccia, cambiando idea solo dopo il ”no grazie” di Karzai.
Quello che i cablogrammi di Repubblica e L’Espresso invece non raccontano è che il governo Prodi – D’Alema agli Esteri e Parisi alla Difesa – aveva agito con lo stesso zelo servile di quello Berlusconi, con la non trascurabile differenza che tutto avveniva nell’ombra, tenendo allo scuro l’opinione pubblica con una ferrea censura.
Sarebbe imbarazzante, per il Pd, leggere nei cablo di WikiLeaks del 2006-2008 l’apprezzamento della criminale amministrazione Bush per la guerra che il governo italiano di centro-sinistra aveva segretamente autorizzato in Afghanistan con una missione di forze speciali (l’operazione segreta ‘Sarissa’ della Task Force 45), con un progressivo impegno bellico delle nostre truppe (sempre negato dalla Difesa), con il primo impegno sul fronte ‘caldo’ meridionale (Farah) e con la decisione di incrementare le truppe da combattimento con la costituzione del primo ‘Battle Group’ italiano.
Non è stato solo Berlusconi a doversi mostrare devoto agli Usa per avere il loro sostegno incondizionato.
Enrico Piovesana
http://it.peacereporter.net/articolo/26954/Afghanistan%2C+servilismo+bipartisan
—
Il riemergere delle tensioni al confine tra Tailandia e Cambogia. Da problema regionale a possibile disputa internazionale 18.02.2011
*Francesco Brunello Zanitti
Nelle ultime settimane le relazioni diplomatiche tra Tailandia e Cambogia stanno attraversando una fase problematica, riportando alla luce diffidenze, rancori e odio etnico tra khmer e thai, elementi caratteristici dei rapporti tra i due paesi negli ultimi cinquant’anni. I territori al confine tra i due Stati del Sud-est asiatico sono stati attraversati negli ultimi giorni da alcuni scontri tra i rispettivi eserciti, con il rischio di una vera e propria escalation militare e di una possibile guerra tra Bangkok e Phon Penh. Il motivo alla base del conflitto riguarda la doppia rivendicazione della zona attorno all’antico tempio indù, risalente all’XI secolo, denominato Preah Vihear dai cambogiani e Khao Phra Viharn dai tailandesi. In realtà il motivo della contesa tra Tailandia e Cambogia non è legato a cause di carattere religioso, bensì riguarda strettamente motivazioni di tipo nazionalistico e di competizione nella regione, collegate alle vicende di politica interna dei rispettivi Stati.
– La politica interna di Tailandia e Cambogia, causa primaria del conflitto
Fin dall’epoca post-coloniale i rapporti tra i due paesi, nemici anche prima dell’arrivo dei francesi, sono stati molto difficili. Le relazioni sono sempre state ostacolate dalla comune rivendicazione su determinate aree, dall’incertezza dei confini terrestri e marittimi e dall’odio etnico.
La comune rivendicazione dell’antico tempio risale alle divergenti interpretazioni dei confini tra il Siam e i territori dell’Indocina francese. Nel 1962 la Corte Internazionale di Giustizia stabilì che il complesso religioso apparteneva alla Cambogia. Il vicino tailandese non ha mai accettato la decisione, rivendicando per anni il territorio attorno all’edificio sacro. A partire dal 2001 la tensione al confine tra i due paesi crebbe considerevolmente, ma l’effettivo scontro armato si sfiorò solamente nel 2009, in seguito alla controversa decisione dell’anno precedente dell’Unesco, nella quale si affermava che il tempio di Preah Vihear era Patrimonio dell’Umanità sotto la diretta gestione cambogiana. Una vittoria simbolica, diplomatica, politica e culturale per Phnom Penh, dato che il complesso religioso risale al massimo periodo di splendore della dinastia khmer.
La fase più critica dei rapporti bilaterali tra i due paesi è stata toccata nel corso del 2009, quando il primo ministro cambogiano Hun Sen ha invitato l’ex premier tailandese in esilio Thaksin Shinawatra nel paese, nominandolo consigliere economico del suo governo. Thaksin era stato deposto nel 2006 in seguito a un colpo di stato militare e ancora oggi pende su di lui un mandato d’arresto da parte delle autorità tailandesi per frode ed evasione fiscale nonché accuse di finanziamento a gruppi tailandesi antigovernativi, organizzatori negli ultimi anni di manifestazioni degenerate in violenti scontri e rivolte di strada. Secondo Bangkok, inoltre, il governo cambogiano avrebbe fornito protezione e aiuto ad alcuni attivisti pro-Thaksin, accusati di terrorismo e violenze in Tailandia. Una delle cause del riaccendersi del conflitto al confine tra Phnom Penh e Bangkok è legata, inoltre, alla decisione di alcuni nazionalisti tailandesi, membri dell’Alleanza Popolare per la Democrazia (People’s Alliance for Democracy, PAD) e del Partito Democratico dell’attuale premier Abhisit Vejjajiva, di attraversare provocatoriamente il confine cambogiano e sostare lungo le zone contese attorno al tempio, dove sono stati prontamente arrestati e accusati di spionaggio dalle autorità di Phon Penh.
Nonostante le possibili ripercussioni internazionali della vicenda, la questione riguarda strettamente la politica interna di questi ultimi mesi dei rispettivi paesi e può aiutare a comprendere il motivo per cui Bangkok e Phon Penh siano vicine allo scontro militare.
Per quanto riguarda la politica interna tailandese gli ultimi mesi hanno visto emergere con forza le rivendicazioni dei gruppi nazionalistici, fortemente anticambogiani e aventi l’appoggio di una parte del potente apparato militare tailandese. L’accrescere della tensione al confine con la Cambogia e l’intervento diretto militare dimostrano la debolezza politica del primo ministro Abhisit, il quale non è in grado di influenzare le scelte dei vertici militari. Infatti, mentre il primo ministro sarebbe stato propenso per una soluzione diplomatica della questione, le forze armate di Bangkok avrebbero invece spinto con decisione per l’opzione militare. I gruppi nazionalistici, incitati dai recenti arresti degli attivisti tailandesi in Cambogia, hanno chiesto le dimissioni del premier, reo di aver cercato un compromesso con lo storico nemico e di non aver adottato una chiara politica in funzione anticambogiana al fine di risolvere definitivamente la questione del tempio in difesa degli interessi strategici e nazionali della Tailandia. I nazionalisti thai incoraggerebbero addirittura una conquista militare del tempio simbolo della Cambogia, Angkor Wat, chiedendo come contropartita la fine dell’occupazione cambogiana del tempio indù conteso.
In questo quadro entrano in gioco, inoltre, le complesse rivalità tra le diverse fazioni della politica tailandese in vista delle probabili elezioni politiche, programmate presumibilmente per la prima metà dell’anno in corso.
Le forze armate stanno cercando di indebolire politicamente il primo ministro, un tempo sostenuto da monarchici, esercito e dall’influente burocrazia statale, dal momento che non sarebbero favorevoli alle preannunciate elezioni, che secondo le volontà di Abhisit dovrebbero tenersi ad aprile. I vertici militari temono i risultati elettorali, i quali potrebbero portare alla vittoria il partito d’opposizione Puea Thai, l’ex People Power Party (PPP), sostenuto all’estero da Thaksin. I militari paventerebbero il riaffermarsi sulla scena politica tailandese dell’ex premier e, soprattutto, in caso di vittoria dell’opposizione, un calo della loro influenza politica dovuta a una molto probabile significativa riforma dei vertici militari, artefici del colpo di stato del 2006 e delle violenze contro i manifestanti delle Camicie Rosse durante le proteste antigovernative avvenute tra il marzo e maggio 2010.
L’intricata situazione politica tailandese è complicata, inoltre, dall’atteggiamento del PAD, gruppo di pressione realista, fautore, a suo tempo, attraverso ulteriori violente manifestazioni di piazza, del colpo di stato militare del 2006 e della successiva caduta dei governi filo-Thaksin durante il 2008 e guidati dal vecchio PPP.
In un primo momento sostenitrice del Partito Democratico e dell’attuale governo Abhisit, negli ultimi mesi il PAD ha decisamente cambiato prospettiva, mobilitando gli attivisti delle Camicie Gialle contro il premier per motivazioni di carattere nazionalistico e per non aver adottato una decisa politica in difesa delle rivendicazioni tailandesi lungo il confine con la Cambogia. Le proteste di strada sono caratterizzate da forti accenti nazionalisti, ma stupiscono per la mancanza dei tradizionali temi anti-Thaksin e in difesa degli interessi monarchici. Nonostante il PAD premi sul governo con la propaganda nazionalistica, le manifestazioni delle Camicie Gialle non hanno fatto presa sulla classe media, tradizionale base d’appoggio per gli attivisti del gruppo politico e fondamentale per gli eventi del 2006 e del 2008.
Oltre alle Camicie Gialle, il governo ha dovuto fronteggiare nelle ultime settimane la ripresa delle manifestazioni antigovernative delle Camicie Rosse, riunite attorno al gruppo di pressione United Front for Democracy Against Dictatorship (UDD), le quali, nonostante le proteste del 2010 si siano concluse con la vittoria dei militari e del governo, non hanno ancora del tutto accettato il colpo di stato contro il governo populista di Thaksin.
In Cambogia, d’altra parte, l’attenzione è posta sulla possibilità di poter sfruttare a proprio vantaggio le complesse divisioni tra le diverse fazioni politiche tailandesi. Phon Penh vedrebbe l’attuale fase di debolezza e confusione politica tailandese come un possibile strumento per ripresentare alla comunità internazionale il contenzioso con il nemico. E’ da ricordare, inoltre, che la Cambogia sconta nella competizione con il vicino un gap militare da non sottovalutare.
Il primo ministro Hun Sen, inoltre, sta sfruttando la completa rivendicazione del sito di Preah Vihear e i conseguenti scontri armati degli ultimi giorni in senso nazionalistico al fine di rafforzare il proprio potere personale. Gli incidenti potrebbero rappresentare un modo per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica cambogiana nei confronti della politica interna viste le imminenti elezioni politiche. Inoltre, il regime di Hun Sen deve fronteggiare le continue accuse dei suoi oppositori di essere asservito agli interessi di un altro vicino, il Vietnam. Fu proprio quest’ultimo paese, infatti, ad installare l’attuale premier cambogiano nel 1985, dopo l’invasione che rovesciò il regime di Pol Pot.
– Le conseguenze a livello regionale e internazionale
Le controversie tra Tailandia e Cambogia non sono solamente collegate a questioni di politica interna, ma hanno delle importanti connessioni con la politica estera e in particolare con le relazioni internazionali inerenti l’area del Sud-est asiatico.
Il riacutizzarsi della tensione tra i due paesi ha causato un impatto negativo all’interno dell’Asean, l’Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale, di cui sia Bangkok che Phon Penh fanno parte, accusata e dimostratasi inefficiente nel prevenire il conflitto. La legittimità e l’esistenza stessa dell’associazione sono state messe in dubbio in questi giorni, dal momento che Tailandia e Cambogia hanno infranto uno dei punti cardini dell’organizzazione, ovvero il principio di cooperazione e consultazione tra paesi nei momenti di crisi. Con il comportamento aggressivo e nazionalista i due Stati hanno sfidato, infatti, la costituzione stessa dell’Asean, violando il Treaty of Amity and Cooperation (TAC), mediante il quale i paesi membri si impegnano ad accordarsi pacificamente per risolvere qualsiasi tipo di disputa tra essi.
Il segretario generale dell’Asean, Surin Pitsuwan, ha già espresso l’intenzione di farsi mediatore tra i due paesi, proponendo un’immediata tregua. Cambogia e Tailandia sembrano, invece, optare per altre soluzioni. Se da una parte sembra difficile che i due paesi accettino terzi nel fronteggiare la crisi diplomatica – la Tailandia ha già rifiutato la mediazione francese – dall’altro lato non sono concordi sulla scelta delle modalità del dialogo. Mentre Bangkok vorrebbe discutere del problema ponendolo su basi strettamente bilaterali, la Cambogia, come avvenuto durante episodi analoghi nel passato, ha chiesto un’urgente convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, denunciando l’aggressione tailandese. Entrambi i metodi dimostrano come sia la Cambogia che la Tailandia dimostrino scarsa fiducia nei confronti dell’Asean.
Il ruolo dell’associazione dei paesi del Sud-est asiatico potrebbe apparire, invece, diverso e maggiormente positivo anche agli occhi della comunità internazionale se i paesi membri fornissero a questa organizzazione regionale strumenti efficaci per agire e per poter regolare legittimamente le dispute territoriali tra gli Stati dell’associazione. Un ruolo chiave potrebbe essere svolto a questo proposito dall’Indonesia, presidente di turno per il 2011, al fine di favorire un proficuo dialogo tra i due paesi.
Gli altri Stati della regione osservano attentamente la situazione, in particolare il Vietnam. Un iperattivismo di Bangkok e l’accrescere del nazionalismo tailandese e cambogiano potrebbero essere visti negativamente ad Hanoi, considerato, inoltre, che l’influenza vietnamita su Laos e Cambogia è considerata da sempre strategicamente fondamentale per gli interessi nazionali del Vietnam.
A dispetto dei difficili rapporti, Bangkok era comunque diventata, a partire dagli anni ’90, uno dei principali partner commerciali di Phnom Penh. Negli ultimi anni, però, questo rapporto di dipendenza si è allentato e Hun Sen avrebbe poco da perdere nell’incrinarsi del rapporto commerciale e diplomatico con la Tailandia. In seguito all’incremento degli investimenti nel paese cambogiano di Vietnam, Giappone, Corea del Sud, Singapore e, soprattutto, Cina, Phon Penh considererebbe con minore preoccupazione l’aumentare della tensione diplomatica con Bangkok.
Il Sud-est asiatico sta diventando, infatti, un’area, dal punto di vista strategico, fondamentale per gli investimenti di Pechino e potenzialmente una zona di confronto tra gli interessi americani e quelli della Cina. Una delle dimostrazioni dell’aumentato coinvolgimento cinese nella regione è rappresentato dalla firma dell’accordo commerciale nel 2010 tra Pechino e l’Asean, l’Asean-China Free Trade Area (ACFTA), con la creazione della più grande area di libero mercato a livello mondiale come popolazione e la terza in funzione del PIL.
La Tailandia è un tradizionale alleato degli Stati Uniti, proprio in questi giorni sono in corso le congiunte esercitazioni militari tra Washington e Bangkok, mentre la Cambogia, negli ultimi anni, ha sempre più rafforzato il suo legame economico e politico con Pechino. Entrambi i paesi hanno intenzione di rafforzare il commercio bilaterale nei prossimi cinque anni, concentrandosi in particolare sull’agricoltura e sull’energia. La Cina è attiva nel finanziare la costruzione di infrastrutture in territorio cambogiano nonché nel favorire il miglioramento dell’economia della Cambogia, concentrandosi soprattutto nel settore agricolo del paese. Pechino è il più importante paese estero che sta offrendo aiuti economici a Phon Penh ed è il principale fornitore di armi dell’esercito cambogiano. I militari hanno utilizzato per gli scontri al confine con i tailandesi armi di fabbricazione cinese.
In cambio, l’influenza geopolitica della Cina nell’area è aumentata e Pechino rappresenta uno dei più importanti appoggi diplomatici per il regime di Hun Sen a livello internazionale. Un esempio significativo del consolidato rapporto tra Pechino e Phon Penh è rappresentato dall’espulsione verso la Cina da parte delle autorità cambogiane di 20 attivisti di etnia uigura, richiedenti asilo politico in Cambogia nel 2009, sfidando le pressioni internazionali. Un altro esempio del riavvicinamento tra i due paesi è dimostrato dal silenzio cambogiano di fronte alle possibili ripercussioni negative, dal punto di vista ambientale e alimentare, delle costruzioni delle dighe cinesi al confine con il Sud-est asiatico, le quali altererebbero il corso del fiume Mekong in Laos, Vietnam, Cambogia e Tailandia.
L’origine interna delle tensioni tra i due paesi, dunque, non impedisce di sottolineare la rilevanza internazionale delle implicazioni che ne derivano, fino a coinvolgere l’intera area del Sud-est asiatico e a divenire ulteriore terreno di scontro tra le due maggiori potenze del momento, Stati Uniti e Cina.
*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste)
—
Giorgio Salvetti
I ricchi che abitano alla Baggina 19.02.2011
Tutti colpevoli, nessun colpevole. Ieri, dopo infiniti tentennamenti, sono stati resi noti i beneficiari delle case di proprietà del Pio Albergo Trivulzio (Pat). La Baggina di Milano che dovrebbe dare un tetto ai meno abbienti invece favorisce ricchi e potenti. Lo scandalo affittopoli da mesi rimbalza sulle pagine delle cronache locali e non riguarda solo il Pat ma anche altri enti benefici e altre partecipate di palazzo Marino come il Policlinico o le Stelline. Il Pio Albergo Trivulzio è un nome pesante che rimanda all’esplosione di tangentopoli e su quest’ ente da giorni è in atto una forte pressione per indurlo a rendere pubblici i nomi dei beneficiari delle case tra i quali compaiono non solo cittadini bisognosi ma anche professionisti, politici e amici di amici. Dopo qualche succosa anticipazione e infinite resistenze ieri le liste sono state finalmente consegnate dal presidente del consiglio comunale milanese Manfredi Palmeri alla commissione Demanio guidata da Barbara Ciabò (Fli).
Eccoli i nomi. C’è di tutto. Il figlio dell’ex sindaco Pillitteri e all’ex assessore alla sicurezza della giunta Albertini, Guido Manca. Il nipote di Cossiga, Piero Testoni. Un certo D. Cordero di Montezemolo, il dirigente generale del Milan Ariedo Braida, il vice presidente dei deputati del Pdl Massimo Corsaro, la ballerina Carla Fracci, l’ex consigliere regionale Sveva Dalmasso, un magistrato del Tribunale di Milano, un gioielliere, uno dei garanti appena eletti in Comune per l’indizione dei referendum sull’ambiente, i titolari di un’immobiliare di lusso. E anche Cinzia Sasso, giornalista di Repubblica e compagna del candidato sindaco Giuliano Pisapia. Ci sono appartamenti di lusso in pieno centro a prezzi stracciati (per esempio 58 mq in galleria Vittorio Emanuele a 75 euro al mese spese comprese), interi negozi di famosi esercizi commerciali in corso Buenos Aires, ma anche case in periferia e appartamenti che richiedono ingenti spese di ristrutturazione. Accanto a ricchi che hanno ottenuto la casa non si sa come, ci sono anche centinaia di onesti cittadini.
Per tentare di fare chiarezza è utile ripercorre le tappe dello scandalo. Che il Pio Albergo Trivulzio sia gestito con poca trasparenza dai tempi di Tangentopoli non è una novità. E neppure è una novità il fatto che sulla questione della casa si gioca la principale partita tra i poteri politici ed economici che si spartiscono Milano. Non è un caso che la campagna sulla nuova affittopoli sia stata cavalcata da un giornale come Libero a tre mesi dalle elezioni comunali e benché nel mirino ci siano prima di tutto uomini del centro destra. A partire dal presidente Emilio Trabucchi del Pdl. Segno che ancora una volta sono le crepe e gli scontri interni alla destra a far emergere gli interessi e il clientelismo su cui si fonda un’egemonia che in Lombardia dura da quasi venti anni. Trabucchi giovedì ha tentato di tenere segrete le liste e si è rivolto al Pirellone che però le ha rimandate al mittente e così ha dovuto arrendersi e consegnare i nomi a Palazzo Marino. Il sindaco Moratti che su tutta la vicenda ha tentennato, solo all’ultimo momento non ha potuto fare altro che abbozzare e dichiarare che era giunta l’ora di fare chiarezza. Il celeste Formigoni ha detto che «si deve intervenire», ma con cautela.
Eccole le liste. Mille e passa nomi su carta semplice in tabelle formato Excel. Nulla di più. «Mancano le liste degli immobili venduti e restano molti dubbi anche su quelli affittati», spiega Patrizia Quartieri, consigliere comunale del Prc. Ieri lei era in commissione Demanio, non c’era però nessuno del Pat. «Non abbiamo potuto avere nessun chiarimento, né sui criteri di assegnazione né sulla completezza di quelle liste – non sappiamo ad esempio quante case del Pat sono sfitte». Altro che operazione verità.
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/02/articolo/4188/
—
Pechino, protesta tra web e gelsomini
Soffocate le prove di rivolta “tunisina” 20.02.2011
Ispirati dalle ribellioni in Africa e Medio Oriente, nella capitale e altre città alcuni attivisti hanno lanciato i simbolici fiori come forma di protesta. Rapido l’intervento della polizia, sul territorio e con blocco di cellulari e web. Centinaia di arresti
PECHINO – Le rivolte in Nordafrica e Medio Oriente ispirano i giovani cinesi che provano a scendere in piazza contro il regime. E delle manifestazioni tunisine, i cinesi prendono in prestito i simboli, in questo caso il gelsomino. La tensione è arrivata fino a Wangfujing, la via dello shopping di Pechino a poca distanza da Piazza Tienanmen, con un assembramento e lancio di gelsomini. Un atto che segue un messaggio apparso sul web, che invitava alla protesta.
A Pechino i fiori di Tunisi. La dimostrazione è iniziata con una piccola folla composta inizialmente soprattutto da curiosi, giornalisti e forze dell’ordine in borghese. Ma tra la ressa era evidentemente presente un drappello di manifestanti organizzati, che hanno approfittato del momento migliore per lanciare alcuni mazzi di gelsomini bianchi dalla scalinata di un centro commerciale, sotto i flash e le telecamere dei media. Un comportamento che ha fatto scattare l’intervento di un massiccio spiegamento delle forze di polizia.
La reazione degli agenti è stata composta, immediata e decisa: i poliziotti già presenti sul posto sono stati raggiunti da diverse dozzine di colleghi, che hanno spinto la folla verso la strada tentando di disperderla, mentre altri agenti facevano sparire velocemente i fiori gettandoli nell’immondizia.
La risposta delle forze dell’ordine è stata anche mediatica: per una decina di minuti le telecomunicazioni della zona sono state completamente oscurate, rendendo inutilizzabili i telefoni cellulari.
Dopo pochi minuti la tensione è salita ancora, e in due occasioni si è sfiorato lo scontro fisico. Alcuni poliziotti hanno bruscamente fronteggiato un cameraman straniero, mentre altri hanno allontanato un ragazzo cinese che aveva raccolto i gelsomini dai cestini della spazzatura. Bloccato da due uomini in borghese, il giovane è stato rilasciato subito dopo. I manifestanti arrestati sarebbero solamente due – un uomo che ha imprecato contro la polizia e un altro che urlava “Ho fame”. La polizia era giunta alla manifestazione già preparata, dopo avere scatenato una vasta azione preventiva tanto sul campo che su internet. La parola “gelsomino” risulta bloccata in tutta la Cina sulle piattaforme di microblog, così come i richiami alle proteste in Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Bahrein.
Organizzati sul web. Il messaggio che incitava alla “protesta dei gelsomini” era apparso per la prima volta sul sito americano in lingua cinese Boxun.com, ed è stato successivamente diffuso sul web del Celeste Impero, provocando tra ieri e oggi più di un centinaio di arresti di dissidenti e attivisti. E’ il caso dell’avvocato dei diritti umani Jiang Tianrong, condotto via dalla sua casa di Pechino dalle forze dell’ordine, e di alcuni dei suoi colleghi come Teng Biao, Xu Zhiyong e Jiang Tianyong, che risultano irraggiungibili. Ma nessuno dei dissidenti più noti ha esplicitamente firmato l’appello che invitava “tutti i lavoratori licenziati e le vittime di espulsioni forzate” a manifestare anche a Shanghai, Canton e in altre 10 metropoli scandendo slogan come “Vogliamo lavoro”, “Lunga vita alla democrazia” e “Vogliamo la libertà”. Al momento sembra che l’iniziativa abbia richiamato solo pochi manifestanti nelle altre città e l’esito nella capitale sembra abbastanza modesto rispetto alle aspettative degli anonimi che hanno diffuso il manifesto.
L’inflazione e il rischio Nordafrica. Pechino tuttavia teme l’ondata di manifestazioni che stanno incendiando il Medio Oriente, e il governo appare deciso a evitare il contagio a tutti i costi: ieri il presidente Hu Jintao ha convocato alla Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese tutti i leader provinciali e ministeriali per un discorso straordinario nel quale ha invitato i funzionari governativi a “mantenere la stabilità sociale e aumentare i controlli”. Ma anche a “studiare i cambiamenti nella situazione nazionale e internazionale e migliorare i meccanismi per risolvere i conflitti sociali”.
Nonostante i brillanti risultati economici conseguiti negli ultimi anni, Pechino si trova oggi a fronteggiare un’inflazione galoppante, che sta causando continui rincari di generi alimentari, benzina e gasolio.
L’anti Obama tra i presenti. Tra gli stranieri presenti al momento della protesta c’era anche Jon Huntsman Jr., l’ambasciatore Usa uscente che molti osservatori danno come prossimo sfidante di Barack Obama alle elezioni presidenziali del 2012. Pur avendo assunto nelle ultime settimane posizioni molto critiche sulla situazione dei diritti umani in Cina, Huntsman, che ha una figlia adottiva di origine cinese, non ha rilasciato alcuna dichiarazione.
—
manifest.AR. Il manifesto degli artisti in Realtà Aumentata 20.02.2011
Realtà Aumentata (o A/R): una coppia di parole che si impone sempre di più nel nostro vocabolario. Messi nel cassetto tute multisensoriali e occhialoni che hanno fatto sognare la generazione degli Zippies (o cyber-hyppies), la Realtà Aumentata è entrata nelle nostre vite quotidiane sotto forma di meno invasivi codici bidimensionali in bianco e nero facilmente stampabili sopra ogni superficie (i QRode e soprattutto i c.d. Fiducial Marker), applicazioni per i nostri smarphone, wide tagging. Personalmente, la definizione che prediliggo è sintetizzabile nel concetto (e nella pratica) di una “nuova scrittura sul mondo”: la possibilità di aggiungere e stratificare contenuti sulla realtà ordinaria, appunto aumentandola.
Ma il mondo della A/R non è affatto dominio per soli geek e tecnofili. Gli artisti, naturalmente, stanno sperimentando moltissimo in questo ambito. Il gruppo che vi presento oggi ha addirittura un manifesto per l’arte “aumentata”, trovando un nome sintetico ed efficace: manifest.AR. Ve ne traduco un piccolo estratto, (perdontemi come al solito se il testo risultasse un po’ goffo):
“[…] Tempo e Spazio sono morti ieri. Stiamo già vivendo nell’Assoluto, perché abbiamo creato un onnipresente, eterna Presenza Geolocativa. Nel XXI sec., gli Schermi non sono più un confine. Le macchine da presa non sono più Memorie. Con la AR il Virtuale aumenta ed estende il Reale, collocando il Mondo Materiale in un dialogo fra Spazio e Tempo. […] Adesso orde di Creativi aumentati-connessi schierano Media Virali-Virtuali per ricoprire e poi invadere i Sistemi Sociali chiusi fissati nelle Gerarchie Fisiche. Essi creano Provocazioni AR (subliminali, estetiche e politiche), inescando Tecno-Distorsioni nella sub-stratosfera dl’Esperianza Online e Offline. […] la Realtà Aumentata è una nuova forma di Arte, ma è Anti-Arte. Un qualcosa di Primitivo, che amplifica la sua Potenza Virale. È un Brutto quadro che mette alla prova la definizione del Bella Pittura. Un arte che si manifesta nel Posto Sbagliato. Che sale sul Palco senza permesso. Un’Arte Relazional-Concettuale che si Autottualizza. […]
manifest.AR è promosso da: Mark Skwarek (US), Sander Veenhof (NL), Tamiko Thiel (US,JP,DE), Will Pappenheimer (US), John Craig Freeman (US), Christopher Manzione, (US), and Geoffrey Alan Rhodes (US) Lily & Honglei (US, CN), Joseph Hocking (US), Phoenix Perry (US), Nathan Shafer (US), Warren Armstrong (AU), Damon Loren Baker (US), Patrick Lichty (US), Alan Sondheim (US), Foofwa d’Imobilité (CH), John Cleater (US), Cooper Holoweski (US), Naoko Tosa (JP). Il documento è stato sottoscritto il 25 gennaio scorso.
Apparsi al MOMA nel 2010 e quest’anno alla Biennale di Venezia, questi artisti ci propongono una riflessione totalmente contemporanea su cui è ora di interrogarsi.
La lettura completa (e in lingua originale) del testo è caldamente raccomendata a tutti i lettori.
—
Quello che ci insegnano i giovani mediorientali in piazza 20.02.2011
In epoca post-coloniale, e in maniera generalizzata dopo la fine della guerra fredda, i governi e i media dei grandi paesi occidentali hanno costruito una narrazione tendente a perpetuare la rappresentazione della sponda sud del Mediterraneo come nostra nemica e redimibile solo con regimi autoritari nostri alleati. Marginalizzato ogni discorso terzomondista in voga fino agli anni ’70, hanno eretto il nostro mare come un muro di Berlino tra mondi inconciliabili. Improvvisamente però le piazze mediorientali sembrano parlare la nostra stessa lingua e ci parlano di una realtà meno distante dalla nostra di quanto preferiamo credere.
Il Medio Oriente (come e più di altre regioni, il nostro meridione, l’Africa, l’America latina) viene costantemente rappresentato dai media come luogo di ineluttabile sottosviluppo, economico e culturale, di estremismo religioso e fonte per noi soprattutto di guai e timori. Guai per l’immigrazione, descritta e voluta come selvaggia. Timori per il terrorismo, che viene infine fatto coincidere con una regione intera. L’unico cambiamento possibile in quelle lande, è stato il tam-tam dei media fin dalle prime manifestazioni, sarebbe in peggio, con una rivoluzione oscurantista, antioccidentale e perciò da combattere. E’ vero che andò così in Iran nel 1979 ma l’alternativa reale, nella supposizione che andasse così anche in Algeria nel 1991, quando il FIS (Fronte Islamico di Salvezza) vinse democraticamente le elezioni, fu quella della Francia che preferì fomentare un colpo di stato che distrusse il paese in una guerra civile da 150.000 morti.
A lungo l’Occidente, l’Unione Europea e gli Stati Uniti, si è alleato ed ha sostenuto regimi autoritari presentati come l’unica possibilità di stabilità per democrazie impossibili. È una responsabilità grave e inemendabile figlia di una cultura per la quale libertà e democrazia vanno applicate a geometrie variabili. Lo ha dimostrato la grossolanità del ministro degli esteri italiano, Franco Frattini, che poche ore prima della caduta di Hosni Moubarak augurava a questo di continuare a governare per anni con la lungimiranza e la saggezza di sempre. Di fronte a tale criminale pochezza come ci si può lamentare di un’eventuale ostilità delle piazze cairote?
In passato l’Occidente ha rovesciato governi civili come quello di Mossadeq in Iran nel 1953, per la colpa intollerabile di aver nazionalizzato l’Anglo-Iranian Oil Company, mettendo le basi per l’odio antioccidentale della rivoluzione komeinista. Ha osteggiato governi che ci chiedevano soprattutto rispetto, come quello dell’egiziano Nasser. E’ stato pronto a stringere la mano a satrapi sanguinari, compreso lo stesso Saddam Hussein, in grado di transitare oltre la guerra fredda fino a diventare partner rassicuranti per lo scontro di civiltà funzionale al fondamentalismo protestante di George Bush per il quale la Mesopotamia biblica era “un angolo oscuro del pianeta”. Col tempo ci siamo intesi perfino con Muammar Gheddafi, in barba ai morti di Ustica, di Lockerbie, del bombardamento terroristico di Tripoli da parte di Ronald Reagan e degli scud libici di risposta su Lampedusa.
Il nemico islamico, l’arabo terrorista, il mediorientale fanatico e accecato dall’odio, l’immigrato pronto a pugnalarci alle spalle, sono stati alla base della costruzione del consenso di regimi come quello leghista-berlusconiano in Italia. Le immagini delle piazze mediorientali, dalla vicina Cairo al remoto Bahrein, da Sana’a a Tunisi, da Algeri a Bengasi, offerteci spesso da quell’Al Jazeera che i complessi mediatici delle democrazie occidentali hanno demonizzato, censurato e perfino fisicamente bombardato, palesano tutt’altre realtà. Realtà dove i protagonisti non sembrano essere né i mullah né i generali anche se non è detto che alla fine non siano proprio gli uni o gli altri a vincere.
Cantanti rap parlano a generazioni nuove, spesso ben scolarizzate; milioni di giovani usano con cognizione di causa i media personali di comunicazione di massa, da Twitter ai blog ai social network agli onnipresenti telefoni cellulari. E’ una generazione di ragazzi che smentisce una narrazione sul Medio oriente riprodotta in migliaia di informative dei servizi segreti occidentali e migliaia di editoriali che descrivevano questa gioventù come tutta talebana e in preda al fanatismo religioso. Sbagliavano o, più probabilmente, mentivano essendo tale visione funzionale una volta di più alla costruzione del consenso da noi, bisognoso di un nemico, più che a fornire strumenti di comprensione della realtà.
Quella che vediamo in piazza è una generazione di giovani che appare estranea sia alle categorie novecentesche utili a molte interpretazioni post-coloniali, e che appaiono obsolete oggi, ma che è anche del tutto irriducibile a quella categoria di “nemico” nella quale i media da ben prima dell’11 settembre hanno voluto incasellarla. I giovani mediorientali non sono nostri nemici, né smaniano per immolarsi per ucciderci come mille Renato Farina hanno cercato di farci credere in questi anni. Tutt’altro: vogliono solo vivere meglio senza particolari accentazioni ideologiche. La contemporaneità delle ribellioni appare così rispondere a una logica regionale, palesandosi come una sorta di nuovo panarabismo dei diritti che non parte dal nazionalismo ma dall’esigenza di giustizia sociale dignità e speranza.
Il ministro dell’economia italiano, Giulio Tremonti, sostiene che la crisi mediorientale è figlia della speculazione. Quella che lui svincola dalla prospettiva storico-sociale, considerandola come un fenomeno di breve termine, legato ai prezzi di beni alimentari di prima necessità, è invece un fenomeno di lungo periodo che ha la sua origine nei rapporti diseguali tra nord e sud che controllava la regione attraverso regimi parafascisti come quello di Ben Alì. Ora che una generazione di ascari giunge al capolinea possiamo scorgere nelle speranze dei ragazzi mediorientali le stesse attese che negli ultimi tre lustri hanno causato in America latina la caduta dei regimi neoliberali imposti dal Fondo Monetario Internazionale. Il monoscopio mediatico mainstream a lungo ha presentato i movimenti sociali boliviani, come i senza terra brasiliani o gli indigeni zapatisti messicani, come pericolosi estremisti se non come terroristi in modo simile a come viene oggi veicolato timore verso chi in Medio oriente esprime disagio verso autocrazie imposte.
Proprio l’impresentabilità di tale rappresentazione dei fatti però ci spiega che il racconto mediorientale ci riguarda. Dopo l’America latina e il Medio oriente il disagio per un modello economico fallito come quello neoliberale che governava da Buenos Aires al Cairo e da Caracas a Tunisi, esploderà anche da noi e non è detto che la democraticità delle istituzioni possa fermare il crollo.
Dalla Tunisia di Mohamed Bouazizi alla Palermo di Noureddine Adnad (morti entrambi suicidi per protesta), la precarietà e l’esclusione accomunano locali e migranti. L’ingiustizia sociale e la l’intollerabile disuguaglianza nelle nostre società ci torna a dire oggi quello che il pensiero unico si è incaricato per almeno due decenni di censurare: che la democrazia non ha senso senza eguaglianza e non esiste eguaglianza senza redistribuzione. Poco cambia che si nasca in Bolivia, in Algeria o in Italia.
L’Occidente, sempre meno centrale nel mondo multipolare e particolarmente indifendibile nell’appoggio a regimi autoritari, non ha in questo molte carte da giocare ma può trarre una lezione per la propria crisi che da economica si fa sociale. Purtroppo, da Nicolas Sarkozy pronto a mandare l’esercito per difendere il dittatore tunisino Ben Alì a Silvio Berlusconi, che non vuol disturbare il massacratore Muammar Gheddafi, sta invece facendo le prove generali della repressione che verrà per il nostro conflitto sociale e di credibilità. Abbiamo combattuto guerre sulla costruzione retorica dell’esportazione della democrazia e ci hanno fatto spellare le mani per rivoluzioni colorate più o meno esogene ed etero dirette. Adesso che in Medio oriente la democrazia potrebbe nascere per cause endogene come mai i nostri governanti si spaventano?
http://www.gennarocarotenuto.it/15027-quello-che-ci-insegnano-i-giovani-mediorientali-in-piazza/
—
Cosa si nasconde dietro la Sfinge?? 21.02.2011
Dietro ogni rivolta,non c’è mail il popolo,anche se sembra diffcile crederlo. Ci sono sempre interessi supeiori,che per noi che operiamo in borsa,o semplicemnete cerchiamo di fvedere le cose più in profondità è necessario che proviamo a capire.
Questa la ritengo una tesi molto condivisibile…
C’era un ordine del giorno segreto dietro la decisione di Mubarak di non dimettersi?
La decisione di Mubarak di non dimettersi è stata presa in stretta consultazione con Washington. L’amministrazione americana, compresa l’intelligence USA aveva attentamente identificato i possibili scenari. Se Washington chiesto detto a Mubarak di dimettersi, avrebbe obbedito immediatamente.
La sua decisione di non dimettersi indelebilmente serve agli interessi dell’America. Crea una situazione di caos sociale e di inerzia politica, che a sua volta genera un vuoto di potere a livello governativo. La protratta crisi sociale ha portato anche ad una massiccia fuga di capitale. Più concretamente, questo significa che le riserve ufficiali di valuta estera dell’Egitto vengono confiscate dalle maggiori istituzioni finanziarie.
Il saccheggio della ricchezza di denaro del paese è parte integrante dell’agenda macroeconomica. Il governo appena formato su istruzioni di Washington non ha fatto passi concreti per arginare l’enorme flusso di capitale verso l’esterno. Una crisi sociale prolungata significa che grandi somme di denaro saranno confiscate. Secondo fonti ufficiali, la Banca Centrale dell’Egitto aveva (prima del movimento di protesta) 36 bilioni di dollari di riserve di valuta estera, oltre ad altri $21 bilioni di depositi con istituzioni bancarie internazionali, che si dice che costituissero le sue cosiddette “riserve non ufficiali”. (Reuters, 30 gennaio 2011)
Il debito estero dell’Egitto, che è aumentato di oltre il 50 per cento negli ultimi cinque anni è dell’ordine di 34,1 bilioni (2009). Questo vuol dire che queste riserve della Banca Centrale sono de facto basate su denaro prestato. All’inizio del 2010, c’è stato un grande afflusso di depositi di “denaro caldo” negli strumenti del debito del governo egiziano.
La valuta estera confluisce nel paese e viene cambiata in sterline egiziane (EgP), che sono poi usate dagli investitori e dagli speculatori istituzionali per l’acquisto di titoli di stato e buoni del tesoro ad alto rendimento (denominati in sterline egiziane) con tassi d’interesse nel breve termine dell’ordine del 10 per cento. Il tasso di interesse sui titoli di stato a lungo termine è salito al 7,2 per cento all’inizio del movimento di protesta (Egypt Banks to Open Amid Concern Deposit-Run May Weaken Pound, Lift Yields – Bloomberg, 2 gennaio 2011)
All’inizio della crisi, gli investitori internazionali possedevano circa $25 bilioni di buoni del tesoro e di titoli di stato egiziani, quasi un quinto del mercato totale dei buoni del tesoro e circa il 40 per cento del mercato obbligazionario nazionale. Gli investitori costituivano inoltre circa il 17 per cento del turnover del mercato azionario e detenevano circa $5 – $6 bilioni di dollari di azioni egiziane. (Ibid) Secondo i suoi accordi con il FMI, l’Egitto non può implementare controlli sulla valuta estera.
Questi depositi di “denaro caldo” stanno ora lasciando il paese in anticipazione di una svalutazione della sterlina egiziana. Nei giorni che hanno preceduto il discorso di Mubarak, la fuga di capitale procedeva alla velocità di svariate centinaia di milioni al giorno. Con amara ironia, l’Egitto da un lato deposita 21 bilioni presso le banche commerciali come “riserve non ufficiali”, mentre le banche commerciali acquistano $25 bilioni di dollari del debito di EgP, con un rendimento dell’ordine del 10 per cento.
Questo suggerisce che l’Egitto stia finanziando il suo stesso debito. Il movimento di protesta è iniziato in un giorno di festa. Se la chiusura della borsa del Cairo e del sistema bancario nazionale aveva temporaneamente bloccato l’uscita del capitale, fughe di capitale per grandi importi erano già avvenute ad opera delle maggiori istituzioni finanziarie nei giorni antecedenti al movimento di protesta.
Il sistema bancario egiziano ha riaperto il 5 febbraio, portando ad un nuovo processo di fuga del capitale, che è risultato nell’impoverimento delle riserve della banca centrale e nel corrispondente aumento del debito estero dell’Egitto.
Si contempla una svalutazione pari a circa il 20 per cento. Secondo la divisione valutaria dei mercati emergenti della UBS, “la sterlina potrebbe “facilmente” scendere di un ulteriore 50 per cento fino a E£9 per dollaro americano”. (“> FT.com / Currencies – Banks weigh risk of capital flight , 1 febbraio 2011)
Una svalutazione di oltre il dieci per cento porterebbe al disastro sociale: i prezzi nazionali del cibo sono dollarizzati. Se si verificasse una svalutazione della sterlina egiziana, questo innescherebbe inevitabilmente un nuovo aumento dei prezzi dei generi alimentari essenziali, portando ad un ulteriore processo di impoverimento.
Uno scenario di svalutazione della moneta e di aumento del debito estero, affiancato ad un nuovo pacchetto sponsorizzato dall’FMI di misure di austerity porterebbe inevitabilmente ad un’accentuazione della crisi sociale e ad una nuova ondata di proteste.
Il nuovo ministro delle finanze Samir Radwan è fermamente legato al consenso di Washington, che è servito ad impoverire il popolo egiziano. In una contraddittoria dichiarazione del 3 febbraio, Radwan ha confermato che “il governo non ridurrà i sussidi persino se i prezzi globali del cibo e dei beni aumentassero. La spesa pubblica sarà usata come strumento per “ottenere la giustizia sociale”, come ha detto in una conferenza stampa al Cairo. (Bloomberg, 5 febbraio 2011).
Radwan segue le linee guida dell’FMI-Banca Mondiale: non saranno applicate restrizioni sulla fuga di capitale. La Banca Centrale assicurerà la conversione dei depositi di “denaro caldo” in valuta forte da parte delle maggiori istituzioni finanziarie. Le casse della banca centrale saranno saccheggiate.
Con la fuga di capitale, il debito nazionale viene trasformato in debito estero, lasciando il paese nella morsa dei creditori stranieri: Radwan ha detto che l’egitto onorerà i suoi debiti ed ha incoraggiato gli investitori stranieri ad avere fiducia nel paese. “Tutte le obbligazioni, tutto sarà onorato puntualmente”, ha detto Radwan durante un’intervista telefonica dal Cairo del 4 febbraio. “Non saremo inadempienti su nessun debito”. (Bloomberg, 5 febbraio 2011). Con amara ironia, la decisione di Mubarak di rimanere a capo dello stato con l’approvazione di Washington è servita agli interessi degli investitori istituzionali, dei commercianti di valuta e degli speculatori.
La dislocazione finanziaria, l’aumento del debito e la crescita esponenziale dei prezzi del cibo: prima ancora che siano indette le elezioni “democratiche”, l’Egitto sarà stato spinto dentro la camicia di forza di un nuovo insieme di condizioni del FMI.
Tratto da globalresearch
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
http://www.lamiaeconomia.com
—
Diritto all’acqua potabile
la speranza ‘fagioli magici’ 14.02.2011
Dall’Onu apertura di credito a un metodo di purificazione basato sulla Moringa oleifera, una pianta già alla base della dieta di molte nazioni povere. “Non è un miracolo, ma può risolvere molti situazioni di emergenza”
a cura di Greenreport 1
Secondo l’ultimo rapporto dell’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu (Ocha), nel mondo circa 1,1 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e la diarrea resta la principale causa di malattia e morte e entro il 2025 le persone prive di accesso all’acqua salubre potrebbero arrivare a 2 miliardi. I piccoli “fagioli” Moringa oleifera, un albero molto diffuso e già utilizzato a fini alimentari, potrebbero rappresentare una soluzione ai problemi per l’acqua potabile di cui soffrono i poveri del mondo.
Michael Lea, un ricercatore della organizzazione canadese Clearinghouse – Low cost Water Treatment Technologies for Developing Countries, che nel 2010 ha pubblicato lo studio Bioremediation of Turbid Surface Water Using Seed Extract from Moringa oleifera Lam. (Drumstick) Tree, ha spiegato all’agenzia stampa umanitaria dell’Onu Irin che “la tecnica dei semi della Moringa oleifera può essere un metodo interessante, sostenibile e percorribile per riduirre le malattie idriche e può migliorare la qualità della vita di una gran parte dei poveri”.
Lo studio di Lea sottolinea che “un metodo indigeno di trattamento delle acque adopera i semi della Moringa oleifera sottoforma di un estratto solubile in acqua in sospensione, risulta come un efficace agente naturale di chiarificazione per acque con torbidità elevata e non trattate di superficie e i patogeni. Una riduzione efficiente
(dall’80 al 99,5%) della torbidità elevata produce un “aesthetically clear supernatant”, normalmente accompagnato dal 90 al 99,99% (1 to 4 log) di riduzione della carica batterica. L’applicazione di questo protocollo low-cost Moringa oleifera viene consigliato per semplificare, point-of-use, il trattamento a basso rischio delle acque dove abitano popolazioni perii-urbane e rurali che vivono in estrema povertà e che attualmente bevono acqua molto torbida e microbiologicamente contaminata”.
La Moringa oleifera, una pianta alta tra i 4 e i 10 metri, di origini indiane e diffusa in buona parte della fascia tropicale ed equatoriale del pianeta, cresce molto velocemente, è commestibile, nutriente e resistente alla siccità. Produce baccelli a sezione triangolare di 30-45 centimetri di lunghezza che contengono da 16 a 22 semi bruni simili a fagioli ma tondeggianti, molli e che possono essere facilmente macinati con utensili semplici come un coltello o una tazza. Irin sottolinea che “la possibilità di purificare l’acqua utilizzando delle tecniche così accessibili, se non ne esistono altre, rappresenta un potenziale considerevole per salvare delle vite”.
Si tratta di una tecnica già attuata da secoli da alcune comunità sudanesi che utilizzano la Moringa sia come fonte di nutrimento sia per purificare l’acqua e negli ultimi anni sono stati avviati diversi progetti indipendenti di coltivazione della pianta.
Irin presenta il caso del villaggio di Breman Baako, in Ghana, dove la Moringa Community coltiva piantagioni che danno cibo a migliaia di persone. Abu Bakkar Abdulai, direttore per il Ghana della Moringa Community, sottolinea che “la Moringa è ricca di proteine e vitamine; la gente mangia le sue foglie ed utilizza i semi come spezia sul suo cibo. Ma noi abbiamo bisogno di acqua potabile, è per questo che ci sforziamo di far conoscere anche quest’altra tecnica alle comunità”.
Secondo Kebreab Ghebremichael, un esperto di depurazione dell’acqua dell’Unesco, “se è vero che la tecnica ha del potenziale, è al livello volontario che è più appropriata. La tecnica è semplice ed a buon mercato ed abbastanza gente ha già questo albero nel suo giardino. Tuttavia, la Moringa grezza non può essere utilizzata in vasti sistemi idrici centralizzati… perché il contenuto organico dei semi può provocare dei problemi di gusto e di odore, se la si lascia per un certo tempo prima di consumarla”.
La tecnica di depurazione con i semi di Moringa è particolarmente efficace per purificare l’acqua superficiale, come quella dei fiumi, dei ruscelli, dei laghi e delle acque stagnanti, ma non conviene per le fonti d’acqua sotterranee. La polvere di Moringa non sarebbe quindi in grado di risolvere il problema dell’avvelenamento naturale dell’acqua da arsenico, che colpisce molte popolazioni asiatiche.
“Questo metodo non è un miracolo – conclude Lea – Ma potrebbe servire in caso di emergenza o là dove la gente non ha alcuna risorsa per trattare l’acqua che beve”.
http://www.repubblica.it/ambiente/2011/02/14/news/fagioli_magici-12462381/?rss
—
Perché Israele deve rinunciare alla tentazione della forza
Fonte: an McEwan – la repubblica 21.02.2011
Il discorso dello scrittore inglese alla consegna del prestigioso Jerusalem Prize, un riconoscimento che è stato accompagnato da molte polemiche
Pubblichiamo il discorso che Ian McEwan ha tenuto ieri alla consegna del Jerusalem Prize Il palmares di questo premio non ha pari al mondo. Molti degli scrittori ai quali avete consegnato questa onorificenza in passato sono da tanto tempo parte del mio corredo mentale, hanno plasmato il mio modo di intendere che cosa sia la libertà e ciò che può realizzare l´immaginazione. Non riesco a credere nemmeno per un istante di poter essere considerato all´altezza di illustri scrittori del calibro di Isaiah Berlin, Jorge Luis Borges o Simone de Beauvoir. E per un verso sono sopraffatto dall´idea che voi crediate che io lo sia. Da quando ho accettato l´invito di recarmi a Gerusalemme, non ho vissuto giorni tranquilli. Molte organizzazioni, molte persone, in termini differenti e con livelli diversi di civiltà, mi hanno esortato a non accettare questo premio. Un´associazione ha scritto a un giornale nazionale dicendo che a prescindere da ciò che io penso in fatto di letteratura, della sua nobiltà, delle sue possibilità, non posso eludere l´aspetto politico della mia decisione. Con riluttanza, con amarezza, devo ammettere che le cose stanno proprio così. Provengo da un Paese che gode di relativa stabilità. Abbiamo forse anche noi dei senzatetto, ma abbiamo una patria. Quanto meno, il futuro della Gran Bretagna non è in discussione, a meno che essa non si frammenti per una devolution pacifica e democraticamente concordata. Non siamo minacciati da vicini intimidatori, né siamo stati trasferiti a forza. Nel mio Paese gli scrittori hanno il lusso di poter scrivere tanto quanto sta a loro a cuore di questioni politiche. Qui, per gli scrittori israeliani e palestinesi, la “situazione”, ha matsav, è sempre incombente, esercita incessantemente pressioni, come un dovere, come un fardello o un´ossessione prolifica. Affrontarla è una lotta creativa, come è lotta creativa anche non affrontarla. In linea generale direi che tutte le volte che la politica penetra in ogni angolo dell´esistenza, allora qualcosa è andato profondamente storto. Nessuno può fingere che le cose vadano bene qui, quando la libertà degli individui – e ciò significa di tutti gli individui – è complicata per l´attuale situazione di Gerusalemme. Una volta deciso che sarei venuto, ho chiesto consiglio a uno scrittore israeliano, un uomo che ammiro profondamente. È stato molto incoraggiante, ha esordito dicendo: “La prossima volta cerca di farti premiare dalla Danimarca”. Alcuni di coloro che sono stati insigniti prima di me da questo premio hanno espresso le loro riflessioni davanti a un´assemblea come questa e hanno irritato alcune persone. Chiunque, però, è consapevole di un semplice fatto: istituendo un premio per filosofi e scrittori creativi, avete abbracciato la libertà di pensiero e di parola, e io considero l´esistenza del Jerusalem Prize alla stregua di un tributo alla preziosa tradizione di una democrazia delle idee in Israele. Vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla forma del romanzo e sull´idea delle libertà dell´individuo, che avete scelto come tema del vostro Premio. La tradizione del romanzo al quale io lavoro affonda le proprie radici nelle energie laiche dell´Illuminismo europeo, durante il quale le condizioni personali e anche sociali dell´individuo iniziarono a essere oggetto di attenzione duratura da parte dei filosofi. Si affermò una classe sempre più ampia e relativamente privilegiata di lettori, che avevano il tempo non soltanto di riflettere sulla loro stessa società, ma anche sulle proprie relazioni intime, e costoro scoprirono che nei romanzi le loro preoccupazioni erano riflesse e approfondite. In Swift e Defoe, i personaggi erano messi alla prova dall´etica, e le loro società erano oggetto di satira, o giudicate tramite racconti di viaggio che erano o del tutto immaginari oppure basati su documentazioni reali. In Richardson, forse, troviamo il primo intenso resoconto a grana fine della coscienza individuale. In Fielding, agli individui sono conferite visioni panottiche di una società nello spirito di una commedia benevola e inclusiva. Infine, la meraviglia che corona il tutto: in Jane Austen il destino degli individui è rappresentato tramite una nuova modalità narrativa – poi tramandata alle generazioni successive di scrittori – uno stile libero indiretto, che permetteva alla attenta valutazione di una terza persona oggettiva di fondersi con un aspetto soggettivo vivace – tecnica che permetteva al personaggio-individuo del romanzo un maggiore spazio di crescita. Per tutto il diciannovesimo e ventesimo secolo, nelle opere di maestri quali Charles Dickens, George Eliot, James Joyce e Virginia Woolf, l´illusione letteraria del personaggio e la rappresentazione della coscienza furono maggiormente rifinite, con il risultato che il romanzo è diventato il nostro migliore e più sensibile mezzo di esplorazione della libertà degli individui. E tale esplorazione spesso rappresenta ciò che accade allorché la libertà è negata. Questa tradizione del romanzo è fondamentalmente laica. Sono le coincidenze, o le macchinazioni umane – e non Dio – a decidere dei destini umani. È una struttura che è plurale, che perdona, che è profondamente curiosa delle mentalità altrui, di come deve essere poter essere qualcun altro. Riesce, con una sorta di attenzione e concentrazione divina propria dell´autore, ad accordare rispetto per l´individuo ai suoi protagonisti principali, di alta o bassa estrazione sociale, ricchi o miserabili che siano. La tradizione inglese è soltanto una tra le molte, ma è profondamente legata a tutte le altre. Parliamo di una tradizione ebraica nel romanzo, tradizione vasta, complessa, ma tuttora condizionata da argomenti ordinari: un atteggiamento talvolta ironico nei confronti di un dio; l´accettazione della sottostante commedia metafisica e soprattutto, in un mondo di persone sofferenti e oppresse, la profonda simpatia per il personaggio-vittima; infine, la determinazione a offrire agli oppressi il rispetto che la fiction può conferire allorché illumina la vita interiore. Ne troviamo gli elementi nelle allegorie esistenziali di Nella colonia penale e del Processo di Kafka; nella tristezza e bellezza di Bruno Schulz; nell´opera di Primo Levi quando diede voce personale all´incubo della Shoah, che fece della crudeltà un´industria che resterà per sempre la misura estrema della depravazione umana o di quanto in basso noi si possa scendere. E ancora, nella fiction di I. B. Singer, che conferì dignità alle vite rattrappite degli immigrati; in termini diversi troviamo un tema parallelo in Saul Bellow, i cui protagonisti intellettuali e in agonia lottano invano e senza frutto per fiorire in una cultura materialistica e ingrata. La vittima, l´estraneo, il nemico e il reietto, un viso nella folla, diventa sempre un essere pienamente realizzato in virtù della grazia della polvere magica della fiction – una polvere la cui ricetta è per altro “segreto non segreto” – ovvero grande attenzione al dettaglio, empatia, rispetto. Questa tradizione è vigorosamente sostenuta nella cultura letteraria di Israele, e questo sin dalla sua fondazione. Di recente ho avuto modo di scoprire Khirbet Khizeh di S. Yizhar, pubblicato nel 1949 – lo smagliante resoconto di un villaggio arabo raso al suolo durante la guerra del 1948 – e di una protesta che non abbandona mai la gola della voce narrante, mentre le case sono demolite e gli abitanti del villaggio sono portati via dalla loro terra. È un tributo a una società aperta che questo racconto per molti anni sia stato fatto leggere agli scolari israeliani. Khirbet Khizeh è tutt´oggi un´opera dolorosamente importante. Ma la questione morale è ancora attuale. Ci sono molti scrittori che si potrebbero citare, ma permettetemi di parlare soltanto di tre personaggi di fama che si sono guadagnati l´amore e il rispetto dei lettori di tutto il mondo: Amoz Oz, Abraham Yehoshua e David Grossman. Si tratta di scrittori molto diversi tra loro, di idee politiche sovrapponibili ma lungi dall´essere identiche; scrittori che amano il loro paese, che hanno fatto sacrifici per esso e sono preoccupati per la direzione che esso ha imboccato, e le cui opere non sono mai prive di quella polvere magica fatta di rispetto e del dono della libertà agli esseri umani, arabi tanto quanto ebrei. Nelle loro lunghe carriere si sono opposti agli insediamenti. Loro e la comunità dei letterati più giovani di Israele sono la coscienza, la memoria e soprattutto la speranza del Paese. Ma io credo di poter affermare che tutti questi tre scrittori negli ultimi anni hanno visto che le circostanze facevano infrangere le loro speranze. Mi piacerebbe dire qualcosa del nichilismo. Hamas – le carte costitutive del quale comprendono il velenoso falso dei Protocolli dei Savi di Sion – ha abbracciato il nichilismo dell´attentatore suicida, dei razzi sparati alla cieca contro le città. Ha abbracciato il nichilismo di una politica di estinzione verso Israele. Ma – volendo fare un unico esempio – è stato nichilista anche sparare un razzo contro l´abitazione indifesa del medico palestinese Izzeldin Abuelaish a Gaza, nel 2008, che ha provocato la morte delle sue tre figlie e di sua nipote. È nichilismo fare della Striscia di Gaza una prigione a lungo termine. Il nichilismo ha scatenato uno tsunami di cemento in tutti i Territori occupati. Quando gli illustri giudici di questo premio mi lodano per il mio “amore per la gente, la preoccupazione per il loro diritto all´autorealizzazione”, paiono quasi esigere che io citi – e devo farlo – i continui sfratti e le demolizioni, l´incessante acquisto di case palestinesi a Gerusalemme Est, il processo del diritto al ritorno garantito agli ebrei ma non agli arabi. Questi cosiddetti “fatti sul terreno” sono una sorta di colata di cemento a presa rapida sul futuro, sulle future generazioni di bambini palestinesi e israeliani che erediteranno questo conflitto e lo troveranno ancor più difficile da risolvere di quanto sia oggi, come più difficile sarà affermare il loro diritto alla realizzazione personale. Per l´umile ateo la situazione è abbastanza chiara: non appena le controparti di una disputa politica attingono la loro ispirazione primaria dai rispettivi dèi di parte, la soluzione pacifica si allontana. Non sono interessato, però, a controversie d´equivalenza. Nell´aria aleggia una grande ingiustizia, più che palese: molte persone sono state trasferite altrove e continuano a esserlo. D´altro canto, una democrazia eccellente è minacciata da vicini ostili, perfino al punto da essere minacciata di estinzione da uno Stato che presto potrebbe entrare in possesso di una bomba nucleare. La domanda più impellente è quella di Lenin: che si deve fare? Quando ci poniamo questa domanda, ci chiediamo anche: chi deve farlo? Chi ha il potere di intervenire? I palestinesi sono divisi, le loro istituzioni democratiche sono deboli o inesistenti. Il jihadismo violento ha dimostrato di autodistruggersi. Sono stati sfortunati, in quanto a leadership. Eppure, molti palestinesi sono pronti per una soluzione. Il loro intendimento è questo. E Israele? Che lo si creda o no, c´è un calcolo per quantificare le energie creative di una nazione. Si guardi alle edizioni presenti in questa fiera del libro, ai numeri dei libri tradotti dall´ebraico e in ebraico, oppure al numero delle richieste di diritti d´autore andate a buon fine (sbalorditivo, per un Paese così piccolo), o ancora al numero degli studi scientifici citati, alle scoperte nelle tecnologie legate all´energia solare, ai concerti in tutto il mondo del Jerusalem Quartet che fanno sempre il tutto esaurito. L´indice dell´energia creativa è alto, e alte sono le capacità. Dov´è però la creatività politica di Israele? In che cosa i politici di questa nazione devono competere costruttivamente con gli artisti e gli scienziati israeliani? Di sicuro, non nel mix cementifero. Di sicuro, non negli ordini di sfratto. Abbiamo letto tutti i documenti fatti pervenire ad Al Jazeera. Di sicuro, questo non è il meglio che i politici israeliani possono fare, allorché soccombono a quello che David Grossman ha chiamato “la tentazione della forza”, e allorché quasi con nonchalance mettono in disparte le considerevoli concessioni fatte dall´Autorità Palestinese. In questo contesto, il contrario di nichilismo è creatività. La voglia di cambiamento, l´intenso desiderio di libertà personale che sta dilagando in Medio Oriente è un´occasione, più che una minaccia. Nel momento in cui gli egiziani hanno deciso in massa di riformare la loro società e di pensare in termini costruttivi, assumendo in pieno la responsabilità della loro nazione nelle loro stesse mani, sono stati e saranno meno propensi ad accusare altri, estranei, per tutte le loro disgrazie. È adesso, proprio adesso, il momento giusto per riavviare il processo di pace. La nuova situazione impone di saper riflettere politicamente e creativamente con audacia, non di ritornare all´amarezza di una mentalità da bunker, né di continuare ad andare avanti, dietro sempre più cemento. Dopo la sua recente visita qui, la commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani ha dichiarato che sparare razzi contro Israele da Gaza è un crimine di guerra. Ha dichiarato anche che l´annessione di Gerusalemme Est viola le leggi internazionali e che Gerusalemme Est è continuamente svuotata dei suoi abitanti palestinesi. Ci sono alcune similarità da questo punto di vista tra un romanzo e una città. Un romanzo, naturalmente, non è semplicemente un libro, un oggetto materiale fatto di pagine e copertina, ma è un genere particolare di spazio mentale, un luogo di esplorazione, di indagine sulla natura umana. Analogamente, una città non è soltanto un agglomerato di edifici e strade. È anche un luogo mentale, terreno di sogni e contese. Tra queste due entità, la popolazione, le persone immaginarie o reali, lottano per il loro diritto a perseguire la loro auto-realizzazione. Lasciate che lo ripeta: il romanzo come forma letteraria nacque per curiosità e rispetto per gli esseri umani. Le sue tradizioni lo sospingono verso il pluralismo, l´apertura, un desiderio solidale di abitare la mente altrui. Non c´è uomo, donna o bambino, israeliano o palestinese, né di qualsiasi altra origine, la mente del quale un romanzo non possa ricostruire amorevolmente. Istintivamente, il romanzo è democratico. Accetto con gratitudine questo premio nella speranza che le autorità di Gerusalemme – un giorno capitale di due Stati, spero – guardi al futuro dei suoi figli e ai conflitti che potrebbero teoricamente travolgerli, ponga fine agli insediamenti e alle invasioni, e aspiri creativamente alla condizione aperta, rispettosa, plurale del romanzo, la forma letteraria alla quale questa sera noi tutti rendiamo onore.
©Ian McEwan, 2011 Traduzione di Anna Bissanti
—
Per inquinamento ambientale dell’Amazzonia
Ecuador: 9 miliardi di dollari di multa alla Chevron 15-16.02.2011
In realtà i danni sono stati provocati dalla Texaco, poi acquistata dalla società petrolifera americana
MILANO – Oltre nove miliardi di dollari di risarcimento per aver trasformato una parte dell’Amazzonia ecuadoriana nella zona industriale «più contaminata del mondo». È una sentenza storica quella pronunciata lunedì dal giudice di Lago Agrio, Nicolas Zambrano, che ha condannato la Chevron a pagare una delle multe più salate della storia. La corte ha stabilito che la multinazionale americana per quasi 30 anni ha inquinato irreparabilmente il territorio ecuadoriano provocando gravi danni alla salute della popolazione locale.
RISARCIMENTO – La causa, iniziata nel 1993, era stata promossa dalle comunità indigene contro l’allora società petrolifera Texaco, poi assorbita dalla Chevron. L’accusa inizialmente aveva chiesto il pagamento di 27 miliardi di dollari (come riportato da un reportage di Ettore Mo sul Corriere della Sera) e in una documentazione di oltre 200 mila pagine erano state raccolte innumerevoli testimonianze e prove che dimostravano come nel corso degli anni lo sversamento di miliardi di litri di scarti in corsi d’acqua e fiumi locali da parte della multinazionale abbiano provocato gravissimi danni all’ambiente e un aumento esponenziale di malattie mortali come la leucemia e il cancro tra le popolazioni indigene. Nella sentenza di 188 pagine, il giudice Zambrano ha accolto le accuse delle popolazioni locali e ha stabilito che i danni provocati dalla multinazionale ammontano a 8,6 miliardi di dollari. A questi bisogna aggiungere circa un miliardo di dollari che la Chevron dovrà pagare alla Amazon Defense Coalition, l’associazione che raggruppa i querelanti. Inoltre, se Chevron non si scuserà pubblicamente entro 15 giorni tramite annunci sui giornali americani ed ecuadoriani, la sentenza prevede il raddoppio della multa.
COMMENTI – «Quella contro la Chevron», ha dichiarato al New York Times David M. Uhlmann, esperto di diritto ambientale dell’Università del Michigan, è una delle più importanti sentenze mai comminate nella storia per la contaminazione ambientale. È sicuramente inferiore ai 20 miliardi di dollari che la Bp ha accettato di pagare per risarcire le vittime della marea nera nel Golfo del Messico, ma è comunque una decisione storica». D’accordo sono i membri dell’Amazon Defense Coaliton che confermano: «È la prima volta che un popolo indigeno fa causa a una multinazionale nel Paese in cui i crimini sono stati commessi e ottiene giustizia». Pablo Fajardo, il coraggioso avvocato trentottenne che ha difeso i diritti degli oltre 30 mila cittadini indigeni, parla di «trionfo della giustizia», ma afferma che i danni provocati dalla società petrolifera sono ben maggiori: «Abbiamo intenzione di presentare ricorso perché riteniamo che il risarcimento non sia sufficiente. Secondo un rapporto recentemente presentato in tribunale i danni potrebbero ammontare a 113 miliardi di dollari».
APPELLO – Quello che è certo è che l’ammontare del risarcimento supera anche i 5 miliardi di dollari che la ExxonMobil, la più grande società petrolifera del mondo, fu inizialmente condannata a pagare per il disastro petrolifero in Alaska del 1989. Da parte sua la Chevron, attraverso il portavoce Kent Robertson, definisce la sentenza «illegittima e inapplicabile» e afferma che ricorrerà in appello: «Questo giudizio è il prodotto di una frode», dichiara Robertson. «Dall’inizio è stato ideato un piano che avevo lo scopo di gonfiare la stima dei danni per portare i giudici corrotti a comminare una pena di poco più bassa». Rafael Correa, presidente socialista dell’Ecuador dal 2007, afferma che nessun risarcimento restituirà la salute ai suoi concittadini e l’ecosistema dell’Amazzonia: «La società petrolifera», spiega Correa, «ha commesso un crimine contro l’umanità. Villaggi interi sono stati sterminati a causa dell’inquinamento».
Francesco Tortora
—
Staminali iPS geneticamente instabili
E’ la prima volta che viene formalmente dimostrato che queste cellule così promettenti per la terapia accumulano mutazioni genetiche
Le cellule staminali ottenute riprogrammando cellule adulte sono geneticamente instabili, al punto che possono generare tumori. Una ricerca coordinata da Pier Giuseppe Pelicci, dell’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) e da Thanos Halazonetis, dell’università di Ginevra, richiama alla cautela e dimostra che sono più lunghi del previsto i tempi necessari per trasformare le cellule riprogrammate in terapie.
Alla ricerca, pubblicata oggi online sulla rivista Cell Death and Differentiation, hanno collaborato anche Istituto Firc di Oncologia Molecolare (Ifom), Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica e Politecnico di Losanna.
‘E’ la prima volta che viene formalmente dimostrato che queste cellule così promettenti per la terapia accumulano mutazioni genetiche’, ha detto uno degli autori dello studio, Stefano Casola, dell’Ifom.
Considerate una delle maggiori promesse per la medicina del futuro e prive dei problemi etici che accompagnano l’uso delle cellule embrionali, le cosiddette cellule pluripotenti indotte (Ips) hanno ancora una lunga strada da fare prima di uscire dal laboratorio.
Ottenute nel 2006 nell’università giapponese di Kyoto, le Ips sono ottenute facendo viaggiare nel tempo le cellule adulte grazie a un cocktail di quattro geni. ‘Sono cellule che perdono un’identità per acquistarne un’altra’, ha detto ancora Casola, e adesso si sa che questo passaggio non è privo di effetti collaterali.
‘Abbiamo scoperto che questa modalità di generare cellule staminali embrionali a partire da cellule adulte comporta un rischio, quindi dobbiamo adottare altre modalità’, ha detto Pelicci. Il nuovo dato, scoperto nelle cellule riprogrammate della pelle e mammarie, secondo l’esperto non modifica i termini del dibattito etico fra uso di staminali embrionali o adulte: ‘Non c’è nessun dubbio che le embrionali funzionino meglio delle adulte a scopo terapeutico e le Ips sono una via di mezzo: il dibattito non è modificato, a meno che qualcuno non lo voglia utilizzare strumentalmente’. La strada, ha rilevato, ‘è aperta. Abbiamo capito perchè avvengono le mutazioni e adesso dobbiamo mettere a punto protocollo diverso: non bisogna uccidere prospettive di ricerca straordinariamente importanti per l’umanità e non allarmiamoci davanti a difficoltà che si risolveranno’.
La strada è ancora lunga e tortuosa. Anche per un altro degli autori, Giuseppe Testa (Ifom e Ieo), la cautela è d’obbligo. ‘Le cellule Ips non pongono problemi etici, ma il costo è l’instabilità genetica. Ora dobbiamo analizzare il problema per individuare i meccanismi responsabili dell’accumulo di mutazioni’.
La prima cosa da fare, secondo gli autori dello studio, è passare in rassegna gli ingredienti del cocktail utilizzato per far tornare le cellule adulte ad uno stadio simile a quello embrionale. I primi indizi sono caduto sul gene chiamato c-Myc, uno dei principali motori che fa viaggiare le cellule indietro nel tempo. ‘In alcuni casi – ha detto Casola – può indurre la iperproliferazione delle cellule’ e di conseguenza i tumori. Il primo passo da fare, secondo i ricercatori, è cercare di riprogrammare le cellule utilizzando un numero limitato di geni.
Per esempio, eliminando un gene potente ma potenzialmente pericoloso come c-Myc. ‘Il nostro studio dimostra che che le cellule Ips senza c-Myc sono più stabili, ma potrebbero esserci anche altri fattori da tenere sotto controllo’.
In futuro ci si potrebbe anche affidare a tecniche di analisi del Dna che permettono di riconoscere cellule a rischio da cellule sicure. Non tutte le cellule, infatti, hanno mutazioni: alcune sono più deboli e non riescono a sostenere l’azione del gene c-Myc: ‘è come montare il motore di una Ferrari in una 500’, ha detto Casola. La scommessa, allora, è mettere a punto tecnologie che rendano il Dna più stabile.
Fonte: Aduc (23/02/2011)
http://www.molecularlab.it/news/view.asp?n=7107
—
Lampi di Cassandra/ Vi ricordate di Julian? 24.02.2011
di M. Calamari – Il fondatore di Wikileaks alle prese con la giustizia. E con le conseguenze personali del successo mediatico della sua creatura. Che va salvata, assieme a lui, per salvare la libertà di informazione
Roma – Penso di si, di Julian un ricordo lo dovreste avere. Non parlo del clamore suscitato dal sito Wikileaks nell’ultimo anno. il sito c’era anche prima, ma le azioni di pubblicazione che aveva effettuato non avevano raggiunto quella massa critica che le rende notizie di cronaca e che automaticamente ne moltiplica la risonanza ed i (positivi) effetti.
Non parlo neppure delle sue peripezie in giro per il mondo per essere un bersaglio meno facile, culminate nella sua vicenda giudiziaria anglo-svedese che lo vede oggi bersaglio di una ormai concessa estradizione dal Regno Unito alla Svezia.
Anche se magari vi ricordaste del fatto che Julian viene estradato sulla base di un evidente attacco mediatico, da un paese per cui il reato contestato non esiste nemmeno e quindi contro qualsiasi prassi del diritto internazionale, non sarebbe nemmeno questo, a parere di Cassandra, il ricordo più importante.
Il ricordo più importante sarebbe quello del debito di gratitudine che chiunque abbia a cuore libertà di informazione e trasparenza delle istituzioni ha nei confronti di una persona che, tra luci ed ombre, porta avanti questo suo scomodo ideale da molti anni.
Infatti non esiste solo una campagna di fango, volta a cancellare i molti lati positivi che l’esposizione mediatica del fondatore di Wikileaks aveva portato a conoscenza anche del pubblico più disattento: da parecchi mesi ormai Julian ed i suoi legali hanno descritto la manovra che è in atto nei suoi confronti per zittirlo definitivamente. Questa manovra richiede appunto la sua estradizione in Svezia, per subire un processo che anche se lo vedesse condannato potrebbe terminare con una semplice multa, visto che non si tratta (tecnicamente) di stupro.
Ma nel frattempo giungerà dagli Stati Uniti una richiesta di estradizione basata su una legge retroattiva approvata nel frattempo, o su “prove” ancora mai emerse e su cui si potrebbero fin da ora avanzare andreottianamente seri dubbi, dove potrebbe dover affrontare buchi neri come Guantanamo o sentenze di morte per spionaggio.
Il silenzio che lo circonda facilita questa manovra, per ora puntualmente realizzatasi, anzi ne è requisito indispensabile. E questo silenzio è palpabile anche in persone come quelle che leggono queste righe. Non dovrebbe essere così.
La voce di Cassandra è poco utile perché solitamente non creduta, ma forse se si sentissero le vostre, forti e numerose, questo triste ed ingiusto finale potrebbe cambiare.
Marco Calamari
Lo Slog (Static Blog) di Marco Calamari
Tutte le release di Cassandra Crossing sono disponibili a questo indirizzo
http://punto-informatico.it/3096723/PI/Commenti/lampi-cassandra-vi-ricordate-julian.aspx
—
Assalto al Corriere?
Red., 24.02.2011
Il governo pone la fiducia sul maxiemendamento sostitutivo del milleproroghe dopo lo stop di Napolitano. L’opposizione protesta, denuncia un nuovo caso: nell’ultima versione del provvedimento si allentano le norme anti – concentrazione nella proprietà dei mass media. Il divieto di comprare un quotidiano per le imprese che posseggono già reti televisive nazionali resta infatti solo fino al 31 marzo 2011 (nella precedente versione era fino a dicembre). Serpeggia il sospetto: Berlusconi punterebbe al Corsera
Come annunciato ieri sera, il governo ha posto la fiducia sul maxiemendamento sostitutivo del decreto ‘milleproroghe’ su cui il Quirinale aveva espresso forti dubbi di costituzionalità. Ad annunciarlo nell’aula di Montecitorio è stata il ministro per i rapporti con il Parlamento Elio Vito che ha motivato la scelta dell’esecutivo con “la scadenza ravvicinata dei termini del provvedimento e la necessità di determinare un nuovo esame da parte dell’altro ramo del Parlamento”. Il voto sul maxiemendamento, interamente sostitutivo del precedente, è previsto per la giornata di domani alla Camera. Il provvedimento, che scade il prossimo 27 febbraio, passerà poi all’altra ramo del Parlamento per l’approvazione definitiva prevista per la giornata di sabato.
Il ricorso alla fiducia ha scatenato una pioggia di critiche da parte dell’opposizione. Il Partito democratico in particolare insiste sul rischio per il pluralismo dell’informazione: si teme per l’allentamento delle norme che combattono le concentrazioni di proprietà dei media, in particolare gli incroci tra le proprietà delle televisioni e quelle dei grandi giornali. Il divieto di comprare un quotidiano per le imprese che posseggono già reti televisive nazionali resta infatti solo fino al 31 marzo 2011 (nella precedente versione era fino a dicembre) con la possibilità di un’ulteriore slittamento attraverso un dpcm.
“Nella babele del maxiemendamento del governo al Milleproroghe alla fine il divieto di acquisto di giornali da parte di chi ha una posizione dominante nella Tv verrebbe prorogato solo fino al 31 marzo” afferma Paolo Gentiloni, responsabile Forum Comunicazioni del Partito Democratico che aggiunge: “E’ grave che un limite a tutela del pluralismo, previsto perfino dalla legge Gasparri, sia così destinato a scomparire tra cinque settimane”.
Preoccupazione condivisa anche da Futuro e Libertà. Il deputato di Fli Carmelo Briguglio afferma: “Dal testo più volte riformulato del decreto milleproroghe è sparita la proroga oltre il 31 marzo del divieto di incrociare la proprietà delle tv con la stampa quotidiana. Insomma se volesse dal 1° aprile Berlusconi potrebbe implementare il suo impero mediatico con l’acquisto di giornali. Tenuto conto che anche il testo precedente conteneva norme contro i concorrenti di Mediaset – afferma Briguglio – , adesso è necessario che il governo dia esaurienti spiegazioni sul perché il nuovo testo ha fatto cadere la proroga oltre la fine di marzo del divieto di possedere insieme tv e quotidiani”.
“E’ un blitz preoccupante, una modifica annunciata solo verbalmente e all’ultimo momento” è il commento del deputato dell’Udc Roberto Rao che afferma: “Non capiamo il motivo di questa drastica riduzione del termine” e chiede spiegazioni “perché col conflitto di interessi del premier qualsiasi sospetto è legittimo”.
Parla di “gioco truccato” il vice capogruppo dell’Italia dei Valori alla camera Antonio Borghesi: “Su questa storia della fine del divieto di acquisto di giornali da parte di chi ha già una posizione dominante nel mondo della tv, hanno evidentemente barato, fatto un gioco sporco, con un rinvio di tre mesi che certo non risolve il problema. Resta, infatti, il forte dubbio – spiega Borghesi- , per non dire la certezza, che tutto sia finalizzato alla salvaguardia degli interessi del premier, il quale, evidentemente non contento della stampa che possiede, vuol mettere mano anche su qualche giornale a larga tiratura come il Corriere della Sera. Tutto ciò è inaudito”.
E’ quello che pensa il senatore democratico Vincenzo Vita: “Potrebbe essere imminente il rischio che Mediaset acquisisca il Corriere della Sera, viste anche le turbolenze societarie di quest’ultimo”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=17060
—
Luciano, startupper: “Riparo un iPhone in 12 minuti” 24.02.2011
Con iFixiPhone, Luciano Avenale e Gianfranco Zinno hanno messo su un sistema di riparazione per prodotti Apple. In sei mesi un fatturato di quasi 100mila euro. Qual è il loro segreto?
di Silvio Gulizia
“ Rompere il vetro dell’iPhone capita al 14% dei possessori del gioiellino Apple entro il primo anno, per via dell’ampia e fragile copertura. In Italia stimiamo 120 rotture ogni giorno” , spiegano Luciano Avenale e Gianfranco Zinno, rispettivamente 26 e 32 anni, ex assistenti personali di Marco Trombetti, fondatore di Translated, con il quale hanno lanciato la startup ifixiPhone. In cinque giorni lavorativi riparano iPhone, iPod e iPad con la metà della spesa richiesta dai centri di assistenza Apple. Ritiro e consegna a casa. Alle spalle hanno meno di sei mesi di esperienza, un migliaio di riparazioni effettuate, per poco meno di 100mila euro di fatturato, e un progetto di espansione all’estero. Wired.it ha chiesto il segreto di questa startup a Luciano Avenale.
Raccontaci com’è nata la vostra idea.
“Il nostro primo cliente è stato Marco, il nostro capo. Aveva rotto il vetro e non voleva mandare l’iPhone in assistenza per ritrovarsi con un telefono diverso, rigenerato. Abbiamo comprato un vetro online e l’abbiamo sostituito. Poi gli è ricaduto e l’abbiamo riparato di nuovo. A quel punto la voce si è sparsa e abbiamo creato una sorta di servizio interno a Translated.”
Pensavo aveste trovato una tecnica di riparazione innovativa…
“All’inizio ci mettevamo un’ora, ora ci bastano 20 minuti. Io però ho un record personale di 12. Comunque no, la differenza credo l’abbia fatta lo stile comunicativo. Abbiamo lavorato un mese al nuovo sito.”
Possibile che non ci avesse ancora pensato nessuno?
“Vedevamo che nei blog c’erano molte lamentele circa tempi e costi dell’assistenza Apple. In meno di un mese, il passa parola era diventato così virale che eravamo già sommersi di richieste. Abbiamo fatto una bozza di sito: nelle prime due settimane abbiamo avuto ordini per un migliaio di euro. Poi in molti hanno iniziato a chiederci di cambiare cover, batterie, riparare i bottoni e via via ci siamo specializzati. E abbiamo iniziato a dedicarci in toto a questa attività. Da una ventina di giorni abbiamo lanciato il nuovo sito, con già un 30% di richieste in più sul mese precedente. Ci chiamano anche per sapere se per caso facciamo altre marche. Vediamo come va Android, non lo escludiamo. Due o tre competitor forti li abbiamo, ma ci siamo affermati grazie al nostro sito. Con due click sai quanto ti costa il tutto, riparazione, ritiro, consegna, iva inclusa, e avvii la procedura. Tutti pezzi originali. Se hai dubbi, c’è un numero verde.”
Quanto vi è costato iniziare?
“Circa 25mila euro, ma grazie a Translated, che oggi è il socio di maggioranza, siamo partiti.”
E ora?
“Abbiamo capito che possiamo scalare il mercato e siamo pronti a reinvestire quello che abbiamo guadagnato per espanderci all’estero.”
Mi dici qualcosa di pratico, qualcosa che vi ha portato al successo?
“È stato un insieme di cose: oltre il nuovo sito, il fatto di partire da un Google Doc per gestire gli ordini, alla creazione di un Backend ad hoc, template email, numero verde. Il mio passato di capo tecnico ha aiutato me e Gianfranco nell’innovazione nel campo delle riparazioni.”
Che esperienze avevate?
“Micro tecnologie, elettronica e telecomunicazioni. Che ovviamente ci hanno aiutato.”
http://italianvalley.wired.it/news/ifixiphone-riparazioni.html
—
Crisi, la Grecia in (s)vendita per ridurre deficit 24.02.2011
Il ministro delle finanze greco, Giorgio Papaconstantinou, ha fornito i nuovi dati sulla condizione economica del paese. Nel 2011 la recessione sarà del 3% e il deficit dell’8,2% (l’accordo con Ue-Fmi parlava di ridurlo al 7,4%). Nel 2010 il deficit rimarrà al 9,4%. Il ministro ha poi confermato l’obiettivo di incassare ben 50 miliardi di euro entro il 2015 attraverso privatizzazioni e vendita di beni dello stato. Insomma si prevede una vera e propria (s)vendita del patrimonio statale per accontentare le esigenze di Ue e Fmi.
—
Limite di 30 km/h nelle strade urbane: è proprio vero che s’inquina di meno? 24.02.2011
Simone Muscas
Soltanto ieri parlavamo dell’imminente nuovo regolamento che verrà introdotto a breve in Spagna e che obbligherà tutti gli automobilisti, in nome della sicurezza e dello smog, a non superare il limite di velocità di 30 km/h nelle strade urbane. Ebbene, alla luce delle considerazioni di alcuni lettori e avendo su Ecoblog recentemente discusso del fatto che qualche Comune italiano ha attuato lo stesso regolamento all’interno dei propri confini, ho ritenuto opportuno fare delle riflessioni. Mi sono messo quindi alla ricerca di qualche studio scientifico che potesse darmi maggiori certezze sul binomio “minore velocità – meno inquinamento”, purtroppo però con scarsi risultati.
Preso dalla curiosità decido quindi di fare una prova personale con la mia vettura per valutare la veridicità della cosa, servendomi di un navigatore satellitare con la funzione ecodrive. Anche qui però i risultati sono spesso contraddittori, dato che vi sono momenti in cui a 30km/h il consumo è a volte inferiore altre invece superiore rispetto a quando viaggio a velocità leggermente più alte. Insomma non sono in grado di darmi delle risposte certe. Tuttavia, nonostante il test fallimentare, continuo a nutrire ancora grossi dubbi circa il fatto che a velocità così basse effettivamente si consumi e si inquini di meno.
Quindi mi chiedo: se effettivamente le regole dell’ecodrive ci consigliano (al fine di limitare i consumi) di mantenere quanto più possibile la marcia più alta, è anche vero che non tutti i veicoli sono capaci di rispettare in questo modo una velocità così bassa come quella dei 30 km/h. Vi sono infatti auto che riescono ad andare a velocità ridotte con la marcia più alta, ma è anche vero che ve ne sono altre, spesso di maggiore cilindrata, che non hanno questa capacità. Inoltre bisogna spesso valutare in quale situazione ci si trova ovvero se si è in fase di decelerazione o di accelerazione. La velocità nei motori a scoppio infatti non è un fattore direttamente proporzionale al numero di giri e quindi al consumo.
Insomma da queste mie riflessioni sono arrivato alla conclusione che se è vero che il binomio “riduzione della velocità – minore inquinamento” è un fattore direttamente proporzionale per velocità medio-alte non lo stesso si può dire per quelle basse; in sostanza non ritengo sia sempre certo che a basse velocità si inquini meno.
Lungi da me pensare che queste mie riflessioni rappresentino verità assoluta, tuttavia il dubbio che qualche Amministrazione Comunale in nome dell’inquinamento abbassi il limite dei propri autovelox proprio non riesco a togliermelo dalla testa. Di certo, e su questo converrete con me, non sarebbe la prima volta che in nome dell’ambiente si trova un escamotage per rimpinguare il proprio portafogli. Ma voi, a riguardo, cosa ne pensate?
Foto | Flickr
http://www.ecoblog.it/post/12115/limite-di-30-kmh-nelle-strade-urbane-si-inquina-davvero-meno?
—
Il mondo è invaso dagli Ogm. E qualcuno festeggia pure… 24.02.2011
Peppe Croce
Dal sito Salmone.org leggo la notizia che il 10% della superfice agricola mondiale è coltivata ad Ogm. Il dato è quello dell’International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications e, come riporta il sito appena citato, è anche abbastanza dettagliato:
Immaginate tutte le coltivazioni che abbbiamo in Italia dal grano alla vite agli ortaggi: e’ l’estensione di quanto ogni anno aumenta la superfice coltivata ad OGM nel mondo. Il campo medio e’ di 9,6 ettari ossia piu’ piccolo del campo medio di una azienda italiana. Il 80% della soia e ben il 64% del cotone derivano da OGM: due blue jeans su tre sono OGM
Salmone.org è felicissimo di annunciare che grazie agli Ogm si sono risparmiati in 15 anni quasi 400 mila tonnellate di pesticidicon una conseguente riduzione, per il solo 2009, di emissioni di gas serra pari quanta CO2 emettono 8 milioni di vetture.
Si dira: Bellissimo! E invece non è poi questa gran bella notizia. Sempre Salmone:
Oramai non c’e’ piu’ soia OGM-free se non per attività marginali. Quasi il 30% del mais deriva da OGM ed i margini di miglioramento per questa commodity lasciano pensare che nei prossimi anni sempre piu’ mais che circola per il mondo deriverà da OGM. All’Italia manca circa il 30% del mais che consuma e quello biotech e’ un buon mais da commercializzare: i conti su cosa importeremo sono presto fatti
Cioè, in pratica, la soia come mamma natura l’ha fatta è sparita dalla faccia della terra e siamo pure contenti?
Via | Salrmone.org
Foto | Flickr
http://www.ecoblog.it/post/12116/il-mondo-e-invaso-dagli-ogm-e-qualcuno-festeggia-pure?
—
Torna la guerra fredda? La Pravda racconta dei milioni di dollari Usa che “armano chi vuole rovesciare Gheddafi” 24.02.2011
di Khatarina Garcia e Peter Blair
La cosa difficile, soprattutto in Libia, era creare le condizioni per mettere i manifestanti contro Gheddafi, considerato che gli stessi servizi d’intelligence avevano già informato Washington che il governo libico gode del sostegno popolare e che tutta la popolazione ricorda ancora bene i bombardamenti perpetrati dall’amministrazione Reagan, nel corso dei quali dozzine di cittadini libici vennero uccisi a sangue freddo dagli attacchi americani, compresa una figlia di Gheddafi.
Giovedì 17 febbraio, Ashur Shamis, un attivista dell’opposizione libica che vive a Londra e che è stato reclutato dall’intelligence britannica (Mi6) e americana (Cia), ha ricevuto informazioni dall’ambasciata statunitense nel Regno Unito e ha dovuto ammettere, con un certo imbarazzo, che i media hanno utilizzato immagini delle proteste in Bahrein e nello Yemen spacciandole per immagini di rivolte a Tripoli e Bengasi, le principali città della Libia, il che contribuisce a smascherare l’operazione di propaganda montata dai media e dagli organi di comunicazione che lavorano congiuntamente contro la Libia e l’Iran.
Il Congresso americano ha autorizzato la Casa Bianca a raddoppiare l’ammontare dei finanziamenti approvati nel 2011 per spese di propaganda, disinformazione e per campagne mediatiche contro quei capi di governo che ostacolano gli interessi Usa nel mondo; è il caso di personaggi come Muammar Gheddafi, Mahmoud Ahmedinejad, Hugo Chavez, Evo Morales, Rafael Correa, Raul Castro, Daniel Ortega, Cristina Kirchner, Fernando Lugo, Kim Jong II. Si è stabilito di acquistare spazi nei media dei paesi guidati da questi leader, sui giornali, sulla radio, nelle riviste e nei network televisivi. Questi personaggi avrebbero sempre dovuto essere definiti “dittatori” e gli operatori della propaganda avrebbero dovuto ricevere direttive dagli addetti stampa dei rispettivi paesi, oppure, nel caso in cui con essi non vi fossero buone relazioni diplomatiche, dagli agenti della Cia operanti all’interno del paese.
Il budget complessivo del progetto ammontava a un miliardo di dollari, ma nel caso del Brasile solo 120 milioni di dollari sono stati destinati a questo tipo di operazioni. La scorsa settimana si è tenuto un incontro tra rappresentanti della Cia. La Central Intelligence Agency, il Dipartimento di Stato e il Dipartimento della Difesa hanno convenuto sul fatto che, oltre a finanziare le operazioni contro Gheddafi e Ahmadinejad nei loro rispettivi paesi, si sarebbero dovuti destinare alcuni milioni di dollari ai loro oppositori, allo scopo di consentire l’organizzazione di manifestazioni e di dare avvio ad una campagna mediatica contro questi personaggi, cercando di coinvolgere anche i loro alleati dell’America Latina, i cui partiti d’opposizione avrebbero dovuto essere portati a sostenere le posizioni statunitensi.
L’utilizzo di immagini delle manifestazioni tenutesi in Bahrein, dove si trova ancorata la Quinta Flotta statunitense, e nello Yemen, altro alleato degli Stati Uniti, come se si trattasse di proteste avvenute a Tripoli e Bengasi, ha fatto parzialmente saltare i piani degli Stati Uniti contro la Libia. Ieri gli studenti libici di tutto il mondo hanno deciso di organizzare manifestazioni di sostegno a favore di Gheddafi e del governo libico. I servizi segreti degli Usa e di altri paesi hanno deciso di infiltrare agenti provocatori per disperdere queste manifestazioni. Per farlo, la Cia e gli addetti stampa delle ambasciate Usa hanno fatto diffondere notizie di contropropaganda, facendo riportare dai media di tutto il mondo che gli studenti erano stati costretti a manifestare in favore di Gheddafi per non perdere i contributi allo studio, dando così avvio ad un piano che viene coordinato dalla stessa Casa Bianca.
Foto e immagini diffuse dai mezzi di comunicazione alternativa e da un gruppo di studenti europei che dalla Libia si stavano recando al World SoCial Forum di Dakar, in Senegal, confermano la veridicità delle dichiarazioni rese dal governo libico e da Gheddafi, considerato una minaccia per il sistema nordamericano. Il potere dei movimenti studenteschi e della gioventù libica è virtualmente alla guida delle università del paese, dopo la Rivoluzione Culturale che Gheddafi stesso aveva guidato. […] Il controllo sulle notizie che riportano ciò che accade in Medio Oriente è così forte in Occidente che, sebbene in tutte le manifestazioni, dalla Tunisia all’Egitto, siano state bruciate bandiere americane, fotografie di Obama e anche di George Bush, tutte queste immagini sono state censurate dalle agenzie di stampa e dai network televisivi controllati dalla Casa Bianca.
—
Putin attacca le regole europee sul gas 25.02.2011
Adriana Cerretelli
BRUXELLES. Dal nostro inviato
Sono state vere scintille, ieri a Bruxelles al vertice tra Ue e Russia, sul terzo pacchetto europeo di liberalizzazione del l’energia, quello che prevede l’unbundling per tutti, cioè la separazione tra produzione da una parte, trasporto e distribuzione dall’altra. In breve, il divieto per Mosca di possedere gasdotti nell’Unione.
«Queste regole Ue equivalgono a una confisca di proprietà e per di più sono destinate a far aumentare i prezzi perché se i gasdotti saranno utilizzati anche da piccole società queste vorranno aumentare i prezzi per fare più profitti” ha dichiarato il premier russo Vladimir Putin.
José Barroso, il presidente della Commissione, non è stato a sentire ma è immediatamente intervenuto in difesa della nuova normativa europea. «Noi siamo favorevoli al divorzio tra produzione e distribuzione. Per farlo ci sono diverse opzioni, spetterà a ciascun paese della Ue scegliere quella che preferisce. Comunque si tratta di una legislazione che non è in nulla discriminatoria versi i paesi terzi: vale per la Russia come per la Norvegia, è compatibile con le regole della Wto e anche con i nostri accordi con Mosca». Comunque, ha aggiunto, ci sono clausole e strumenti per andare incontro alle preoccupazioni russe.
Uno scambio di battute acceso, che riflette le profonde divergenze che, nonostante i tentativi di appianarle, continuano a informare il dialogo Mosca-Bruxelles. Che ieri ha visto il fattore petrolio alla ribalta e uno dei rari momenti di sintonia tra i due interlocutori.
«No all’aumento brutale dei prezzi del greggio»: su questo punto Putin è stato netto nella conferenza stampa congiunta tenuta al termine del vertice. «L’economia è finalmente in ripresa ma gli eventi nordafricani hanno già portato il petrolio a 118 dollari a barile, un livello che minaccia la crescita economica nel mondo, con gli esperti che prevedono possa arrivare addirittura a 200 dollari» ha continuato il primo ministro russo. Spiegando che il suo Governo intende diversificare lo sviluppo del paese: «Per questo non siamo interessati ad avere alti prezzi energetici». Tanto più che Mosca, ha ricordato, non vende solo greggio e gas ma anche i derivati prodotti dall’industria chimica e petrolchimica (che dipendono per il 60% dall’export).
Libia e Nordafrica in rivolta rappresentano dunque per la Russia come per l’Unione non solo una preoccupazione politico-umanitaria ma anche la possibile anticamera dell’instabilità economica globale. Di qui il comune invito a fermare la violenza e la disponibilità a offrire tutta l’assistenza necessaria. Anche perché Putin non ha fatto mistero del timore di un contagio di instabilità e magari di estremismo islamico nel Caucaso del Nord.
La sintonia tra il premier russo e Barroso ieri si è fermata qui. Il primo non ha nemmeno mancato di punzecchiare l’Europa sulle sue esitazioni a costruire i gasdotti Nord Stream e South Stream destinati a portarle il metano russo: «Oggi diventano sempre più importanti e se fossero già in funzione l’Unione non sarebbe a rischio» di fronte alle incognite in Libia. Dove tra l’altro ha precisato che i programma di cooperazione tra Gazprom ed Eni nel paese sono per il momento congelati. «Siamo pronti a investire ma non è il buon momento».
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-02-25/putin-attacca-regole-europee-063905.shtml
—
Libia: una guerra del petrolio tra ENI e BP? 24.02.2011
Ci sono vari elementi che consiglierebbero di valutare con molta cautela le attuali “notizie” riguardanti la Libia. A differenza dell’Egitto, la Libia non ha masse di disperati urbani, in parte perché il regime ha adottato un sistema paternalistico/assistenziale che evita gravi forme di miseria, ed in parte perché mancano proprio le masse, dato che si sta parlando di un Paese spopolato, in cui anche la cifra ufficiale di quattro milioni di abitanti risulta da stime demografiche piuttosto gonfiate per ciò che concerne le zone desertiche. C’è anche da considerare che i milioni di manifestanti visti al Cairo si avvalevano della benevola neutralità dell’esercito, mentre le poche migliaia (?) di pacifici manifestanti libici, secondo i media si sarebbero trovati addirittura sotto bombardamenti aerei e di razzi: un particolare che risulta alquanto irrealistico, e non perché il regime non sarebbe capace di tanto, ma perché solo una rivolta armata – molto bene armata – potrebbe reggere a lungo ad un tale tipo di trattamento. Quindi, più che di una rivolta si tratterebbe di un golpe, e con tanto di agganci in settori del regime libico. “Dittatore” è una di quelle parole in grado di mandare completamente in vacanza il senso critico dell’opinione pubblica “occidentale”, ed ecco perché la narrazione mediatica di una rivolta popolare spontanea, che però si dimostra capace di occupare un’intera città come Bengasi, non ha suscitato sinora dubbi e perplessità.
Durante il natale del 1989 i media ci narrarono una “rivolta” rumena contro il dittatore Ceausescu con ventimila morti, ma poi si rivelò tutto falso, ovviamente a distanza di mesi, quando la notizia aveva perso centralità.
Un altro “dettaglio” di cui tenere conto riguarda il business del petrolio libico, un business di tale entità da aver comportato mezzo secolo di guerra senza esclusione di colpi tra l’ENI da un parte e le multinazionali anglo-americane dall’altra, in particolare la BP. Persino il colpo di Stato di Gheddafi contro il re Idris, considerato un fantoccio dell’Italia, fu sicuramente favorito dalle multinazionali anglo-americane, anche se in pochi anni l’ENI recuperò in Libia il terreno perduto. Che l’attuale “rivolta” libica possa costituire un ennesimo capitolo di questa guerra del petrolio non è un’ipotesi da scartare, poiché la notizia concreta di queste ore è proprio che l’ENI sta rischiando di perdere la sua principale fonte di petrolio: la Libia, appunto.
Come è stato già ricordato da alcuni in questi giorni, la Libia stessa è un’invenzione del colonialismo italiano. Nel 1911 l’allora Presidente del Consiglio, il liberale Giolitti, dichiarò guerra all’Impero Ottomano per strappargli due province nordafricane, la Tripolitania e la Cirenaica, che furono riunite a forza sotto il nome di “Libia”, un termine dalle suggestive reminiscenze imperiali romane. Il fomentare la tensione etnico-tribale tra le diverse popolazioni costituì anche uno degli strumenti di dominio del colonialismo italiano, la cui spietata brutalità è stata ampiamente documentata.
Non si può quindi escludere che la rivalità etnica sia ancora la leva con cui altre potenze coloniali oggi stiano cercando di destabilizzare il regime di Gheddafi, magari prospettando ai vari capi tribali la possibilità di cogestire il business del petrolio con le multinazionali anglo-americane. In tal caso l’afganizzazione della Libia costituirebbe un esito molto probabile, e del resto ogni aggressione coloniale, ed ogni resistenza ad essa, implicano inevitabilmente anche fenomeni di guerra civile. La cosiddetta “superpotenza” statunitense ha sempre mostrato limiti molto evidenti, ma il suo vero e duraturo punto di forza è dato dal costituire un punto di riferimento ed un alleato per i gruppi reazionari ed affaristici di tutto il mondo.
In questo periodo i media tendono anche a sopravvalutare l’effetto della destabilizzazione libica sui flussi migratori verso l’Italia. Le barche cariche di immigrati non costituiscono però il canale principale del traffico della migrazione clandestina, in quanto rappresentano soltanto un atroce diversivo per distogliere l’attenzione dalle vere porte d’ingresso di questo traffico, che sono le banchine dei porti sotto il controllo militare statunitense. Nel porto di Napoli, ad esempio, la U.S. Navy controlla ormai più della metà delle banchine, gestite nel più assoluto segreto militare; tutto ciò per gentile concessione del governo D’Alema nel 1999. Gheddafi ha accettato di enfatizzare il suo ruolo di poliziotto anti-immigrazione perché costituiva un modo per vantare pubblicamente benemerenze nei confronti dell’Italia e della Unione Europea, ma bisogna separare le esagerazioni della propaganda dalle effettive dimensioni di quel ruolo. Le basi militari americane, da sempre, non svolgono soltanto una funzione militare, ma soprattutto di controllo dei traffici illegali, a cominciare dal traffico di eroina dall’Afghanistan.
Un elemento fisso di disturbo della comunicazione di questi giorni è costituito dal luogo comune della “amicizia”, del rapporto personale condito di baciamano, fra Berlusconi e Gheddafi; perciò è divenuto uno scontato oggetto di polemica il lungo silenzio tenuto dal governo italiano circa la repressione che starebbe avvenendo in Libia. In realtà, per tutto ciò che riguarda l’energia, è l’ENI, e soltanto l’ENI, il detentore esclusivo e storico di ogni iniziativa della politica estera italiana. Anche i colossi UniCredit, Impregilo e Finmeccanica, per i loro affari in Libia, si sono agganciati alla cordata dell’ENI.
L’effettiva capacità di Berlusconi di sostenere il suo presunto asse preferenziale con Gheddafi si è potuta verificare a Bruxelles, quando il non-ministro degli Esteri Frattini si è accodato supinamente ad una posizione di condanna verso il regime libico, ispirata per di più da un Paese in palese situazione di conflitto di interessi come la Gran Bretagna, che nella vicenda ha sposato ovviamente le tesi della sua multinazionale del petrolio, cioè la ex British Petroleum, oggi Beyond Petroleum. Frattini e lo stesso Berlusconi si sono poi fatti ripetitori delle notizie di agenzia circa le repressioni che avverrebbero in Libia, nonostante che le testimonianze degli Italiani sfollati non le confermino affatto.
Dalle “rivelazioni” di Wikileaks è uscita l’immagine di un Berlusconi debole, nel ruolo passivo di yesman nei confronti degli Stati Uniti, pur di meritarsi pacche sulle spalle nei summit internazionali. Le mezze verità rischiano però di veicolare menzogne intere, e cioè l’idea che gli Stati Uniti si limitino ad approfittare della inconsistenza umana e politica di Berlusconi, mentre invece la chiave del colonialismo è proprio quella di creare nei Paesi colonizzati delle leadership deboli ed iper-corrotte.
Il problema non riguarda solo la ricattabilità di Berlusconi, ma i ricatti paralizzanti a cui vengono sottoposti i suoi avversari, sempre timidi ed esitanti nei momenti decisivi. Persino “Il Fatto Quotidiano” oggi fa finta di dimenticarsi di aver denunciato per tre anni che la vera stampella del governo Berlusconi è stato in effetti il Presidente della Repubblica, e lo stesso quotidiano risulta ora allineato all’opera di santificazione mediatica di Napolitano, omettendo la storia dei suoi ambigui rapporti con gli USA già dall’epoca in cui militava nel Partito Comunista Italiano.
In questi decenni l’ENI ha usato la sua potenza finanziaria per imporre i propri affari ai governi di turno lasciando loro la vetrina mediatica, una vetrina di cui Berlusconi ha abusato più di tutti perché costituiva l’unico modo per mascherare la sua pochezza. Ma la politica dell’ENI da tempo sta mostrando la corda, poiché risulta evidente che un governo fantoccio di servitù coloniale agli USA non soltanto non può difendere gli affari dell’ente in questi momenti di crisi acuta, ma addirittura costituisce un nemico in più.
http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=402
—
Nella cassaforte della Lia circa 80 miliardi, giallo sul destino dei consiglieri libici 25.02.2011
FRANCESCO MANACORDA
MILANO
Unicredit, l’Eni, la Juve e Finmeccanica, naturalmente. Ma anche l’Uganda Telecom, la Rwandtel del Ruanda, la metà della catena alberghiera Corinthia o una piccola quota nel colosso russo dell’alluminio Rusal; perfino una partecipazione nella Pearson, la casa editrice che pubblica anche il Financial Times. E ancora, la benzina Tamoil; immobili a Mayfair, nel cuore di Londra; discrete quote in ancor più discreti operatori di private equity, e soprattutto una montagna di liquidità: conti correnti a otto o nove zeri sparsi un po’ dappertutto, impieghi «a breve termine», certificati al portatore… Mentre Muammar Gheddafi è asserragliato a Tripoli, insomma, sull’impero finanziario del suo Paese, gestito dal fondo sovrano Lia – Libya Investment Authority – non tramonta mai il sole. Anche se altre stelle potrebbero calare presto nell’agitato firmamento della nomenklatura del paese africano.
Il governatore della Banca di Libia Farhat Omar Bengdara, che è anche membro del consiglio della Lia nonché vicepresidente di Unicredit – dove Tripoli con il 2,5% della Lia e il 5% della Banca centrale è di fatto il primo socio – ad esempio, non risponde alle telefonate che arrivano dalla banca da quasi una settimana. Caso inedito, per le società italiane, quello di un consigliere «missing in action». Ma più in generale, per tutti i vertici del fondo sovrano – ovviamente legati a filo doppio a Gheddafi – il futuro è incerto. Ma quanto denaro ha in tasca la Lia e che cosa controlla? La prima risposta è per forza approssimativa, visto che il fondo libico non è esattamente un modello di trasparenza. Una recentissima classifica del Sovereign Wealth Institute lo mette al trentacinquesimo posto su quarantacinque fondi sovrani – alle spalle di Zimbabwe e Kazakhstan – proprio per gli scarsissimi punteggi raggiunti su pubblicità del patrimonio, meccanismi decisionali e dettagli degli investimenti.
Istituita nel 2006, dopo la fine delle sanzioni legate alla strage di Lockerbie, e destinata a canalizzare i proventi del petrolio verso investimenti in tutto il mondo con l’obiettivo di diversificare il portafoglio libico, la Lia ha avuto una dotazione iniziale di 40 miliardi di dollari, ma ha anche raccolto una serie di società e fondi preesistenti. Dunque il patrimonio complessivo si può stimare tra i 60 e gli 80 miliardi di dollari. Sotto il suo ombrello una moltitudine di sigle. Dal Lap, il Libyan african investment portfolio, alla Lafico, la Libyan foreign investment company, che ad esempio possiede il 7,5% della Juventus. Proprio ieri l’agenzia Reuters ha dato notizia di un rapporto diplomatico Usa, rivelato da Wikileaks – si tratta di una relazione dell’ambasciatore americano a Tripoli dopo un incontro con il presidente della Lia Mohamed Layas – secondo cui il fondo libico avrebbe 32 miliardi di dollari in contanti, parcheggiati presso numerose banche americane in tranches che non superano mai i 500 milioni, mentre investimenti sarebbero stati fatti con operatori di grosso calibro come la Fm Capital Partners.
A Tripoli, spiega poi l’ambasciatore, sarebbero anche investitori più accorti di tanti grandi nomi americani: Layas gli avrebbe infatti riferito di non aver accettato le proposte di investimento di Bernie Madoff né di un altro meno celebre finanziere-truffatore come Allen Stanford. Il legame privilegiato – a suon di investimenti – con l’Italia è comunque evidente e ha seguito in tempo reale la strategia diplomatica inaugurata da Silvio Berlusconi nell’ultimo biennio, quando molti personaggi di spicco della nostra finanza si sono proposti come interlocutori privilegiati di Tripoli. Il momento più emblematico, forse, quel 12 febbraio 2009 in cui poteri italiani e libici si ritrovarono a Palazzo Grazioli per la visita del Rais. Nell’occasione Abdelhafid Zlitni, ministro della pianificazione di Tripoli, parlò con sicurezza di un fondo congiunto da 500 milioni tra Lia e Mediobanca, all’epoca presieduta da Cesare Geronzi, del quale non si è poi avuta alcuna notizia.
Ma anche consiglieri e soci di Unicredit e di piazzetta Cuccia, come Fabrizio Palenzona e Salvatore Ligresti, si adoperavano per l’arrivo dei nuovi capitali in Unicredit – allora guidata da Alessandro Profumo – e altrove; e negli stessi mesi Marco Tronchetti Provera, tra l’altro vicepresidente di Mediobanca, entrava nell’«advisory board» della Lia da cui è uscito solo due giorni fa. Quella sera, come spesso accade, era gran comunicatore di cose – anche – nordafricane, l’immancabile Tarak Ben Ammar: «Confermo quanto detto da Muammar Gheddafi. D’ora in poi la Libia darà la priorità all’Italia per il 90% dei suoi investimenti all’estero». Una figura, quella del produttore e finanziere franco-tunisino che deve essersi davvero conficcata nell’immaginario popolare nei suoi legami con Tripoli se ieri il quotidiano leghista «La Padania» ha dedicato, con tanto di sua foto, un ampio articolo intitolato «Non si hanno più notizie di Tarak Ben Ammar» alle vicende che in realtà riguardano la forzata assenza di Bengdara, il governatore della Banca di Libia.
http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/390562/
—
occupazione, outsourcing, Usa di Gerald Epstein
Lavoro e outsorcing. Il piano zoppo di Obama 25.02.2011
Politica della domanda interna e accordi di libero investimento: c’è qualcosa che non torna nei progetti statunitensi
Il piano di Obama per la creazione di nuovi posti di lavoro si è ormai ridotto a questo: uno stimolo basato su una politica di tagli alle tasse e l’impegno a raddoppiare le esportazioni in cinque anni. Il primo è stato approvato dal Congresso durante una sessione dell’anatra zoppa (lame duck session)1 mentre il secondo è semplicemente zoppo.
Prendendo a prestito una pagina del programma dell’amministrazione Clinton, l’amministrazione Obama è al momento intenta a promuovere l’attuazione di accordi di libero scambio e il ripristino della competitività americana come soluzione chiave a tutti i nostri problemi economici e occupazionali. Nonostante la dilagante retorica dichiari il bisogno di maggiori investimenti in America e la necessità di creare posti di lavoro all’interno dei confini nazionali, l’amministrazione Obama continua a spingere per i cosiddetti accordi di “libero scambio” che, nonostante alcuni miglioramenti sulla tutela del lavoro, sono in realtà accordi di “libero investimento”, accordi che aiutano ad aprire i paesi in via di sviluppo agli investimenti diretti esteri delle grandi imprese multinazionali americane e ai rischi finanziari e speculativi delle banche e degli istituti finanziari americani, gli stessi che ci hanno portato alla crisi.
Questa strategia, evidentemente, non tiene conto dei tagli ai posti di lavoro negli Usa che sono stati causati dall’outsourcing dei prodotti all’estero e che saranno verosimilmente replicati o peggiorati da accordi come quelli che l’amministrazione Obama vuole attuare. In un recente paper, James Burke, Seung-Yun Oh ed io abbiamo stimato la perdita di posti di lavoro avvenuta nel settore manifatturiero statunitense a causa dell’outsourcing all’estero nel periodo 1990-2005. Noi misuriamo l’outsourcing in termini di importazioni di prodotti intermedi come i macchinari, acciaio e altri prodotti che sono classificati nella produzione di beni manifatturieri.
Come prima cosa, ci sono alcuni fatti ben noti ma estremamente crudi. L’occupazione nel settore manifatturiero negli Stati Uniti è salita a 19,4 milioni di lavoratori nel 1979 per poi crollare a quasi 12 milioni di lavoratori nel 2009. Negli ultimi dieci anni si è registrato il crollo maggiore: tra il 1999 e il 2009 la forza lavoro del settore manifatturiero si è contratta del 31% con una perdita di almeno 5 milioni e mezzo di posti di lavoro. L’attuale crisi economica ha avuto un forte impatto sul settore manifatturiero – l’occupazione è diminuita di quasi tre volte il crollo dell’occupazione avuto nell’intera economia tra la fine del 2007 e il 2009.
I nostri risultati dimostrano che l’outsourcing ha avuto un ruolo significativo nell’occupazione del settore manifatturiero. Circa il 17% – cioè circa uno su sei posti di lavori persi – dei 3,5 milioni totali di posti di lavoro tagliati nel settore manifatturiero può essere fatto risalire ad un aumento dell’outsourcing.
Ad ogni modo, Obama ha ragione su un punto. La domanda estera per esportazioni statunitensi di prodotti manifatturieri può avere un impatto significativo sull’occupazione: la crescita della domanda estera di prodotto del settore manifatturiero tra il 1990 e il 2005 ha infatti contribuito tra il 3 e il 4,7% alla crescita totale dell’occupazione nel settore manifatturiero nello stesso periodo. Tuttavia, promuovere accordi di “libero investimento” che non fanno niente per espandere le esportazioni delle imprese locali o migliorare la capacità delle multinazionali di avviare ulteriori processi di outsourcing dei prodotti importati non fa altro che danneggiare l’occupazione nell’industria manifatturiera.
Il nostro studio conferma inoltre quello che gli economisti sanno, o almeno dovrebbero sapere, sin dai tempi di Keynes: un fattore chiave della crescita dell’occupazione è la crescita della domanda interna. Il nostro studio dimostra che la crescita della domanda interna è in grado di creare occupazione nel settore manifatturiero tanto quanto lo è la crescita delle esportazioni: essa ha infatti contribuito a circa il 4% dell’occupazione totale del settore manifatturiero durante il periodo 1990-2005.
Ancora, promuovere una crescita della domanda interna è molto più facile che promuovere una crescita delle esportazioni. A suo merito, il Presidente Obama ha cominciato a proporre investimenti in infrastrutture – notoriamente generatori di domanda e offerta interna – specialmente in tecnologia verde, come strumento per la creazione di posti di lavoro a livello nazionale.
Il bilancio di Obama, appena reso pubblico, prevede: la ricostruzione delle infrastrutture nazionali con un sostanziale utilizzo dei fondi federali per lo sviluppo di ferrovie ad alta velocità e connessioni wireless per l’intero paese; la creazione di una Banca Nazionale per le Infrastrutture; un aumento di 28,6 miliardi (il 68%) nella progettazione e costruzione di autostrade; lo sviluppo di tecnologie basate sull’energia pulita con l’obiettivo di avere, per il 2015, un milione di auto elettriche sulle strade.
Una tale quantità di investimenti pubblici – accanto ad una spesa continuativa che impedisca agli Stati e alle amministrazioni locali di tagliare le pensioni e le spese pubbliche essenziali – sembra essere un meccanismo più certo di creazione di occupazione che i “patti di libero investimento” che porteranno solo a un maggior outsourcing o a un incerto tentativo di convincere i cinesi a rivalutare la loro moneta con dubbi risultati per la crescita dell’occupazione negli Stati Uniti.
Robert Pollin, tra gli altri, ha dimostrato con ottimi argomenti il potenziale degli investimenti “verdi” e in istruzione per la creazione di nuovi posti di lavoro. James Heintz, del Political Economy Research Institute (Peri), ha calcolato i notevoli benefici alla produttività e all’occupazione degli investimenti in infrastrutture. Per esempio, Heintz stima che un programma di investimenti in infrastrutture possa creare circa 18.000 posti di lavoro per ogni miliardo di dollari speso in nuovi investimenti. Al contrario, un taglio delle tasse, come quello approvato durante l‘ultima sessione dell’anatra zoppa, genererà solamente 14.000 posti di lavoro e alla fine lascerà probabilmente il paese con minor capitale produttivo per migliorare la produttività e lo sviluppo rispetto a quello che si sarebbe potuto creare investendo in infrastrutture. Per esempio, un programma di investimento di 87 miliardi di dollari per anno genererebbe 1,6 milioni di nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti.
Gli “accordi di libero investimento” non potrebbero nemmeno avvicinarsi a un risultato del genere. E il sogno di raddoppiare le esportazioni in cinque anni potrebbe anche non essere un blaterare a vuoto, ma come intervento per creare posti di lavoro, non sta in piedi.
(traduzione di Ludovica Tartaglione. La versione originale è qui)
1 Per lame duck session si intende una seduta del Congresso appena successiva le elezioni nel momento in cui non è stato ancora insediato il nuovo Congresso e a votare sono, quindi, i vecchi membri non più in carica.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Lavoro-e-outsorcing.-Il-piano-zoppo-di-Obama-7856
—
Tommaso Di Francesco
Libia. Verso un’altra guerra «umanitaria» 25.02.2011
Siamo ai prodromi di un’altra guerra umanitaria. Che andrebbe ad aggiungersi a quella già sul campo. Stavolta in Libia. La Nato dichiara che «non è all’ordine del giorno, per ora», l’Unione europea che «nemmeno ci pensa», il ministro della difesa italiano La Russa che «non è nei nostri pensieri, però…». Ma ci stanno pensando, ci ragionano, e soprattutto si attivano forze e strumenti istituzionali di copertura. Sanzioni, no fly zone.
Diciamo questo perché, ben aldilà del disfacimento evidente del regime di Gheddafi, delle sue drammatiche responsabilità e del suo delirio, emerge la disinformazione. Si rende cioè evidente un significativo livello di menzogne da parte dei media ancora una volta embedded: fosse comuni che appaiono, quando in realtà sono fosse individuali; un salto improbabile in 12 ore dalle mille alle diecimila vittime, secondo l’americanissima televisione Al Arabya; flash di foto di corpi senza vita; l’invenzione di un inesistente membro libico della Corte penale internazionale rigorosamente antiregime che moltiplica per 50mila il numero delle vittime e dei feriti.
Quasi un déjà vu balcanico: per il Kosovo, quando ci fu poi la verifica sul campo dei medici legali del Tribunale dell’Aja risultò falso il numero delle vittime e inventata la strage di Racak. Ma fu ben utile, nell’immediato, per 78 giorni di bombardamenti aerei della Nato che provocarono 3.500 vittime civili. Volute, non «effetti collaterali», denunciò un’inchiesta di Amnesty International. Dimenticate, anzi cancellate da ogni memoria. Giacché la guerra doveva essere «umanitaria». E a quell’enfasi di menzogne partecipò un’intera schiera di media.
Ci stanno pensando alla «missione». Gridando al cielo che «no, è infame bombardare i civili», si sdegnano le cancellerie occidentali. Dimenticando il massacro dei civili e degli insorti se sono iracheni o afghani. Già l’amministrazione Usa parla di una delega all’Italia e alla Francia, paesi ex coloniali che dovrebbero guidare l’eventuale «missione». Del resto lo strumento militare operativo di Africom della Nato è già pronto, come da mandato, per l’intervento proprio in quell’area. E tutti sono avvertiti della presenza sul campo non di Al Qaeda che soffia sul fuoco, ma di un integralismo islamico reale e storico in Cirenaica.
Eppure non sanno ancora come motivarlo l’intervento. Se avessero a cuore davvero la vicenda umanitaria, non avrebbero dovuto sottoscrivere accordi di compravendita di armi con il Colonnello. E se l’Italia è davvero attenta all’umanità non avrebbe dovuto ratificare in modo bipartisan un Trattato che, pur riconoscendo finalmente le nostre malefatte coloniali, ha chiesto a Gheddafi di istituire campi di concentramento per fermare la fuga dei migranti disperati dalla grande miseria dell’Africa dell’interno e del Maghreb.
Non lo dicono, né lo diranno mai. Ma come per l’enfasi e la falsificazione sul numero delle vittime, c’è l’esagerazione interessata sui «milioni di profughi» dalla Libia e dalla Tunisia, «250mila» ha detto il gommoso Frattini, senza alcuna vergogna.
Non lo dicono, ma sono terrorizzati davvero per il pericolo che corrono gli approvvigionamenti di petrolio e metano. Per i nostri consumi, il nostro intoccabile modello di vita.
Per questo alla fine interverranno. Non per un ruolo umanitario da subito degli organismi delle Nazioni unite, non per un corridoio umanitario che porti soccorso a chiunque, insisto chiunque, soffra – giacché la crisi libica si rappresenta più come guerra civile che come rivolta secondo il modello di Tunisi e del Cairo. Interverranno perché, qualsiasi sia il potere che arriverà dopo Gheddafi, svolga per noi la stessa funzione del Colonnello: elargire petrolio per i consumi dell’Occidente e impedire l’arrivo dei disperati relegandoli in un nuovo sistema concentrazionario.
http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/02/articolo/4217/
—
di Manlio Dinucci
LA LIBIA NEL GRANDE GIOCO
Al via la nuova spartizione del Continente Africa 25.02.2011
A fuggire dalla Libia non sono solo famiglie che temono per la loro vita e poveri immigrati da altri paesi nordafricani. Vi sono decine di migliaia di altri «profughi» che vengono rimpatriati dai loro governi con navi e aerei: sono soprattutto tecnici ed executive delle grandi compagnie petrolifere. Non solo l’Eni, che realizza in Libia circa il 15% del suo fatturato, ma anche altre multinazionali soprattutto europee: Bp, Royal Dutch Shell, Total, Basf, Statoil, Rapsol. Sono costretti a lasciare la Libia anche centinaia di russi della Gazprom e oltre 30mila cinesi di compagnie petrolifere e di costruzioni. Una immagine emblematica di come l’economia libica sia interconnessa all’economia globalizzata, dominata dalle multinazionali.
Grazie alle ricche riserve di petrolio e gas naturale, la Libia ha una bilancia commerciale in attivo di 27 miliardi di dollari annui e un reddito procapite medio-alto di 12mila dollari, sei volte maggiore di quello egiziano. Nonostante le forti disparità, il livello medio di vita della popolazione libica (appena 6,5 milioni di abitanti in confronto ai quasi 85 dell’Egitto) è quindi più alto di quello dell’Egitto e degli altri paesi nordafricani. Lo testimonia il fatto che lavorano in Libia circa un milione e mezzo di immigrati per lo più nordafricani. L’85% delle esportazioni energetiche libiche è destinato all’Europa: al primo posto l’Italia che ne assorbe il 37%, seguita da Germania, Francia e Cina. L’Italia è al primo posto anche nelle importazioni libiche, seguita da Cina, Turchia e Germania.
Tale quadro ora salta in aria per effetto di quella che si caratterizza non come una rivolta di masse impoverite, tipo le ribellioni in Egitto e Tunisia, ma come una vera e propria guerra civile, dovuta a una spaccatura nel gruppo dirigente.
Chi ha fatto la prima mossa ha sfruttato il malcontento contro il clan di Gheddafi, diffuso soprattutto fra le popolazioni della Cirenaica e i giovani nelle città, nel momento in cui l’intero Nord Africa è percorso da moti di ribellione. A differenza che in Egitto e Tunisia, però, l’insurrezione libica appare preordinata e organizzata.
Emblematiche sono le reazioni in campo internazionale. Pechino si è detta estremamente preoccupata degli sviluppi in Libia e ha auspicato «un rapido ritorno alla stabilità e normalità». Il perché è chiaro: il commercio cino-libico è in forte crescita (circa il 30% solo nel 2010), ma ora la Cina vede messo in gioco l’intero assetto dei rapporti economici con la Libia da cui importa crescenti quantità di petrolio. Analoga la posizione di Mosca.
Di segno diametralmente opposto, invece, quella di Washington: il presidente Obama, che di fronte alla crisi egiziana aveva minimizzato la repressione scatenata da Mubarak e premuto per una «ordinata e pacifica transizione», condanna senza mezzi termini il governo libico e annuncia di aver approntato «la gamma completa di opzioni che abbiamo per rispondere a questa crisi», comprese «le azioni che possiamo intraprendere e quelle che coordineremo con i nostri alleati attraverso istituzioni multilaterali». Il messaggio è chiaro: vi è la possibilità di un intervento militare Usa/Nato in Libia, formalmente per fermare il bagno di sangue. Altrettanto chiare sono le ragioni reali: rovesciato Gheddafi, gli Stati uniti potrebbero rovesciare l’intero quadro dei rapporti economici della Libia, aprendo la strada alle loro multinazionali, finora quasi del tutto escluse dallo sfruttamento delle riserve energetiche libiche. Gli Stati uniti potrebbero così controllare il rubinetto energetico, da cui dipende in gran parte l’Europa e si approvvigiona anche la Cina.
Ciò avviene nel grande gioco della spartizione delle risorse africane, che vede un crescente braccio di ferro soprattutto tra Cina e Stati uniti. La potenza asiatica in ascesa – presente in Africa con circa 5 milioni di manager, tecnici e operai – costruisce industrie e infrastrutture, in cambio di petrolio e altre materie prime. Gli Stati uniti, che non possono competere su questo piano, fanno leva sulle forze armate dei principali paesi africani, che addestrano attraverso il Comando Africa (AfriCom), principale loro strumento di penetrazione nel continente.
Entra ora in gioco anche la Nato, che sta per concludere un trattato di partnership militare con l’Unione africana, di cui fanno parte 53 paesi. Il quartier generale della partnership Nato-Unione africana è già in costruzione a Addis Abeba: una modernissima struttura, finanziata con 27 milioni di euro dalla Germania, battezzata «Edificio della pace e sicurezza».
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20110225/pagina/05/pezzo/298007/
—
Un fungo contro la malaria 25.02.2011
di Anna Lisa Bonfranceschi
La lotta contro la malaria passa anche attraverso i funghi. In particolare attraverso il Metarhizium anisopliae, un parassita che infetta le zanzare anophele, proliferando nell’emolinfa dell’insetto. Un gruppo di ricercatori guidati da Weiguo Fang, dell’Università del Maryland, ha pensato di sfruttare questa azione del fungo e ne ha modificato il patrimonio genetico, trasformandolo in una potente arma. Così modificato, infatti, M. anisopliae è riuscito a mettere fuori combattimento il plasmodio della malaria all’interno della zanzara infettata, arrestandone il ciclo vitale. Lo studio è stato pubblicato su Science.
L’obiettivo dei ricercatori era quello di sfruttare un vettore per trasportare all’interno delle zanzare malariche (Anopheles gambiae) delle sostanze in grado di fermare selettivamente lo sviluppo del microrganismo responsabile della malattia, il Plasmodium falciparum. Il fungo M. anisopliae, con la sua capacità di penetrare nell’insetto, sembrava adatto allo scopo. Gli studiosi hanno quindi creato dei ceppi fungini contenti un gene che codifica per una piccola proteina, per un anticorpo o per una tossina (o anche per combinazioni dei tre): tutte molecole pensate per mettere fuori combattimento il plasmodio. Successivamente, gli scienziati hanno infettato le anophele con un plasmodio della malaria e poi lo hanno messo a contatto con vari ceppi fungini ingegnerizzati, per valutarne l’efficacia.
Tutte e tre le modifiche apportate al genoma del fungo hanno sensibilmente abbassato il numero di plasmodi che si formano nelle ghiandole salivari della zanzara, con percentuali del 71, 85 e 90 per cento, rispettivamente per il peptide, per l’anticorpo e per la tossina. I ricercatori hanno però osservato che il fungo GM più efficace per contrastare la diffusione di P.falciparum è quello che esprime in combinazione sia il peptide sia la tossina: ha ridotto del 98 per cento le forme infettanti.
Riferimenti: Science 2011, vol 331, 1074-1077
http://www.galileonet.it/articles/4d67580e72b7ab0ee3000180
—
Con il 2% del Pil mondiale il clima è salvo 26.02.2011
La bella notizia è che si può fare. La brutta è che non hanno intenzione di farlo. Secondo l’Unep, il programma Onu per l’ambiente, basterebbe investire il 2% del Pil mondiale per trasformare l’economia e renderla ecocompatibile salvando il clima. Si tratta, in soldi, di 1.300 miliardi di dollari l’anno. Che sembrano molti, ma non lo sono perché avrebbero un effetto positivo sull’economia mondiale.
Considerato che, sempre secondo i calcoli Unep (rapporto “Towards a Green Economy: Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication“), oggi il mondo spende l’1% in sussidi a settori industriali ed energetici con un alto impatto sul riscaldamento globale (ad esempio i sussidi ai combustibili fossili) già si vede come metà della spesa verrebbe parificata. Il grosso, cioè l’1,25% del Pil mondiale, andrebbe speso in risparmio energetico e fonti rinnovabili.
L’obiettivo tecnico è quello di ridurre i consumi di energia del 9% nel 2020 (del 40% nel 2050). Altri settori importanti sono, oltre all’energia, quello agricolo e quello della pesca.
Via | Clima e finanza, Unep
Foto | Flickr
http://www.ecoblog.it/post/12131/con-il-2-del-pil-mondiale-il-clima-e-salvo
—
Gheddafi, la primavera dei popoli mediorientale e il punto di vista latinoamericano 26.02.2011
L’America latina è lontana dal Medio oriente e non provatevi a capire cosa accade in Libia e in Medio oriente leggendo la stampa latinoamericana. Vi disorientereste e in qualche caso restereste molto delusi nel trovare notizie improbabili su manifestazioni in favore di Gheddafi, sull’ordine che regna a Tripoli o al massimo un passacarte di agenzie terziste a denti stretti. Se è corretto denunciare un possibile intervento straniero, i pericoli di frammentazione del paese, o perfino la disinformazione all’opera, il silenzio delle organizzazioni multilaterali, a partire da Unasur e Mercosur, è oramai assordante. Non meglio va con i governi, con l’eccezione del Perù e dell’Uruguay. Dal Brasile all’Argentina, da Cuba al Nicaragua al Venezuela, relazioni e alleanze storiche, preoccupazioni geopolitiche, timori e sottovalutazioni, fanno sì che l’America latina dei movimenti sociali, l’America latina altermondista e terzomondista delle relazioni Sud-Sud, sembri non comprendere e voltare le spalle alla primavera dei popoli mediorientale e non faccia una bella figura (né i suoi interessi né il suo dovere).
La distanza si fa incolmabile nell’interpretazioni dei fatti libici, tutta geopolitica e ideologica. In Libia sarebbe guerra civile e non sollevazione popolare, in una forma interpretativa dove le aspirazioni dei popoli, le motivazioni dei giovani in piazza, i rapporti di forza con la repressione, non trovano spazio. In particolare media come Telesur, ma non va molto meglio con la Jornada o con Página12, ovvero la crema dell’informazione progressista latinoamericana, leggono i fatti esclusivamente in un’insufficiente ottica geoenergetica. Media che, mentre il mainstream spargeva letame disinformativo a piene mani, hanno illuminato il mondo sulla rivolta zapatista del 1994, o la caduta del regime neoliberale in Argentina nel 2001 o il golpe in Honduras nel 2009, oggi si rifugiano nella comodità di un’interpretazione del tutto riduttiva: “gli amerikani vogliono il petrolio libico”.
Chi da cent’anni cerca di crearsi il proprio spazio nel mondo lottando contro le ripetute aggressioni statunitensi (militari, economiche, mediatiche), chi da questo deve difendere le proprie ricchezze e in particolare il proprio petrolio con le unghie e con i denti, chi vede sistematicamente finanziare dall’estero opposizioni eversive, non riesce a leggere (o non vuol leggere, anche per motivi di propaganda) gli eventi libici che in una sola ottica: Gheddafi difende il petrolio libico dall’attacco imperialista. Bastano poche frasi anticolonialiste del battutaro libico, massacratore di migranti in ossequio alle sacre direttive dell’Unione Europea e compagno di bunga bunga di Silvio Berlusconi, per infervorare a suo favore molti tra quelli che in America latina hanno una storia cristallina di lotta per l’autodeterminazione dei popoli e contro le ingerenze straniere. In particolare l’interpretazione del governo venezuelano si fa tutta realpolitika nella preoccupazione di perdere un alleato importante nello scacchiere chiave dell’OPEC, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio che era moribonda e supina agli interessi occidentali quando Hugo Chávez andò al governo in Venezuela e che è stata fondamentale, soprattutto per merito venezuelano, nel diventare fattore di multipolarismo nel mondo attuale.
Le preoccupazioni di intervento della NATO sono legittime ma forse esagerate e soprattutto occultano che un massacro è già in atto. In questo l’editoriale di Fidel Castro ampiamente ripubblicato e commentato in tutto il mondo è impeccabile nella prudenza e anche nel condannare la repressione. Ma l’interpretazione di Fidel è tutta per la tesi “guerra civile” scartando la possibilità di una sollevazione popolare in corso e del risveglio della società civile libica simultaneo, sull’onda della Rete, a quello di altri popoli della regione.
Quanto stiamo vedendo in Libia sarebbe l’inizio di una “rivoluzione colorata” eterodiretta dall’Occidente o è un’altra sollevazione popolare contro autocrazie amiche dell’Occidente? Tra la speranza e la preoccupazione Fidel sceglie la chiave interpretativa della paura. Ha ragione anche Hugo Chávez a censurare la doppia morale della comunità internazionale nel condannare Gheddafi e restare zitta sui bombardamenti chimici statunitensi su Falluja, sull’assedio israeliano di Gaza e sui sistematici massacri di civili in Iraq e Afghanistan. Ha ragione Chávez e il suo cancelliere Nicolás Maduro a puntualizzare il pericolo di un intervento occidentale e della divisione del paese che in questo momento più d’uno tra quanti guardano con orrore agli eventi libici considerano auspicabile. Ma anche Chávez sceglie la chiave della “guerra civile”, nella quale si schiera purtroppo con Gheddafi, contro un’opposizione popolare che considera eterodiretta e che implicitamente assimila all’opposizione, quella sì eversiva, che fronteggia a casa sua.
Vero è anche che alcune delle notizie di stampa appaiono schematicamente esagerate (i mercenari africani pagati 12.000 € a omicidio, i 10.000 morti, gli stupri casa per casa, perfino i video sulle fosse comuni) inducendo una volta di più alla prudenza sulla disinformazione come sempre sparsa a piene mani dal mainstream. Ma non è possibile fare come se Gheddafi non stia massacrando il proprio popolo e come se il precedente di bombardamenti su manifestazioni popolari non sia proprio quello dei gorilla argentini contro il popolo peronista nel 1955 per imporre la prima dittatura antipopolare e fondomonetarista.
Molte delle preoccupazioni sono legittime ma è vero anche che i leader e l’informazione latinoamericana appaiono sottovalutare aspetti fondamentali di quanto accade in Libia e più in generale in Medio oriente. No, in Medio Oriente non stiamo vivendo una nuova rivoluzione colorata eterodiretta da Washington e benedetta dal Fondo Monetario Internazionale. In Medio oriente siamo all’inizio, appena all’inizio, di una “primavera dei popoli” simile a quella che l’Europa ha vissuto nel lontano 1848 quando nel giro di pochi mesi, e senza alcuna agenda predefinita, si liberò dei governi della Restaurazione imposti alla sconfitta di Napoleone I. Per quanto complicato possa sembrare è dovere dell’America latina integrazionista essere conseguente con la propria stessa genesi e appoggiare senza paura i popoli mediorientali che si stanno liberando di regimi autocratici spalleggiati spesso per decenni dall’Occidente. E’ dovere dell’America latina svelare una volta di più la menzogna dell’ “esportazione della democrazia” ed appoggiare i fuochi di ribellione che nascono nel sud del mondo.
In queste ore i governi occidentali, in particolare il più screditato di tutti, quello italiano, stanno millantando il pericolo dell’avvento di governi basati sul fondamentalismo islamico per imporre una nuova generazione di autocrati che facciano che tutto cambi perché nulla cambi. Ma non ci sono molti barbuti né burka in piazza a Bengasi come ieri al Cairo e l’altro ieri a Tunisi. E se ci sono l’obbiettivo dev’essere appoggiare quei ragazzi sbarbati e quelle ragazze dal volto scoperto perché siano in grado di esprimere una classe dirigente alternativa. Se nessuno crede nei popoli del Medio oriente l’America latina deve credere nei popoli del Medio oriente. Non c’è altra via, per l’America latina, che riconoscere nei ragazzi egiziani, tunisini, libici, domani ojalá sauditi, le stesse aspirazioni e le stesse speranze che hanno strutturato negli anni ‘90 i movimenti sociali latinoamericani che hanno saputo farsi governo. Fino a ieri le relazioni Sud-Sud erano affare (importante) dei governi. Adesso la sfida diventa far diventare popolari tali relazioni Sud-Sud.
Per arrivare a ciò è indispensabile riconoscere in Gheddafi il nemico politico e non solo il (prescindibile) alleato geopolitico. Non possiamo più condannare i crimini commessi contro i migranti dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e da governi come quello di Felipe Calderón in Messico se non riconosciamo in Muammar Gheddafi il massacratore di migranti per conto di Silvio Berlusconi e di altri governi europei. Forse sono false le fosse comuni mostrate dai media, ma non sono false le fosse comuni in Libia dove in questi anni sono finite le speranze di migliaia di migranti africani. Quando nel 2008 l’America latina tutta, Fidel, Chávez, Lula, Evo, esplose contro la vergogna delle direttive europee contro i migranti, era a Gheddafi che l’UE appaltava una parte di tali crimini ed è con Gheddafi che fanno affari il lugubre Cameron, il triste Sarkozy e l’impresentabile Berlusconi. Gli europei erano i mandanti, ma Gheddafi era il sicario di quei migranti.
D’altra parte è innegabile che anche se in Libia non è in corso un “genocidio”, Gheddafi stia reprimendo il proprio popolo con una ferocia intollerabile, impresentabile, imperdonabile. Forse i morti non sono 10.000 come racconta il sistema disinformativo mainstream, ma sono comunque centinaia. Ed è un’onta difficilmente emendabile che per Telesur Al Jazeera sia un partner strategico quando racconta i crimini statunitensi o israeliani ma vada oscurata quando narra del popolo libico che si ribella. Vorremmo vedere anche su Telesur le immagini dei ragazzi di Bengasi che portano in piazza le immagini di Omar al Mukhtar, l’eroe della lotta contro il colonialismo italiano. E’ con loro che deve stare l’America latina!
—
Gheddafi e le balle sulla crisi economica (che è finta) 27.02.2011
Si è vero l’economia è in crisi.
Ma non è una vera crisi…
E’ solo un’illusione ottica capace di sterminare un sesto dell’umanità.
C’è crisi quando il sistema non funziona…
Ma cosa non funziona oggi?
Il mondo è diventato povero?
No, il mondo è ricchissimo!
Tanto ricco che nonostante la crisi continuiamo a buttare via più della metà del cibo che produciamo…
E c’è gente che possiede ricchezze leggendarie…
Si dice che Gheddafi abbia accumulato 32 miliardi di dollari. Ma questo è niente. Tenendo chiusa la Libia in una scatola di corruzione e malgoverno ha soffocato lo sviluppo di economia, scienza e cultura. Questi cazzoni per rubare un miliardo impediscono attività che ne valgono 100.
In Italia da decenni sono tutti d’accordo che c’è troppa burocrazia. Quanto costa al Sistema Italia la differenza con la Germania o con la Francia, dove in un mese crei un’impresa o hai le autorizzazioni per costruire una casa? (Stati che hanno regole semplici e chiare che poi vengono fatte rispettare….).
E quanto costa, in miliardi, la giustizia italiana che impiega 9 anni per una causa civile?
Ci si rende conto che perdiamo miliardi solo perché gli investitori stranieri non si fidano a fare affari da noi proprio perché qui la giustizia non funziona?
Non c’è crisi! C’è un sistema di rapina, di spreco di risorse e di distruzione di opportunità che è diventato troppo caro.
Un sistema idiota.
Siccome ho paura della Russia comunista, finanzio un bel gruppo di assassini, torturatori, ladri, maniaci… Lo Scià di Persia, Saddam, Bin Laden, Mubarak, i dittatorelli del Pakistan, del Cile, dell’Argentina…
Una logica che rende bene sul brevissimo periodo (se non ti fa schifo sostenere un serial killer…).
Il fatto che l’economia mondiale sia in grado di sopravvivere nonostante il potere sia in mano perlopiù a briganti senza scrupoli e senza lungimiranza, ci dà la misura di una ricchezza e di una prosperità stupefacenti.
Come ho detto buttiamo via la metà del cibo che produciamo. Per questo alla fin fine la gente in Europa non si sveglia. In fondo stiamo bene così.
Difficile morire di fame in un Paese come l’Italia dove i prodotti che vengono distrutti perché stanno per scadere sarebbero sufficienti per nutrire 40 milioni di persone, tutti i giorni, tutto l’anno. E lo stesso livello di spreco irrazionale lo osserviamo in tutti i settori: l’energia, i carburanti, i vestiti…
Io credo che, comunque, le persone non si sveglieranno se continuiamo a ripetere tutto l’elenco delle cose che non vanno.
Se ne renderanno conto solo se riusciremo a mostrare quanto la vita potrebbe essere ricca, opulenta addirittura, piena di feste, relazioni umane e arte.
In un paese che butta via il cibo sufficiente per nutrire 40 milioni di persone potremmo lavorare tutti la metà… E vivere comunque nel lusso.
Ma un conto è dirlo, un conto è farlo.
Ho pensato molto a cosa potrei fare per sostenere i rivoltosi libici… E alla fine ho pensato che è doloroso che io, in concreto, non possa fare nulla per arginare questo massacro.
Dura verità, non ho strumenti di pressione su di un dittatore pazzo chiuso in un bunker.
Quel che possiamo fare è solo continuare a combattere la madre di tutte le battaglie: dimostrare che è possibile vivere alla grande, sperimentare livelli di ricchezza vera, di vera qualità della vita, costruendo pezzi di società “razionale”.
Ritmi diversi, relazioni diverse, consumi diversi.
Mi dà fastidio la parola decrescita, perché fa pensare alla rinuncia a qualche cosa.
Non abbiamo bisogno di rinunciare a nulla, vogliamo solo toglierci dalle palle quel che ci sembra insopportabile.
Rinunciare a viaggiare un’ora per andare a lavorare, ad asfissiarsi negli ingorghi durante le vacanze, mangiare cibi vecchi, che hanno percorso migliaia di chilometri, andare ad assordarsi in discoteche costose dove offrono pessime bevande, lavorare come muli e non avere tempo per volersi bene. Rinunciare a questa cacca non vuol dire decrescere, vuol dire liberarsi da stupide forme di autopunizione.
Sto intervenendo via Skype a parecchi dibattiti in giro per l’Italia e mi stupisco della quantità di oratori che ascolto che si divertono a dire che tutto va male e dobbiamo rinunciare ai nostri standard di vita.
Pensano che spaventando le persone le convinceranno a darsi una mossa.
Io personalmente credo che per essere più ecologici dobbiamo solo divertirci di più e godere di più del buon cibo, del buon vino e della compagnia di persone interessanti e smettere di buttare soldi dalla finestra comprando individualmente (vedi gruppi di acquisto).
E smettere anche di sprecare i nostri talenti facendoci spremere da aziende che non hanno anima e perseguono strategie contrarie all’etica e alla lungimiranza.
Tutto il tempo che ci prende questo scontro con Berlusconi (che anche lui ormai ha le ore contate)
ci impedisce di focalizzarci sul fatto che esiste una destra, esiste una sinistra triste e depressa e poi c’è una crescente massa di persone che vogliono finalmente mettere al servizio dell’umanità la ricchezza e le innovazioni scientifiche straordinarie che sono a nostra disposizione.
Noi siamo quelli che si sono rotti i santissimi delle chiacchiere negative e vogliamo vivere in modo diverso da adesso… Anzi lo stiamo già facendo e vogliamo continuare a migliorare la situazione costruendo dei pezzi di SISTEMA DIVERSO che ci mancano. C’è una distanza da colmare, Abbiamo bisogno di nuovi strumenti collettivi.
Già oggi chi ha scelto di lavorare, abitare, spendere e costruire relazioni con gli altri in modo diverso sperimenta una qualità della vita molto migliore di quella di chi accetta i sistemi di gestione del bestiame umano che vanno per la maggiore.
Già il solo decidere di andare controcorrente e rompere con i comportamenti massificati è una grande soddisfazione che galvanizza la dopamina e scatena il sistema immunitario.
E poi il tuo alito è anche più gradevole.
Ma cosa succederà ora che abbiamo iniziato a sviluppare il movimento degli ecovillaggi Riusciremo a costruire case a basso costo in autocostruzione per migliaia di famiglie? Riusciremo a creare migliaia di posti di lavoro fuori dal sistema dei ladroni dissennati?
Riusciremo a rendere sinergiche le nostre economie individuali?
Riusciremo a non comprare più niente dai mercanti di incubi?
La risposta a questa domanda la devi dare tu: inizi a costruire il tuo ecovillaggio?
Questa è una DIASPORA.
Abbandoniamo i vecchi schemi.
Traslochiamo nel buon senso!
Se non hai modo di iniziare subito a costruire un ecovillaggio hai 100 altri modi per togliere ossigeno alle Multinazionali del Dolore.
Ogni volta che consoci i tuoi consumi
Ogni volta che condividi una risorsa
Ogni volta che concludi un baratto, usi una moneta solidale, cooperi, crei un momento di incontro (una festa, uno spettacolo, un flash mob, un happening)
Ogni volta che comunichi informazioni censurate
Ogni volta che usi il sorriso, la spinta gentile, l’approccio comico
Ogni volta che non sprechi risorse e occasioni
Ogni volta che perdi tempo a vivere e a far l’amore col mondo,
HAI INFERTO UN DANNO MEMORABILE A QUESTO COLOSSALE, COSTOSISSIMO SISTEMA PER PRODURRE SPAZZATURA.
—
L’UE minaccia l’Italia sulla Golden Share: il liberismo madre delle repubbliche delle banane 28.02.2011
È di una settimana fa circa la notizia che il Commissario europeo al mercato interno Michel Barnier è tornato alla carica contro ogni intervento statale – anche solo teorico – nell’economia italiana. Per conto dell’Unione Europea il commissario ha intimato all’Italia di modificare la disciplina sulla Golden Share, l’azione d’oro detenuta dallo Stato in gruppi strategici come Eni, Finmeccanica, Enel e Telecom Italia. Secondo Barnier i poteri spettanti al Governo italiano sono “eccessivi”, “vaghi e indeterminati”; conferirebbero alle autorità “ampi poteri discrezionali nel giudicare i rischi per gli interessi vitali dello Stato”, tutto in contrasto con le regole comunitarie sulla libera concorrenza.
Ora, che l’Unione Europea sia contro ogni intervento statale in economia non dovrebbe sorprendere nessuno, ma la rinnovata aggressività verso l’Italia in questo momento di crisi economica e scompiglio politico potrà forse aiutare ad aprire gli occhi a chi crede ancora che i principii del liberismo siano compatibili con il benessere economico delle nazioni. Ma torniamo un poco indietro per inquadrare meglio la situazione. La svolta verso la distruzione dell’assetto produttivo delle economie europee – spesso identificato come il “modello renano” negli anni Novanta – avvenne a ridosso di un periodo di grande sconvolgimento politico in Europa, iniziato con il crollo del muro di Berlino nel 1989.
A quel tempo la Germania era pronta a guidare un processo di sviluppo economico vero non solo per i nuovi Länder, ma anche per la Polonia, e implicitamente, per tutta l’Europa dell’Est. La capacità produttiva del cuore dell’Europa sarebbe state utilizzata in senso dirigistico, per sollevare i popoli oppressi per decenni dal sistema sovietico. Il movimento di Lyndon LaRouche si attivò subito con una campagna a favore di un’alleanza per lo sviluppo non solo dell’Europa stessa, ma anche dell’Asia attraverso il noto progetto del Ponte eurasiatico di sviluppo. Le nazioni del continente europeo avrebbero guidato una nuova epoca di cooperazione e di progresso, cambiando la direzione della storia attuale.
Gli interessi oligarchici non sono stati a guardare. Da Londra, sede storica della geopolitica imperiale, partì la campagna contro la Germania accusandola di diventare il Quarto Reich; l’uomo chiave in Germania per il finanziamento del progetto, Alfred Herrhausen, fu assassinato da un gruppo terroristico di dubbia esistenza; scoppiò la guerra nei Balcani, destabilizzando l’Europa centrale proprio come successe ai tempi della Prima Guerra Mondiale; e l’obiettivo di una maggiore cooperazione europea divenne un pretesto per imporre il trattato di Maastricht e la moneta unica, annullando la sovranità economica dei paesi membri. E non si pensi a qualche oscura teoria complottistica; fu Helmut Kohl stesso nelle sue memorie ad affermare con forza che Margaret Thatcher e Francois Mitterrand, con l’appoggio di George H.W. Bush, pretesero che la Germania si impegnasse ad entrare nell’Euro in cambio della via libera alla riunificazione tedesca.
Non a caso, anche l’Italia visse un momento di grande destabilizzazione, una trasformazione politica che inaugurò la stagione di “modernizzazione” e portò dritto alla crisi economica e finanziaria di oggi. Tangentopoli fu usata per fare fuori un’intera classe politica, con moltissime pecche senz’altro, ma a volte disposta ad opporsi ai diktat della finanza internazionale. Inoltre, il sistema delle partecipazioni statali rappresentava una struttura in grado di garantire il carattere industriale del Paese internamente e anche a livello internazionale, nonostante il declino già in atto fin dagli anni Settanta.
A partire dai governi tecnici guidati da Amato e Ciampi non solo ci fu un “rinnovamento” della classe politica, ma furono riscritte le regole dell’economia, dalle banche alle pensioni, dalle grandi imprese ai servizi locali. La stagione delle privatizzazioni portò alla svendita di numerose aziende statali, nel nome dell’efficienza e della necessità di abbattere il debito pubblico. Come abbiamo già documentato, questo processo in realtà non portò a dei risparmi per lo Stato; in molti casi rappresentò una perdita vera e propria, e soprattutto, aprì i settori strategici dell’economia a certi interessi privati nazionali e internazionali che hanno a cuore tutt’altro che il Bene Comune.
Così torniamo alla Golden Share. Le grandi aziende dello Stato sono ora private, ma in alcune di esse il Tesoro mantiene un potere di veto sulle decisioni strategiche. Dal punto di vista del sistema finanziario ed economico internazionale di oggi, tale potere è chiaramente un’anomalia; se si crede nel “libero mercato” lo Stato non deve avere alcun ruolo di indirizzo delle imprese, finirebbe solo per distorcere la libera concorrenza. Se invece guardiamo il mondo dal punto di vista strategico indicato in modo pur sommario sopra, la possibilità per l’Italia – e per ogni nazione che vuole sopravvivere in questo tempo di crisi – di difendersi dalla distruzione o dalla svendita dei settori fondamentali della propria economia, è essenziale. Tanto più nel momento in cui i dogmi economici degli ultimi decenni sono appena stati smentiti in modo spettacolare. L’efficienza del mercato ha portato ad una serie di bolle speculative la cui implosione ha inaugurato una crisi senza fine. Il mercato ha allocato i capitali in modo così perfetto che ora i cittadini subiscono l’austerità e la crisi per garantire lunga vita ai centri speculativi transnazionali.
Il fatto che il liberismo sia sancito nel Trattato di Lisbona non toglie il fallimento di quel sistema. Finché rimane qualche briciola di sovranità sarebbe il caso di tenersela; il mondo sta cambiando rapidamente, e gli Stati serviranno proprio per costruire un futuro per le popolazioni che ora non sono più disposte a patire la fame e la riduzione dei loro diritti nel nome della globalizzazione.
Andrew Spannaus
Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà
http://www.movisol.org/11news037.htm
—
Inflazione, quel piccolo sporco segreto degli economisti 01.03.2011
Tra poche ore sul pericolo-inflazione si pronuncerà anche Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve. Oggi infatti è attesa l’audizione al Senato del banchiere centrale americano, e col petrolio a questi livelli (più il dollaro debole) la questione dello choc sui prezzi sarà in primo piano. Fino a ieri però dalla Fed sono arrivati segnali rassicuranti: l’inflazione non fa paura, tanto che la banca centrale prevede di continuare fino ad agosto a “pompare liquidità” (cioè stampar moneta) comprando titoli di Stato, per sostenere la ripresa dell’economia americana.
Ma perché il rialzo del petrolio lascia così sereni i banchieri centrali? Gli economisti distinguono tra le voci dell’inflazione da una parte le “componenti volatili” come energia e alimenti, e dall’altra parte tutto il resto. Finché i rincari riguardano solo le “componenti volatili” non c’è da preoccuparsi, questa è la dottrina ortodossa. Che va decifrata, perché nasconde una notizia non proprio gradevole per i lavoratori dipendenti.
L’inflazione diventa tale, e quindi è un pericolo da combattere per le banche centrali, solo quando i rincari vengono recuperati da aumenti salariali. Allora gli choc sui prezzi si diffondono a tutti i costi di produzione, e la spirale rischia di sfuggire al controllo. Ma con il 9,4% dei disoccupati in America (e livelli analoghi in Europa) il potere contrattuale dei lavoratori è bassissimo. Aumenti salariali non sono in vista. Quindi l’inflazione si blocca sul nascere. Perché la paghiamo solo noi, con un potere d’acquisto decurtato, ma siamo incapaci di trasmetterla e di generalizzarla. Senza scala mobile, senza sindacati forti, senza ondate di rivendicazioni, niente spirale. Tutto tranquillo sul fronte occidentale.
—
Germania, il ginocchio bionico lo passa la Mutua 01.03.2011
Una protesi avveniristica restituisce capacità perdute a chi ha una gamba amputata e si guadagna il supporto dei servizi sanitari europei. Il ginocchio robotica è “intelligente” e sa adattarsi alle esigenze del suo possessore
Roma – Il ginocchio bionico Power Knee è l’ultimo prodotto messo in commercio da Ossur, società specializzata nella realizzazione di protesi artificiali ad alto contenuto tecnologico. Power Knee è un arto artificiale “intelligente”, capace di adattarsi alle esigenze del possessore e anche di dagli una mano con una “spinta in più” in caso di bisogno.
Secondo quanto sostiene Ossur, Power Knee è il primo ginocchio artificiale funzionante a motore alimentato da una apposita batteria, con un sistema di intelligenza artificiale che si adatta al tipo di movimenti compiuto dal paziente, sensori di movimento e funzionalità di comunicazione wireless.
Il motore integrato permette a Power Knee di fornire un supporto aggiuntivo a certuni tipi di sforzi fisici come quello necessario ad alzarsi, mentre l’elettronica di controllo è in grado di mimare la propriocezione tipica degli arti umani preparando la protesi ad affrontare il prossimo movimento da compiere.
La qualità e l’efficacia di Power Knee sono garantite dal fatto che la protesi hi-tech è già stata ufficialmente adottata dal servizio sanitario tedesco, mentre è a disposizione a chi è dotato di assicurazione medica privata in Francia, Regno Unito e negli Stati Uniti in forma limitata.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3096628/PI/News/germania-ginocchio-bionico-passa-mutua.aspx
—
L’energia? Si congela 01.03.2011
Mentre da noi il Governo vuole tagliare gli incentivi sulle rinnovabili, in Inghilterra c’è chi prova a crioconservare l’energia prodotta in eccesso da Sole e vento
di Letizia Gabaglio
Niente più incentivi al fotovoltaico, (ma stamane 2 Marzo leggevo che non è esattamente così, speriamo) e in generale alle fonti rinnovabili. Se giovedì 3 marzo prossimo il Consiglio dei Ministri approverà il decreto legislativo per il recepimento della direttiva rinnovabili 2009/28/CE, tempo pochi mesi e non sarà più possibile avvalersi di tariffe agevolate nel caso si decidesse di dotarsi di un impianto fotovoltaico. Nella bozza del decreto, infatti, all’articolo 23 comma 11 lettera d) è previsto che, nel caso in cui si raggiungesse in anticipo l’obiettivo specifico per il solare fotovoltaico sarà sospesa l’assegnazione di incentivi per ulteriori produzioni. Ma secondo il Gestore dei servizi energetici ( Gse) l’obiettivo specifico, la fatidica soglia degli 8.000 MW di potenza, verrà con ogni probabilità raggiunto entro l’estate. Se così sarà i cittadini non potranno più avvalersi degli sconti e gli ordinativi di nuovi impianti presumibilmente subiranno una battuta d’arresto. Secondo il ministro dello sviluppo economico Romani il sistema degli incentivi costa troppo alla collettività, mentre per gli operatori del settore fotovoltaico, tra tasse pagate e posti di lavoro creati, il bilancio alla lunga sarebbe positivo.
Polemiche italiane a parte, che il futuro dell’energia passi sempre di più per le fonti rinnovabili è ormai chiaro a tutti. Tanto che i grandi produttori si stanno interrogando sul sistema più efficiente per conservare l’energia prodotta da sole e vento, per loro natura non costanti, così da averla sempre a disposizione. Una soluzione potrebbe essere quella messa a punto dalla società londinese Highview Power Storage, come racconta New Scientist: crioconservare l’energia prodotta in eccesso. Come? Usandola per raffreddare l’aria a -190 °C e poi conservare l’aria liquida così ottenuta, o criogeno, in contenitori a pressione ambiente (1 bar). Quando serve elettricità, il criogeno viene sottoposto a una pressione di 70 bar e riscaldato, producendo così un gas ad alta pressione che aziona delle turbine che generano elettricità. Il sistema di autoalimenta perché l’aria fredda prodotta dalle turbine viene catturata nuovamente e raffreddata per produrre nuovo criogeno. Se si utilizza il calore ambientale per riscaldare l’aria liquida, il processo riesce a produrre il 50% dell’elettricità che lo alimenta. Efficienza che può salire al 70% se per riscaldare il criogeno a un temperatura più alta di quella ambiente si usa il calore prodotto da una centrale elettrica o un impianto industriale; in questo modo infatti si aumenta la forza delle turbine.
Un impianto pilota da 300 kilowatt è stato testato per nove mesi a Slough, nel sud-est dell’Inghilterra, nei pressi della centrale a biomassa da 100 megawatt della Scottish and Southern. Le buone performance e i costi ridotti – 1000 dollari a kilowatt contro i 4000 dei sistemi analoghi che si stanno sviluppando in Giappone, che però possono contare su una più alta efficienza – hanno spinto l’azienda inglese ad annunciare la costruzione di un impianto da 3,5 megawatt entro la fine del 2012, impianto che potrà arrivare a 8-10 megawatt all’inizio del 2014.
http://daily.wired.it/news/ambiente/energia-rinnovabile-congelaa.html
—
Apre oggi a Città del Messico il Soumaya Museum 01.03.2011
Il Messico è considerato dalla comunità internazionale una “zona di guerra”, con territori completamente fuori dal controllo del governo, in mano alle bande di Narcos che eliminano chiunque si opponga ai loro traffici. Nonostante questo, apre oggi a Città del Messico uno dei più grandi musei del mondo a livello di collezione.
Il Museo Soumaya è l’ultima creatura dell’uomo più ricco del mondo, Carlos Slim, e prende il nome dalla sua defunta moglie, grande amante di pittura e scultura. Ospiterà la personale collezione d’arte di famiglia, composta da 66.000 opere, per un valore totale che supera i 500 milioni di euro. Cézanne, Renoir, Picasso, Van Gogh, Matisse, Leonardo da Vinci (sua la Madonna dei Fusi), Auguste Rodin e Diego Rivera, solo per farvi venire un po’ di acquolina in bocca.
Costruito su progetto di Fernando Romero, genero di Carlos Slim, l’edificio è una struttura che cattura la luce, per mezzo dei 16.000 moduli esagonali di argento lucido all’esterno. Nel mezzo, una galleria a forma di nuvola fa eco alle curve di una scultura di Rodin presente in collezione.
D’altronde, Il Pensatore di Rodin è proprio il pezzo preferito da Slim, che, a differenza di quanto si potrebbe pensare, non è un “miliardario sbruffone”. Si occupa personalmente dei pezzi che acquista e prima dell’apertura ha controllato centimetro per centimetro il nuovo museo, alla ricerca di qualche imperfezione.
Tra le opere a cui tiene di più, c’è un gigantesco murale di Rufino Tamayo, Naturaleza Muerta.
http://www.artsblog.it/post/7028/apre-oggi-a-citta-del-messico-il-soumaya-museum
—
Un biosensore al servizio dell’ambiente. E dell’industria 02.03.2011
Qualsiasi oggetto immerso in acqua, dopo poche ore, viene ricoperto da uno strato di batteri, il biofilm, che quando si forma su superfici di impianti industriali provoca problemi tecnologici come corrosione, contaminazione biologica, aumento dell’attrito e diminuzione dell’efficienza di scambio termico. Per evitare ciò, vengono utilizzate di solito grandi quantità di sostanze chimiche tossiche (biocidi) che creano un forte impatto sull’ambiente nel quale vengono scaricate, generalmente il mare.
Il biosensore Alvim, sviluppato da un gruppo di ricercatori dell’Istituto di scienze marine (Ismar) del Cnr di Genova, può essere una valida soluzione per ridurre l’inquinamento causato da questi trattamenti chimici: è infatti, in grado di fornire in tempo reale una stima del rivestimento batterico nelle tubature, permettendo di ottimizzare i trattamenti di pulizia, eseguendoli solo quando ce n’è bisogno, e di ottenere un abbattimento dei costi, riducendo considerevolmente l’uso di prodotti quali il cloro.
“Il progetto Alvim”, spiega Francesca Garaventa dell’Ismar-Cnr, che insieme a Marco Faimali, Giovanni Pavanello e altri colleghi ha realizzato il sensore, “ha permesso di trasformare in applicazioni tecnologiche innovative i risultati di oltre 30 anni di ricerca scientifica dell’Istituto nel settore del biofilm e della corrosione indotta da microrganismi”.
“Alla base del funzionamento del biosensore”, prosegue Marco Faimali, “vi è la capacità del biofilm naturale di generare un segnale (attività bioelettrochimica), direttamente correlato alla sua crescita. Ciò consente di monitorare in tempo reale lo sviluppo e di modulare i trattamenti chimici per la sua eliminazione, evitando sprechi e inutili immissioni di sostanze tossiche in mare”.
La possibilità di ottenere un segnale bioelettrochimico, come indice di crescita di una comunità batterica naturale, ha spinto i ricercatori ad ampliare il campo applicativo di Alvim al monitoraggio qualità dell’acqua. Il secondo obiettivo del progetto è, infatti, realizzare biosensori che forniscano un allarme tempestivo (Biological early warning system) qualora siano presenti nell’acqua sostanze inquinanti. “Questa serie di biosensori”, conclude Garaventa, “una volta validati, potrebbero essere utili agli enti che gestiscono il territorio per individuare scarichi illeciti difficilmente controllabili”.
Il progetto, finanziato nell’ambito dei progetti Fesr-Por Liguria, nasce dalla collaborazione tra ricerca pubblica e due Pmi liguri.
Rita Lena
Fonte: Francesca Garaventa, Istituto di scienze marine, Genova, tel. 010/6475426, email francesca.garaventa@ismar.cnr.it
Fonte: Marco Faimali, Istituto di scienze marine, Genova, email marco.faimali@ismar.cnr.it
—
Rispondi