Oltre il “New Labour” per ripensare la socialdemocrazia 29.09.2010
Paolo Borioni
Argomenti: Pensare l’Europa
Nel commentare l’elezione di Ed Milliband a diciottesimo leader del Labour britannico, l’appoggio determinante delle Unions è l’aspetto più capace di offrire spunti di analisi. Si tratta di un aspetto centrale dell’odierna e futura politica britannica. Non a caso, i Tories hanno subito commentato l’elezione del giovane Milliband come “un grande salto all’indietro” verso la sottomissione al potere sindacale.
Del resto, proprio i sindacati stanno evidenziando il carattere anti-progressivo (chiaramente sfavorevole alle classi modeste di reddito) dei tagli effettuati dal premier Cameron. Questi cercherà pertanto di definire i tagli in atto come l’unico possibile interesse nazionale e, per necessità logica, la reazione sindacale come corporativa, particolare. Lo screditamento del rapporto socialdemocrazia-sindacato è stato peraltro un tratto della dialettica destra-sinistra che, pur in termini del tutto diversi, è si è rivelato determinante anche nella vittoria conservatrice svedese.
Nel caso britannico c’è si presenta il problema di come riconcettualizzare la recente storia nazionale: se Ed Milliband rappresenta una notevole discontinuità rispetto all’epoca Blair, si apre ora il gioco sul contenuto, concreto e simbolico, di tale novità. Una definizione positiva dell’evento rimetterebbe in gioco il Labour come forza fresca, in grado da subito di lasciarsi alle spalle la pesante eredità di Brown e soprattutto di Blair. Nonché del suo erede unimadatario (seppure nelle vesti di king maker del fratello maggiore David) Peter Mandelson. Se Ed Milliband riuscisse in questo, oltretutto, la sinistra britannica apparirebbe capace di rinnovarsi con meno travaglio di quello (durato, contando l’agonia di Major, dei lustri) occorso ai conservatori per trovare l’attuale soluzione vincente. Viceversa, riuscire ad associare l’immagine del nuovo leader laburista alla deriva subita dal Labour negli anni ‘80, passati migrando da un radicalismo all’altro, e in totale soggezione della forza viva del sindacato, sarebbe come concedere a Cameron che suo ed esclusivo è il diritto a guidare il paese.
Ma se queste sono le problematiche che Ed Milliband dovrà affrontare per stabilizzare la propria leadership, è ora opportuno definire la vera sostanza della sua proposta. Innanzitutto, tranne la più radicale Abbot, tutti i candidati, rappresentavano dosi diverse di equilibrata discontinuità con l’epoca del New Labour. E questo, almeno, va ascritto agli anni di Blair: aver prodotto dirigenti molto giovani, ottenendo l’effetto doppio di non avere rivali pericolosi per l’immediato e di far maturare una classe dirigente spendibile al momento giusto.
Fra di essi Ed Milliband (più ancora dello sfortunato, perché troppo brownita, Ed Balls) è quello che rispetto all’epoca Blair-Brown ha puntato non solo su un riequilibrio (più socialista) di contenuti, ma anche (più socialdemocratico) di rappresentanza. Cerchiamo di capire perché: la prassi di Blair, potrebbero citarsi episodi a profusione, è stata più quella di ignorare il partito che quella di rifondarlo. Si è trattato più di un No Labour che di un New Labour. Ma quel tempo è finito. Chiunque fra i cinque pretendenti avrebbe valorizzato molto di più, stando alle dichiarazioni, il rapporto fra radicamento, democrazia interna e scelte del partito al Parlamento o al governo. Tanto più che il vero tratto arcaico del vecchio Labour, il block vote (per cui i sindacati votavano per il vertice del partito in blocco, non orientando, come ora, la libera decisione dei propri iscritti per i vari candidati) è stato eliminato. E tantopiù che, come ha mostrato il congresso, valorizzare la democrazia interna non presenta veri pericoli di involuzione massimalista. Certo, Ed Milliband ha ottenuto, nei tre distinti insiemi che formano il congresso laburista (parlamentari, iscritti, sindacati affiliati) percentuali diverse: il 46,566% fra i parlamentari, il 46,594% fra gli iscritti, e il 59,802% fra i sindacati. Ma ciò non rappresenta una resa a boss sindacali arcigni e retrogradi, bensì la valorizzazione di un’area vasta, diffusa, di sindacalizzati che sono fisicamente, singolarmente andati a votare per lui.
Gli elementi virtuosi di tutto ciò sono almeno due: 1) Un giusto rapporto fra funzionalità, rappresentanza e apertura. Giusto quanto passa fra le “primarie” intese come quelle fiammate mediatiche e leaderistiche volute dai più “nuovisti” in Italia, e la costruzione di un patrimonio costante e reale nella società; 2) Ed Milliband può così ristabilire una coerenza fra strategia di sviluppo e rivitalizzazione democratica del Labour. Se in passato Blair ignorava il radicamento diffuso del partito è perché l’effervescenza cartacea della city era il propellente sia delle riforme, sia della cultura politica. Tutti i candidati alla leadership, nell’ultimo congresso, pur rivendicando molti successi del governo di Blair e Brown, hanno definito questo un meccanismo ormai inutilizzabile. Fra di essi Ed Milliband ha offerto la soluzione più efficace. Egli non sarà affatto meno moderno o meno attento ai conti pubblici, ma l’economia britannica si dovrà fondare molto più, nel futuro, sui salari e la loro crescita. E molto meno sulla finanza della city. Sul piano politico-sociale questo dato di logica riformista non può che significare una cosa: coinvolgere maggiormente i ceti medi e salariati che i laburisti hanno perso progressivamente nelle ultime elezioni. Un dato, peraltro, che riguarda l’intera socialdemocrazia europea. Con il nuovo Labour, infatti, essa avrà una risorsa in più per trovare le giuste soluzioni a livello sopranazionale. Non ci sarà più Blair, europeista retorico, ma sostanzialmente inconcludente. E in ultima analisi inutilizzabile per la vocazione socio-economica e socio-politica del continente.
http://www.caffeeuropa.it/index.php?id=2,463
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Iran, blogger in manette 29.09.2010
Hossein Derakhshan condannato a 19 anni di carcere. Irraggiungibile il suo blog. Sconcerto da parte delle autorità canadesi. Mentre RSF ha condannato la più dura sentenza mai emessa contro un blogger in terra iraniana
Roma – 19 anni di carcere. Questa la pena stabilita da un giudice iraniano, che ha così incatenato il prossimo futuro del blogger Hossein Derakhshan, meglio noto come Hoder. Le autorità di Tehran avevano però richiesto la sua condanna a morte, dopo l’arresto di Derakhshan nel 2008.
Il blogger – allo stesso tempo cittadino iraniano e canadese – era stato accusato di aver collaborato con vari stati nemici, oltre che di aver messo in piedi una vera e propria campagna propagandistica contro l’Islam. All’origine del sue colpe, due viaggi in Israele, non visti nel migliore dei modi dalle attuali leggi in Iran.
Stando alle varie fonti locali, Derakhshan potrà ricorrere in appello contro la decisione del giudice. Nel frattempo, il suo blog – Hoder.com – è risultato irraggiungibile. Disdegno da parte delle autorità canadesi, che hanno parlato di una decisione inaccettabile.
Sconcerto da parte dell’organizzazione Reporters Sans Frontières, che ha sottolineato come quella contro Hoder sia di gran lunga la sentenza più dura mai emessa contro un blogger locale. Derakhshan sarebbe rimasto vittima di scontri politici interni. Il Presidente Mahmoud Ahmadinejad dovrebbe intercedere per il suo rilascio.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/3000031/PI/News/iran-blogger-manette.aspx
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Italia: esportare armi per abbattere i costi, cambiando la legge 29.09.2010
“Le esportazioni militari rappresentano una componente di primaria rilevanza per la politica estera ed industriale nazionale” anche perché “contribuiscono a diminuire i costi per il contribuente nazionale, dal momento che consentono di distribuirli sulle serie produttive per clienti esteri”. Lo si legge nell’ultima Relazione Esercizio dell’AIAD, la potente Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza.
La Relazione descrive uno scenario preoccupante a causa degli “effetti dirompenti” della crisi economica mondiale, ma riporta chiare note di fiducia soprattutto grazie alle esportazioni militari. “Il rapido deteriorarsi del quadro economico internazionale e delle tensioni tra i Paesi che caratterizza i primi mesi del 2010, ha portato ad un contesto di crisi che preannuncia effetti dirompenti per tutti i settori dell’economia, ivi compreso il comparto della difesa e sicurezza e del trasporto aereo” (pg. 9). In questo contesto “gli annunciati quanto inevitabili tagli agli investimenti da parte di molti Governi europei, investimenti essenziali per l’innovazione e la sicurezza, impatteranno pertanto sul settore della difesa i cui principali clienti sono gli Stati” (pg. 10). La Federazione segnala inoltre che in ambito europeo “il ricorso all’integrazione è finora fallito per i diversi interessi nazionali e le pretese di dominio di alcuni attori”.
Note di fiducia, invece, si leggono a proposito delle esportazioni e soprattutto di quelle militari che la Relazione definisce spesso con un eufemismo “tecnologie della difesa”. “Facendo riferimento alla situazione complessiva del 2009, il mercato della difesa nella sua globalità e per le sue caratteristiche ha continuato a mostrare, rispetto all’anno precedente, una sostanziale solidità e tenuta. Infatti la crisi del credito ha avuto effetti diretti solo marginali sulle previsioni di investimento nella difesa” – riporta la Relazione (pg. 10). Un andamento di “stabilità o anche di crescita” degli investimenti per difesa e sicurezza viene segnalato in particolare nel Medio Oriente ed in Asia (priorità alla sicurezza in aree di crisi), ma anche negli Stati Uniti ed in alcuni Paesi dell’Europa, mentre per l’Italia, l’AIAD evidenzia con un certo rammarico che “purtroppo non appare tra i Paesi virtuosi (sic! – ndr) che considerano la sicurezza nazionale come la priorità, con evidenti contrazioni nei bilanci per la difesa e per la ricerca e sviluppo” (pg. 10).
“Continua – nota quindi la Relazione – a risultare significativo e fondamentale a fronte della ristrettezza e stagnazione della domanda domestica, l’apporto delle esportazioni del comparto, in crescita nel 2009, ripartiti in modo bilanciato tra attività civili e militari considerate al netto delle cooperazioni intergovernative internazionali militari e spaziali che valgono mediamente 1,5-2 miliardi di euro”. L’AIAD stima che il settore manifatturiero delle “alte tecnologie” fornisce “storicamente un surplus intorno a 4,5 miliardi di euro a beneficio della bilancia commerciale nazionale” (pg. 15). E, “in particolare le esportazioni militari rappresentano una componente di primaria rilevanza per la politica estera ed industriale nazionale” anche perché “contribuiscono infine a diminuire i costi per il contribuente nazionale, dal momento che consentono di distribuirli sulle serie produttive per clienti esteri”. In una parola, secondo l’AIAD, più l’industria militare esporta armamenti, più il contribuente italiano risparmia: una logica… disarmante.
Come avevamo già segnalato su Unimondo, anche l’AIAD evidenzia quindi che nel 2009 nel settore dell’export militare si è registrato “un cospicuo incremento delle autorizzazioni che hanno totalizzato 4,9 miliardi di euro (+60%), al netto delle autorizzazioni (1,8 miliardi) per i programmi intergovernativi” (pg. 16): l’Associazione sottolinea però che tale incremento dipende non solo dalle “capacità tecnologiche ed industriali italiane”, ma anche dalla “promozione commerciale realizzata a livello Paese”. Un incremento che – come avevamo già evidenziato su Unimondo – riguarda non solo il “portafoglio d’ordini”, cioè le autorizzazioni governative all’export militare, ma le effettive consegne di armamenti che nel 2009 hanno registrato un “aumento del 24%, pari a 2,2 miliardi di euro”.
In effetti come ho dimostrato in uno studio che analizza venti anni di esportazioni di armamenti italiani (in .pdf) recentemente pubblicato da “Aggiornamenti Sociali” nel 2009 l’export militare non solo ha raggiunto la cifra record dall’entrata in vigore della legge 185/90, ma l’Italia va sempre più occupando una posizione di rilievo sia a livello internazionale sia – soprattutto – a livello europeo. Un dato confermato, per gli ultimi anni, anche dal recente Rapporto al Congresso degli Stati Uniti che attesta l’Italia tra i cinque maggiori fornitori internazionali di armamenti convenzionali con contratti stipulati nel 2009 prevalentemente con Paesi emergenti e in via di sviluppo.
Esportazioni alle quali il Governo intende ora dare un nuovo impulso attraverso il “riordino” della normativa attuale: il 17 settembre scorso il Consiglio dei Ministri ha infatti approvato un “disegno di legge” che delega al Governo la riforma della legge 185 del 1990. Tale disegno di legge – si legge nella nota di Palazzo Chigi – “sviluppa e riordina la materia del controllo sull’esportazione e sul trasferimento dei prodotti per la difesa”. Il provvedimento intenderebbe “salvaguardare rigorosamente i principi della normativa in vigore (la legge 185/1990)” ma anche introdurre “semplificazioni normative e procedurali tali da rendere le norme più consone alle mutate esigenze del comparto per la difesa e la sicurezza, sia istituzionale che industriale”. Quali siano queste “semplificazioni” non è dato di sapere visto che a quasi due settimane dall’annuncio il disegno di legge non è ancora stato reso disponibile.
C’era comunque da aspettarselo considerato che – come avevamo puntualmente segnalato su Unimondo già dallo scorso marzo – l’ultimo Rapporto della Presidenza del Consiglio sui lineamenti di politica del Governo in materia di esportazione di armamenti dedicava un intero capitolo al “processo di riordino” della normativa nazionale relativa al controllo sulle esportazioni e trasferimenti di prodotti per la difesa, cioè – appunto – alle esportazioni di sistemi di armamento (cap. 2, pp. 23-25).
C’è però, nel recente comunicato da parte del Governo, una novità. Mentre il Rapporto suddetto segnalava che “è stata verificata l’opportuna strada perseguibile per un intervento correttivo di tutta la normativa in vigore” (p. 24) dalla nota del Consiglio dei Ministri si apprende che tale strada è stata definita nella forma di una “legge delega”. Riporta, infatti, la nota di Palazzo Chigi che “su proposta del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, del Ministro per le politiche europee, Andrea Ronchi, e del Ministro degli affari esteri, Franco Frattini”, il Consiglio dei Ministri ha approvato il “Disegno di Legge” che tra l’altro conferisce la “Delega al Governo per la riforma delle disposizioni su autorizzazione alle operazioni di esportazione, importazione, transito, trasferimento, trasbordo, ed intermediazione dei prodotti per la difesa e per il riordino dei procedimenti nella materia di cui alla legge 9 luglio 1990, n. 185, e successive modificazioni”.
Grazie alla nuova legge potrà finalmente tirare un po’ il fiato anche Enzo Casolini, l’amministratore delegato di Eurofighter, il consorzio industriale che gestisce la produzione dei caccia multiruolo Typhoon. “Stiamo correndo come pazzi per cercare nuovi compratori in giro per il mondo” – ha affermato Casolini nei giorni scorsi in un incontro con alcuni giornalisti. Visti i tagli al programma già annunciati (dall’Italia) o che potrebbero arrivare (da Germania, Regno Unito e Spagna) il rischio è quello di chiudere anticipatamente la produzione con “un costo economico e sociale molto alto”. Di riconversione neanche a parlarne, ci mancherebbe!
Giorgio Beretta
giorgio.beretta@unimondo.org
http://www.unimondo.org/Notizie/Italia-esportare-armi-per-abbattere-i-costi-cambiando-la-legge
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Obiettivi del Millennio – Bolivia. “Senza il FMI stiamo meglio di prima” 25.09.2010
“Quando la Bolivia seguiva i dettami del Fondo Monetario Internazionale il paese non riusciva a sollevarsi. Ora che ci siamo liberati del FMI e della Banca Mondiale prevediamo di liberarci socialmente, culturalmente, finanziariamente ed economicamente. Senza il Fondo Monetario Internazionale stiamo meglio di prima”. Questa la coraggiosa dichiarazione che il presidente della Bolivia Evo Morales ha fatto durante il suo intervento in occasione dell’ Vertice di Alto Livello delle Nazioni Unite per verificare lo stato di avanzamento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio a cinque anni dalla scadenza.
A New York Morales ha affermato che il suo paese registra dei successi nella realizzazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio proprio grazie alla fine della sua sottomissione al Fondo Monetario Internazionale sottolineando che l’indipendenza finanziaria raggiunta dalla Bolivia si riflette nel miglioramento della situazione sociale, nella riduzione della povertà, e nei miglioramenti nella gestione economica.
“Prima di essere eletto presidente, la riserva internazionale della Bolivia era di 1.700 milioni di dollari. Adesso siamo arrivati a 9.000 milioni di dollari in quattro anni e mezzo di presidenza. Nel 2005 gli investimenti pubblici erano meno di 600 milioni di dollari, oggi si aggirano a 2.300 milioni, dei quali il 70% è di origine nazionale e il 30% arrivano dalla cooperazione o dai crediti internazionali” ha dichiarato Morales.
Il presidente boliviano ha ricordato che i “pacchetti” imposti dal FMI nel suo paese hanno causato instabilità sociale e morti, affermando che il mondo necessita di organizzazioni finanziarie internazionali che non esercitino ricatti ne condizioni per aiutare le nazioni in via si sviluppo.
Morales, durante il suo discorso, ha esortato la comunità internazionale a fare tutti gli sforzi necessari contro la privatizzazione delle risorse naturali in ciascun paese, allo scopo di garantire ai popoli il loro diritto ai servizi di base e mettere fini così alle disuguaglianze, pre-condizione necessaria – secondo il presidente boliviano – per raggiungere gli Obiettivi del Millennio: “il nostro compito è quello di mettere fine all’ingiusta distribuzione della ricchezza, i paesi sviluppati devono ottemperare gli impegni presi per quanto riguarda l’Aiuto allo Sviluppo. I paesi più ricchi del mondo possiedono il 75% delle risorse, mentre ai paesi più poveri rimane quello che avanza” ha affermato Morales mettendo in evidenza che “ è inaccettabile che venga destinato 15 volte di più per la difesa, la sicurezza e la guerra”.
Quattro i punti che secondo il presidente boliviano dovrebbe seguire la comunità internazionale per ridurre gli indici di povertà: primo fra tutti evitare le privatizzazioni delle risorse naturali.
Secondo: stabilire regole per gli investimenti stranieri in modo da assicurare che la maggioranza dei benefici siano per lo Stato. Lo stato deve essere il proprietario delle risorse: “quello che dobbiamo discutere in questa riunione è come frenare il saccheggio delle risorse del Sud e come investire questi soldi per far fronte alla povertà nei nostri paesi, nell’educazione”.
Il terzo punto nell’agenda di Morales è l’impegno per i paesi membri a dichiarare che tutti i servizi di base come acqua, energia, comunicazioni, siano considerati diritti umani. “Non è possibile che le risorse di base siano un affare privato, se si tratta di difendere come diritto l’accesso alle risorse che li garantiscono che devono essere per questo nazionalizzate” ha spiegato.
L’ultimo punto consiste invece nel destinare le riserve delle nazioni in nuove banche create nel Sud, e non solo in Sud America ma anche in Africa e Asia. L’esempio è l’esperienza del Banco del Sur che già ha dato qualche risultato in America Latina. “Anziché mettere le nostre riserve nelle banche dei paesi sviluppati, costruiamo una banca del Sud con una percentuale delle nostre riserve internazionali, in modo da rompere con la dipendenza dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale” ha spiegato il presidente boliviano.
Egli ha affermato che il suo governo ha già raggiunto uno degli Obiettivi, quello di sradicare l’analfabetismo. La percentuale di persone in condizione di povertà estrema è invece diminuita, passando dal 41% al 32% secondo le stime delle Nazioni Unite. “ Questo risultato è frutto della democratizzazione dell’economia nazionale. Come paesi del Sud dobbiamo salvare le nostre risorse per fare fronte alle grandi nazioni, anziché stare ad aspettare l’aiuto dal Nord” ha concluso Morales.
Una ricetta quella boliviana, che più di contare sugli aiuti da parte dei paesi ricchi mette prima di tutto la sovranità dei Sud del mondo. Dato che anche il presidente – Barak Obama – ha annunciato un cambio di strategia degli Stati Uniti nell’Aiuto allo Sviluppo, le strade indicate da Morales potrebbero essere seguite anche da altri paesi, ora più che mai.
La necessità di riformare le istituzioni finanziarie internazionali e la maggiore responsabilità da affidare a ciascun Paese per quanto riguarda il proprio sviluppo, sono state ribadite anche nella risoluzione (in.pdf) adottata al termine del Vertice di Alto Livello delle Nazioni Unite. Il come e il quando però restano ancora da definire.
Elvira Corona (inviata di Unimondo)
http://www.unimondo.org/Notizie/Obiettivi-del-Millennio-Bolivia.-Senza-il-FMI-stiamo-meglio-di-prima
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Italia: il Damac per salvaguardare l’Adriatico 27.09.2010
Mentre alcuni sindaci protestano per il completamento della Fano Grosseto dormendo in tenda il presente articolo che riceviamo dalle Marche vuol ricordare Leonardo Polonara, dirigente della regione morto ad inizio estate. Egli era da anni immerso nell’elaborazione di uno studio che passava attraverso la tutela del mare nostrum – l’Adriatico – e la rivoluzione di un approccio alla gestione delle grandi infrastrutture. Il D.a.m.a.c.* (Difesa ambientale del mare Adriatico) è stato portato avanti dal novembre del 2004, sotto la guida di Polonara, per le Marche, e dall’assessore alla pianificazione territoriale della contea di Zara, Nives Kozulic. Con la volontà di perseguire l’obiettivo strategico dello sviluppo sostenibile del sistema terracqueo dell’Adriatico centrale, attraverso la gestione integrata del patrimonio biologico, naturalistico, paesaggistico, sociale ed economico, in partnership con i Paesi transfrontalieri.
Fra i tanti punti attorno ai quali si articola il Damac, quello di maggiore interesse – e sicuramente il più temerario – riguarda quattro interventi chiave nell’area italo-balcanica: 1) riduzione del traffico di navi petroliere (e dunque pericolose); 2) istituzione di corridoi longitudinali delle rotte di separazione; 3) ridistribuzione del traffico su gomma sulle due sponde dell’adriatico; 4) potenziamento della mobilità ferroviaria.
1. Una grande quantità del petrolio che per via navale, transita fra Italia ed ex Jugoslavia per giungere al centro di snodo di Trieste, non viene poi distribuito all’interno di questi due mercati ma prosegue verso nord. Il progetto dunque, consiglia di potenziare ed eventualmente costruire nuovi oleodotti che colleghino direttamente alla rete europea – dove veramente viene smistata la materia prima – le centrali di estrazione del Mar Nero e del Mar Caspio (via Romania, Serbia, Slovenia e Trieste), abbattendo la quantità di petrolio in viaggio sulle nostre acque. E contrastando, di conseguenza, il fenomeno degli scoli illegali di liquidi di sentina in mare aperto e i rischi di collisione fra mezzi e disastro ambientale.
2. Per quanto riguarda invece quelle petroliere che continuerebbero a solcare i nostri mari, il Damac intende istituire corridoi longitudinali quali rotte di separazione. Degli schemi di divisione del traffico che servirebbero per la manovra di avvicinamento e uscita dai porti o da acque ristrette, aumentando la sicurezza e impedendo ogni possibilità di collusione navale.
3. La terza questione è una delle più salienti e punta diritta ad uno degli storici problemi italiani: lo smisurato trasporto su gomma. La costruzione dell’autostrada croata negli anni scorsi, ha già avuto i suoi effetti benefici sull’A14 ed altre arterie. Ma non essendo collegati fra loro il Montenegro, l’Albania e tutta l’area del massiccio delle Alpi albanesi, il sud slavo resta escluso dall’allaccio alla rete continentale. Di qui la necessità di realizzare l’autostrada Igoumenitsa-Valona-Tirana-Bar-Dubrovnik, al fine di permettere lo sviluppo economico dei paesi sopracitati e di collegare pienamente ai corridoi europei la sponda balcanica.
4. Infine, su entrambi i versanti va potenziata la mobilità ferroviaria. Uno scambio veloce delle merci fra i Quadranti Orientali e Occidentali del Mediterraneo, sarebbe implementato investendo nel tratto Durres-Veria o Ploce-Sarajevo, ma soprattutto nello strategico raddoppio della tratta Ancona-Orte-Civitavecchia, attualmente una delle più pericolose di tutta la rete nazionale per via del binario unico. Quest’ultimo intervento permetterebbe di decongestionare parte del traffico di merci e persone dirette verso occidente (Spagna e Portogallo) o viceversa, sottraendolo dall’alto e medio Adriatico.
Parlare del Damac non è solamente l’occasione di puntare i riflettori sull’impegno di alcuni in favore di una salvaguardia totale – habitat e popolazioni – della regione adriatica. Serve anche a denunciare l’ipocrisia che spesso la politica nasconde dietro tali iniziative. Infatti è facilmente ipotizzabile – come sapevano e sanno i coordinatori del progetto – che tutto ciò rimarrà sulla carta. Non solo perché ci troviamo di fronte ad un piano estremamente idealistico e quindi difficile da realizzare.
Di sicuro, la giunta regionale delle Marche, nel 2004, al momento di finanziare e sostenere l’iniziativa, era perfettamente consapevole degli interessi geopolitici più grandi di essa, che gravitano intorno al mondo del petrolio e dei trasporti. Ed era consapevole, visto il ceto socio-economico di cui fa le veci, di non poter alzare un dito di fronte agli scogli futuri.
Ne era consapevole anche Leonardo Polonara, il quale, nonostante tutto, ha svolto il proprio dovere fino alla fine dei suoi giorni, incurante – ma cosciente – del muro di gomma sul quale il Damac si sarebbe schiantato.
Zeno Leoni
http://www.unimondo.org/Notizie/Italia-il-Damac-per-salvaguardare-l-Adriatico
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Scoperto un nuovo disegno di Picasso 29.09.2010
Scoperto pochi giorni fa in Spagna un bel disegno inedito di Pablo Picasso, conservato negli archivi della Fundació Palau i Fabre di Caldes d’Estrac, vicino Barcellona. Il disegno era stato considerato un falso fino ad oggi, ma la figlia del pittore catalano, Maya Picasso, lo ha validato come originale.
Si tratta di un ‘dibujo‘ a matita colorata su carta raffigurante una donna con cappello, ritratta di profilo. Con tutta probabilità è un lavoro della fse giovanile dell’artista, che venne esposto alla Galeries Dalmau nel 1912 e cche probabilmente ha fatto parte della collezione Junyer.
Il disegno era stato ritenuto un falso perché Picasso aveva apposto una ‘X’ e la parola ‘faux’ (falso), che però recenti studi dicono essere stata eseguita da uno dei successivi proprietari. Il pezzo farà parte della nuova esposizione permanente della Fondazione everrà presentato al pubblico il 24 ottobre 2010.
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Colpo di stato in Ecuador: l’America latina integrazionista è più forte del golpismo 01.10.2010
“Chi ha versato il sangue di compatrioti (nella foto il corpo di Froilán Jiménez, caduto per liberare il presidente, pianto da un commilitone) sappia che non dimenticheremo né perdoneremo”. E’ questo un passaggio non banale del discorso di Rafael Correa davanti a migliaia di sostenitori dopo 11 ore di sequestro in un ospedale della polizia e dopo essere stato liberato solo da un blitz dell’esercito. In queste parole c’è il seme dell’America latina nuova, che non abbassa più la testa e non ha più paura di processare i criminali e oggi può affrontare –non bastano certo le declamazioni ma centinaia di violatori di diritti umani e stupratori della democrazia in carcere lo testimoniano- il cancro dell’impunità.
Ma, al di là delle parole, Rafael Correa ha già vinto la propria sfida. Ha sfidato i golpisti invitandoli a sparare, ad ucciderlo se ne avevano il coraggio. Quindi, per 11 ore, i golpisti avevano preteso che il presidente umiliasse se stesso e la Costituzione dell’Ecuador accettando di trattare, barattando la sua incolumità personale con la rinuncia sostanziale a quel progetto di un nuovo Ecuador dove tutti fossero cittadini. Ma Correa non ha chinato la testa e, a quel punto, il blitz, anticipato di due ore da Giornalismo partecipativo, è apparso l’unica soluzione.
Gli avvenimenti di Quito, dopo l’ennesima settimana di demonizzazione dell’America latina integrazionista da parte dei grandi media mondiali, rimettono in maniera chiara come il sole, per chiunque sia in buona fede, le cose al loro posto. Come ha affermato nella notte il Presidente brasiliano Lula ancora una volta è stato testimoniato che non è la sinistra ad attentare alla democrazia in America latina. La sinistra, i governi integrazionisti che stanno riscattando il Continente dalla notte neoliberale, sono la democrazia in America latina. Lula stesso e domani Dilma Rousseff, Hugo Chávez, Cristina Fernández, Rafael Correa, Pepe Mujica, Evo Morales, perfino Cuba, per quanti errori possano aver compiuto e continueranno a compiere, stanno dalla parte dei popoli che vogliono riprendersi la storia, vogliono una vita più dignitosa e stanno ridando un senso a parole d’ordine in Europa dimenticate come uguaglianza e giustizia sociale.
E’ invece la destra ad attentare sempre alla democrazia in America latina, come ha dimostrato in Venezuela, in Honduras, in Ecuador con i colpi di stato e in in Bolivia col secessionismo, partendo da quello strumento goebblesiano che in tutti i paesi prende la forma del complesso mediatico commerciale.
E’ sotto gli occhi di tutti quanto è avvenuto questa settimana. I media commerciali di tutto il continente, ma anche europei ed italiani, si sono dedicati sistematicamente a demonizzare i governi democratici di Brasile e Venezuela. Il primo, con all’attivo forse il più positivo bilancio al mondo perfino in termini di crescita capitalista dal 2003 in avanti, il secondo che ha appena vinto con maggioranza assoluta le elezioni parlamentari, sono stati costantemente sotto tiro. Nel caso venezuelano la vittoria è stata ridicolamente e sistematicamente presentata come una sconfitta e una campana a morto per il governo bolivariano. Anche sull’Ecuador i disinformatori sono al lavoro: “tranquilli non è un golpe” hanno sviato tutto il giorno e anche adesso occultano evidenze, testimonianze e prove per presentare il complotto come un semplice conflitto sindacale sfuggito di mano per focosità naturale (sic) delle popolazioni andine.
Conflitto sindacale un corno! Le parole e i fatti devono avere ancora un senso, anche per chi di mestiere lavora sempre per edulcorare. Il presidente è stato malmenato, colpito con gas lacrimogeni, infine sequestrato per 11 ore in un’ospedale all’interno di una caserma, con almeno un tentativo solido di portarlo altrove, frustrato solo perché nel frattempo migliaia di cittadini avevano circondato la caserma, riproducendo per molti versi l’epopea dei giorni dell’aprile 2002 in Venezuela, quando il popolo si sollevò contro il golpe riportando Hugo Chávez a Miraflores. Il popolo pacifico che non accetta più la prepotenza è la cifra dell’America latina del XXI secolo. Anche dove la violenza infine trionfa, come è successo in Honduras, nessuno abbassa più la testa.
Ma non è solo il sequestro del presidente, che pure è la prova provata e legale dell’avvenuto colpo di stato, a testimoniare la gravità degli eventi: durante ore sono state sotto controllo golpista le due principali città del paese e i due principali aeroporti del paese sono stati chiusi. Anche in città come Cuenca e Manabi ci sono state manifestazioni di appoggio al golpe, mettendo in piazza quella massa di manovra, gli “studenti di destra”, già visti all’opera in varie parti del Continente, da Santa Cruz in Bolivia a Caracas, scesi in piazza in appoggio ad un governo civico-militare che per almeno un paio d’ore è sembrato potesse prosperare.
Altrove, invece, la strada è stata presa da civili leali alla Costituzione, in ore di tensione intensa che hanno già fatto cadere le teste del capo della Polizia e, la notizia non è ufficiale ma è stata confermata a Giornalismo partecipativo, del ministro degli Interni Gustavo Jarlkh. La televisione pubblica, altro atto gravissimo, è stata assaltata e ridotta al silenzio per oltre un’ora da elementi sicuramente riconducibili all’ex-presidente fondomonetarista Lucio Gutiérrez. Dov’è la SIP, la società interamericana della stampa (la confindustria degli editori di media latinoamericani), dov’è Reporter Senza Frontiere, così solerti a strapparsi le vesti quando un media commerciale è ricondotto al rispetto delle leggi in Bolivia o in Brasile o in Venezuela e sempre silenziosi quando la libertà di stampa dei media non omologati viene vilipesa? Per ore molti giornalisti sono stati sequestrati nella stessa caserma del presidente e almeno un cameramen è stato gravemente picchiato e la sua telecamera distrutta. Cosa importa…
All’estero la CNN ha impiegato otto ore prima di ammettere che il presidente Rafael Correa si trovasse sotto sequestro. Ammettere il sequestro voleva dire ammettere la rottura dell’ordine costituzionale e quindi il golpe in atto. Strana maniera di lavorare per un canale all-news che deve la sua fortuna al tempismo con il quale dà le notizie. El País di Madrid ha dovuto rinculare e spiegare che c’era stato un sequestro solo quando ha dovuto prendere atto del blitz per porvi fine. Vergogna per un quotidiano che con coraggio si oppose al golpe Tejero un 23 febbraio di troppi anni fa in Spagna! Fondo Monetario Internazionale, destra tradizionale, non solo personaggi come Lucio Gutiérrez ma anche il sindaco di Guayaquil Jaime Nebot erano dietro al tentativo golpista, il simbolo della destra della costa che in Ecuador viene chiamata “pelucones”, parrucconi. Inoltre si moltiplicano le informative che testimoniano come proprio la polizia nazionale ecuadoriana, individuata come punto debole nella lealtà alla Costituzione, sia stata sistematicamente infiltrata e profumatamente corrotta fin dal 2008 dai soliti noti, a partire da USAID.
Ai golpisti è andata male su tutta la linea. I presidenti latinoamericani, escludendo una volta di più Washington, hanno attraversato il continente nella notte per riunirsi a Buenos Aires e mostrarsi uniti come mai. Non facevano eccezione quelli di destra, Juan Manuel Santos, Alan García, Sebastían Piñera, contro il terzo golpe in otto anni nella regione, senta contare altri rumori di sciabole dalla Bolivia al Paraguay. Nel frattempo il governo degli Stati Uniti si limitava a “monitorare” la situazione e, solo quando è stato evidente l’isolamento dei golpisti nel paese e nel continente, è passato dal monitoraggio alla condanna. Far finta di non vedere una regia dietro questa giornata che si conclude con un bilancio di due morti e una settantina di feriti e descrivere gli avvenimenti di Quito come casuali e spontanei è un cosciente atto di disinformazione. Altro che conflitto sindacale!
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Birmania, la fine di un incubo. Forse 30.09.2010
Aung San Suu Kyi tornerà in libertà il prossimo 13 novembre, una settimana dopo le elezioni legislative in Birmania. La giunta militare al potere ha annunciato oggi la sua decisione: dopo due decenni di lotta per la democrazia e 15 anni di carcere, la leader dell’opposizione birmana e premio Nobel per la Pace potrà lasciare la sua abitazione, dov’è tuttora sottoposta agli arresti domiciliari
Il 7 novembre prossimo si svolgeranno in Birmania le prime elezioni legislative degli ultimi 20 anni. Il partito di Aung San Suu Kyi, la Lega nazionale per la democrazia (LDN), è stato sciolto prima dello scrutinio. La leader democratica, esclusa da ogni forma di candidatura alle elezioni legislative, sarà autorizzata a votare. Un permesso che, in ogni caso, non dovrebbe valere per il giorno delle elezioni, quando il Premio Nobel per la Pace sarà costretta a rimanere a casa per evitare contatti con i suoi sostenitori e gli oppositori all’attuale governo. Per San Suu Kyi, infatti, le autorità locali starebbero pensando a un voto anticipato.
Intanto la notizia del suo prossimo rilascio è stata accolta più con scetticismo che con moderata soddisfazione da uno dei suoi legali. “Non abbiamo ancora conferme su questo annuncio e ci crederò solo quando lo vedrò. Il regime ha più volte annunciato la liberazione di San Suu Kyi in questi ultimi sette anni, anche indicando delle date precise. Annunci che poi si sono sempre rivelati falsi. Quindi, aspettiamo a vedere cosa succede”, ha detto Jared Genser ai microfoni di CnrMedia.
Dubbioso si è detto anche Aung Naing Oo, analista ed esperto di Birmania. “Sarà ufficialmente libera, ma non avrà libertà di movimento”, ha spiegato. “Siamo di fronte a una dittatura militare. Poco importa il quadro legale, se non vogliono restituirle la libertà non lo faranno. Sono un po’ scettico. Ci crederò quando lo vedrò con i miei occhi”, ha aggiunto.
“Auguriamoci che la notizia sia vera e che Aung San Suu Kyi possa essere presto restituita al suo popolo e alla sua famiglia”, ha commentato da parte sua Piero Fassino, deputato Pd e inviato in Birmania per l’Unione Europea. “Certamente le pressioni internazionali – ha affermato a CnrMedia – hanno dato dei risultati e credo che anche le autorità al potere si siano rese conto che alla vigilia delle elezioni si dovesse dare un segnale alla comunità internazionale sulla reale volontà di arrivare a questo appuntamento in maniera trasparente”.
Con la scarcerazione di San Suu Kyi, secondo Fassino, potrebbe aprirsi “una fase nuova nella vita della Birmania”. “E’ importante che queste elezioni siano trasparenti e vi sia la libertà di partecipare per tutti. Sarebbe per quel paese una pagina nuova, l’avvio di una fase che fino ad oggi è stata impossibile”, ha sottolineato l’inviato Onu.
(apcom)
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15873
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european social model, European Union, financial markets, Lettera degli economisti, Manifeste d’économistes atterrés, public debt, public deficit, speculation
Dalla Francia un nuovo appello contro le politiche restrittive in Europa
dalla redazione di eep – 30.09.2010
Dopo la pubblicazione della Lettera degli economisti, anche gli studiosi francesi hanno prodotto un documento contro le politiche restrittive adottate dai governi europei per fronteggiare la crisi. Il Manifeste d’économistes atterrés riprende i temi della Lettera e sottolinea i rischi legati alle politiche economiche attualmente imposte in Europa e all’assetto istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. Il Manifeste è ora disponibile anche in inglese:
Manifesto of the appalled economists
CRISIS AND DEBT IN EUROPE: 10 PSEUDO “OBVIOUS FACTS”, 22 MEASURES TO DRIVE THE DEBATE OUT OF THE DEAD END
Continua qui: http://www.economiaepolitica.it/index.php/segnalazioni/il-manifesto-degli-economisti-atterriti/
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«L’alto debito è anti-sociale» 30.09.2010
Adriana Cerretelli
José Barroso ieri è stato perentorio: «Deficit e debiti eccessivi sono anti-sociali perchè impediscono alla spesa pubblica di essere investita dove ce ne è bisogno. Per questo bisogna porvi un freno. Prima di precipitare nel baratro». Mentre il presidente della Commissione europea, insieme al commissario Olli Rehn, presentavano le proposte per riformare patto di stabilità e governance economica europea, su Palazzo Berlaymont convergevano migliaia di manifestanti in arrivo da mezza Europa per protestare contro rigore e disoccupazione dilaganti.
«Le proposte di Barroso sono medioevali, uccidono chi è già profondamente ferito. Siamo scesi in strada per dire che siamo ancora in tempo a cambiare rotta. Le misure di austerità adottate da molti governi avranno effetti disastrosi sulle persone e sull’economia», avvertiva John Monks, il presidente della Confederazione dei sindacati europei. Intorno a lui oltre 100mila persone.
Ma a distanza Rehn ha ribadito, in riferimento all’Italia, che «ridurre rapidamente il deficit e il debito pubblico elevato costerà molto ma sarà essenziale per una crescita sostenibile».
La crisi morde, le piazze scalpitano, i mercati hanno rimesso nel mirino Irlanda e Portogallo chiamate a nuove misure di rigore. Da Bruxelles intanto arriva la già nota doccia gelida: una riforma del patto e della governance europea tesa a limitare i margini di manovra dei governi sorvegliandoli sempre più da vicino, sanzionandoli non appena si scostino da una politica di bilancio «prudente», per poi passare a una escalation di misure punitive sempre più pesanti qualora non raddrizzino nei tempi fissati la loro condotta o perseverino nei loro errori.
Per ora è la linea tedesca che ispira quella della Commissione, che tira la cinghia fin dove può senza cambiare i Trattati Ue. Anche se non è affatto escluso che cambino in un second round negoziale. La Germania spinge in questa direzione. La Francia però non sembra disposta a seguirla e con lei, anche se non lo dichiara apertamente, l’intero club-Med, il gruppo dei paesi mediterranei come Italia, Spagna, Portogallo e Grecia.
Ma veniamo al contenuto delle proposte presentate ieri, che prima di poter entrare in vigore dovranno passare al vaglio dei ministri finanziari e del parlamento europeo.
Tutti i paesi euro saranno tenuti a una politica di bilancio prudente per raggiungere l’obiettivo di medio termine del quasi pareggio. Per questo «l’aumento annuale della spesa pubblica non dovrà superare un prudente tasso di crescita a medio termine del Pil». In caso contrario, raccomandazione del Consiglio con richiesta di azione correttiva contestualmente alla creazione da parte del paese di un deposito fruttifero pari allo 0,2% del Pil, dopo un voto a maggioranza “rovesciata” del Consiglio.
In futuro deficit e debiti saranno trattati allo stesso modo. Tutti i paesi con debito superiore al 60%, fissato da Maastricht, dovranno ridurre la distanza dal parametro di «un ventesimo all’anno nel triennio precedente». Se, come sembra, il nuovo patto entrerà in vigore dopo un periodo transitorio (si veda Il Sole 24Ore di ieri), per esempio nel 2014, un paese come l’Italia (in realtà quasi tutti i membri dell’euro) dovrá cominciare dall’anno prossimo a tagliare il debito di quella frazione per evitare di incorrere nella procedura per deficit eccessivo.
Che però «non scatterà in modo automatico e terrà conto di tutti i fattori rilevanti come un’eventuale crescita nominale molto bassa oltre che di fattori di rischio legati alla struttura del debito, all’indebitamento del settore privato, alle esposizioni implicite legate all’invecchiamento della popolazione».
Qualora la procedura scattasse, il paese interessato dovrà creare un deposito, questa volta infruttifero, pari sempre allo 0,2% del Pil. Che potrà in seguito essere trasformato in multa qualora non si rispettassero le misure correttive contenute nella raccomandazione. La multa aumenterà qualora il paese perseverasse sulla cattiva strada. Con possibilità di vedersi sottrarre anche parte dei fondi del bilancio europeo. A parte quello iniziale, ogni passo successivo della procedura scatterà a maggioranza “rovesciata”, cioè la proposta della Commissione sarà ritenuta adottata a meno che l’Ecofin non la blocchi con voto a maggioranza appunto.
Per prevenire o correggere gli squilibri macro-economici dentro l’area euro, in futuro ogni paese sarà oggetto di un esame approfondito, riceverà una pagella con una serie di indicatori che ne stabiliranno lo stato di salute competitivo, tenendo conto tra gli altri di equilibrio dei conti correnti, tassi reali di cambio, debito pubblico e privato. In caso di problemi gravi sarà invitato a correggerli. Altrimenti incorrerà in una multa annua pari allo 0,1% del Pil, decisa sempre a maggioranza “rovesciata”, fino a che non si conformerà alla nuova disciplina del patto di stabilità e di governance europea.
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Nuovo Patto stabilita’, mazzata per l’Italia 30.09.2010
Dopo Basilea3 che mira a rafforzare lo stato patrimoniale delle banche, arriva Bruxelles2, ovvero le nuove norme del patto di stabilita’ proposte dalla Commissione Ue, che hanno come obiettivo di rafforzare la situazione finanziaria degli stati sovrani e di conseguenza l’euro. L’obiettivo e’ di evitare in futuro situazioni come quelle che hanno riguardato questa primavera la Grecia e che hanno esposto l’euro a furiosi attacchi speculativi.
Le sanzioni del nuovo patto
Se le proposte della Commissione europea, fortemente caldeggiate dal Governo tedesco, saranno approvate, ci sara’ un forte giro di vite sugli sforamenti dei conti da parte degli stati, con sanzioni anche pesanti. Le penalita’ colpiscono i membri dell’area euro e Bruxelles punta a rendere esecutive le nuove norme entro la meta’ del 2011.
Quella che penalizza maggiormente l’Italia riguarda il debito pubblico. La Commissione ha proposto che quei paesi con un debito superiore al 60% del Pil, debbano ridurre l’eccesso di un ventesimo ogni anno. In caso contrario, per quel paese verra’ aperta la procedura per deficit eccessivo che implica, in un primo tempo, l’obbligo di effettuare un deposito senza interessi pari allo 0,2% del Pil.
Una mazzata per l’Italia
Se la norma passasse cosi’ per l’Italia sarebbe una mazzata considerato che il nostro debito pubblico sfiora il 120%, quindi esattamente il doppio di quello consentito. Una riduzione di un ventesimo dell’eccesso, pari al 60%, significa una riduzione di quasi 3 punti percentuali all’anno. Per non parlare del rapporto deficit/Pil che dovra’ tornare al piu’ presto entro la soglia del 3% pena l’apertura della procedura per deficit eccessivo che comportera’ l’obbligo di effettuare un deposito senza interessi pari allo 0,2% del Pil presso un conto dell’esecutivo Ue. Tale deposito verra’ convertito in una vera e propria multa se i conti pubblici non verranno sanati. Sarebbe un’altro boccone amaro per l’Italia il cui deficit e’ del 5,2% e nelle attuali condizioni per rispettare il limite del 3% si dovrebbe abbatterlo del 40%.
Se queste norme passeranno per l’Italia si aprira’ una stagione di tagli dolorosissimi necessari per ridurre le spese correnti del deficit e per abbattere il debito pubblico di 1 ventesimo all’anno.
(Vorrebbe dire fare finanziarie da € 50 mld)
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Grandi imprese/10 di Vincenzo Comito
C’è un dinosauro nel salotto 30.09.2010
Mediobanca da Mattioli a Geronzi. L’ex salotto buono del potere economico italiano è adesso un groviglio spaventoso di azioni, dove i controllati controllano i controllanti e viceversa. Un jurassic park del capitalismo nostrano, che rischia di peggiorare con una ancora maggiore concentrazione con Generali
Per molto tempo Mediobanca e Generali hanno costituito quasi un tutto unico; il possesso di una quota azionaria di molto rilievo nel capitale della seconda ha permesso a lungo alla banca d’affari milanese di governare sostanzialmente il colosso assicurativo. Così, ad esempio, tra il 1999 e il 2002 Mediobanca ha cambiato per ben tre volte il presidente della società triestina. Ma negli ultimi tempi il legame sembra indebolirsi. La situazione potrebbe ora cambiare ulteriormente e anche drasticamente a breve. Appare comunque importante trattare insieme delle vicende delle due strutture, che sono oggi al cuore di una inusitata concentrazione di potere industriale-finanziario-politico nel nostro paese e che con le recenti vicende dell’Unicredit sembra avviarsi a diventare ancora più minacciosa.
Mediobanca e la sua storia
Quando, dopo la fine della seconda guerra mondiale, Raffaele Mattioli, allora alla guida della Comit, pensò di creare Mediobanca, il suo obiettivo era quello di avviare una struttura che avrebbe cercato di sopperire ad una deficienza storica del sistema finanziario nazionale, quella della cronica mancanza di fonti di capitale a lungo termine per le imprese (De Cecco, Ferri, 1996).
Lo stesso Mattioli sarebbe peraltro rimasto probabilmente sorpreso se avesse potuto assistere ad alcuni almeno degli sviluppi successivi della sua creatura. Prima Enrico Cuccia indirizzerà progressivamente l’istituto verso orizzonti per alcuni versi diversi da quelli immaginati dallo stesso Mattioli. Il declino relativamente recente dell’istituzione è poi da collegare a diversi mutamenti nella situazione, dall’apertura del mercato finanziario italiano, alla morte dello stesso Cuccia, alla rottura dei rapporti con la famiglia Agnelli. Per quanto riguarda l’evoluzione più recente bisogna ricordare inoltre, oltre alla creazione da parte dell’istituto milanese di una propria banca di deposito, Che Banca!, il cui stile di comunicazione avrebbe fatto certamente inorridire il banchiere siciliano, anche l’arrivo alla presidenza dell’istituto di Cesare Geronzi, un manovriero molto legato ai palazzi romani – per tutta la sua vita Cuccia, al contrario dello stesso Geronzi, si era tenuto lontano da Roma e dalla politica- . Egli è diventato per alcuni anni il presidente della stessa struttura, mentre era toccato da diverse procedure giudiziarie ancora in corso di definizione. Si tratta di una persona interessata soprattutto ai giochi di potere e molto meno allo sviluppo imprenditoriale della struttura, sulla quale peraltro cercano di vegliare dei manager capaci, apparentemente sostenuti sino ad oggi dal maggior azionista dell’istituto, Unicredit, in chiara contrapposizione allo stesso Geronzi; questo almeno prima della cacciata di Profumo dalla stessa Unicredit. Nel frattempo Geronzi è comunque traslocato alle Assicurazioni Generali, da dove ora minaccia di scalare la stessa Mediobanca.
Al momento della sua fondazione, al capitale della banca milanese partecipano in misura maggioritaria le banche appartenenti al gruppo Iri, e, in maniera più ridotta, il grande capitale privato, che sarà comunque il principale beneficiario del sistema.
Con Cuccia la banca diventerà una struttura simile alle storiche banche d’affari di stampo francese, nelle quali, oltre alle attività di investment bank – con la consulenza finanziaria alle imprese, in particolare per le operazioni di ristrutturazione, di fusioni ed acquisizioni, per il reperimento di risorse finanziarie sui mercati, per la collocazione in Borsa, ecc.-, si afferma anche un’attività di presa di partecipazione nel capitale delle stesse imprese. Per molto tempo Mediobanca controllerà nella sostanza gran parte della finanza italiana.
La banca tenderà a concentrare su di sé un grande potere sfruttando anche le risorse delle allora tre banche di interesse nazionale facenti capo all’Iri e delle Generali, nonché mantenendo una estesa rete di relazioni internazionali. La banca diventerà il “salotto buono” delle grandi imprese italiane, dove si concorderanno le strategie di sviluppo, o anche di sopravvivenza, non tanto delle grandi imprese nazionali, ma soprattutto delle grandi famiglie, dagli Agnelli ai Pirelli.
Il sistema Mediobanca
Il sistema messo in piedi da Cuccia poggiava su alcuni pilastri fondamentali:
1) sfruttamento pieno della leva di capitale delle imprese: la formazione di società a cascata permette di controllare con pochi mezzi propri dei grandi gruppi anche molto articolati;
2) emissione di azioni con diritti di voto diseguali: così gli azionisti di controllo possono di nuovo governare con poche risorse dei grandi imperi;
3) partecipazione al capitale dei singoli gruppi, a fini di sostegno, delle altre imprese facenti parte del sistema; tra i vari soci si firma poi un patto di sindacato, blindato a favore della famiglia di riferimento di ogni società;
4) reperimento delle risorse finanziarie necessarie ai vari gruppi da parte di Mediobanca, tramite la rete delle banche Iri e Generali.
Così è accaduto, nel caso più estremo, che la famiglia Pirelli e poi Tronchetti Provera controllassero un gruppo di grandi proporzioni come la stessa Pirelli detenendo soltanto circa lo 0,7% del suo capitale sociale complessivo.
Ma il salotto buono escludeva una serie di nuovi attori che si affacciavano progressivamente sulla scena del nostro paese, da De Benedetti a Berlusconi , mentre si occupava comunque poco o per nulla delle medie e piccole imprese. Inoltre, esso gestiva gli affari delle aziende ignorando del tutto la tutela delle minoranze azionarie – in realtà si trattava spesso di maggioranze, senza alcuna rappresentanza e senza alcun potere – e con una totale opacità informativa.
Ma progressivamente il sistema Mediobanca perde colpi; l’emergere di altri protagonisti industriali che, esclusi dal sistema, riescono comunque ad andare avanti per altre vie, soprattutto l’apertura delle frontiere finanziarie con l’arrivo di aggressivi concorrenti, nazionali e non, che oggi fanno una concorrenza spietata alla banca milanese, degli attriti sempre più evidenti con alcuni grandi partner, la cessazione del sostegno finanziario da parte di alcuni grandi gruppi bancari nazionali alle operazioni della stessa Mediobanca, che ora si trova a disporre in maniera sicura soltanto delle risorse di Che Banca!, piuttosto ridotte, sembrano segnare quanto meno il declino dell’istituzione, colpita poi anche dalla morte di Cuccia.
Per andare avanti intanto la media impresa, in mancanza nel nostro paese del sistema della haus bank, ricorreva ad una serie di misure alternative: essa puntava, oltre che sull’autofinanziamento, sulla rete di parentele e relazioni, mentre stringeva dei legami, a volte favoriti da reti politiche, con le banche locali, ecc.; ma in molti casi essa era alla fine costretta, per carenza di risorse finanziarie, a ridimensionare i suoi piani di sviluppo.
Oggi Mediobanca è un istituto di nessun peso sul piano internazionale, con una posizione certo di rilievo sul mercato italiano delle attività di investment bank, ma niente di più; essa mantiene un’importanza fondamentale nel sistema finanziario del nostro paese soprattutto per il fatto che detiene delle partecipazioni azionarie strategiche in alcune grandi imprese.
Azionisti e partecipazioni
Appare a questo punto necessario delineare il quadro dei maggiori azionisti di Mediobanca e della Generali, nonché quello delle loro principali partecipazioni. Le cifre che seguono sono di larga massima. Esse sono tratte dai bilanci delle due società, integrate da alcuni articoli di stampa ( tra i quali: Righi 2010, Giannini 2010, a, Giannini, 2010, b, Manacorda, 2010)
Il capitale di Mediobanca vede la presenza di Unicredit con l’8,7% del totale, azionisti esteri con circa il 10% (Bollorè e Groupama francesi, con circa l’8% e la tedesca Commerzbank); ci sono poi le quote di varie banche e fondazioni bancarie, anch’esse abbastanza rilevanti, infine Mediolanum (Doris- Berlusconi) con il 3,4%, Fondiaria-Sai (Ligresti) con il 3,8, la stessa Generali con il 4%.
Appare opportuno segnalare che la composizione dell’azionariato è cambiata abbastanza nell’ultimo periodo. Così, ad esempio, sono usciti dei soci storici importanti come Fiat e il gruppo Orlando, mentre sono rimasti Pirelli e Ligresti, è entrato il duo Berlusconi-Doris, si sono affacciate le fondazioni bancarie, resta anche al suo posto il gruppo francese guidato da V. Bollorè (Mucchetti, 2010, a).
Per quanto riguarda invece le partecipazioni dell’istituto, prima di tutto bisogna ricordare il possesso del pacchetto di azioni di controllo relativo delle Generali, con un 15% circa del capitale di questa società, poi l’1,4% in Banca Intesa -Generali a sua volta ha il 4,7% della stessa Intesa-; Mediobanca possiede inoltre il 14,5% di Rcs –che controlla a sua volta, tra l’altro, il Corriere della Sera- e partecipa al patto di sindacato della casa editrice, che vede presenti anche Generali, con il 3,9%, poi Fiat, Pirelli, Banca Intesa, quest’ultima con il 5%, nonché la Fonsai di Ligresti- ; l’istituto, insieme ancora a Generali, partecipa al controllo anche di Telecom Italia, attraverso la Telco, con un 12,98% del capitale della stessa, mentre sempre Generali ha il 28,0%, Telefonica il 46,2% e Intesa San Paolo l’11,6%.
I maggiori azionisti del Leone, oltre a Mediobanca, già citata, sono la Banca d’Italia con il 4,49%, De Agostini con il 2,7%, Caltagirone con il 2%, Intesa con l’1,4%, Blackrock, un grande fondo statunitense, con il 2,9%. Il 70,9% si trova invece collocato sul mercato.
A sua volta Generali, con il 4% di Mediobanca, è uno dei soci più importanti del patto di sindacato della banca d’affari; l’istituto assicurativo è anche azionista di rilievo di Banca Intesa con il 5.0% circa, partecipa al patto di sindacato Pirelli con il 5,5%, sempre insieme a Mediobanca – che possiede il 3,95%- e anche a Intesa San Paolo e a Fonsai. Ha ancora partecipazioni in Impregilo – il 3,3% -, nell’Editoriale l’Espresso – il 2,0% -, nella Saras di Moratti – con il 5,0% -, oltre alle quote in alcuni grandi gruppi assicurativi e bancari internazionali.
Come si può constatare, si tratta di un groviglio spaventoso di azioni, dove i controllati controllano i controllanti e viceversa (Giannini, 2010, a). I molteplici conflitti di interesse che questa situazione genera sono tenuti sotto controllo da un sistema di complicità diffuso e da una totale acquiescenza da parte delle cosiddette autorità di controllo. Si è creato così un gruppo di potere dalle dimensioni mostruose, per altro verso un jurassic park del capitalismo nostrano (Giannini, 2010, c), anche se per la verità i due attuali responsabili operativi della stessa banca hanno cercato di recente di eliminare alcuni di tali grovigli; essi sono riusciti così a vendere le quote azionarie precedentemente possedute dalla banca in Ciments francais, Commerzbank, Fonsai, Ferrari, Fiat, dimezzando così i pacchetti azionari acquisiti nell’era Cuccia.
Mentre quest’ultimo era comunque molto selettivo nella scelta dei partecipanti al salotto buono, la situazione attuale è diversa. Come già accennato, Geronzi ha spinto in direzione di un avvicinamento della galassia Mediobanca-Generali alla politica, in particolare verso Berlusconi e Tremonti e ha stretto ancora di più i legami con l’imprenditoria più bisognosa di sostegno finanziario e meno incline invece all’innovazione imprenditoriale (Pirelli, Ligresti, Impregilo, Benetton, Caltagirone e simili). Egli ha così contribuito in misura rilevante al deterioramento del già controverso modello del salotto buono.
Alla fine, il periodo della gestione Geronzi a Mediobanca non ha prodotto nulla di nuovo sul piano imprenditoriale, ma esso ha innovato abbastanza sul fronte delle relazioni di potere nel nostro paese. Il nuovo incarico del soggetto, come presidente di Generali, potrebbe portare più o meno agli stessi effetti, anzi c’è anche da temere che la situazione si aggravi rapidamente.
(continua – prossima puntata sulle Generali)
Testi citati nell’articolo
-Bennewitz S., Generali, l’agenda del dopo-Bernheim, La Repubblica, Affari & finanza, 15 marzo 2010
-Bonafede A., Concentrazioni, i magnifici cinque gruppi, La Repubblica, Affari & finanza, 26 aprile 2010, a
-Bonafede A., Il nuovo ciclo di Generali, La Repubblica, Affari & finanza, 31 maggio 2010, b
-Comito V., Storia della finanza d’impresa, Utet libreria, Torino, 2002, 2° volume
– De Cecco M., Ferri G., Le banche d’affari in Italia, Il Mulino, Bologna, 1996
-Giannini M., Geronzi verso le Generali, il potere economico si blinda, La Repubblica, 1 febbraio 2010, a
-Giannini M., La mossa del gattopardo, La Repubblica, 27 marzo 2010
-Giannini M., Fusione Mediobanca-Generali, Geronzi prepara la nuova battaglia, La Repubblica, 4 aprile 2010, c
-Lex, Generali/Mediobanca: gerontocratic Italy, www.ft.com, 18 febbraio 2010
-Manacorda F., Generali, l’era Geronzi, più poteri agli azionisti, La Stampa, 24 aprile 2010
-Mucchetti M., Il potere dei manager e la nuova Mediobanca, Corriere della sera, 20 maggio 2010, a
-Mucchetti M., Polizze, la grande sfida con Allianz e Axa, Corriere della Sera Economia, 22 marzo 2010, b
-Righi S., Generali, la potente ragnatela del Leone, Corriere della Sera Economia, 22 marzo 2010
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/C-e-un-dinosauro-nel-salotto-6463
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Inchieste/Le grandi imprese/11 di Anna Donati
I feudatari del casello 30.09.2010
Nonostante la crisi Autostrade per l’Italia continua a produrre utili, grazie all’aumento delle tariffe e ai sistemi telematici di pagamento. Ma che non mantiene le promesse sugli investimenti fatte al momento della privatizzazione. Radiografia di un gruppo privato molto vicino al potere politico
Un agile libretto scaricabile dal sito di Autostrade per l’Italia, espone il punto di vista della società sui risultati e di numeri a dieci anni dalla privatizzazionei , da cui è bene partire per analizzare i dati odierni strettamente legati alla sua storia recente.
Autostrade per l’Italia gestisce oggi (direttamente e con le sue controllate) 3.400 km di rete italiana, ed è presente in India, Brasile, Cile, Usa e Polonia, con circa 900 km di autostrade a pedaggio grazie ad acquisizioni avviate nel 2005. Circa cinque milioni di viaggiatori utilizzano ogni giorno la sua rete e nonostante sia nata per “accorciare” l’Italia, in realtà oggi il 60% degli utenti ed il 48% delle merci non fa più di 50 km per ogni viaggioii.
Gestisce anche una serie di società di servizi tra cui Spea (primaria società di progettazione) e Pavimental (manutenzione e pavimentazioni autostradali ed aeroportuali). Detiene anche dal 2005 una partecipazione non consolidata del 33,3% nella Igli, la finanziaria di Impregilo, operazione effettuata come ha dichiarato per prestare “soccorso finanziario del gruppo Impregilo, primo General Contractor in Italia”.
A sua volta Autostrade per l’Italia è di proprietà al 100% di Atlantia, la holding autostradale di proprietà del gruppo Benetton, che ne detiene il 39,03% attraverso Sintonia S.A. Quindi al termine dei diversi processi di riorganizzazione legati alla privatizzazione prima ed alla scalata poi (con l’offerta pubblica di acquisto lanciata dalla famiglia Benetton), Atlantia è la holding strategica e Autostrade per l’Italia è la società operativa, che hanno lo stesso presidente, Fabio Cerchiai, e lo stesso amministratore delegato, Giovanni Castellucci. Complessivamente lavorano nelle diverse attività e società di Atlantia circa 10.000 dipendenti.
Prima di passare ai numeri e risultati della società Atlantia va rammentato che il processo di privatizzazione è stato lungo e pieno di polemiche. Non solo per le modalità di privatizzazione avviate dal governo Prodi nel 1997 di una rete fondamentale per il paese data in concessione ai privati fino al 2038, ma anche per il debole sistema di regolazione che è stato adottato successivamente e che il governo Berlusconi ha definitivamente affondato nel 2008 con l’approvazione per legge della Convenzione unica. Dieci di dibattito politico, istituzionale ed economico, dove va riconosciuto che sono di sicuro Atlantia/Autostrade per l’Italia che hanno vinto e piegato ogni resistenza, in cambio della promessa di mirabolanti investimenti autostradali per 25 miliardi di euro nei prossimi anni.
La Convenzione unica tra Anas ed Autostrade venne sottoscritta il 12 ottobre 2007 (durante quindi il governo Prodi con ministro Di Pietro), ma è diventata operativa solo dopo una forzata approvazione “per legge” grazie alla conversione del decreto legge 59/2008 del governo Berlusconi e della maggioranza di centrodestra in parlamento. La nuova Convenzione elimina il price cap, cioè il sistema che legava (se pur in misura debole) le tariffe alla verifica puntuale della qualità del servizio all’utenza sulla base di precisi parametri. Introduce l’adeguamento automatico annuale delle tariffe fino al 2038 riconoscendo il 70% dell’inflazione reale, slegandole dagli investimenti reali e dalla qualità del servizio (anzi per ulteriori investimenti sono previsti ulteriori adeguamenti tariffari aggiuntivi) e stabilisce un sistema di sanzioni e penali per il rispetto degli impegni.
Anche l’Unione Europea si è resa complice di questa regolazione “debole”, dato che, in tempi di crisi e bisognosa di investimenti privati, è stata disposta ad accettare proroghe delle concessioni anche se in contrasto con le direttive, ed è anche intervenuta aprendo una procedura d’infrazione per evitare “discriminazioni” verso il soggetto privato Autostrade da parte dello stato Italiano, come viene naturalmente sottolineato nel libretto edito dalla società.
Richiamo questa storia sia per rinviare ogni approfondimento al bel libro di Giorgio Ragazzi “I Signori delle Autostrade”iii e sia perché come vedremo ha riflessi leggibili sul bilancio di Atlantia S.p.A., con gli aumenti tariffari, i dati di traffico, l’indebitamento, la spesa per investimenti, l’utile netto.
Se analizziamo i dati dell’esercizio 2009 di Atlantiaiv approvati nel bilancio consolidato 2009v emerge che nel 2009, nonostante la crisi economica il traffico complessivo sia rimasto stazionario (-0,13% rispetto al 2008) pur in presenza di un cambiamento qualitativo: crescono le automobili e calano in modo significativo i veicoli per il trasporto merci (-7,1%) legati alla congiuntura economica negativa. In termini di ricavi da traffico del gruppo Autostrade questo ha fatto registrare una diminuzione di 1,2% rispetto al 2008.
I ricavi netti da pedaggio di Atlantia nel 2009 sono stati 2.946,4 milioni di euro e presentano un incremento rispetto al 2008 del 3,6% (103,4 mln), determinati dall’incremento del 2,4% delle tariffe scattate dal 1 maggio (circa 20 mln), dall’incremento del canone dei concessione per Anas stabilito con normavi che la società ha ribaltato sugli utenti (82,3 mln di euro di ricavi) e dalle variazioni di traffico, in particolare con il calo sulle autostrade polacche ed il consolidamento su quelle cilene.
Complessivamente i ricavi consolidati di Atlantia si attestano nel 2009 a 3.611 milioni di euro con un incremento del 3,9% rispetto al 2008 pari a + 133,9 milioni di euro. Oltre ai ricavi da pedaggio già sopraindicati sono registrati sul bilancio 2009 altri ricavi per lavori su ordinazione (50,2 mln) e 604 mln di ricavi derivanti principalmente da royalties per subconcessioni e ricavi da canoni Telepass e Viacard.
Scrive Atlantia nella relazione che se si valutano le variazioni del perimetro di consolidamento e l’ incremento del canone di concessione destinato ad Anas (ribaltato sugli utenti), facendo un raffronto su base omogenea, la crescita dei ricavi nel 2009 si attesta sull’1%.
I costi operativi netti di Atlantia ammontano a 1.406,3 milioni di euro e si incrementano di 44,8 mln rispetto al 2008, pari a + 3,3%, dovuto al risultato tra minori costi operativi esterni e maggiori unità lavorative e dell’incremento secondo il nuovo contratto del costo medio del lavoro.
Il margine operativo lordo (rapporto costi/ricavi) nel 2009 è stato pari a 2.204 milioni di euro, in aumento calcolato su base omogenea del 3,7%. Sulla pubblicazione di Autostrade per l’Italia viene sottolineato con grande enfasi il miglioramento della redditività del gruppo che dal 1999 al 2009 raddoppia il Mol, passando da 1.037 milioni di euro a 2.204 mln. Questo risultato è stato ottenuto dalla somma di diversi fattori: +336 mln dovuti ad un incremento dell’efficienza operativa (ad esempio: meno caselli con operatore e più caselli con Telepass, con oltre il 74% dei pagamenti che avviene con modalità automatiche), +236 mln da sviluppo delle attività accessorie (subconcessioni aree di servizio, canone Telepass), +286 mln da aumenti tariffari ( al netto degli incrementi dei canoni di concessione ad Anas), +166 mln da incremento del traffico che ha generato nuovi ricavi.
E’ lo stesso documento che chiarisce che le tariffe in questi dieci anni sono cresciute come l’inflazione: ponendo nel 2000 un indice 100, nel 2009 tariffe autostradali ed inflazione si attestano a 121,8. Potrebbe sembrare un dato equilibrato ma se calcoliamo che le tariffe fino al 2008 dovevano servire anche a pagare investimenti che in buona parte sono ancora da fare, gli incrementi si sono trasformati soprattutto in utili per la società, passati da 300 mln del 1999, a 503 mln del 2002, a 803 mln del 2005, per poi arretrare lievemente, sia a causa della crisi economica, delle operazioni finanziarie effettuate, e per il fatto che alcuni investimenti come la Variante di Valico sono davvero partiti e quindi sono aumentati ammortamenti ed oneri finanziari.
Nel bilancio 2009 l’utile netto di Atlantia è stato pari a 690,7 milioni di euro con una flessione del 6% rispetto al 2008, quando l’utile si era attestato su 734,8 milioni di euro, scontando svalutazioni nette pari a 85 milioni di euro. Di queste – a quanto si può dedurre dalla relazione – ben 67,4 milioni di euro sono state perdite dovute alla riduzione di valore della partecipazione in Igli, e cioè l’operazione di salvataggio verso la società Impregilo, sostenuta da Autostrade insieme al gruppo Ligresti ed al gruppo Gavio in modo paritetico. Il 12 giugno 2010 Autostrade ha siglato un accordo con Ligresti e Gavio per il rinnovo del patto parasociale in Igli fissato fino al 31 luglio 2012. Va inoltre ricordato che Atlantia ha una partecipazione significativa pari all’ 8,85% della nuova Alitalia di Colaninno.
Il patrimonio netto di Atlantia nel 2009 è stato pari a 3.865,2 milioni di euro, con un incremento rispetto al 2008 di 249,7 milioni di euro. Elevatissimo l’indebitamento finanziario netto del gruppo che al 31 dicembre 2009 ammontava a 10.372,1 milioni di euro, con un aumento di 617,3 milioni di euro rispetto al 2008, che nella relazione viene motivato con un aumento del perimetro delle attività (partecipazione gruppo itinere) e con la realizzazione di maggiori investimenti sulla rete. Ma è noto che questo forte indebitamento è dovuto al prezzo pagato per la scalata di Autostrade con il lancio nel 2002 dell’opa da parte di Schemaventotto (azionisti Benetton con il 60%, Cassa di risparmio Torino, Acesa, Unicredit, Assicurazioni Generali, Brisa), costato 7 miliardi e poi in buona parte trasferito nella riorganizzazione societaria da Atlantia su Autostrade per l’Italia. Scalata che è stata oggetto di forti critiche perché avvenuta senza l’esborso di capitali propri e interamente a debito da ripianare con i futuri ricavi da pedaggio, grazie alle regole particolarmente favorevoli di adeguamento tariffario e di convenzione. (vedi nota ìì – pag. 117). Ma resta comunque difficile da comprendere come il gruppo riuscirà a ridurre in maniera significativa il debito nei prossimi anni, vista l’evidente frenata dell’economia, del Pil e quindi del traffico.
Il 3 agosto 2010 il Consiglio di Amministrazione di Atlantia ha approvato la relazione finanziaria semestrale al 30 giugno 2010vii dove grazie agli aumenti tariffari scattati dal 1 gennaio i conti migliorano decisamente. Si sottolinea che il confronto è relativo allo stesso semestre del 2009 dove la crisi economica è stata più pesante del 2010.
I ricavi totali nei primi sei mesi del 2010 ammontano a 1.778 mln e si incrementano del 10, 3% mentre i ricavi netti da pedaggio sono stati 1.472,5 con un incremento complessivo di 174,6 mln di euro, pari al 13,5%. La relazione spiega che questi incrementi sono legati ad una lieve ripresa del traffico (+0,6%) in particolare di quello pesante, agli aumenti tariffari scattati sia nel 2009 che nel gennaio 2010 (2,4% ogni anno che hanno portato ben 75 mln circa di ricavi in più nel semestre) ed all’incremento di pedaggio per pagare l’incremento del canone di concessione dovuto ad Anas e ribaltato sugli utenti, che ha fatto incassare altri 92,6 mln. Il Margine Operativo Lordo è stato pari a 1.077 milioni di euro con una crescita su base omogenea rispetto al semestre 2009 del 9,5% e l’utile netto si è attestato a 310 mln, con un incremento del 5,5%. Possiamo dire che nel primo semestre del 2010 i conti di Atlantia migliorano sostanzialmente grazie agli incrementi tariffari automatici assicurati dalla Convenzione unica e quindi sono pagati dagli utenti.
Uno dei temi sempre oggetto di confronto istituzionale e polemica politica sono gli investimenti che la società Autostrade si è impegnata fin dal 1997 a realizzare. Il documento sul decennio dalla privatizzazione di Autostrade riassume tutti gli impegni pari a 21,9 miliardi di euro ed il loro stato di attuazione al 31 dicembre 2009, così ripartiti:
nella Convenzione del 1997 erano previsti investimenti per 3,5 miliardi di euro, i cui costi sono oggi lievitati a 6,5 mld e di cui ne sono stati realizzati 3,1 mld. Tra le opere in corso vi è la nota Variante di Valico Bologna-Firenze che dovrebbe essere già stata conclusa secondo la convenzione da tempo
gli interventi inseriti nel IV atto aggiuntivo alla Convenzione nel 2002 prevedevano opere per 4,4 miliardi di euro, il cui costo oggi è lievitato a 7 mld e di cui sono realizzati, 0,9 miliardi. Tra le opere principali previste c’è il passante di Genova su cui è stato svolto un dibattimento pubblico sulla utilità e sugli impatti ambientali dell’opera
anche la Convenzione del 1997 prevede nuovi investimenti per circa 5 miliardi, per interventi di 3°e 4° corsie da realizzare nel decennio 2008-2018
infine vi sono gli interventi previsti dalle società controllate tra cui la SAT titolare dell’Autostrada della Maremma, con impegni previsti per 1,3 miliardi e realizzati per 0,8 mld. Da un agile conto complessivo emerge che gli investimenti da realizzare da parte di Autostrade costano 21,9 miliardi di euro, di cui ne sono stati realizzati a fine 2009 5,1 miliardi di euro, circa un quarto.
Da un agile conto complessivo emerge che gli investimenti da realizzare da parte di Autostrade costano 21,9 miliardi di euro, di cui ne sono stati realizzati a fine 2009 5,1 miliardi di euro, circa un quarto. Debito da abbattere, investimenti da realizzare: per queste ragioni la società ha esercitato ogni pressione ed ha ottenuto dall’Anas, dai decisori pubblici e dalla politica di svincolare l’aumento delle tariffe dalla realizzazione effettiva degli investimenti.
Per inciso va sottolineato che da sola l’Autostrada della Maremma della Sat costa 3,8 miliardi di euro ma al momento gli impegni contrattualizzati sono per realizzare 4 km tra Rosignano e San Pietro in Palazzi per 45 milioni di costo. Mentre sul resto dell’autostrada dopo le prescrizioni del Cipe (che ha imposto un valore di subentro per lo Stato pari a zero), le prescrizioni ambientali della Commissione di valutazione di impatto ambientale sul progetto preliminare e la discussione ancora aperta con enti locali ed associazioni ambientaliste sull’impatto dell’opera, la stessa Sat ha annunciato di voler modificare il tracciato, per utilizzare anche nel tratto Grosseto-Civitavecchia l’attuale tracciato del’Aurelia, al fine risparmiare risorse per l’investimento che dovrebbe in questo modo aggirarsi su 2,2 miliardi di euro. Staremo a vedere.
Abbiamo sempre criticato come ambientalisti le attuali regole dove sono le concessionarie a fare la politica dei trasporti in Italia, con programmi per nuove autostrade, terze e quarte corsie, condizionando la politica, i ministri per le infrastrutture, i governi nazionali , regionali e locali, tanto più in tempi difficili per le scarse risorse pubbliche. In questo modo le autostrade si autoriproducono e prosegue la corsa alla crescita del traffico motorizzato.
Il gruppo Autostrade nel documento ( vedi nota ì – pag.44) fa anche il punto sulla strategia generale di sviluppo in Italia, dichiarando che a causa delle difficoltà autorizzative e della mancanza di risorse pubbliche è stata costretta ad “abbandonare molti progetti ( per esempio Brebemi, Pedemontana Lombarda, Arcea Lazio, Nuova Romea).” E’ un’affermazione davvero spudorata, basti pensare che nel caso di Brebemi, dopo aver messo in piedi un’Ati (associaizone temporanea di imprese) e vinto la gara per la concessione, ottenuto tutte le autorizzazioni e la convenzione in project financing, ha deciso di uscire dalla società quando i cantieri stavano per partire e di concentrarsi sulla quarta corsia Milano-Bergamo-Brescia della sua rete. Una scelta strategica prudente e precisa, certo senza costrizioni e che tiene evidentemente conto del livello di indebitamento e dei tanti impegni ancora da attuare per gli investimenti sulla propria rete.
Va anche detto che la società ha sviluppato a partire dagli anni 90 anche sistemi tecnologici avanzati come il Telepass, che gli ha consentito sia di migliorare il servizio all’utenza e sia di promuovere in altri paesi questa nuova tecnologia. Anche sul fronte sicurezza sono stati fatti, con l’introduzione del tutor istallato su 2200 km di rete, ottimi passi in avanti: dal 1990 al 2009 il tasso di mortalità è passato da 1,14 a 0,32 con una riduzione del 72%. Qualche timido tentativo di innovazione si registra anche sul fronte dei servizi all’utenza, con la promozione del Car Pooling sull’autostrada Milano-Laghi, lanciato qualche mese fa da Autostrade per risparmiare traffico ed inquinamento e di cui sarebbe interessante conoscere i primi risultati.
L’aumento di valore della società è partito dopo la sua privatizzazione con un valore per ogni azione pari a circa 7 euro per poi crescere costantemente fino al novembre 2007 quando Atlantia ha raggiunto in Borsa il valore di 27,2 euro per azione. Poi con la crisi economica internazionale anche il suo valore si è drasticamente ridimensionato toccando i minimi ( circa 10 euro per azione) nel marzo 2009, per poi risalire lentamente ed attualmente posizionarsi su circa 15 euro per azione.
Stranamente ( ma non troppo) nel documento di bilancio decennale non si fa cenno alla mancata fusione con Abertis, progetto di assoluta rilevanza presentato dalla società nel 2006 e fermato dal governo Prodi, perché invece di essere una fusione che valorizzava un asset fondamentale del Paese, si configurava come una svendita della società. Secondo quanto ha detto l’ammnistratore delegato Castellucci in un’intervista, si è trattato di un progetto fermato “illegittimamente” ma poi lo stesso Castellucci conclude l’intervistaviii dichiarando che “eravamo un’azienda forte prima, lo siamo ancora di più oggi”.
i Autostrade per l’Italia. Autostrade a dieci anni dalla privatizzazione. Fatti, numeri e risultati. Aprile 2010.
ii Le percorrenze sulla rete Autostrade per l’Italia. Studio che analizza i comportamenti di viaggio in autostrada, anno 2007. A cura di Autostrade per l’Italia (maggio 2008)
iii Giorgio Ragazzi. I Signori delle Autostrade. Edizioni Il Mulino, Studi e Ricerche, 2008
iv Atlantia. Relazione Finanziaria Annuale 2009.
v Atlantia. Comunicato stampa: Approvati il bilancio consolidato 2009 ed il progetto di bilancio dell’esercizio 2009. 5 marzo 2010
vi Legge 3 agosto 2009 n. 102, di conversione del DL 78/2009
vii Atlantia. Comunicato Stampa. Approvata la relazione finanziaria consolidata semestrale al 30 giugno 2010, redatta in conformità all’IFRIC 12
viii La Repubblica. Affari&Finanza. Castellucci: “Ecco perché guadagniamo”. Parla l’amministratore delegato di Atlantia:”Siamo efficienti”. 14 dicembre 2009
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/I-feudatari-del-casello-6464
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India, biometria a tappeto 30.09.2010
I dati identificativi di 1,2 miliardi di cittadini da inserire in un enorme database. La scansione dell’iride e un numero di 12 cifre serviranno a garantire migliori condizioni di welfare. Qualcuno contesta
Roma – Ci vorranno almeno cinque anni, e un massiccio investimento di circa 180 milioni di euro. Le autorità indiane sembrano però più che determinate a portare a termine un progetto che restituirà al mondo la più vasta raccolta nazionale di identificativi biometrici.
Un database necessario, almeno secondo il Primo Ministro Manmohan Singh e il leader del Partito del Congresso Indiano Sonia Gandhi. I dati archiviati servirebbero non soltanto per prevenire attività fraudolente, ma anche per permettere ai cittadini più poveri di avere accesso a vari, fondamentali servizi pubblici.
L’obiettivo del governo indiano è più che ambizioso: arrivare entro cinque anni alla schedatura online di quasi 1,2 miliardi di individui. I dati verranno così raccolti sfruttando le tecnologie d’identificazione biometrica, compresa la scansione dell’iride. Ad ogni cittadino verrà quindi assegnato un numero di 12 cifre.
Che sarà poi sfruttabile per accedere a determinati servizi legati al welfare, oltre che per ottenere documenti come un passaporto e aprire account in banca. Un meccanismo che servirà inoltre per prevenire furti d’identità e rendere più efficaci determinati accessi alla burocrazia elettronica.
C’è tuttavia chi ha storto il naso, ricordando i tentativi del governo indiano di monitorare le comunicazioni cifrate a mezzo BlackBerry. Una richiesta estesa anche a tutte quelle società che sfruttino il meccanismo di cifratura per i propri servizi online. Qualcuno ha poi ipotizzato una spesa di molto superiore a quella annunciata.
Secondo i critici, il governo dell’India dovrebbe pensare di più a migliorare i servizi verso le comunità più povere anziché fornire loro un accesso facilitato. Per non parlare delle incertezze legate agli stessi meccanismi biometrici, di gran lunga lontani da quelli futuribili osservati in certe pellicole di fantascienza.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/3001360/PI/News/india-biometria-tappeto.aspx
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La seconda integrazione della Germania 04.10.2010
GIAN ENRICO RUSCONI
All’appuntamento del ventesimo anniversario della sua riunificazione la Germania riceve un segnale forte e inatteso. «Io sono il presidente di tutti, anche il presidente dei tedeschi musulmani e dei musulmani che vivono in Germania. Io dico no a ogni scontro tra le fedi e le culture, il futuro appartiene alle nazioni che sanno essere multiculturali». Sono le parole del Presidente federale, Christian Wulff, alla sua prima importante uscita pubblica.
Di colpo, quella che rischiava di essere una celebrazione quasi di routine dell’anniversario della riunificazione ha acquistato un plusvalore nuovo. «Unità della nazione» non significa più soltanto definitiva e riuscita integrazione della popolazione delle regioni orientali, ma anche delle forti comunità di immigrati, soprattutto di religione islamica.
I tedeschi non saranno affatto sorpresi di questo allargamento di prospettiva e dell’energico intervento del loro Presidente. Da qualche tempo infatti sembra ritornata in Germania la paura che la grande comunità immigrata di religione musulmana non si lasci «integrare» come si vorrebbe o si sarebbe atteso. Naturalmente la questione non è né originale né semplice – e se ne dibatte da tempo. La novità è lo stupefacente divario che si è creato nelle scorse settimane tra la classe politica e milioni di cittadini di fronte alle provocatorie tesi di un libro scritto da Thilo Sarrazin (un politico socialdemocratico tutt’altro che privo di esperienza politica e amministrativa) sulla «non-integrabilità» degli immigrati di cultura islamica. Non è questa la sede per esaminare criticamente queste tesi che alla fine ricorrono ad una inconsistente teoria genetica per spiegare la mancata integrazione degli immigrati.
Fermamente respinte dal ceto politico e dalla stragrande parte della pubblicistica, le tesi di sapore razzista hanno incontrato un inaspettato e intenso consenso in molti strati della popolazione. Il libro è diventato un bestseller.
Sarebbe semplicistico qualificare tutto questo come un pericoloso ritorno di razzismo in Germania. La questione è complessa e delicata. Nonostante gli sforzi volonterosi e le dichiarazioni politicamente corrette, l’integrazione degli immigrati islamici sembra presentarsi oggettivamente di difficile soluzione. Molti si chiedono se la classe politica e dirigente tedesca nel suo insieme sia all’altezza della situazione.
Le parole del Presidente sono un segnale di attenzione e insieme una promessa di rinnovato impegno. In questo contesto ha coniato una nuova espressione: unverkrampfter Patriotismus – un patriottismo rilassato e fermo ad un tempo. Un concetto che potrebbe segnare simbolicamente una nuova fase di sensibilità pubblica. Essa integra e completa idealmente quel «patriottismo normale» che è emerso in questi anni in Germania ed è confermato dal clima che si respira proprio nel ventennale della riunificazione.
A questo proposito il bilancio retrospettivo non può essere che positivo. Viste a tanti anni di distanza le modalità politiche ed economiche dell’operazione della riunificazione confermano che non c’erano realistiche soluzioni alternative. Questo non vuol dire che non si siano commessi errori nella gestione della bancarotta economica della ex Ddr e soprattutto nell’approccio verso la popolazione dell’est, che aveva vissuto per quarant’anni «sotto» o «insieme con» il regime comunista. Vittima, complice o consenziente.
In realtà questo capitolo è ancora aperto. Si assiste ad uno straordinario riemergere delle memorie di quel periodo e alla loro verbalizzazione pubblica, stimolata e ripresa dai media – dopo anni di sussurri e di rimozione. Si tratta di memorie e storie personali molto diversificate, a seconda dell’età e delle generazioni, a seconda dei modi molto diversi in cui gli interessati sono stati partecipi o sono rimasti coinvolti, più o meno passivamente, nell’esperimento politico e sociale tentato dalla Germania comunista. Non si è trattato infatti semplicemente di un esperimento politico autoritario ma di un coinvolgimento profondo – volontario o coatto – di un intero modo di esistere.
Per ora non si capisce se tutto questo rimarrà un patrimonio riservato alla popolazione orientale, ancora una volta riconfermata nella sua diversità, o non venga lentamente acquisito come patrimonio comune di una intera nazione ritrovata.
Nazione ritrovata, nazione normale, e ora anche nazione impegnata verso una difficile multiculturalità.
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Il Nobel per la medicina a Edwards 04.10.2010
Il britannico premiato per le sue ricerche sulla fertilità in vitro
STOCCOLMA
Il padre della fecondazione in provetta, il britannico Robert Edwards, è l’unico vincitore del Nobel per la medicina 2010. Nella motivazione del riconoscimento assegnato Robert G. Edwards, pioniere di una tecnica che ha avuto fortissime ricadute nella società e che ha partire dal 1978, anno di nascita della prima bambina in provetta, Louise Brown, ha finora ha portato alla nascita di circa 4 milioni di persone in tutto il mondo. Professore emerito dell’università di Cambridge, Edwards ha da poco compiuto 85 anni.
È nato in Gran Bretagna, a Manchester, il 27 settembre 1925, ed ha gettato le basi della fecondazione artificiale negli anni ’60 e ’70 insieme al ginecologo Patrick Steptoe, morto nel 1988. Dopo aver combattuto nella seconda guerra mondiale, Edwards ha studiato biologia prima negli Stati Uniti e poi in Scozia, dedicandosi agli studi di embriologia.
Nel 1958 è diventato ricercatore dell’istituto Nazionale per la Ricerca Medica e Londra, dove ha cominciato le ricerche su processo di fecondazione, A partire dal 1963 ha proseguito il suo lavoro a Cambridge, prima nell’università e poi nella clinica Bourn Hall. Qui, con Streptoe ha fondato il primo centro al mondo per la fecondazione assistita, che ha diretto per molti anni.
Oltre 4 milioni i figli della provetta
http://www3.lastampa.it/scienza/sezioni/news/articolo/lstp/348142/
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Il “suicidio” politico di Zapatero
Elena Marisol Brandolini, 02.10.2010
A due giorni dal grande sciopero generale in Spagna abbiamo incontrato Fernando Lezcano López, CC OO – Segretario di Comunicazione, Portavoce e Coordinamento degli Organi della Direzione. Con lui abbiamo tracciato un bilancio dell’iniziativa di lotta e un quadro dei possibili futuri scenari politici ed economici spagnoli, a partire dalle difficoltà del governo socialista. “Perché un conto è che Zapatero decida di suicidarsi, un altro è che il PSOE decida di accompagnarlo nel suicidio”
Il giorno dopo lo sciopero la stampa spagnola ha parlato di sciopero sindacale non generale, si è vista una tendenza a ridurre l’impatto politico della mobilitazione dei sindacati. Dicono che la caduta nel consumo elettrico per quel giorno sia stata inferiore di alcuni punti a quella dello sciopero del 2002. Effettivamente, nei settori pubblico e nei servizi l’adesione non è stata alta. Voi avete sostenuto che è stato un successo indiscutibile. Sulla base di quali elementi fate questa affermazione?
Fondamentalmente su tre fattori. In primo luogo l’adesione massiccia nell’industria che è indiscutibile. In secondo luogo, il comparto dei servizi è ampio: abbiamo registrato una partecipazione allo sciopero maggioritaria nei settori della pulizia, dei trasporti, specie nei porti e negli aeroporti. Il sostegno all’iniziativa è stata minore nella funzione pubblica, nelle amministrazioni dello Stato, delle Autonomie; però stiamo parlando del settore più colpito dai tagli della manovra governativa di rientro del deficit, che era già stato chiamato allo sciopero di categoria nei mesi passati. E, comunque, questo non condiziona il bilancio complessivo dello sciopero. Ma, soprattutto, è la caduta del consumo di energia elettrica di più del 20%, unitamente alla scarsa mobilità che si è registrata nelle città, simile a quella di un giorno festivo, ad avvalorare il nostro giudizio positivo. L’impresa di distribuzione dell’energia elettrica aveva anticipatamente ridotto le previsioni di consumo energetico per il giorno dello sciopero ed è su quella base già ridotta che è stato misurato il consumo reale, confrontandone l’esito con quello del mercoledì della settimana precedente.
Avete detto di avere fatto lo sciopero in un clima di generale ostilità. A chi vi riferivate: alla stampa, al patronato, ai partiti, ai mercati che appena il giorno dopo hanno declassato il debito pubblico spagnolo?
Lo sciopero è stato un successo nonostante un’ostilità generalizzata. Nel 2002, nello sciopero contro il governo Aznar, il PSOE era all’opposizione e ci aiutò nella riuscita dell’iniziativa; oggi il PSOE è al governo e l’opposizione ambisce a governare. L’ostilità è venuta dalla destra e soprattutto dalla destra mediatica. I titoli dei mezzi d’informazione che hanno cercato di screditare la riuscita dello sciopero e l’iniziativa di Moody’s sono un chiaro avvertimento: che non si sogni il governo di cambiare qualcosa della sua politica economica; noi leggiamo il giudizio di Moody’s emesso il giorno dopo lo sciopero, come una strategia del settore finanziario di pressione nei confronti del governo.
Il governo ha scelto di assumere un profilo basso nei confronti della vostra iniziativa, non ha dato cifre generali, si è “limitato” ad affermare che l’adesione è stata moderata e poco quantificabile nell’insieme. Dopo lo sciopero, avete avuto qualche segnale concreto di volontà di riprendere il dialogo con voi da parte del governo? Cosa vi aspettate faccia, in prima battuta? Tu stesso non hai escluso nuove mobilitazioni…
Dopo lo sciopero, il governo non ha dato alcun segno di disponibilità al dialogo, ha confermato le sue posizioni. E’ nel gioco delle parti che il governo non possa rettificare la sua politica subito, il giorno dopo… Però è un atteggiamento che può mantenere solo per un certo tempo, perché stiamo entrando in un ciclo elettorale che non lo rende possibile: tra due mesi si vota in Catalogna e i pronostici sono tutt’altro che positivi per i socialisti, a Madrid si stanno per celebrare le primarie all’interno del partito socialista per scegliere il candidato alle prossime elezioni della Comunità Autonoma, nella primavera prossima ci saranno le elezioni nelle Autonomie ed è la scadenza che più si avvicina a un test politico generale, e poi ci sono le elezioni politiche nel 2012. Il governo dovrà allora dimostrare quello che vuole fare, perché un conto è che Zapatero decida di suicidarsi, un altro è che il PSOE decida di accompagnarlo nel suicidio. Credo che il sindacato dovrà mantenere la mobilitazione aperta, nelle diverse forme possibili.
Il segretario generale di CC OO, Ignacio Fernández Toxo, ha detto “una legge si cambia con un’altra legge”, riferendosi alla riforma del mercato del lavoro contro cui avete fatto lo sciopero. Ci sono, secondo voi, le condizioni politiche, prima ancora che economiche, perché il governo faccia marcia indietro? Quali sono i punti della riforma del mercato del lavoro che considerate più “odiosi” socialmente?
La nostra iniziativa produrrà qualche risultato solo nei prossimi mesi, dipende da come evolverà il disagio e il malessere nel governo e nel partito socialista. Per quanto riguarda la riforma, sono tre i punti su cui insistiamo per una rettifica: quello riguardante la disciplina del licenziamento, quello relativo alla contrattazione temporanea che viene istituzionalizzata come modalità di accesso al mercato del lavoro e quello che si riferisce alla contrattazione collettiva. Sono temi che si possono affrontare con formule diverse, con un cambiamento legislativo o, per esempio, come nel caso della contrattazione collettiva, approfittando del negoziato con le imprese per ridiscutere il modello contrattuale, che avrà un passaggio di confronto anche con il governo.
Il vostro sciopero ha coinciso con l’iniziativa europea della CES contro le politiche neoliberiste della UE e dei governi europei. Le politiche di rientro dal deficit nei paesi europei hanno avuto lo stesso segno, sia se fatte da governi di destra che da governi di sinistra. La manovra di bilancio per il 2011 presentata ieri in parlamento dal governo spagnolo, è incentrata tutta su un taglio degli investimenti pubblici pari al 30%. Si può invece, secondo voi, uscire dalla crisi economica a sinistra, dando una risposta ai problemi del lavoro, non scaricando il prezzo della ripresa tutta sulla pelle di lavoratrici, lavoratori e pensionati e sullo stato sociale? E’ possibile un’altra politica economica che sia anche di contenimento del debito e che favorisca sviluppo e occupazione, salvaguardando i diritti di chi lavora?
L’Unione Europea ha fatto della riduzione del deficit la sua priorità in luogo della ripresa economica, i paesi non hanno fatto tutti la stessa cosa: nessuno, per esempio, ha fatto la riforma del mercato del lavoro che si è fatta in Spagna; in Portogallo, la manovra di rientro dal deficit si è avvalsa anche della leva fiscale; in Spagna si è optato per una strategia di rientro dal deficit pubblico a carico della parte più debole della società. Certo che si può dare una risposta diversa di uscita dalla crisi economica; c’è un economista, in Spagna, che fa l’esempio di una famiglia indebitata, che, per risanare la propria situazione debitoria comincia a vendere tutti i beni che ha; se però quella famiglia non si preoccupa anche di aumentare le entrate, arriverà un momento in cui non potrà più far fronte al debito… Certamente il deficit va combattuto, ma si può fare non solo con la riduzione delle spese, ma anche generando, attraverso la politica fiscale, nuove entrate per le casse pubbliche, per esempio reintroducendo alcune imposte (di successione e sul patrimonio), tassando le società a capitale variabile, combattendo le frodi fiscali e l’economia sommersa. E poi c’è una questione di priorità anche nel combattere il deficit: oggi la priorità è data dalla riattivazione dell’economia e la creazione di occupazione. Come Obama ha fatto negli Stati Uniti – e si è trovato solo a sostenere questa strategia nella riunione del G20 – iniettando risorse pubbliche nel settore delle infrastrutture, perché ha considerato che dovesse essere prevalente l’obiettivo della ripresa economica su quello della riduzione del debito pubblico, che pure è uno dei più alti al mondo.
Un’ultima domanda: quanto è pesato il “fattore Zapatero” nel risultato della mobilitazione sindacale? Siete riusciti ad intercettare parte importante del malcontento che viene dall’elettorato socialista che ha il suo principale bacino nel mondo del lavoro?
Certamente è così: Zapatero non lo votano quelli che oggi appoggiano le sue politiche economiche, non gli imprenditori, né i mercati finanziari, o Moody’s. Lo votano i settori interclassisti medi e il mondo del lavoro. Nello sciopero generale, una parte significativa di questo elettorato ha detto che non è d’accordo con le politiche del governo. Anche perché Zapatero ha vinto le elezioni politiche con un programma sociale molto diverso da quello che ha poi messo in atto.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15891
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Raffaele Simone: “Perchè l’Europa si schiera a destra”
Articolo di , pubblicato domenica 12 settembre 2010 in Francia.
Come spiegare il crollo della sinistra europea, proprio quando il continente subisce i contraccolpi della crisi finanziaria nata dagli eccessi del liberalismo ? Il saggio dell’italiano Raffaele Simone Il Mostro Mite. Perchè l’Occidente non va a sinistra, finalmente pubblicato anche in Francia da Gallimard, ci aiuta a capire.
Linguista di fama internazionale, filosofo simpatizzante della sinistra, Raffaele Simone ha pubblicato in Italia diverse opere ed articoli di critica, fra cui ricordiamo Il Paese del Pressappoco, Garzanti Libri 2005.
La sua analisi è severa. Secondo lui, la sinistra non è più portatrice di un grande progetto “all’altezza del (suo) tempo”. Al contrario, la nuova destra prevale perché ha capito la nostra epoca consumistica, individualista, frenetica e mediatica, e sa mostrarsi pragmatica e senza ideologia. Questa destra pigliatutto si è alleata agli imprenditori ed ai signori dei media per promuovere una società basata sul divertimento e sulla difesa degli interessi a breve termine, promettendo, allo stesso tempo, la sicurezza e la lotta all’immigrazione. Un progetto che Raffaele Simone definisce “il mostro mite”.
Dalla sua pubblicazione in Italia nel gennaio 2009, il saggio ha fatto scorrere fiumi di inchiostro negli ambienti della sinistra europea. La rivista La Discussione gli ha dedicato cinque articoli importanti nel dossier “Declino della sinistra in Occidente ?”. E a gennaio 2010 Laurent Fabius e la Fondazione Jean Jaurès hanno invitato il linguista al dibattito “La sinistra all’epoca della globalizzazione”.
In Francia ci si potrebbe meravigliare di una simile critica della sinistra, quando il governo appare invischiato nel caso Woerth-Bettencourt. A sinistra i sondaggi non sono sfavorevoli, ma il PS non ha ancora elaborato una posizione chiara né sulle pensioni né sulla sicurezza e l’immigrazione. Si tratta quindi di una problematica cruciale, sulla quale Nicolas Sarkozy ha assunto l’estate scorsa posizioni rigide che non gli hanno attirato altro che ostilità. Al contrario, per Raffaele Simone questa nuova destra e le sue derive – che definisce “mostro mite” – sta conquistando l’Europa. Lo studioso ha risposto alle domande di “Le Monde Magazine”.
Chi è il “mostro mite” del Suo libro ?
Raffaele Simone: In La democrazia in America, Alexis de Tocqueville descrive una nuova forma di dominio, che s’insinuerebbe fin nella vita privata dei cittadini, sviluppando un autoritarismo “più esteso e più dolce” che “degraderebbe gli uomini senza tormentarli”. Questo nuovo potere, per il quale – dice – “non si adattano i vecchi termini dispotismo e tirannia”, trasformerebbe i cittadini che si sono battuti per la libertà in “una folla indistinta di uomini tutti uguali (…) che si affannano per procurarsi dei meschini e volgari piaceri, (…) e in cui ognuno di essi, ognuno per conto proprio, è come estraneo al destino degli altri”.
Isolati, presi dalle proprie distrazioni, concentrati sui propri interessi immediati, incapaci di organizzarsi per resistere, questi individui delegano, quindi, il loro destino ad “un potere immenso, tutelare, che si fa carico di assicurare il loro godimento (…) e che non fa altro che tentare di tenerli irrimediabilmente confinati nell’infanzia. Questo potere vuole che i cittadini si godano la vita, purché pensino solo a questo. Esso provvede alla loro sicurezza (…), favorisce i loro piaceri (…). Non piega la volontà, ma la infiacchisce, la spegne, la inebetisce”.
Era una specie di profezia, ma oggi ci siamo arrivati. E’ il “mostro mite” di cui l’Italia mi sembra essere l’avanguardia, il prototipo riuscito. Si tratta di un regime globale di governo, ma anche di un sistema mediatico, televisivo, culturale, cognitivo, una forma di ambiente ”infantilizzante” persistente che pesa su tutta la società.
Questo regime si appoggia ad una destra anonima e diffusa associata al grande capitale nazionale e internazionale, più vicina agli ambienti finanziari che a quelli industriali, influente sui media, interessata a quell’espansione del consumo e del divertimento che considera come la vera missione della modernità, decisa a ridurre il controllo dello Stato ed i servizi pubblici, ostile alla lentezza del processo decisionale democratico, sprezzante della vita intellettuale e della ricerca, impegnata a sviluppare un’ideologia del successo individuale, ad imbavagliare l’opposizione, violenta nei confronti delle minoranze, populista nel senso che aggira le regole della democrazia in nome di ciò che “vuole il popolo”.
In Italia, l’amministrazione Berlusconi incarna questa destra fino a un livello caricaturale. In Francia, dall’epoca dalla famosa cena al Fouquet’s [la sera dell’elezione di Nicolas Sarkozy], ed oggi con il caso Bettencourt, il governo ha rivelato più volte le sue relazioni col mondo degli affari e dei media, e il presidente Sarkozy ha dato scandalo con la sua onnipresenza in televisione ed il suo tenore di vita da star. La sua mi sembra il perfetto esempio della politica di questa nuova destra che rifiuta sia di spaventare che di imporsi ai più ricchi, scegliendo di tagliare i servizi pubblici e flirtando col populismo e con determinate tesi dell’estrema destra.
Nel Suo saggio il “mostro mite” s’impone alla modernità per mezzo di tre comandamenti. Quali sono ?
Il primo comandamento è consumare. È la chiave del sistema. Il primo dovere civico. La felicità risiede nel consumo, nello shopping, nel denaro facile; si preferisce lo spreco al risparmio, l’acquisto alla sobrietà, il mantenimento del proprio stile di vita al rispetto dell’ambiente. Il secondo comandamento è divertirsi. Il lavoro, sempre più svilito, diventa secondario nell’impero della distrazione e del divertimento. Ciò che conta è il tempo libero, i week-ends, i ponti, le vacanze, le serate,la tv via cavo, le presentatrici nude (e non solo nella televisione di Berlusconi), i videogiochi, le trasmissioni popolari, la diffusione degli schermi.
Il divertimento scandisce ogni momento della vita, detta il calendario persino in casa propria dove il televisore, le consolle e il computer occupano un posto centrale. Il divertimento riempie tutto lo spazio, riformatta le città storiche, squadra i luoghi naturali, costruisce alberghi giganteschi e centri commerciali sulle spiagge più belle, crea villaggi turistici nelle dittature più infami.
Persino i più gravi fatti di attualità si trasformano in divertimento. La prima guerra irachena, lo tsunami, le catastrofi naturali, i drammi umani diventano spettacoli, videogiochi in tempo reale o sceneggiati emozionanti. I dibattiti politici diventano guerre di slogan, sfilate di personaggi, quando i ministri non sono addirittura ex modelle che hanno posato nude sulle ”prime pagine” di tutti i tabloids – come in Italia con Mara Carfagna, ministro per le pari opportunità, o con Daniela Santanché, sottosegretario di non so cosa.
La proliferazione di gadgets, portatili, tavolette informatiche fa sì che ci ritroviamo accerchiati, sommersi, dissolti negli schermi. Sotto il regime del “mostro mite” la realtà scompare dietro il sipario del divertimento. Non c’è più nulla di grave, di importante. Dopo il lavoro, la vita diventa un vero carnevale, le decisioni importanti vengono prese dalle “beautiful people”, ossia politici e grandi capitalisti, tutto diventa pixel, virtuale, irreale, vita di/da stars.
La crisi economica, la speculazione finanziaria, i piani di rigore, gli attentati alle libertà e le collusioni fra uomini politici ed ambienti affaristici – in Francia come in Italia – sono episodi presto dimenticati di un grande “reality show”.
E il terzo comandamento ?
È il culto del corpo giovane. Della giovinezza. Della vitalità. L’infantilizzazione degli adulti. In questo caso il “mostro mite” si manifesta in mille modi, terrorizza tutti quelli che ingrassano, avvizziscono e invecchiano, complessa le persone naturalmente riservate, esclude quelle anziane.
Ringiovanire è diventato un’industria martellante. Ovunque ci giriamo, siamo spinti a fare diete, a spendere una fortuna in cosmetici per apparire lisci, slanciati, adolescenti, ad investire in chirurgia estetica, lifting, Botox, come Silvio Berlusconi, l’eterno abbronzato.
Non credo sia mai esistita una società succube di una tale tirannia del corpo e della gioventù. E ciò comporta gravi conseguenze morali. Si diffonde dappertutto un egoismo arrogante, giovanilista, ipervitaminico, che ostenta un aperto disprezzo per la fatica, per il corpo sofferente, per i vecchi, i brutti, gli handicappati, per tutti coloro che smentiscono il mito dell’eterna giovinezza. E nel frattempo i ragazzi rifiutano di invecchiare, diventano anoressici o bulimici, lasciano i genitori a trent’anni.
Ovunque si rigetta qualunque atteggiamento adulto, riflessivo, intellettuale, giudicato “out”, inutile, triste. Si è obbligati ad essere “sintonizzati”, tutto deve andare velocemente: il successo, i soldi, gli amori. Nei suoi saggi il sociologo polacco Zygmunt Bauman si chiede, disarmato: “Dov’è finita la compassione ?” Eccolo il “mostro mite”: un mondo di piacere senza compassione.
Ma in che modo il “mostro mite” e la nuova destra si fondono ? E perché prevalgono in tutta Europa ?
Un mondo in cui il consumatore ha sostituito il cittadino, in cui il divertimento soppianta il realismo e la riflessione e in cui regna l’egoismo, mi sembra favorevole alla nuova destra, che d’altronde gli spiana la strada e lo coltiva, dal momento che i suoi valori ed interessi vanno di pari passo con la crescita del consumo e della globalizzazione dell’economia, ricca di promesse.
In questo senso dico che questa nuova destra, consumistica, populistica, mediatica, liftata, abbarbicata alle catene televisive, che istiga a guadagnare sempre più, difendendo i piccoli proprietari, dichiarando obsolete le idee di uguaglianza e solidarietà, diffidente nei confronti di poveri ed immigrati, è più vicina agli interessi immediati della gente, più adatta all’atmosfera generale dell’epoca, in qualche modo più “naturale”. Ed è per questo che vince.
Di fronte a lei, la sinistra sembra non aver capito nulla dell’autentico sconvolgimento “di civiltà” derivante dalla vittoria dell’individualismo e del consumismo, restando appigliata solamente alle sue idee sociali.
Bisogna aggiungere che difendere le idee di giustizia, di solidarietà, di aiuto ai diseredati, essere lungimiranti e preoccuparsi dell’avvenire del pianeta sembra oggi un atteggiamento scomodo, coraggioso, ma – ahimé – contrario all’interesse egoistico a breve termine. Costa, esige sforzi. È per questo che la sinistra perde.
Lei sostiene che la sinistra non capisce più la nostra epoca. Potrebbe farci qualche esempio di tale incomprensione ?
Fin dagli anni Ottanta e dagli inizi della globalizzazione, la lista dei cambiamenti radicali che i dirigenti della sinistra non hanno capito è incredibile. Molti di loro hanno resistito all’idea dell’unificazione europea (un grande progetto nato comunque fra le loro fila), quindi hanno criticato la riunificazione tedesca dopo la caduta del Muro. Si sono opposti a lungo, con forza, alla critica ecologista della produzione sfrenata, che avrebbe potuto trarli d’impaccio. Hanno negato la comparsa di un fattore etnico nella sfera politica. Fino a poco tempo fa si sono rifiutati di discutere di immigrazione di massa e di clandestini, mostrandosi lassisti su questi problemi.
Proprio loro, i difensori della laicità, non sono stati chiari nella loro critica dell’islam radicale, sulle questioni del velo e della visibilità dei simboli religiosi. Hanno dimostrato la stessa cecità nei confronti della violenza urbana e della sicurezza, valutandone solo le cause e non gli effetti.
Si ostinano a ignorare l’invecchiamento della popolazione e – come in Francia – a non cambiare posizione sulle pensioni. Hanno lasciato la difesa degli operai e dei salariati ai sindacati e non hanno più nulla dei partiti popolari. Non hanno capito la crescita di potenza dei Paesi emergenti (Cina, India, Brasile), che si accingono a dominare il mondo. Non hanno colto granché dalle nuove culture dei giovani, edoniste, individualiste, alternative, né della formidabile crescita dei mezzi di comunicazione di massa, del potere della televisione, di Internet e del mondo digitale. Ciò fa tanto.
E, se si sommano tutte queste cantonate si vede che hanno ignorato come, nelle senescenti popolazioni europee, la modernità ha generato un aggregato inquietante e caotico di minacce e di paure alle quali solamente la destra e l’estrema destra sembrano oggi in grado di rispondere. Mentre la sinistra, se fosse stata attenta agli ambienti popolari, ne avrebbe dovuto fare una delle sue bandiere.
Lei dice, inoltre, che nessuno più conosce i grandi contributi della sinistra in Europa. Ci faccia capire…
In effetti, al giorno d’oggi non molti sanno ciò che l’Europa moderna deve alle lotte dei partiti di sinistra, alle battaglie dolorose e sanguinose per affermare i diritti dei lavoratori, la libertà di associazione, le libertà civili, le ferie pagate, l’assicurazione contro le malattie, le pensioni, l’istruzione obbligatoria, la laicità repubblicana, il suffragio universale, i diritti delle donne, i servizi pubblici, l’uguaglianza davanti alla legge, la regolazione statale degli abusi di potere, ecc.
La sinistra, dal punto di vista ideologico, ha dilapidato ciò che costitutiva il suo patrimonio: non lo rivendica più, ha addirittura paura di rivendicarlo; lo ha lasciato senza paternità, tanto che esso è diventato parte integrante dell’identità europea.
Guardate per esempio come, dopo la terribile crisi finanziaria del 2008, la destra liberale, pragmatica e senza esitazione, ha allegramente pescato in Europa e altrove nel catalogo delle classiche idee di sinistra, nazionalizzando le banche e mostrandosi interventista. La sinistra non ci ha ricavato nulla in termini di forza e credibilità, al contrario: si è lasciata rubare quel poco che le rimaneva nel suo bagaglio d’idee.
E perché ? Perché da anni, assai più ideologica e chiusa della destra, non ha proposto nulla di nuovo e di consono alla modernità. Si è contentata di ripetere formule già fatte (penso, per esempio, al “care” di Martine Aubry, che somiglia molto all’assistenzialismo degli anni Settanta), non riuscendo poi a realizzare i suoi ultimi grandi progetti…
Quali ?
L’elenco degli evidenti insuccessi della sinistra appare lungo quanto quello delle sue conquiste. Non è riuscita a ridurre le sperequazioni, che diventano sempre più gravi fra poveri, classi medie e ricchi; non è riuscita a tenere sotto controllo il capitalismo finanziario, consentendo alla destra di farlo a modo suo, cioè solo in parte; non ha saputo mettere in campo provvedimenti in materia di solidarietà che aiuterebbero davvero i più deboli a risollevarsi; non ha alzato il livello medio d’istruzione e di cultura; non ha posto fine al metodico sfruttamento di lavoratori e salariati; non ha saputo imporre né l’uguaglianza né la parità fra uomini e donne; ha permesso che la scuola pubblica diventasse meno attraente di quella privata; non ha contribuito alla formazione di una coscienza civica; non è riuscita a ridurre l’impatto della crescita sull’ambiente, ecc.
Come spiegare questi clamorosi insuccessi ? A parer mio si tratta sia di cause peculiari alla sinistra che esterne ad essa. Ci sono, anzitutto, gli effetti di quella specie di terremoto che si è verificato a partire dagli anni Ottanta con l’aumento vertiginoso dei consumi, la prepotente crescita dell’individualismo, l’onnipotenza della televisione e dello schermo: si tratta di altrettanti fenomeni che hanno profondamente sconvolto “lo spirito dei tempi”.
Al cospetto di simili cambiamenti, le proposte sociali della sinistra – uguaglianza, solidarietà e ridistribuzione della ricchezza – appaiono superate sia al singolo individuo che al consumatore contemporaneo; e questo è tanto più vero in quanto queste idee sembrano appartenere a un’ideologia associata ad una storia terribile: il passato comunista.
Lei pensa che per i cittadini la sinistra conservi ancora un colore comunista, anche dopo il crollo dei partiti comunisti europei ?
L’ombra storica del comunismo continua a pesare sulla sinistra, eccome ! Il fatto che il socialismo al potere abbia assunto una forma comunista, ossia una successione di regimi tirannici, miserabili e criminali, rimane nella memoria di tutti. Soprattutto in Europa, dove questo terribile passato risorge regolarmente ogni volta che scopriamo nuovi, terribili documenti su quell’epoca, sui comportamenti criminali delle nomenklature, sulle forzate ammissioni di colpa dei più grandi intellettuali.
E nel contempo, il crollo violento e grottesco del comunismo ha significato il crollo di taluni dei grandi miti dell’intera sinistra. L’idea secondo cui essa avrebbe cambiato il mondo con la “rivoluzione” – sia che fosse violenta, come volevano i bolscevichi, sia che fosse graduale, come pensavano i socialdemocratici – ha fatto cilecca.
Chi è che oggi vuole ancora la rivoluzione ? E per eleggere quale tipo di governo ? Quanto ai roboanti discorsi sulla “lotta di classe” o, addirittura, sull’”odio di classe”, sappiamo fin troppo bene che essi portano alla guerra civile e al dispotismo.
Le nozioni di “progresso” e di “progressismo”, stando alle quali la sinistra dovrebbe lottare per un futuro migliore, muovendosi in direzione della storia e della libertà dell’uomo, oggi, dopo le rivelazioni dei libri neri del comunismo, vacillano come in seguito agli effetti disastrosi delle nostre industrie e del progresso tecnico sull’ecologia del pianeta.
Allo stesso modo, l’intrinseca incapacità della pianificazione socialista a sviluppare un’economia prospera e ad evitare la pauperizzazione generale, e il suo dirigismo restio ad ogni spirito d’iniziativa, hanno distrutto i sogni di un’economia statalista e livellatrice, evidenziando, al contrario, i vantaggi del libero scambio e del mercato, a dispetto delle sue crisi e della sua brutalità.
Ciò malgrado, esistono ancora degli “intellettuali di sinistra” che giustificano l’epoca socialista e lo statalismo fanatico. Uomini di sinistra o di estrema sinistra che continuano a demonizzare il mercato e si definiscono “anticapitalisti” o “antiamericani”; uomini che mettono in mostra pericolose simpatie nei confronti di regimi dittatoriali come la Cuba di Fidel Castro o il Venezuela di Hugo Chavez. Essi danno prova di colpevole negligenza nei confronti dell’islamismo o del terrorismo, che essi “comprendono” oppure “giustificano”.
Molte delle elezioni perse dalla sinistra non comunista sono andate così proprio perché non ha saputo chiarire le sue differenze di fondo rispetto ai tragici errori del passato e quindi i suoi avversari di destra la mettono nello stesso calderone; come fa Berlusconi, che non parla mai di “sinistra” ma sempre di “comunisti”.
Dopo il fallimento del comunismo e della sua mitologia, Lei vede avvicinarsi il fallimento del socialismo e delle idee sociali. Perché ?
Tirate le somme, cosa rimane nel serbatoio d’idee della sinistra europea non comunista ? Non molto. L’aspetto sociale, il riformismo, la regolazione degli eccessi del liberalismo… Ma anche in questo il discorso appare debole, minimalista, senza autentica visione d’insieme. Molte delle tesi proposte mi sembrano scollate dalla realtà, oscillando fra l’assistenzialismo dello Stato-Provvidenza e una politica di centro-sinistra edulcorata, parente di quella della destra centrista o cristiana.
In Italia, per esempio, la sinistra ha cercato di allearsi ai democristiani, arrivando a formare un partito di coalizione, il Partito Democratico. Priva di identità politica, questa sinistra light, centrista, che ha paura di sembrare di sinistra, in cui nessuno si riconosce (né quelli di sinistra né i cattolici), ha subito una severa disfatta alle elezioni del 2008 confrontata con gli uomini di Berlusconi. Risultato: il suo primo segretario, Walter Veltroni, veterano comunista, si è dovuto dimettere [nel 2009].
In effetti, parecchie posizioni della sinistra edulcorata somigliano a quelle dei cristiano-sociali (in particolare l’assistenzialismo, lo statalismo, la tolleranza nei confronti della delinquenza sociale e l’immigrazione clandestina), il tutto avvolto in un’aura confessionale. Si tratta, in questo caso, di un modo di riempire il “serbatoio” delle idee che io definisco “fusionismo”, che poi è un pò “confusionismo”. Ce ne sono altri.
In Gran Bretagna la “terza via” promossa dal New Labour si lascia alle spalle un Paese in cui le disuguaglianze sociali non sono mai state così grandi, senza aver portato a termine la ricostruzione dei servizi pubblici dissanguati da Margaret Thatcher.
In Francia come in Italia, ci sono esponenti della sinistra che suggeriscono che i socialisti dovrebbero concentrarsi sulla difesa dei diritti delle minoranze, delle donne, degli omosessuali, degli immigrati, dei clandestini, dei detenuti… Si tratta di una politica che si presenta come radicale, ma che porta ad esigere la totale gratuità dei servizi pubblici, una politica lassista in materia di sicurezza.
Altri propongono di orientarsi verso la solidarietà (il famoso “care”), considerando le persone anzitutto come delle vittime, dimostrando una filantropia ed una condiscendenza che non mi sembrano in linea con le idee della sinistra.
Tutte queste improvvisazioni nella ricerca di soluzioni mancano di rigore, non aiutano a definire una politica di largo respiro, non fanno progredire la riflessione su un vero riformismo di sinistra che sia all’altezza del mondo moderno, basato sul consumismo e sulla globalizzazione. Ecco perché mi pare che, in questo inizio di ventunesimo secolo, il serbatoio di idee della sinistra sia quasi del tutto prosciugato.
Non riesce ad immaginare una nuova sinistra che sia all’altezza dei tempi ?
Credo che una nuova sinistra avrà molto da fare, ammesso che una sinistra con questo nome possa ancora esistere. A mio avviso, dovrebbe rompere con la vecchia sinistra, senza rinnegare i valori storici costitutivi della sinistra non comunista. Dovrebbe riaffermare i propri valori senza edulcorarli, adattarli alla nostra epoca, riparare i profondi misfatti culturali del “mostro mite”. Ampio, immenso programma !
Affermare il ruolo dello Stato nella regolamentazione degli eccessi del mercato e del capitalismo finanziario. Mettere in campo servizi pubblici efficienti. Investire in università e scuole di alto livello. Difendere rigorosamente la laicità dalle intrusioni religiose. Garantire in modo durevole e senza lassismo la sicurezza dei cittadini. Sostenere con forza la ricerca. Appoggiare la creazione di media e televisione di qualità.
La nuova sinistra dovrebbe ispirarsi alle esperienze della socialdemocrazia dei Paesi del Nord Europa, che ha rotto col vecchio paradigma dell’assistenzialismo e dello Stato-Provvidenza per promuovere l’emancipazione dell’individuo senza abbandonarne nessuno, correggendo la disuguaglianza sociale con la mutua assistenza. Mutua assistenza: è una parola che, effettivamente, sembra impronunciabile ai tempi del “mostro mite”, una parola di sinistra.
http://italiadallestero.info/archives/10151
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Guerra occulta contro la Russia? 01.10.2010
Alessandro Lattanzio
Il 13 settembre, tre dipendenti russi della Sukhoj Design Bureau sono morti inaspettatamente, nella base aerea indonesiana Sultan Hasanuddin della città di Macassar nella Provincia di Sud Sulawesi. Stavano lavorando in Indonesia al trasferimento dei caccia acquistati in Russia. L’ambasciata russa ritiene che la morte dei tre ingegneri russi sia un incidente. Il Capo del Dipartimento Consolare presso l’Ambasciata russa in Indonesia, Vladimir Pronin, ha osservato che la teoria dell’avvelenamento premeditato sia priva di fondamento. “Consideriamo la morte di tre cittadini russi come un incidente. La teoria dell’avvelenamento premeditato avanzata da alcuni media russi è priva di fondamento“, ha detto il diplomatico, in diretta sul canale televisivo dei notiziari Rossija 24. “L’ambasciata non ha ricevuto alcuna relazione forense ufficiale dai medici indonesiani sulle cause della morte dei tre specialisti russi. Nel frattempo, abbiamo prestato attenzione a una dichiarazione che aveva fatto il capo del servizio medico alla stampa locale, che considera l’avvelenamento da metanolo causa della morte dei cittadini russi“. L’ambasciata russa “né smentisce questa affermazione e nè può sostenerla“, perché tale documentazione forense non è stata presa in considerazione dagli specialisti russi, ha osservato Pronin.
Il Capo medico della polizia, Brigadier Generale Musaddeq Ishaq aveva riferito dei risultati dell’autopsia a Giacarta. L’avvelenamento da metanolo, che ha indotto problemi di respirazione e un attacco di cuore, potrebbe avere causato la morte degli ingegneri russi, ha osservato. Ma solo il mese precedente, il 2 agosto, moriva misteriosamente il Maggior-Generale Jurij Ivanov, vice capo dell’intelligence militare russa, il cui corpo in decomposizione è stato trovato su una spiaggia turca ad agosto, dopo che era scomparso nella vicina Siria. Il 28 agosto, 12 giorni dopo, il corpo di Ivanov è stato trovato da pescatori turchi nella provincia di Hatay, il giornale l’esercito russo, Stella Rossa, ha riferito che il Generale era morto in un “incidente di nuoto“, in prossimità del porto siriano di Tartus. Ma si specula sul fatto che il Generale sia stato ucciso, l’ultimo di una serie di omicidi politici in Medio Oriente in questi anni. Sebbene sia possibile che la morte di Ivanov sia legata al suo lavoro nell’intelligence militare russa (GRU), nell’ambito del quale, nel periodo 2000-2006, ha condotto la campagna contro i separatisti ceceni, in effetti avrebbe diretto la liquidazione di vari dirigenti, tra cui Zelimkhan Jandarbiev, eliminato in Qatar nel 2004, i media russi tuttavia hanno messo in dubbio la versione ufficiale della morte di Ivanov, notando che, come ufficiale dell’intelligence di alto livello, sarebbe sempre stato sotto la costante protezione delle guardie del corpo. Commenta Svobodnaja Pressa: “Spie di tale rango sono ben protette, come regola generale, e non muoiono per caso…”
Ivanov è stato visto l’ultima volta il 2 agosto, mentre visitava il sito in cui una base navale russa è in costruzione, presso Tartous, per la flotta del Mar Nero. Il giornale turcoVatan ha riferito, il 1 settembre, che Ivanov era scomparso dopo aver lasciato la base per un incontro con ufficiali dei servizi segreti siriani. Non è chiaro se era accompagnato da aiutanti o guardie del corpo, ma se non lo era, sarebbe stato altamente inusuale.
Intanto, aldilà dai dubbi sollevati da queste morti improvvise e oscure, gli israeliani sono preoccupati dal fatto che Mosca utilizzerà la base navale di Tartous, pronta per il 2013, insieme a una stazione di sorveglianza elettronica, che potrebbero spiare le loro comunicazioni e movimenti militari. I russi stanno costruendo la base, che potrebbe ospitare le navi da guerra di grandi dimensioni, in caso di alta tensione tra Israele e la Siria, Libano e Iran dall’altra. Gli israeliani hanno avvertito Damasco che rischia di essere colpita, se continua a fornire missili e altre armi a Hezbollah, a dispetto della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu emessa dopo la guerra di 34 giorni tra Israele ed Hezbollah, nel 2006. Inoltre, Israele si è scagliato contro la vendita alla Siria, da parte della Russia, di missili da crociera. L’attacco è venuto poco dopo il ministro della difesa russo, Anatolij Serdjukov, aveva detto ai giornalisti che Mosca potrebbe procedere col contratto del 2007 per la fornitura a Damasco di 72 missili cruise anti-nave P-800 Jakhont, del valore di 300 milioni di dollari. Dotati di una testata di 200 kg e una gittata di 300 km, i nuovi missili cruise siriani sono enormemente precisi, progettati per volare a pochi metri sopra la superficie dell’acqua, rendendo estremamente difficile intercettarli e identificarli con il radar.
Il giornale israeliano Haaretz ha riferito che la Siria ha già ricevuto i missili. “Le armi“, ha detto il giornale, “hanno raggiunto l’esercito siriano in queste ultime settimane, nonostante la forte pressione israeliana su Mosca per sabotare l’accordo.” Ha citato anonime fonti diplomatiche, e indica anche che contatti e iniziative diplomatiche con il Cremlino sarebbero stati fatti. Tra questi rientra anche la minaccia di recedere dal contratto con la Russia, per la fornitura dei Velivoli Senza Pilota (UAV). Difatti l’esercito russo avrebbe bisogno di 100 UAV e almeno di 10 sistemi di controllo guida e per assicurare la ricognizione efficace dei campi di battaglia, perciò Mosca ha firmato due contratti per la fornitura di UAV da Israele. Col primo contratto, firmato nell’aprile del 2009, Israele ha consegnato due sistemi Bird Eye 400 (del valore di 4 milioni di dollari), otto UAV tattici Vista MK150 (37 milioni) e due UAV multi-missione Searcher Mk II (12 milioni). Il secondo contratto riguardava l’acquisto di 36 UAV, per un valore complessivo di 100 milioni di euro, da consegnare entro la fine dell’anno. Russia e Israele stavano anche negoziando la creazione di una joint venture da 300 milioni per la produzione di UAV.
Ma alla minaccia di Tel Aviv, Mosca ha risposto puntando alla produzione di UAV in Russia e in Ucraina, la quale ultima può produrre e consegnare i motori per gli UAV russi. La Motor Sich ucraina sta discutendo la possibile fornitura dei motori ucraini per i veicoli senza pilota prodotti in Russia dalla Vega. “Siamo in ritardo su tali veicoli. Prima di tutto, vi è un deficit di motori“, ha detto Vladimir Verba, CEO della Vega, mentre il CEO della Motor Sich, Vjacheslav Boguslaev, ha confermato che le società sono in trattative. “Stiamo discutendo questioni riguardanti questo argomento“. La Motor Sich fornisce motori a 11 paesi in tutto il mondo, e Boguslaev ha aggiunto che “non abbiamo nulla contro al fatto che la Russia sia il dodicesimo paese.” Il Servizio di Sicurezza Federale (FSB) russo apprezza la qualità degli UAV russi, ha detto Verba, secondo cui gli UAV della Vega saranno in grado di competere con quelli prodotti all’estero, entro il 2013.
Intanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto, in una riunione dei ministri del Likud, che la vendita di armi alla Siria di Mosca è “problematica“. “Abbiamo saputo di questo affare per un po’ e abbiamo tenuto riunioni con i Russi ad ogni livello. Purtroppo la vendita è andato avanti” ha detto. “Stiamo vivendo sotto la minaccia di nuovi tipi di missili e razzi, e dobbiamo avere una risposta militare a essi“. Netanyahu ha citato l’avanzato jet da combattimento Lockheed-Martin F-35 Lightning II, come parte di questa risposta militare. RIA-Novosti ha riferito che Israele e gli Stati Uniti hanno chiesto alla Russia di por termine alla vendita. Mosca, però, ha rifiutato, sostenendo che le armi non “cadranno nelle mani dei terroristi“. In effetti il ministro della Difesa russo Anatolij Serdjukov dichiarava, il 17 settembre, che Mosca andrà avanti nella vendita dei missili Jakhont alla Siria. Tale dichiarazione sottolinea il fallimento degli israelo-statunitensi nell’ostacolare l’accordo tra Mosca e Damasco. ”La questione della vendita di missili alla Siria e’ stata sollevata nel corso dei colloqui con il segretario alla difesa Usa Robert Gates. – spiegava Serdjukov – Senza dubbio il contratto soddisfa la parte russa”.
Le vendite di armi russe a Damasco, hanno provocato l’ira di Israele già a maggio, dopo che Mosca aveva fornito alla Siria jet da combattimento MiG-29, sistemi di difesa aerea a corto raggio Pantsir e dei veicoli blindati. Haaretz, citando un anonimo diplomatico, ha detto che Damasco continua “a proclamare il suo desiderio di pace con Israele, ma nello stesso tempo sta approfondendo i suoi legami con l’asse radicale regionale Iran-Hezbollah- Hamas“. Inoltre, una raffica di articoli israeliani ha riferito che le organizzazioni radicali in Siria e in Libano, sempre più ricevono sostegno anche dall’Egitto.
L’ipotesi che i servizi segreti esteri di Israele, il Mossad, possano essere dietro la morte di Ivanov sembrerebbe improbabile. Nel mondo dell’intelligence, le agenzie dello spionaggio raramente uccidono i responsabili dei servizi rivali. Inoltre, il 6 settembre Israele ha firmato uno storico accordo di cooperazione militare con la Russia. Uno dei punti salienti del nuovo patto militare da 100 milioni di dollari, è la fornitura Israeliana a Mosca di velivoli senza equipaggio high-tech, per la sorveglianza aerea della Georgia, con cui la Russia ha combattuto una breve guerra nell’agosto 2008. Sarebbe improbabile che Israele organizzasse l’assassinio di alto dirigente dei servizi segreti russi, a un mese dall’accordo.
Certamente, la morte di Ivanov ricorda l’assassinio a Tartous del Brigadier Generale Mohammed Suleiman, un confidente del presidente siriano Bashar al-Assad e presunto principale collegamento di Damasco con Hezbollah. Fu colpito da un cecchino, che apparentemente avrebbe sparato da una barca in mare aperto, mentre prendeva il sole in una località costiera della Siria. Alcuni report hanno identificato il tiratore nel capitano del commando d’elite della marina israeliana ‘Flottiglia 13‘.
Ovviamente in tale quadro s’inserisce lo scontro ai vertici politici della Federazione Russa. Il gruppo del Presidente Medvedev ha deciso di puntare tutte le sue carte su un’allenza con le maggiori potenze occidentali, soprattutto l’asse Washington e Parigi, mentre il Primo Ministro Valdimir Putin e il minsitro degli esteri Sergej Lavrov, espressione del partito dell’Energia, (come Medvedev) ma sostenuti dagli apparati d’intelligence, punta a una cooperazione maggiore con Berlino, Roma e Ankara, motivo per cui hanno sostenuto le sanzioni contro Tehran, egualmente a Medvedev. Vi sarebbero poi altre tendenze, dei gruppi geopolitici, collegati con l’industria bellica e nucleare della Federazione Russa. I cui esponenti sono Rogozin, ambasciatore russo presso la NATO, il ministro della difesa, Anatolij Serdjukov, e importanti figure delle opposizioni patriottiche, come Gennadij Zjuganov, del Partito Comunista della Federazione Russa o il Generale Leonid Ivashov, collegato all’organizzazione Pamjat, la cui critica aspra all’operato di Medvedev è motivata anche dallo scontro all’interno dei vertici delle forze armate russe. Scontro che riguarda la riforma militare promossa da Medvedev e dal Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, Generale Makarov, cui si oppone buona parte dei vertici militari post-sovietici, di cui Ivashov si fa portavoce. Cosa che ha portato quest’ultimo a lanciare un allarme dai toni estremi, riguardante una imminente totale cedimento di posizioni di Mosca a vantaggio della NATO, sulla questione del nucleare Iraniano. Allarme ingiustificatamente esagerato, alla luce del riposizionamento dei missili da difesa aerea strategica S-300 in Abkhazia, avvicinando l’ombrello antiaereo russo alla regione mediorientale.
E’ certo che in questa fase, dovuto all’apparente politica di conciliazione intrapresa dall’amministrazione statunitense di Obama, si sia voluto giocare, da parte di alcune forza politiche di Mosca, una carta spregiudicata, puntando a un sostegno di Beijing che controllasse le retrovie (Pakistan, Turkestan e Iran), mentre una Mosca ‘medvedizzante’ punterebbe a una massima apertura da parte dell’occidente atlantico, in concorrenza con il gruppo putiniano, maggiormente propenso a un’intesa con la parte continentale dell’Europa occidentale. Difficile, al momento, prevedere gli sviluppi immediati; di certo, l’integrità degli interessi moscoviti, in Iran soprattutto, non mostrano di essere in pericolo immediato.
01/10/2010
*Alessandro Lattanzio, redattore di Eurasia, è esperto di questioni militari. È autore di Terrorismo sintetico (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2007), Potere globale. Il ritorno della Russia sulla scena internazionale (Fuoco Edizioni, Roma 2008) e Atomo Rosso. Storia della forza strategica sovietica (Fuoco Edizioni, Roma 2009)
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/
http://www.eurasia-rivista.org/6256/guerra-occulta-contro-la-russia
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Restituite i parchi ai giochi dei bambini 24.09.2010
SONO figlio della città e della guerra. Sono cresciuto a Parigi. Nel 1945 avevo dieci anni. Se provo a mettere in relazione il tema dei miei giochi d’ infanzia e quello dei luoghi della città in cui sono cresciuto (in questo caso Parigi), posso supporre, senza grosse possibilità di essere smentito, che le due realtà siano cambiate moltissimo; la cosa più sorprendente sarebbe che i miei ricordi riuscissero a dire qualcosa a un bambino o a un preadolescente di oggi. Iniziamo con qualche ricordo. Durante la guerra lo stato maggiore tedesco aveva occupato, vicino al giardino di Luxembourg e al Senato, il “Lycée Montaigne”, che normalmente era la mia scuola. Così, fino all’ ottobre del ‘ 44, quando il “Lycée Montaigne” tornò alla sua funzione originale, noi bambini eravamo stati smistati in diverse scuole primarie del quinto arrondissement. Avevo nove anni e a scuola ci andavo da solo a piedi partendo dalla rue Monge, risalendo la rue de la Montagne SainteGeneviève, discendendo la rue Soufflote attraversando il giardino di Luxembourg. I miei primi luoghi di gioco furono i cortili delle scuole e la strada, poi il giardino di Luxembourg. Il mio quartiere, da cui non mi sono mai allontanato se non per ritornarci, l’ ho percorso in tutti i sensi, prima accompagnato dall’ uno o l’ altro dei miei genitori e poi da solo. È il luogo della mia infanzia al quale sono rimasto fedele. Viaggio molto, ma, a intervalli più o meno regolari, lo ritrovo e mi ci ritrovo. Inostri giochi d’ infanzia erano molto fisici e segnati dagli eventi dell’ epoca. Le prime classi della scuola elementare erano miste e le bambine avevano i loro giochi, per esempio “la campana” ( la marelle ), ai quali di solito noi bambini non ci associavamo. Partecipavamo solamente quando cedevamo alla tentazione di mostrare la nostra forza, mettendoci quindi a saltare di casella in casella con un piede solo, cercando di raggiungere il cielo che coronava quella struttura tracciata frettolosamente per terra con il gesso. Di solito noi giocavamo alla guerra. Divaricavamo le braccia e volavamo per il cortile ruggendo come i motori degli aerei. Da buoni piccoli maschi fallocratici ci suddividevamo i ruoli: alcuni di noi attaccavano le bambine, gli altri le difendevano. L’ arbitraggio arrivava spesso dal cielo, quando le sirene risuonavano. Era l’ allarme, la guerra vera. Ci facevano scendere di corsa nei rifugi sotterranei, che in questa parte di Parigi erano un pezzo delle catacombe. Quando dopo l’ allarme rientravamo a casa, cercavamo i frammenti dei proiettili tirati dalla DCA (la difesa contraerea). Erano delle calamite eccellenti ed erano facili da trasportare poiché si fissavano le une sulle altre, formando dei piccoli cumuli irregolari e compatti che laceravano le nostre tasche (…). Oggi i giochi sono cambiati e c’ è sicuramente molto da osservare e imparare a contatto con i bambini e gli adolescenti. La familiarità che la maggior parte di loro ha con gli strumenti elettronici modifica sia il loro rapporto con la solitudine, sia il modo di instaurare relazioni sociali. È vero anche, d’ altro canto, che la geografia della città e dell’ ambiente si trasforma. Tuttavia, non è detto che la necessità di aprire spazi pubblici per i bambini e gli adolescenti non resti ancora una necessità urgente. Un mio collega, David Lepoutre, ha scritto un libro molto interessante sull’ etnologia della città, Coeur de banlieue, pubblicato nel 1997 da Odile Jacob. Lepoutre insegnava, all’ inizio degli anni Novanta, nel quartiere della Courneuve e la Cité des Quatre Mille e aveva avuto modo di notare che i bambini, a volte molto piccoli e per la maggior parte figli di genitori immigrati, tendevano a formare delle bande, la cui prima occupazione era di appropriarsi del territorio, del loro ambiente, trasformandolo attraverso l’ immaginazione: inventavano frontiere, luoghi straordinari e persino riti d’ iniziazione. In queste bande di preadolescenti e adolescenti c’ erano ragazzi di diverse età, ed era verso i sedici anni il periodo in cui avveniva la selezione tra chi abbandonava la banda e chi entrava invece nel mondo della delinquenza, sollecitato da traffici di tutti i generi. Senza la pretesa di paragonare il giardino di Luxembourg degli anni ‘ 50 e le banlieue degli anni ‘ 90 o di oggi, vorrei suggerire l’ idea che i temi del gioco, dello spazio e dell’ infanzia hanno da molto tempo una portata sociale e politica fondamentale. Uno dei problemi delle banlieueè che gli spazi di cui i giovani cercano di appropriarsi non sono spazi pubblici, semplicemente perché gli spazi pubblici non esistono o comunque non esistono più oggi. L’ immaginario corre liberamente senza un ambiente circostante che lo accolga e dunque senza una protezione simbolica. Il miracolo dei giardini pubblici è dovuto al fatto che sono un bene che permane. Le Tuileries o il Luxembourg non sono cambiati da quando Proust o Anatole France li frequentavano da bambini. Ma, dato il decentramento della capitale verso le periferie, questi giardini fungono da spazi pubblici solamente per una manciata insignificante di favoriti. Uno degli obiettivi del Grand Paris, di cui si parla tanto oggi, dovrebbe essere la creazione, vicino agli edifici scolastici, di luoghi perenni, tra i quali i giardini pubblici restano ancora oggi il miglior esempio. Questi luoghi dovrebbero manifestarsi in modo spettacolare e simbolico come degli spazi pubblici, situarsi in prossimità di edifici pubblici, di teatri o di cinema, non limitarsi alla riduttiva funzione di luoghi di passaggio ma restare aperti, in quanto spazi ludici, alle iniziative dei giovani. Alla fine tutto è politico. Va bene creare stadi, piscine, luoghi strutturati per la formazione di “corpi efficacemente disciplinati”, ma è bene anche lasciare che si crei qualche luogo di libera espressione di sé e di confronto con gli altri in spazi che permettono tutto senza nulla imporre. Recentemente mi è capitato di vedere dei ragazzi molto giovani e di talento che si allenavano con lo skateboard la domenica vicino alla fontana di Trocadéro, sotto uno sguardo vagamente preoccupato ma allo stesso tempo ammirato dei passanti e dei turisti. Spero che potremo ancora per lungo tempo continuare a osservarli giocare e sfidarsi nel cuore di Parigi. È il loro modo per crescere ed educarsi. Traduzione di Chiara Pavan Il testo è parte dell’ intervento che Marc Augé terrà a “Tocatì”, il Festival Internazionale dei Giochi in Strada che si terrà da oggi al 26 settembre a Verona, organizzato dall’ Associazione Giochi Antichi e dal comune. Il Paese ospite dell’ ottava edizione è la Svizzera – MARC AUGÉ
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Il sodio che rigenera 29.09.2010
di Martina Saporiti
Come fossero dei cuochi, i ricercatori della School of Arts and Sciences della Tufts University (Usa) hanno trovato l’ingrediente fondamentale per la ricetta della rigenerazione dei tessuti: il sodio. In uno studio pubblicato sul Journal of Neuroscience, Michael Levin e la sua équipe di biologi raccontano che promuovendo l’ingresso di ioni sodio all’interno di cellule danneggiate si genera una corrente elettrica che innesca il processo di rigenerazione di muscoli e nervi.
La scoperta è frutto di uno studio condotto sui girini della rana africana (Xenopus laevis), che possiedono la capacità di rigenerare le proprie code. Dopo aver amputato le code di alcuni girini, i ricercatori hanno utilizzato un cocktail di farmaci per manipolare i canali che controllano il passaggio del sodio attraverso le membrane delle cellule nervose e muscolari. In questo modo hanno incrementato il flusso del sodio all’interno delle cellule danneggiate, scoprendo che la corrente elettrica generata dal passaggio degli ioni innescava la rigenerazione dei tessuti. Anche a distanza di 18 ore dalla ferita. Considerando che in questa specie la capacità di ricostruire i tessuti danneggiati diminuisce con l’età, i ricercatori sono rimasti sorpresi nello scoprire che grazie al sodio anche i girini più “anziani” riuscivano a rigenerare le proprie code in appena un’ora.
I ricercatori sperano di poter usare questa informazione nel trattamento delle lesioni muscolari e del midollo spinale anche negli esseri umani, che con le rane condividono alcuni processi di rigenerazione tissutale.
Riferimento: Induction of Vertebrate Regeneration by a Transient Sodium Current. Journal of Neuroscience, September 29, 2010
http://www.galileonet.it/articles/4ca362ed72b7ab0720000086
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Una via d’uscita per la Terra – Jeremy Rifkin 02.10.2010
Jeremy Rifkin è stato presente a Woodstock 5 Stelle in video. Per lui è la seconda volta dopo Woodstock – USA nel 1969. Un veterano. E’ stato uno degli opinion leader mondiali che hanno partecipato e parlato del nostro futuro a Cesena, completamente ignorati dai media al carro delle centrali nucleari e degli inceneritori. Rifkin descrive l’Italia come un grande giacimento di energie: l”Arabia Saudita delle energie rinnovabili“, dall’eolico al geotermico, al solare. E’ arrivata l’ora di sfruttarlo questo giacimento.
Intervista a Jeremy Rifkin:
“È un piacere essere qui con voi a questo evento Five-Star Woodstock. Sapete, io ho partecipato a quello originale, perciò questo vi da un’idea di quanto sia vecchio. Fu un’esperienza incredibile a quel tempo. Questa volta, il Five-Star Woodstock è un’opportunità per tutti noi per le grandi domande sulla crisi del pianeta e capire cosa le nuove generazioni potranno fare per prepararsi al nuovo tipo di società del XXI secolo. Siamo davvero nei guai. Si sta concludendo la grande era industriale basata sui combustibili fossili, sul petrolio, sui gas naturali, le energie che hanno fatto muovere la civiltà negli scorsi secoli sono in declino. Tutta l’infrastruttura della nostra civiltà si basa sui combustibili fossili per materiali plastici e da costruzione. Allo stesso tempo, ci è stato detto che siamo alle porte di una nuova era industriale. Da due secoli, e ancora oggi, emettiamo un quantitativo incredibile di anidride carbonica direttamente nell’atmosfera quando bruciamo i combustibili fossili e il risultato sono i cambiamenti climatici del pianeta. Con il rapido surriscaldamento del pianeta potremmo trovarci di fronte a una possibile estinzione di massa di animali e piante sulla Terra. Potremmo addirittura dover affrontare l’estinzione della razza umana stessa. Non abbiamo scelta, dobbiamo trovare una via d’uscita per una nuova era sostenibile per i nostri figli e per le future generazioni.
Lasciatemi suggerire cosa dovremmo davvero fare: dovremmo creare una nuova rivoluzione industriale, la Terza Rivoluzione Industriale. E la Terza Rivoluzione Industriale ci porta dalle energie derivanti dai combustibili fossili del XIX e XX secolo, alla distribuzione delle energie rinnovabili del XXI secolo. Il sole splende ovunque nel mondo, ogni giorno. Ogni giorno, il vento soffia su tutto il pianeta. Tutti noi abbiamo fonti di calore nel sottosuolo, che possono essere trasformate in energia. Se viviamo in aree rurali possiamo riutilizzare gli scarti agricoli e forestali. Se viviamo in regioni costiere possiamo sfruttare il moto ondoso. Abbiamo i rifiuti che possono essere trasformati in energia, così come le cascate possono generare energia idroelettrica. Il pianeta ha energia sufficiente per sostenere la vita per milioni e milioni di anni a venire.La domanda è se queste nuove generazioni avranno il desiderio e la volontà di conseguire questa nuova rivoluzione industriale. Lasciatemi descrivere la situazione. Ho avuto il privilegio di sviluppare il lancio della Terza Rivoluzione Industriale per l’UE, realizzando un piano di sviluppo basato su 5 pilastri fondamentali.
Primo pilastro: l’UE si è impegnata a trasformare il 20% delle energie in rinnovabili entro il 2020. È una grande sfida, ma è obbligatoria, ogni Stato membro deve raggiungere questo risultato entro dieci anni.
Secondo pilasstro: Ci sono milioni e milioni di edifici in Italia e in tutta Europa: case, uffici, aziende, centri commerciali, impianti industriali che possono essere convertiti in centrali energetiche che raccolgono l’energia attorno ai propri edifici: il sole, il vento, il calore del sottosuolo. Ora abbiamo 91 milioni di costruzioni in tutta l’Unione Europea. Se proviamo ad immaginare cosa può voler dire convertire ognuna di queste costruzioni in una piccola centrale energetica, possiamo iniziare a capire l’enorme potenziale che si potrebbe ottenere. Ma tutto ciò deve essere basato sulla sostenibilità, non sulla speculazione.
Terzo pilastro: Abbiamo bisogno di raccogliere l’energia prodotta, perciò dobbiamo impegnarci in tutta la UE all’uso dell’idrogeno per stoccare le energie rinnovabili. Perché il sole non sempre splende, e il vento non sempre soffia. Sono energie a intermittenza. Perciò l’idrogeno come mezzo di stoccaggio ci permette di raccogliere queste energie e usarle per l’elettricità quando effettivamente ci servono.
Quarto pilastro: Questo è un punto estremamente interessante. Andremo ad utilizzare le stesse tecnologie su cui è basato Internet, le stesse identiche tecnologie in Italia e in Europa per realizzare una rete di distribuzione che lavora esattamente come Internet. Perciò ci saranno milioni di persone che producono la propria energia, l’energia “verde”, nei propri edifici e attorno ad essi. La immagazzineranno con l’idrogeno e l’energia che non usano, l’energia in surplus, può essere condivisa attraverso una rete di distribuzione intelligente. Si può condividere l’energia con milioni di altre persone. Perciò, proprio perché le nuove generazioni stanno crescendo con l’idea di poter condividere i propri archivi digitali attraverso internet, possiamo dire a questa generazione: “Ora avete questa opportunità, questa responsabilità, di produrre energia nei vostri edifici, nelle vostre case, nei vostri luoghi di ritrovo, di raccoglierla attraverso l’idrogeno come se salvaste i vostri media digitali, dopodiché condividere quella che non vi serve”.
Quinto pilastro: I primi veicoli elettrici sono comparsi quest’anno. I primi veicoli a idrogeno usciranno nei prossimi due anni. E le persone saranno in grado di “disconnettere” le proprie auto, camion, autobus per poi connetterli alla rete di distribuzione del Paese per prelevare elettricità oppure restituirla alla rete.
Questi sono i 5 pilastri della Terza Rivoluzione Industriale. Questa energia è per le persone. E’ un nuovo capitolo per la razza umana. Perciò la capacità di produrre la propria energia, di raccoglierla e di condividerla attraverso il Paese, apre a una nuova era di sostenibilità. L’Italia potrebbe fare da apripista. Sapete, ho sempre creduto che l’Italia avrebbe dovuto essere la guida verso la Terza Rivoluzione Industriale: l’Italia è l’Arabia Saudita delle energie rinnovabili, perché è una penisola, con un enorme quantitativo di irraggiamento solare, vento al largo delle coste, fonti geotermiche e idriche ovunque.
Perciò la mia speranza a questo Five-Star Woodstock Festival è che abbiamo avuto la possibilità di vedere cosa c’è di sbagliato nel mondo ma, allo stesso tempo, di capire come renderlo migliore. Di come possiamo voltare pagina se vogliamo portare avanti la storia umana e cominciare a prenderci le nostre responsabilità per la cura del pianeta, per cogliere opportunità che ancora non si conoscono, e per godere di questa splendida esperienza chiamata vita sulla Terra.
Se abbiamo avuto la possibilità di cominciare questa discussione oggi, per poi riproporla in tutta Italia e in tutta Europa, questo sarà un grande servizio che noi porgiamo al futuro del genere umano.”
http://www.beppegrillo.it//2010/10/una_via_duscita/index.html?s=n2010-10-02
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Desertec: entra pure Terna. E l’Africa potrebbe essere più avanti dell’Italia 04.10.2010
Terna ha annunciato, a fine settembre, di essere entrata nel progetto Desertec con quote paritetiche rispetto agli altri partner europei ed africani.
Il progetto, come ormai i lettori sanno bene, prevede l’installazione nel deserto nordafricano di centinaia di megawatt di pannelli solari termodinamici per produrre energia elettrica per la riva sud del Mediterraneo come anche per quella nord: è previsto, infatti, anche il collegamento elettrico con l’Europa.
Collegamento che dovrebbe essere doppio: uno dalla Spagna e uno dal medio oriente attraverso la Turchia. E, a questo punto con l’interessamento di Terna, anche triplo con un terzo cavo che parte dalla Tunisia e arriva in Italia.
Non per niente l’Amministratore Delegato della Desertec Industrial Initiative, Paul Van Son, ha dichiarato:
L’Italia e’ un paese chiave per noi grazie alla posizione geografica ed alla sua vicinanza con la Tunisia. Inoltre, considerata la vasta esperienza come operatore nazionale della rete elettrica, Terna puo’ apportare alla nostra joint venture un contributo di conoscenza notevole sull’integrazione dell’energia rinnovabile nelle reti elettriche
Se non fosse che in mezzo c’è la solita Sicilia con la solita rete elettrica. Già oggi, infatti, l’isola ha seri problemi a smistare l’energia prodotta in loco persino da fonte fossile. I guai per le rinnovabili sono ancor più grossi.
Pensate a cosa potrebbe succedere se a questa situazione si aggiungesse anche un grosso flusso di energia (per fortuna stabile e prevedibile perchè il termodinamico del Desertec sarà collegato a centrali elettriche a ciclo combinato) proveniente dal Nord Africa.
Certo, Desertec arriverà a maturazione forse tra vent’anni ma gli ultimi vent’anni di investimenti Terna nell’Italia meridionale non verranno ricordati per un particolare attivismo. Terna, ovviamente, se la prende con le amministrazioni regionali che non rilasciano le autorizzazioni le quali, a loro volta, affermano proprio l’opposto.
La vedo già la scenetta, tra qualche anni, quando gli algerini (sempre che partecipino, ultimamente hanno dubbi sul Desertec), i tunisini e gli altri popoli del Nord Africa che decideranno di credere nell’iniziativa verranno a bussare, cavo in mano, alle nostre porte per chiederci: scusate, come è andata a finire?
Via | Terna Web Magazine
Foto | Desertec
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Le noci aiutano a diminuire gli effetti dello stress 04.10.2010
Una dieta ricca di noci aiuta a combattere gli effetti biologici dello stress.
Lo ha scoperto una ricerca pubblicata dal Journal of the American College of Nutrition, secondo cui mangiare 9 noci al giorno diminuisce sia la pressione totale che l’aumento della pressione dovuta alle situazioni stressanti.
I ricercatori hanno studiato 22 adulti sani con il colesterolo alto, fornendo loro tutti i pasti per sei settimane. I soggetti che avevano un’alta quantità di noci nella dieta, sottoposti a prove stressanti come parlare in pubblico o immergere i piedi nell’acqua fredda, hanno mostrato un minore aumento della pressione, e la migliore condizione circolatoria è stata confermata anche con degli esami che misuravano la dilatazione delle vene.
“E’ la prima volta che si trova un beneficio simile da parte di un alimento nei confronti di un effetto dello stress – hanno scritto i ricercatori – questo può essere molto utile perchè non possiamo evitare i fattori di stress nella nostra vita“.
Per approfondire:
Colesterolo e malattia cardiovascolare
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Per chi suona la campanella di via Solferino?
Michele Mezza, 04.10.2010
La lettera di Ferruccio De Bortoli alla redazione del Corriere della Sera parla non solo all’orizzonte giornalistico, ma interroga la politica, in particolare la sinistra. Il dato che pone il Corriere della sera riguarda la struttura e le modalità di trasmissione della comunicazione, e più un generale del sapere. Investe direttamente i presupposti di una democrazia moderna, individuando i protagonisti di un nuovo welfare dell’accesso al sapere
La lettera di Ferruccio De Bortoli alla redazione del Corriere della Sera è un vero colpo di cannone. Chiude definitivamente il secolo fordista. E risolve irreversibilmente l’altalena fra apocalittici o integrati, a favore dei realisti.
Non è più tempo di cullarsi nelle illusioni sul carattere momentaneo o modaiolo dell’innovazione digitale. Il direttore del Corrierone chiede ai suoi giornalisti, e con essi a tutti i giornalisti italiani, di cambiare pelle. Di mutare grammatica professionale per salvare il proprio mestiere. La biografia del mittente della lettera dovrebbe escludere l’ennesima visione complottarda. Fino a qualche mese fa De Bortoli era il candidato della sinistra a tutto a Milano. Non può essersi ridotto oggi a strumento di una bieca restaurazione reazionaria. Ma se anche fosse, se dietro le sue parole si celasse un disegno di normalizzazione politica della redazione di via Solferino, la questione non muterebbe di qualità.
Le cose che scrive De Bortoli hanno una forza propria, e parlano non solo all’orizzonte giornalistico, ma interrogano la politica, in particolare la sinistra. Il dato che pone il Corriere della sera riguarda la struttura e le modalità di trasmissione della comunicazione, e più un generale del sapere. Investe direttamente i presupposti di una democrazia moderna, individuando i protagonisti di un nuovo welfare dell’accesso al sapere.
In quella lettera si rimette in gioco la titolarità della funzione di informare e di elaborare il sapere, più specificatamente si contestano, consapevolmente o meno, le forme sociali che rendono questo sapere più ricco e diffuso.
La radice del ragionamento di De Bortoli, e comunque l’essenza della realtà che la sua lettera imposto e reso indifferibile, riguarda la trasformazione del sistema di relazioni sociali che presiede alla formazione e alla circolarità della notizia. De Bortoli parla di flessibilità e fungibilità nei linguaggi e nell’uso delle piattaforma. Ma quello è il tratto finale del percorso in discussione. Qualcuno, io spero la mia categoria, il mio sindacato, la mia cultura politica, dovrebbe rispondere che se quello che dice De Bortoli è vero – e ciò è non deve esservi soluzione di continuità nella comunicazione di contenuti su ogni tipologia di piattaforma e di device – allora più vero ancora è che il giornale, il gruppo editoriale, lo stesso direttore, non possono pensare di rimanere le uniche torri svettanti nella liquefazione delle casematte corporative.
E’ vero, la multimedialità oggi è la natura stessa del linguaggio. Così come si acquisisce la notizie su piattaforma e in ambienti diversissimi (dal web, al social network, dal passa parola, alla circolarità dei singoli media, fino alle stesse fonti convenzionali, persino), così la stessa notizia va resa su ogni piattaforma e device, aggiornandola e progressivamente misurandola con il brusio contestuale della rete.
Non è una conquista di un editore, o una concessione di un Cdr, è una pretesa di alfabetizzazione di un professionista, che non deve rinunciare alla nuova coralità dei media per riconfigurare la propria incerta funzione di mediatore, nato nel mercato della penuria e oggi costretto a competere in un mercato dell’abbondanza delle news. Questa bandiera non può essere lasciata a Google o a Murdoch. I giornali non sono la stampa occasionale dei contenuti che raccolgono ogni 24 ore, ma sono un brand, un marchio di prestigio e di professionalità che rumina contenuti in permanenza e li rende in real time. La pagina stampata è un flash nella lunga notte degli aggiornamenti on line.
In questo nuovo contesto vanno riconfigurate regole e valori della professione. Compreso il corredo degli accordi interaziendali del Corriere della Sera. Arroccarsi sulla torre delle indennità non mi pare una grande strategia. Dal corriere il rimbombo del colpo di cannone è destinato a deflagare in ogni redazione. Gli altri quotidiani, la rai, le radio, le agenzie. Ognuno sarà chiamato ad inventare un proprio linguaggio, un proprio mix fra generi e piattaforme. Ma il punto non è questo. La multimedialità è già il linguaggio di ieri. Il social network è quello di oggi, l’autoproduzione è quello di domani.
Come ha spiegato Manuel Castells nel suo ultimo tomo Comunica e Potere, della trilogia sulla Società in Rete, siamo proiettati nel tempo dell’autocomunicazione di massa. Dove ogni individuo, per ambizione, capacità e dotazioni, sarà abilitato a scambiare comunicazione come forma di autoaffermazione. Questo sta accadendo nel mercato musicale, di questo si sta parlando sul mercato dei contenuti di rete, questo è quanto si profila nel mercato dell’audiovisivo.
Siamo ad una vera rivoluzione copernicana, dove cambiano le gerarchie e le geometrie di trasmissione di saperi e informazioni. Non dobbiamo più, come diceva nel XIII secolo Bernardo da Chartres, salire sulla schiena dei giganti.
Oggi dobbiamo reciprocamente arrampicarci sulle spalle di milioni di nani per vedere più in là. E allora, bisognerebbe rispondere al direttore del Corriere, come vede l’idea di arroccarsi in una ottocentesca difesa dei diritti di proprietà, se l’atto costitutivo dell’informazione, non solo nell’ambito della distribuzione, come lui rivendica, ma anche in quello dell’elaborazione, è il risultato di una concertazione sociale, che si compone su infiniti media? E quale l’autorità del direttore esclusivo in una comunità che scambia e combina frammenti di notizie per aggiornare continuamente il fixing di una news? E quali i diritti della stessa comunità, interna ed esterna al giornale, rispetto all’uso di questo flusso condiviso? Come si vede siamo ben al di là di una semplice dialettica sindacale. Stiamo toccando gangli vitali della nuova società dell’informazione. Su questo tema si dovrebbe tarare un nuovo timbro culturale riformatore.
Nessuno oggi ha le carte in regole per pretendere un primato nel digitale. Sicuramente qualcuno è più indietro di altri. Questo è il lavoro. Il lavoro materiale, in fabbrica, che non trova una nuova bussola per negoziare con il nuovo capitale finanziario, e il lavoro immateriale, che nelle redazioni non riesce ad afferrare il bandolo della matassa multimediale. Ed è paradossale che proprio quando la narrazione, la capacità di elaborare i contenuti diventa un paradigma strategico per ingegnerizzare i modelli produttivi, per concepire gli agenti intelligenti della tecnologia, che sempre di più sono vestiti per alfabeti, proprio in questo momento i menestrelli diventano muti, gli intellettuali non riescono a parlare. Siamo in un contesto non diverso da quanto è accaduto a Unicredit, o alla Fiat di Marchionne.
Siamo ad una stretta dove uno dei due tradizionali controparti, la proprietà, vuole usare l’innovazione per dare scacco al lavoro, contando sulle metamorfosi sociale delle funzioni produttive, che sguarniscono il fronte rivendicativo.
Negli anni ’70, non ci accorgemmo che mentre celebravamo il tramonto dell’operaismo, credendolo un’alba, accompagnando il declino della fabbrica come luogo di centralizzazione dei saperi, un’intera generazione di nuovi intellettuali sulla costa occidentale americana,stava formattando linguaggi e soluzioni intelligenti che avrebbero riorganizzato l’intero modo di pensare e di relazionarsi. E lo faceva violando le regole più sacre del capitale come il possesso esclusivo e la privatizzazione delle funzioni pregiate nei servizi.
Oggi dobbiamo recuperare il tempo perduto. Non si tratta solo di regolamentare funzioni meccaniche, come la trascrizione digitali di articoli e reportage. Sarebbe miserabile pensare che la rivoluzione digitale sia un questione di semplici aggiunte alle lavorazioni tradizionali. Oggi bisogna dare un’anima, culturale e politica, alle nuove forma di elaborazione partecipata, bisogna dare uno statuto a quel cervello connettivo che sta prendendo forma nei meandri della rete. Cambiano le titolarità, i primati, le gerarchia, i valori della filiera informativa. Devono cambiare le forme organizzative, i criteri professionali, i valori di scambio.
Così come accadde con l’avvento del telefono, che diede alla macchina giornale una gittata transnazionale. O come accadde con l’avvento del primo ciclo a freddo, alla fine degli anni ’70, che appiattì la vecchia piramide tipografica del piombo fuso.
Oggi il mutamento è ancora più radicale: è il processo di rilevazione della notizia, che sfugge alle maglie redazionali. E allo tempo stesso, proprio perché è il mondo a farsi piatto, che diventa essenziale contare su capacità di contestualizzazione, di decifrazione, di analisi, del brusio informativo che rischia di inghiottirci.
Bisogna essere più innovativi di Google, e capire che quando il potente gruppo di Mountain View propone la soluzione Google Instant allora dobbiamo trovare competenze e reti di saperi per rispondere in real time alle domande che il motore di ricerca impone. Bisogna essere più sociali di facebook, e ricostruire in ambienti circolari le fabbriche dei nostri saperi, a partire dalla macchina giornale. Dobbiamo essere più sensibili di Avid, e di Ibm, nella capacità di leggere e sagomare i sistemi editoriali, i cosiddetti CMS (content management system), per ricondurli ad un livello di trasparenza e di accessibilità pubblica.
Per fare questo ci vuole un sindacato che non si nasconda furbescamente dietro la difesa dell’articolo 21 della Costituzione, salvo appaltare la realizzazione di tutti gli altri, che non si creda una congrega di templari che difende il sacro Graal della professione, ignorando che ormai il mestiere è già transitato in altre mani, e a noi al momento è rimasto solo il calcolo delle indennità di funzione.
Ci serve anche un’altra politica, che affronti il tema non solo per aprire la strada a questo o quel direttore, ma per riorganizzare la sovranità culturale del nostro paese, che rischia di importare non solo le notizie ma anche il modo di leggerle.
Ci serve infine un altro sapere, che dia al giornalista una reale autonomia rispetto alla velocità che incalza e alla varietà di competenze che la realtà oggi ci propone, dalla bioetica al turbo capitalismo finanziario. Così come serve un altro sapere per vincolare il capitale cognitivo che mira a trasformare la Fiat in un grande atelier del design automobilistico, prescindendo dalla responsabilità sociale del lavoro, o per contrattare l’allocazione della risorsa risparmio sul territorio, nella strategia delle banche transnazionale.
Infine ci servono alleati, ossia soggetti che insieme a noi vogliono non solo consumare, ma produrre informazione. Penso agli enti locali, alle comunità sociali, al mondo del volontariato, alle aziende che vedono nella disponibilità di notizie veloci un fattore competitivo. Bisogna diventare i consulenti di chiunque voglia mettersi in proprio, voglia essere la fabbrica della propria auto comunicazione di massa, e non i sospettosi guardiani di sepolcri vuoti e freddi.
Bisogna aprire la gabbie. Ripensare un mondo ormai in esaurimento, senza nostalgie notabilati o snobbismi da vecchie signore inacidite. Sarebbe bello che la FNSI, invece che lanciarsi nella solita difesa d’ufficio del CdR, rispondesse al direttore del Corriere con una vera inchiesta sulla materialità del lavoro giornalistico, censendo le mille nuove occasioni dove si pratica il mestiere senza saperlo. E su questa base promuovesse una conferenza di produzione della notizia, per ridarci gusto e consapevolezza di una professione che non può perdere curiosità per l’incertezza, e passione per il nuovo.
Se non lo farà la FNSI , si troverà pur qualcuno che in Italia lo vorrà fare. Diciamo che Il Corriere della sera, insieme a Unicredit e Fiat è oggi il battesimo del fuoco di una sinistra che non rimpianga il padrone delle ferriere, e che risponda sul terreno dell’innovazione.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15894
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De Bortoli: “Il quotidiano cartaceo deve continuare ad essere il nostro passaporto civile”
Articolo di Società cultura e religione, pubblicato martedì 21 settembre 2010 in Spagna.
“Il giornalismo è una missione e una malattia. Quando è una malattia diventa una missione e se solo pensi che il tuo lavoro è una missione sei malato”.
La diagnosi è di Ferruccio de Bortoli, editore e giornalista insignito con il premio Catalunya Oberta per la sua difesa dei valori liberali. All’attuale direttore del quotidiano milanese “Il Corriere della Sera”, non spaventa la convivenza fra il quotidiano stampato e la sua versione digitale.
Non gli fa neanche schifo l’”e-book”. “Si vendono più libri in Amazon che nelle librerie tradizionali” avverte.
I quotidiani devono rinnovare sezioni che sono troppo statiche. “La stampa mantiene una gerarchia del diciannovesimo secolo: le sezioni sono le stesse di cent’anni fa, quando la maggior parte dei temi possono essere condivisi da varie sezioni”.
Sostiene che al mestiere di giornalista manca autocritica: “Dobbiamo superare il corporativismo e non essere presuntuosi: lavorare il sul campo, investire nella cultura e mantenere l’identità del quotidiano.
Quando si è capaci di interpretare i fatti pensando ai nostri lettori, il quotidiano diventa un passaporto civile. Può essere invecchiato però continua ad essere un marchio distintivo, un riferimento, una forma di vedere il mondo, una tradizione: non bisogna essere vittima ma cittadino della globalizzazione.
Trenta anni di giornalismo fanno di de Bortoli un testimone privilegiato della realtà italiana. Non crede che Berlusconi, con il quale ha avuto qualche scontro, possa condizionare il futuro: “Succede come con Zapatero: “Spagna e Italia vanno bene o male, indipendentemente da chi le governa”.
Riconosce che il suo paese ha affrontato bene la crisi finanziaria: le famiglie non si sono indebitate e l’industria manufatturiera italiana è la seconda più importante d’Europa dopo la Germania, nonostante manchi un maggiore investimento nella formazione professionale.
Leggi contro il crimine
Da Milano, de Bortoli guarda con diffidenza la Lega di Bossi: “è il partito più vecchio della politica italiana”.
Comunicano con il proprio elettorato e mantengono una ferrea disciplina leninista. Già dominano il Piemonte e il Veneto e crescono al centro, una cosa impensabile tempo fa: temo la disgregazione del mio paese”.
In quanto alla Camorra, il direttore vede una società civile più coraggiosa di fronte all’estorsione, ma “se non si combatte la corruzione politica con leggi rigorose, difficilmente sarà sradicata la criminalità organizzata”, conclude.
http://italiadallestero.info/archives/10167
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Dall’intesa è esclusa Wind Hellas
Fusione Wind-Vimpelcom, c’è l’accordo: nasce quinto colosso di telefonia al mondo 04.10.2010
Amsterdam – (Adnkronos) – In base all’intesa il gruppo russo possiederà, attraverso Weather, il 51,7% della holding di tlc Orascom ed il 100% di Wind. Izosimov, ad della VimpelCom: “Accordo offre prospettive verso nuovi mercati”
In base all’intesa VimpelCom possiederà, attraverso Weather, il 51,7% della holding di tlc Orascom ed il 100% di Wind. In base all’accordo – informa una nota – gli azionisti di Weather cederanno a VimpelCom le loro azioni di Weather in cambio di un corrispettivo pari a 325.639.827 azioni ordinarie di nuova emissione di VimpelCom, un corrispettivo in denaro pari a US$ 1,8 miliardi, e la proprietà di alcune attività di Orascom Telecom e di Wind Italia destinate ad essere scorporate. Gli interessi di Weather in tali attività, che includono gli investimenti di Orascom Telecom in Egitto e Corea del Nord, verranno trasferiti agli attuali azionisti di Weather. Dall’intesa è esclusa Wind Hellas.
E’ previsto che Weather designi due membri del nuovo Board di VimpelCom, che sarà composto da undici membri, e che gli azionisti di maggioranza, Telenor ed Altimo, continuino a designare tre membri ciascuno. Il Board sarà infine completato da tre consiglieri che non saranno espressione di alcuno dei soci.
Questo accordo ‘‘crea una società di primo piano nel panorama mondiale delle telecomunicazioni con attività di rilievo in Europa, Asia e Africa”, afferma Jo Lunder, presidente di VimpelCom.
Per Alexander Izosimov, amministratore delegato di VimpelCom, “l’annuncio di oggi segna un momento di grande trasformazione per VimpelCom. Questa operazione offre ai nostri azionisti un’esposizione verso mercati con interessanti prospettive di crescita sia in Asia che in Africa e l’opportunità di diversificare ulteriormente la nostra fonte di ricavi in termini di geografia, di valuta e di caratteristiche del mercato’‘.
”Questa importante operazione conferma la qualità delle nostre società Orascom Telecom e Wind Italia, ed il valore significativo che abbiamo creato nel corso degli anni per i nostri azionisti”, afferma dal canto suo Naguib Sawiris, presidente di Weather. ”Condividiamo con i nostri nuovi partner in VimpelCom – aggiunge – la visione comune sulle prospettive entusiasmanti per la nostra nuova, ampliata e diversificata società di telecomunicazioni”. ”Sono convinto – sottolinea – che i nostri azionisti di minoranza di Orascom Telecom potranno beneficiare delle ulteriori sinergie create dalla fusione delle due società, in particolare nel settore degli acquisiti, e dal rafforzamento complessivo dello stato patrimoniale di Orascom Telecom. Sono pronto ad essere pienamente coinvolto nel nuovo gruppo e ad entrare nel Supervisory Board di VimpelCom.”
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Habitat bene comune 04.10.2010
Autore: Salzano, Edoardo
Un contributo al libro La società dei beni comuni. Una rassegna , a cura di Paolo Cacciari, edito da Ediesse e Carta, Roma 2010. In calce la copertina completa
Esiste un bene comune che viene raramente considerato tale: il territorio, inteso non come mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc. ecc.), né secondo approcci monodisciplinari che lo contemplino dal punto di vista di una sola delle “discipline” nelle quali si è frantumato il sapere dell’uomo, ma come sistema nel quale intrinsecamente s’intrecciano natura e storia, patrimoni da conservare ed esigenze sociali da soddisfare; come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono. Il territorio, insomma come habitat dell’uomo (Bevilacqua 2009).
É alla tutela e alla messa in valore di questo bene comune che sono volte le attenzioni dell’urbanistica: più precisamente, della sua migliore tradizione, oggi appannata dal prevalere di tendenze corrive al mainstream dell’immobiliarismo neoliberistico (Salzano 2010). É a quello stesso obiettivo (alla tutela del bene comune territorio) che è indirizzata l’azione di numerosissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva, in Italia e negli alti paesi europei: l’azione di quella miriade di aggregazioni – temporanee o stabili – di persone che si incontrano per la difesa di questo o quell’altro spazio pubblico e destinato agli usi collettivi, per impedire interventi minacciosi per la salute degli abitanti, per contrastare la trasformazione di paesaggi godibili in distese di case e capannoni, per protestare contro i costi e i disagi della mobilità, per pretendere le attrezzature necessarie per sostenere la vita delle famiglie, per rivendicare l’accesso di tutti alle dotazioni comuni, per ottenere la soddisfazione del diritto a un’abitazione a condizioni sopportabili.
Alcune delle esperienze nelle quali sono coinvolto testimoniano come l’incontro tra queste due realtà (che potremmo definire il pensiero esperto e il pensiero militante) possano condurre a individuare alcune caratteristiche essenziali del bene comune territorio, e alcune modalità dell’aggressione di cui sono vittime. Mi riferisco alla partecipazione all’European Social Forum del 2008 a Malmö (Salzano 2009) e ad altre esperienze di collaborazione con la Cgil, alla conoscenza diretta delle attività della Rete toscana per la difesa del territorio fondata e guidata da Alberto Asor Rosa, dall’esperienza di costruzione di AltroVe, la rete veneta dei comitati e delle associazioni in cui sono personalmente coinvolto, e alle conoscenze che mi derivano dalla gestione di quel nodo di comunicazioni che è costituito ail sito eddyburg.it e dalla sua Scuola estiva di pianificazione territoriale.
L’insieme di queste esperienze mi ha convinto di due cose. Da una parte, della durezza, ampiezza e potenza dell’azione tesa a distruggere il bene comune territorio, e la grande fragilità delle risposte che fino ad oggi è stato possibile mettere in campo. Dall’altra parte, della necessità – per poter resistere e passare al contrattacco – di riflettere su un momento storico che la cultura ufficiale tende a mistificare rimuovendo dalla memoria collettiva gli elementi positivi: mi riferisco ai decenni a cavallo del 1970.
Il saccheggio
Ho provato a riassumere fatti e valutazioni sull’azione distruttiva del territorio in una nota del sito eddyburg.it, di cui riprenderò alcune formulazioni. Ho definito quell’azione come il prodotto di una strategia chiaramente individuabile: quella del saccheggio del bene territorio.
L’obiettivo è chiaro: far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere o divenire oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.
Per raggiungere quest’obiettivo il primo passaggio riguarda l’ideologia: precisamente, il peso assegnato alle diverse dimensioni della vita dell’uomo e ai saperi che ne determinano le condizioni. L’unica scienza valida è l’Economia. Tutti gli altri saperi sono squalificati: sono ridotti, da Scienza, a mera Tecnologia. E per scienza economica s’intende quella che descrive e ipostatizza l’economia data, questa economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, l’unico capace di misurare il valore delle cose.
Il secondo passaggio logico è la negazione dell’esistenza di beni non riducibili a merci: solo se ogni cosa è “merce”, tutto è soggetto al calcolo economico e il mercato può diventare la dimensione esclusiva delle scelte (e il mercato, nel frattempo, è stato ridoto a lla sua forma di monopolio od oligopolio collusivo: un ossimoro). Il terzo passaggio (e qui si passa decisamente dall’ideologia alla prassi) consiste nell’abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie; l’unica regola ammessa è quella del mondo dei pesci, grazie alla quale il grosso mangia il piccolo.
I beni che si vogliono ridurre a merci, i “commons” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza quotidiana e dalle cronache che su eddyburg e con le sue attività registriamo. Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, né rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’ acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.
Si tenta di cancellare o di privatizzare non solo i beni materiali, ma anche quelli che costituiscono la risposta storica alle esigenze che hanno prodotto nel territorio – nell’habitat dell’uomo – trasformazioni di tipo urbano: a cominciare dalle piazze, luogo aperto all’incontro di tutti gli abitanti, trasformate in parcheggi o svuotate da “non luoghi” alternativi (dove contano solo i “clienti”), proseguendo con le scuole, gli ospedali e alle altre attrezzature degli “standard urbanistici”, via via più trasferite dalla fruizione pubblica al servizio a pagamento, e per finire con i servizi per la mobilità, dove via via si squalifica e si riduce il trasporto collettivo (soprattutto quello per le piccole e le medie distanze) e si incentiva la motorizzazione privata. Insomma, tutti gli elementi del “welfare urbano” (possiamo definire così le conseguenze territoriali delle politiche del welfare state) che furono conquistati in due secoli di faticose vertenze sociali e politiche.
Il saccheggio del territorio è un aspetto di un processo culturale e sociale molto più ampio, che degrada e cancella, oltre all’habitat dell’uomo e della società, altre dimensioni e valori essenziali della vita . Il lavoro, la salute, l’eguaglianza, la solidarietà, l’etica. Il meccanismo è lo stesso: ridurre ogni cosa a merce e cancellare tutto ciò che lo impedisce; plagiare le persone e trasformarle, da cittadini a clienti (e sudditi), da produttori a consumatori (o schiavi). É un saccheggio globale, anche nel senso che riguarda tutte le dimensioni della vita personale e sociale. Provoca disagi e sofferenze, quindi genera reazioni. Proteste nascono a partire da ciascuno dei moltissimi aspetti minacciati: dalle diverse componenti del mondo del lavoro (i lavoratori licenziati, i precari, gli inoccupati), delle molteplici sfaccettature dell’ambiente e del territorio (gli spazi pubblici erosi, gli interventi invasivi, il degrado dei paesaggi), dalla riduzione della qualità della vita (l’assenza di abitazioni a prezzi ragionevoli, il costo dei servizi, i disagi della mobilità).
Ma l’insieme di questi malesseri sociali non si unifica, non raggiunge un livello di sintesi capace di competere con l’unitarietà del processo che provoca i mille aspetti del disagio. A una strategia compatta non sa contrapporre una strategia alternativa, ma solo un pulviscolo di proteste e proposte. E quand’anche strategie alternative si manifestano, come accade nella frammentata sinistra italiana, esse sono molteplici, e sono in competizione tra loro prima che contrapposte a quella dominante.
Il diritto alla città
Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avvenne in Italia ciò che era già avvenuto pochi decenni prima in aree meglio governate: le trasformazioni del territorio e la sua attrezzatura furono finalizzate non solo alla maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche al soddisfacimento di bisogno che postulavano modi collettivi per il loro soddisfacimento: l’apprendimento, la salute, la cultura, la rigenerazione fisica, la ricreazione. La stessa esigenza dell’abitare (che è certamente tra quelle primordiali nella trasformazione del pianeta in habitat dell’uomo) diede luogo a trasformazioni territoriali finalizzate a soluzioni collettive. Ciò avvenne soprattutto grazie alla pressione per migliori condizioni di vita che le organizzazioni politiche ed economiche della classe operaia, divenuta consapevole della sua forza costituita dalla solidarietà di fabbrica, riuscirono a strappare. (Il capitalismo recuperò terreno altrove, accrescendo lo sfruttamento nelle regioni colonizzate e negli ambiti della natura: ma questo è un altro discorso).
La riflessione teorica accompagnò l’affermazione del “welfare urbano” proponendo un nuovo diritto: il diritto alla città. Il primo teorizzatore di questo termine, Henry Levebvre (Lefebvre 1968), lo espresse in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni. Naturalmente queste due possibilità possono divenir effettuali se esiste un’ organizzazione urbana del territorio (ossia, se il territorio utilizzato come habitat dell’uomo non è una mera aggregazione di frammenti) e se ne esiste un governo unitario, e cioè un metodo che consenta di configurare un insieme sistematico delle trasformazioni desiderate. É esattamente ciò che si chiama pianificazione urbanistica e territoriale (ma più esatto sarebbe parlare di pianificazione della città e del territorio).
Negli anni immediatamente successivi altre esigenze si aggiunsero a quelle del welfare urbano. Si comprese che le risorse della natura sono limitate, mentre vengono utilizzate dalla macchina produttiva come se fossero inesauribili; si comprese che considerare il territorio come un giacimento da sfruttare e il recipiente d’ogni sozzura prodotta provocava rischi crescenti per la stessa vita degli uomini; si comprese che alcune caratteristiche proprie del territorio costituivano qualità meritevoli d’essere conservate e aperte alla fruizione di tutti. Nacquero, insomma, le esigenze e le proposte dell’ambientalismo. E anche la pianificazione territoriale e urbanistica arricchi i propri strumenti, fino alla deriva dei decenni a noi più vicini.
Credo che oggi si debbano riprendere i contenuti delle parole d’ordine di quegli anni lontani. I due obiettivi che costituiscono il “diritto alla città” devono diventare parte integrante della difesa della “città (e del territorio) come bene comune”. A tutti gli abitanti del pianeta – a quelli oggi presenti e a quelli di domani, al di là dei recinti antichi e di quelli nuovi – deve essere garantita la possibilità di fruire del territorio, nelle sue componenti naturali come in quelle storiche. E a tutti deve essere consentito di partecipare al processo delle decisioni.
Ciò significa che oggi bisogna prendere coscienza dell’insieme delle aggressioni cui il territorio viene sottoposto: non solo di quelle che ne colpiscono una parte e di un aspetto (la consistenza fisica, la possibilità di fruizione e d’accesso, l’appartenenza collettiva o pubblica), ma anche quella che distrugge quel tanto di democrazia nel processo delle decisioni che è stato garantito dal sistema della pianificazione urbanistica. Un sistema nel quale la decisione sugli strumenti che definiscono le trasformazioni previste spetta agli enti elettivi di primo grado, espressione diretta (almeno nella Costituzione della Repubblica) della volontà dei cittadini; nel quale chi partecipa alla decisione è l’insieme dell’organo consiliare, quindi anche le minoranze; nel quale infine al cittadino è garantita la conoscenza del quadro delle decisioni (il piano) prima della sua definitiva approvazione, e quindi il diritto di osservare e opporsi.
Come aggrediscono la sostanza dei beni comuni territoriali così i saccheggiatori distruggono le modalità mediante le quali essi possono diventare oggetti del “diritto alla città”. Sostituiscono all’urbanistica democratica quella contrattata con la proprietà immobiliare; trasferiscono al competenza delle decisioni dagli organi collegiali a quelli monocratici, e dalle istituzioni della Repubblica a commissari ad hoc o alle stesse aziende private; riducono tutti gli spazi (gli spiragli) nei quali può manifestarsi la volontà dei cittadini. Negano il principio stesso della pianificazione, come formazione d’un quadro coerente e sistemico delle trasformazioni progettate per il futuro.
Frammentare le scelte è un modo classico per eludere non solo la capacità d’incidere, ma perfino la conoscenza di ciò che si sta trasformando. E senza conoscenza l’azione di contrasto è cieca.
Note bibliografiche
Bevilacqua P., Che cos’è il territorio, relazione al Città Territorio Festival di Ferrara, 2009 [ qui in eddyburg ]
Salzano E., Urbanisti ieri e oggi, “AAA Italia” (Associazione nazionale archivi di architettura contemporanea), Bollettino n. 9, 2010 [ qui in eddyburg]
Salzano E., Mancini O., Chiloiro. S. (a cura di), Città e lavoro. La città come diritto e bene comune, Ediesse, Roma 2009
Lefebvre H., Le droit à la ville, Anthropos, Paris 1968 (trad. it: Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970)
http://eddyburg.it/article/view/15940/
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 06.10.2010
Le aperture
Il Corriere della Sera: “Fini lancia il partito, sfida a Berlusconi. Nasce il movimento dell’ex segretario di An. Bossi: in primavera si andrà alle urne in ogni caso. ‘Un Pdl in grande, pronti al voto’. Il premier: basta parlare di elezioni”. L’editoriale, firmato da Aldo Cazzullo (“Leader e presidente”) è dedicato al presidente dellla Camera, perché “non è mai accaduto che i presidente in carica si mettesse alla testa di una nuova forza, nata da una scissione del partito di maggioranza relativa, che compatto lo aveva indicato per la terza catrica dello stato”. Cazzullo ricorda il consiglio che a Fini ha dato il politologo Alessandro Campi, che lo ha invitato a concentrarsi sulla sua battaglia politica “con la pinea libertà di adeguarsi alle asprezze con cui sarà combattuta nei prossimi tempi”. A centro pagina: “La ‘ndrangheta minaccia giudice con un bazooka. In Calabria arriva l’esercito. Il procuratore di Reggio Pignatone nel mirino”.
Il Giornale: “Da Vespa l’ultima conferma. La Tulliani dirigeva i lavori. Un vicino a ‘Porta a porta’: ‘L’ho vista più volte nell’appartamento, dava disposizioni per la ristrutturazione’. E adesso che aspetta il presidente della Camera a dimettersi?”. A centro pagina: “E parte già il primo siluro di Fini. Blitz sulla legge elettorale: vuol cambiarla in Parlamento con un’altra maggioranza”. L’editoriale, firmato da Salvatore Tramontano, è titolato: “Perché Napolitano non permetterà mai un governo tecnico”.
Libero: “Silvio rischia grosso. I piani di Futuro e Libertà. Il presidente di Montecitorio vìola l’etichetta e tiene a battesimo la sua creatura. Prima missione: reclutare i senatori Pdl che temono di non essere ricandidati”. L’articolo di prima pagina è firmato da Maurizio Belpietro.
Il Riformista: “Gli sporcellatori. Nasce il nuovo partito, porterà un nuovo governo? Fini punta a cambiare la legge elettorale. Dice: ‘Teniamoci pronti alle elezioni’. Ma è convinto che in Parlamento ci sono i numeri per un esecutivo tecnico. Pd, Udc e Idv gli dicono già di sì”. Di spalla un articolo del dirigente del Pd Goffredo Bettino. Il titolo: “Per battere Silvio ci serve un’alleanza con Montezemolo”. A centro pagina: “La Gelmini paga la guerra di destra. A rischio la riforma degli atenei”.
La Repubblica: “Il partito di Fini: ‘Pronti al voto’. Al via sul territorio il nuovo movimento di Fli. Il Cavaliere vara i ‘team della libertà’ per le urne. Scontro sulla riforma elettorale. ‘Non saremo una piccola An’. Berlusconi: vale meno del 4 per cento”. Il commento è firmato da Andrea Manzella: “Una lezione per il Cavaliere”. A centro pagina: “Calabria, un bazooka contro il procuratore”.
La Stampa: “Fini: pronti per il voto. Lanciato il nuovo partito che punta a crescere a Palazzo Madama. Oggi torna in aula il Lodo Alfano. Il presidente della Camera pensa alle urne e mette in agenda la legge elettorale. E’ scontro con Bossi: ‘Non si cambia’. Berlusconi teme l’asse Fli-Bersani-Casini”. Il titolo di apertura è per l’economia: “Ripresa, allarme Fmi sul debito. ‘L’Italia tra i Paesi a rischio'”. Editoriale firmato da Franco Bruni: “Monete stabili per fare le riforme”. Di spalla la notizia da Reggio Calabria.
Il Sole 24 Ore: Mercati sprint a spese del dollaro. Accelera la corsa all’oro (record oltre quota 1340) e all’argento, euro ai massimi da otto mesi, sulle Borse rialzi superiori al 2 per cento. Tokyo riduce i tassi a zeo e stampa yen. Per l’FMI sale il rischio debito sovrano”. Di spalla un articolo nella rubrica delle Idee, firmato da George Soros: “Caro Obama, spendi di più invece di tagliare”. “Ok al federalismo fiscale. Tremonti: conti in linea Ue”. “Venerdì in decreti in consiglio. Dalle regioni cinque priorità”.
Il Foglio: “A Baghdad il boss sarà di nuovo Al Maliki, ma ha cambiato bandiera. Il premier ottiene l’appoggio dei fanatici di Sadr e strappa la vittoria al sunnita e filoamericano Allawi. Uno stallo durato sette mesi”. Di spalla il quotidiano di Ferrara ricorda: “Domani a Roma l’assemblea. Cosa c’è dietro la fronda dell’ebraismo radical contro il sit-in pro Israele. Israel, Magiar e Kahn replicano alla lettera con cui Jcall accusa di destrismo la manifestazione bipartisan”.
Il quotidiano continua nelle pagine interne ad occuparsi di Israele ed oggi offre un contributo dello storico Benny Morris e una intervista al produttore David Zard. Il grande titolo è: “Il nuovo capro espiatorio”, e, citando Morris, si scrive che “l’Europa ha scelto Israele per espiare il senso di colpa che la devasta”.
Il Fatto quotidiano: “Lo Stato socio dei Corallo’s, un affare da dieci miliardi. Slot machine: la concessione al figlio di un pregiudicato. L’azienda dei monopoli dice di non sapere chi sia il proprietario della Biplus con base nelle Antille Olandesi. Ma spunta il nome di una famiglia chiacchierata”. Un riquadro a centro pagina informa: “Fini in movimento si prepara al voto”. Sotto, notizie sulle ultime regionali in Lombardia: “La lista di Formigoni e quelle 374 firme false. La denuncia dei Radicali che presentano un dossier. Marco CAppato mostra le prove e dice: il Presidente deve dimettersi. La Lombardia deve tornare al voto”.
Fini
Il Corriere della Sera parla della organizzazione del partito di Futuro e Libertà: “Si parte da 15 mila iscritti e ottocento circoli. Il partito sarà modellato su Generazione Italia, nata ad aprile. Il 30 per cento alla ‘prima volta’ in politica”. Accanto, una intervista al politologo Piero Ignazi :”E’ in linea con l’Europa. Voti anti Bossi se esalta la Patria”, il titolo.
Secondo l’analisi di Renato Mannheimer, ancora sul Corriere della Sera, “oggi Fli vale il 7 per cento. Piace agli azzurri delusi”. Il quotidiano offre un quadro delle altre stime di istituti specializzati, che danno il partito di Fini tra il 5,8 e il 7,9 per cento. “Gran parte di quel 7 per cento che costituisce il seguito accreditato di Fli non proviene da An. Si tratta, invece, di elettori delusi dall’azione politica di Berlusconi, o già da tempo avversi a quest’ultima. Perlopiù si trovano tra l’elettorato attuale del Pdl, ma una quota proviene anche dall’Udc e, financo, dai partiti del centrosinistra”.
Secondo Libero il Pdl ha comunque smesso di chiedere le dimissioni di Fini dalla presidenza della Camera. “Per il Pdl è il male minore”. “La terza carica viola platealmente l’etichetta e agisce da capopartito. Ma la maggioranza non ne chiede più le dimissioni: il timore è che il suo successore possa essere anche peggio”.
Andrea Manzella, su La Repubblica, parla del possibile governo di garanzia costituzionale, di una nuova maggioranza parlamentare “fatta, come nei sistemi proporzionali, da una ‘unione di minoranze’. Può servire, secondo Manzella, a molto, se si propone di raggiungere quella “serenità istituzionale” che la Corte Costituzionale ha indicato come interesse rientrante nei principi fondamentali dello Stato di diritto.
Il Ministro degli Esteri Frattini, intervistato dal Corriere della Sera, commenta la nascita del nuovo partito e dice: “Se Fini parla di legge elettorale mina l’alleanza”. “Lo osservo con rispetto. Credo possa essere l’occasione per un confronto che si consolida, non una occasione per dividerci. Tra l’altro, le parole di Fini delineano più un movimento politico di opinione che non un partito”. Frattini considera un gesto di apertura l’intenzione di confermare la finiana Bongiorno alla guida della Commissione Giustizia della Camera. Consiglia invece di non “enfatizzare le provocazioni di qualche esponente di Fli” sulla legge elettorale. Ma conferma che “parlare di una nuova legge elettorale mina le ragioni di una alleanza nata, va ricordato, per effetto di questa legge elettorale”.
Il Sole 24 Ore racconta che ieri Fini ha scritto al Presidente della Commissione affari costituzionali della Camera, Donato Bruno, chiedendo che venga incardinato un dibattito sulla legge elettorale, cioé la riforma su cui potrebbe formarsi una maggioranza alternativa fatta da Fli, Udc, Pd, che batterebbe in termini numerici quella Pdl-Lega. Ma potrebbe subito aprirsi un conflitto con il Senato, poiché è a Palazzo Madama che spetterebbe la competenza sulla legge elettorale, visto che lì la discussione è già avviata, essendovi una legge di iniziativa popolare di Beppe Grillo sul ripristino delle preferenze e circa 15 altre proposte giacenti.
Secondo Il Sole 24 Ore a Bologna, Milano e Napoli, dove si vota per le Amministrative, ci saranno già i candidati di Fini al primo turno. Oggi intanto, scrive La Stampa, riparte in Commissione affari costituzionali al Senato l’iter del Lodo Alfano. Secondo il quotidiano potrebbe persino essere approvato in questo ramo del Parlamento tra due o tre settimane. Nessuna voce nel centrodestra solleva obiezioni. Diffidente l’Udc, che vorrebbe garanzie. Il Pd pensa ad una raffica di emendamenti abrogativi, di bandiera, per poi passare ad alcune proposte mirate, “per limitare il danno”.
Sullo stesso quotidiano un dossier sul sistema politico italiano da cui si deduce che da quando, con il referendum del 1994, vi fu l’avvento del bipolarismo, sono 82 i partiti che hanno avuto rappresentanza alla Camera o al Senato.
Cina
Martin Wolf firma l’editoriale del Sole 24 Ore e si sofferma sula “guerra valutaria” contro la Cina. Una guerra contro la politica di cambio cinese, accusata di “manipolare” il tasso di cambio investendo una buona metà del suo Pil in riserve valutarie, facendo dunque una politica protezionista. Ma la Cina, spiega Wolf, non può accettare una apprezzamento della sua valuta perché questo produrrebbe un danno alle sue esportazioni, e oggi la Cina è il maggior esportatore mondiale. Rischierebbe di finire come il Giappone degli anni novanta. Wolf cita alcune proposte per convincere con le buone la Cina. E quelle che considera più convincenti sono legate ad interventi sul mercato dei capitali, più che su quello degli scambi. “Impedire alla Cina di acquistare titoli di debito di altri paesi fintanto che continuerà a mantenere in vigore rigidi controlli sui flussi di capitali in entrata è una misura diretta e proporzionata, e che soprattutto va nella direzione di una apertura dei mercati”. Qualcuno teme che se la Cina non comprasse più titoli, ad esempio, degli Usa, l’esito potrebbe essere il collasso. “Ma è una eventualità alquanto improbabile, considerando l’enorme surplus finanziario del settore privato in tutto il mondo, e il ruolo che gioca il dollaro”. Insomma: “Adottare una serie di misure che possano trasformare la Cina in un Paese importatore andrebbe a vantaggio sia dei cinesi che del resto del mondo”.
Scrive Timothy Garton Ash su La Repubblica: “Se fossi un teorico delle cospirazioni, affermerei che Osama Bin Laden era un agente segreto cinese. E può anche darsi che le banche, le società che emettono carte di credito, le agenzie di pubblicità, e il governo americano abbiano tacitamente lavorato anch’esse per la Cina. Infatti, mentre dagli attentati dell’11 settembre gli Usa hanno speso oltre 1000 miliardi di dollari per combattere varie guerre all’estero, accumulando in patria un debito colossale quanto il monte Everest, la Cina ha investito in tutta tranquillità gli ultimi dieci anni a prosperare, a risparmiare, a investire, a migliorarsi”. Secondo Garton Ash è necessaria agli Usa una cooperazione trasversale tra i partiti per re-indirizzare il budget verso la necessità di un nation building in patria, che limiti il potere del denaro nella politica americana, che cambi le normative procedurali al Senato.
Su Osama Bin Laden il giornalista britannico Robert Fisk, intervistato da Il Riformista, ricorda di aver intervistato per ben tre volte il capo di Al Qaeda: si dice convinto che lo sceicco abbia ottenuto ciò che cercava, poiché il suo grande successo è la creazione stessa di Al Qaeda, e “dobbiamo ammettere che il risultato è molto originale”. Spiega Fisk: “Per la prima volta nella storia puoi entrare a far parte di un gruppo violento senza dover viaggiare, affiliarti o spendere soldi. Puoi semplicemente svegliarti una mattina e deciderlo. Osama ha creato un esercito di ombre. E si nutre delle nostre ingiustizie, poiché, da Kabul a Teheran, per Fisk l’occidente è l’origine di ogni male mediorientale.
E poi
Il Corriere della Sera riferisce di un monito del presidente egiziano Mubarak al premier israeliano Netanyahu per uno stop alle colonie, altrimenti il conflitto sarà inevitabile: oggi il governo di Gerusalemme deve decidere sulla moratoria degli insediamenti. E anche re Abdallah di Giordania è convinto che il tempo sia finito.
La Nato si avvia a discutere del suo futuro in un vertice a novembre a Lisbona: La Stampa scrive che ci si soffermerà anche sull’articolo 5, che impegna i Paesi alla difesa reciproca, e ipotizza che in futuro gli Stati membri reagiranno non soltanto alle aggressioni militari reali, anche ai cyberattacchi o quando vengono colpite le reti di approvigionamento energetico. Sarebbero questi i contenuti di una bozza del nuovo piano strategico del segretario generale Rasmussen.
Sulle pagine R2 de La Repubblica si parla invece della pubblicazione delle memorie dell’ex Segretaria di Stato Usa Condoleezza Rice: si chiama “Extraordinary, ordinary people”, e rimanda all’incitamento del padre ad essere brave il doppio degli altri, cioé dei bianchi. Ne farà anche una edizione per i ragazzi.
Sul Sole 24 Ore si racconta che Google, attraverso accordi con Hbo, Cnbc, Turner Broadcasting, sta mettendo a punto “gli accordi per la sua televisione”, per lanciare una piattaforma adatta al pubblico di Internet, permettendo agli utenti di navigare tra film, fotografie, show in diretta, canzoni.
Su La Repubblica una intervista ad Achille Occhetto, il segretario del Pci che annunciò il cambio di nome: “Vent’anni fa una svolta inutile, siamo ancora aggrappati al Muro. Occhetto: a sinistra il coraggio si è esaurito con la Bolognina”.
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Romani, un “famiglio” del premier allo sviluppo economico
F. R., 05.10.2010
Le opposizioni non hanno dubbi: è il ministro del conflitto d’interessi e dello sviluppo Mediaset. Mentre in questi 153 giorni di vaccum politico sul tavolo del dicastero si sono accatastati numerosi dossier: quello relativo alle vicende Fiat, la Merloni e l’Indesit, ci sono macigni come Fincantieri e Tirrenia. Le crisi aziendali sono ben 140
Dopo oltre 150 giorni, termina l’interim di Silvio Berlusconi al ministero dello Sviluppo economico, che deteneva dal 4 maggio scorso, quando Claudio Scajola si dimise. Per la sostituzione Berlusconi ha scelto la soluzione interna, o meglio un suo fedelissimo, proponendo alla guida del dicastero Paolo Romani, già vice ministro con delega alle telecomunicazioni.
Un nome che non ha entusiasmato certamente il Quirinale, Tant’è che la cerimonia di ieri sera si è svolta in un clima decisamente freddo.
L’interesse per l’emittenza privata lo ha sempre avvicinato a Berlusconi. Nel 1990 diventa editore dell’emittente Lombardia 7, che cede nel 1995 dopo essere stato eletto deputato. Dal 1986 al 1990 ne è amministratore delegato.Editore di riviste nel settore elettronico e informatico, nel 1976 Romani fonda Milano Tv, specializzata in contenuti cinematografici, che si trasforma poi in Rete A, emittente nazionale, editore Peruzzo. Nel 1974 fonda Tvl Libera, seconda televisione privata italiana, che contribuisce allo sviluppo del mercato dell’emittenza privata.
Un esperto di tlc, dunque, tra gli autori della legge Gasparri, ha seguito da vicino lo sviluppo della banda larga e della rete di ultima generazione con l’obiettivo di superare il digital divide. Nel campo dell’emittenza si è detto favorevole alle modifiche alla legge sulla par condicio, giudicandola “illiberale e liberticida”. Andrebbe cambiata, secondo il suo orientamento, in senso proporzionale, eliminando quindi l’obbligo di riservare a tutte le forze politiche, grandi e piccole, lo stesso spazio. Insomma, con lui trionfa il conflitto di interessi del presidente del Consiglio.
Eppure, sul tavolo dello Sviluppo economico sono numerosi i dossier aperti: le vicende Fiat, ci sono la Merloni e l’Indesit, ci sono macigni come Fincantieri e Tirrenia. Le crisi aziendali (sono ben 140 i tavoli in attesa di ripartire), il blocco nella distribuzione degli incentivi. Tutto fermo da 153 giorni. Un lungo blackout durante il quale neppure le nomine di nuovi membri di agenzie governative, uno dei piatti più golosi a disposizione di un governo, hanno trovato risposta. E poi, ci sono anche un pugno di nomine da controfirmare. Da quelle dell’Agenzia per il Nucleare a quelle dei commissari Enea e Sogin. Al palo resta anche la legge sulla concorrenza, preconfezionata dal sottosegretario Stefano Saglia. E la riforma degli incentivi per le imprese, la cui delega scade a fine febbraio. Ebbene, questi e molti altri temi impegneranno Romani nei prossimi mesi. Ci riuscirà? Scettica Anna Finocchiaro (pd): “Non si intende molto di vertenze aziendali e di crisi d’impresa – sostiene – ed è quindi improbabile che riesca a riparare i danni di cinque mesi di sostanziale assenza del governo nel periodo più acuto della crisi economica”. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, aggiunge: “Bisogna vedere se esiste ancora il ministero dello Sviluppo, che in cinque mesi è stato fatto a pezzi”.
Romani “non è il ministro dello Sviluppo dell’Italia – rincara l’Idv – è il ministro dello sviluppo di Mediaset”. Per Felice Belisario, capogruppo dipietrista al Senato, la nomina di Romani al dicastero di via Veneto “è il trionfo del conflitto di interessi, di un conflitto di interessi mastodontico che viene a galla ogni giorno di più”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15908
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Banda larga, per Calabrò e Romani i consumatori non esistono. Meglio parlare solo con le Tlc 01.10.2010
Eleonora Bianchini
Eccoli i nemici della rete, gli stessi descritti da Alessandro Gilioli e Arturo Di Corinto. Adiconsum ha scritto una lettera al presidente dell’Agcom, Corrado Calabrò, ed una al vice Ministro dello Sviluppo economico – Comunicazioni, On. Paolo Romani, per denunciare l’assenza delle associazioni consumatori all’interno degli organismi istituiti per la realizzazione delle reti di nuova generazione per l’accesso alla banda larga.
Il passaggio delle TLC su reti di nuova generazione – dichiara Pietro Giordano, Segretario Nazionale Adiconsum – è una necessità ed una strategia indispensabile per lo sviluppo del Paese che coinvolge direttamente ogni cittadino/consumatore nel suo diritto di comunicare e di utilizzare il servizio universale con la migliore e più evoluta tecnologia esistente.
Agcom e MISE hanno ritenuto utile non coinvolgere in alcun modo le Associazioni Consumatori, privilegiando solo il rapporto con le grandi imprese di telefoniaoperanti in Italia.
Adiconsum ritiene non giustificato tale comportamento che fra l’altro è in contrapposizione con la realizzazione del tavolo permanente delle associazioni consumatori e con la presenza del CNCU all’interno del Ministero dello Sviluppo Economico.
L’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni, durante la riunione del tavolo permanente con le Associazioni Consumatori ha manifestato la volontà di tenere i consumatori nella giusta considerazione. Alla riunione era, infatti, presente il segretario del comitato NGN, Giovanni Cazora, che ha dichiarato la disponibilità dell’organismo ad ascoltare i consumatori.
Adiconsum – prosegue Giordano – chiede però che il ruolo delle Associazioni Consumatori non sia limitato alla semplice audizione, ma ne sia garantita la rappresentatività nei vari organismi permettendo, quindi, un’azione propositiva che potrebbe investire direttamente il tavolo permanente.
Nessun riscontro, invece da parte del Viceministro Romani.
Adiconsum – conclude Giordano – si adopererà in tutte le sedi affinché l’approccio alla realizzazione delle reti di nuova generazione cambi completamente modalità e consideri l’accesso alla rete come servizio universale e quindi indispensabile per il cittadino che ne deve essere protagonista.
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Ungheria, disastro ecologico (il video): un fiume di fango velenoso invade tre contee 05.10.2010
Un fiume di fango velenoso, risulta del processo di lavorazione dell’alluminio e fuoriuscito per cause ancora da accertare ha invaso 3 contee in Ungheria. Per ora ufficialmente le vittime sono 4 tra cui una bambina di pochi mesi. I feriti sono 120 di cui 20 versano in condizioni gravissime a causa delle ustioni provocate dalle sostante contenute all’interno della fanghiglia rossa che si estende per circa 40 Km quadrati.
In totale sono state colpite sette città, tra cui Kolontal, Devecser e Somlovasarhely.
Il Governo ungherese ha dichiarato lo stato di emergenza nelle tre province interessate dalla fuoriuscita. Per ora la soluzione individuata consiste nel gettare centinaia di tonnellate di gesso nella poltiglia di fango per impedire che possa raggiungere i fiumi Raba e Danubio.
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Rifiuti: cambiare si può! 05.10.2010
La più grave accusa che si può fare alla politica, alla burocrazia che ne è figlia, alle municipalizzate e alle società concessionarie che ne sono la diretta emanazione, è di essere incapaci di gestire la cosa pubblica, quello per cui sono pagate. I “rifiuti” sono una invenzione dei partiti, un alibi per la costruzione di inceneritori, una scusante per creare discariche, per usare l’esercito contro i cittadini. I partiti sono inadatti a gestire il Paese, creano emergenze per giustificare la loro esistenza. A Cesena i cittadini hanno dimostrato che si può riciclare il 91% dei cosiddetti “rifiuti“. Cosiddetti in quanto non esistono “rifiuti” in natura, ma materie prime secondarie che possono essere vendute. In due giorni i partecipanti a Woodstock 5 Stelle hanno prodotto “rifiuti” pari a una città come Forlì, li hanno riciclati quasi interamente e venduti con un ricavo per l’organizzazione di 2.000 euro. Se può farlo il MoVimento 5 Stelle lo può fare qualunque amministrazione pubblica e, se non riesce a farlo, può andare a casa.
“Grazie ai 50 volontari e ai volontarie trasformati in spazzini per raccogliere sacchi, sacchetti, pacchettini, mettendo mano in ogni materiale e dando consigli ai partecipanti. Grazie alle decine di migliaia di persone che in due giorni hanno dato il loro contributo, separando i materiali post consumo (chiamati “rifiuti”) negli appositi contenitori e contribuito a ridurli bevendo prodotti alla spina o portandosi borraccia e stoviglie multiuso da casa. Woodstock 5 Stelle Rifiuti Zero è realtà. Abbiamo battuto ogni record per grandi manifestazioni dimostrando che “Volere è potere“. Nei Mondiali Antirazzisti di Casalecchio lo scorso luglio sono stati differenziati il 73% dei materiali (30mila partecipanti in cinque giorni per 9.570 kg di rifiuti prodotti, dei quali 6960 inviati a riciclo-compostaggio). Woodstock 5 Stelle ha fatto meglio con il 91%! Record assoluto per ogni evento mai tenuto in Italia.
I numeri. Sono stati prodotte 56,64 tonnellate di “rifiuti“. Considerando per una manifestazione esterna+campeggio una produzione giornaliera di 400 gr. pro capite (dato medio di produzione giornaliera per porta a porta senza assimilati industriali) si è avuta un produzione pari a circa 141.625 persone concentrata nei giorni 25/26 settembre.
I risultati. Ciclo-compostaggio: in totale, secondo i dati di Hera che ha effettuato il trasporto degli svuotamenti dei cassonetti di materiale organico ed indifferenziato, sono stati avviati all’impianto di compostaggio “rifiuti” tra le 40-45 tonnellate. A smaltimento indifferenziato invece 5,1 tonnellate. I dati forniti dal Centro Riciclo Vedelago invece parlano di 10,54 tonnellate di materiale riciclabile e trasformabile raccolto in maniera differenziata.
Di questi:
2.920 kg di carta-cartone conferiti alle cartiere (prezzo di mercato 86 €/ton)
60 kg di nylon (prezzo mercato 240 €/ton)
894 kg alluminio /acciaio ( prezzo medio 422 €/ton)
2.137 kg di PET ( 445 €/ton)
4.320 kg di vetro (42 €/ton)
100 kg di legno (110 €/ton)
110 kg di materiale di “secco riciclabile” (160 €/ton).
Il valore del materiale conferito al Centro Riciclo Vedelago è stato di circa 2.000 euro.
Vantaggi ambientali/energetici. Riciclare 4.320 kg di vetro, ha permesso di risparmiare per la produzione di nuovo vetro 5.184 kg di materie prime.
– Se si considera che per produrre 1 kg di alluminio riciclato si utlizza 0.7 kWh e invece 14 kwh se prodotto con materie prime, si sono risparmiati 11.890 Kwh.
-Per produrre una tonnellata di carta da materia prima si tagliano 15 alberi e si usano 440.000 litri acqua, 7600 kwh. Se la carta è invece riciclata: 0 alberi, 1800 litri acqua, 2700 kwh. Woodstock 5 Stelle ha salvato 43 alberi e fatto risparmiiare 1.270.780 litri d’acqua , 14.210 Kwh.
– La produzione di PET è stata limitata al 3,77% dei “rifiuti”, solitamente rappresenta il 10% dei rifiuti, ha fatto risparmiare 6.000 kg di PET, la cui produzione avrebbe richiesto 105.000 litri di acqua e provocato emissioni in atmosfera pari a 240 kg di idrocarburi, 150 kg di ossidi di zolfo, 108 kg di monossido di carbonio e 13.800 kg di anidride carbonica (CO2).” da Matteo Incerti-Raffaella Pirini, responsabili progetto “Woodstock 5 Stelle-Rifiuti Zero” e Federica Cuppini, responsabile coordinamento squadre “ Woodstock 5 Stelle-Rifiuti Zero”
http://www.beppegrillo.it//2010/10/rifiuti_cambiare_si_puo/index.html?s=n2010-10-05
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Grafene, premio Nobel per la Fisica 05.10.2010
Il Nobel di quest’anno va ai due scienziati di origine russa che per primi hanno isolato il “materiale delle meraviglie”, il grafene. Una scoperta che secondo gli ottimisti cambierà per sempre i computer e la tecnologia tutta
Roma – Correva l’anno 2004 quando Andre Geim e Constantin Novoselov, scienziati russi trapiantati nel Regno Unito, annunciarono al mondo la scoperta del grafene, composto monomolecolare a base di carbonio dallo spessore di un singolo atomo. Da allora il materiale non ha cessato di entusiasmare i ricercatori e oggi, dopo sei anni, Geim e Novoselov vengono insigniti del Premio Nobel per la Fisica per i loro “esperimenti rivoluzionari” sul nuovo materiale “bidimensionale”.
Il cinquantunenne Geim dice di essere stato colto di sorpresa dall’assegnazione del Nobel, e sta provando a continuare il suo lavoro quotidiano come se nulla fosse. Di certo lo scienziato non nasconde le speranze (sue e della comunità scientifica nel complesso) che la tecnologia a base di grafene concretizzi tutte le “meravigliose” promesse sin qui alimentate dal nuovo materiale.
Il grafene è formato da “singoli strati di atomi di carbonio organizzati in una griglia a nido di api”, spiega Geim su NewScientist, è dotato di una resistenza e di una durezza superiori a quelle del diamante ma nel contempo può essere “allungato” per un quarto della sua lunghezza. Uno strato di grafene è dotato dell’area di superficie più estesa in proporzione al suo peso, è impermeabile a gas e liquidi, conduce calore ed elettricità con un’efficienza maggiore di quella del rame.
Usando una tecnologia a base di grafite i ricercatori del CERN (quelli del Large Hadron Collider) potrebbero realizzare esperimenti sulle particelle elementari a velocità che ora possono soltanto sognare, dice ancora Geim, mentre microchip di nuova concezione non più basati sul silicio raggiungerebbero facilmente prestazioni quantificabili nell’ordine di svariate centinaia di Gigahertz (o anche qualche Terahertz).
I ricercatori sperano molto nel grafene, dice Geim, con gli ottimisti impegnati a fotografare il passaggio all’era del carbonio dopo quella del silicio e i pessimisti convinti che l’impatto del nuovo materiale sarà giusto un po’ meno drastico di quello che molti sostengono. Nel mentre le previsioni stabiliscono per il 2024 il passaggio di consegne definitivo tra silicio e grafene.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3004094/PI/News/grafene-premio-nobel-fisica.aspx
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Il Direttore Responsabile non è responsabile 05.10.2010
di Guido Scorza – La sentenza della Cassazione lo paragona a un intermediario della comunicazione. Ma il direttore responsabile non è esattamente una piattaforma
Roma – La Sentenza con la quale lo scorso 16 luglio la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto non responsabile ex art. 57 del Codice Penale, il direttore di una testata telematica ha dato vita ad un vivace dibattito tra addetti ai lavori, giornalisti ed editori online. Si tratta, d’altra parte, di una decisione che difficilmente sarebbe potuta passare inosservata: la Corte di Cassazione ha, infatti, ritenuto non responsabile il direttore responsabile di una testata telematica, in un Paese nel quale, talvolta, si è ritenuto responsabile di omesso controllo sui contenuti immessi online dagli utenti persino l’intermediario della comunicazione che la disciplina europea vorrebbe, invece, non responsabile.
I giudizi positivi sulla decisione sono stati, sin qui, di gran lunga superiori a quelli negativi, come probabilmente è normale che sia.
Nella sostanza, peraltro, a leggere i contorni della vicenda che ha dato origine alla decisione, quest’ultima sembra tutto sommato condivisibile: nel corso del giudizio sembrerebbe, infatti, non essersi raggiunta la prova neppure dell’avvenuta pubblicazione del contenuto ritenuto diffamatorio e, in ogni caso, tale contenuto non era rappresentato dall’articolo di un giornalista ma, piuttosto, da una lettera inviata da un lettore.
Si tratta, tuttavia, di una brutta Sentenza, scritta male, da una penna evidentemente a digiuno di questioni della Rete e costruita su una serie di apodittici teoremi che rischiano di produrre più confusione di quanta già non ce ne sia nella disciplina dell’informazione online.
Cominciamo dal principio.
La Sentenza è stata pubblicata in forma anonima, previo mascheramento dei dati, ma la stessa testata online protagonista della vicenda – merateonline.it – nelle scorse ore, ha ritenuto di darne trionfalmente notizia, rendendo dunque noti i nomi dei protagonisti ed i contorni della vicenda che ne ha formato oggetto. Ecco il riassunto di quanto accaduto, proposto sulle pagine di Merateonline: “Nell’estate 2001…appare (?!?) nella rubrica Email la lettera di un lettore con la quale si insinua che la notizia della buste contenente proiettili ricevute da Roberto Castelli e Giuseppe Magni è una bufala e che i due protagonisti della politica locale e nazionale l’avrebbero diffusa per farsi pubblicità. I due querelano, anche se poi Castelli spontaneamente ritira la denuncia. Giuseppe Magni no. Il direttore di Merateonline casca dalle nuvole e dichiara che non risulta che la lettera sia mai apparsa sul sito di Merateonline. Quindi non l’ha vista, non l’ha letta e non ne ha mai autorizzato la pubblicazione. Claudio Brambilla teme sia avvenuto un accesso non autorizzato da parte di un hacker che ha operato dall’esterno e presenta un esposto denuncia alla Procura di Lecco contro ignoti”.
E veniamo ora alla Sentenza. I Giudici della Cassazione non verificano – né danno atto dei risultati di un’eventuale verifica in tal senso effettuata nei precedenti gradi del giudizio – se la testata telematica in questione sia registrata – anche se sembrerebbero dare per scontato che lo sia – né quale sia stato il processo di pubblicazione della lettera, ovvero se la stessa sia stata pubblicata automaticamente come se si trattasse del commento di un lettore in calce ad un articolo o, piuttosto, inviata in redazione e successivamente pubblicata previa selezione.
Entrambe le circostanze, in realtà, appaiono piuttosto rilevanti. Navigando, oggi, sulle pagine di merateonline.it non si trova traccia di alcun riferimento alla registrazione della testata telematica né di alcun form per la pubblicazione automatica di lettere o commenti mentre c’è, certamente, un indirizzo attraverso il quale inviare eventuali lettere alla redazione. Sin qui i fatti.
Veniamo ora ad alcune considerazioni sui principi di diritto stabiliti dalla Cassazione.
I Giudici di legittimità, innanzitutto, dicono, senza mezzi termini, che l’art. 57 del codice penale non è suscettibile di applicazione nei confronti del direttore di una testata pubblicata su un supporto diverso dalla carta. Si tratta, per la verità, di un principio non nuovo e già sancito, in passato, da alcune decisioni di merito. Il principio, tuttavia, non convince.
L’art. 57 c.p., innanzitutto, se si eccettua la sua rubrica – “reati commessi col mezzo della stampa periodica” – non contiene alcun riferimento alla “stampa” e men che meno alla nozione di stampa realizzata attraverso processi tipografici contenuta nella Legge sulla stampa del 1948. Come è noto – e come riconosciuto nella stessa Sentenza dai giudici della Cassazione – è, invece, fuor di dubbio che l’art. 1 della legge 62/2001, dopo aver incluso nella nozione di “prodotto editoriale” anche quello diffuso elettronicamente, prevede che “Il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata, costituente elemento identificativo del prodotto, è sottoposto, altresì, agli obblighi previsti dall’articolo 5 della medesima legge n. 47 del 1948“. Tale previsione stabilisce che nessun giornale o periodico può essere pubblicato in assenza di registrazione e che, per la pubblicazione, è necessario disporre di un direttore responsabile che sia, salvo eccezioni, un giornalista di professione.
Secondo i giudici della Cassazione, tuttavia, “il testo del 2001” si sarebbe limitato a “introdurre la registrazione dei giornali online (che dunque devono avere necessariamente al vertice un direttore) solo per ragioni amministrative e, in ultima analisi, perché possano essere richieste le provvidenze previste per l’editoria (coma ha chiarito il successivo D.Lsvo)” (n.d.r. il riferimento deve essere al D.Lgs. 70/2003 di attuazione della direttiva europea sul commercio elettronico).
Si tratta di una tesi che non convince.
Esigere la nomina di un direttore responsabile che non risponda del contenuto del quotidiano o periodico che dirige sembra davvero troppo persino per la barocca disciplina italiana sulla stampa e l’editoria. A prescindere dunque dalla difficoltà di rintracciare nel principio di tassatività un limite all’applicabilità della fattispecie di reato di cui all’art. 57 c.p. ai direttori di testate online, tale eventuale limite risulterebbe comunque irragionevole non apparendo costituzionalmente sostenibile individuare il discrimen tra le ipotesi di applicabilità e quelle di non applicabilità della fattispecie nel solo supporto attraverso il quale il periodico viene diffuso. E se un quotidiano sin qui edito su carta, da domani venisse diffuso solo in versione elettronica, magari anche sfogliabile, per iPad? Il direttore che sin qui è stato ritenuto responsabile del contenuto della propria pubblicazione, non dovrebbe, in futuro, più esserlo?
Un discorso, invece, diverso sembra necessario in relazione alla responsabilità del direttore di una testata telematica per i contenuti eventualmente pubblicati, in modo automatico, dai lettori ed utenti. In questo caso appare corretto escludere la responsabilità ex art. 57 c.p. del direttore in quanto i commenti dei lettori dovrebbero essere ritenuti estranei al “contenuto del periodico” in relazione al quale può esigersi dal direttore un controllo volto ad evitare la commissione di eventuali illeciti.
Si tratta, d’altra parte, della soluzione recepita nei mesi scorsi nell’Ordinamento francese, nell’ambito del c.d. Statuto della stampa online, varato con la legge HADOPI, nota al grande pubblico per ben altre ragioni. Il legislatore francese, in quella sede, ha espressamente previsto che il direttore responsabile di una testata telematica, abbia, in relazione ai commenti dei lettori, una posizione analoga a quella dell’intermediario della comunicazione, nel senso che non ne sia responsabile salvo che, informato del loro carattere illecito, non si attivi per rimuoverli. In questa prospettiva, la recente Sentenza della Corte di Cassazione avrebbe potuto essere condivisa, ove i giudici avessero ritenuto di esonerare il direttore di Merateonline dalla responsabilità ex art. 57 c.p., perché, in ipotesi, la lettera contenente i riferimenti asseritamente diffamatori fosse risultata pubblicata automaticamente da un lettore-utente.
Il principio che gli ermellini della Suprema Corte hanno inteso fissare è, tuttavia, assai più ampio. Secondo i magistrati, infatti, “la figura del direttore del giornale diffuso sul web” non sarebbe diversa – lo mettono nero su bianco in termini inequivoci – da quella degli intermediari della comunicazione ex art. 14 del D. lgs. 70/2003. In questi termini la decisione non può essere condivisa.
Essa, peraltro, fa apparire ancora più stridenti le recenti pronunzie con le quali, in un’inenarrabile sequenza di episodi, la nostra giurisprudenza, ha addirittura, ritenuto configurabile, a titolo di culpa in vigilando – ovvero la stessa che i giudici della Cassazione non si sono sentiti di imputare al direttore di Merateonline – in capo agli intermediari della comunicazione.
Ordine, contrordine, uguale disordine, recita un vecchio proverbio e, sfortunatamente, la materia dell’informazione e dell’editoria, nel nostro Paese, sembra allo stato contrassegnata da frequenti ordini e contrordini. Solo qualche settimana fa, ad esempio, il Tribunale di Milano, pur riconoscendo la riconducibilità dell’editoria telematica alla disciplina sulla stampa aveva stabilito che solo le testate telematiche registrate possono beneficiare della garanzia di insequestrabilità prevista dall’art. 21 della Costituzione ed aveva peraltro ribadito che non sussiste, per l’online, nessun obbligo di registrazione, salvo che per le testate che abbiano intenzione di accedere ai contributi all’editoria.
Difficile dire quale sia la direzione verso la quale occorra andare ma sembra fuor di dubbio che è urgente un radicale ripensamento della disciplina della materia che tenga nella debita considerazione la circostanza che l’online si avvia a divenire il contesto di riferimento per il mondo dell’informazione. Ben lieto, dunque, di unirmi al coro di soddisfazione e rallegramenti per l’assoluzione del direttore di Merateonline se il contenuto in questione era, effettivamente, rimasto sottratto alla sua possibilità di controllo per essere stato pubblicato automaticamente da un utente ma non posso astenermi dal rilevare come certe Sentenze facciano più male che bene al diritto dell’informazione e dell’informatica.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it
http://punto-informatico.it/3003555/PI/Commenti/direttore-responsabile-non-responsabile.aspx
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Ignorata la legge contro il dolore 04.10.2010
di Marzio Bartoloni (da Il Sole-24 Ore del Lunedì)
Medici e ospedali rischiano di affondare la lotta al dolore nel nostro Paese. A sei mesi dall’entrata in vigore della legge 38, approvata con voto bipartisan e all’unanimità tra gli applausi di tutto il Parlamento, il diritto a non soffrire per milioni di italiani resta ancora sulla carta.
Pochi gli oppioidi prescritti dai camici bianchi, nonostante si tratti di farmaci cruciali per lenire sofferenze inutili ad almeno 250mila malati terminali e a milioni di pazienti cronici. Dopo il via libera del marzo scorso alla legge che ha semplificato la prescrizione dei farmaci anti-dolore autorizzando i medici a utilizzare il normale ricettario del Ssn, la crescita è stata modesta: solo l’8% in più rispetto alle già pochissime confezioni vendute nel passato. E comunque molto indietro ai consumi degli altri Paesi europei.
Pochi anche gli ospedali che hanno deciso di rispettare l’obbligo sancito dalla legge di monitorare nella cartella clinica il livello di dolore di tutti i pazienti. Una rivoluzione, questa, tanto attesa quanto delusa. Oggi rispetta questo diritto degli assistiti poco più della metà degli ospedali (il 60 per cento). Con una aggravante: la stragrande maggioranza si è messa in regola ben prima dell’approvazione delle nuove norme. Gli altri, invece, della legge non sembra essersene accorti.
A scattare questa fotografia impietosa è un’indagine che «Il Sole 24 Ore Sanità» ha realizzato con il centro studi Mundipharma e Fadoi (la federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti) su 135 reparti di medicina generale. Un’indagine che traccia un primissimo bilancio della legge piuttosto negativo. Aggravato dal fatto che dopo sei mesi non c’è traccia anche di altri adempimenti: entro fine giugno scorso Governo e Regioni dovevano disegnare, con un’intesa, l’identikit della rete nazionale e di quelle regionali per le cure palliative e la terapia del dolore, indicando strutture e figure professionali che ci dovrebbero lavorare. Mentre entro fine settembre il ministero dell’Istruzione e dell’Università doveva – con uno o più decreti – dare vita a percorsi formativi e a un master ad hoc sulle cure palliative e la terapia del dolore per medici e personale sanitario. Ma i provvedimenti finora mancano all’appello.
«L’applicazione della nuova normativa non è sicuramente semplice – avverte Furio Zucco, medico esperto del settore e coordinatore di questa indagine -, ma ora ci aspettiamo nei prossimi mesi un grande sforzo da parte di Governo, regioni, ospedali e medici per applicare finalmente questa legge sacrosanta»
http://www.sanita.ilsole24ore.com/PrimoPiano/Detail/1338708
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