122 milioni di dollari per la fotosintesi artificiale 07.2010
Un programma di ricerca quinquennale, dotato di 122 milioni di dollari, per sviluppare un sistema integrato di conversione chimico-solare in grado di produrre combustibili partendo da acqua, anidride carbonica e luce solare. Lo ha costituito il Dipartimento per l’Energia USA (DOE), annunciando che la ricerca sarà svolta dal neonato Joint Center for Artificial Photosynthesis (JCAP), guidato dal California Institute of Technology di Pasadena (CalTech) e dal Lawrence Berkeley National Laboratory (Berkeley Lab) del DOE, centro che includerà anche ricercatori di altre istituzioni universitarie. Si tratta quindi di una vera e propria rete di ricerca costituita con l’obiettivo di commercializzare carburanti prodotti da fonti naturali, quali sole, acqua e anidride carbonica.
Il processo che sarà studiato imiterà sostanzialmente la fotosintesi, ma invece di ottenere zuccheri dalla combinazione di energia solare e CO2 dovrebbe produrre metano e altri idrocarburi realizzando un sistema integrato di conversione chimico-solare.
Trovare un modo economico e pulito di produrre carburanti, imitando attraverso un processo industriale quanto avviene nei tessuti vegetali, sarebbe una vera rivoluzione – come sostiene il vicesegretario del DOE, Daniel Poneman – e segnerebbe una svolta decisiva per ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera, diminuire la dipendenza dal petrolio e aumentare la sicurezza energetica.
La ricerca del JCAP sarà orientata alla scoperta degli elementi funzionali necessari per assemblare un processo completo di fotosintesi artificiale: assorbitori di luce, catalizzatori, leganti molecolari, membrane di separazione. Gli scienziati dell’hub integreranno tali componenti in un sistema operativo per la produzione di combustibile solare e lo sviluppo di processi per passare dalla fase di ricerca in laboratorio alla produzione su scala commerciale. Tra le possibili applicazioni della tecnologia “sunlight-to-fuel” c’è anche la cattura della CO2 permettendo alle centrali di energia di trasformare la CO2 emessa in combustibile e ossigeno.
La fotosintesi artificiale non è un’idea nuova: i numerosi tentativi, fatti in passato per crearla in laboratorio, spesso sono stati abbandonati a causa degli alti costi e della bassa efficienza. Il Joint Center for Artificial Photosynthesis proverà a superare questi ostacoli utilizzando, ad esempio, nanocristalli di ossido di cobalto come catalizzatori nei processi di fotossidazione. Uno dei principali vantaggi dell’ossido di cobalto è che si trova in abbondanza e a buon mercato, mentre i catalizzatori utilizzati finora erano spesso ricavati da alcuni dei materiali più rari sulla terra. Un’altra sfida del team è eliminare i processi intermedi di raffinazione, creando un combustibile già pronto per l’uso.
Fonte: U.S. Department of Energy
http://www.scienzaegoverno.org/n/086/086_01.htm
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Gerusalemme: corrente elettrica da patate bollite 07.2010
Il prodotto alimentare più diffuso nel mondo, coltivato in circa 130 paesi e disponibile in tutte le stagioni dell’anno, può generare energia elettrica a basso costo attraverso un semplice trattamento e mezzi facilmente disponibili.
Secondo i ricercatori della Yissum Research Development Company, una start up creata dall’Università di Gerusalemme, una batteria creata partendo dalle patate può sostituire le pile da 1,5 Volt con un costo 50 volte inferiore. Partendo dalla già nota capacità delle patate di produrre energia hanno, infatti, scoperto che la forza dei legami tra i sali che si trovano nei tuberi di patata trattati possono generare elettricità attraverso dei mezzi semplici e disponibili anche nei paesi in via di sviluppo.
Gli scienziati ne danno notizia sul Journal of Renewable and Sustainable Energy, annunciando di aver realizzato una batteria efficiente ponendo una fetta di patata comune in contatto con due elettrodi, uno di zinco e uno di rame, che collegati tra loro vanno a formare la batteria e di aver scoperto che, bollendo la patata prima di usarla in elettrolisi, l’energia elettrica prodotta è fino a 10 volte superiore rispetto a quella derivante da una patata cruda. Questo semplice procedimento, inoltre, consente alla batteria di rimanere attiva per giorni o addirittura settimane: minore è la resistenza del ponte salino nella batteria di patate, più le batterie sono, dunque, longeve ed efficienti.
Il procedimento batterie alimentate a patate (con bassa potenza elettrica) è stato utilizzato per LED di potenza: batterie che sono in grado di fornire illuminazione, energia per telecomunicazione e trasferimento di informazioni nelle aree in via di sviluppo, soprattutto in caso di insufficiente funzionamento delle infrastrutture elettriche tradizionali.
È noto anche, inoltre, che anche altri ortaggi trattati possono essere utilizzati per fornire energia pulita e poco costosa, ma le patate possono essere considerate come verdura di prima scelta per alimentare le batterie a energia pulita grazie alla loro elevata produzione e alla facile disponibilità sul mercato.
“La capacità di fornire energia elettrica con mezzi così semplici e naturali potrebbe essere di beneficio per milioni di persone nei paesi in via di sviluppo, portando luce e telecomunicazione nella loro vita, in zone attualmente prive di infrastrutture elettriche”, ha dichiarato Yaacov Michlin, dello Yissum Research Development Co.
La ricerca nei processi elettrolitici sulla materia vivente può essere utilizzata per molte applicazioni, compresa la produzione di energia elettrica, come per dispositivi elettronici medici impiantati e auto-alimentati.
Fonti: The Hebrew University of Jerusalem
Journal of Renewable and Sustainable Energy
http://www.scienzaegoverno.org/n/086/086_02.htm
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A Milano un nuovo Centro per aumentare l’efficienza del fotovoltaico con le nanotecnologie 23.07.2010
di Luca Vaglio
Nanotecnologie a servizio del fotovoltaico. E’ la mission del Centro Internazionale sulla fotonica per l’energia, che Regione Lombardia, Consiglio Nazionale delle Ricerche (Istituto di Fotonica e Nanotecnologie del Cnr), Fondazione Politecnico di Milano e Pirelli si sono impegnati a costituire attraverso un protocollo di intesa triennale. Il Centro nasce con l’obiettivo di realizzare sistemi fotovoltaici ad elevata efficienza e con costi ridotti. “Nel giro di tre anni contiamo completare un prodotto preindustriale in grado di garantire un’efficienza di conversione della luce solare tra il 20% e il 30% contro il 15% medio dei sistemi attualmente in commercio, dimezzando i costi di produzione”, spiega Graziano Dragoni, direttore generale della Fondazione Politecnico di Milano. Questi risultati saranno possibili grazie all’uso delle tecnologie nanometriche sviluppate dal Cnr e alle competenze del laboratorio PoliCom del Politecnico di Milano, nato nel 2009 in seguito alla collaborazione tra il Politecnico e Pirelli Labs. “Le celle di silicio verranno trattate e modificate attraverso processi di nano-lavorazione ottenuti per mezzo di laser di nuova generazione che miglioreranno la capacità di gestire lo spettro della luce solare. In particolare, il nuovo sistema fotovoltaico sarà in grado di convertire con più efficacia le radiazioni solari infrarosse rispetto a quanto avviene negli impianti ora sul mercato. Inoltre, il maggior rendimento energetico permetterà di usare meno silicio e di contenere i costi, scendendo sotto la soglia di un dollaro per watt”, continua Dragoni. Il Centro si propone di valorizzare l’espansione del fotovoltaico che, secondo una ricerca della Camera di Commercio di Milano e del Politecnico, nella sola Lombardia è destinato nel 2011 a raggiungere una produzione di 230 Mw, quattro volte superiore ai 57 Mw del 2009. E guardando a tutto il mercato italiano, in base ai dati GIFI (Gruppo Imprese Fotovoltaiche Italiane), se nel 2009 si stimava una potenza installata di 580 Mw, nel 2020 si prevede di arrivare a quota 15.000 Mw. La Regione si attiverà per coinvolgere realtà industriali del territorio e valuterà l’eventualità di cofinanziare progetti di ricerca attraverso risorse nazionali o comunitarie. “Il Centro internazionale della Nanofotonica – ha dichiarato il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni – è un’importante occasione di sviluppo perché interessa molti temi strategici: la riduzione della dipendenza energetica dall’estero, l’utilizzo delle fonti alternative per la produzione di elettricità e il risparmio energetico”. E già hanno manifestato interesse a partecipare al progetto l’Università di Pavia, l’Università Cattolica di Brescia, l’Università Milano Bicocca e l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (IIT), mentre tra i soggetti attivi nel mondo dell’industria sono pronti a collaborare Cesi, Mx Group, Compel e Gruppo Made.
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Carceri, è tortura di Stato 21.07.2010
di Tommaso Cerno
Immaginate di passare ogni giorno in una cella di due metri a quaranta gradi. In piedi o sdraiati su una gommapiuma impregnata dal sudore altrui. Questa è tortura vera, non metaforica. La denuncia di Adriano Sofri
Carceri sovraffollate. Celle anguste. Caldo. Niente acqua. Niente aria. Un’estate torrida che spinge a violenze e autolesionismo. Fino al suicidio in cella di chi è così disperato da non voler più vivere. L’allarme che “L’espresso” aveva lanciato qualche mese fa, denunciando il limite di capienza ormai sforato degli istituti penitenziari italiani, diventa cronaca quotidiana di morte nelle galere. E la ragione è un sistema detentivo ai limiti dell’umano, che Adriano Sofri equipara a «una tortura di Stato».
Cosa significa davvero trascorrere in carcere un’estate come questa?
«Per capirlo basta pensare a cosa significhi questo caldo torrido per una persona libera. Chiunque soffre a queste temperature la mancanza d’aria fresca, ha difficoltà a muoversi, a spostarsi e a dormire. Se trasferiamo queste sofferenze in una cella dove lo spazio è di due metri quadrati è facile immaginare cosa succede dentro le prigioni. E’ come passare l’estate su un autobus nell’ora di punta. Puoi al massimo sederti, ma non sempre è possibile, perché non c’è lo spazio. Puoi stare in piedi per ore, oppure sdraiato su una squallida branda, a giacere su materassi vecchi, impropriamente chiamati di gommapiuma e imbevuti del sudore di generazioni di detenuti che ci marciscono sopra. Ogni ora, ogni giorno».
E la notte?
«Le celle vengono chiuse il più delle volte alle 18, oppure alle 20, e restano chiuse da quell’ora fino al mattino successivo. Le finestre hanno normalmente tre file di ferro: una grata, una fila di sbarre e una seconda di sbarre meno fitte. A certe ore il sole batte dritto su quell’ammasso di ferro che fa da coperchio e trasforma la cella in una triplice graticola che agisce come uno strumento di tortura sui detenuti stipati all’interno. E’ lo strumento che rese celebre San Lorenzo. Sono dei forni veri e propri e all’interno ci sono persone che non possono fare nulla, se non stare immobili, giacere ed attendere che prima o poi l’agonia finisca».
E’ per questo che violenze e suicidi aumentano?
«Sì. Le violenze e anche l’autolesionismo grave. Ci sono detenuti che si riducono a brandelli perché sperano di essere portati in infermeria, di poter prendere degli antidolorifici o dei farmaci, o anche solo sperano di poter fumare una sigaretta».
Nei primi sei mesi di quest’anno 37 detenuti si sono tolti la vita in cella.
«Secondo me la domanda che dovremo farci, in queste condizioni, non è perché ci si suicidi così tanto, ma piuttosto perché ci si suicidi ancora così poco, visto che le carceri sono strutture che non portano affatto alla rieducazione, ma piuttosto istigano a farla finita, all’incubo ottocentesco di essere sepolti vivi. Spesso manca anche l’acqua per lavarsi la faccia e quella dei rubinetti non è potabile. Dovrebbero essere distribuite bottiglie d’acqua a basso costo, che il carcere spesso invece non distribuisce».
Perché lo Stato non interviene?
«La realtà è che nelle carceri italiane c’è la tortura. Non in senso generico o metaforico, proprio in senso tecnico. Queste condizioni, anche senza botte o provocazioni volontarie, si configura come una tortura di Stato. Per cui, se esiste un torturato esiste anche un torturatore. Non parlo degli agenti penitenziari che sono a loro volta, in senso lato, dei semi-detenuti, ma delle autorità che hanno a che fare con questo sistema. Gente che per cattiveria, imbecillità o peggio fa leggi che spediscono in carcere persone che non ci dovrebbero andare. E che non prende alcuna misura per evitare la situazione tragica a cui le condanna».
I magistrati potrebbero fare qualcosa?
«I magistrati, quando non hanno una vocazione almeno iniziale a occuparsi delle carceri credendoci davvero (e sono la minoranza, molti più fra le donne), sono persone che cercano di smaltire con il minimo danno la gestione di una discarica, a loro affidata, con istruzioni che dicono di fare il meno possibile e di girarsi dall’altra parte. Spesso quello che sentenziano è un voto a fine scrutinio: 10, oppure 18. Ma nessuno pensa che quel 10 significa 10 anni moltiplicati per 365 giorni e ancora per 24 ore, per due metri quadrati e per tre file di sbarre. Su questo i magistrati sembrano non porsi nemmeno il problema».
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/carceri-e-tortura-di-stato%3Cbr-%3E/2131065
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Iran: lanciato sito web contro l’Olocausto ‘invenzione sionista’ 05.08.2010
Teheran. Una ong iraniana filogovernativa, l’istituto culturale Khakriz, ha pubblicato un sito web contro l’Olocausto per ‘dimostrare’ che il genocidio di sei milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale sarebbe in realta’ il frutto della “propaganda sionista”. ‘Holocartoons.com’, questo il nome del sito, e’ in gran parte basato su un libro pubblicato nel 2008 contenente caricature e vignette che mettono in dubbio l’Olocausto e insinuano appunto il sospetto che lo sterminio sia stato strumentalizzato dagli israeliani. Nel sito si sottolinea che l’iniziativa non e’ contro i “veri seguaci di Mosè”, ma contro i sionisti.Il sito web si apre, sulle note della celebre melodia della ‘Pantera Rosa’, con la dedica “a tutti coloro che sono stati uccisi con il pretesto dell’Olocausto”, ovvero con un chiaro riferimento ai palestinesi che, secondo Teheran, sono vittime della violenza israeliana. Nelle pagine successive viene quindi divulgato il contenuto del libro che, a quanto si legge nelle prime righe, “intende denunciare l’evidente bugia dell’omicidio di sei milioni di ebrei”. Nel volume si distinguono anche numerose vignette offensive nei confronti degli israeliani, ritratti spesso con il naso lungo e viene piu’ volte affermato che l’Olocausto non e’ altro che “un pretesto per occupare le terre dei palestinesi”. Iran e Israele non hanno rapporti diplomatici da oltre 30 anni. A partire dal 2005, anno dell’elezione in Iran del presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, i toni dello scontro verbale tra i due Paesi si sono riaccesi drammaticamente, al punto che le autorita’ di Teheran si riferiscono al governo di Gerusalemme chiamandolo “regime sionista”. Il governo iraniano ha fatto della politica anti-israeliana uno dei suoi cavalli di battaglia negli ultimi anni. Nel dicembre 2006 Teheran ha ospitato anche una conferenza internazionale sull’Olocausto a cui hanno partecipato esponenti filonazisti della corrente negazionista.
Fonte: Adnkronos
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Il capitalismo, la crisi e le regole necessarie
Pietro Ancona, 06.08.2010
Le crisi aziendali portano quasi sempre a una riduzione del costo del personale, ottenuta tramite i licenziamenti. Ma il più delle volte non serve per ridurre i costi delle imprese, ma solo per spostare risorse dalla base al vertice del piramide, dai dipendenti al management. Una pratica e un andazzo scandalosi, che vanno fermati e riformati per rendere più democratico e “sociale” l’assetto delle aziende
In Italia non sono noti studi adeguati sulle crisi aziendali che quasi sempre si concludono con licenziamenti che dimagriscono la base lavorativa delle imprese o degli enti. Se questi studi ci fossero si dimostrerebbe che le ristrutturazioni che hanno causato a volte traumi sociali terribili non conducono quasi mai ad una riduzione dei costi “complessivi” delle imprese. E’ vero che parte della manodopera viene espulsa dall’innovazione tecnologica che cancella posti di lavoro ma questa causa è sempre più rara e le motivazioni sono altre. In primo luogo spesso si spostano risorse dalla base al vertice delle imprese. Marchionne, mentre annunzia la necessità di ridurre a livelli inferiori a quelli contrattuali i salari dei metalmeccanici e nega un modestissimo premio di produzione, distribuisce ai dirigenti sostanziosi benefit. Nelle telecomunicazioni, nel sistema bancario, nelle aziende quotate in borsa e dirette da amministratori delegati e managers che non coincidono più con la proprietà avvengono sempre più frequentemente operazioni di “dimagrimento” motivate dal ritornello che bisogna ridurre i costi se si vuole sopravvivere e stare nel mercato. Appena realizzati i licenziamenti, i risparmi ottenuti vengono immediatamente assorbiti dal management e dalle alte sfere burocratiche interne.
Quello che in realtà accade è che quasi sempre i costi non diminuiscono anzi spesso aumentano. La voracità dei vertici dirigenziali delle imprese è diventata scandalosa ed oramai sfugge a qualsiasi regola non solo etica ma di buon senso e di ordine. Ne abbiamo avuto un clamoroso esempio durante la crisi del sistema finanziario statunitense in cui, mentre la gente veniva cacciata via dalle banche e dalle assicurazioni dai vigilantes che a malapena consentivano di raccogliere gli oggetti personali dalle scrivanie, i papaveri si liquidano milioni di dollari di gratifiche alla faccia degli azionisti e senza alcuna vergogna. La proposta di Obama di contenere queste regalie alle aziende che non avevano avuto aiuti federali è stata fischiata da Soros e del branco compatto dei pescicani sostenuti dal Congresso.
Insomma si riducono i costi del personale con i licenziamenti per aumentare i costi delle sfere superiori delle burocrazie aziendali specialmente nelle banche oppure per cedere pezzi di attività ad esterni spesso in rapporti ambigui ed oscuri con le dirigenze. Nella pubblica amministrazione, in particolare nella sanità o nel comparto delle forze armate, le esternalizzazioni dei servizi a privati, le privatizzazioni di interi comparti, non producono alcuna riduzione di costi e spesso li aumentano. Hanno però causato un risultato deprecabile costituito dalla crescente rigidità di movimento degli enti pubblici a cominciare dai Comuni. Una volta era possibile che, in caso di grosse crisi sociali, gli enti territoriali della pubblica amministrazione, intervenissero con proposte di occupazione in impieghi sostitutivi. Ora non è più possibile. La sciagurata moda bipartisan delle privatizzazioni ha immobilizzato gli Enti ed in particolare i Comuni che non sono in grado di intervenire perché tutti i servizi sono stati appaltati a privati. Non si fanno inoltre quasi più i concorsi che costituivano la tappa post scolastica dei giovani e che davano accesso ordinato e soddisfacente al lavoro.
E’ profondamente cambiata la natura delle aziende e della stessa pubblica amministrazione in senso negativo ed asociale. Nelle aziende le posizioni dei dirigenti sono diventate costosissime e sempre più importanti e decisive. Il controllo degli azionisti è inesistente ed in ogni caso questi non hanno alcun potere reale di limitare o mitigare l’ingordigia strabordante dei leaders. Non c’è nulla di più antidemocratico di una società per azioni le cui riunioni annuali sono momenti di spartizione delle oligarchie ai danni della massa degli azionisti.
Quando si parla di costo del lavoro bisognerebbe esaminare la quantità e le dinamiche dei salari, degli stipendi e degli emolumenti. Ci renderemmo conto che la crisi non è mai esistita per le dirigenze che hanno una sequenza di miglioramenti strabilianti a fronte della stagnazione e delle riduzione effettiva dei salari dei dipendenti. La distanza tra questi ed i loro capi è diventata insopportabile. Non c’è alcuna ragione che possa giustificare il fatto che una persona guadagni quanto mille suoi dipendenti che peraltro sono soggetti alla legge bronzea dei salari applicata duramente da gente che, per collocazione strategica dentro l’impresa, è nelle condizioni di fissarsi la retribuzione e ne approfitta sfacciatamente.
Insomma si pone il problema di una riforma profonda del sistema delle imprese e della regolazione delle dinamiche interne delle dirigenze e dei lavoratori. Gli azionisti dovrebbero contare molto di più ed i consigli di amministrazioni dovrebbero avere poteri assai limitati per quanto riguarda il trattamento dei loro componenti. Si dovrebbero inoltre limitare le esternalizzazioni di servizi che impoveriscono la cultura delle imprese. Le delocalizzazioni dovrebbe essere preventivamente autorizzate e non affidate all’arbitrio dei privati. Non è vero che le regole irrigidiscono e rendono goffa e perdente l’impresa. E’ vero invece che la libertà di cui godono attualmente gli esponenti del capitalismo è eccessiva, arriva alla licenza ed alla pirateria, diventa antisociale. Non è detto che le scelte e gli interessi del management siano quelli della impresa, dei loro dipendenti, del paese. La libertà senza regole in chi ha in mano la sorte di comunità intere non è condivisibile. Il potere della Confindustria deve essere ridimensionato e regolato. Lasseiz faire laissez passer non è andato mai bene e meno che mai nell’era della globalizzazione che reclama regoli forti per tutti se non si vuole devastare la vita di milioni di persone.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15563
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DeerDeter: dagli USA un sistema per evitare incidenti stradali con gli animali 10.08.2010
“DeerDeter” è un sistema studiato per evitare incidenti stradali con gli animali – soprattutto selvatici – messo a punto dallo Utah Department of Transportation, in collaborazione con la società europea Jafa Technologies. Il “DeerDeter” è composto da un piccolo pezzo di plexiglass, posizionato sulla parte anteriore del veicolo e abbinato a dei sensori che, quando rilevano la presenza di un animale, emettono suoni e fasci luminosi per spaventare l’animale che scappa perché avverte la situazione di pericolo. Il “DeerDeter” è al momento un progetto in fase di sperimentazione che sta per essere testato su 100 automobili.
Come dice il nome stesso, il “DeerDeter” è un deterente verso l’impatto con i cervi che popolano lo stato americano dello Utah. Solo quest’anno, negli USA gli incidenti stradali con gli animali selvatici sono stati 1,5 milioni e hanno provocato già 150 morti. Jafa Technologies assicura che il “DeerDeter” ridurrà gli impatti con cervi e animali del 90%. Si tratta di una soluzione importante che potrebbe essere adottata anche da noi, per evitare la moria di cani e gatti che si registra da sempre sulle strade italiane, soprattutto in questo periodo in cui gli animali vengono abbandonati maggiormente.
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Addio a Matt Simmons, teorico del picco del petrolio 10.08.2010
E’ morto Matt Simmons, storico “guru” della teoria del picco del petrolio. Simmons è deceduto l’altro ieri a casa propria, nel Maine, stroncato da un infarto.
Già consigliere del presidente degli Stati Uniti Goerge W. Bush, è stato fino alla morte membro del National Petroleum Council e del Council on Foreign Relations e ha attivamente collaborato con l’Associazione per lo studio del picco del petrolio e del gas (Aspo).
Nel 2007 aveva fondato l’Ocean Energy Institute, un think tank specializzato in progetti di produzione di energia rinnovabile dal moto ondoso degli oceani.
La sua ultima apparizione televisiva risale al mese di luglio, quando fu intervistato da Bloomberg Tv sulla marea nera.
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Tune Hotel: primo hotel low cost in Europa 10.08.2010
Tune Hotels, un gruppo alberghiero della Malesia, facente capo a Tony Fernandes proprietario tra le altre cose della compagnia low cost AirAsia, intende rivoluzionare il settore dell’ospitalità in Europa con l’apertura anche a Londra di un Tune Hotel, un hotel low cost dal costo di 35 sterline a notte, ma dove gli extra si pagano tutti, dagli asciugamani alle pulizie della stanza.
Tune Hotel aprirà a Londra dopo aver gia’ aperto in Malesia ed Indonesia (2 sterline a notte) creando una sinergia con volo intercontinentale low cost AirAsia che collega Kuala Lumpur alla capitale britannica. Se avrà successo ne apriranno altri 15 solo a Londra entro il 2017. Nell’albergo a Westminster Bridge Road un set di asciugamani puliti costa una sterlina, la pulizia della stanza 7,50 (è consentito farsele da soli), il deposito bagagli 2 sterline e l’uso dell’asciugacapelli sempre 2 sterline.
«La cosa importante è la possibilità di scegliere – dice Mark Lancaster, direttore esecutivo di Tune Hotels – Noi diciamo che il cliente deve assemblare la propria esperienza come meglio crede. Noi forniamo tutto in termini di tempestività, prezzi e comfort. Se vuoi stare in un hotel a 5 stelle, Londra ne offre in gran quantità. Ma se sei preoccupato dei prezzi, noi possiamo diventare rilevanti».
http://malaysianews.myblog.it/archive/2010/08/13/tune-hotel-primo-hotel-low-cost-in-europa.html
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Macelleria G8
Diaz, promosso Mortola 10.08.2010
di Lia Quilici
L’ex capo della Digos genovese nei giorni dei pestaggi è stato nominato questore dal ministro Maroni. La Corte d’Appello gli aveva appena inflitto 3 anni e otto mesi per i fatti del 2001
La Polizia di Stato da oggi può vantare un nuovo questore, fresco di promozione. Si chiama Spartaco Mortola, nato a Camogli e attualmente numero due alla questura di Torino: è uno dei poliziotti condannati in appello per il blitz del 2001 alla scuola Diaz, a Genova, durante il G8.
La notizia è destinata creare non poche polemiche, a quasi dieci anni dalla “macelleria messicana” e a poche settimane dalla pubblicazione della sentenza di secondo grado per quei fatti.
A Mortola è stata inflitta una pena di tre anni e otto mesi perché faceva parte di quel gruppo di uomini delle forze dell’ordine che «preso atto del fallimentare esito della perquisizione, si sono attivamente adoperati per nascondere la vergognosa condotta dei poliziotti violenti concorrendo a predisporre una serie di false rappresentazioni della realtà a costo di arrestare e accusare ingiustamente i presenti nella scuola», come recitano appunto le motivazioni dell’appello. In primo grado Mortola era stato assolto.
All’epoca dei fatti Mortola era il capo della Digos di Genova, quindi il poliziotto a cui facevano riferimento – per conoscenza del territorio – gli altri funzionari spediti nel capoluogo per il G8 da Roma e da Napoli. Fu pertanto a lui che vennero affidate le famose bottiglie molotov portate dalla stessa Digos all’interno della scuola per giustificare il pestaggio che ne segui. Al processo, Mortola ammise che portare quelle bottiglie incendiarie nella scuola fu «una forzatura giuridica». Il Tribunale ha ritenuto che si trattava di qualcosa di un po’ più grave.
Insieme a Mortola sono stati condannati in secondo grado altri 24 imputati, tra cui il capo dell’anticrimine Francesco Gratteri (4 anni), l’ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini (5 anni), Giovanni Luperi (4 anni) e Gilberto Caldarozzi (3 anni e 8 mesi).
Nella sentenza, la Corte ha stabilito che la violenta repressione del 21 luglio 2001 (il giorno dopo l’uccisione di Carlo Giuliani) e l’irruzione alla Diaz erano nate da una «richiesta» arrivata dall’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, a sua volta promosso capo dei servizi segreti. Una «pressione psicologica» che per la Corte però «non giustifica in nulla la commissione dei reati né l’eventuale malinteso spirito di corpo che ha caratterizzato anche successivamente la scarsa collaborazione con l’ufficio di Procura». Insomma, i poliziotti potrebbero essere poi andati al di là delle intenzioni, con i pestaggi e le violenze.
La notte del 21 luglio 2001 fu in effetti una delle pagine più nere della storia della polizia italiana. Nell’operazione Diaz rimasero vittime decine di persone del tutto estranee agli incidenti che erano avvenuti il giorno precedente.
Il segretario generale del sindacato di polizia Siulp, Roberto Traverso, ha duramente contestato la decisione di promuovere Mortola: «Cosa diranno i genovesi adesso? Oltre al danno, è una beffa per la nostra categoria, che per quei maledetti giorni del 2001 sta ancora pagando mediaticamente un prezzo altissimo. L’amministrazione non ha mosso un dito per la ‘truppa’ ma promuove i vertici condannati».
Non si sa ancora a quale città italiana verrà destinato il nuovo questore. Nessun commento sulla nomina è arrivato dal ministro degli Interni Roberto Maroni, responsabile della promozione.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/diaz-promosso-mortola/2132242
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Innovazione al femminile: i premi Itwiin a due ricercatrici Cnr 11.08.2010
Le accomuna la voglia di mettere a disposizione della società il loro talento e il loro sapere attraverso progetti innovativi e la grinta che le ha portate a concorrere per uno delle competizioni high tech più tra le più prestigiose a livello nazionale. Stiamo parlando di Carla Ferreri e Paola Lavermicocca, ricercatrici del Cnr che, nell’ambito del convegno annuale Itwiin, (Associazione italiana donne inventrici e innovatrici) riunitosi alla fine di giugno, a Bari, si sono aggiudicate due dei riconoscimenti assegnati nel corso del meeting, rispettivamente il premio ‘migliore donna innovatrice’ dell’anno e quello ‘Itwiin Puglia’ per progetti riconducibili a un unico obiettivo: migliorare la qualità della vita e il livello di benessere della società favorendo l’assunzione di stili di alimentazione più sani e corretti.
Carla Ferreri, dell’Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività (Isof) del Cnr di Bologna è socio fondatore dello spin off Lipinutragen, società di diagnostica avanzata per la quale è responsabile del laboratorio di ‘lipidomica’, un settore di studio che ha aperto una nuova frontiera della medicina attraverso l’esplorazione della membrana cellulare e della sua composizione lipidica, fat profile. “E’ una metodologia di analisi”, spiega Ferreri, “che permette di ottenere un quadro dinamico della membrana cellulare a partire da un’insieme di fattori quali abitudini di vita, metabolismo del soggetto, dieta sbilanciata e stato di stress cellulare, e attraverso esso ‘controllare’ lo stato di salute delle cellule, evidenziando deficit o eccessi di acidi grassi o lipidi ‘trans’, così da mettere in atto, dove necessario, strategie di integrazione personalizzate sia dietetiche sia farmaceutiche”. [immagine]
Uno strumento utile per coadiuvare terapie mediche e per prevenire degradazioni cellulari quali lo stress radicalico attraverso un approccio orientato alla ‘nutraceutica’, settore complementare a quello propriamente farmaceutico. “Quotidianamente i mezzi di informazione ci bombardano con consigli e suggerimenti dietetici, come l’assunzione di integratori alimentari quali i famosi omega-3 e omega-6”, prosegue la ricercatrice, “si deve tuttavia ricordare che se tali integratori vengono assunti in condizioni di stress cellulare o in presenza di radicali liberi formano metaboliti tossici che non solo non hanno alcun effetto benefico, ma possono addirittura risultare dannosi. Per questo puntiamo a conoscere il fabbisogno reale dei singoli individui e intervenire con le integrazioni nutraceutiche più opportune”.
E’ riferito invece ai processi di innovazione delle industria agro-alimentari il campo in cui opera Paola Lavermicocca, microbiologa dell’Istituto di scienze delle produzioni alimentari (Ispa) del Cnr di Bari. Il suo progetto, sviluppato insieme con l’azienda leader nel settore della gastronomia fresca di alta qualità Copaim, riguarda la messa sul mercato, prevista per quest’anno, di una linea di prodotti alimentari – olive da mensa, carciofi, mix di verdure – arricchiti con batteri benefici ‘probiotici’. Un esempio di assoluta novità a livello nazionale e mondiale che sfida il mercato dei bioyogurt finora appannaggio esclusivo delle multinazionali straniere o delle aziende farmaceutiche.
“L’innovazione è basata su metodologie microbiche che ha portato al deposito di due brevetti, di cui uno europeo” afferma Lavermicocca. “Oltre ad aver ricevuto l’autorizzazione del ministero della Salute alla commercializzazione e a essere inserite nella lista dei cibi approvati dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), le nostre verdure stanno rivelando importanti benefici anche a livello medico studi di alimentazione con verdure probiotiche come alternativa ai presidi medici normalmente utilizzati per soggetti affetti da stipsi condotti in collaborazione con medici gastroenterologi dell’Irccs di Castellana Grotte (Bari) hanno scientificamente dimostrato che le tali verdure sono efficaci nell’arricchire la flora vantaggiosa intestinale e che determinano un miglioramento della sintomatologia”.
Fonte: Paola Lavermicocca, Istituto di scienze delle produzioni alimentari, Bari, email paola.lavermicocca@ispa.cnr.it
Fonte: Carla Ferreri, Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività, Bologna, tel. 051/ – 6398349, email cferreri@isof.cnr.it
http://www.almanacco.cnr.it/reader/cw_usr_view_articolo.html?id_articolo=1050&id_rub=13&giornale=974
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Rischio cardiovascolare per i più piccoli
Sindrome metabolica, cosa mette in pericolo i bambini 11.08.2010
Identificati i fattori di rischio che predispongono alla patologia; i primi indizi compaiono già a 7-9 anni
MILANO – Sono bambini destinati a ritrovarsi alle prese con colesterolo e pressione un po’ alti, glicemia al limite e chili di troppo prima di entrare nell’adolescenza. Dovranno cioè fare i conti con la sindrome metabolica, e non è una buona notizia visto che il problema è legato a doppio filo con un maggior pericolo di guai a cuore e vasi. Come identificarli prima possibile? Secondo uno studio presentato a Stoccolma, all’ultimo Congresso internazionale sull’obesità, i piccoli che più facilmente andranno incontro alla sindrome si possono riconoscere tenendo conto di alcuni fattori di rischio precoci.
STUDIO – Melinda Sothern, docente di salute pubblica all’università di New Orleans, ha cercato di capire quali fattori, individuabili in bimbi di 7-9 anni, fossero maggiormente predittivi della comparsa degli elementi della sindrome metabolica nell’infanzia e nell’adolescenza, che ha le stesse caratteristiche di quella dell’adulto: colesterolo e trigliceridi alti, glicemia elevata con insulino-resistenza, obesità addominale, pressione alta. Studiando un centinaio di bimbi e ragazzini, la ricercatrice ha verificato che la sindrome è molto più probabile nei figli di donne che hanno preso molto peso in gravidanza, nei bimbi che alla nascita pesavano troppo o troppo poco e nei piccoli che non fanno movimento. Sono questi elementi che creano le condizioni perché si sviluppi uno squilibrio del metabolismo dei grassi, che quindi si accumulano nel fegato, attorno alla pancia e pure nel sangue dei bimbi già intorno agli 8 anni. «Abbiamo ipotizzato che esistano marcatori precoci della sindrome, strettamente correlati ai meccanismi che la provocano – dice la Sothern -. Questi meccanismi originano durante la vita intrauterina e vengono peggiorati da altri elementi, come la sedentarietà o un particolare assetto dei geni: tutto questo concorre a creare il cosiddetto “fenotipo della sindrome metabolica”, una condizione in cui il problema si manifesta molto precocemente, nell’adolescenza o addirittura nell’infanzia».
SINDROME – La cosa non è di poco conto, visto che chi assomma tutti gli elementi della sindrome (di fatto i principali fattori di rischio cardiovascolare) si ritrova con una probabilità doppia di andare incontro a malattie cardiovascolari; il rischio di diabete, inoltre, è cinque volte maggiore rispetto alla norma. Un guaio se la sindrome si presenta già da piccoli, con tutto il tempo per far danni devastanti a cuore, vasi, metabolismo. E non bisogna pensare che sia un disturbo raro: in Italia abbiamo il triste primato dei bambini sovrappeso o obesi (alle elementari uno su quattro ha diversi chili di troppo, il 12 per cento è obeso), così si stanno accumulando studi allarmanti secondo cui già nei primissimi anni di vita molti piccoli hanno i segni conclamati della sindrome metabolica e il cuore in pericolo. «I nostri dati – riprende Sothern – dimostrano che alcuni fattori di rischio precoci e modificabili possono contribuire non poco alla comparsa della sindrome metabolica: il peso durante la gravidanza, che influenza anche il peso del bimbo alla nascita, e l’attività fisica dei bambini sono due elementi importanti su cui dovremmo puntare per ridurre l’incidenza del problema e di tutte le sue nefaste conseguenze».
Elena Meli
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Italia a rischio marea nera
Pervenuto via mail l’11.08.2010
La mappa del traffico marittimo di petrolio nel dossier di Goletta Verde di Legambiente Lungo le coste movimentate ogni anno 343 milioni di tonnellate di idrocarburi
Ogni anno verso le coste italiane viaggiano ben 178 milioni di tonnellate di petrolio, quasi la metà di tutto il greggio che arriva in direzione dei porti del Mediterraneo, crocevia delle petroliere di tutto il mondo. Il nostro Paese poi, attraverso 12 raffinerie, 14 grandi porti petroliferi e 9 piattaforme di estrazione off-shore, movimenta complessivamente oltre 343 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi all’anno a cui vanno aggiunte le quantità di petrolio e affini stoccati in 482 depositi collocati vicino al mare, che hanno una capacità di quasi 18 milioni di metri cubi. Il Belpaese inoltre è al centro di ben 10 rotte all’interno del bacino del Mediterraneo che praticamente includono nel traffico dell’oro nero tutte le Regioni costiere italiane. Con 5 raffinerie, 5 porti, 4 piattaforme e oltre 123 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi movimentati, è la Sicilia la regione più interessata, seguita dallaLiguria dove transitano quasi 65 milioni di tonnellate di petrolio e affini, il Friuli Venezia Giulia (45), la Sardegna (41), il Veneto (31) e poi Puglia (11), Lazio (9), Toscana (9), Marche (8) e il resto tra Abruzzo e Molise.
Queste cifre dicono che l’Italia è una delle nazioni al mondo più esposte al rischio di incidente ambientale connesso allo sversamento di petrolio e una conferma di questo è anche il primato, detenuto dal nostro Paese, del greggio versato nei principali incidenti degli ultimi 25 anni. Sono ben 162.600, infatti,le tonnellate di idrocarburi finite nei nostri mari dal 1985 ad oggi, più della metà di tutto il petrolio finito nel Mediterraneo nello stesso periodo. E di queste la maggior parte (134mila tonnellate) a causa del catastrofico incidente del 1991 della petroliera Haven nelle acque antistanti Genova.
A richiamare l’attenzione sui rischi legati al traffico di petrolio nei mari italiani è un dossier di Goletta Verde di Legambiente che fotografa la presenza di fattori di rischio connessi alla marine pollution, l’entità dell’inquinamento da idrocarburi sulle nostre coste e le attività di mitigazione di tale rischio messe in atto da 132 comuni costieri italiani.
“La marea nera che da oltre tre mesi sta devastando i preziosi ecosistemidel Golfo del Messico e quella più recente di Dalian nel Mar Giallo – ha dichiaratoil presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza– hanno riportato in primo piano il drammatico problema degli incidenti con sversamento da idrocarburi nei nostri mari. Quella delle piattaformedi estrazione off shore infatti è un’inquietante problematica che si aggiunge al costante pericolo rappresentato dall’intenso traffico marittimo di petroliere davanti alle nostre coste. Se da un lato il sistema d’intervento italiano in mare è efficace, tempestivo e di alta qualità -ha aggiuntoCogliati Dezza – sul fronte della bonifica delle coste in caso di spiaggiamento di petrolio, c’è ancora molto da fare soprattutto da parte degli enti locali”.
Sebbene nel 27% dei comuni costieri interpellati da Legambiente, infatti, siano presenti infrastrutture connesse al trasporto e/o all’estrazione/lavorazione di prodotti petroliferi e negli ultimi 5 anni ben il 18% di essi abbia subito spiaggiamenti di prodotti petroliferi, solo un comune su cinque ha predisposto un elenco delle zone sensibili da proteggere prioritariamente in caso di sversamento di idrocarburi (aree protette, prese d’acqua per il raffreddamento di impianti industriali, ecc.) e appena il 16% possiede piani locali di antinquinamento sulla costa. Soltanto il 13% dei comuni poi, può contare su personale formato nel campo della risposta ad inquinamento da idrocarburi per un intervento tempestivo e di qualità in caso di piccola e grande emergenza e solo il 15% tra quelli che hanno subito spiaggiamenti negli ultimi 5 anni, ha predisposto interventi di bonifica e ripristino della costa.
“Legambiente è l’unica associazione in Italia ad avere formato insieme alla Protezione Civile squadre di volontari specializzati in grado di realizzare la bonifica di territori inquinati da idrocarburi – osserva Simone Andreotti, responsabile di Legambiente protezione civile – e dal suo primo intervento, in occasione dell’incidente alla petroliera Prestige affondata nel 2002 davanti alle coste della Galizia, ad oggi, su questo peculiare settore operativo è diventata un punto di riferimento anche all’estero. Ma nonostante il grande patrimonio di esperienza che abbiamo – conclude Andreotti – è necessario che ogni comune costiero si organizzi in modo adeguato per intervenire e fronteggiare questo tipo di emergenza”.
Anche per questo Legambiente realizza corsi di alta formazione rivolti alle Amministrazioni locali costiere e ha realizzato, in stretta collaborazione con il Dipartimento della Protezione Civile e il Comando Generale delle Capitanerie di Porto, il primo manuale tecnico sull’intervento del volontariato nella bonifica delle coste, tradotto e distribuito in tutto il mondo. Un nuovo metodo di intervento che coniuga efficacia, sicurezza per gli operatori e utilizzo di attrezzature di facile reperimento e di costo contenuto, un metodo facilmente applicabile e riproducibile su tutto il territorio nazionale.
“I dati che abbiamo raccolto – ha aggiuntoil presidente di Legambiente – confermano la necessità di estendere la preparazione sul fronte dell’intervento in emergenza ma anche della prevenzione di questo tipo d’incidenti, che possono causare danni incalcolabili con conseguenze catastrofiche per gli ecosistemi marini e costieri e anche per le economie del mare”.
Nonostante gli intensi controlli operati dalla Guardia Costiera, che nel biennio 2008/2009 ha realizzato ben 15.517 missioni di vigilanza Antinquinamento, di cui più di diecimila effettuate con motovedette, e con 6.711 ispezioni sui natanti per la verifica del corretto smaltimento degli olii esausti, secondo Legambiente, è necessaria una normativa internazionale più stringente sul traffico di petrolio in mare che argini la pratica criminale di scarico delle acque di sentina e di lavaggio delle cisterne. Altrettanto importante poi, sarebbe obbligare le petroliere a dotarsi di equipaggi professionalmente più preparati e imporre il divieto di navigazione alle navi che trasportano sostanze pericolose e inquinanti in condizioni meteo marine particolarmente avverse. Infine è necessario estendere anche al combustibile di bordo la copertura assicurativa in caso di incidenti e imporre un obbligo di adeguamento a livello costruttivo delle cisterne che contengono il bunker.
L’ufficio stampa (06.86268376/53/99/60- 347.4166793)
Il dossier è scaricabile su http://www.legambiente.it/dettaglio.php?tipologia_id=5&contenuti_id=1585
http://www.legambiente.it/dettaglio.php?tipologia_id=3&contenuti_id=1586
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Hugo Chávez e Juan Manuel Santos ristabiliscono le relazioni tra Venezuela e Colombia 11.08.2010
E’ fallito il piano del Pentagono e di Álvaro Uribe di ipotecare le relazioni tra il successore di questo e il Venezuela per destabilizzare il governo di Hugo Chávez e incolparlo di finanziare e proteggere “gruppi terroristi”.
Ieri a Santa Marta, in Colombia, lo stesso presidente bolivariano e il neo-presidente colombiano Juan Manuel Santos hanno infatti ristabilito normali relazioni diplomatiche dopo la rottura del 22 luglio scorso quando Uribe, a pochi giorni dalla fine del suo mandato, aveva denunciato presunti aiuti e ospitalità venezuelane alla guerriglia delle FARC.
Sotto la gestione dell’ex presidente argentino Nestor Kirchner, segretario generale di UNASUR, l’organizzazione latinoamericana che esclude gli Stati Uniti dalla risoluzione delle crisi regionali, si è archiviata dunque l’ultima crisi costruita a tavolino da Álvaro Uribe e dal Pentagono per coinvolgere il Venezuela nella guerra colombiana e metterlo di fronte alla comunità internazionale sul banco degli imputati come “stato canaglia” che appoggia il “terrorismo”. La stessa facilità con la quale Santos e Chávez sono potuti andare oltre e ristabilire le relazioni testimonia la pretestuosità della stessa denunciata perfino da organi mainstream come il settimanale britannico “The Economist”.
Non tutto evidentemente è stato facile. I due paesi vengono da una continua crisi negli anni di Uribe e sono innumerevoli gli episodi e i temi di frizione che non si limitano certo alla guerriglia ma vanno all’uso della frontiera binazionale da parte di narcos e paramilitari colombiani (Chávez accusò Uribe di averli usati per tentare di assassinarlo e per fomentare un golpe) alla concessione di basi militari agli Stati Uniti ai fatti di Sucumbíos, quando la Colombia causò decine di vittime bombardando il territorio ecuadoriano.
Oggi le cose appaiono pronte per un nuovo inizio e il tempo ci dirà se non sono (come è ben possibile) speranze mal riposte. Di sicuro in nessun momento la delegazione colombiana, che comprendeva oltre a Santos la nuova ministro degli esteri María Angela Holguín, ha accusato Hugo Chávez di aver mai aiutato la guerriglia, come invece infinite volte aveva fatto il suo predecessore Uribe, spesso producendo prove poi rivelatesi completamente false come nel caso delle manipolazioni sul computer del guerrigliero delle FARC Raúl Reyes, fatto assassinare in territorio ecuadoriano da Uribe stesso nel citato episodio di Sucumbíos il primo marzo 2008.
D’altra parte Chávez è andato avanti con parole chiare nel chiedere alla guerriglia stessa di deporre le armi e trovare la via del dialogo al quale sarebbe oggi disposto un Santos che, giova comunque ricordare, aveva invece in passato condiviso tutte le responsabilità della guerra senza quartiere condotta dal proprio predecessore. Oggi, addirittura, i due presidenti si propongono reciprocamente di abrogare la parola “guerra” dai rispettivi dizionari e si esercitano a chi è più bravo a citare il Libertador Simón Bolívar, morto nel 1830 proprio a Santa Marta e nel museo in memoria del quale si è tenuto parte del vertice tra due delle province che un tempo facevano parte della Gran Colombia.
Inizialmente però Santos pretendeva che la guerriglia fosse definita come “terrorismo”, cosa inaccettabile per i venezuelani. In conclusione si è optato per la formula “gruppi armati al margine della legge”. E’ una definizione che, a rigor di logica, include tanto i paramilitari come i narcos. E’ una espressione, sulla quale si è insistito sia da parte di Nestor Kirchner che da parte venezuelana e infine accettata da Bogotà, che archivia la retorica vetero-bushiana e mette la Colombia e non certo il Venezuela di fronte alle proprie responsabilità.
E’ infatti di questi giorni l’ennesima denuncia delle Nazioni Unite sul contesto di sistematica violazione dei diritti umani e sull’impunità totale in epoca uribista. Delle 289.000 vittime di violazioni dei diritti umani ufficialmente registrate solo una ha ottenuto riparazioni e, delle migliaia di paramilitari teoricamente smobilitati durante il governo Uribe, appena due sono stati condannati per i loro crimini.
In merito (parziale) i due presidenti hanno stabilito una commissione bilaterale che dovrebbe farsi carico dei problemi intorno alla frontiera binazionale e in special modo della violenza e che agirà sotto gli auspici di UNASUR che una volta di più emerge come organismo che si sta sostituendo alla OSA (Organizzazione degli Stati Americani, da sempre controllato dagli Stati Uniti) nella risoluzione dei conflitti regionali.
Lo sviluppo della commissione è vista positivamente come “fatto concreto” sia dalla stampa colombiana che da quella venezuelana e degli altri paesi integrazionisti. Non ha sorpreso i più avvertiti la necessità e perfino la fretta di andare oltre Uribe da parte di Santos addirittura avendo già pronta la nomina del nuovo ambasciatore a Caracas. Per Santos, ne abbiamo reso conto lunedì e venerdì scorso, il commercio binazionale (che vale sette miliardi di dollari e l’1.5% del PIL colombiano) è oggi più importante del collaborare col Pentagono (che comunque aumenta la propria presenza militare in Colombia e l’accerchiamento del Venezuela) per destabilizzare il governo di Hugo Chávez.
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‘Suono’ melanoma permette diagnosi più precoci 12.08.2010
Per diagnosticare nel modo più preciso possibile un melanoma è meglio ‘ascoltarlo‘.
Lo afferma uno studio della Washington University di San Louis, secondo cui è possibile vedere questo tumore misurando come assorbe le onde sonore.
La tomografia fotoacustica studiata dai ricercatori e descritta sulla rivista Acs Nano sfrutta la proprietà di tutti i materiali di riscaldarsi quando vengono colpiti da onde.
Se la frequenza è quella giusta, il riscaldamento provoca l’espansione e la contrazione del materiale, che emette un’onda sonora.
Nello studio il melanoma è stato irradiato con onde a diverse frequenze, e il suono che ne è derivato è stato elaborato da un computer per ricavare le esatte dimensioni e posizione del tumore.
‘Con questa tecnica – scrivono gli autori – si può individuare il melanoma con una precisione fino a tre ordini di grandezza superiore rispetto ai metodi tradizionali‘.
Per approfondire:
Dopo 30 anni una svolta nella lotta al melanoma
Estate e prevenzione dei melanomi
Tomografia Assiale Computerizzata (TAC)
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Pisa hub della guerra? Il sindaco: un «onore»
L’ampliamento dell’aeroporto (militare) di Pisa
Il fatto che Pisa diventerà il «punto di riferimento per tutte le forze armate» dirette in missioni internazionali «non può che essere un onore per la nostra città»: lo ha dichiarato il sindaco Marco Filippeschi (Pd), ufficializzando l’entusiastico appoggio della sua amministrazione al progetto di ampliare l’aeroporto facendone un hub in grado di movimentare fino a 30mila militari al mese, perfettamente equipaggiati (il manifesto, 4 agosto).
Il progetto, di cui Filippeschi era sicuramente informato, è stato formalizzato dallo Stato maggiore della difesa in aprile ma reso pubblico solo in agosto, senza che la cittadinanza sia stata consultata. Come spiega il generale Stefano Fort, comandante della 46a Brigata aerea, lo stato maggiore ha deciso che tutti i contingenti militari «proiettati fuori area» transitino da Pisa, perché il suo aeroporto, già base degli aerei da trasporto C-130J, è ottimamente collegato alla rete autostradale, ferroviaria e marittima. Dunque quello di Pisa diverrà il primo aeroporto militare dotato di check in e check out, movimentazione bagagli e altri servizi analoghi a quelli civili: svolgerà in campo militare funzione analoga a quella che Fiumicino svolge come hub civile.
Siamo di fronte a un nuovo tipo di militarizzazione del territorio, basato non solo sull’ampliamento delle strutture militari ma sulla loro integrazione con quelle civili. A Pisa essa si traduce in quella che il sindaco esalta come esemplare «convivenza della base militare e dello scalo civile». L’aeroporto, la cui gestione complessiva è militare, viene definito dalla Sat (Società aeroporto toscano S.p.A.) «un caso unico nel panorama degli scali italiani», perché vi si conducono attività sia militari che civili. Di conseguenza gli investimenti «civili» effettuati dalla Sat, come quello di 16 milioni di euro annunciato lo scorso giugno per la riqualifica del sistema di piste, potenziano allo stesso tempo la capacità militare dell’aeroporto.
C’è però un altro soggetto che ne trae vantaggio: la limitrofa base Usa di Camp Darby, che potrà usare ancora di più l’aeroporto di Pisa, oltre che il porto di Livorno. La capacità del hub sarà sovrabbondante rispetto alle esigenze nazionali (potrà movimentare ogni mese un numero di militari pari al triplo di quanti l’Italia ne ha dislocati all’estero): potrà quindi essere usata dalle forze armate statunitensi. Non solo: la base pisana, ha detto il generale Fort, avrà anche «compiti di stoccaggio per un tempo prolungato di materiali che dovranno essere impiegati fuori area». In altre parole, sarà una sorta di succursale di Camp Darby, che rifornisce di bombe e altri materiali le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana e mediorientale.
Anche il comando di Camp Darby, con il sostegno della Regione Toscana e delle amministrazioni di Pisa e Livorno, conduce da tempo una politica mirante a integrare la base militare nel tessuto civile del territorio, rendendosi gradita alla popolazione. Il capolavoro è stato l’accordo del giugno scorso, che permette alla squadra del Pisa di allenarsi all’interno di Camp Darby, dove dispone di due campi di calcio e altre attrezzature.
Lo stesso si sta facendo per convincere la popolazione sull’utilità del hub militare. Il sindaco parla di «interessanti ricadute occupazionali» di un progetto che prevede investimenti per 60 milioni di euro (probabilmente la punta dell’iceberg della spesa reale, cui si aggiungerà quella di gestione). Tace però sulle gravi ricadute ambientali, sociali e culturali di una struttura in grado di movimentare 30mila militari al mese in una città che non raggiunge i 90mila residenti.
Gli dà una mano l’Unità, che annuncia soddisfatta il raddoppio dello scalo militare, definendolo «cittadella dei cieli». Il Ministero della salute, intanto, premia la 46a Brigata aerea «per gli interventi in missioni umanitarie», presentandola come una sorta di Croce Rossa, e le conferisce perciò (lapsus freudiano?) la «Bandiera di guerra».
Link: Israele: armi da Camp Derby
Manilio Dinucci
tratto da Il Manifesto del 12 agosto
http://www.senzasoste.it/dintorni/pisa-hub-della-guerra-il-sindaco-un-onore
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Un futuro pieno di rischi per Internet 12.08.2010
JUAN CARLOS DE MARTIN*
A parte gli addetti ai lavori, finora poche persone – soprattutto in Italia – hanno colto uno degli aspetti più importanti di Internet, ovvero la sua relazione con l’innovazione. Tutti sono testimoni – quando non beneficiari diretti – dello straordinario flusso di innovazioni prodotto grazie alla Rete in questi anni. Ma relativamente pochi hanno finora colto le ragioni di fondo che hanno reso possibile tale esuberanza.
Ragioni che non sono legate ad un’improvvisa maggior ingegnosità di informatici e imprenditori, ma piuttosto al fatto che per la prima volta gli innovatori avevano a disposizione una rete di telecomunicazione strutturalmente – potremmo dire: costituzionalmente – diversa dalle reti precedenti. La costituzione della Rete è caratterizzata, per esplicita volontà dei suoi inventori, da due aspetti essenziali: semplicità e apertura. Semplicità perché Internet, a differenza delle reti di telecomunicazione che l’hanno preceduta, è una rete «stupida», ovvero l’«intelligenza» – ciò che rende possibile i vari servizi online – è ai margini della rete stessa, nei nostri computer, non dentro la rete medesima, che si limita a smistare i bit il più velocemente possibile. Per introdurre un nuovo servizio, quindi, non è necessario aggiornare tutta l’infrastruttura di rete (come invece occorre fare nella telefonia), basta pubblicare un software.
Apertura perché non occorre chiedere il permesso a nessuno per innovare su Internet: una ragazza con una buona idea, un computer e una connessione a Internet ha tutto ciò che le serve per realizzare e poi lanciare la sua idea al mondo. Basta che il suo software parli la lingua di Internet, ovvero, il cosiddetto «Internet Protocol», liberamente e gratuitamente utilizzabile da chiunque. Inoltre, apertura perché la Rete, per il principio della cosiddetta «neutralità della rete» (o di «non discriminazione»), tratta tutti i bit (che siano un documento o un file MP3) e tutte le applicazioni (che sia posta elettronica o video streaming) allo stesso modo, indipendentemente da mittente e destinatario. In linea di principio, quindi, i bit della ragazza e quelli di una multinazionale viaggeranno in rete allo stesso modo, senza discriminazioni.
Questa rete strutturalmente aperta, senza guardie ai cancelli, ha reso possibile una stagione di innovazione senza precedenti, permettendo sia ad aziende affermate di evolvere, sia a brillanti innovatori di creare dal nulla applicazioni di grande successo, quando non addirittura nuovi mercati.
L’innovazione, però, è uno di quei concetti a cui tutti tributano grandi omaggi a parole, salvo poi risentirsi molto se l’innovazione altrui perturba interessi consolidati da tempo. Da questo punto di vista, da oltre un decennio registriamo il fastidio – quando non il furore – con cui settori industriali consolidati, spesso a bassissimo tasso di innovazione, hanno accolto l’innovatività dal basso, non controllabile, di Internet e dei suoi utenti.
Da un paio d’anni, però, diversi segnali suggeriscono che il confronto stia passando di livello, ovvero, non più battaglie di retroguardia da parte di attori incapaci di gestire il cambiamento, ma anche tentativi di apportare modifiche strutturali alla Rete da parte di alcuni grandi attori della Rete stessa. In particolare, da anni alcuni fornitori di servizio Internet vorrebbero essere autorizzati a far pagare un sovrapprezzo ai fornitori di contenuti o servizi (per esempio, YouTube o il sito di un quotidiano), che quindi si troverebbero a pagare più volte per gli stessi bit: una volta per accedere alla Rete tramite il fornitore A (come è normale) e poi di nuovo per raggiungere i clienti del fornitore B, quelli del fornitore C, e così via.
Lunedì, però, c’è stato un fatto oggettivamente nuovo: una delle aziende che rappresentano con maggior evidenza l’innovazione legata alla rete, Google (fondata nel 1998), ha emesso un comunicato congiunto con una delle aziende eredi dello storico monopolio telefonico americano, Verizon (fino al 2000 nota come Bell Atlantic). Comunicato reso ancora più visibile da un editoriale apparso martedì 10 agosto sul «Washington Post» a firma congiunta Eric Schmidt e Ivan Seidenberg, gli amministratori delegati delle due aziende.
In sostanza, con un documento molto conciso Google e Verizon chiedono al legislatore e al pubblico di includere in qualsiasi iniziativa normativa relativa a Internet nove punti a loro avviso ritenuti essenziali. Mentre la maggior parte di tali punti è in linea con l’ideale di una rete Internet aperta e non discriminatoria, due punti in particolare stanno invece sollevando pesanti interrogativi e critiche. Il primo punto riguarda l’esenzione dai vincoli di non discriminazione per l’accesso a Internet senza fili, richiesta giustificata con poco evidenti caratteristiche di «unicità» dell’accesso senza fili, nonché con la «dinamicità» di tali servizi. Se si considera che è proprio tramite l’accesso senza fili che si sta concentrando il maggior tasso di sviluppo di Internet, dall’accesso in mobilità da parte degli utenti alla cosiddetta «Internet delle cose», ci si rende conto che ciò che Google e Verizon stanno chiedendo di esentare dal rispetto del principio di non discriminazione è buona parte del futuro stesso di Internet.
Il secondo punto, almeno altrettanto problematico, riguarda la possibilità di offrire «servizi online aggiuntivi». In pratica, a quel che è possibile capire, la creazione di un Internet-premium che si affiancherebbe, con modalità tutte da definire, a Internet tradizionale per offrire – ovviamente a pagamento – servizi per i quali non varrebbe il principio di non discriminazione. Gli interrogativi che solleva un tale scenario, se confermato, sono molti, ma ci si concentri sui potenziali effetti sull’innovazione. Se oggi la barriera all’ingresso per innovare in rete è, come abbiamo descritto, bassissima, l’innovatore del futuro potrebbe invece dover affrontare una giungla contrattuale causata dal dover negoziare, con ogni fornitore d’accesso Internet, come e a che prezzo raggiungere i suoi utenti sulla rete «premium». Avendo come unica alternativa quella di rimanere sulla vecchia Internet, quindi, di offrire la propria innovazione con minori prestazioni rispetto ai concorrenti, che magari saranno multinazionali nate quanto Internet era davvero neutrale.
Google e Verizon avranno modo nelle prossime settimane di chiarire, se lo vorranno, l’effettivo significato delle parti più controverse del loro documento. Più in generale, però, è chiaro che per la Rete si sta per chiudere una prima fase della sua storia, caratterizzata dalle lungimiranti decisioni prese quarant’anni fa dai suoi inventori. Nei prossimi mesi starà a noi decidere se continuare a preservare con forza l’apertura di Internet anche per le prossime generazioni di innovatori.
* Docente al Politecnico di Torino
BLOG Lo spazio di discussione è su Web Notes
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Centrali nucleari che galleggiano, si va avanti in Russia 13.08.2010
Fedeli all’idea delle minicentrali nucleari da asporto (ne trovate qualcuna a questo indirizzo), i russi si preparano ad avere anche quelle galleggianti.
Dell’anno scorso la notizia dell’avvio del progetto, di pochi giorni fa quella della fine della sua prima parte.
Lo afferma The voice of Russia e lo riporta in Italia anche Energy Mix, blog italiano affezionato al nucleare. Si tratta, in pratica, di una grossa chiatta attrezzata per ospitare un paio di reattori nucleari di piccola taglia, 35 MW l’uno, idonei ad alimentare una città di medie dimensioni.
La prima chiatta è stata completata ed Energy mix ne rende noti i dettagli:
La base galleggiante è lunga 144 metri e larga 30 ed ha una durata di vita stimata in circa 40 anni. E presenta una lunga serie di vantaggi. A cominciare dal costo dell’energia generata, che è stimato pari a circa la metà del kWh prodotto da una centrale nucleare a terra, anche considerando i costi di smantellamento, infinitamente inferiori, e quelli delle infrastrutture ausiliarie ridotte, ad esempio per la trasformazione e il trasporto dell’elettricità, visto che le centrali possono essere situate a ridosso dei luoghi di utilizzo
Certo, sarebbe anche il caso di chiedersi come mai costa la metà… sarà mica perchè, su una chiatta larga 30 metri, non ci entra un doppio muro di contenimento delle radiazioni in cemento armato? Sarà mica perchè non bisogna fare studi geologici e sismici visto che sta in mare, salvo poi scoprire che se è mosso ci potrebbero essere problemi?
Sarà mica perchè si elimina alla radice il problema Nimby visto che i pesci, totalmente muti e senza arti, non possono né lamentarsi né andare in giro con i cartelli e gli striscioni? Sarà mica perchè non c’è molto da studiare su dove mettere le scorie radiattive? Suvvìa… il mare è grosso, un po’ di fantasia!
Certo, un’ottima idea. E poi galleggia. Un attimo, fermi tutti, mi viene in mente un’altra cosa che galleggia, ce l’ho sulla punta della lingua… aiutatemi…
Via | Energy Mix, The Voice of Russia
Foto | Flickr
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I cinesi ricostruiscono il paesaggio di Dalì a Cadaqués 13.08.2010
Eravamo abituati a sentire notizie di questo tipo provenienti dal Giappone o da Dubai. Oggi invece sono i cinesi ad uscire con un’idea alquanto stravagante. Il nuovo progetto di sviluppo della Baia di Xiamen, prevede che il territorio, le colline circostanti, assumano l’aspetto dei paesaggi in cui era immerso Salvador Dalì a Cadaqués, in Costa Brava, in Catalogna. Un ambiente mediterraneo dai colori accesi e brillanti, ma allo stesso tempo profondi e cinerei.
In questa prima fase dei lavori, gli esperti cinesi stanno effettuando delle ricognizioni in Spagna, per ricreare a circa 6.500 chilometri di distanza un villaggio turistico in stile mediterraneo-surrealista che dovrebbe ospitare circa 15.000 visitatori. Non si tratterà però esattamente di una copia esatta, ma sarà aggiunta un’isola artificiale.
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Vincent Reynouard, quando ti mettono in galera per un opuscolo
Posted on 08/14/2010 by Miguel Martinez
Nel 2005, il signor Vincent Reynouard, ingegnere chimico francese residente in Belgio, infila nella buca delle lettere alcune copie di un opuscolo di 16 pagine, indirizzate a vari musei, organizzazioni e sindaci in Francia.
L’opuscolo distribuito da Vincent Reynouard, un uomo che non deve essere un modello di prudenza (all’età di 41 anni, si trova oggi con ben otto figli da mantenere), si intitola «Holocauste? Ce que l’on vous cache». Il libretto – costituito da immagini e grosse didascalie – lo potete trovare in rete e mette esplicitamente in dubbio le accuse mosse contro il governo nazista durante il processo di Norimberga.
Ora, da vent’anni, in Francia esiste la legge Gayssot, che all’articolo 24bis dichiara reato contestare l’esistenza dei crimini stabiliti dall’articolo 6 dello statuto del tribunale di Norimberga.
Vincent Reynouard viene quindi inquisito dalla magistratura francese e condannato a un anno di carcere, 10.000 euro di ammenda e 3.000 euro di danni e interessi a un’associazione privata, la LICRA. Nel processo di appello, si conferma la condanna e si arriva alla cifra di ben 60.000 euro.
Il 9 luglio, la polizia belga arresta Vincent Reynouard, che viene chiuso nel carcere di Forest, di cui abbiamo già parlato su questo blog.
Non perché abbia commesso alcun reato in Belgio, ma per prepararne l’estradizione in Francia in base a un mandato di arresto europeo.
Le persone che hanno espresso solidarietà a Reynouard appartengono a due categorie diversissime.
Se digitate il suo nome su Google, troverete subito i melaninodeficienti di Stormfront e il perennemente rancoroso Olodogma (il cui ultimo post è sottotitolato, “A levi primo non piacevano gli occhi azzurri ed i capelli biondi (a NOI si)!”). Mica che io li consideri dei mostri: semplicemente, si tratta di celacanti umani che stanno ancora combattendo la battaglia di Stalingrado con le figurine, essendosi gettati addosso da soli un incantesimo di irrealtà.
“He oped his chest, at break of day,
To find — no talents, bright and cold,
But soft, dead cowslips— nowhere lay
The sun-bright glint of Fairy Gold !” [1]
So poco di Reynouard, e non escludo che anche lui possa appartenere alla stessa categoria. Ma è proprio qui il punto: la mancanza di realismo e le proiezioni fantastiche su presunti supereroi del passato non devono essere reato. Reynouard è in carcere esclusivamente per aver distribuito per posta alcuni opuscoli con la sua versione di alcuni fatti storici. Che la sua versione sia giusta, sbagliata o semplicemente demenziale spetta alla critica stabilirlo, non ai tribunali.
Per questo, Reynouard ha ricevuto anche solidarietà da tutt’altra parte, cioè dallo scrittore e giornalista francese Paul-Éric Blanrue, uno dei fondatori del movimento scettico francese, gli zététique (si è anche divertito a costruire una falsa Sindone), iscritto al Partito comunista francese e autore di uno studio serio sulle lobby sioniste in Francia (Sarkozy, Israël et les juifs, Éditions Oser dire), che coglie i punti fondamentali: nessun giudice deve stabilire la verità storica, nessuna ipotesi storica deve essere punita con il carcere.
La legge Gayssot sottrae alla discussione storica, poi, solo le verità del tribunale di Norimberga.
Un particolare: la legge Gayssot fa esplicito riferimento allo statuto del tribunale approvato l’8 agosto del 1945 – due giorni dopo Hiroshima e un giorno prima di Nagasaki. Due eventi la cui ipotetica negazione non verrebbe punita dalla stessa legge.[2] Togliere lo status divino al tribunale di Norimberga non vuol dire affatto assegnargli uno status demoniaco, come farebbero certi revisionisti duri. Semplicemente, si tratta di riconoscerne la natura imperfettamente umana.
In realtà, mi importano poco le opinioni che le persone possono avere sulla storia. Il problema nel presente è che si stanno diffondendo ovunque apparati giuridici che, con varie scuse, processano le intenzioni e le idee.
Un esempio gravissimo, come abbiamo sempre segnalato, è l’aggiunta dell’intenzione “terroristica” a capi d’accusa minori.
E’ il caso del processo in corso in questi giorni a Firenze contro un gruppo di anarchici accusati nei fatti di danneggiamento, imbrattamento, interruzione di pubblico servizio, occupazioni di edifici e iniziative di piazza. Io non ho particolari simpatie o antipatie a riguardo. Non so se queste accuse siano vere o false, comunque comporterebbero alla fine pene minime. Ma gli inquirenti hanno pensato bene di aggiungervi l’accusa di “associazione sovversiva con finalità di terrorismo“. Imbratto un muro per passatempo, e mi prendo una multa. Lo faccio perché in testa ho idee “terroristiche”, e mi prendo anni di carcere.
Il buon senso vorrebbe che si combattessero tutti insieme questi apparati, sia quando si applicano ai nostri amici che quando si applicano ai nostri nemici. Il tempo di litigare si troverà sempre, dopo.
Nota:
[1] Dall’anonima Ballade of Fairy Gold. Il pastore, cui uno spiritello aveva promesso l’oro, al risveglio apre il forziere e scopre che invece di solide e fredde monete, contiene solo fiorellini rinsecchiti.
[2] Ipotetica, perché nei fatti i revisionisti di Hiroshima non ne fanno la negazione: ne fanno direttamente l’apologia.
http://kelebeklerblog.com/2010/08/14/vincent-reynouard-quando-ti-mettono-in-galera-per-un-opuscolo/
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IL LUOGO DI PREGHIERA VICINO ALLE CENERI DELLE TORRI GEMELLE
Moschea a Ground Zero, si di Obama
“Libertà di culto, questa è l’America” 14.08.2010
Il presidente: diritto inalienabile.
I parenti delle vittime sono divisi
WASHINGTON
Altro che questione locale: «Questa è l’America». Qui la libertà è «un principio incrollabile». A Ground Zero, come in tutto il Paese. Barack Obama in nome della libertà di religione, dice si alla Moschea a due passi da dove l’11 settembre 2001 i terroristi islamici hanno ucciso migliaia di persone.
Dopo giorni di silenzio, in cui il suo portavoce Robert Gibbs andava dicendo che la decisione finale toccava al sindaco di New York, il presidente degli Stati Uniti rompe ogni indugio. Obama, andando contro ogni calcolo politico interno, lancia alla comunità islamica mondiale, non solo quella americana, un altro messaggio di grande apertura, i cui toni riecheggiano lo storico discorso del Cairo di qualche mese fa. Citando Thomas Jefferson, sfida a brutto muso la destra repubblicana, le proteste ebree dell’ Anti-Defamation League e soprattutto gran parte dell’opinione pubblica.
L’ultimo sondaggio, ricorda la Cnn, dimostra che il 68% degli americani è contro la costruzione di questa moschea, giudicandola un offesa alle vittime. Ma Obama tira dritto. Dopo aver letto il Primo Emendamento della Costituzione americana chiarisce che «la libertà di religione è la legge di questa terra». Un principio che vale a a Lower Manhattan, come in tutto il Paese, sottolinea Obama, senza alcuna distinzione. Così è e sarà sempre, piaccia o meno. L’endorsement di Obama, che oggi irrompe in tutte le prime pagine e in tutti i siti scatenando l’ira della destra, è arrivato ieri sera, al termine del “Iftar Dinner”, la cena organizzata alla Casa Bianca per celebrare l’apertura del Ramadan, alla presenza di una novantina di persone, tra i massimi esponenti della comunità musulmana americana.
«Ground Zero è un luogo sacro. Ma voglio essere chiaro – ha scandito Obama – come cittadino e come Presidente credo che i musulmani abbiano lo stesso diritto a professare la loro religione di qualsiasi altra persona in questo Paese. E ciò implica il diritto a costruire un luogo di preghiera, in un terreno di proprietà privata di Manhattan, nel rispetto delle regole e le leggi locali». Anche lui riconosce che quel luogo rappresenta un fatto «profondamente traumatico per tutta l’America. Capisco bene le emozioni che questa vicenda provoca». Ma i principi, fa capire Obama, sono un’altra cosa. In gioco c’è la separazione tra Stato e Chiesa, il punto cardine della convivenza civile di questo Paese, unico per la sua storia: «Questa è l’America e il nostro impegno per la libertà religiosa deve essere incrollabile. È il principio in base al quale i popoli di tutte le fedi sono benvenuti in questo Paese, e non verranno mai trattati in maniera diversa dal loro governo. È essenziale per quello che siamo, la volontà dei Padri Fondatori deve essere rispettata».
Parole che vengono accolte con favore da Michael Bloomberg: «Applaudo a Obama – commenta il sindaco di New York – e la sua strenua difesa della libertà religiosa». Ma sembra essere l’unico. Per il resto è un fiume in piena di critiche, da parte di un Paese che al momento non sembra disposto a seguire il suo Presidente nella ricerca di una riconciliazione con gli spettri del passato e che appare distante dal ’common sensè dell’americano medio. Per capirlo basta vedere la prima pagina del tabloid, New York Post. Accanto una foto di Obama, il titolo provocatorio: «Allah, per me va bene». Il sostegno di Obama alla moschea ha spaccato in due i parenti delle 2.976 vittime dell’attentato alle Torri Gemelle. Per il gruppo “9/11 Families for a Safe and Strong America” il progetto «è un atto deliberatamente provocatorio» e sostenendolo il presidente ha «abbandonato l’America nel posto in cui il cuore dell’America è stato rotto nove anni fa e dove i suoi veri valori erano in mostra per esser visti da tutti». Un altro gruppo di rappresentanti delle vittime dell’11 settembre, “The September Eleventh Families for Peaceful Tomorrows”, «sostiene con forza» il progetto perchè «il centro, che è destinato a promuovere tolleranza e rispetto inter-confessionale, è coerente con i valori americani di libertà e giustizia per tutti».
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201008articoli/57615girata.asp
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Pordenone Montanari: un genio dell’arte italiana, scoperto a 73 anni 16.08.2010
E’ una storia che ha dell’incredibile, tanto assomiglia ad una strana favola.
Più di 500 lavori rimasti sconosciuti fino ad ora, potrebbero riscrivere la storia dell’arte italiana del dopoguerra. Questo secondo alcuni esperiti che hanno visionato il materiale trovato per caso. Li ha realizzati in uno stato di reclusione e di quasi totale isolamento l’artista italiano Pordenone Montanari, che è rimasto chiuso nella sua abitazione in Piemonte, per 18 anni.
E magari non sarebbero mai stati scoperti se la moglie dell’artista non avesse messo in vendita la casa (troppo grande). Raja Khara, interessato a comprare l’abitazione ha così scoperto i lavori, disseminati per tutta la casa, dal pavimento al soffitto e anche nel giardino. Uomo di affari di origine indiana, Khara ha comprato l’abitazione e anche i diritti sulle opere.
I lavori sono stati quindi mostrati allo storico dell’arte inglese Edward Lucie-Smith, che li ha trovati straordinari e degni di esposizione. E si apre così il mese prossimo all’Istituto Italiano di Cultura a Londra, la prima mostra di Montanari, che farà poi tappa in Italia e Russia.
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Il Colle: impeachement se Costituzione tradita
Alessandro Guarasci, 16.08.2010
Il presidente Napolitano respinge le critiche dell’onorevole Bianconi del Pdl. Ieri il Giornale era tornato ad attaccare il Colle, affermando che preferisce i ribaltoni al popolo. Eppure Napolitano aveva detto che non esistono governi tecnici ma solo politici. Lontano dalla linea del Pdl, Bossi
Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano non ci sta alle pressioni di questi giorni da parte di alcuni esponenti del Pdl. Con una nota, infatti, il Quirinale replica ad un’intervista all’onorevole Maurizio Bianconi, vicepresidente del gruppo dei deputati PDL.
L’onorevole Bianconi, sostiene la nota del Quirinale, “si è abbandonato ad affermazioni avventate e gravi sostenendo che il Presidente Napolitano ‘sta tradendo la Costituzione’. Essendo questa materia regolata dalla stessa Carta (di cui l’onorevole Bianconi è di certo attento conoscitore), se egli fosse convinto delle sue ragioni avrebbe il dovere di assumere iniziative ai sensi dell’articolo 90 e relative norme di attuazione”. Dunque la messa sotto accusa, o meglio impeachment.
“Altrimenti – conclude la nota riferendosi all’intervista a Il Giornale – le sue resteranno solo gratuite insinuazioni e indebite pressioni, al pari di altre interpretazioni arbitrarie delle posizioni del Presidente della Repubblica e di conseguenti processi alle intenzioni”.
Ieri un editoriale del direttore Vittorio Feltri intitolava: “Lettera al presidente che preferisce i ribaltoni al popolo”. Anche se “la Costituzione è sempre quella”, scrive Feltri, “la prassi e’ cambiata” anche se forse “il Capo dello Stato che non si accorge di tante cose, non si è accorto neppure di questo”.
In mattinata, il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri aveva detto che “governi dei perdenti o da ribaltone sarebbero impossibili. Un attentato alla Costituzione non potrebbe mai vedere il Quirinale coinvolto. Lo sappiamo con certezza”. Presa di posizione che ha fatto saltare sulla sedia il Pd. Filippo Penati chiede “di lasciare in pace il presidente della Repubblica e soprattutto se ne rispettino poteri e funzioni nel quadro delineato dalla Costituzione. Invitiamo il capogruppo del Pdl al Senato, in tutti i casi, quando parla degli altri, a non fare confusione con ciò che avviene tra le fila della sua maggioranza”. Molto più diplomatica la Lega. Per Bossi sulla tempistica delle elezioni “è solo il presidente della Repubblica a decidere e io non faccio dichiarazioni contro il presidente della Repubblica”.
Dunque, continua il martellamento del Pdl nei confronti del Presidente Napolitano per evitare qualsiasi forma di governo tecnico, anche il capo dello Stato ha già detto che esistono solo governi politici. Un martellamento che sarà incessante, nel timore della destra di un voto sfavorevole a Berlusconi già a settembre con la riapertura del Parlamento.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15585
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La politica dimentica l’economia 17.08.2010
MARIO DEAGLIO
Quest’anno la pausa di Ferragosto non è stata caratterizzata, come tradizione, dal silenzio della politica. Rivelazioni e smentite, accuse e controaccuse, zuffe verbali dal linguaggio sempre più truculento hanno turbato il tradizionale riposo estivo degli italiani, molti dei quali hanno ridotto le vacanze, quando non vi hanno rinunciato del tutto, grazie alla crisi. Ed è proprio la crisi, con timori che genera per redditi e livelli di vita di milioni di persone, la grande assente in un dibattito – se così si vuol chiamare un’accozzaglia di dichiarazioni e battute in cui tutti gli intervenuti sembrano ascoltare soltanto se stessi – che ha la caratteristica di rimanere totalmente interno alla classe politica.
Chi si sobbarca la fatica di seguirlo ne ricava l’impressione che l’Italia si trovi in una sorta di vuoto pneumatico invece che immersa in un contesto mondiale in ebollizione in cui fa un po’ di fatica a rimanere a galla; e che la classe politica italiana, in quello che sembra un misto di arroganza e di ignoranza, pensi che il fare e disfare governi e legislature non abbia conseguenze sulla posizione economica internazionale del Paese.
Così come il baloccarsi disinvolto con la prospettiva di nuove elezioni.
Le cose invece non stanno così. L’economia globale è in rapidissimo cambiamento, come dimostra il «sorpasso» del Giappone da parte della Cina, annunciato ieri. Uno sguardo a questi mutamenti vorticosi è sufficiente a mostrare la pericolosità economica di un’eventuale fine anticipata della legislatura nel corso dell’autunno, con elezioni collocate in una data insolita, o anche solo la mancanza di un governo stabile e credibile sul piano della finanza internazionale.
L’instabilità o il vuoto politico potrebbero infatti avere rilevanti ripercussioni negative sulla gestione del debito pubblico italiano. Va ricordato che l’Italia è stata per decenni uno dei maggiori «produttori» di debito pubblico, ossia di titoli sovrani acquistabili sui mercati finanziari ma che, con il generale peggioramento dei bilanci pubblici delle economie avanzate, su questo mercato mondiale del debito l’Italia deve competere molto più duramente di prima con molti Paesi, quali Germania, Francia e Gran Bretagna che devono «piazzare» i propri titoli per avere le risorse necessarie a quadrare i propri bilanci.
Il debito pubblico italiano è complessivamente gestito bene, senza addensamenti eccessivi di scadenze, il che limita la possibilità di grandi ondate speculative, del tipo di quelle che hanno colpito la Grecia e, in misura minore, il Portogallo. E finora l’Italia ha rigorosamente rispettato gli obblighi di disciplina di bilancio – tra i quali il varo della recente manovra – che si era assunta in sede europea. Alcune aste importanti negli ultimi mesi, specialmente quelle di giugno, sono state superate in maniera molto soddisfacente; tra la fine delle ferie e la fine dell’anno, però, vengono a scadere circa 100-120 miliardi di debito, concentrati soprattutto a settembre e a novembre e dovranno essere rifinanziati, ossia sostituiti con titoli nuovi.
Chi li acquisterà? Una parte rilevante – si può stimare un po’ più della metà – sarà sottoscritta da risparmiatori italiani, tradizionalmente attratti da questo prodotto «di casa» (l’impiego di risparmio in debito pubblico è uno dei più importanti comportamenti unificanti dell’Italia di oggi). Il resto dovrà trovare compratori all’estero nelle condizioni concorrenziali e difficili di cui si diceva sopra. Quando devono decidere se – e a che prezzo – acquistare titoli di uno Stato sovrano, i grandi operatori finanziari, tra i quali figurano molte banche centrali, come quella cinese, esaminano a tutto campo la situazione del Paese debitore e in questo esame la stabilità politica e la volontà di rispettare i propri debiti hanno uno spazio molto importante.
Quale sarà la reazione del banchiere cinese, del finanziere americano, dell’analista finanziario che lavora per qualche grande banca internazionale di fronte alle «sparate» dei politici di questi giorni? Gli esperti internazionali che si occupano dell’Italia sono in gran parte abituati alle iperboli, al sarcasmo, alle pesanti ironie, alle punte di volgarità del dibattito politico italiano. La possibilità che tutto questo si possa riflettere sul piano istituzionale senza alcun riguardo per la posizione finanziaria del Paese non potrà però non preoccuparli. E potrebbe indurli a chiedere un «premio», ossia un tasso di interesse sensibilmente maggiore di quello applicato ad altri Paesi che si tradurrebbe, come minimo, in qualche migliaio di miliardi in più di spesa per lo Stato italiano, da recuperare poi con nuova austerità e, nella peggiore delle ipotesi, in una più generale «bocciatura finanziaria» dell’Italia.
Ai politici che in questi giorni così abbondantemente si esprimono deve quindi essere consentito di rivolgere una sommessa preghiera: tengano presente che quando parlano non hanno di fronte solo il pubblico, spesso non troppo numeroso, dei loro sostenitori politici, o i giornalisti desiderosi di riempire spazi che le festività rendono vuoti. Ad ascoltarli, a pesare le loro parole più di quanto essi stessi si rendano conto, c’è tutta la finanza mondiale. Che deciderà se sottoscrivere i nostri titoli di debito anche sulla base delle loro parole e dei loro programmi.
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Un primato nascosto dal mini-yuan 17.08.2010
STEFANO LEPRI
Dal punto di vista dell’Occidente, anzi di tutto il resto del mondo, sarebbe stato meglio che questo sorpasso avvenisse prima. Il conteggio che dà il Pil cinese avanti a quello del Giappone è fatto con lo yuan al cambio di mercato. Ossia quel cambio attentamente pilotato dalle autorità cinesi che gli Stati Uniti per alcune ragioni, l’Europa per altre, i paesi asiatici concorrenti della Cina per altre ancora, il Fondo monetario internazionale per tutte quante, vorrebbero vedere assai più forte degli 8,69 per euro e 6,79 per dollaro di ieri.
Addirittura al primo posto la Cina da tempo si trova già per produzione dell’industria manifatturiera: è la «fabbrica del mondo» da cui esce il 21,5% di tutte le merci (cinque volte e mezzo la quota italiana, secondo calcoli della Confindustria). Altri primati connessi a questo erano stati già registrati: primo consumatore mondiale di energia, di cemento, di svariate altre materie prime. Ed è ormai un capitalismo anche azionario: al momento, tra le 10 società mondiali con maggiore capitalizzazione di Borsa, 4 sono cinesi.
Se il prodotto interno lordo della Cina si contasse in yuan più forti, i mutamenti non riguarderebbero soltanto queste classifiche un po’ oziose. La Cina venderebbe un po’ di meno, causa prezzi più alti, e comprerebbe di più, perché avrebbe un maggiore potere d’acquisto. E’ un’altra per noi la notizia migliore arrivata da Pechino questa estate, come ha rilevato The Economist dandogli la copertina due settimane fa: gli aumenti salariali di recente concessi in molte industrie cinesi aiuteranno a recuperare posti di lavoro in tutto il mondo.
Dove la Cina non fa record, infatti, è nel tenore di vita della sua popolazione, rimasto indietro rispetto al travolgente successo delle sue imprese manifatturiere. Certo, grandi cifre si trovano anche lì, ma solo perché i cinesi sono tanti: il maggior numero di telefonini (785 milioni) il maggior numero di auto vendute e così via. Non è abbastanza: nel decennio del miracolo cinese, 1995-2005, la produttività è quintuplicata, i salari si sono soltanto triplicati. Forse ora comincia il recupero.
Soltanto con una crescita dei consumi interni diventerebbe stabile il forte contributo alla ripresa dell’economia mondiale che il colosso dell’Oriente ha dato nell’ultima annata. Invece in queste settimane guardiamo verso Pechino con il timore che la spinta si affievolisca. E’ probabile che la Cina vi sia costretta, perché troppo della rapida uscita dalla crisi si deve a investimenti pubblici e credito facile; non si può continuare all’infinito ad aprire nuove fabbriche se il pianeta resta quello che è, e i prezzi delle case sono troppo alti. Proprio perché la Cina rallentava il Giappone si è quasi fermato. Se rallentasse ancora, ce ne accorgeremmo anche in Europa.
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 17.08.2010, particolarmente succosa.
Le aperture
Il Corriere della Sera: “Napolitano, sfida dopo le accuse. ‘Nel Pdl dicono che tradisco la Costituzione? Chiedano l’impeachment’. Berlusconi ‘stupito’ dalle dichiarazioni. Venerdì il documento sul programma”. In alto la notizia del terremoto alle isole Eolie, “frane a Lipari e Vulcano creano panico tra i turisti”. In prima anche un racconto d’eccezione, quello del presidente del Senato Schifani, in barca a Lipari.
La Repubblica: “L’ira di Napolitano sul Pdl. Dura nota del Quirinale dopo le accuse di parlamentari della maggioranza. Bossi: lo scontro non va esasperato. Bindi: stop ai massacri. ‘Tradisco la Costituzione? Chiedano l’impeachment'”. L’editoriale è di Massimo Giannini: “Macelleria istituzionale”. In evidenza a nche i dati sul Pil cinese: “Cina-Giappone, la guerra del Pil. Nel secondo trimestre sorpasso di Pechino su Torkyo”.
Il Fatto quotidiano: “Napolitano sfida il caimano. ‘Chieda l’impeachment se ha coraggio’: così si rivolge a uno sconosciuto deputato ma ce l’ha con il premier ‘per le indebite pressioni’. Se cade il governo non è detto che si vada ad elezioni”. A centro pagina: “Banca e cucina lo schianto si avvicina. Lo scontro tra finiani e berluscones sembra ormai insanabile. Si può paragonare la casa di Montecarlo allo scandalo del Credito Fiorentino?”.
La Stampa: “Sorpasso al Giappone. La Cina del boom ora insegue gli Usa. E’ seconda nel prodotto interno lordo. Brasile vicino all’Italia”. Più in grande: “La rabbia di Napolitano. Il Capo dello Stato risponde alle accuse di ‘interpretazioni arbitrarie’. Dura replica al Pdl sull’ipotesi di crisi. ‘Tradisco la Costituzione? C’è l’impeachment”. “Il premier accelera: ho già pronto il programma”. A centro pagina le immagini della nuvola di polvere a Lipari, dopo il crollo di alcuni pezzi di roccia nell’isola.
Il Sole 24 Ore: “Cina seconda potenza economica. Dopo 42 anni Pechino supera il Giappone e va alle spalle degli Usa grazie ai dati del Pil nel secondo trimestre”. L’editoriale è firmato da Fan Gang, economista cinese: “Il Grande Drago vive di risparmio”.
Il Giornale: “Il ‘cognato’ di Fini ha usato l’ambasciata per i suoi comodi. La nostra sede diplomatica costretta ad occuparsi dei capricci di Tulliani. ‘Venne per la ristrutturazione
della casa, chiamava persino per l’hotel”. A parlare è l’ambasciatore italiano nel Principato, Mistretta, cui Tulliani si rivolse “più volte e con insistenza” per avere aiuto nella ristrutturazione della sua abitazione. In apertura e più in piccolo la “polemica”: “Adesso Napolitano sfida Pdl e Giornale: mettetemi sotto accusa’”. Risponde il direttore Feltri: “Il premier lo decide il popolo”.
Libero: ” Il fisco indaga sul cognato. La Ferrari, la casa di Montecarlo, le consulenze, le società off shore: Giancarlo ha troppi misteri. Storace: io e Gianfranco in un duello tv, ho 8 domande. Nel 2005 Tulliani era nullatenente”. L’editoriale di Maurizio Belpietro è dedicato a Napolitano: “I tre giorni che sconvolsero Napolitano”, il titolo.
Il Foglio dedica il titolo di apertura ai rapporti tra Usa e Turchia: “Washington ferma armi e ambasciatori per punire l’alleato infedele. Obama prova con le maniere forti a riportare la Turchia dalla sua parte. ‘Troppa vicinanza con l’Iran. Il rapporto di Foggy bottom”. In prima anche la “versione di Denis”, la replica dell’esponente di Forza Italia ai rilievi della Banca d’Italia sul Credito cooperativo. In prima pagina anche la Cina: “Che cosa c’è dietro il sorpasso della Cina sul Giappone”. Di spalla: “Non solo federalismo. A quali condizioni la Lega sarà fedele al Cav. Successione, non secessione”.
Napolitano
Intervistato da Il Giornale il 15 agosto un parlamentare del Pdl, Bianconi, aveva accusato Napolitano di violare la Costituzione se avesse scelto la via del governo di transizione invece che delle elezioni anticipate, in caso di crisi di governo. Il presidente della Repubblica ha risposto con una “dura nota”, come scrive il Corriere della Sera, in cui definisce “gravi e avventate” le sue dichiarazioni, “gratuite insinuazioni e indebite pressioni”, e invita: chi sia convinto che agisco contro la Carta costituzionale ha nell’articolo 90 della Costituzione lo strumento per chiedere la messa in stato d’accusa del Capo dello Stato. Secondo Marzio Breda “è un avvertimento dai toni durissimi”, quello del Presidente, che lo stesso Napolitano ha dovuto fare perchè “aveva messo in conto una escalation di attacchi, anche se non pensava a questo livello”.
Intervistato da La Repubblica l’ex presidente della Corte Costituziona le Zagrebelsky dice che la richiesta di scioglimento delle Camere e di voto anticipato sono “contro la Costitituzione” se le si presenta “non come opzione possibile e auspicata ma come soluzione obbligatoria della crisi di governo. Quest’ultima è la posizione dei critici del presidente Napolitano. Ma è una posizione insostenibile, anche se sostenuta da giuristi come i ministri Alfano e Maroni”, dice il costituzionalista.
Vittorio Feltri, nel suo editoriale sul Giornale, chiede: “Con quale coraggio si potrebbe mandare all’opposizione chi ha vinto le elezioni e affidare l’esecutivo a chi le ha perse? Un’operazione del genere, architettata appigliandosi alle regole del sistema parlamentare, sarebbe forse formalmente corretta, ma nella sostanza rappresenterebbe uno sfregio della volontà popolare”. Dunque, spiega Feltri, non si tratta di interferire nelle prerogative del Capo dello Stato. In caso di crisi, sia il Pdl che la Lega che il Giornale “sono dell ‘opinione che Napolitano debba senza indugi sciogliere il Parlamento e non concertare una manovra antidemocratica per trasformare la minoranza in maggioranza, come fece Oscar Luigi Scalfaro. E’ un auspicio. Non un modo indiretto per chiedere in anticipo l’impeachment di Napolitano”, conclude Feltri.
Secondo Massimo Giannini, su La Repubblica, “siamo arrivati al limite estremo, alla rotturura di tutti gli equlibri istituzionali. Dunque, quando Napolitano denuncia ‘intepretazioni arbitrarie’ e ‘processi alle intenzioni’ non è certo a Bianconi che si riferisce. Il Capo dello Stato parla a tutto il centrodestra e rilancia la sfida al leader che ne incarna l’anima ‘rivoluzionaria’ e ormai palesemente anti-statuale. In vista dell’ormai inevitabile show down d’autunno, il comunicato del Colle suona quasi come una ‘chiamata finale'”, dalla quale il vicedirettore del quotidiano trae alcune lezioni: che le istituzioni appartengono alla Repubblica, che la Costituzione “non p uò essere piegata all’ermeneutica”, e che Napolitano tutela la “Costituzione formale”, che non può essere stravolta da una Costituzione materiale introdotta surrettiziamente, per esempio con il nome “Berlusconi” sulle schede elettorali, come è successo nelle ultime tornate elettorali.
Verdini
Su Il Foglio “la versione di Denis”: si tratta di una intervista al coordinatore Pdl Denis Verdini, che nel colloquio replica alle osservazioni della Banca d’Italia sul Credito Cooperativo fiorentino: “Anche a voler leggere con malevolenza” le osservazioni di Bankitalia – dice – “esse comunque smontano tanti titoli velenosi sparati in questi giorni dalla stampa antiberlusconiana”. Verdini sottolinea che le verifiche dell’autorità di vigilanza riguardano ciclicamente tutti gli istituti e sottolinea che normalmente Bankitalia ha scelto la linea della riservatezza: “Stavolta però il segreto, come in certe Procure, non &egrav e; stato mantenuto”. Esse peraltro non rappresentano “né una verità né una sentenza”. Non è stata poi la prima ispezione nell’istituto fiorentino che lui presiedeva, poiché ve ne sono state ne 2002 e nel 2006. Sul conflitto di interessi (Bankitalia sottolineava che il Verdini aveva omesso di fornire piena informativa sulla sussistenza di propri interessi potenzialmente in conflitto con quelli della banca, riferendosi ai finanziamenti concessi all’imprenditore Riccardo Fusi, con il quale lo stesso Verdini sarebbe stato in affari), per Verdini quel conflitto di interessi non è mai esistito, poiché spiega: “nel 2005 ho fondato una società, la Parved, e pensai di acquistare una quota della società Unahotel & Resort Spa (gruppo Fusi). Poi ho cambiato idea. Posso essere colpevole di non aver fornito informazioni su un affare che avevo pensato di intraprendere ma che poi non ho portato a termine?”.
Cina
Il corrispondente de La Stampa si occupa del sorpasso della Cina sul Giappone nella classifica mondiale del Pil, e scrive che l’impero del Dragone “preferisce il basso profilo”. La parola d’ordine delle autorità è minimizzare, i giornali cinesi hanno ignorato l’evento, esiliandolo nelle pagine interne, i dirigenti cercano di scantonare, la gente per strada ne sa poco. Il confronto in prospettiva, peraltro temuto, è quello con gli Usa. La Cina sa che nel momento in cui due auto si avvicinano, l’incidente è più facile: tace e resiste alle pressioni di rivalutare lo yuan, che stringerebbe i tempi del sorpasso. Ci voranno comunque ancora cento anni, infatti, per dare ai cinesi un Pil procapite del livello dei Paesi occidentali, e senza di questo tutto è vano e vuoto. Gli accademici dicono che oltre l’ottanta per cento dei grandi brevetti è ancora prodotto in Europa e in America. Inoltre la crisi finanziaria Usa del 2008 ha spinto in avanti la Ci na con grande anticipo, in caso di nuovi sussulti in occidente essa si troverebbe in prima linea senza essere preparata. Se l’America crolla, la Cina cosa fa? Se gli Usa non possono mantenere le truppe in Iraq o Afghanistan, cosa farà il Sol Levante? Sul Sole 24 Ore l’economista cinese Fan Gang ricorda che se la Cina cresce a ritmi così elevati è perché i suoi abitanti hanno una alta propensione al risparmio: nel 2008 il tasso di risparmio di Pechino è arrivato al 52 per cento del Pil. Il dato va letto tenendo presente che invece il tasso di consumo delle famiglie resta basso, attestandosi al 35 per cento.
Sul Corriere della Sera due pagine alla crescita cinese, ai paragoni possibili tra l’economia cinese e quella giapponese, ed intervista Arvind Subramanian, del Peterson Institute for international economics, secondo cui “se la Cina mantiene questi ritmi nei prossimi 15 o 20 anni supererà anche gli Stati Uniti”. Ripercussioni sul Giappone? “E’ positivo avere questo motore della crescita asiatica, che importa e attiva le catene globali di produzione. Ma per il Giappone la crescita cinese rende le materie prime più costose. E da un punto di vista politico di sicurezza, il Giappone e il mondo intero dovranno gestire una nuova potenza con le sue ambizioni strategiche”. Sulle possibili contraddizioni che potrebbero esplodere nel Paese: “In Cina le tensioni emergeranno in politica, per esempio sulla centralizzazione del potere nelle questioni fiscali o del welfare. Le province cinesi vogliono contare di più”.
Esteri
I quotidiani raccontano estesamente le ripercussioni di una intervista del comandante dele Forze Usa e Nato in Afghanistan, David Petraus, concessa nei giorni scorsi alla tv Nbc e ad alcuni quotidiani internazionali. L’intervista è stata diffusa il 15 agosto e l’attenzione si è concentrata sulla data del ritiro delle forze dell a coalizione dall’Afghanistan: luglio 2011 come data d’inizio veniva presentata da Petraeus come un “processo” legato comunque alle condizioni sul campo. Il presidente Obama è quindi intervenuto per precisare che la data di luglio non è negoziabile. Il Sole 24 Ore titola: “Petraeus smentito sul ritiro”.
Per Il Foglio il generale Petraeus ha iniziato “un’offensiva sui giornali per convincere Obama a cambiare la data al ritiro afghano”.
Su La Stampa si riassumono le parole del Presidente Usa: “La data del ritiro non si cambia”. Sullo stesso quotidiano, peraltro, segnaliamo un richiamo ad una analisi comparsa qualche giorno fa sul New York Times secondo cui gli Usa sarebbero passati dalla strategia del martello a quella del bisturi, ovvero avrebbero intensificato nettamente, nella lotta al terrorismo, le missioni coperte, furtive, “mordi e fuggi”, imponendo uno stop alle campagne militari lanciate con dichiarazioni formali. In Pakistan, nello Yemen, in Soma lia o in Kenya è stato intensificato, secondo La Stampa, l’approccio un tempo criticato di Bush: contractor cui appaltare lavori di intelligence, eliminazione diretta dei soggetti sulla lista nera da parte di team clandestini, crescente uso di droni contro obiettivi individuati sul campo da spie e doppiogiochisti.
Ne parla anche Il Sole 24 Ore, descrivendo “la guerra nell’ombra dell’America di Obama”, in una dozzina di Paesi stranieri e i due continenti. Si tratta di un significativo aumento delle operazioni militari e di intelligence “in una dozzina di Paesi – scrive il New York Times – cercando il nemico con gli aerei senza pilota e con squadre di assalto, pagando contractor privati per spiare e per addestrare le forze locali a inseguire i terroristi”. John Brennan, il principale consigliere antiterrorismo di Obama, spiega la nuova strategia fatta di operazioni militari chirurgiche piuttosto che di aperte campagne belliche. La maggior parte di queste operazioni non è nemmeno riconosciuta.
Per combattere questa guerra nell’ombra la Casa Bianca ha riesumato personaggi chiave della guerra fredda, come Michael Vickers, che ebbe un ruolo centrale nel sostegno e finanziamento ai mujaidin afghani e che ora è il capo delle forze speciali del Pentagono. Allo stesso tempo l’ex agente Cia in America centrale Duane Clarridge, che fu coinvolto nello scandalo Iran-contra, guida oggi una società di contractor privati che conduce attività spionistiche in Pakistan per conto del Pentagono. Su ordine di Obama le forze speciali del Pentagono conducono operazioni spionistiche all’estero un tempo riservate alla Cia. E in questo modo, secondo il Times, c’è meno trasparenza e scarsi controlli del Congresso.
Su La Repubblica ci si sofferma sulla proposta lanciata nei giorni scorsi dalla dirigenza talebana di creazione di una commissione di inchiesta congiunta con le forze della coalizione internazionale per indagare sulle mor ti di civili in Afghanistan. L’analisi sottolinea quanto l’iniziativa lanciata dai Taliban sia il sintomo del mancato controllo dei militanti da parte del mullah Omar. In questa situazione, i taliban tentano di rovesciare sulle truppe internazionali la responsabilità degli eccidi civili, che un rapporto Onu aveva loro attribuito nei giorni scorsi, in una proporzione dei due terzi. Tuttavia l’articolo non tralascia di sottolineare i vantaggi possibili di un accoglimento della proposta stessa, ricordando una collaborazione analoga, avviata con il tacito consenso dei Talebani, nella campagna di vaccinazione nel Sud del Paese, nel 2007
Turchia
Da Il Sole 24 Ore segnaliamo anche la notizia rilanciata nei giorni scorsi dal Financial Times che parlava di un ultimatum di Obama al premier turco Erdogan: se non cambierà atteggiamento su Iran e Israele, gli Usa bloccheranno la vendita dei droni, che Ankara ha chiesto p er la sua guerra agli indipendentisti kurdi.
Se ne occupa ampiamente in prima Il Foglio, scrivendo che “Obama prova con le maniere forti a riportare la Turchia dalla sua parte”. Il Congresso Usa, ricorda il quotidiano, ha bloccato la nomina del suo nuovo ambasciatore in Turchia e le tensioni per la politica di riavvicinamento a Iran e Siria non sono mancate, negli ultimi mesi. Un rapporto compilato dagli uomini del Dipartimento di Stato in marzo scriveva che è necessario chiedersi se la Turchia stia cambiando la propria tradizionale posizione nei confronti dell’occidente.
Sul Corriere della Sera, con un lettera, l’incaricato d’affari dell’Ambasciata turca in Italia, risponde ad un articolo comparso ieri sullo stesso quotidiano in cui si parlava della “via turca” per le armi ad Hezbollah. Ed è l’occasione per ricordare che “la Turchia è fedele all’Alleanza atlantica nell alotta al terrore”. L’incaricato d’affari ricorda che il Paese “adempie a tutti i suoi impegni derivanti dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu; inoltre è parte di tutti gli accordi e norme internazionali diretti all’impedimento sia del trasporto che del commercio senza controllo e clandestino delle armi piccole e leggere ed anche di quelle di distruzione di massa”.
L’Unità scrive che il monito di Obama ad Erdogan giunge proprio nel giorno in cui l’Iran annuncia che avvierà entro il primo semestre del 2011 la costruzione di un nuovo sito per l’arricchimento dell’uranio. Uno dei motivi di preoccupazione di Obama nei confronti della Turchia è stato il voto contrario del Paese alle nuove sanzioni contro Teheran per la corsa al nucleare.
E poi
Gad Lerner, su La Repubblica, interviene sulla questione della moschea Usa nei pressi di Ground Zero: “Il minareto americano e i timori di casa nostra”. Se ne occupa un’intera pagina de Il Foglio (“Ground Islam . Così si spezza l’illusione della ‘newyorkesità’. La maggioranza dei cittadini è contro la moschea. L’imam: ‘va bene anche un altro posto, ma nella stessa zona’””; “La moschea è l’occasione d’oro dei repubblicani contro Obama”; “Quel tempio islamico diventerà meta di pellegrinaggio per i terroristi”).
L’autore de Il Fondamentalista riluttante, il pakistano Mohsin Hamid, scrive su La Repubblica una disperata analisi della situazione nel suo Paese dopo le alluvioni. Senza tralasciare le questioni legate alla minaccia dei fondamentalisti e dell’esercito pakistano. Il Sole 24 Ore titola: “In Pakistan 3,5 milioni di bambini a rischio”, rilanciando un allarme dell’Onu e spiegando che i soccorritori temono le conseguenze della acqua contaminata. Nel Sindh e nel Punjab, i territori più colpiti, è esplosa la protesta contro il governo per l’inefficienza e il ritardo degli aiuti.
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All’Università del Messico hanno inventato l’aria condizionata che va a energia solare 04.08.2010
Gli scienziati del Centro per la ricerca energetica CIE della UNAM, Universidad Nacional Autónoma de México, guidati dal professore Wilfrido Rivera ( a sinistra nella foto con l’impianto di condizionamento), hanno messo a punto un sistema di climatizzazione alimentato da pannelli solari, adatto al clima caldo umido del Messico.
Ha detto il Prof. Rivera:
Già esistono macchine del genere prodotte in Germania e in Giappone. Il nostro progetto, invece, è specifico per le condizioni meteorologiche del Messico.
Una delle novità riguarda la “torre di raffreddamento” che di solito usa acqua per dissipare il calore prodotto ma luogo ideale per il proliferare della legionella. Il sistema sviluppato da Robert Best, Octavio Garcia, Gomez e Victor Rivera fa si che la torre di raffreddamento non usi acqua ma aria, eliminando così il problema legionella. Il condizionatore arriva dopo circa 20 anni che sono allo studio sistemi del genere che abbiano come sistema di alimentazione l’energia solare, risorsa abbondante nella maggior parte del paese.
Il sistema, che per ora risulta essere ancora troppo ingombrante, dovrebbe poter durare almeno 15 anni senza ricevere manutenzione. Spiega il prof. Rivera:
Tutto ciò che serve è tenere pulito il campo dei collettori per catturare al meglio le radiazioni solari.
Inoltre, questo progetto è stato recentemente approvato dal Ministero per l’Energia e dal Consiglio Nazionale per la Scienza e la Tecnologia e vi sono due società interessate: la Modulo Solar e la RDMES Technology, quindi, le prospettive per il sistema di condizionamento a energia solare progettato dall’università, sono incoraggianti.
Via | Greenopolis, Milenio
Foto | Milenio
Qui lo schema: http://i.treehugger.com/files/th_images/broad%20heating%20cycle.gif la vera innovazione è nella pompa di calore, sistema più complesso della pompa di calore classica, qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Pompa_di_calore
Grazie a ice: http://www.ecoblog.it/user/ice
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L’Addio a Cossiga, figura politica fuori dalle righe 17.08.2010
Da “presidente notaio” a “picconatore”, Francesco Cossiga è stato un capo dello Stato unico nel suo genere nella storia della Repubblica, fuori dagli schemi: è stato l’uomo delle leggi emergenziali, del caso Moro, della Nato e di gladio, delle picconate alla prima repubblica, ma anche della nascita del primo governo a guida postcomunista, con i comunisti parte integrante. Scrittore, ha trattato e affrontato i temi della vita politica e dei partiti
Scompare con Francesco Cossiga una figura eminente della storia repubblicana. Anticomunista convinto, ha però sempre sinceramente rispettato i comunisti, che il più delle volte lo hanno avuto come avversario, ma ultimamente – per le bizzarrie della politica italiana della cosiddetta seconda repubblica, da Cossiga giustamente mai apprezzata – lo hanno avuto anche come alleato.
Da “presidente notaio” a “picconatore”: Francesco Cossiga è stato un capo dello Stato unico nel suo genere nella storia della Repubblica, fuori dagli schemi fino a quel momento conosciuti, diverso dai suoi predecessori e dai suoi successori soprattutto per il modo con cui, specialmente negli ultimi due anni del settennato, ha trattato e affrontato i temi della vita politica e dei partiti.
Aspro ma lucido e mai ipocrita, dare oggi, a caldo, un giudizio sul suo lungo operato, è impossibile. Di lui si può dire che è sempre stato duro ma leale.
Cossiga ha rappresentato nei decenni molte e diverse, talvolta contraddittorie posizioni ed interessi. E’ stato l’uomo delle leggi emergenziali, del caso Moro, della Nato e di gladio, delle picconate alla prima repubblica, ma anche della nascita del primo governo a guida postcomunista, con i comunisti parte integrante.
Nell’ultimo tratto del percorso da inquilino del Quirinale nel mondo politico si è persino sparsa la voce di una “follia” del presidente.
Ed è lo stesso Cossiga a raccontare i retroscena della leggenda del capo dello Stato “matto”, nel libro-intervista di Claudio Sabelli Fioretti “L’uomo che non c’è”: “E’ vero, io facevo cose un po’ strambe, ma le facevo perché non avevo dietro di me potentati economici, né potentati politici, né potentati culturali. Ero stato abbandonato anche dalla Dc”. “Per farmi ascoltare -raccontava Cossiga- dovevo fare follie, dovevo dire cose che avevano la forma della follia. Quello che per anni è stato il mio avversario ideologico, Luciano Violante, in un libro ha detto che avevo previsto tutto rispetto a loro e che loro non vollero credermi. Come tutti i depressi, io però avevo una grande lucidità intellettuale. Si dice che Newton abbia scoperto la legge di gravitazione universale durante una crisi di depressione… Ho fatto, dunque, anche il matto. Per attirare l’attenzione, quando non mi stava a sentire nessuno”.
La presidenza Cossiga ha avuto dunque due fasi distinte. La prima, contraddistinta da una rigorosa osservanza delle forme dettate dalla Costituzione: Cossiga, essendo tra l’altro docente di diritto costituzionale, fu il classico “presidente notaio” nei primi cinque anni di mandato, dal 1985 al 1990. Poi, dopo la caduta del Muro di Berlino, Cossiga capì che Dc e Pci avrebbero subito gravi conseguenze dal mutamento radicale del quadro politico internazionale, sostenendo però che i partiti e le stesse istituzioni si rifiutavano di riconoscerlo. Da quel momento iniziò una fase di conflitto e polemica politica, spesso provocatoria, che portò al Cossiga “grande esternatore” e, negli ultimi due anni al Quirinale, al “picconatore”, un appellativo che non l’avrebbe più abbandonato.
Il mito del Picconatore nacque anche sull’onda emotiva di due scandali che hanno segnato la vita politica italiana all’inizio degli anni Novanta: Gladio e Tangentopoli. La scoperta dell’organizzazione segreta della Nato, creata per rispondere ad un eventuale attacco portato dall’Unione Sovietica, colpì l’opinione pubblica e la classe politica italiana. E Cossiga assunse una posizione che fu all’origine di fortissime polemiche, difendendo i “gladiatori” e sostenendo che essi andavano onorati come i partigiani perché il loro obiettivo era quello di difendere l’indipendenza e la democrazia in Italia.
La vicenda di Gladio costò a Cossiga la richiesta di messa in stato d’accusa da parte della sinistra parlamentare, nel dicembre del 1991. Il Comitato parlamentare, però, ritenne tutte le accuse manifestamente infondate e la Procura di Roma richiese l’archiviazione a favore di Cossiga nel febbraio 1992. Nel luglio del 1994 la richiesta fu accolta dal Tribunale dei ministri.
Anche sull’altro grande scandalo dell’epoca, Tangentopoli, Cossiga confermò di essere un presidente della Repubblica “anomalo”, almeno per quegli anni. Per la prima volta, infatti, un politico democristiano non cercò di negare il ruolo negativo di una parte della classe politica, appoggiando l’operato dei magistrati di Milano che guidano l’inchiesta sulle tangenti al sistema politico.
Mani Pulite, ha raccontato Cossiga nel suo ultimo libro Fotti il potere, “non nasce con l’arresto di Mario Chiesa. Ho parlato con diversi grandi imprenditori coinvolti, e tutti mi hanno detto che gli sono stati contestati fatti appresi dai magistrati anni prima grazie alle intercettazioni. C’è qualcosa che non torna: perché quelle inchieste da anni dimenticate sono state di colpo lanciate tra i piedi del ceto politico?”. Forse perché, secondo Cossiga , qualcuno, non solo in Italia, voleva liberarsi di un sistema politico “logoro e dal loro punto di vista ormai inservibile”.
Con dieci settimane d’anticipo sulla scadenza naturale del proprio mandato, il 28 aprile del 1992, Cossiga si dimise dalla presidenza della Repubblica per evitare l’ingorgo istituzionale, annunciando la sua decisione in un discorso televisivo di 45 minuti, pronunciato simbolicamente il 25 aprile, Festa della Liberazione.
Un bilancio sulla sua vita politica necessita di tempo. Ma già da oggi, guardandoci intorno desolati, pensando ad una politica italiana repubblicana che oggi, nel basso impero imperante non esiste più, sappiamo che finiremo con il ricordarlo con rimpianto.
Presidente emerito e scrittore, attraverso i suoi numerosi libri ci ha raccontato la politica senza veli né maschere, con i suoi meccanismi e le sue dinamiche, senza pudore o ipocrisia: “Fotti il potere, gli arcani della politica e dell’umana natura” è stata l’ultima fatica letteraria di Francesco Cossiga, scritta a quattro mani con il giornalista Andrea Cangini, per i tipi di Aliberti. Nel 2009, il presidente emerito della Repubblica aveva pubblicato con Rizzoli il saggio “La versione di K, Sessan’anni di contro storia”, raccontando la sua verità sui principali avvenimenti di oltre mezzo secolo di storia italiana, compresi quelli più drammatici, primo fra tutti il caso Moro.
Nello stesso anno il senatore a vita aveva pubblicato con Aliberti il libro-intervista con Claudio Sabelli Fioretti “Novissime picconate”, una sorta di instant-book in cui l’ex capo dello Stato tornava, appunto, a picconare, menando fendenti a destra e a sinistra, con la consueta ironia amara e feroce. L’anno precedente, per i tipi di Rubettino, Cossiga aveva pubblicato “Mi chiamo Cassandra. Arguzie, giudizi e vaticini di un profeta incompreso”, un volumetto che raccoglie le battute apparse sui giornali in interviste o articoli di proprio pugno: un florilegio di paradossi e stilettate che può a ragione essere accostato al personaggio di Cassandra, profetessa condannata a non essere mai creduta.
Nel 2007 l’ex capo dello Stato aveva pubblicato due volumi: un altro libro-intervista al fianco di Claudio Sabelli Fioretti, “L’uomo che non c’è”, edito da Aliberti, mentre presso Mondadori era apparso “Italiani sono sempre gli altri. Controstoria d’Italia da Cavour a Berlusconi”.
Il 2003 è stato l’anno più prolifico del Cossiga autore di libri. Tre i volumi pubblicati: con Italia Turistica, per la collana le Province d’Italia, “Provincia di Cagliari. Melodie di colori”, insieme a Paolo Caredda e Sandro Balletto; con Mondadori “Per carità di patria. Dodici anni di storia e politica italiana 1992-2003”, in cui politica e storia si confrontano nell’esame dei fatti e nel giudizio sui protagonisti: da Prodi a Berlusconi, da Craxi a D’Alema, da Scalfaro a Ciampi, da Amato a Casini, da Lima a Falcone, da Saddam a Bush, fino a un inatteso confronto-incontro intellettuale e spirituale con Giovanni Paolo II; e per i tipi di Liberilibri “Discorso sulla giustizia”.
Nel 2002 Cossiga aveva pubblicato con Rubettino “I servizi e le attività di informazione e di controinformazione. Abecedario per principianti, politici e militari, civili e gente comune”. Una sorta di vademecum, scritto da un vero esperto di intelligence quale l’ex capo dello Stato era, per fare comprendere il mondo dei servizi segreti: “Quando ero al Quirinale raccontò in una intervista- vollero tentare una riforma dei Servizi. Per dare solennità alla cosa fecero una riunione del Consiglio superiore di Difesa, e io mi accorsi che molti suoi eminenti membri non sapevano nulla di questi argomenti. Così un sabato e una domenica ho scritto il libro per loro: quasi un dizionario terminologico, perché capissero almeno le parole. Poi capitò a pranzo da me l’ex-capo della Cia William Colby, e allora io gli chiesi il favore di leggere e correggere. Lui lo fece, e mi diede anche un voto: nove e mezzo…”.
Nel 2000 l’ex presidente della Repubblica aveva dato alle stampe per la saggistica della Rizzoli “La passione e la politica”, un’opera autobiografica sulla vita di un protagonista della vita politica italiana. Nel 1993, il primo libro, con Mondadori: “Il torto e il diritto. Quasi un’antologia personale”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15593
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I nemici dichiarati si salutano perchè in essi si specchia la nostra forza. 17.08.2010
Il signor K, lo stato e il movimento
Quello che segue si può definire il testamento politico del presidente Cossiga oggi scomparso. Riproponiamo la sua intervista dell’ottobre 2008, in piena contestazione dell’Onda. Parole e cosiderazioni che inquadrano l’uomo, il politico, il servitore dello stato e l’accerrimo nemico dei movimenti.
Presidente Cossiga, pensa che minacciando l`uso della forza pubblica contro gli studenti Berlusconi abbia esagerato?
«Dipende, se ritiene d`essere il presidente del Consiglio di uno Stato forte, no, ha fatto benissimo. Ma poiché l`Italia è uno Stato debole, e all`opposizione non c`è il granitico Pci ma l`evanescente Pd, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlusconi farà una figuraccia».
Quali fatti dovrebbero seguire?
«Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand`ero ministro dell`Interno».
Ossia?
«In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito…».
Gli universitari, invece?
«Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città».
Dopo di che?
«Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».
Nel senso che…
«Nel senso che le forze dell`ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano».
Anche i docenti?
«Soprattutto i docenti».
Presidente, il suo è un paradosso, no?
«Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che in- dottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!».
E lei si rende conto di quel che direbbero in Europa dopo una cura del genere? «In Italia torna il fascismo», direbbero.
«Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l`incendio».
Quale incendio?
«Non esagero, credo davvero che il terrorismo tornerà a insanguinare le strade di questo Paese. E non vorrei che ci si dimenticasse che le Brigate rosse non sono nate nelle fabbriche ma nelle università. E che gli slogan che usavano li avevano usati prima di loro il Movimento studentesco e la sinistra sindacale».
E` dunque possibile che la storia si ripeta?
«Non è possibile, è probabile. Per questo dico: non dimentichiamo che le Br nacquero perché il fuoco non fu spento per tempo».
Tratto dall’intervista al Quotidiano Nazionale del 22 Ottobre 2008 di Andrea Cangini
http://www.globalproject.info/it/in_movimento/Il-signor-K-lo-stato-e-il-movimento/5574
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Fosse comuni e forni crematori in Colombia 17.08.2010
Ormai è possibile affermare con certezza che, durante la presidenza di Uribe, in Colombia, le uccisioni, anche di civili, siano state ben più numerose di quanto si credeva fino ad ora. Nel corso della visita di una delegazione di sei eurodeputati è stata infatti accertata l’esistenza di almeno una fossa comune. Molti contadini hanno dichiarato che ne esistevano altre. I magistrati hanno raccolto la testimonianza di un paramilitare riguardo all’uso frequente di forni crematori.
Ne riferisce Stella Spinelli in un articolo pubblicato da “Peacereporter”:
“Una delegazione europea, con sei eurodeputati, ha certificato durante un sopralluogo pubblico a La Macarena, dipartimento centrale del Meta, culla dei Falsos Positivos, l’esistenza di una fossa comune contenente circa duemila cadaveri. A guidarla, il sacerdote gesuita Javier Giraldo, figura d’eccezione nella lotta per i diritti umani in Colombia, rappresentante del Centro di indagine ed educazione popolare (Cinep), fondazione no profit da sempre impegnata nella denuncia dei crimini di Stato e dei soprusi paramilitari. Che ha spiegato come tortura e omicidio generalizzato siano i tragici comun denominatori della normalità colombiana, anticipando come il prossimo settembre saranno presentati altri casi documentati di sparizioni forzate e omicidi in altre regioni del paese.
In una atmosfera surreale, i delegati europei hanno ascoltato, attoniti, le tragiche testimonianze dei sopravvissuti, contadini stroncati da fatica e terrore, che hanno finalmente deciso di rompere il silenzio denunciando come l’esercito colombiano usasse gli elicotteri per gettare nelle fosse i corpi di civili massacrati e spacciati per guerriglieri, con l’intento di ottenere qualche licenza speciale. Erano in tanti, circa 800, i campesinos, venuti da tutte le regioni in cui l’esercito ha agito indisturbato, ingannando, illudendo e ammazzando, a sangue freddo…
E quanto questo complotto fosse fondato sul sangue e l’orrore emerge unendo come in grandi puzzles testimonianze e ricordi appartenenti a una parte e all’altra della barricata. L’ultima testimonianza shock in ordine di tempo è quella che ha rilasciato il paramilitare Iván Laverde Zapata, che davanti ai magistrati ha raccontato che per smaltire il numero impressionante di cadaveri che facevano a destra e a manca, cadaveri insostenibili perché avrebbero gonfiato in maniera inspiegabile le statistiche ufficiali, hanno funzionato per anni veri e propri forni crematori. Una maniera sbrigativa e pulita per far sparire le tracce di mattanze inenarrabili contro il popolo. Una pratica barbara, che ha subìto un’impennata proprio durante i due mandati di Uribe e della sua sicurezza democratica. Non solo. Zapata ha spiegato come in Antioquia, mentre Uribe era governatore, molti cadaveri venisero fatti sparire anche nel fiume Cauca. Stessa pratica anche nel dipartimento di Santander. Mentre altrove, si ricorreva a pratiche da macelleria: cadaveri fatti a pezzi e nascosti in varie fosse comuni, di cui La Macarena ne è eclatante esempio.
Questa è una parte della testimonianza del paramilitare: ‘Ci sono molti morti che non sono stati ritrovati perché qui nelle vicinanze di Medellín, ad un’ora, si trovavano dei forni crematori. Molta gente è stata bruciata. Io ho assistito a questi fatti […]. Tra il 1995 ed il 1997 le vittime venivano buttate nel Cauca, dopo aver aperto i corpi e averli riempiti di pietre […], avendo l’ordine di far scomparire le vittime, è sorta l’idea dei forni crematori […]. Dell’installazione del forno si è occupato Daniel Mejía, era delle Auc e della Oficina de envigado. Il forno lo faceva funzionare un tale detto Funeraria, credo si chiamasse Ricardo, mentre due signori si occupavano della manutenzione delle griglie e delle ciminiere, perché si ostruivano col grasso umano […]. Portavamo al forno tra le 10 e le 20 vittime a settimana, vive o morte, e c’era un procedimento preciso da seguire: quando arrivavamo bisognava suonare e ci dicevano ‘Questa spazzatura portatela giù’, allora andavamo dentro e le portavamo in sacchi di plastica per non sporcare di sangue. Dopo aver dissanguato il cadavere, ci chiedevano: ‘Chi lo manda questo?’. Avevano una cartella in cui annotavano tutto. Noi entravamo e dovevamo aspettare le ceneri… poi si mostravano a Daniel e si buttavano al fiume o dove ci dicevano. Il forno fu inaugurato gettandovi dentro una persona viva, perché aveva rubato dei soldi’.”
Che le forze militari e paramilitari colombiane fossero responsabili di molte uccisioni e di molte violenze era noto. Sapere che ci sono state anche fosse comuni e forni crematori rende, oggettivamente, ancora più inaccettabile il loro comportamento che non può, peraltro, essere giustificato affatto dalla presenza pluriennale di guerriglieri, come gli aderenti alle Farc, i quali certo non ci sono andati “per il sottile” con le loro azioni. L’auspicio è che il governo del nuovo presidente Santos, il successore di Uribe, cambi radicalmente il proprio modo di comportarsi. Non è molto probabile perchè Santos era ministro della Difesa sotto la presidenza di Uribe ed è possibile che continui sulla strada perseguita dal presidente uscente. Non devono trarre in inganno quindi i migliori rapporti instaurati tra Santos e Chavez, il presidente del Venezuela. Pertanto l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale e dei governi dei paesi più importanti del nostro pianeta, nei confronti di quanto avverrà in Colombia, non dovrà attenuarsi, anche se occorre riconoscere che nemmeno nel corso della presidenza Uribe tale attenzione fu quella necessaria, tutt’altro. Per quello che vale, vi assicuro comunque che la mia attenzione non si ridurrà.
Colombia fosse comuni forni crematori Uribe Santos
http://paoloborrello.ilcannocchiale.it/2010/08/17/fosse_comuni_e_forni_crematori.html
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Wired e la morte del Web 17.08.2010
A parlarne Chris Anderson: si apre così il dibattito sull’evoluzione dell’economia di Internet e del ruolo delle applicazioni. Sancendo la morte del browser, e la sopravvivenza del resto
Roma – A due decenni dalla sua nascita il World Wide Web sarebbe in declino, pronto a cedere il passo a strutture più leggere (l’esempio è quello della app tipiche degli smartphone attuali) non più basate sul cercare ma sul prendere: da questo presupposto sono partiti due (attesi) articoli paralleli del direttore di Wired USA Chris Anderson e dell’editorialista Michael Wolff.
Come da struttura classica del giallo, ora che c’è una “vittima” (il morente Web) c’è da trovare un colpevole: e i due commenti si distanziano proprio sul chi incolpare. È stato l’utente medio, su iPhone, con un app? O il mercato, con gli investimenti, su Facebook?
Chris Anderson, che già aveva annunciato la fine del Web per mano di Push nel 1997, vede l’arma del delitto in mano agli utenti: sono le app. Queste, a diferenza del Web come lo conosciamo, sono piattaforme spesso chiuse e utilizzano Internet per il trasporto di dati ma non il browser per la loro visualizzazione. Il fatto che siano per molte attività più comode per gli utenti (in particolare per il mobile), e molto più facilmente remunerative per le aziende, dovrebbe a breve sancire la fine del Web così come lo conosciamo, a favore di una nuvola di app a sostituire il desktop.
Michael Wolff, invece, dà la colpa ai (tanti) soldi dei nuovi investitori: non più attenti a distribuire i propri investimenti su più siti, ma pronti a mettere tutto su un solo cavallo vincente che possa cannibalizzare il resto della Rete. L’esempio che fa è quello dell’investitore russo Yuri Milner che detiene ora il 10 per cento di Facebook. Questo modello di investimento spingerebbe ad un’evoluzione verticale (sul modello dei media tradizionali) per Internet, e a una compressione della Rete in una serie di grandi piattaforme. Così, mentre per il resto si vive un susseguirsi di piccoli protagonisti, l’unico oppositore (per dimensione) del gigante open Google è Facebook, che ha avuto successo creando una sorta di mondo parallelo al Web e autoreferenziale.
In entrambe le approfondite analisi, la somma (che tira le fila di eventi che risalgono alla sua origine) porta al medesimo risultato: morte del Web e ruolo decisivo svolto dalla volontà di monetizzare i prodotti digitali. Su questo punto concorda anche Anderson, autore tra l’altro di Free, libro sulla teoria dell’economia del costo zero attualmente protagonista del Web. Da un lato gli investimenti concentrati, dall’altro le app con i loro costi, la morte del Web porterebbe con sè nell’oltretomba anche il concetto di gratis e di apparente mancanza di controllo.
Aggregatori di informazioni, API integrate in app, investimenti concentrati e monopoli, in fondo, sono tutti modi per controllare (e, di conseguenza, monetizzare) le cose di Internet.
Claudio Tamburrino
http://punto-informatico.it/2970145/PI/News/wired-morte-del-web.aspx
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