La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 29.10.2010
Le aperture
Il Corriere della Sera: “La bufera delle feste di Arcore. Le accuse della giovane al premier diventano un fatto politico. La replica: spazzatura. Il Pd: se ne vada. Berlusconi sul caso della ragazza minorenne: aiuto chi ha bisogno”. Il titolo di apertura è dedicato al consiglio europeo: “La riforma della Ue sul rigore dei bilanci. Verso un fondo permanente anticrisi. Merkel insiste per cambiare il Trattato”. A centro pagina: “Statali, i tagli di Brunetta: in tre anni 300 mila in meno. Draghi e Tremonti d’accordo: disoccupazione all’11 per cento”.
La Repubblica: “Ruby? Io aiuto chi ha bisogno”. “Il premier a tarda notte: ma non mi risultano telefonate da Palazzo Chigi per far rilasciare la ragazza. La Questura però conferma la chiamata. Berlusconi: sono un uomo di cuore. Il Pd: ora basta, se ne deve andare”. A centro pagina i tagli di Brunetta: “Protestano sindacati e opposizioni”. E poi: “Draghi: l’Italia indietro di nove anni, disoccupazione all’11 per cento”.
La Stampa: “Nuova bufera sul premier”. “Palazzo Chigi chiamò la Questura di Milano per liberare una minorenne fermata per furto. La replica: aiuto chi ha bisogno. Caso montato sul nulla. Indagati Emilio Fede e Lele Mora”. A centro pagina la foto della protesta al red carpet del Festival del cinema.
Libero: “Ci risiamo con la gnocca. Bunga bunga ad Arcore. Per la Procura non c’è reato ma tre cene in villa a cui partecipava anche un minorenne portata da Lele Mora diventano un’altra occasione per sparare sul premier”. “Berlusconi: ‘mi vogliono sputtanare in tutto il mondo. Se ne inveteranno una al giorno'”. A centro pagina: “I pm non mollano le carte per ricorrere contro Fini” a proposito dello scandalo a Montecarlo.
Il Giornale: “Otto procure a caccia di Berlusconi. Neanche fosse Al Capone. Da Nord a Sud i magistrati braccano il premier con ogni tipo di motivazione: mafia, evasione fiscale, tangenti, appalti, prostituzione minorile. Una persecuzione per farlo cadere e riportare la politica al 1993. E poi dicono che lo scudo non serve”. A centro pagina la foto della ragazza nota come Ruby: “Bunga bunga basta”. “Nuovo gossip sessuale contro il Cavaliere. Lui: ‘Spazzatura’”.
Il Riformista: “Vietato ai minori. Un altro festino del premier irrompe nella politica italiana. Lo scandalo bunga bunga. Il premier e la telefonata in questura a favore della minorenne. ‘Sono un uomo di buon cuore’. La ragazza dice di essere stata manipolata. Fede conferma di averla vista a casa del Cav”.
L’Unità: “Un Paese in ostaggio”, è il titolo che campeggia in prima, sulla foto di un lussuoso letto a due piazze rosso. “Statista bunga bunga” è il titolo dell’editoriale della direttrice Concita de Gregorio. A centro pagina: “Allarme disoccupati. Sorpresa: d’accordo Draghi e Tremonti”. E poi un richiamo al caso Antigua, con riferimento ad una interrogazione presentata dal Pd sul condono del debito del Paese.
Il Foglio: “Obama ha un new deal sull’uranio iranaiano. ( Ma è peggio di quello prima), “Teheran aumenta la produzione di combustibile nucleare. Washington chiede di trasferirne di più all’estero”. Il quotidiano poi riferisce delle rivelazioni di Haaretz, secondo cui tredici container carichi di armi intercettati in Nigeria e provenienti dall’Iran sarebbero stati diretti a Gaza. Sul capitolo “bunga bunga”: “Anche questa volta Repubblica ha dato il buco a Novella 2000. Nuovo autorevole scoop del Secolo”.
Di spalla il quotidiano si occupa delle inchieste sulla mafia in Sicilia e delle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza (“Sbirri e malacarne. Così il pentitismo mediatico ha ribaltato verità e ruoli”).
Il Sole 24 Ore: “Due aliquote per le banche. Tremonti propone una doppia imposta: una per le attività commerciali e un’altra (più alta) per la finanza. Draghi: disoccupati all’11 per cento. Brunetta: taglio di 300 mila statali”. Non manca un richiamo per il caso Ruby: “Anche video e foto nel caso Ruby. Berlusconi: aiuto chi ha bisogno”.
Ruby
La Stampa intervista Ruby via chat. Dice di esser stata a casa del premier una sola volta, “ma lui pensava che io fossi una ventiquattrenne. Appena scoperto che ero una minorenne non ha voluto più rivedermi”. Lele Mora lo conosci? “A Lele Mora voglio un bene dell’anima; quando ha saputo la mia vera età ha cercato di aiutarmi e di adottarmi”. Non ti è sembrato strano che ti volesse adottare dopo che eri stata interrogata? “Ma no, lui lo ha fatto prima”. Dice di aver visto una volta sola, a casa del premier, Emilio Fede, dice di non aver partecipato al bunga bunga di Arcore.
Anche Il Fatto è riuscito ad intervistarla: dice di esser stata dal premier ad Arcore una volta sola, di aver cenato, ascoltato musica e poi di esser andata via. “Silvio mi ha dato soltanto settemila euro e una collana di Damiani”, ma “non mi ha chiesto niente in cambio”, “lo ha fatto soltanto per aiutarmi”. E’ stata rilasciata per interessamento di Palazzo Chigi? “Non lo so. Ad aspettarmi c’è quella ragazza…Nicole, che io non conoscevo (Nicole Minetti, ex-igientista dentale del premier, ora consigliere regionale Pdl, ndr). Subito dopo abbiamo chiamato Silvio. Era molto arrabbiato, mi ha sgridato, mi ha detto che gli avevo mentito dicendogli che ero maggiorenne. Mi ha anche sgridato perché facevo una vita che non gli piaceva”.
Il Corriere della Sera ricostruisce “la telefonata del Cavaliere in Questura”. Il 27 maggio scorso il caposcorta del premier avrebbe contattato il gabinetto del Questore di Milano per chiedere il rilascio di Ruby, accusata di furto. La Questura era stata chiamata da un centro estetico in cui due donne l’avevano riconosciuta come la giovane ospitata nel loro appartamento e sparita con 3000 euro e alcuni rolex. Insistendo con la Questura per ottenere il rilacio di Ruby, l’uomo della scorta avrebbe passato, di fronte alle esitazioni della polizia, la cornetta direttamente al premier.
Lo stesso quotidiano intervista Emilio Fede, che viene intervistato anche da La Stampa. Ammette di aver forse incontrato Ruby un paio di volte, dice che non gli risulta di essere indagato (“Non ho ricevuto niente dai magistrati”, dice a La Stampa). Si sa che al presidente piace scherzare, cantare nelle serate di relax, dice Fede. E dopo il relax? “Io non so niente, non ho mai saputo niente, io me ne andavo presto perché avevo sonno”.
La Repubblica, riferendo le parole pronunciate ieri da Berlusconi, le cita così: “Non mi risulta una telefonata per far rilasciare Ruby. Ho già detto che non ho fatto interventi di un certo tipo. Ho solo fatto una telefonata per trovare qualcuno che potesse rendersi disponibile all’affidamento per una persona che ci aveva fatto a tutti molta pena, e ci aveva raccontato una storia drammatica a cui noi avevamo dato credito. Non mi risulta che qualcuno abbia mai fatto telefonate da Palazzo Chigi.
Il Fatto intervista Patrizia D’Addario: “Ho paura per lei -dice- Le spezzeranno le ossa”, “volgiono il segreto attorno ai riti del capo”.
Il Riformista dedica un articolo al pm Pietro Forno: la toga del caso Ruby, ricorda, fece condannare a 13 anni un giovane educatore, accusandolo di aver abusato di alcuni ragazzi. In Cassazione la condanna fu annullata. A questo pm, protagonista di altre storie simili, viene rimproverato di servizi sempre degli stessi consulenti, e di farlo perché in sintonia con le sue attività di accusatore. Oggi torna alla ribalta per la vicenda Ruby. E l’interessata accusa: dietro questo polverone c’è una sola persona. Il giudice Forno mi ha usata per attaccare il premier. E’ un lato della vicenda, questo del pm, evidenziato anche in un articolo de Il Giornale.
Politica
Su Il Foglio una intera pagina dedicata alla cronaca di una lunga giornata a spasso con il sindaco di Firenze Matteo Renzi, sotto il capitolo “Guida alla rottamazione”: “Le idee per rinnovare il centrosinistra, le ambizioni dei rottamatori, i messaggi a Bersani, le critiche a Fini e il futuro del sindaco di Firenze”. Per Renzi Veltroni e D’Alema dovrebbero limitarsi a guidare le loro fondazioni.
Su Il Sole 24 Ore si parla delle vicende del quotidiano Il Secolo d’Italia, dove sarebbe in corso una “guerra tra gli ex An”. Il quotidiano rischia di chiudere e oggi esce con una prima pagina oscurata sotto il titolo “ci vogliono cancellare”. E’ guidato dalla finiana Flavia Perina, che considera vicenda dei finanziamenti come una vendetta degli ex colonnelli. Se ne occupa anche Il Giornale. Il senatore Caruso, che fa parte del comitato dei garanti, dice:”abbiamo fatto presente, quanto alla linea editoriale, che l’aderenza a Fli non va bene. Ben venga l’indipendenza, non la trasformazione in house organ finiano”. E aggiunge: “An non ha più introiti, non è pensabile che continui a dare soldi al Secolo, che pur ricevendo contributi dallo Stato per 2,7 milioni di euro, verso An ha maturato 6 milioni di euro di debiti, fermo restando che An ha già rinunciato alla restituzione di 12 milioni. Un quotidiano non può vivere al di sopra delle proprie possibilità”.
Economia
La disoccupazione è all’11 per cento: lo ha ricordato ieri il governatore di Bankitalia Mario Draghi. Un dato superiore al tasso di disoccupazione ufficiale, pari all’8,5 per cento, che non comprende, diversamente dall’altro, i lavoratori in cassa integrazione e gli “scoraggiati”, cioé coloro che non cercano più attivamente un impiego perché disperano di trovarlo. Il Corriere sottolinea che secondo Draghi ci sarebbe da andare oltre, poiché si potrebbero pure conteggiare i lavoratori “forzosamente occupati a tempo parziale, e non a tempo pieno come vorrebbero”. Il quotidiano sottolinea l’inaspettata sintonia con il governo, a dieci giorni soltanto dalla contestazione dei dati di Bankitalia da parte del ministro Sacconi. Anzi, il ministro Tremonti, presente con il governatore alla giornata mondiale del risparmio, ha spiazzato tutti, dicendo che i dati esposti da Draghi “sono assolutamente condivisibili”, “sono stati rimossi alcuni equivoci”.
Sul Sole 24 Ore: “Draghi: la priorità è il lavoro. Tasso di sottoutilizzo all11 per cento”. I numeri: il numero di occupati in Italia si è ridotto di 560 mila persone, in gran parte appartenenti a quell’area che include i contratti di lavoro a tempo determinato e parziale”. Quanto alle fondazioni, “devono seguitare a saper guardare lontano, comprendere che non possono sacrificare le prospettive delle loro banche e delle economia al desiderio di ritorni monetari immediati”. Uno stralcio dell’intervento di Draghi viene pubblicato dal quotidiano di Confindustria.
Su La Repubblica una analisi di Tito Boeri: “Perché la Fiat realizza circa la metà dei suoi profitti in Brasile e ha conti in rosso in Italia?”. Boeri si sofferma sulle risposte generalmente date (è un problema di costo del lavoro, tasse più basse, più facile licenziare, produttività del lavoro più alta, minore concorrenza in Brasile che in Italia, problema di domanda). Sottolinea che la bassa produttività è dovuta ad impianti in parte obsoleti e male utilizzati, oltre che ad incentivi sbagliati. E’ necessario definire subito regole che leghino saldamente le retribuzioni ai risultati dell’azienda.
Esteri
Arrivano le memorie di George W. Bush. Niente attacchi a Obama, scrive La Repubblica. La più drammatica delle anticipazioni riguarda l’ordine di abbattere “qualsiasi aereo sui cieli di America” dato dopo l’attacco alle torri gemelle, l’11 settembre 2001. Bush pensava che l’aereo caduto in Pensylvania fosse stato abbattuto dai caccia della Usa Air Force, e solo diversi minuti dopo fu informato che c’era a bordo la ribellione dei passeggeri contro i dirottatori. Racconta gli anni da alcolista, e ricorda l’incontro con Papa Wojtyla, quando gli venne chiesto di difendere la vita in tutte le sue forme, anche embrionali, spingendolo a bloccare i finanziamenti pubblici alla ricerca sulle cellule staminali embrionali.
Sul Sole 24 Ore si dà conto del “primo discorso pubblico in un secolo” del capo di Sir John Sawers, capo dei servizi segreti britannici. Il capo dell’MI6 parla di terrorismo in un discorso alla Society of Editors di Londra, e si è soffermato sui pericolo della proliferazione nucleare e sui rischi rappresentati dall’Iran, che “minaccia più dei terroristi”. Il capo dell’MI6 hga anche difeso le operazioni sotto copertura ed ha confermato che l’intelligence è necessaria per la sicurezza.
Su Il Giornale si scrive che “piace solo a un indiano su cento” il premier indiano Mohamed Singh. E’ il leader più impopolare al mondo e tutti vorrebbero al suo posto il figlio di Sonia Gandhi. Lui “gioca la carta disperata”: la visita di Obama a New Dehli, a novembre.
E poi
“Mohammed batte Jack”, titola una corrispondenza dalla Gran Bretagna, dove si racconta che se si sommano tutti i modi in cui si può trascrivere Maometto, il nome del Profeta sorpasserebbe Oliver, Jack e compagnia bella. Un sociologo della London school of economics dice però che i musulmani considerano il nome Mohammed un paragone di eccellenza, cercando di emulare la sua vita: anche chi non è un fervente praticante, ma si identifica culturalmente con l’Islam, fa una scelta ovvia chiamando Mohammed il proprio figlio maschio. Messi tutti insieme i Maometto nati nell’ultimo anno sono stati 7515. L’anno precedente erano al secondo posto, ora hanno superato gli Oliver, che sono fermi a 7364.
Sul Sole 24 Ore un articolo da New York sulle condizioni di Haiti a nove mesi dal terremoto. Le Ong denunciano il blocco degli aiuti e mazzette alla dogana. Metà dei campi profughi è senza acqua potabile e servizi igienici.
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UE: passa il fondo “salva Stati” 28.10.2010
I 27 leader della Ue hanno raggiunto un’intesa sulla creazione di un Fondo anticrisi permanente per sostenere Paesi della zona euro in difficoltà, dando un duplice mandato: alla Commissione Ue di fare una proposta sul meccanismo, e al presidente Ue Herman Van Rompuy di valutare la necessità o meno di modificare il trattato di Lisbona
Van Rompuy si è impegnato a preparare un rapporto che presenterà ai capi di Stato e di governo nel Consiglio Ue di dicembre.
Per il momento sembrerebbe invece accantonata la questione della sospensione del diritto di voto per i Paesi lassisti sul fronte dei conti pubblici: una sanzione politica su cui la cancelliera tedesca ha insistito con forza, ma che il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, ha giudicato “inaccettabile e non realistica”, perché “incompatibile con lo spirito stesso del trattato Ue”.
Una posizione, quella del presidente dell’esecutivo europeo, su cui molte capitali sono d’accordo, anche perché la sospensione del diritto di voto aprirebbe la strada ad una vera e propria revisione di Lisbona: ipotesi che i più vorrebbero evitare, temendo di rimettere totalmente in discussione un testo entrato in vigore meno di un anno fa e dopo mille difficoltà.
Ben diversa invece è l’idea di una ‘revisione minima’ del trattato solo per permettere la creazione di un meccanismo anticrisi permanente in grado di scongiurare nuovi “casi-Grecia”. Su questa opzione, ove risultasse necessaria, nessun Paese sembra voler opporre particolari resistenze. Anche perché una modifica “light” – come l’ha chiamata il premier lussemburghese e presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker – avrebbe bisogno solo dell’ok da parte dei 27 capi di Stato e di governo. Una sorta di “intervento chirurgico”, insomma, che scongiurerebbe il rischio di riaprire un vaso di Pandora, con conseguenze inimmaginabili.
Determinante per il compromesso sarebbe stato anche l’appoggio del premier britannico, David Cameron, all’asse Sarkozy-Merkel, in cambio del sostegno di Parigi e Berlino alla posizione di Londra sul bilancio europeo. Con il premier inglese che ha definito nuovamente “inaccettabile” – in tempo di crisi – un aumento dei contributi nazionali al budget Ue del 6% nel 2011: oltre il 2,91% non si va, ha scritto Cameron in una lettera firmata anche dalla cancelliera tedesca e dal presidente francese.
I 27 leader della Ue hanno quindi dato il via libera alla riforma del Patto Ue di stabilità e di crescita sulla base del rapporto della task force guidata da Van Rompuy. Ora – partendo dalla proposta avanzata da Bruxelles a fine settembre – si potrà aprire il negoziato per definire i dettagli di questa riforma: da come operare la stretta sui debiti pubblici (quale criterio numerico adottare per il taglio del debito, l’impatto del debito privato e delle riforme pensionistiche, ecc..) a come disegnare il sistema di sanzioni finanziarie.
POLITICHE ECONOMICHE NEL MIRINO
Questa è una delle maggiori innovazioni. Mentre le sanzioni del Patto di stabilità sono state riservate sino ad oggi solo ai Paesi con disavanzi troppo alti, ora potranno essere applicate anche a chi adotterà politiche economiche considerate pericolose per il futuro.
Se un paese sviluppa una bolla immobiliare (come in Spagna e in Irlanda di recente) o vede cadere la sua competitività, sarà prima richiamato all’ordine e poi potrà essere soggetto a sanzioni, se appartiene alla zona euro.
Inoltre, i progetti dei bilanci nazionali devono essere riesaminati dall’UE ogni primavera.
SANZIONI PIU’ RAPIDE ANCHE SUL DEBITO
Le sanzioni potranno essere decise in via preventiva, anche prima che une paese abbia superato il limite europeo del 3% di deficit rispetto al PIL.
Dopo un primo “richiamo” della Commissione si avranno sei mesi di tempo per porre rimedio alla situazione prima di essere puniti.
Tra le sanzioni in questione potrebbero esserci multe e il blocco dei finanziamenti comunitari.
Sanzioni anche per i paesi il cui debito supera il 60% e che non lo riducono abbastanza velocemente. Questo ultimo punto è una novità. In generale, sarà più difficile per i governi dell’Unione europea di opporsi a sanzioni nei confronti di un paese. La Francia ha ottenuto che una maggioranza qualificata di capi di Governo potrà però bloccare le sanzioni.
FONDO PERMANENTE
L’UE ritiene “necessario” mantenere stabilmente in vita il Fondo di emergenza per i paesi della zona euro nato dopo la crisi greca e ora in vigore solo per tre anni. Obiettivo: rassicurare i mercati.
(con fonti ansa /afp)
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16114
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Giorgio Galli: “All’Italia serve un trauma che risvegli le sue energie migliori: la fine del berlusconismo” 28.10.2010
di Ignazio Dessì
Le tensioni all’interno della maggioranza di governo e l’atteggiamento dell’opposizione ripropongono molte considerazioni sul momento politico che l’Italia sta vivendo. L’eventuale intesa tra Fli e Pdl sul cosiddetto Lodo Alfano, e quindi sullo scudo per il premier, garantirà la durata del governo, oppure si andrà comunque ad elezioni anticipate? Fini riuscirà a creare una destra di ispirazione europea all’insegna della legalità? E la sinistra riuscirà a compattarsi in vista dell’appuntamento elettorale? E, inoltre, che sviluppi potrebbe avere lo scenario politico italiano? Ne abbiamo parlato con Giorgio Galli, illustre politologo, già docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi di Milano, che vede in un trauma capace di smuovere le energie migliori del Paese l’unica possibilità di superare lo stallo che stiamo vivendo.
Professor Galli, partiamo dal cosiddetto Lodo Alfano. Cosa ne pensa?
“Prima di tutto non è giusto parlare di Lodo come fanno tutti i giornali ma di legge costituzionale proposta dai berlusconiani e quindi ‘non al di sopra delle parti’. Si parla di Lodo come se fossimo davanti a una entità al di sopra di tutto, quando invece si tratta di una normativa proposta da uno schieramento”.
Parliamo di una situazione che in Europa è rapportabile ad altre o di un caso particolare?
“Ci riferiamo a una situazione particolare, anche se spesso si cita come esempio la Francia: lì però si parla del Capo dello Stato”.
Ammesso che si raggiunga un accordo sulla non reiterabilità e passi il Lodo, durerà l’intesa tra berlusconiani e Fini?
“Anche se non si stabilirà la reiterabilità (senza la quale Berlusconi godrebbe di uno scudo molto limitato) e i finiani voteranno a favore, vedo difficile la convivenza. Difficile superare certe differenze di fondo. Credo, del resto, che la strategia di Fini sia quella di guadagnare tempo. Lui preferisce elezioni non immediate, non abbinate alle amministrative di primavera che ci saranno a Milano, Bologna, Torino e Napoli (la cui scadenza naturale è fissata a maggio ma potrebbero essere anticipate a marzo per consentirne lo svolgimento insieme alle eventuali elezioni politiche). Una soluzione favorevole a Berlusconi che, tradizionalmente, ottiene risultati migliori alle politiche rispetto alle amministrative”.
Passato questo periodo anche Fini sceglierà di andare ad elezioni anticipate?
“Credo di sì, anche se c’è sempre il problema decisivo della modifica della legge elettorale. Con questa normativa con premio di maggioranza le possibilità di Berlusconi (alleato con la Lega) di vincerle sarebbero davvero elevate. Fini e le opposizioni hanno interesse ad andare ad elezioni con un nuovo sistema elettorale”.
I finiani possono recuperare elettori dal Pdl e dalla Lega continuando a caratterizzarsi su moralizzazione e legalità?
“Sì, è possibile che recuperino voti in questa direzione, ma – ripeto – è necessario che la competizione avvenga con nuove regole. Perché con questa situazione il Pdl e Bossi raggiungerebbero una percentuale tale da far scattare a loro favore il premio di maggioranza”.
Secondo lei Fini rappresenta il futuro della destra o è una meteora destinata a spegnersi?
“Che sia destinato a spegnersi non lo penso. Quella che lui propone è una destra liberale di tipo europeo, quella rappresentata in Italia, un tempo, dal partito liberale storico che nella prima Repubblica ha avuto percentuali varianti tra il 4 e il 7 per cento. Una percentuale tale da non consentire di esercitare una funzione determinante nello scenario politico. Fini ha annunciato che non vuole fare una piccola An ma una grande destra liberale, ma quel tipo di destra ha sempre avuto da noi uno scarso peso. Quindi non sarà una meteora, perché anche con il 7 per cento avrà un peso importante, ma rischia di non riuscire a realizzare il tipo di progetto che ha in mente”
E se ci riuscisse?
” Se il progetto di costruire una destra di tal tipo, con risultati elettorali determinanti, dovesse avverarsi, significherebbe che l’Italia ha fatto un salto culturale decisivo”.
Da una parte abbiamo una maggioranza assorbita dalla ricerca di soluzioni ai problemi del premier, dall’altra un’opposizione divisa. In mezzo c’è il Paese con i problemi della gente e delle imprese. Secondo lei come si esce da questa empasse: basterà una nuova legge elettorale per creare una nuova classe dirigente?
“Sicuramente non basterà una nuova legge elettorale. La società italiana, imprese e lavoratori compresi, credo abbia dato il meglio di sé dopo qualche trauma. Non per nulla l’Italia moderna è nata nel 1945 dopo la guerra mondiale, il fascismo e la sconfitta. Questo trauma ha messo in moto le nostre energie migliori e, verso gli anni ’60, sono nate le nuove classi dirigenti. Sotto il profilo politico erano gli antifascisti, ma in realtà furono mobilitate energie che riguardavano tutta la società italiana. Uno dei periodi abbastanza rari nella nostra storia di dinamismo anche degli imprenditori. L’imprenditoria italiana non è mai stata, infatti, ai massimi livelli di dinamismo ed efficienza, ma dopo la sconfitta lo fu per una ventina d’anni. Se la società italiana attraversasse un nuovo trauma, probabilmente, svilupperebbe energie per una nuova classe dirigente politica e un nuovo dinamismo degli intellettuali, degli imprenditori, della società nel suo complesso”.
Ma quale potrebbe essere questo trauma?
“Il trauma, dal mio punto di vista, potrebbe consistere nel tramonto del berlusconismo. Bisogna vedere se avverrà”.
“Il Caimano”, il film di Moretti, proponeva, a questo proposito, un inquietante epilogo, con scontri tra fazioni opposte e auto in fiamme. Lei ha paura che il berlusconismo, messo alle strette, possa sfociare in qualcosa di violento e pericoloso per la democrazia? La cosa potrebbe, in tal caso, diventare davvero traumatica, non crede?
“Io mi auguro un evento di media portata, che non sia così traumatico come quello della guerra e del fascismo con la sua grande esplosione di violenza. Mi auguro un trauma senza o con un minimo di violenza che abbia la caratteristica di chiudere un periodo e mettere in moto energie sane”.
Veniamo alla sinistra: lei concepisce oggi la possibilità di una sinistra unita, visto che lo schieramento potrebbe andare dagli ex democristiani a Vendola, Ferrero e Diliberto?
“Sinceramente a me sembra difficile che questi possano stare tutti insieme in un nuovo soggetto politico. Già non ha funzionato il pd che ha cercato di mettere insieme il vecchio Pci e la sinistra democristiana, e che in certi momenti parlava di un Pantheon in cui far coesistere Gramsci e De Gasperi, quindi figurarsi se lo considero possibile. Potrebbe invece essere possibile un raggruppamento della sinistra tradizionale da una parte e, dall’altra, un raggruppamento comprendente Fini, la sua nuova destra europea e l’area della Udc con Rutelli e Tabacci. In pratica un terzo polo di ispirazione liberal-europea”.
Sarebbe però il presupposto per la fine del bipolarismo.
“No, non credo. Perché in questo schieramento potrebbe confluire parte dell’elettorato che adesso vota per il Popolo delle Libertà. Quello moderato e conservatore, su cui punta anche la destra di tipo europeo che non è eversiva e non stravolge la divisione dei poteri. Dall’altra parte servirebbe un partito capace di riorganizzare la sinistra tradizionale, che, in tutta Europa, è di derivazione social democratica. Il modello rimarrebbe bipolare ma risulterebbe più fruttuoso di altri tentativi fatti in questi anni”.
Per la sinistra c’è anche un problema di leader?
“C’è certamente un problema di leader e di nuova classe dirigente. L’attuale leadership del Partito democratico, salvo apporti di alcune personalità della vecchia sinistra Dc, è sostanzialmente basata sul gruppo del vecchio Pci che si è formato nel comunismo ed ha un complesso di colpa (quasi si vergogna) per la sua storia o l’ha rimossa. Quindi c’è il problema non tanto di trovare un leader-persona, quanto di creare un gruppo dirigente nuovo e con altra apertura culturale”.
http://notizie.tiscali.it/articoli/interviste/10/10/galli-giorgio-intervista.html
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Cina, prepara le armi di distruzione del futuro… 29.10.2010
La Cina intende creare una serie di derivati del credito simili ai credit default swaps (Cds) e ha già approvato una normativa che consentirà un programma sperimentale per il lancio di questi prodotti.
I prodotti sono stati battezzati “strumenti per diminuire il rischio di credito” (Crm l’acronimo inglese). Per trattarli una società dovrà avere un capitale registrato di almeno 800 milioni di yuan (meno di 90 milioni di euro ai cambi attuali), ha stabilito la National Association of Financial Market Institutional Investors (Nafmii).
Le trading house che vorranno creare prodotti Crm dovranno avere invece un capitale di almeno 4 miliardi di yuan, si legge sul sito web della Nafmii.
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
www.lamiaeconomia.com
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La Cina non utilizzerà le terre rare come strumento di contrattazione 29.10.2010
Il 28 ottobre, Zhu Hongren, ingegnere capo e portavoce del ministero dell’Industria e dell’Informatizzazione cinese, ha affermato che la Cina non utilizzerà le terre rare come strumento di contrattazione. La Cina desidera realizzare con gli altri Paesi la cooperazione di mutuo vantaggio nello sfruttamento delle risorse delle terre rare nel processo di collaborazione, sviluppo e win-win, tutelando contemporaneamente tali risorse non rinnovabili.
Rispondendo alle domande rivoltegli durante la conferenza stampa indetta dall’ufficio stampa del Consiglio di Stato in merito alla situazione del funzionamento dell’industria e del settore delle telecomunicazioni nei primi tre trimestri del 2010, Zhu Hongren ha affermato che in passato nel processo di produzione delle terre rare sono stati riscontrati alcuni problemi, quali lo sviluppo estensivo e i gravi sprechi di risorse. A tal proposito, la Cina ha implementato una gestione ordinata dell’estrazione, produzione e commercio delle terre rare, in conformità con le norme della WTO. Nella produzione, sfruttamento e esportazione delle terre rare la Cina deve prendere in considerazione sia la promozione dello sviluppo economico, sia i vari elementi generali, come la tutela delle risorse e dell’ambiente.
http://italian.cri.cn/761/2010/10/29/63s141373.htm
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UniCredit, ancora sotto scacco dei politici nostrani
Da “Zag(c)” simyzag@yahoo.it per ListaSinistra@yahoogroups.com il 29.10.2010
Ancora la più grande banca italiana ed una delle più “globalizzate” è nell’occhio del ciclone dopo la fuoriuscita di Profumo. Ora si parla di una possibile dimissione del presidente Dieter Rampl. Il nuovo amministratore delegato della banca Federico Ghizzoni è “assolutamente” d’accordo: le dimissioni di Rampl sono da smentire. E poi lo stesso Rampl ha ricordato di essere stato eletto dall’assemblea con un mandato che scade ad aprile del 2012. MA le voci sono sempre più insistenti.
Problema inventato o già superato? La lettura di un Rampl in difficoltà dopo la definizione di una governance che ha costretto all’uscita il capo del corporate and investment banking Sergio Ermotti è stato il leitmotiv di gran parte dei commentatori. In Italia e fuori il quotidiano tedesco, di Monaco di Baviera, Sueddeutsche Zeitung ha dedicato un profilo a Rampl. Dentro si scrive: “Adesso Rampl, per quello che si apprende, sta cercando una strada per salvare la faccia. Ancora prima del prossimo consiglio di amministrazione del 9 novembre, – secondo fonti del cda – vorrebbe ottenere dal comitato strategico una chiara conferma dell’importanza dell’investment e corporate banking con
un forte successore per Ermotti”.
Le ipotesi di un’uscita di Rampl sono state imputate alla presunta insoddisfazione per la nuova governance che ha determinato il ridimensionamento dell’investment banking e le dimissioni del deputy Ceo e capo del corporate di Unicredit, Sergio Ermotti, che Rampl aveva fortemente appoggiato.
Sotto Profumo la banca ha cercato di affrancarsi dalla sua base italiana, prima espandendosi nell’est Europa e poi facendo la fusione con la tedesca Hvb”, Certamente la nomina di Ghizzoni non aveva allarmato per una marcia indietro nella strategia internazionale ma “la partenza di Ermotti non gioca a favore del futuro della divisione investment banking, che ha portato il 50% in più di utile pre tasse nel primo semestre di tutte le altre attività della banca insieme”.
Il governatore della banca centrale libica Farhat Omar Bengdara – del Comitato strategico dell’Unicredit- nel giorno della nomina di Roberto Nicastro alla direzione generale e dell’annunciata uscita di Ermotti si è affrettato a dire che l’investimento (il suo 5%, ma c’è anche il 2,6 della Lybian Investment Authority e anche il quasi 5% del fondo di Abu Dhabi) è stabile e “finché la strategia continua a essere quella di banca universale e internazionale noi stiamo con la banca”.
Insomma l’Unicredit ancora sotto attacco da parte dei politici nostrani( la Lega in primis con le sue Fondazioni) che vogliono il core business della banca insediato fortemente sul territorio , e sopratutto nel Nord Est, Veneto compreso.
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Zag(c) <http://vecchia-talpa.blogspot.com/>
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Auto stop, un modello in declino. E se pensassimo alla pianificazione?
di Tonino Bucci
su Liberazione del 28/10/2010
Intervista a Guido Viale economista, esperto di politiche ambientali
La Fiat è incapace di competere con gli altri marchi automobilistici?
Marchionne, da imprenditore (ottocentesco), se la prende con la scarsa produttività degli operai italiani. Troppi diritti, troppe pause fisiologiche durante l’orario di lavoro in fabbrica, dice. Non una parola sul fatto che la sua Fiat non tira fuori un’idea innovativa da anni. Detto questo, fino a che punto però l’innovazione di qualità può rilanciare un settore maturo come quello dell’auto? Il pianeta e le nostre città non sono ormai sature di veicoli? Si può far finta di nulla e continuare a sfornare milioni di macchine? Ne parliamo con Guido Viale, economista e autore di saggi come Vita e morte dell’automobile (pubblicato nel 2007 da Bollati Boringhieri).
Continuare a contrapporre “produttivismo” ad “ambientalismo” non può generare equivoci? Perché mai un ambientalista non dovrebbe avere in testa un modello alternativo su come organizzare la produzione?
E’ una pigrizia del nostro lessico. Io non uso il termine ambientale, preferisco parlare di un problema di vivibilità e sostenibilità, sia nel presente, sia nell’avvenire e in nome delle prossime generazioni. Dentro questo problema non c’è solo la “questione ambientale”, ma anche l’occupazione e il reddito delle persone, la vivibilità e le condizioni entro cui si svolge la nostra vita. La rivolta di Tersigno contro la discarica ha dimostrato come questo problema sia ben presente nel comportamento delle persone. E’ sì una questione ambientale perché la discarica è un impianto altamente inquinante. Ma lì c’è una lotta per tutelare la propria vita e la propria sopravvivenza come comunità locale. Nei paesi del sud del mondo, dall’India all’Africa al Sudamerica, non c’è neppure il problema di distinguere la tutela dell’ambiente dalla salvaguardia delle condizioni di vita. Sono tutt’uno.
Uno dei limiti che si imputano all’ambientalismo è di essere un pensiero critico sprovvisto di gambe. Dove sono le forze sociali disposte a farsene carico? Come si fa a parlare di ambiente a chi non arriva a fine mese?
Per anni si è detto che l’ambientalismo era una roba da snob, per privilegiati che non hanno problemi di sopravvivenza. In realtà c’è una fascia estesa di popolazione, sia a livello nazionale che planetario, che non ha una conoscenza chiara del problema ambientale ma solo perché ha un minore accesso all’istruzione e all’informazione, a differenza delle classi privilegiate. Questo porta a ignorare le cause del proprio malessere. E’ da tempo che il problema della sopravvivenza e delle condizioni di vita di intere popolazioni ha direttamente a che fare con la salvaguardia dell’ambiente fisico e naturale, senza il quale non può svolgersi né una vita né un’attività produttiva.
Una diversa economia sostenibile si può realizzare in un capitalismo “ben regolato” oppure trascende i limiti dell’attuale sistema economico?
Rischia di essere solo una questione lessicale. Avrebbe senso se ci fosse, da un lato, un modello di capitalismo unico e immodificabile e dall’altro un’alternativa che si chiama socialismo o comunismo, anch’essa predefinita. In realtà, il mondo in cui ci troviamo a operare è un solo mondo. Il problema è affrontare negli attuali rapporti di forza le questioni che più incidono sulle condizioni di vita.
Il movimento è tutto, si diceva una volta. Quel che conta è la trasformazione, no?
Non vedo altra soluzione, altrimenti si finisce col discettare dei massimi sistemi. Bisogna individuare le leve di un cambiamento possibile che risiedono sempre, in ultima analisi, nelle fasce sociali più colpite dalla crisi, cioè nei soggetti reali e nel loro grado di consapevolezza e informazione.
Si è acceso un dibattito sul futuro dell’auto. Manca l’innovazione, si dice. Ma ha ancora senso sfornare milioni di veicoli? Le nostre città non sono già abbastanza intasate?
Non penso che si possa continuare così. Quello che per Marchionne è un problema di produttività, in realtà è un problema di saturazione, dei mercati ma soprattutto dei territori. Non ci sono più gli spazi fisici per immettere ulteriormente automobili. Non c’è più atmosfera sufficiente per le emissioni che le auto provocano, stimate al quattordici per cento delle intere emissioni dei gas serra nel pianeta, alle quali vanno aggiunte le emissioni causate dalla produzione dei veicoli. E poi c’è l’impatto delle infrastrutture, strade, gallerie, ponti, per non parlare dello sprawling urbano. Non è possibile continuare ad asfaltare territorio sottraendolo a usi produttivi e naturalistici. Infine, c’è un problema di utilizzo scriteriato di risorse. L’automobile è il mezzo meno efficiente, per trasportare una persona deve muovere una tonnellata di materiale. Il problema che Marchionne, da imprenditore, individua nella produttività dipende solo in minima parte dall’efficienza degli stabilimenti. Se altri marchi automobilistici risultano più competitivi dipende dal fatto che hanno impiegato le risorse dello Stato ben oltre quello che la Fiat ha fatto negli ultimi tempi. Questa è una competizione anche tra Stati oltre che tra gruppi industriali e operai di paesi diversi.
Perché non mettere al centro della discussione l’idea del controllo pubblico sulla produzione? Non è tempo di intervenire nelle decisioni su cosa, come e in nome di quali interessi produrre?
E’ una vecchia diatriba tra pianificazione e mercato. Per anni si è contrapposto il socialismo che pianificava al capitalismo che operava attraverso regole di mercato. Pianificare non significa decidere quante tonnellate di acciaio produrre, ma prendere decisioni collettive su cosa produrre. Impianti fotovoltaici o automobili? Burro o cannoni? Vivibilità urbana o autostrade? Queste sono scelte di pianificazione di interesse pubblico, sulle quali tutti possono intervenire senza dover essere economisti o specialisti.
Ma la proprietà statale, da sola, è sufficiente a garantire il carattere “pubblico” di queste decisioni?
Non è una questione di proprietà statale, ma di partecipazione dei cittadini alle scelte fondamentali che caratterizzano l’assetto del territorio e dell’organizzazione sociale in cui vivono. E del futuro. Questa è la base della democrazia e di una possibile pianificazione in termini di beni d’uso e non di semplici quantità economiche. Pianificare significherebbe poi anche decidere in ogni singola unità produttiva, in ogni singolo territorio, quali tecnologie utilizzare, quale organizzazione del lavoro, quali materiali. Certo, man mano che si scende nel dettaglio diventa importante la partecipazione di personale tecnico, ma viste le conseguenze sociali di queste scelte, è bene che tutti possano pronunciarsi.
http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=33541&lang=ita
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Le bugie di Marchionne, Fabio Fazio e Raffaella Carrà 28.10.2010
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Da oggi il sito di MicroMega ospita un nuovo blog, “Il regime dei padroni”, firmato da Giorgio Cremaschi, Presidente del Comitato Centrale della Fiom-Cgil e già collaboratore della nostra rivista.
Nell’intervista televisiva con Fabio Fazio l’amministratore delegato della Fiat ha fornito due dati. L’Italia, ha detto Marchionne, è al 118° posto su 139 paesi per efficienza del lavoro e al 48° per competitività. Fazio non ha chiesto nulla su questi dati come su tutto il resto, così un grande manager ha potuto vendere tranquillamente nella tv pubblica numeri che gli servivano per dimostrare che i lavoratori sono sfaticati e che le aziende fanno tutto il loro dovere.
Infatti, se l’Italia è al 118° posto, immagino dietro a paesi arretratissimi, per efficienza del lavoro e al 48° per competitività, vuol dire che i poveri imprenditori con la loro fatica recuperano i disastri di quei fannulloni che mantengono come dipendenti.
Questi dati hanno girato tranquillamente sulla grande stampa. Eppure sono di parte e usati in maniera falsa.
Questa classifica è quella del Word economic forum, cioè l’associazione di padroni, banchieri e manager che si riunisce ogni anno a Davos in Svizzera. E per contestare i dati e le scelte di questo meeting è nato il Social forum.
Sarebbe come se noi fossimo andati in televisione a dare i dati della Fiom senza dire che sono i dati della Fiom.
In ogni caso, però, non solo Marchionne non ha detto la fonte, e neppure gli è stato chiesto, ma ha usato in maniera assolutamente distorta e falsata quei dati.
Infatti, come si può vedere da una semplice ricerca su internet, il Word economic forum stabilisce una classifica della competitività dei paesi sulla base dei giudizi dei manager. Vengono calibrati i giudizi su diversi fattori e il 48° posto dell’Italia è frutto dell’equilibrio tra di essi. Ad esempio, il 101° posto dato al mercato finanziario e posizioni altrettanto basse per la giustizia fiscale, la corruzione, la competitività ambientale, la pubblica amministrazione.
Per quanto riguarda il lavoro l’Italia è, secondo i manager del Word economic forum, al 20° posto per costi ridondanti del lavoro. Cioè il costo del lavoro è molto più virtuoso dei costi della finanza, degli investimenti nell’innovazione tecnologica o del sistema politico. Anzi, li riequilibra enormemente, è il fattore più virtuoso di tutta la classifica.
Il 118° posto l’Italia lo riceve non per l’efficienza dei lavoratori, ma per l’efficienza del mercato del lavoro, cioè per la libertà delle imprese, e qui ci sarebbe molto da discutere, di assumere e anche licenziare. E’ un giudizio, naturalmente, ma se Marchionne avesse detto in televisione: “siamo tra gli ultimi per la possibilità di licenziare” non avrebbe fatto la stessa figura.
Molti di noi hanno chiesto che per riequilibrare la tracotanza unilaterale e anche le offese di Marchionne ai lavoratori Fiat, i tre licenziati e reintegrati a Melfi, da lui esplicitamente citati, vengano invitati con lo stesso tempo in trasmissione. Allo stato non c’è risposta, mentre sulla stampa sono annunciate interviste riparatorie con la nuova segretaria della Cgil, che non è assolutamente la stessa cosa.
Ci viene in mente che negli anni Ottanta Raffaella Carrà, quando conduceva Domenica In, invitò in trasmissione Luigi Lucchini, barone dell’acciaio che aveva in corso dure vertenze sindacali a Brescia. La Fiom di Brescia chiese che venissero ascoltati i lavoratori delle aziende di quell’imprenditore e la settimana dopo Raffaella Carrà chiamò un delegato sindacale a raccontare come si viveva davvero in quelle fabbriche.
Chissà perché tutte le volte che si fa un paragone con fatti del passato si scopre che siamo andati solo indietro.
Giorgio Cremaschi
http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-bugie-di-marchionne-fabio-fazio-e-raffaella-carra/
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Intervista con Lunghini. L’economia del disastro globale 28.10.2010
Autore: Ravaioli, Carla
Il pensiero di un economista, libero dal pensiero mainstream, ma rigoroso come è necessario essere quando ci si propone obiettivi all’altezza della crisi. Il manifesto, 28 ottobre 2010
Decrescita o diverso modello di sviluppo? Le contraddizioni del capitalismo, i ritardi della sinistra sulla questione ambientale, l’assuefazione a considerarci tutti consumatori. E le lungimiranti analisi dell’economista Georgescu-Rogen che già negli anni ’70 rifletteva su guerra, demografia, stili di vita
La crescita del prodotto è lo strumento perseguito per il superamento della crisi. Una politica criticata dall’ ambientalismo più qualificato. Tu che ne pensi?
Credo che come valore principale si dovrebbe pensare non tanto alla crescita, quanto a un diverso modello di sviluppo economico, rispettoso della natura. Tuttavia diffido della parola “decrescita”, mi pare sia un errore dei sostenitori di questa tesi, peraltro preparati, agguerriti, intelligenti … Non si tratta di decrescita, ma di adottare stili di vita diversi. Se ciò fosse tecnicamente concepibile, bisognerebbe però vedere se l’umanità è disposta ad aderire a un modello di questo genere: e questo è un problema politico.
Già, la gente ha assunto la crescita ormai come norma di vita.
Certo. Bisogna però ricordare che, per tutta la prima fase del capitalismo, la crescita è stata provvidenziale; e lo è ancora nei paesi poveri. Il superamento delle condizioni di miseria del primo capitalismo, durato in pratica tutto l’800, è stato un fatto straordinario. Quanto poi alla capacità di crescita attuale va detto che non tutto il mondo ne è capace. Alcuni paesi – Cina, India, Brasile – lo sono, e ovviamente aggravano le condizioni ambientali. Ma nel resto del mondo, il capitalismo non è nemmeno più capace di crescita.
Infatti. C’è questo doppio problema. La crescita – a parte la sua ricaduta negativa sull’ecosistema – sembra non funzionare più…
Una delle ragioni per le quali non funziona più è che negli ultimi trent’anni le modalità della crescita capitalistica hanno generato disoccupazione e disuguaglianze: i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri … E questo ha provocato la crisi attuale: se i redditi da lavoro sono bassi, è bassa la domanda effettiva, l’economia non cresce e i capitali si spostano sulla finanza, con i risultati che abbiamo visto.
Il capitalismo non tiene più ?
Credo proprio che lo si possa dire: lo si vede. E al fondo credo ci sia una questione su cui era stato molto chiaro Marx, quando scrive, nelle ultime pagine del III libro del Capitale, che il «processo lavorativo è soltanto un processo tra l’uomo e la natura». Se ci si riflette, qualsiasi processo produttivo, per quanto complesso, mediato da macchine, ecc., alla fine è un rapporto tra uomo e natura.
Da tempo mi domando come sia possibile che grandi economisti, imprenditori, politici (a Davos, Cernobbio, Capri…) discutano del futuro del mondo senza nemmeno nominare l’ambiente. Come se le merci che producono non fossero fatte di natura…
Un fatto che qualsiasi persona di buon senso dovrebbe considerare … Nelle forme primitive di economia il rapporto tra uomo e natura attraverso il lavoro era immediato ed evidente; ma anche il lavoro moderno, tecnicamente più complesso, alla fine risulta essere un rapporto, seppure mediato, tra uomo e natura. Allora si può dire che tendenzialmente si genera un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale; e che così come ci sono dei limiti al saggio di sfruttamento del lavoro, oltre il quale si danno crisi economiche, così esiste un limite al saggio di sfruttamento della natura, oltre il quale si danno crisi della stessa natura.
D’altronde questa sproporzione tra disponibilità di natura e uso della medesima è un fatto recente, che appartiene al capitalismo, ma è enormemente aumentata nel dopoguerra, con la società dei consumi.
Certamente. E su questo credo si debba riflettere partendo dal pensiero di Georgescu-Roegen, un grande economista poco noto; il quale ci ricorda che anche il processo produttivo è regolato dalle leggi della termodinamica, e che per la legge dell’entropia la materia è soggetta a una dissipazione irreversibile. Ciò significa che nel lungo periodo, ma non tanto lungo, la decrescita non sarà una scelta, ma un fatto di natura: la legge della termodinamica funziona per tutti. Da ciò Georgescu non trae però conclusioni catastrofiche. Sì domanda invece: si potrebbe fare qualcosa? La sua risposta è sì: e si articola in un programma bioeconomico minimale, formulato in otto punti. Il primo afferma che dovrebbe essere proibita non solo la guerra, ma anche la produzione di ogni strumento bellico. E non solo per ragioni morali, ma perché le forze produttive così liberate potrebbero essere impiegate al fine di consentire ai paesi sottosviluppati di raggiungere rapidamente gli standard di una vita buona. Perché un progetto di diverso sviluppo deve essere condiviso a livello universale, altrimenti non può funzionare. Inoltre – afferma Georgescu – la popolazione mondiale dovrebbe ridursi fino a renderne possibile la nutrizione mediante la sola agricoltura organica. Ma oggi la questione demografica non viene nemmeno posta …
Anzi, si lamenta la denatalità, e quindi la caduta di consumi come carrozzelle, pannolini , ecc.
Ormai dell’umanità, di tutti noi, si parla non più come di lavoratori, ma solo come di consumatori. E anche a questo proposito bisogna tenere presente che anche quando (se mai giorno verrà) le energie rinnovabili saranno davvero convenienti e sicure, i risparmi che ne avremo saranno molto minori di quanto ci si promette. Ogni spreco di energia deve dunque essere evitato: mentre normalmente noi viviamo troppo al caldo d’inverno, troppo al freddo d’estate, spingiamo l’automobile a troppa velocità, usiamo troppe lampadine … Il programma di Georgescu dice poi molto altro: dovremmo rinunciare ai troppi prodotti inutili; liberarci dalla moda di sostituire abiti, mobili, elettrodomestici, e quanto è ancora utile; i beni durevoli devono essere ancor più durevoli e perciò riparabili. L’ultimo punto è che dobbiamo liberarci dalla frenesia del fare, e capire che requisito importante per una buona vita è l’ozio. Ozio – aggiungo io – inteso come tempo libero liberato dall’ansia e impiegato in maniera intelligente. E su questo credo non si possa non convenire, per rinviare il momento del disordine e nel frattempo vivere una vita migliore. Però, domanda politica: siamo pronti, noi per primi, ma soprattutto i potenti della terra, a fare nostro il programma di Georgescu?
Questa era la domanda che ti volevo porre. Anche perché Georgescu-Roegen scriveva negli anni ’70, quando ancora il consumo non si era ancora imposto come fattore primo di definizione della vita …
Infatti. E la cosa interessante è che il programma di Georgescu richiama un famoso scritto di Keynes (del 1930): Le prospettive economiche per i nostri nipoti. Molti di questi punti lì c’erano già: guerra, problema demografico, stili di vita, tempo libero … Due autori di grande statura che avevano precocemente colto il punto, insistendo sulla desiderabilità di altri stili di vita… Anche se Georgescu ragiona in maniera più direttamente funzionale alla difesa della natura. Rimane comunque la domanda: siamo pronti?
Nessuno è pronto, temo. Ma, passando a un altro argomento: le sinistre sono sempre state assenti riguardo al tema ambiente, e talora su posizioni nettamente ostili. In ciò contraddicendo la loro stessa funzione, perché per lo più sono i poveri a pagare inquinamento, alluvioni, desertificazioni, tossicità diffusa … Eppoi perché, insomma, le sinistre sono nate contro il capitalismo: non toccherebbe a loro per prime occuparsi di un problema che proprio dal capitalismo deriva?
Questa tradizione non ambientalista delle sinistre è dipesa anche da uno scarso approfondimento di questi temi. Mentre curiosamente l’ hanno fatto un paio di capitalisti illuminati. Io di solito diffido della definizione di “capitalisti illuminati”, tuttavia due debbo ricordarli. Uno, il senatore Giovanni Agnelli, che nei primi anni trenta sosteneva la necessità di una riduzione dell’orario di lavoro, in dura polemica con un preoccupatissimo Luigi Einaudi. L’altro, Henry Ford con la sua politica di alti salari (che molto interessò Antonio Gramsci): i lavoratori devono essere ben pagati, affinché possano comperare le merci che essi stessi producono.
Un’iniziativa che in sintesi già prefigurava la società dei consumi…
Certamente. Ma la cosa interessante è che Kojève, il grande intellettuale studioso di Hegel, russo d’origine poi approdato in Francia, diceva che Ford era il Marx del XX secolo: per aver colto la contraddizione e il rischio di lavoratori che non potevano comperare ciò che essi stessi producevano. Un tema caro anche a Claudio Napoleoni, quando diceva che il lavoratore si trova davanti, come nemico, ciò che egli stesso ha prodotto. Ford non era mica un sant’uomo, era durissimo coi sindacati, ma da un punto di vista strettamente economico aveva colto il problema. D’altronde nemmeno Keynes voleva abbattere il capitalismo: voleva farlo funzionare meglio, anzi salvarlo, come dichiarava esplicitamente. Mentre molti parlavano di lui come di un bolscevico, a cominciare proprio da Einaudi. Ma per tornare alla tua domanda circa le sinistre di oggi, la mia risposta è in interrogativo: dove sono oggi le sinistre?
Queste tante piazze piene di gente, di giovani soprattutto, queste manifestazioni sempre più frequenti, molto spesso centrate proprio su problemi ecologici: acqua, nucleare, rifiuti, distruzione di parchi, cementificazione di litorali …. Non significa nulla tutto questo? Se ci pensi, questi tanti conflitti “minori”, diciamo, sono tutti riconducibili alla radice capitalista. Un’analisi in qualche misura approfondita scopre che la radice è sempre l’impianto capitalistico. Queste sinistre, possibile che non se ne accorgano? Che non vedano che questa potrebbe essere una base da cui partire?
Tutto questo è però molto frammentato, manca la sintesi, quindi manca quella che potrebbe essere la base concettuale e ideale di un progetto di sinistra … Certo, questo dovrebbe essere il compito della sinistra: portare a sintesi tutte le istanze nobili e progressiste … Ma questa è una sensibilità che mi pare manchi alle sinistre … L’unico che aveva provato a ragionare di queste cose, era stato Berlinguer con il suo discorso sull’austerità. Era un discorso molto alto, che toccava proprio i temi di cui abbiamo parlato; tanto alto che non era stato capito, e letto addirittura come un invito ai compagni a tirare la cinghia.
GIORGIO LUNGHINI
Laureato all’università Bocconi di Milano, Giorgio Lunghini ha diretto per un decennio l’Istituto di economia e in seguito il Dipartimento di economia politica e metodi quantitativi all’università di Pavia, dove inoltre ha fondato il Dottorato di economia politica. Lunghini è membro direttivo del periodico “Economia Politica” e della “Rivista di storia economica”. È stato membro del consiglio degli esperti economici della Presidenza del consiglio durante il governo D’Alema, e vicepresidente della Società italiana degli economisti per il triennio 2001/2004.
I suoi campi di interesse riguardano la teoria del valore, del capitale e della distribuzione, della critica dell’economia politica, come anche della teoria della crescita e dell’occupazione.
Tra le sue pubblicazioni citiamo “Valori e prezzi” (1993); “L’età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali” (1995); “Riproduzione, distribuzione e crisi (1996); “Sul capitalismo contemporaneo: i nuovi compiti dello stato”, scritto con M. Aglietta (2001)
Qui uno scritto di Giorgio Lunghini in eddyburg
http://eddyburg.it/article/view/16087/
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Everest, 3G sul tetto del mondo 29.10.2010
Inaugurata una stazione telefonica a 5200 metri d’altezza. Per navigare in mobilità ed effettuare videochiamate. Con opportunità di connessione stabili ed economiche
Roma – Un’importante pietra miliare nel settore delle comunicazioni mobile. Le alte velocità delle connessioni in 3G porteranno servizi di telecomunicazione più rapidi sulla vetta più imponente del Pianeta. Così ha parlato Lars Nyberg, CEO della società svedese TeliaSonera, ad annunciare la recente inaugurazione di uno speciale campo base sul monte Everest.
Una stazione situata nei pressi del villaggio di Gorakshep, che di fatto permetterà di navigare in mobilità ed effettuare videochiamate ad un’altitudine di 5200 metri. Le tecnologie di connessione 3G sono state implementate dalla società nepalese di telecomunicazione Ncell, controllata all’80 per cento dall’operatore svedese TeliaSonera.
“Oggi abbiamo effettuato con successo una videochiamata dal punto più alto del mondo – ha spiegato il CEO di Ncell Pasi Koistinen – La copertura del network riuscirà a raggiungere il picco del monte Everest”. Un’area, quella del “tetto del mondo”, finora coperta da una stazione telefonica predisposta da China Mobile, sfruttando tecnologie satellitari e una rete dedicata al solo traffico voce.
TeliaSonera ha ora in programma di investire circa 100 milioni di dollari, oltre 70 milioni di euro, per fare in modo che il 90 per cento della popolazione dell’Himalaya sia raggiunta dalle connessioni in mobilità. Secondo gli operatori coinvolti nel progetto, le tecnologie in 3G garantiranno a trekker ed esploratori una copertura più veloce, affidabile e soprattutto economica.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/3024114/PI/News/everest-3g-sul-tetto-del-mondo.aspx
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Se la plastica torna a essere petrolio 10.201
È grande quanto un televisore ed è in grado di convertire i rifiuti domestici di plastica in olio combustibile senza rilasciare sostanze dannose. È la Blest Machine progettata dall’inventore giapponese Akinori Ito, macchina da tavolo che scioglie un chilogrammo di plastica per produrre circa un litro di olio combustibile che può essere subito utilizzato per alimentare stufe e generatori, o può essere ulteriormente raffinato per diventare benzina.
Blest è in grado di sciogliere la plastica utilizzando una serpentina elettrica: inserendo la plastica opportunamente differenziata ma non trattata nell’apposito cestello, questa viene riscaldata fino a liberare gas, forzato poi da un condotto all’interno di un tubo pieno d’acqua nel quale, raffreddandosi, si trasforma in olio combustibile liquido senza generare fumi o residui carboniosi. Il processo dura circa un’ora, utilizza all’incirca 1 kW di energia elettrica e produce un litro di olio il cui costo approssimativo è di 20 centesimi di dollaro (circa 15 centesimi di euro).
“Se si brucia la plastica, si generano composti tossici e una grande quantità di CO2. Se la trasformiamo in olio combustibile, invece, si evita di emettere CO2 e, al tempo stesso, si aumenta la consapevolezza delle persone sul valore reale dei rifiuti in plastica”, afferma Ito, impegnato ora nel far conoscere la Blest Machine agli alunni delle scuole giapponesi, per sensibilizzare gli adulti di domani alla gestione razionale dei rifiuti.
Intanto, quale direttore del progetto presso l’azienda Blest, ha anche avviato la produzione della macchina, realizzata sia in dimensioni idonee all’uso domestico, sia in quella adatte ai fini industriali: già 60 sono in uso in altrettante aziende giapponesi, mentre le richieste cominciano ad arrivare anche dall’estero.
Il sito Blest (www.blest.co.jp) propone un catalogo (anche in lingua inglese) in cui sono evidenziati i prezzi dei diversi formati: quello domestico è già acquistabile per circa 7.000 euro.
“Fare una macchina che chiunque possa utilizzare è il mio sogno”, afferma Ito. “La casa è il campo di petrolio del futuro”.
Fonte: www.wired.co.uk
http://www.scienzaegoverno.org/n/090/090_01.htm
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Toyota: inaugurato il riciclaggio del nichel nelle batterie delle ibride 31.10.2010
Toyota ha annunciato di aver avviato un interessante programma di riciclaggio tramite la sua controllata Toyota Chemical Engineering. La casa giapponese afferma di essere pronta a lanciare “il primo programma industriale al mondo” per il riciclaggio del nichel contenuto nelle batterie al nichel idruro (le NiMh che montano la Prius e le ibride Lexus, per capirci) per riutilizzarlo in altre batterie NiMh di nuova fabbricazione.
Finora, le batterie recuperate dalla rete delle concessionarie e dalle strutture di rottamazione delle auto erano soggette a un trattamento di riduzione, ed il residuo veniva semplicemente riciclato come materiale grezzo destinato alla produzione di acciaio inox.
Oggi, grazie allo sviluppo di una tecnica ad alta precisione di classificazione ed estrazione del nichel, i materiali possono essere avviati direttamente al processo di raffinazione, per poi trovare una seconda vita proprio all’interno di un’altra batteria.
Per realizzare il processo, Toyota ha creato un call center dedicato ai clienti dei suoi modelli ibridi, allo scopo di contribuire al recupero delle batterie, e ha costruito avanzate strutture di riciclaggio per la produzione di massa di accumulatori “rigenerati”.
La mano all’ambiente però, Toyota intende darla lungo tutta la filiera di questo nuovo sistema di riciclaggio: oggi vengono impiegati mezzi pesanti per la movimentazione delle sostanze provenienti dal recupero, ma la casa sta già lavorando su un programma per la riduzione delle emissioni di CO2 durante il trasporto di questi materiali. Inizialmente, il progetto di riciclaggio interesserà solamente il Giappone, ma il costruttore sta valutando la possibilità di esportare questo modello anche all’estero.
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La Germania tassa le banche e loro.. 31.10.2010
I deputati tedeschi hanno approvato ieri sera l’introduzione di una tassa sulle banche, con l’obiettivo di far sì che, in caso di recrudescenza della crisi, non debba essere solamente lo Stato a sostenere le compagnie in difficoltà.
Secondo la nuova normativa, gli istituti di credito dovranno versare nelle casse del Tesoro una parte dei propri profitti (a partire dal prossimo anno): il prelievo sarà applicato infatti sul risultato di bilancio, e fissato in funzione delle dimensioni di ciascuna banca e del grado di rischio assunto in base ai business attivi. La tassa, in ogni caso, non potrà essere superiore al 15% dei ricavi netti. Secondo i calcoli del governo di Berlino, in tal modo si potrebbe arrivare ad un flusso fiscale di 1,5 miliardi di euro all’anno, denaro che sarà utilizzato anche per creare un fondo dal quale attingere in caso di nuove crisi. Così si eviterà di dover procedere a salvataggi come quelli di Hypo Real Estate, che ancora oggi beneficia di garanzie pubbliche per 100 miliardi di euro, e di Commerzbank, nella quale lo Stato è ancora il principale azionista. Il nuovo fondo d’emergenza dovrà avere un valore di 70 miliardi di euro.
La Germania diviene così uno dei primi Paesi ad imporre una tassazione sull’industria bancaria: “apripista” fu la Svezia, già nel 2008, mentre oggi i governi del Regno Unito e della Francia ne stanno valutando la fattibilità. La nuova legge tedesca impone inoltre una serie di limitazioni agli stipendi dei top manager bancari.
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
www.lamiaeconomia.com
http://www.lamiaeconomia.com/2010/10/la-germania-tassa-le-banche-e-loro.html
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Una stella di neutroni da record 28.10.2010
di Martina Saporiti
C’è un nuovo record nello Spazio. Appartiene a una stella di neutroni che pesa quasi il doppio del Sole. A misurare la massa di questo astro gigante è stato il gruppo di ricerca coordinato dall’astronomo Paul Demorest del National Radio Astronomy Observatory, negli Usa. La scoperta, come viene spiegato su Nature, rivela importanti informazioni sulla natura di questo particolare tipo di corpi celesti.
Le stelle di neutroni sono formate principalmente da neutroni (particelle prive di carica elettrica) “compattati” in volumi altamente densi. In effetti, nonostante queste stelle abbiano masse superiori a quella del Sole, sono molto più piccole perché la materia è compressa sotto la forza di pressioni elevatissime. Un centimetro cubo di stella di neutroni pesa un miliardo di tonnellate. Interrogandosi sulla natura di queste stelle, alcuni ricercatori avanzano l’ipotesi che nel loro nucleo vi sia anche una componente “esotica” costituita da particelle come quark o bosoni.
Dal momento che è impossibile riprodurre in laboratorio le pressioni che tengono insieme una stella di neutroni, per scoprire cosa si nasconde al suo interno i ricercatori hanno alzato gli occhi al cielo. Oggetto dell’attenzione era J1614-2230, un sistema binario costituito da una pulsar (stella di neutroni che emette luce a intermittenza sotto forma di onde radio) e una stella compagna. Gli astronomi hanno calcolato la massa di entrambi gli astri ricorrendo al cosiddetto Effetto Shapiro, che prevede un ritardo nella propagazione della radiazione luminosa quando questa passa all’interno di un campo gravitazionale. In questo caso, a rallentare le onde radio emesse dalla pulsar era il campo gravitazionale della sua stella compagna.
Misurando accuratamente il ritardo nella propagazione della luce, i ricercatori hanno dedotto che la massa della stella di neutroni è 1,97 volte quella del Sole. Sino a oggi, il record spettava a una stella che superava il peso del Sole di 1,67 volte. Tale risultato, spiegano i ricercatori, esclude la presenza di particelle esotiche che, per masse così pesanti, causerebbero il collasso della stella medesima in un buco nero.
Riferimenti: Nature doi:10.1038/news.2010.565 News
http://www.galileonet.it/articles/4cc938e872b7ab1482000004
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“La genomica deve essere pubblica” 02.11.2010
di Giulia Belardelli
Per far fronte alla enorme quantità di dati generati dalla genomica, la ricerca biologica ha bisogno di infrastrutture transnazionali aperte a tutti e finanziate pubblicamente. E’ la richiesta avanzata sulle pagine di Science da Paul Schonefield dell’Università di Cambridge e altre personalità della comunità scientifica.
Secondo i ricercatori, il mondo della biologia sta attraversando una fase di transizione in cui non è più possibile che i singoli gruppi di ricerca, oltre a generare informazioni, siano anche proprietari di quei dati e responsabili della loro distribuzione. “Per il mantenimento, l’archivio e la condivisione dell’enorme mole di dati sono necessari dei database pubblici internazionali”, hanno dichiarato gli autori. Solo in questo modo si potrà garantire all’intera comunità scientifica l’accessibilità a un pozzo di informazioni che altrimenti rischierebbe di andare perduto. La rivoluzione creata dalle tecnologie ad alto contenuto informativo – come il microarray e il sequenziamento dell’intero genoma – può essere completa solo se sarà possibile consentire l’accesso alle analisi.
L’articolo sottolinea l’importanza di superare, una volta per tutte, la distinzione tra strutture di ricerca e infrastrutture per il deposito dei dati, portando come esempio il valore aggiunto di archivi già esistenti come il Mouse Genome Informatics (Mgi) o l’Arabidopsis Information Resource. “Al fine di riuscire in questa impresa sono necessari accordi internazionali per realizzare infrastrutture finanziate pubblicamente”, hanno continuato Schonefield e colleghi. “Al tempo stesso è fondamentale sottoporre la condivisione di dati e informazioni a un processo di standardizzazione”.
Come modello di questa politica di condivisione del sapere scientifico, i ricercatori hanno preso il programma dell’Unione europea Esfri (European Strategy Forum on Research Infrastructures), il cui fine è appunto quello di identificare procedure standardizzate tra le diverse scienze, e istituire organizzazioni internazionali per la gestione dei finanziamenti pubblici. Secondo gli autori, queste iniziative dovrebbero essere allargate su scala mondiale: solo in questo modo la ricerca potrà procedere a pieno regime, senza il rischio di perdere per strada informazioni preziose.
Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1191506
http://www.galileonet.it/articles/4ccaac0a72b7ab59a5000018
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Chi sono (e cosa vogliono?) i lavoratori della conoscenza. Un’intervista a Sergio Bologna.
Sergio Bologna, storico del movimento operaio e teorico dell’operaismo italiano, è curatore di libri come “Il lavoro autonomo di seconda generazione” (Feltrinelli 1997, insieme a Andrea Fumagalli) ed è autore di “Ceti medi senza futuro?” (DeriveApprodi 2007). Ha creato riviste che hanno fatto un’epoca (Primo Maggio, raccolta riedita da DeriveApprodi nel 2010) e da 25 anni lavora come consulente nel campo della logistica (l’ultimo libro è “Le multinazionali del mare”, Egea 2010). “Abbiamo difeso il lavoro altrui, noi che operai non eravamo – ha scritto recentemente – Oggi dobbiamo difendere il lavoro cognitivo, il nostro lavoro, il lavoro intellettuale, più disprezzato e umiliato di quello manuale”. Con questa convinzione, Bologna segue da tempo le attività di Acta, l’associazione dei consulenti del terziario avanzato (www.actainrete.it), collaborando alla stesura del “manifesto del lavoro autonomo” (www.actainrete.it/2010/10/questo-e-il-nostro-manifesto). “Come molte altre associazioni in Inghilterra o negli Stati Uniti – spiega – Acta, per la quale curo i rapporti internazionali, denuncia le forti disparità di carattere previdenziale, fiscale, informativo e culturale del lavoro della conoscenza indipendente rispetto al lavoro dipendente e chiede nuove forme di welfare”.
Chi sono oggi i lavoratori della conoscenza?
C’è un po’ di confusione su questa espressione. Sono ormai molte le categorie ad usarla. I lavoratori della scuola e dell’università, ad esempio, gli avvocati, gli architetti, gli ingegneri, i notai, i pubblicitari, i traduttori. Lavoratore della conoscenza è la traduzione italiana di knowledge worker che è stata probabilmente coniata dal padre della teoria del management Peter Drucker negli anni Cinquanta. Oggi chi usa l’espressione “lavoratori della conoscenza” prova a definire in maniera più concreta la realtà in cui si trova.
Per quale ragione attribuisci a questi lavoratori un ruolo di primo piano nella nostra società?
Sono le cifre a dirlo. Mi riferisco ad una ricerca sui lavoratori della conoscenza presentata qualche tempo fa all’Assolombarda. Confrontato con il dato europeo e statunitense l’incidenza di quello che può essere chiamato “lavoro di conoscenza” raggiunge in Italia la pur ragguardevole percentuale del 41,49 per cento sulla forza lavoro occupata nel 2005, a fronte del 48,19 per cento in Germania e del 52,17 per cento in Gran Bretagna. Pur non condividendo del tutto i criteri di classificazione usati, il rapporto indica le caratteristiche che questi lavoratori offrono sul mercato: idee, beni immateriali, capacità relazionale, competenze.
L’istruzione ha un ruolo fondamentale per i lavoratori della conoscenza. Perché da vent’anni si continua a tartassarla con riforme che peraltro non sembrano funzionare?
Perché è stato deciso che la scuola e l’università non devono più dare una formazione completa ai giovani. Sbaglia chi pensa che bisogna dare più formazione ad un capitale umano non qualificato. E’ vero l’opposto: siamo in presenza di una generazione iperpreparata, mentre è il mercato ad essere dequalificato e non ha nulla da offrirle. Le riforme dell’università badano solo ai costi della formazione e su questi hanno modellato gli ordinamenti degli studi. Il processo di Bologna che le ha diffuse in tutta Europa è l’applicazione meccanica del modello americano. C’è una differenza, però. In Italia sono pochi i privati disposti a finanziare la ricerca. Da chi vai a chiedere soldi? Da Benetton? Della Valle? A quelli interessa sponsorizzare opere d’arte per valorizzare il proprio marchio. Quello che in Italia non si capisce è che negli Stati Uniti il 40 per cento del personale universitario è composto da fund raiser. Il problema di questo miserabile capitalismo italiano è che non abbiamo mecenati interessati alla ricerca e allo sviluppo. La ricerca dei privati si è tradotta nella caccia ai fondi pubblici superstiti e ai finanziamenti europei.
Dall’università, dai servizi, dalla scuola, dalle professioni giungono richieste di diritti essenziali e di sostegno al reddito. Una coincidenza?
Questo fenomeno si spiega con il fatto che il valore di mercato delle competenze dei lavoratori della conoscenza sta crollando. Il valore del loro lavoro si è svalutato molto di più di quello manuale. Prendete le tariffe orarie dell’uno e dell’altro e lo vedrete. In Italia chi ha una competenza dà fastidio. Quello che si cerca è una flessibilità esasperata che impone pagamenti inverosimili. Se finora questa situazione è stata sopportata senza eccessive proteste è perché la situazione di mercato era tollerabile. E’ facile prevedere che la crisi attuale, provocata da quella che Galbraith ha chiamato “economia della truffa”, porterà a situazioni di esasperazione e di totale sfiducia nelle istituzioni. La stessa svalutazione è presente nel lavoro dipendente. Dal 1992 in Italia c’è stata una stagnazione dei salari reali e in alcuni casi anche di quelli nominali.
Che rapporto ha il precariato con questa situazione?
La sua improvvisa visibilità è dovuta al fatto che la Confindustria, i partiti e il governo si sono resi conto che i contributi di milioni di precari sono fondamentali per finanziare la cassa integrazione da cui dipende la stabilità sociale in Italia. Senza questo ammortizzatore sociale arriveremmo al 12 per cento di disoccupati. Il modo in cui è amministrato il Fondo della Gestione Separata INPS alla quale si devono iscrivere i co.co.pro e i lavoratori autonomi è uno scandalo, che noi come ACTA continuiamo a denunciare e che i sindacati continuano a coprire. E’ questo che fa incazzare la gente. Questo accade perché abbiamo una rappresentanza politica, sindacale, associativa che non è interessata alle questioni vitali delle persone. Penso però che la democrazia corra un pericolo ancora più grave.
Quale?
Il disinteresse per il bene comune, la privatizzazione selvaggia che i milanesi conoscono bene, la mancanza di regolamentazione del mercato. Il pericolo non lo vedo tanto in un’organizzazione istituzionale, quanto nell’abitudine a dare una delega a chi fa politica di professione, come ha fatto fino ad oggi la sinistra, oppure a darla ad uno solo, come fa la destra. Bisogna convincere la gente ad uscire dalla passività e a difendere i propri diritti senza delegarli a terzi.
In tempi di antiberlusconismo credi che questo sia possibile?
Penso che l’antiberlusconismo sia di una sterilità mortale perché aumenta la passività, non la risolve. Il giustizialismo è un’aggravante. I magistrati più intelligenti lo sanno: pensare di rovesciare Berlusconi con la loro supplenza è la prova che la democrazia è in crisi. A chi pensa di affidare alla magistratura, o a Gianfranco Fini, la soluzione dei nostri problemi, rispondo: dov’era Fini durante le giornate del G8 di Genova? E che cosa ha deciso la magistratura su quei fatti? L’antiberlusconismo è l’ultima dimostrazione dell’incapacità della borghesia italiana di sviluppare un pensiero radicale e democratico della trasformazione. Il primo a dirlo è stato Gramsci. In questo paese nel dopoguerra lo ha fatto il proletariato. Una capacità che è andata persa dopo che la sinistra ha sciolto le sue strutture.
E’ possibile ricominciare? E da dove?
La forza motrice della resistenza sono le donne che oltre a lavorare, hanno un ruolo riproduttivo e di cura nella società. Per questo sentono di più il peso della crisi e reagiscono meglio. Non hanno una mentalità individualista, sanno che per ottenere qualcosa bisogna associarsi. Le donne sono una garanzia per la democrazia di questo paese.
Da alcuni anni parli di “coalizione”. Che cosa intendi precisamente?
Per coalizione non intendo un’organizzazione ma lo sviluppo di un atteggiamento soggettivo tra le persone affinché si associno con altri e rivendichino i propri diritti. La democrazia, come ha scritto Karl Polány, non è un sistema di governo, ma una forma ideale di vita. In Italia ci sarebbe spazio per creare una coalizione tra i vari tronconi del lavoro autonomo e precario per conquistare insieme certi diritti universali. I professionisti indipendenti possono dire ai giovani cos’è il mercato oggi, mentre i precari possono insegnare ai lavoratori autonomi a non chiudersi in un rivendicazionismo corporativo.
E il rapporto con i sindacati?
Con i sindacati bisogna dialogare, gli si deve però chiedere di abbandonare l’idea di aumentare gli oneri contributivi del lavoro autonomo e precario. Queste categorie sociali subiscono già una forte discriminazione sul piano delle prestazioni dello stato sociale. Dire che con l’aumento dei contributi si limita il ricorso ai contratti “atipici” è una bugia, la storia di questi anni lo dimostra.
Roberto Ciccarelli, 29 ottobre 2010
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No, la Seconda Repubblica non è un fantasy, purtroppo
di Tonino Bucci
su Liberazione del 30/10/2010
“1994”, un libro-inchiesta di Grimaldi e Scalettari su vicende cruciali nella nascita di un regime politico
Se ci fosse la legge bavaglio un libro come questo potremmo scordarcelo. 1994 è un mosaico di storie, di inchieste (mai portate a termine), di omissioni e depistaggi, di vicende che a prima vista non hanno nulla a che fare l’una con l’altra, di luoghi lontani tra loro (la Sicilia, Roma, la Somalia, Livorno), di personaggi noti e meno noti, di omicidi rimasti a lungo irrisolti (alcuni lo sono ancora), da Mauro Rostagno a Ilaria Alpi fino alle 140 persone morte nell’incidente del traghetto Moby Prince.
Però 1994 non è solo un libro di tante storie. Lo scrivono chiaramente i suoi autori, Luigi Grimaldi e Luciano Scalettari, giornalista freelance il primo, già autore di Traffico d’armi. Il crocevia jugoslavo, oltre che collaboratore di Liberazione, inviato di Famiglia cristiana il secondo, da lungo tempo alle prese col caso Ilaria Alpi. Il volume che porta la loro firma (chiarelettere, pp. 482, euro 16,60) è un libro su una storia, anzi su «una storia che non è mai stata raccontata», che si dipana, per la precisione, lungo l’arco di sei anni, dal 1988 al 1994. Detta in altro modo: il loro è un libro sulla Seconda Repubblica. «Che relazione c’è tra l’omicidio Rostagno e le bombe della mafia, tra gli accordi firmati a Nairobi e un ufficiale di Gladio, tra ciò che avviene a Roma e le faccende italo-somale che si svolgono nel paese africano? Partiremo da lontano, almeno dal punto di vista geografico, dalla Somalia, per arrivare a Trapani, Livorno, Milano. E infine a Roma. In questo libro viene ricostruita la faccia nascosta della Seconda Repubblica. Non con tutti i pezzi, naturalmente. Ma ce n’è abbastanza per cogliere il disegno finale».
Quando si parla di storie nascoste c’è chi storce il naso, chi sente puzza di dietrologia, chi pensa che sia tutto frutto di una perversione, quella di volere a tutti costi rintracciare trame invisibili. Per carità, non è che non esista la paccottiglia complottistica, le librerie abbondano di libri usa-e-getta che riscrivono la storia come fosse lo scenario di complotti orditi nell’oscurità, da esseri infidi, solitamente raffigurati secondo lo stereotipo razzista dell’ebreo massone banchiere. Paranoie che inducono a vedere dietro le vicende storiche lo svolgimento di un unico piano, all’interno del quale tutti i fatti s’incastrano come le tessere di un puzzle. La potenza del genere complottistico è d’essere un dispositivo totalizzante, in grado di contenere ogni dettaglio, ogni fatto, ogni particolare, quale esso sia, senza che possa mai essere falsificata l’ipotesi di fondo.
Nulla a che vedere col volume di Grimaldi e Scalettari. Prendere a pretesto la letteratura complottistica per bollare come dietrologica ogni “revisione” critica della storia ufficiale di questo paese è operazione metodologicamente sbagliata, oltre che niente affatto “innocente”. Molto più utile, invece, chiedersi come mai il filone delle storie nascoste riscuota un discreto successo editoriale. Più che prendersela con gli autori di inchieste – soprattutto in televisione, basta pensare ai casi di Report e Presa diretta – vale la pena interrogarsi sulle cause oggettive che hanno lanciato il genere in vetta ai gradimenti di lettori e spettatori. La risposta, non ci vuol molto a intuirla. La letteratura d’inchiesta compensa un vuoto di verità, arriva lì dove non può arrivare la magistratura, supplisce alla difficoltà di stabilire in sede storiografica una verità sulle tante vicende irrisolte di questo paese, le stragi, gli omicidi, gli intrecci tra politica e mafia. In un paese governato a botte di depistaggi, omissioni e segreti di Stato continueremo ad aver bisogno di libri come 1994.
C’è una giornalista, non a caso, tra gli attori principali della scena ricostruita da Grimaldi e Scalettari. E’ Ilaria Alpi, inviata Rai, uccisa assieme al collega Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 in Somalia, dove si trovavano per raccontare la conclusione della missione militare italiana. «Sulle ragioni del duplice omicidio si è sempre guardato indietro, alla ricerca di ciò che i due giornalisti potevano aver scoperto. Non si è invece guardato abbastanza al dopo: alle conseguenze dello loro scoperte. L’esecuzione è avvenuta il 20 marzo 1994. Il 27 e 28 marzo in Italia si è votato. E’ cambiata la storia del nostro paese. Berlusconi ha vinto le elezioni. Ilaria Alpi indagava su qualcosa che avrebbe potuto turbare il voto?». Ilaria e Miran raccoglievano informazioni «su alcuni progetti della nostra peggiore cooperazione», nella fattispecie sullo smaltimento di rifiuti lungo la strada Garowe-Bosaso e su una compagnia di pescherecci, la Shifco. La stessa cui appartiene la nave che tre anni prima è presente – per «operzioni mai chiarite» – sul luogo della più grave tragedia della marineria civile italiana, quando al largo di Livorno il traghetto Moby Prince si scontra con una petroliera. Dei 141 passeggeri a bordo solo uno si salva. Torniamo a Ilaria Alpi. «La giornalista italiana stava seguendo indizi che conducevano a una pista di traffici d’armi e rifiuti tossico-radioattivi a cui quegli pseudoprogetti di cooperazione avrebbero fatto da copertura». “Roba che scotta”, dice Ilaria nell’ultima telefonata al suo caporedattore. «Un servizio che non vedremo mai». Che cosa avrebbe potuto provocare quel servizio al Tg3? «Probabilmente un terremoto elettorale». Armi e rifiuti tossici, «Ilaria e Miran finiscono inavvertitamente per toccare un nervo scoperto, un segreto. E per “ficcare il naso” in uno degli ingranaggi che avrebbe potuto far risalire al motore principale. Abbiamo cercato di ricostruire questo percorso. A ritroso, ovviamente», scrivono gli autori.
Lungo questa strada incontriamo il progetto Urano, un gigantesco programma di smaltimento di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi con destinazione Africa. Alle spalle, una grande organizzazione per lucrare e riciclare denaro. In sostanza, rifiuti tossici in cambio di armi e soldi. «Tra gli ideatori e gli organizzatori di Urano troviamo personaggi legati ai servizi segreti, italiani e americani, piduisti e massoni. E collegamenti con la destra eversiva italiana». Quadretti edificanti. Nei mesi di agosto e settembre 1992, il responsabile dell’Agenzia dell’Onu per la protezione dell’ambiente a Nairobi, Mustafa Kamal Tolba, getta l’allarme su un imminente operazione gestita in grande stile da imprese italiane e svizzere per smaltire in Somalia ingenti quantità di rifiuti tossici. Partono le indagini dei magistrati, c’è anche un’inchiesta discreta del ministero degli Esteri. «Emerge così il nome di una società romana, la Fin Chart, con sede in via Fauro 43 – proprio di fronte al luogo dove nel maggio 1993 esploderà una delle bombe della strategia mafiosa di attacco allo Stato (l’esplosione aprirà un cratere tra il civico 41 e il 43) – che, attraverso la società Interservice, avrebbe infatti anticipato al ministro somalo della Sanità, Nur Elmi Osman, 13 miliardi di lire, scontando titoli di credito di proprietà somala». Si forma un «comitato d’affari» composto da politici e signori della guerra somali, da un lato, e imprenditori che si gettano nell’affare armi-rifiuti, dall’altro. I nomi che fanno parte dell’entourage sono quelli di Ali Abdi Amalow, un politico somalo con le mani in pasta dappertutto, che controlla il commercio estero e la banca centrale; Roberto Ruppen, l’uomo chiave per lo sviluppo del progetto Urano in Somalia, collettore dei fondi provenienti dall’Italia; Marcello Giannoni, imprenditore livornese; Giancarlo Marocchino, «l’italiano che firma la lettera di intenti riservatissima del progetto Urano», una delle ultime persone ad aver incontrato Ilaria Alpi a Mogadiscio.
«C’è però un altro versante, non meno importante, che lega alcuni dei protagonisti di Urano all’estrema destra italiana e a figure di Ordine Nuovo. E, ancora, taluni esponenti di area neofascista con le mafie del Sud». In quel periodo si diffondono formazioni leghiste al Centro e nel Sud dell’Italia, in concomitanza con la fase d’espansione della Lega Nord. Le aspirazioni separatiste «non nascono dal nulla». Un progetto, noto come Eurotopia, finanziato dall’industriale olandese Heineken (quello della birra), simula un piano di smembramento degli stati nazionali europei in 75 mini-stati, di cui otto nella penisola italiana. Bush definì l’idea «innovativa e intrigante». «Per quanto riguarda l’Italia si può parlare di un progetto forse delirante, ma che in molti hanno preso sul serio. Nel 1994 anche la Lega Nord ha avanzato proposte federalistiche del tutto simili». Dal Somaliagate alla Sicilia, il salto non è indebito. Le dichiarazioni di due personaggi, Massimo Pizza e Antonio D’Andrea, aprono collegamenti tra i traffici italo-somali e la mafia. «Dal 1992 e dal 1993, gli anni delle stragi, e dall’anno del cambiamento della scena politica italiana, il 1994, è passato tanto tempo», scrive nella postfazione Salvatore Borsellino, «eppure una verità completa, esauriente sulle stragi e sulla morte di Paolo e dei ragazzi della sua scorta non c’è ancora». Erano gli anni della famosa trattativa tra Stato e mafia. Era il laboratorio della Seconda Repubblica.
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Tutti devono sapere che FB è una trappola 02.11.2010
Franco Berardi Bifo
“Tutti devono sapere” è il nome di una pagina Facebook che informa(va) sulle questioni della cosiddetta riforma Gelmini, l’attacco definitivo scatenato contro la scuola pubblica italiana, il tentativo – che purtroppo sta avanzando – di distruggere alla base ogni vita intelligente, ogni democrazia in questo paese.
Diecimila persone erano collegate a questa pagina: insegnanti, genitori, studenti.
Da un paio di giorni questa pagina è stata cancellata senza motivazioni senza spiegazioni.
Per violazione di qualche norma di un regolamento che nessuno conosce.
Facebook è così. Ricevo sempre più spesso messaggi (spesso comicamente disperati) di persone che sono state bannate dal social network, e annaspano perché la loro socialità si alimentava sempre più degli scambi di messaggi, e della continua consultazione del sito nel quale chi è solo (quasi tutti lo sono di questi tempi) può trovare la coccolante conferma della sua esistenza, e la sensazione di avere amici, anche se più tempo passi davanti allo schermo, meno amici avrai nella carne e nello sguardo.
Io protesto insieme a molti altri contro la cancellazione autoritaria della pagina “Tutti devono sapere”. Però vorrei cogliere questa occasione per dire a tutti (anche ai diecimila iscritti della pagina bannata) che questa è una lezione su quel che è Facebook, e su quello che sta diventando la Rete, nella fase del Web 2.0: un ordigno totalitario, una bomba psichica a tempo destinata a distruggere ogni empatia tra esseri umani.
Negli anni ’80 tradussi un articolo dal titolo Communication without symbols, scritto da un giovane ingegnere elettronico di nome Jaron Lanier. Lanier lavorava allora in California per un laboratorio di ricerca sulle nuove tecnologie, e fu il primo a sviluppare le interfacce del Data Glove e di altri congegni di Virtual Reality che precedettero e prepararono il lancio del world wide web.
Ora Jaron Lanier ha pubblicato un libro dal titolo You are not a gadget, che costituisce per quel che ne so la migliore critica del Web 2. 0 e particolarmente del social network che ha attratto più di mezzo miliardo di utenti, e che sta trasformando la vita quotidiana di una parte considerevole della nuova generazione.
La prima parte del libro è dedicata all’analisi delle filosofie californiane che identificano nell’Info-Cloud la forma più alta di vita intelligente associata, e tendono a vedere nella rete telematica la forma più avanzata di vita intelligente, fino al punto che, come diceva Kevin Kelly nel suo libro del 1993 (Out of control) la mente globale non può essere compresa né controllata dalle menti umane individuali, e questo significa che essa è di un ordine superiore alla mente umana, come un alveare ha intelligenza superiore a quella delle api che lo hanno costruito.
“La funzione di questo modello non è, scrive Lanier, rendere la vita più facile per la gente. Ma promuovere una nuova filosofia, secondo cui il computer evolve verso una forma di vita che può capire gli umani meglio di quanto gli umani capiscano se stessi…” (You are not a gadget, pag. 28, traduzione mia)Lanier parte dalla premessa (filosoficamente importante) che
“L’informazione è esperienza alienata.”
E aggiunge:
“Se i bit possono significare qualcosa per qualcuno, è solo perché sono oggetto di esperienza. Quando questo accade, si crea una comunanza di cultura tra chi immagazzina bit e chi li va a pescare nella memoria. L’esperienza è il solo processo che può disalienare l’informazione.” (29)
La tecno-Teologia della Mente alveare ha elementi molto affini alla Teologia Neoliberista, secondo cui esiste una mano invisibile che automaticamente regola tutti gli scambi economici in modo tale da realizzare il migliore dei mondi possibili in una condizione di deregulation perfetta.
Leggiamo ancora Lanier:
“Nel passato un investitore doveva essere capaci di capire almeno qualcosa su quel che il suo investimento avrebbe effettivamente prodotto. Oggi non è più così. Ci sono troppi strati di astrazione tra il nuovo tipo di investimentoi e l’evento produttivo.
I credenti nella filosofia della mente alveare sembrano pensare che per quanti livelli di astrazione siano in un sistema finanziario questo non ne riduce l’efficacia. Secondo questa ideologia, che mescola cyber-cloud ed economia friedmaniana (Neoliberista), il mercato farà quel che è meglio per tutti, e non solo, farà tanto meglio quanto meno la gente è in grado di capirlo. Io non sono d’accordo. La crisi finanziaria prodotta dal collasso dei mutui immobiliari è stato la prova del fatto che troppa gente aveva creduto nella teologia.” (pag.97)
Prima del collasso, effettivamente, i banchieri ci assicuravano che i loro algoritmi intelligenti potevano calcolare ogni rischio ed evitare prestiti pericolosi. Sappiamo come è andata a finire, milioni di persone hanno perso la casa, il sistema finanziario è crollato, la popolazione è stata costretta a salvare le banche, causa del disastro, e oggi l’economia mondiale è sprofondata in una recessione che appare irreversibile, e i governi europei chiedono alla popolazione di rinunciare ai suoi diritti, ai suoi salari, al suo tempo libero alla sua pensione perché il sistema finanziario – che ha provocato tutto questo – deve essere salvato.
Cosa c’entra in tutto questo Facebook? C’entra eccome, perché Facebook è la forma più compiuta di una forma di totalitarismo algoritmico di cui Lanier parla così:
“Con la formazione del Web 2. 0 si è verificata una forma di riduzionismo. La singolarità viene eliminata da questo processo che riduce a poltiglia il pensiero. Le pagine individuali che apparivano nella prima fase di Internet negli anni ’90 avevano il sapore della persona che le faceva. MySpace preservava qualcosa di quel sapore, anche se era cominciato il processo di formattazione. Facebook è andato oltre organizzando la gente dentro identità a scelta multipla, mentre Wikipedia cerca di cancellare interamente il punto di vista. Se una chiesa o un governo facessero una cosa del genere lo denunceremmo come autoritario, ma se i colpevoli sono i tecnologi, allora sembra che tutto sia alla moda, e inventivo.” (pag. 48)
E per finire, Lanier si chiede:
“Sto forse accusando centinaia di milioni di utenti dei siti di social network di accettare una riduzione di sé per poter usare dei servizi? Ebbene sì, io li accuso. Conosco una quantità di persone, soprattutto giovani ma non solo che sono orgogliosi di dire che hanno accumulato migliaia di amici in Facebook. Ovviamente questa affermazione si può fare solo se si accetta una riduzione dell’idea di amicizia.” (pag. 52)
Il problema è fino a quel punto questa riduzione potrà arrivare. Se si tratta di persone che hanno ormai un’esperienza psichica ed esistenziale, probabilmente Facebook finirà per essere solo una enorme perdita di tempo e una trappola come è successo per le diecimila persone che hanno affidato a Facebook la loro azione politica e comunicativa.
Ma se l’utente ha otto anni o dodici, allora io credo che la questione sia molto più pericolosa.
“Mi preoccupo per la prossima generazione, scrive Lanier, che cresce con una tecnologia di rete che esalta un’aggregazione formattata. Non saranno forse più inclini a soccombere alle dinamiche di sciame?”
Queste parole non le scrive un umanista nostalgico, né un rabbioso sovversivo luddista, ma un ingegnere informatico che ha immaginato la rete molto prima che Internet esistesse.
Per questo dovremmo ascoltarle, e riflettere, perché la nostra socialità, attraverso la rete, esca dalla rete e invada la vita, che altrimenti non ha più amicizia, né piacere, né senso.
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La strategia cinese estromette gli USA dal Medio Oriente
Subhash Kapila 29.10.2010
Osservazioni preliminari
Il Medio Oriente ha sempre figurato in cima alla Grande Strategia della Cina, non solo in termini di mercato redditizio per l’economia e la sicurezza energetica cinesi ma, di gran lunga più importante, in termini geopolitici. Circondata dal vasto Oceano Pacifico sotto il controllo e la supremazia militare degli Stati Uniti, la Grande Strategia della Cina “Guarda a Ovest”, una strategia in contrapposizione alla strategia del “Guardare a Est” del suo rivale asiatico, che ha ricevuto una concertata attenzione strategica. Questo è il fattore determinante nella formulazione della politica cinese verso il Medio Oriente e l’Asia Centrale.
La Cina considera il Medio Oriente come una lucrativa regione strategica in cui la Cina può sfruttare lo squilibrio strategico generato dagli Stati Uniti, con le loro azioni e omissioni negli ultimi dieci anni circa. La Regione è quindi matura per una sottrazione strategico agli Stati Uniti da parte della Cina.
Indubbiamente, gli Stati Uniti sono la potenza strategica e militare dominante nel Medio Oriente, storicamente durante la Guerra Fredda e che continuerà a esserlo nel corso di questo secolo, nonostante la turbolenza generata nel Medio Oriente, regione situata presso il “crocevia del radicalismo e della tecnologia.”
La Cina è pienamente consapevole di non poter sloggiare gli Stati Uniti dal Medio Oriente, anche con la sua crescente capacità militare, ma questo non significa che la Cina mollerà il suo progetto strategico di destabilizzare l’egemonia regionale degli Stati Uniti, che controlla le risorse energetiche vitali estremamente importante per la crescita strategica e politica della Cina.
La Cina, a differenza dell’Asia orientale, vede il Medio Oriente come un trampolino di lancio che può facilitare alla Cina la possibilità di cogliere la status di superpotenza con una presenza strategica e militare invadente facilitato dal risentimento mediorientale verso lo sfrenato controllo della regione da parte degli Stati Uniti. Cina percepisce che le nazioni arabe e del Medio Oriente guardano l”ascesa della Cina’ come una assicurazione strategica e come un contrappeso contro gli Stati Uniti o, in mancanza, come un importante ‘leva politica’ che può essere usata per resistere alle pressioni degli Stati Uniti.
Questo sentimento predominante è miglio catturato dalle osservazioni di un noto analista egiziano che afferma che: il mondo arabo sta ancora piangendo per l’età d’oro della “Guerra Fredda”. Contemporaneamente, sembra che questa Regione si aspetti che la Cina possa creare un polo contrapposto agli Stati Uniti in Medio Oriente, e che il Medio Oriente sia maturo per una Guerra Fredda Cina-Stati Uniti.
Nei prossimi anni nei giochi di potere globale, si può pensare che la Cina aumenti la sua presa e le sue orme strategiche in Medio Oriente, espandendo la corrosione del controllo strategico degli Stati Uniti sulla regione del Medio Oriente. Va sottolineato che la Cina si è costruito un notevole profilo di grande potenza, usando in suo favore il proprio ‘soft power’ e fornendo arsenali di missili a paesi come l’Arabia Saudita, l’Iran e altri.
Ultimamente la Cina ha introdotto un nuovo elemento dell’uso del ‘potere duro’ (dimostrazione simbolica), coinvolgendo la Turchia in esercitazioni aeree congiunte condotte nello spazio aereo turco con aerei da combattimento cinesi, che si sono riforniti facendo scalo nelle basi aeree pakistane e iraniane.
Il presente testo si propone di esaminare le seguenti questioni legate alla strategia della Cina dell’erosione degli Stati Uniti in Medio Oriente:
La Cina compie un grande balzo in avanti nel forgiare una sostanziale presenza strategica in Medio Oriente: Ambizioni Strategiche e Leve Geopolitiche della Cina
Il Pakistan come moltiplicatore di forza nella crescente allargamento della presenza strategica della Cina nella regione del Golfo e del Medio Oriente: prospettive
La Cina lotterà strategicamente e militarmente contro gli Stati Uniti, in caso di uno scontro in Medio Oriente?
Le Opzioni degli Stati Uniti in Medio Oriente
La Cina compie un grande balzo in avanti nel forgiare una sostanziale presenza strategica in Medio Oriente: Ambizioni Strategiche e Leve Geopolitiche della Cina
La Cina, nel forgiare una crescente sostanziale strategica presenza in Medio Oriente, gode dei crescenti benefici che ha avuto nell’espansione della propria presenza strategica negli ultimi 20-25 anni. Il modello accertato della Cina, fino ad ora, si concentrava nell’attrarre gli alleati più forti degli USA nella regione, come l’Arabia Saudita, e rafforzando le capacità militari delle nazioni e delle entità contrari agli Stati Uniti come l’Iran, la Libia, le milizie in Libano e il regime dei taliban in Afghanistan.
I toni sinistri della Cina nel creare le sue orme strategico nel Medio Oriente, si sono manifestati nella fornitura di missili balistici a lungo raggio (IRBM) della Cina, direttamente o per procura attraverso la Corea del Nord, all’Arabia Saudita e alla Iran, e dando accesso alla tecnologia delle armi nucleari di origine cinese, attraverso il Pakistan a Arabia Saudita, Libia e Iran.
Inserita in queste mosse strategiche da parte della Cina, c’è stata una vasta gamma di collegamenti economici e commerciali che la Cina ha predisposto nel corso degli anni, per rafforzare la dipendenza politica ed economica dalla Cina delle nazioni del Medio Oriente.
Le deduzioni che devono essere registrate dal modello di cui sopra, sono le seguenti:
.La forniture di IRBM della Cina, l’accesso alla tecnologia delle armi nucleari di origine cinese e le forniture considerevoli di armi convenzionali in una regione altamente instabile come il Medio Oriente, indicano che la Cina non è un attore responsabile della sicurezza e la stabilità in Medio Oriente. Il Medio Oriente è una pedina strategica della Cina nel suo braccio di ferro globale con gli Stati Uniti.
.L’accusa contro la Cina si aggrava ulteriormente, poiché la Cina non ha avuto alcun rimorso nell’inviare armamenti a noti rivali regionali come l’Arabia Saudita e Iran, quindi, aggravando ulteriormente i focolai delle tensioni regionali.
·La Cina non ha avuto scrupoli nel tessere forti legami militari con Israele, odiato in Medio Oriente dagli stati musulmani, arabi e non arabi.
L’attuale incremento della Cina nel forgiare una forte presenza in Medio Oriente, deve essere inteso nel contesto delle ambizioni strategiche della Cina, che sono:
Costretta nell’est asiatico dalla supremazia degli Stati Uniti, la Cina avverte che, nonostante l’egemonia degli Stati Uniti (percezione cinese) sul Medio Oriente, il Medio Oriente offre alla Cina la prospettiva di stabilire una forte presenza strategica nella regione.
Le ambizioni strategiche della Cina d’emergere come superpotenza globale, può essere agevolata dalle nazioni del Medio Oriente, con il Medio Oriente che oggi costituisce ampiamente il centro di gravità nel calcolo strategico globale.
La Cina percepisce, a differenza della Russia con limitate risorse economiche, si essere in una posizione migliore per emergere come potenza alternativa agli Stati Uniti e di poter riempire il vuoto strategico che ne può derivare se essi lasciassero l’Afghanistan. Con un deleterio effetto a cascata sulla regione del Golfo, i calcoli strategici della Cina potrebbero concludere che, in termini di proiezione di potenza della Cina a un ruolo globale più grande, il Medio Oriente ne fornisce un utilissimo trampolino di lancio.
I fattori geopolitici che facilitare l’avanzata strategica della Cina in Medio Oriente, possono essere attribuiti a quanto segue:
Le nazioni in Medio Oriente sono strategicamente inclini ad accogliere un abbraccio strategico cinese, spinti dal desiderio di trovare nella Cina un contropotere agli Stati Uniti.
Le nazioni in Medio Oriente sentono che, anche se la Cina non può fornire un potere di contrasto diretto agli Stati Uniti , la Cina può ancora fornire una forte leva alle nazioni del Medio Oriente, per resistere alle pressioni degli Stati Uniti su questioni conflittuali
Geopoliticamente la Cina e il Medio Oriente hanno punti di vista convergenti sul potere globale e la sostenibilità degli Stati Uniti sia in declino dopo gli avvenimenti in Afghanistan, aprendo la strada a un reciproco avvicinamento.
Oggi la Cina sta fortemente sostenuta da tre nazioni musulmane in questa parte del mondo, e cioè l’Arabia Saudita, Iran e Pakistan; Arabia Saudita e Iran, situati su entrambe le coste del Golfo, e il Pakistan posto sul versante orientale dello stretto strategico di Ormuz. Tutti e tre possono dirsi strumentali, aprendo la strada a un grande punto d’appoggio strategico della Cina in Medio Oriente.
Il Pakistan come moltiplicatore di forza nella crescente allargamento della presenza strategica della Cina nella regione del Golfo e del Medio Oriente: prospettive
L’insidioso ruolo del Pakistan nel promuovere la presenza strategica della Cina nella regione del Golfo, è più particolare, essendo poco notato o commentato da parte della comunità globale. Il Pakistan è un alleato strategico e una leale pedina che promuove i disegni strategici della Cina nella Grande Asia del Sud-Ovest, che comprende la regione del Golfo.
Si possono elencare quattro coinvolgimenti strategici del Pakistan con la Cina, che facilitano i disegni della Cina per erodere la presenza strategica degli Stati Uniti in Medio Oriente. Questi sono:
La Base Navale di Gwadar, un accesso alla presenza navale della Cina nell’Oceano Indiano, a nord del Mar Arabico e nel Golfo.
Il Corridoio Karakoram che rifornisce la Cina dal Pakistan, integrando l’esistente Karakoram Highway che collega il Pakistan e la Cina, e con i previsti collegamenti stradali e le linee ferroviarie che collegheranno la Cina con Gwadar.
Il Pakistan punta al restauro di regime taliban in Afghanistan filo-Cina e filo-Pakistan, in modo che la vulnerabilità dei due alle azioni militari degli Stati Uniti sia liquidata.
Pakistan, per via delle sue armi e tecnologia nucleari di origine cinese, genera gravi rischi per la sicurezza globale degli Stati Uniti.
Il punto importante da notare è che il Pakistan sta fornendo l’accesso via terra e via aria alla Cina per stabilire un contatto in Medio Oriente, e Gwadar in Pakistan è uno nodo strategico per una presenza navale cinese nella regione del Golfo. E’ anche significativo che anche l’Iran, a differenza del Pakistan, debba ancora fornire l’uso delle sue basi navali alla Cina.
Tutto quanto sopra sarebbe emersa come moltiplicatore d forza della Cina, la cortesia l’esercito pakistano nel sabotare strategicamente il radicamento degli Stati Uniti nel Golfo e del Medio Oriente.
La Cina lotterà strategicamente e militarmente contro gli Stati Uniti, in caso di uno scontro in Medio Oriente?
Notato dagli analisti strategici statunitensi, hanno giustamente rilevato che la strategia della Cina contro gli Stati Uniti in Medio Oriente, ruoterà attorno al principio di “né pace né guerra” e inoltre “la Cina eviterà sia la collaborazione che il confronto diretto con gli Stati Uniti“.
Alla sommatorie di cui sopra, si può tranquillamente affermare che nella dinamica contorta del Medio Oriente, la Cina sarà sempre attenta a un’imboscata e a sabotare gli Stati Uniti in questa regione strategicamente vitale, fondamentale per gli interessi strategici degli Stati Uniti.
L’esempio recente più importante di questo è l’avvicinamento strategico della al Turchia alla Cina, in un momento in cui la Turchia è disillusa verso l’Occidente e gli Stati Uniti. Prendiamo il caso del programma nucleare iraniano, che è uno spauracchio per gli Stati Uniti, dove la Russia ha virato affiancandosi agli Stati Uniti, mentre la Cina resta a favore dell’Iran.
Il Medio Oriente nei prossimi anni è probabile che assisterà ad un intensificarsi della “guerra fredda” da parte della Cina per erodere strategicamente gli Stati Uniti in Medio Oriente. La Cina spingerà le nazioni del Medio Oriente guidate dall’Arabia Saudita ad allentare i loro legami con gli Stati Uniti.
Infine, si potrebbe affermare che, anche in caso di una qualsiasi evenienza di una remota prova di forza, la Cina sarebbe riluttante ad entrare in un qualsiasi conflitto militare con gli Stati Uniti sul Medio Oriente. Al contrario, la Cina non esiterebbe ad entrare in un conflitto armato con gli Stati Uniti per un qualsiasi intervento militare statunitense in Pakistan. Senza il Pakistan come un leale pedina della Grande Strategia della Cina in Medio Oriente e del mondo islamico, l’intero progetto cinese per erodere la presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente fallirebbe e la Cina sarebbe ridotta al confinamento strategico in Asia orientale.
Le Opzioni degli Stati Uniti in Medio Oriente
In breve, gli Stati Uniti devono cercare di inserire i principali seguenti ingredienti nella loro formulazione politica in Medio Oriente per dare scacco matto ai disegni strategici della Cina:
Israele non dovrebbe essere spinto a rinunciare ai suoi interessi essenziali per la sicurezza nazionale, che incidono sulla sua sopravvivenza, in nome della Pace nel Grande Medio Oriente. La pace in Medio Oriente non è possibile fino a quando i leader dei paesi arabi non riconoscano Israele come Stato sovrano all’interno dei suoi confini attuali. (*all’autore indiano sfugge il particolare che Israele non riconosce nessun SUO confine. NdT)
La Turchia deve essere corteggiata e conquistata di nuovo dall’Occidente e dagli Stati Uniti, tolta dalla sua strategia attuale alimentata dalla suo disillusione per l’opposizione alla sua adesione all’Unione europea. La Turchia è la potenza naturale regionale del Medio Oriente e gli Stati Uniti dovrebbero cercare di dare spazio alle sue aspirazioni.
L’Iran una volta era un fedele alleato degli Stati Uniti. Tentativi dovrebbero essere fatti per riavvicinarlo un’altra volta, nonostante le pressioni arabo saudita affinché gli Stati Uniti facciano il contrario.
La Russia ha bisogno di essere cooptata dagli Stati Uniti in un partenariato efficace per la gestione strategica del Medio Oriente.
Il Pakistan, che non è solo un ostacolo regionale in Asia meridionale è ormai emerso come “la punta di diamante cinese” ed assiste la Cina nell’erosione strategica degli Stati Uniti in questa regione. Gli Stati Uniti hanno urgentemente bisogno di “resettare” la sua politica col Pakistan.
Gli Stati Uniti, a nessun costo dovrebbero uscire strategicamente dall’Afghanistan. Un efficace e forte radicamento degli Stati Uniti in Afghanistan impedirebbe e anticiperebbe la strategia della Cina per l’erosione strategica degli Stati Uniti nel Medio Oriente.
Infine, è mia sensazione che gli Stati Uniti siano fuori dalla deferenza verso le sensibilità dell’Esercito del Pakistan, avutasi negli ultimi dieci anni circa, sia un modo molto sottile per motivare l’India a “Guardare a Est“. Il tempo è giunto per gli Stati Uniti per incoraggiare l’India a guardare a ‘Ovest‘ verso un ruolo più importante nel Medio Oriente.
La Strategia del ‘soft power’ della Cina in Medio Oriente può essere affrontata in modo più efficace da un approccio del ‘soft power’ dell’India in Medio Oriente. L’India ha collegamenti storici, economici e culturali più lunghi con il Medio Oriente che non la Cina. Ironia della sorte, l’India ha dato l’accesso del Medio Oriente alla Cina, col Vertice delle Nazioni non Allineate di Bandung, nello spirito di grande spensieratezza, senza visualizzarne le ripercussioni.
Osservazioni conclusive
Nella Grande Strategia della Cina per afferrare lo status di superpotenza, il Medio Oriente figura come la “chiave di volta” con cui la Cina potrebbe ragionevolmente aspettarsi di spostare il predominio dagli Stati Uniti verso l’est asiatico.
La Cina finora ha fatto affidamento su’ progressi strategici in Medio Oriente, con l’uso fantasioso del ‘soft power’ e avvantaggiandosi dei rancori delle nazioni del Medio Oriente verso gli Stati Uniti, tuttavia ciò che si sta svolgendo ora, nell’erosione strategica cinese degli Stati Uniti in Medio Oriente, è anche un uso muto degli ingredienti dell”hard power‘.
Gli Stati Uniti farebbero bene a distogliere la loro attenzione da un accordo di pace in Medio Oriente, per esplorare urgentemente le opzioni politiche che gli permetterebbero d’impedire alla Cina di escluderli strategicamente dal Medio Oriente.
Gli Stati Uniti devono riconoscere che una pace in Medio Oriente non è all’orizzonte, mentre le nazioni in Medio Oriente percepiscono gli Stati Uniti come una potenza declino di fronte alla crescente potenza della Cina. Gli Stati Uniti hanno la necessità di riparare questa errata percezione.
La ‘chiave di volta’ degli Stati Uniti, per sventare i sabotaggio strategico della Cina in Medio Oriente, si trova in un efficace radicamento politico e militare in Afghanistan.
(L’autore è un analista in Relazioni Internazionali e Affari Strategici)
Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/
http://www.eurasia-rivista.org/6588/la-strategia-cinese-estromette-gli-usa-dal-medio-oriente
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La Russia del 2010 – prospettive economiche e politiche (parte 2)
Antonio Grego 26.10.2010
L’economia russa dopo la crisi
Nel 2009 la crisi economica ha prodotto un forte impatto in Russia. Rosstat1 ha, tuttavia, recentemente rivisto al ribasso (7,9%) il valore ufficiale di caduta del PIL nel corso del 2009, inizialmente stimato all’8,5% dal governo. Tra i BRIC, la Russia è il Paese che si sta riprendendo a ritmo più lento, ed è stato uno dei Paesi che ha sofferto di più durante questa recessione globale.
Continua qui, completo di grafici:
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Se la guerra alla droga viola i diritti umani
Giorgio Bignami commenta il rapporto Grover per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 3 novembre 2010. Scarica il testo del rapporto Grover nella sezione rapporti e ricerche delle Nazioni Unite sul mappamondo di fuoriluogo.it.
Fonte: Il Manifesto, di Giorgio Bignami 03/11/2010
Il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nutre gravi preoccupazioni per le violazioni di tali diritti provocate da quelle politiche anti-droga repressive e punitive che vigono in molti stati membri; politiche che spesso e volentieri – potremmo aggiungere – sono state direttamente o indirettamente incentivate proprio dagli orientamenti dell’Ufficio Droghe e Crimini delle stesse Nazioni Unite (Unodc). Perciò il suddetto Consiglio ha commissionato all’esperto indiano Anand Grover (significativamente definito Relatore Speciale sul Diritto di ciascuno a godere del massimo livello raggiungibile di salute fisica e mentale) di redigere un rapporto sugli effetti perversi delle politiche anti-droga, rapporto che è stato divulgato il 26 ottobre scorso. Grover non soffre di peli sulla lingua: infatti il suo documento è una dura requisitoria sul fallimento di politiche antidroga nominalmente mirate al raggiungimento di una serie di obiettivi nel campo della salute, ma che hanno avuto effetti diametralmente opposti. Tale fallimento ha anche causato una elevata frequenza di violazioni dei diritti umani; e questo, a causa di una prevalenza quasi esclusiva di norme di legge e di sanzioni penali che non riconoscono le realtà degli usi e delle dipendenze da droghe. Le droghe – precisa Grover – hanno effetti deleteri sulle vite dei consumatori e sulla società, ma questo non giustifica i falsi rimedi che si insiste a usare. In particolare, tali politiche spesso agiscono come deterrenti contro il ricorso ai servizi; ostacolano le iniziative di promozione della salute; perpetuano la stigmatizzazione; di fatto creano rischi per la salute anche di coloro che non usano droghe. In molti casi si impongono anche limiti ingiustificati all’uso di farmaci (il riferimento pare un avviso al nuovo direttore dell’Unodc che succede a Costa, l’ex ambasciatore russo Fedorov: nel suo paese metadone e scambio di siringhe sono ignoti, col risultato che la quasi totalità degli iniettori sono sieropositivi o già malati di Aids). La Convenzione Unica Onu sulle droghe del 1961 si autoproclama paladina della “salute e del benessere del genere umano”: ma allora – continua Grover – gli stati membri dovrebbero impegnarsi a fondo nelle iniziative di riduzione del danno (mentre da noi Giovanardi e Serpelloni hanno persino vietato l’uso di tale termine); spingere al massimo la depenalizzazione della detenzione e uso di droghe (mentre da noi la legge Fini Giovanardi del 2006 è andata nella direzione opposta); ottimizzare l’operato dei servizi ad hoc (mentre da noi i servizi ad hoc sono spesso alla canna del gas); rivedere normative e regole operative per ridurre al massimo le violazioni dei diritti umani (mentre da noi il rosario dei morti per repressione dell’uso di droga si allunga ogni giorno, da Federico Aldrovandi a Stefano Cucchi a Aldo Bianzino).
Insomma, il rapporto Grover mette a nudo una serie di gravi contraddizioni che possono accendere aspri conflitti: contraddizioni tra i principi cui nominalmente si ispirano gli atti sottoscritti nella sede Onu e le normative e le pratiche di un gran numero di stati membri; tra i vari organi delle stesse Nazioni Unite, alcuni dei quali . – come quello per la lotta all’Aids (Unaids) – sono fortemente impegnati nelle iniziative di riduzione del danno, mentre altri – come l’Unodc – seguitano a privilegiare le attività di repressione, a costo di ignorare le frequenti violazioni dei diritti umani della war on drugs. (E forse non è casuale che sia stato nominato a capo dell’Unodc un esponente della Russia di Putin, sulla cui criminale guerra alle droghe non è necessario ritornare). Lo Stato leader delle politiche proibizioniste e repressive, gli Usa, ha sempre avuto un ruolo determinante nell’indirizzare le politiche “dure” dell’Onu, ma gli equilibri di potere si stanno seppur lentamente modificando e del resto lo stesso rapporto Grover è un segnale di cambiamento. L’appello di Anand Grover per una svolta nelle politiche anti-droga sembra evocare quello eloquente e accorato di Abraham Lincoln nel memorabile discorso per il suo secondo insediamento presidenziale, durante la Guerra di secessione (“Teneramente speriamo – ferventemente preghiamo – che questo possente flagello della guerra possa presto avere fine …” )
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La riforma che cancella le differenze tra figli legittimi e naturali 29.10.2010
Presentazione
In futuro non ci saranno più differenze fra figli naturali e legittimi. La svolta epocale è stata annunciata dal sottosegretario Giovanardi nel corso di una conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri del 29 ottobre che ha approvato il disegno di legge delega, in materia di filiazione. Unico status giuridico, uguali diritti in materia di successione e di parentela, rivisti i diritti e i doveri nel rapporto tra genitori e figli: queste le più importanti novità introdotte dal provvedimento che ora dovrà essere esaminato dal Parlamento.
I punti più rilevanti del disegno di legge:
si sposta l’attenzione dal concetto di “potestà dei genitori” al più generale concetto delle relazioni che intercorrono tra genitori e figli;
accanto ai doveri dei genitori – mantenimento, educazione e istruzione (già previsti dalla Costituzione) – viene introdotto il diritto del figlio ad essere assistito moralmente, oltre che a crescere con la propria famiglia, ad avere rapporti con i parenti e ad essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano;
s’introduce il principio generale della unicità dello stato giuridico di figlio, per effetto del quale le disposizioni in tema di filiazione si applicano a tutti i figli, senza distinzioni, salvi i casi in cui vi siano ragioni per distinguere i figli nati nel matrimonio da quelli nati fuori dal matrimonio (le definizioni di “figli nati nel matrimonio” e “figli nati fuori dal matrimonio”, sostituiscono quelle precedenti di “figli legittimi” e “figli naturali”, adeguando, in tal modo, il codice civile, alla formula lessicale adottata dall’articolo 30 della Costituzione);
adeguamento della disciplina sulle successioni e sulle donazioni, al fine dell’eliminazione di ogni discriminazione tra figli;
introduzione della nozione di abbandono, avendo riguardo alla mancanza di assistenza da parte dei genitori e della famiglia che abbia comportato un’irreparabile compromissione nella crescita del minore, fermo restando che non potranno costituire un ostacolo al diritto del minore a vivere nella propria famiglia, le condizioni di indigenza dei genitori;
viene affermato il principio che il figlio riconosciuto è parente dei parenti del suo genitore;
si prevede, ai fini del riconoscimento, un abbassamento da 16 a 14 anni, dell’età richiesta per esprimere il consenso.
Il disegno di legge approvato nel Consiglio dei Ministri del 29 ottobre 2010, si colloca pienamente nell’alveo dell’articolo 30 della Costituzione che, al comma 1, sancisce il diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, “anche se nati fuori del matrimonio”.
http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/figli_status/
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Datagov.it, e-government all’italiana 03.11.2010
Nasce un movimento italiano per l’Open Government. Tutti gli interessati potranno contibuire alla redazione del Manifesto definitivo
Roma – Rendere l’amministrazione trasparente a tutti i livelli e consentire un controllo continuo del proprio operato mediante l’uso delle nuove tecnologie. Un’amministrazione che intavola una costante discussione con i cittadini, abbattendo la distanza da sempre esistita con questi ultimi, in grado di sentire quello che hanno da dire, e che è capace di prendere decisioni basate sulle loro necessità. È questo il progetto dell’associazione italiana per l’Open Government, promossa da un gruppo di esperti di diritto e di nuove tecnologie, funzionari pubblici e privati e docenti universitari, che, come prima iniziativa, hanno redatto un Manifesto con dieci punti principali che suggeriscono i cambiamenti richiesti alle Amministrazioni.
L’Open Government, letteralmente “Governo Aperto”, una dottrina che negli anni si è estesa in molti Stati, diventerà una realtà anche italiana: almeno questo è l’auspicio dei promotori dell’iniziativa. Tale nuova prassi amministrativa, che rappresenta un’incredibile occasione per rendere la cosa pubblica efficente e per migliorare la qualità della vita dei cittadini, diventerebbe concreta grazie alle potenzialità del web. Le nuove tecnologie hanno, di fatto, cambiato totalmente il modo di comunicare delle aziende, del mondo della politica e delle istituzioni. Alla tradizionale logica burocratica verticale e unidirezionale di gestione dei servizi pubblici, che si instaurava tra emittente e ricevente, si va pian piano sostituendo un modello orizzontale nel quale collaborazione, condivisione e conversazione rappresentano le tre incombenze da garantire per il coinvolgimento dei diversi attori pubblici.
L’Open Government non è un’idea nuova. I primi a rendere aperti dati pubblici sono stati gli Stati Uniti con il sito data.gov, a seguire anche il governo britannico ha offerto ai cittadini la possibilità di un’informazione trasparente attraverso i Linked Open Data, un collegamento tra dati generati e fonti etereogenee che trovano la loro aggregazione finale nel sito data.gov.uk. Ma anche Finlandia e Canada hanno seguito la retta via e, nel primo caso, il sito di riferimento è visiblegovernment.ca, mentre, gli australiani che vorranno ispezionare l’operato della propria macchian governativa, dovranno consultare il sito agimo.govspace.gov.au.
Adesso anche in Italia, nonostante l’indifferenza delle amministrazioni, esiste un movimento per L’Open Goverment e stanno nascendo diverse iniziative che, dal basso, provano ad affermare questo modello di innovazione. Il primo passo dell’associazione è stata la redazione di un Manifesto “in progress”, la cui funzione principale è quella di mettere insieme tutti gli stake holder “che hanno a cuore l’innovazione del nostro Paese”. Il testo definitivo del Manifesto, con l’aggiunta dei contributi che in questi giorni tutti gli interessati potranno allegare in vari modi, sarà pubblicato il 30 novembre 2010.
Sono dieci gli imperativi trascritti sul manifesto che rappresentano un invito all’azione per attuare i primi passi necessari per la metamorfosi degli apparati pubblici. Si richiede la partecipazione attiva dei cittadini, l’impegno delle amministrazioni nel rendere accessibili sul web in formato aperto e gratuitamente, laddove sia possibile, tutti i dati. Si richiede, inoltre, dato il moltiplicarsi delle difficoltà nella comunicazione in Rete, di offrire agli utenti una comunicazione accurata, anche attraverso i social network, per poter informare, coinvolgere e valorizzare l’intelligenza collettiva. E ancora, si richiede alle amministrazioni di promuovere l’accesso alla Rete di tutti i cittadini e di educare questi ultimi alla gestione della cosa pubblica, eliminando ogni discriminazione culturale, sociale, economica o infrastrutturale. Bisognerà, inoltre costruire la fiducia e aumentare la credibilità della PA, processi possibili grazie alla conoscenza e alla partecipazione ai processi decisionali, e, infine promuovere l’innovazione permanente degli apparati pubblici.
Raffaella Gargiulo
TAG: internet, trasparenza, PA, Open Government, social network, politica, italia
http://punto-informatico.it/3026110/PI/News/datagovit-e-government-all-italiana.aspx
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Nagoya, nuovo “deal” per salvare il Pianeta
1/11/2010 – La COP 10 vota il Piano di azione globale per la biodiversità
Per la difesa della natura questo è un momento storico: i Governi riuniti a Nagoya per la decima Conferenza della Parti (COP10) sulla Convenzione per laDiversità Biologica (CBD) hanno varato il Piano di azione globale per la biodiversità: 10 anni per salvare la biodiversità sul pianeta con un Piano d’azione condiviso al livello globale.
Questo accordo conferma il bisogno fondamentale di mettere al centro al conservazione della biodiversità come elemento fondamentale della nostra economia e della nostra società.
“I governi hanno riaffermato il messaggio che la protezione del benessere del pianeta è fondamentale nelle politiche internazionali e hanno dimostrato che lavorando insieme si può salvare la vita sul pianeta – ha dichiarato Jim Leape, direttore generale del WWF Internazionale.
I delegati che hanno partecipato alla 10ma Conferenza delle Parti sulla Biodiversità (COP10), riuniti dal 18 ottobre a Nagoya, sono riusciti finalmente a superare lo scoglio del regolamento ABS ,sull’accesso e la condivisione dei benefici derivati dalle risorse genetiche (Access and Benefit Sharing Protocol) che era in stallo da 18 anni da quando la Convenzione è stata firmata.
Il Protocollo di Nagoya/ABS (così si chiamerà) è un risultato storico e consentirà che l’immenso valore delle risorse genetiche venga finalmente condiviso fra popoli e nazioni. Inoltre i governi hanno condiviso l’obiettivo di arrestare il sovrasfruttamento delle risorse marine e di proteggere il 10% delle aree marine costiere e le aree “high seas”.
E su questo ultimo punto il commento del WWF: “Pur riconoscendo il grande progresso fatto su questo obiettivo il WWF sottolinea tuttavia che per adesso l’accordo riguarda solo la metà di quanto avevano chiesto gli scienziati per assicurare la conservazione di questi fondamentali biomi”.
Il nuovo Piano d’Azione per la biodiversità individua anche l’obiettivo di proteggere il 17% degli habitat terrestri che è un incremento modesto dell’attuale 10% ma pur sempre uno slancio in avanti perchè riguarda tutto il pianeta e da realizzarsi in un arco di tempo piuttosto breve (10 anni).
I governi hanno anche raggiunto un accordo per modificare i sussidi perversi (es pesca, agricoltura, trasformazione del territorio). Un‘ultima e non meno importante decisione, chiesta a gran voce e più volte anche dal WWF anche in occasione del lancio dell’ultimo Living Planet Report, il nuovo accordo chiede ai paesi di garantire che il valore della biodiversità venga integrata nelle contabilità nazionali. “Si tratta di un elemento strategico e nuovo nell’approccio alla difesa della natura, un segnale politico importantissimo che metterà in moto un nuovo approccio alla finanza globale” – ha dichiarato Stefano Leoni, Presidente del WWF Italia.
Mentre il Giappone si è impegnato mettendo a disposizione fondi significativi, il resto dei paesi sviluppati non è stato in grado di mettere sul piatto altrettante risorse immediatamente disponibili. Tuttavia i governi hanno condiviso l’obiettivo di identificare i finanziamenti necessari al Piano strategico entro il 2012 , soldi “freschi” vitali e fondamentali per mettere mano immediatamente alla perdita di biodiversità nel mondo.
“Mentre sono stati fatti significativi progressi su molti fronti bisogna ancora lavora per mobilitare le risorse necessarie per aiutare i paesi in via di sviluppo per raggiungere il loro obiettivo. Ci ha rattristato vedere come alcuni paesi tra i più ricchi siano arrivati a Nagoya a mani vuote, incapaci o poco disponibili a mettere in gioco le proprie risorse capaci di rendere possibile per i paesi in via di sviluppo di raggiungere obiettivi impegnativi. I paesi lasciano Nagoya comunque con una nuova strada condivisa su come salvare la vita sul pianeta” – ha concluso Leape – Adesso è fondamentale che velocemente traducano queste premesse in azioni concrete. Speriamo che nei prossimi mesi anche l’Italia lavori per individuare le risorse necessarie a contribuire agli obiettivi che sono indicati nel piano globale e in quello nazionale.”
Il WWF ha chiesto al Governo italiano di mostrare il proprio impegno sia su scala globale sia su scala nazionale intervenendo nella Manovra 2011 (collocando un accantonamento in Tabella A della Legge di Stabilità 2011,la tabella in cui vengono previsti impegni di spesa corrente finalizzati ad iniziative speciali o nel decreto legge previsto per fine anno) con un adeguato impegno economico che consenta di avviare la realizzazione della Strategia nazionale della biodiversità, approvata lo scorso 7 ottobre, dopo 16 anni dalla ratifica da parte del nostro Paese della Convenzione internazionale della biodiversità (1994),
Il WWF conferma il fondamentale ruolo delle ONG in questi giorni di trattative nel legare tra loro i paesi, nel trovare soluzioni, nell’avvicinare posizioni, un continuo sforzo di facilitazione che ha aiutato a superare le contrapposizioni tra paesi sviluppati e non.
Nagoya, il vertice sulla biodiversità >>
http://www.wwf.it/client/ricerca.aspx?root=26317&content=1
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Il ricatto di Marchionne si generalizza. A spese del contribuente
Luciano Muhlbauer, 03.11.2010
Oggi pomeriggio, presso il Ministero del Lavoro, cioè in casa dell’amico Sacconi, l’amministratore delegato della Fiat ha iniziato a violare addirittura l’accordo separato su Pomigliano, scritto da lui stesso e fatto approvare solo cinque mesi fa con il famigerato referendum-ricatto
Marchionne è un uomo esigente, pretende serietà, parole chiare e impegni precisi. E chi sgarra, chi non rispetta i patti, deve subire le sanzioni. Beninteso, questo mister Marchionne lo pretende dagli altri, dai suoi dipendenti anzitutto, perché per quanto riguarda lui, vabbè, è tutta un’altra storia.
E così, oggi pomeriggio, presso il Ministero del Lavoro, cioè in casa dell’amico Sacconi, l’amministratore delegato della Fiat ha iniziato a violare addirittura l’accordo separato su Pomigliano, scritto da lui stesso e fatto approvare solo cinque mesi fa con il famigerato referendum-ricatto. Infatti, quell’accordo diceva chiaro e tondo che l’azienda avrebbe richiesto la cassa integrazione guadagni straordinaria “per ristrutturazione per due anni dall’avvio degli investimenti”.
Invece no, tutta carta straccia, e oggi Marchionne, peraltro in assenza di ogni garanzia sugli investimenti, ha chiesto e ottenuto la cassa integrazione in deroga per otto mesi per 4.812 lavoratori degli stabilimenti di Pomigliano e Nola. Il Ministro ha dato la sua benedizione e Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno firmato senza battere ciglio di fronte alla cestinazione del punto 9 dell’accordo separato di Pomigliano.
Ma che bravi! Marchionne cambia le carte in tavola quando e come gli pare e tutto va benissimo, ma se ci dovesse provare un lavoratore, allora sarebbero guai. Infatti, secondo la “clausola di responsabilità”, introdotta dall’accordo separato di Pomigliano – e poi generalizzata dall’accordo separato sulle deroghe al contratto nazionale -, se un operaio non rispetta uno qualsiasi degli impegni fissati nel contratto in deroga, tipo fa lo sciopero degli straordinari, può essere punito immediatamente dall’azienda, visto che il contratto è “un insieme integrato, sicché tutte le sue clausole sono correlate e inscindibili tra di loro” (punto 14).
Comunque, non divaghiamo, perché l’odierna mossa di sostituire la Cig “straordinaria” con quella “in deroga” nasconde qualcosa di più grave. Infatti, il quadro già di per sé fumoso per il futuro dei lavoratori di Pomigliano, checché ne dicessero i numerosi cortigiani di Marchionne, è ora ancora più incerto.
In primo luogo, perché la cassa “straordinaria” in caso di ristrutturazione viene concessa fino a due anni, cioè il periodo minimo prospettato dalla Fiat per la ripresa produttiva nello stabilimento di Pomigliano, mentre quella “in deroga” concessa oggi dura soltanto otto mesi.
In secondo luogo, perché quella “straordinaria” presuppone una continuità degli assetti proprietari, mentre quella “in deroga” no.
In altre parole, gli otto mesi rappresentano semplicemente i tempi necessari per passare la proprietà della fabbrica a una newco, cioè una nuova società, la Fabbrica Italia Pomigliano, il cui amministratore delegato si chiama sempre Marchionne.
E i quasi 5mila dipendenti dalla Fiat di Pomigliano che vengono messi in cassa in deroga? Ebbene,
questo oggi non si è detto. Anzi, è proprio l’incertezza sull’occupazione il motivo principale per cui la Fiom non ha (giustamente) firmato l’odierno accordo. Ma tecnicamente le cose stanno più o meno così: alla fine degli otto mesi ci sono soltanto due opzioni, la disoccupazione o l’assunzione da parte della nuova società, con un nuovo contratto, cioè quello di Marchionne e Bonanni.
A proposito, questi otto mesi li pagano integralmente i bilanci pubblici: il 70% lo Stato e il 30% la Regione Campania. La Fiat non ci mette nulla, nemmeno quel “contributo addizionale” che le aziende devono invece sborsare in caso di Cig “straordinaria”.
Insomma, siamo al ricatto istituzionalizzato, a spese del contribuente. O accetti le mie condizioni senza fiatare oppure ti licenzio; cioè non ti riassumo.
Comunque, quello che colpisce e disturba di più non è l’arroganza e il doppiopesismo di Marchionne, ma la facilità con cui trova complicità non soltanto nel Governo, ma anche nel mondo sindacale e in pezzi dell’opposizione.
Oggi Marchionne, Sacconi e Bonanni hanno risposto a modo loro alla grande mobilitazione del 16 ottobre scorso. Una risposta che assomiglia a una dichiarazione di guerra. Sta a noi, a quanti e quante quel giorno eravamo a Roma, riprendere il nostro cammino.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16142
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Monte Bianco: un bacino d’acqua nel ghiacciaio minaccia le vallate
Articolo di Economia salute e ambiente, pubblicato giovedì 7 ottobre 2010 in Francia.
[Le Figaro]
Una massa di 65 mila tonnellate d’acqua si è accumulata in una sacca sotto il ghiacciaio della Tête Rousse. Se questa si versasse brutalmente nella valle, la vita di oltre 900 famiglie e numerosi turisti sarebbe in pericolo.
1892. Una sacca d’acqua sub-glaciale, situata sotto la vetta del ghiacciaio Tête Rousse, nella valle del Monte Bianco, fa saltare il tappo di ghiaccio per liberarsi. Le 100 mila tonnellate d’acqua si riversano in pochi minuti nella vallata. Alberi, rocce, ghiaia e sedimenti gonfiano un ruscello che si trasforma poco a poco in “lava torrenziale”. Le valli di Bionnassay, diBon Nuant e di Bionnet au Fayet sono distrutte da questo mostro di un milione di metri cubi. Il centro termale di Saint-Gervais è distrutto.La colata trascina con sè le vite di 172 persone.
La scoperta di una nuova sacca d’acqua, che ha un volume stimato di 65 mila m3, sotto lo stesso ghiacciaio, riporta alla luce oggi un triste ricordo. Christian Vincent, geometra e topografo del CNRS specializzato nelle osservazioni glaciologiche, spiega che durante i rilievi del 2007 è stata riscontrata un’anomalia. Le analisi della risonanza magnetica, hanno confermato, lo scorso 13 luglio, i timori dei ricercatori. Una nuova sacca minaccia la valle.
L’imminenza della rottura rimane sconosciuta
“Il rischio di rottura esiste, secondo il riferimento del 1892, ma la sua imminenza resta a noi sconosciuta”, smorzava tuttavia il prefetto dell’Alta Savoia: Jean–Luc Videlaine. “ Si può rompere ora o fra 100 anni o [fra] 1000 anni”, dichiara il sindaco di Saint-Gervais. Queste sacche effettivamente sono poco note agli scienziati. Possono formarsi sotto il ghiacciaio (sacca sub glaciale) o all’interno (sacca intra glaciale). L’acqua delle fonti vi si accumula gradualmente. Nel momento in cui la pressione diventa troppo forte, un tappo di ghiaccio viene espulso dal ghiacciaio liberando la gigantesca massa d’acqua. Questo è probabilmente il più spettacolare pericolo che presentano i ghiacciai.
Sono stati investiti due milioni e mezzo di euro al fine di trovare adeguate soluzioni. Lo Stato e i fondi europei forniranno l’80% della somma, il comune di Saint-Gervais e il dipartimento dell’Alta-Savoia, [finanziano] il resto. Gli abitanti sono stati informati mercoledì che è già in atto di realizzazione un sistema d’allerta alla rottura.Una parte sarebbe già operativa. Inoltre, a partire dal 20 agosto, “nizieranno i lavori di pompaggio per prevenire qualsiasi rischio di rottura”, ha annunciato il sindaco. Solo una cavità contenente 25mila m3, è stata localizzata con sufficiente precisione, a 75 metri di profondità e dovrebbe poter essere svuotata.
Un rischio accresciuto dall’urbanizzazione e dall’affollamento del sito
Si tratta di proteggere più di 900 famiglie e una zona frequentata da numerosi turisti, il ghiacciaio è situato sulla normale della salita al Monte Bianco. “Non bisogna chiudere gli occhi, l’urbanizzazione e la frequentazione turistica del ghiacciaio rendono il rischio molto più importante rispetto al 1892”, si preoccupa il sindaco.
Dal canto suo Christian Vincent spiega che l’origine della sacca “resta ancora inspiegabile”. “Il riscaldamento climatico che ha ridotto lo spessore del manto nevoso [situato] sul ghiacciaio” potrebbe spiegare il fenomeno. Questo rimane tuttavia difficile da determinare. Paradossalmente, il ghiacciaio sarebbe in effetti meno protetto dal freddo invernale e questo bloccherebbe una parte delle vie naturali di scolo. L’acqua quindi si accumulerebbe formando queste pericolose riserve [d’acqua].
[Articolo originale “Mont Blanc : une poche d’eau glaciaire menace les vallées” di Tristan Vey ]
http://italiadallestero.info/archives/10326
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«Quando la natura si ribella, accade questo… è un indice di grande cambiamento climatico»
Due articoli che ruotano attorno al global warming e possono interessare ng. Della sconfitta di Obama ne leggeremo ancora, si è scoperto che proprio lui è stato incapace di comunicare ai suoi elettori, si è scoperta la passione americana per la tazza di tè, il disordine come opera d’arte; ma alla fine anche qui in Italia in che acque navighiamo?
Siamo nel pieno del rilancio nucleare, in particolare dentro un intelligentissimo sottomarino (HMS Astute).
“Un portavoce della Marina ha detto questa mattina: L’incidente è avvenuto durante un trasferimento da parte di una imbarcazione del sottomarino in “confined water”, Il timone si è incagliato e si è incastrato nelle rocce”.
http://www.youtube.com/watch?v=QwKh_h9hfTA&feature=fvst
L’ agenda verde di Barack Obama schiacciata alle urneCon una serie di nuovi negazionisti del cambiamento climatico che entrano al Congresso, le ambizioni ambientali di Barack Obama sono ormai
morte.Con la vittoria solitaria in California, gli ambientalisti sono riusciti a mantenere in vita un modello di azione in materia di cambiamenti climatici conservando una legge del 2006 che ha fissato obiettivi
ambiziosi per la riduzione dei gas a effetto serra che aveva attirato decine di milioni di investimenti in tecnologia pulita.Ma molti dei nuovi membri del Congresso sono nel migliore dei casi
scettici sui cambiamenti climatici, e i repubblicani promettono di ridurre il ruolo del governo che potrebbe significare la fine della legislazione energetica, e potrebbe preannunciare una nuova era della deregulation ambientale.
http://www.commondreams.org/headline/2010/11/03-4
Commento sopra pervenuto da
rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org il 04.11.2010
Grandi opere e cementificazione del territorio presentano il conto
Data di pubblicazione: 03.11.2010
Due articoli di Ernesto Milanesi e Gianfranco Bettin raccontano perché i governi ladri, nazionale e locali, abbiano pesanti responsabilità per i risultati catastrofici della pioggia. Il manifesto, 3 novembre 2010
Nel Veneto sott’acqua affonda il modello leghista
di Ernesto Milanesi
L’autostrada chiusa perché invasa da acqua e fango a Soave. Argini che saltano da Monteforte d’Alpone (Verona) fino a Ponte San Nicolò (Padova). Alluvionato il centro storico di Vicenza con Guido Bertolaso impegnato a schierare l’esercito. Traffico paralizzato fino ai confini con il Friuli e interi quartieri evacuati nella notte in mezza regione. Con il terrore che la vera onda di piena non sia ancora passata.
E’ Legaland, letteralmente con l’acqua alla gola. Pioggia battente, vento di scirocco e idrovore in tilt hanno trasformato il «cuore» del Veneto in un immenso lago color melma. Il bilancio, finora, parla di un anziano disperso. Ma ha rischiato grosso il teatro Olimpico di Vicenza; s’è svegliata dentro un incubo la Marca trevigiana che frana; annaspa quasi tutto il Veronese; trema, come nel 2002, Motta di Livenza nel veneziano.
Una catastrofe difficile da spacciare per «naturale». Gli effetti si avvicinano alla Grande Alluvione del 1966, quando il Polesine fu sacrificato per salvare Ferrara. Oggi sono la «città metropolitana» e l’ex «locomotiva» a finire in ginocchio perché è definitivamente saltato il salvagente di scolmatori, consorzi di bonifica, manutenzione degli argini.
La verità è che, nel giorno dei morti, affiorano gli effetti del «sistema Galan» ereditato dal governatore leghista Luca Zaia. Ma anche le conseguenze dissennate dell’urbanistica che nei municipi accomuna berlusconiani, centrosinistra e Lega. Contano più gli «eletti» in combutta con gli immobiliaristi di qualsiasi evidenza da buon padre di famiglia. E’ l’alluvione dell’incuria, dell’interesse privato, della politica irresponsabile. Il modello veneto imperniato su Grandi Opere, project financing e sussidiarietà si è tradotto in un folle consumo del territorio a senso unico. Ed esattamente come il crac dell’economia era stato annunciato dai documenti ufficiali degli uffici di Bankitalia in piazza San Marco, anche la catastrofe «naturale» si poteva prevedere studiando un dossier di una trentina di pagine.
Pubblicato da Legambiente nel 2009, si intitola «Veneto: cancellare il paesaggio». Spiegava l’architetto Sergio Lironi: «Nel 2004, con la nuova legge regionale urbanistica, i Comuni autorizzano 38 milioni di metri cubi di nuovi capannoni commerciali e 18 milioni di volumetrie residenziali, superando la media di 40 milioni di nuovi fabbricati realizzati annualmente nel Veneto dal 2001 ad oggi». E Tiziano Tempesta del Dipartimento territorio e sistemi agroforestali dell’Università di Padova contabilizzava: «Le abitazioni costruite dal 2000 al 2004 sono in grado di alloggiare 600 mila nuovi abitanti. Anche se rimanessero costanti i tassi d’incremento demografico alimentati dagli immigrati, ci vorrebbero 15 anni per utilizzare tutte le case».
Insomma, era un mega-villaggio architettato snaturando le fondamenta. E’ già un immenso non luogo strangolato dal cemento. Sarà sempre più in balìa della natura violentata da ruspe, gru, betoniere? La politica partorisce quasi esclusivamente suggestioni: dalla candidatura alle Olimpiadi 2020 a nuove autostrade, ospedali, centri congressi fino alla gigantografia di Veneto City, la super-fiera delle vanità nella Riviera del Brenta. Nessuno (nemmeno i sindaci del Pd) si concentra sulla «normale manutenzione» del bene comune che si chiama territorio. Oltre l’indistinta melassa dell’ex miracolo economico, incombe l’urbanistica: l’immobiliare che si fa stato permanente degli affari, con la politica che appalta territorio e futuro. Finora nemmeno la «rivoluzione» della Lega di governo ha dimostrato di arginare la tendenza.
Le statistiche sono agghiaccianti. Proprio l’area centrale collassata in questi giorni rappresenta il 25,7% del territorio e accoglie il 50,7% della popolazione nel 47,2% delle abitazioni (ben 930 mila, di cui 80 mila senza inquilini). Nella sola provincia di Vicenza, feudo della Lega, in 50 anni la «macchia» urbanizzata è aumentata del 342%, con un incremento di popolazione limitato al 32%. Significa che i volumi urbani della città diffusa in ogni angolo sono passati da 8.647 ettari a oltre 28 mila: la cementificazione è quadruplicata.
E nella sola Padova con la giunta di centrosinistra del sindaco Flavio Zanonato si sono trasformati oltre 4,7 milioni di metri quadri di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione, delegando ai privati le nuove lottizzazioni in cambio di spezzatini verdi. Cinque anni fa in Regione sono state protocollate 1.276 varianti urbanistiche (più 220% rispetto alla media degli anni precedenti). Si appoggiavano a 389 piani di riqualificazione urbanistica e ambientale attuati nel biennio 2005-2006: la soluzione più semplice per costruire. Sempre e comunque. Anche a costo di veder tracimare torrenti fin dentro il «salotto» di Vicenza o il castello di Soave. L’autostrada a tre corsie chiusa è l’emblema del Veneto che annaspa. Nella sua stessa melma. E non sarà l’ultima volta…
Un disastro a chilometro zero
di Gianfranco Bettin
«Quando la natura si ribella, accade questo… è un indice di grande cambiamento climatico»: a parlare non è un militante ambientalista ma il governatore del Veneto, Luca Zaia, a commento dell’emergenza meteorologica e idraulica di queste drammatiche ore, da lui definita «peggiore che nel 1966». Paragoni storici a parte, Zaia ha ovviamente ragione: lo spettacolo che il Veneto e l’intero Nordest offrono in queste ore è quello di territori in rovinoso subbuglio, di centri abitati e di comunità sconvolte, in preda a un’emergenza che, puntualmente, si affida a Bertolaso (che svolazza in elicottero sopra città e campagne, planando di prefettura in prefettura) e alla proclamazione richiesta dello stato d’emergenza. Zaia invita ad affrontare i compiti urgenti del momento. E va bene, sul campo. Ma in sede di analisi bisogna dire che emergenza e normalità – ormai, nell’attuale situazione storica, consolidata, strutturale, di questi territori – sono tutt’uno anche quando non piove.
Quando piove, il disastro si vede meglio. Ma anche nei giorni di sole non si faticherebbe a vederlo. È su questo che Zaia si dovrebbe pronunciare. Non c’è in Italia un territorio che sia stato più stravolto di questo in un tempo più breve. Questa è la radice del «dissesto idro-geologico» che in queste ore echeggia di bocca in bocca e ad esso hanno posto mano innumerevoli protagonisti. Infatti, se vi sono catastrofi nate da responsabilità accentrate, come per il Vajont o come per la nascita e lo sviluppo di una Porto Marghera in piena laguna e in pieno centro abitato, per ridurre in questi stati un’intera vasta regione ci sono volute e ancora sono all’opera generazioni di amministratori irresponsabili, ignavi o incoscienti. Se escludiamo i consapevoli criminali che, qua e là, hanno svenduto la loro (la nostra) terra, tutti gli altri, spesso in modo desolantemente trasversale, hanno messo insieme una tale montagna di micro e macro atti, di delibere, di piani urbanistici, di sanatorie, di folli interventi sui corsi d’acqua, di infrastrutture, che sono la vera causa dell’attuale emergenza.
Certo, i cambiamenti climatici concorrono, come no. Era ora che lo dicesse un esponente importante, come Zaia è, dell’attuale maggioranza di governo, la più pervicace di tutto l’Occidente nel negare questa emergenza, guidata dal premier Berlusconi, che più vi ha irriso e meno l’ha affrontata. Ma il modo in cui il clima fuori di sesto si produce in un luogo dipende anche da come quel luogo è conciato. Per i dati Istat, tra 1978 e 1985 ogni anno nel Veneto sono stati edificati quasi 11 milioni di metri cubi di capannoni. Dal 1986 al 1993 sono stati oltre 18 milioni all’anno per poi salire negli anni successivi a oltre 20 milioni. Con un salto dal 2000: 27 milioni nel 2001, 38 nel 2002 e così via. Per le abitazioni, negli anni ’80 e ’90 venivano rilasciate concessioni edilizie pari a 9-10 milioni di metri cubi anno. Nel 2002 oltre 14, nel 2003 quasi 16, nel 2004 oltre 17.
In provincia di Padova in vent’anni la superficie agraria è diminuita del 20%, in quella di Treviso del 30%, in quella di Vicenza, ieri epicentro dell’emergenza, del 40%. E sopra questo territorio compulsivamente e affaristicamente cementificato e asfaltato, Prealpi e Alpi sono in abbandono, senza una politica che non fosse la droga turistica, aumentando il dissesto evidentissimo, nella sua interdipendenza, proprio in giorni come questi, quando l’acqua precipita irruenta a valle e in pianura.
Questo è il disastro, nella connessione con il clima che muta ma anche con quello che è stato fatto al territorio. Legioni d’amministratori – con i leghisti da tempo in prima fila – portano gravi responsabilità. Qui non c’entrano né Roma ladrona né gli invasori stranieri. È una colpa d.o.c., a chilometro zero.
http://www.eddyburg.it/article/articleview/16122/0/360/
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Commenti correlati al testo di bifo
“Tutti devono sapere che FB è una trappola” dello 02.11.2010 più sopra:
andati con il titolo “Lanier e simili”
da bvecchi@ilmanifesto.it per neurogreen@liste.comodino.org 01.11.2010
Perché Linux è poco diffuso? Domanda oziosa. La cosa importante di Linux e di tutto il software open e free è il suo carattere virale. Detto più semplicemente: tanto l’open che il free sono un software prodotto secondo logiche che non coincidono con quelle capitaliste. Non ci troviamo di fronte però a un modo di produzione alternativo o anticapitalista, ma semplicemente sono processi lavorativit che sperimentano un’organizzazione basata sulla collaborazione tra pari e con un coordinamento che prevede gerarchie fondate su carisma, merito, etc. Da questo punto di vista, la produttività individuale e collettivaè molto più alta di quanto riescono a fare in Microsoft. Ed è per questo che le imprese capitaliste guardano all’open e al free software con un misto di odio e di ammirazione. Odio, perché possono essere indicati
come contesti alieni alla logica del lavoro salariato; ammirazione, perché vorrebbero, i manager, importarlo nello loro imprese.
Sta in questa ambivalenza la politicità del pinguino. Un modo di organizzare la produzione nato in un contesto capitalista, ma che è difficile piegare integralmente a una logica capitalista. Siamo al venture communism come sostiene l’autore di un testo interessante, ma anche ingenuo (The Telekommunism Manifesto, networkcultures.org)? Oppure ci troviamo di fronte a un contesto che ci potrebbe consentire di parlare di come viene prodotto il software, dei meccanismi di sfruttamento che presiedono la vita on-line.
Rattus pone però anche un altro problema: dove è finita la netculture che, impregnata di attitudine cyberpunk, ha costituto un importante punto di svolta nel pensiero critico?
Se ci attestiamo ai sacri testi, a cui Rattus fa riferimento, tutto ciò che era previsione, capacità di prefigurare un futuro segnato dal digitale è semplicemente divenuto realtà. Da questo punto di vista, i sacri testi potrebbero essere consegnati alla critica roditrice dei topi. Diverso è il caso di attivisti, sviluppatori di software,
ricercatori che hanno lavorato per far diventare realtà ciò che altri avevano solamente ipotizzato.
In questo caso la netculture è semplicemente implosa. Il caso di Lanier è, da questo punto di vista, esemplare. La sua critica alla rete, la sua stigmatizzazione del potere omologante dei social network, la sua lettura sull’impoverimento cognitivo che la rete provoca è quanto di stucchevole e ideologico si possa leggere. Lanier propone di ripristinare il potere degli intermediari della conoscenza, coloro cioè che definiscono i confini e le modalità di accesso la sapere. Possono essere ricercatori, opinion maker, docenti universitari, lui stesso, poco importa. L’essenziale per Lanier è che siano loro a stabilire il giusto modo per usare la rete. Lanier e molti altri come lui è il portavoce che potremmo definire neoaristocratica o neoelitaria. Altro che migliore critica della rete. Le parti più inquietanti del libro di Lanier è la sua nostalgia per la vecchia, cara impresa con una gerarchia certa nella divisione tra chi decide e progetta e chi deve obbedire e dunque eseguire.
Possibile che non sono ammesse altre possibilità che quelle di essere apologeti della rete o chi ormai la considera il regno della stupidità, dell’ignoranza da cui praticare una veloce e per nulla ragionata fuga? Secondo me una terza possibilità è possibile e usa, prova ad usare un certo lessico, marxiano, per comprendere come l’open e il free software sono l’ultima frontiera della produzione capitalista; o che aiuta a ripercorrere quel viaggio della merce dal luogo della sua produzione alla sua circolazione e consumo, scoprendo che la differenza temporale e spaziale tra questi tre momenti è quasi cancellata, al punto tale che la distribuziobne è parte integrante della valorizzazione della merce, così come il consumo da fatto privato è diventato sociale, rendendo questo atto sociale momento dell’innovazione tanto del prodotto che del
processo produttivo.
Questa è per me la via di fuga dalle tendenza colonizzatrici della rete. Non per abbandonarla, ma per stare dentro e contro quel preciso momento
della vita in società.
L’implosione della netculture deriva proprio dalla rinuncia a discendere negli atelier della produzione, individuando, come fa Michael Bauwens,
nei social network una sorta di comunità libera; oppure considerando Google e Facebook, cioè i simboli dominanti del web 2.0, come l’espressione di una colonizzazione del pensiero, dei desideri, dei bisogni. Più realisticamente, occorre compiere quel movimento che afferma un altro punto di vista, rispetto a quelli dominanti.
Un saluto
Benedetto
–
Da wbario@tin.it per neurogreen@liste.comodino.org 02.11.2010
Caro Ben,
mi tocca di fare qualche puntualizzazione. La prima riguarda il post di Bifo. In origine si trattava di un articolo contro la censura all’interno
di Facebook. Già questo problema specifico si apre a una serie di considerazioni: per esempio quella che se facebook fosse stato progettato
in software libero si sarebbero sviluppati facilmente dei “cloni”. In altri termini il software diffuso liberamente sarebbe stato usato su server di
proprietà di società diverse. Questi cloni avrebbero indebolito il funzionamento generale del sistema, che sarebbe stato meno centralizzato e quindi meno efficiente, ma avrebbero permesso dei fork (delle scissioni) di carattere etico: se non mi piace come gestisci facebook, se sono contrario ai tuoi regolamenti, allora me ne vado su (poniamo) Casebook.
Così ad esempio l’intera concezione del web 2.0 e dei social network potrebbe assumere un significato del tutto diverso. Quando avevo tempo e
voglia di occuparmi della faccenda (fino all’inizio del 2007 circa) avevo dedicato una serie di interventi a LiveJournal, che era un dispositivo per la produzione di Blog con forti elementi di community building che era stato prodotto completamente in software libero (e quindi il suo codice era completamente a disposizione). Nessuna entità (dotata di un minimo di mezzi) in Italia decise di usare quel codice per fare un Livejournal italiano. Ma negli USA esistevano almeno dieci cloni di Livejournal.
A me Franco pare un tantino generico nel definire l’intero WEB 2.0 nei termini di Facebook. Ma il nocciolo delle sue osservazioni non riguarda esclusivamente la problematica del potere e della censura in un social network. Io sono dell’idea che intorno a 2003-2004 la sua visione dell’infotelematica si è trasformata. Mentre nel periodo precedente aveva oscillato con genialità “bipolare” dagli orrori alle meraviglie della rete, del multimedia, dell’ipertesto, da un certo punto in poi ha iniziato a
vedere soltanto l’aspetto distopico e negativo della faccenda. Non gliel’ho
mai detto esplicitamente ma non ho apprezzato questa svolta distopica. Non l’ho apprezzata a dispetto del fatto che mi trovo quasi sempre d’accordo sulle sue analisi inmateria di degrado delle sensibilità umanistica e delle risorse interpersonali ed emotive.
Nel libro di Jaron Lanier (che non ho letto) Bifo mi pare trovi degli argomenti che sono abbastanza in linea con questa sua visione distopica.
Direi che l’affermazione di Lanier secondo cui l’informazione è “esperienza alienata” è importante soprattutto se vista alla luce di un testo come “comunicazione post-simbolica” (dei primi anni ’90). In quel testo Lanier faceva l’ipotesi che con i dispositivi di realtà virtuale sarebbe stato
possibile fare a meno di “dirsi” le cose (di qui post-simbolico) perché sarebbe stato possibile scambiarsi l’esperienza stessa (con un sistema di
realtà vituale ideale). Ora – a distanza di vent’anni da quel testo – Lanier deve aver concluso che con l’evoluzione tecnologica delle reti è accaduto esattamente il contrario: non solo le cose ancora ce le diciamo, ma addirittura ce le “scriviamo”. Una regressione terribile rispetto alle sue ipotesi di partenza. E francamente su molti diquesti punti sono d’accordo con lui (e con Bifo).
Ma sono anche dell’idea che tu e Bifo abbiate letto con attenzione parti molto diverse di quel libro. Per cui tendo a pensare che abbiate entrambi ragione.
per tornare alla politicità di Linux, io sono d’accordo su quel che hai scritto sulla cooperazione e direi che qualche anno fa ho sostenuto tesi del tutto simili alle tue (per esempio su questo articolo che quelli di Megachip presero da RK
http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=1281)
Solo che vedo anche altre questioni. Per esempio il motivo per cui il libro di Ted Nelson non dovrebbe essere lasciato alla critica corrosiva dei topi non è da ricercarsi nell’attualità del suo lavoro, quanto nella “logica della scoperta tecnologica” che suggerisce.In realtà oggi il terzium datur tra apocalittici e integrati consiste nel sostenere che, in un certo senso, i giochi sono perfino più aperti di quanto non lo fossero ai tempi di Ted Nelson. C’è territorio apertissimo e
fecondo, un “potenziale” enorme e tuttavia ci sono restrizioni altrettanto grandi di natura politica, economica e culturale. Il paradosso di Jaron Lanier è nel fatto che la sua “tecnologia” quella r e a l t à v i r t u a l e che -contrariamente a quel che scrive Bifo – ha davvero poco a che fare con l’Internet, avrebbe oggi possibilità di sviluppo enormente superiori a quelle di vent’anni fa. Eppure vent’anni fa è stata all’origine di un movimento di pensiero, oggi non interessa più nessuno.
Tutto questo mi spinge anche ad alcuni ragionamenti un pochino più evoluti: la politicità del pinguino sta anche nella sua “accessibilità”. Se i codici di realtà virtuale che erano stati scritti ai tempi di Lanier fossero stati scritti in software libero probabilmente oggi qualcuno potrebbe farli girare alla grande sui PC potentissimi multiprocessore di ultima generazione.
Ma io credo di intendere la tua obiezione: “a che pro?”
Qui la questione si fa davvero molto sottile. Ho qui un testo di Feuerbach “Spiritualismo e Materialismo” (1868). La questione diventa come intendiamo il materialismo di Marx. So bene che non è un argomento di gran moda. A me sembra tuttavia che questioni come quelle poste dall’Intelligenza Artificiale sarebbero dovute entrare dalla porta principale nel dibattito filosofico dell’area postoperaista.In realtà pensatori come Virno o Piperno hanno ripreso l’argomento più volte, fin dai tempi di Luogo Comune. Però a mio modo di vedere la discussione, forse per la sua complessità, ha finito con lo scadere. Non ho apprezzato “Forme di Vita” e non ho apprezzato gli ultimi libri di Paolo Virno.
In area Rekombinant s’era vista una certa aggregazione spontanea su queste tematiche, grazie soprattutto al gran lavoro svolto da Bifo. C’erano indubbiamente differenze profonde. Pensa solo alla mia simpatia per Chomsky. Ma in molte occasioni s’è visto un dibattito di buon livello. In fondo non era così importante che si fosse d’accordo su tutto. Era importante che si mantenesse il focus su argomenti d’avanguardia, indipendentemente dal fatto che li si guardasse dal punto di vista
filosofico e/o da quello socio-estetico o da quello puramente tecnologico.
Resto dell’idea che la fine di Rekombinant, sotto questo profilo, sia stata una vera iattura (sebbene abbia fatto sospirare di sollievo gran parte dell’intellettualità di sx).
Mi sembra tuttavia che la carne al fuoco sia diventata davvero un po’ troppa. Per concludere: esistono migliaia di “politicità” diverse che sono riconducibili all’infotelematica. Se prendiamo tutte queste politicità (dalle regole di gestione di un social network alla distribuzione di un software, dal problema della “democrazia elettronica” a quelli della computer ethics) arriviamo a comprendere che spesso passano per il collo di bottiglia di un sistema operativo. Questo già ci fa capire che la
“politicità” del pinguino va ben oltre il fatto sicuramente importante – che GNU/Linux è anche un possente modello per “il lavoro implicito” o per la figura del “prosumer” nel capitalismo cognitivo.
Direi che perfino i discorsi sulla “colonizzazione del pensiero” avrebbero ben altro spessore se sapessero guardare alla filosofia della mente
contemporanea. Io a volte mi domando se, pensando alla muta antropologica di italietta, dobbiamo pensare alle “uova di serpente” di Bergman (come fanno Vendola e DeGregori) o piuttosto alla “mente modulare” di Jerry Fodor. Tu m’intendi. Il concetto di rappresentazione, il concetto di “credenza”, il concetto di “intenzione” non sono trattati soltanto, e genericamente, nella psicologia del marketing. Sono anche trattati nella filosofia della mente contemporanea, quella che si studia nelle facoltà di Scienze Cognitive e che ha tra i suoi profeti persone come Dan Sperder. Quella che tra molte perplessità ha comunque il coraggio di dirsi scientifica.
Cosa c’entra Linux ? Moltissimo. Basti pensare che quel Marvin Minsky, considerato forse il padre del termine “hacker”, e guru massimo dell’intelligenza artificiale, lavorava al MIT con software FreeBSD.
Parlare di Netkulture significa parlare di tutte queste cose insieme. E il pinguino è al centro della scena.
un caro saluto
Rattus
–
da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org ecc. –omissis-
da parte di Scribbe Re: Prigiornieri della rete. Ostili al web in nome dei
Mando questa mail da parte di scribble però visto che ancora non riesce a mandare i suoi messaggi, chiedo a Marco e a Emanuele di risolvere il problema. Grazie
E’ una risposta a quanto scritto da rattus e benedetto:
In Europa e in Italia si sta compiendo una colossale migrazione dei sistemiinformatici verso soluzioni Open Source, nei settori dell’industria,
dell’impresa e della Pubblica Amministrazione. Il software libero rispetto alsoftware proprietario ha il “vantaggio competitivo” di offrire un elevato
“Capitale Sociale” capace di integrare attivamente la “comunita’ degli utenti/consumatori” e soprattutto di fornire innovazione gratuita alle imprese.
Il Capitale e i suoi funzionari cercando una soluzione pragmatica alladrammatica questione del come si possano fare soldi da un “bene non rivale” sta creando un significativo trasferimento di valore da chi sviluppa software a chi eroga servizi: il denaro si fa basandosi non piu’ sulla vendita di unalicenza ma sulla fornitura di un servizio:
Quasi nessuna impresa o singolo e’ in grado di configurare, a seconda dellesue specifiche esigenze, la propria o le proprie macchine in modo autonomo e dunque, c’e’ e ci sara’ sempre bisogno di “consulenti esterni”, tecnici eaziende indipendenti che facciano questo tipo di lavoro. “Il vantaggio competitivo”, il valore aggiunto del “software libero”, il suo potenziale per rivoluzionare la produttività aziendale… e’ che esso non ha costi dilicenza-di uso del sistema operativo-programmi (infatti il software
libero e’prodotto dal lavoro collettivo per lo piu’ gratuito svolto da migliaia diprogrammatori-innovazione senza costi) e, inoltre un lavoratore di un impresache gia’ possiede buone conoscenze informatiche di base potra’ essereformato all’utilizzo dei nuovi programmi (per es. OpenOffice) con costiirrisori. Basta rendersi conto del fatto che il 95% dei microprocessoriprodotti nel mondo finiscono in settori produttivi diversi dall’industria deipc e delle tele-comunicazioni per capire l’importanza economica del software incorporato nelle merci (intorno ai mille miliardi di euro all’anno) di ognigenere e quanto per questo i bassi costi, la qualita’, la configurabilita’ just-in-time e la “modularita’ del software libero acquistino una centralita’ per le imprese del profitto.
Per non parlare del ruolo essenziale di questo tipo di software nel campo
dell’automazione del lavoro: calcolatori e computer che coordinano econtrollano le “isole di lavorazione” ( Fiat di Melfi docet); reti aziendali dicomputer comandano e regolo i processi produttivi…
Nelle industrie, ma non solo, ad es. Linux e’ assolutamente competitivorispetto a Windows per il semplice fatto che ha un carattere “modulare”: si puo’ lavorare ri-configurare alcuni segmenti di gestione dei processi senzainterferire o compromettere la “rete produttiva nel suo complesso”.
Il Capitale ha bisogno di innovazione diffusa a costo zero: essa produce”crescita economica” e il suo fondamento e’ “la comunita’ degli innovatori”
che l’impresa non paga e per cui comunque non avrebbe le risorse necessarie a pagarla-manternendola sistematicamente integrata al suo interno.
La “comunita’” produce innovazione come il software e l’impresa l’adattaai suoi scopi e in piu’ per dis-interesse favorisce l’incremento e la sperimentazione da parte della “comunita’” e si fa paladino dell’accessocollettivo e gratuito al “bene pubbilico software”.
L’open source e’ a tutti gli effetti uno strumento di crescita economica,di profitti, di cui le imprese si appropriano gratuitamente e pertanto non sono cosi’ idiote da volerne negare l’autonomia o desertificarne tutta la psicologia umana-individuale-collettiva, l’indipendenza e la gratificazione emotiva e motivazionale che rende cosi’ tanto produttive e innovative le comunita’ di sviluppatori-utenti del software-libero.
In piu’ se il “software” non e’ un “bene rivale” non c’e’ problema l’ingresso nel mondo del lavoro salariato e’ garantita: basta offrire, in
omaggio alla liberta’ e all’autonomia del sapere, non beni ma i servizi diassistenza remota e non, di consulenza specialistica.
Per l’impresa i vantaggi dell’adozione del software libero sono l’abbattimento dei costi di licenza del software e il poter concentrare i costi informatici solo sui servizi di installazione, su eventuali customizzazioni del software e sul supporto evolutivo del software stesso.
Ma i vantaggi non si limatano a questo. Lo sviluppo in base al modello OpenSource permette una correzione veloce ed approfondita dei “bug” dei programmi
dal momento che a questo lavorano gratuitamente le comunità che supportano i diversi “progetti software” e che spesso sono costituite da migliaia di sviluppatori-utenti sparsi per il pianeta. La possibilità di disporre del codice sorgente costituisce una ulteriore garanzia per l’azienda utilizzatrice, in quanto permette si adattare il codice alle reali esigenze dell’azienda ed evitare all’azienda di doversi vincolare eccessivamente al venditore del software.
L’open source”, finito il tempo delle utopie cyberspaziali, si e’ trasformato in una particolare modello di organizzazione del lavoro:
– le persone che compongono questa “unita’ produttiva virtuale” sono dislocate orizzontalmente e su uno stesso piano per cui si possono monitorare-cotrollare a vicenda, procurarsi incentivi “allineati e non contrastanti”.
– gli individui della “comunita’” inoltre hanno un forte senso etico nei confronti della comunita’ stessa in cui e di cui cercano di “massimizzare la reputazione”. All’interno della comunità spesso si sviluppa una buona reputazione che posso spendere nel mercato del lavoro…
– la sperimentazione e’ meno aleatoria ed incerta poiche’ i numerosi, o la moltitudine della comunita’simultaneamente prova diversi approcci per arrivare alla soluzione di uno stesso problema. “stabilita una base di collaboratori sufficientemente ampia, ogni problema verrà rapidamente
definito e qualcuno troverà la soluzione adeguata”.
– la comunità presta il proprio lavoro gratuitamente; l’azienda lavora per produrre profitto: Considerate l’azienda come una comunità Open Source in miniatura dove i diversi gruppi di lavoro si auto organizzano in comunità che condividono il proprio lavoro…Utilizzare software di collaboration per lo svolgimento di tutte le attività lavorative: instant messenger, email, wiki per il content management… in stile open:
<<- Predisporre sul sito intranet un’area per la libera condivisione dei documenti ponendo un moderatore alla supervisione dell’area. Il sistema di
content management dovrebbe essere in grado registrare il numero di richieste di prelevamento relative ai vari documenti disponibili. Il numero
complessivo di richieste costituirebbe un indice di gradimento e potrebbe essere convertitoin crediti spendibili secondo modalità predefinite (concorrere alla
definizione di premi di produzione, tradursi in benefit, ecc..)>>
Open Source Open for Business…
Negli ultimi anni si è molto sviluppato il mercato dei software ERP-“software gestionali” che sono programmi che permettono di controllare e registrare le
operazioni che si svolgono al interno dell’Impresa garantendo così “la tracciabilità di ogni elemento in qualsiasi momento” (merce o forza-lavoro). In questo settore i prodotti Open Source hanno raggiunto un’adeguata maturità così da permetterne l’implementazione all’ interno delle PMI a costo praticamente nullo. (le interfacce di controllo sono estremamente semplici da apprendere e da gestire: in Italia vedi Mosaico- la Whag Srl, produttore di Mosaico, come la maggior parte dei produttori Open Source, genera profitti dalla sua attività di consulenza per lo sviluppo e la personalizzazione del software in base alle esigenze del cliente).
Ma per la maggior parte delle PMI è sufficiente scaricare e installare il software per iniziare a lavorare. Nel caso si necessiti di personalizzazioni o sviluppo è possibile rivolgersi ai produttori ottenendo il necessario con un livello di assistenza superiore rispetto alle maggiori software house
(le quali faticano a offrire servizi personalizzati per le PMI proprio in virtù delle loro dimensioni).
La rivoluzione del “modello” open source e’ l’aumento a costo quasi nullo della produttività aziendale… Cooperazione = profitti. La cooperazione
“eterogenea e distribuita” del software libero abbatte i costi di ideazione/realizzazione progetto/ circolazione dell’informazione…circolazione delle merci /gestione magazzini e vendite…/ di piu’ lingue e piu’ valute…Sisa’ la riduzioni dei costi e l’aumento del profitto non si puo’ ottenere senza miglioramenti nella tecnologia e nel linguaggio che la fa girare…
Come diceva Marx le “armi” o le meglio le “risorse” per combattere il capitalismo vanno trovate nel capitalismo stesso, ma aggiungeva che e’ una
illusione di trovarle gia’ belle e fatte per questo scopo. Per dirla con Alquati, non tutte le azioni, le attivita’ piu’ o meno
combinate, sono per natura lotte e tantomeno antagoniste. Anche quelle “in rete” e nella “comunicazione” sono tali solo a certe condizioni e con certe caratteristiche.
Tanto piu’ che si puo’ lottare come “avanguardie del capitalismo” stesso contro le sue parti e forze moderate e arretrate: per accellerare l’innovazione e
spingere piu’ avanti il capitalismo, magari per rafforzarlo.
E questa riflessione non significa che si devono cercare risorse nello sviluppo.
C’e’ da chiedersi se davvero “la rete” per sua qualita’ e costituzione intrinseca sia davvero una forma di cooperazione o organizzazione
orizzontale, a-gerarchica. Una rete di nodi connessi contiene gia’ due livelli verticali: sopra quello della rete, sotto quello dei nodi. Una rete-di-reti ne contiene almeno tre: quello della meta-rete, quello della rete e quello dei nodi. ” Noi chiamiamo col telefono orizzontalmente qualsiasi fra milioni di numeri,
si, ma lo facciamo passando attraverso delle centraline (che stanno ad un livello gerarchico superiore rispetto a quello dei singoli telefoni) e attraverso piu’ livelli gerarchici di centraline. Certo ora questa soglia che fa scattare dei coordinatori soprastanti sembra essersi abbastanza ampliata
grazie a certe tecnologie, anche intelligenti. Tuttavia oltre una certa soglia ampliantesi, per allargare ulteriormente gli scambi, quand’anche interattivi e
bidirezionali, bisogna salire all’altro soprastante livello gerarchico e costituirlo se non c’e’.”
La “rete in se'” non garantisce che non ci si trovi al di sotto di un vertice che comanda.
Per dirla diversamente con le parole di A.L. Barabasi:
“Il cyberspazio incarna la piu’ alta liberta’ di parola. Qualcuno potra’ sentirsene offeso, altri potranno apprezzarlo, ma il contenuto di una pagina
web e’ difficile da censurare. Una volta lanciato in rete entra a disposizione di centinaia di migliaia di persone. Un diritto d’espressione cosi’
illimitato, con dei costi di pubblicazione cosi’ bassi, fa del web una grandissima manifestazione di democrazia. Tutte le voci hanno pari opportunita’ di
ascolto, o almeno cosi’ predicano tanto i costituzionalisti quanto le riviste di affari.
Se il Web fosse una rete casuale, potremmo anche essere d’accordo con loro. Ma non lo e’. Il risultato piu’ affascinante del nostro progetto di
mappatura fu la scoperta di una totale assenza, nel Web, di democrazia, equita’ e valori
egualitari.
Quando si considera il Web, la domanda fondamentale non e’ piu’ se le nostre opinioni possono venire pubblicate: certo che possono e, una volta online,
diventano accessibili a chiunque, in qualunque parte del mondo, con una semplice connessione internet. Di fronte alla giungla di documenti che si aggiungono minuto per minuto, la domanda cruviale e’ piuttosto la seguente: se lancio un’informazione in rete qualcuno la notera? Per essere letti bisogna essere visibili: una banale verita’ che vale tanto per gli scrittori quanto per gli scienziati.
Sul Web la misura della visibilita’ e’ il numero di link.”
Un Web casuale sarebbe il massimo veicolo di uguaglianza, perche’ secondo la teoria e il modello delle reti di Erdos-Renyi ai nodi, a tutti i nodi verrebbe garantito un elevato grado di somiglianza e tutti verrebbero dotati all’incirca
dello stesso numero di link dall’esterno. Purtroppo l’architettura del WWWeb e’ dominata da pochissimi nodi altamente connessi o Hub. Questi Hub, come ad es. Yahoo o Google o Amazon… sonoestremamente visibili: ovunque ci si sposti, si trova sempre un link puntato verso di loro. Nella rete del Web tutti i nodi poco conosciuti, scarsamentevisibili e dotati di un esiguo numero di link sono tenuti insieme da questisiti altamente connessi.
Gli Hub sono la piu’ netta smentita alla visione utopica di un cyberspazioegualitario. al loro confronto il resto della rete e’ praticamente invisibile.
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da mazzettatm@gmail.com per neurogreen@liste.comodino.org il 04.11.2010
secondo me, a questo punto della fiera, sarebbe il caso di concentrarsi sugli utenti, più che sul media e/o sulla tecnica
posta la natura di FB, ha più senso lamentarsene o sviluppare e diffondere strategie per venire a capo dei suoi indiscussi limiti?
quanti si rendono conto che quello che mettono su fb non è depositato in eterno in cassaforte e che può sparire ad ogni secondo per motivi imperscrutabili, che come muori nella vita, così puoi morire su Fb?
quanti degli iscritti a FB lo usano veramente?
l’uso degli strumenti è poco stereotipato, è influenzato da un numero di
variabili, differenze culturali e personali, che appare quasi infinito, tanto che l’unico vero e riconoscibile totem attorno al quale si raccoglie un robusto numero d’utenti (principalmente maschi) in rete è il porno, seguono videogame ed entertainment in generale, altre macro-categorie d’utenza aggregano numeri imbarazzanti, da sembrare micronews, approfondimenti e comunicazione sociale coprono una frazione quasi insignificante dell’attività in rete, per quanto iper-rappresentata ricorsivamente fino ad apparire addirittura pervasiva a chi vi s’immerge
credo che Lanier si sia bevuto il cervello perché incapace di distogliere lo sguardo dall’oggetto del suo ammmore, ma anche perché vittima di un simile webcentrismo, che peraltro ha ingannato e inganna molti
anche il numero di chi ha un account facebook è spropositato, ma gli utenti attivi sono una solo una frazione di questo e tra questi ci sono quasi tutti che animano tutti gli altri spazi in rete
sempre quelli, pochi, che usano molto la rete e molti di questi pochi ne approfittano per scopi quasi esclusivamente ludici o ricreativi
la coscienza del mezzo, delle sue potenzialità positive e negative, non è patrimonio diffuso, i discorsi diadaincosupertrafra la rete soffrono l’enfasi del pioniere entusiasta o dello scrivano sprezzante che vende la paura dell’ignoto
ci sono valanghe di polemiche e studi sul fenomeno del momento (ricordate Second Life? esiste ancora) e c’è il deserto su studio ed
educazione dell’utente, marketing a parte of course.la rete evolve, ma non tumultuosamente come s’attende chi è abituato ai tempi dell’elettronica e soprattutto non in maniera linearetanto più che ormai è chiaro che l’emergere dell’utenza mobile (mobaìl) ci consegna un futuro nel quale tutti saranno collegati alla rete con
uno smartfone e molti di meno si collegheranno con un pc, ma su quali conseguenze potrà avere sulla fisionomia di Internet questo nuovo assetto e su quali utenti ci consegnerà, si fatica a trovar riflessioni o studi che non siano quelli di chi guarda alla rete per monetizzare
eppure il futuro della la rete non potrà che plasmarsi anche e soprattutto su chi usa la rete, quelli che ora sono tutti netizen pionieri, tra i quali solo alcuni scrutano l’orizzonte della rete per indovinare cosa sarà domani, e soprattutto quelli che il domani della rete lo vivranno davvero
secondo me, se si vuole rintracciare una discreta approssimazione sul futuro della rete, bisogna mettere al centro della discussione l’utente e i suoi comportamenti, senza troppe aspirazioni didattiche e rifiutando decisamente l’idea (una colossale perdita di tempo) che sia da stabilire
un modo giusto di usare la rete o regole per trasformarla in una rete ideale, che tragicamente avrebbero appeal solo per quattro sfigat…ehm…
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Dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 04.11.2010
Le aperture
Il Corriere della Sera: “D’Alema convoca Berlusconi. ‘La sua sicurezza problema del Comitato sui servizi segreti’. Il Pdl: no a strumentalizzazioni. Forum delle famiglie: ‘imbarazzo’ per il premier”. A centro pagina: “La pentita accusa anche il San Raffaele”. Si tratta della inchiesta siciliana sulle escort, i festini nelle ville di Berlusconi in Sardegna e ad Arcore, e delle accuse che stavolta riguardano la fondazione San Raffaele di don Verzè, che avrebbe ricevuto finanziamenti attraverso la Commissione diritti umani del Senato. Sempre a centro pagina le elezioni Usa: “Obama dopo la sconfitta: colpa mia. Il presidente offre il dialogo ai repubblicani”.
La Repubblica: “Caso Ruby, il Copasir convoca Berlusconi: ‘Problemi di sicurezza’. Il forum delle famiglie: ‘Non venga, ci imbarazza’”. Il titolo più grande è per le elezioni Usa: “Obama sconfitto: colpa mia. Terremoto politico in America: trionfo del Tea Party, i democratici conservano il Senato. ‘Lavorerò con i repubblicani, ma non cambio linea’”. A centro pagina la “bufera” sulle “scelte bipartisan” al festival di Sanremo, dopo l’annuncio che dal palco del Teatro Ariston, verranno cantate Bella Ciao e Giovinezza. “Revisionismi canori” è il titolo del commento di Michele Serra.
Libero: “Silvio-Lega-Udc: si può fare”. Il quotidiano la definisce “reicetta per durare”, e spiega: “Per evitare il voto il presidente ha solo una strada: approvare subito il federalismo, convincere il senatur ad allearsi con Casini e promettere a Pier che sarà il suo erede”. A centro pagina, con foto di Nadia Macrì: “La escort che vuole in manette la corte di Arcore”.
Il Giornale: “I moralisti del bordello Italia. Promuovono la prostituzione, propagandano la pedofilia, predicano bene e razzolano malissimo. Ma se al premier scappa una battuta lo fanno a pezzi. Oppure, come certi cattolici, gli chiedono di aiutarli ma di non farsi vedere”. A centro pagina un ritratto di Nadia Macrì, “la escort che accusa il cav”: “Nadia? Una gran contaballe. Parla l’uomo che le faceva gestire il bar. ‘Del tutto inaffidabile'”. In prima pagina, oltre ai titoli sulle elezioni Usa, anche uno sulla politica interna: “Berlusconi è già pronto a fondare un nuovo partito”.
La Stampa: “Obama: è solo colpa mia. Il voto di Midterm premia i repubblicani. La Fed mette a disposizione 900 miliardi di dollari per rilanciare l’economia. Il presidente: è stata una bruciante sconfitta, sono pronto a trattare”. A centro pagina: “Sarà il secolo del martirio cristiano. I timori del mondo cattolico: c’è tanta rabbia in Medio Oriente”. Di spalla: “D’Alema convoca il premier su Ruby ‘Troppe visite, a rischio la sicurezza’”. E poi: “Altri due del Pdl a Fini. Forum famiglie: no a Berlusconi”.
Il Riformista: “La trappola 007”, “D’Alema chiede l’audizione di Berlusconi al Copasir”. Per il quotidiano il caso Ruby approda in Parlamento e il finiano Briguglio preannuncia: Gli faremo domande anche sui festini”. E poi “altri due parlamentari fuggono con Fini. Intanto il premier ‘imbarazza’ la conferenza sulla famiglia”. In alto una foto del sindaco di Firenze Matteo Renzi sotto il titolo “comprereste da quest’uomo un’auto rottamata?”. Sulle elezioni Usa: “The Washington Lost”.
Il Sole 24 Ore: “Obama: ‘Mortificato’. Casa Bianca: puntate sul business e lavoro. La Fed compra bond per 600 miliardi”. Il titolo più grande: “La sfida delle aziende globali. Per il rapporto Ice aumenta la presenza all’estero, ma è troppo bassa la capacità di attirare investimenti. Banca Mondiale: Italia in coda nella classifica ‘fare impresa’”. A centro pagina, con una grande foto, la notizia che Susanna Camusso è la prima donna segretario generale della Cgil.
Il Foglio: “Obama si difende: le idee restano buone, il problema sono i risultati. Il giorno dopo midterm. I democratici perdono la Camera ma tengono al Senato. Due senatori al Tea Party. Il presidente offre collaborazione”. Di spalla la politica interna: “Ecco l’operazione che il Cav ha in mente per legare Tremonti al Pdl. La vicepresidenza del partito è libera. Il ministro deve però garantire io denari per sbloccare le riforme. Gli effetti sul ‘sistema Letta’”.
L’Unità ha in prima pagina una grande foto per la neosegretaria Cgil Susanna Camusso, sotto il titolo “Oh, Susanna!”. Il quotidiano parla di “svolta storica” e sintetizza così le sue dichiarazioni: il governo? Prima lascia, meglio è. In taglio basso “Obama si prende le colpe: ‘Ora faremo di più'”. E poi: “D’Alema convoca il premier. Forum famiglie, da noi non venga”.
Usa
Il presidente Obama, racconta La Stampa, ha parlato ieri per un’ora dalla East Room della Casa Bianca. E fuori, sulla facciata della Camera di commercio, gli striscioni appesi recitavano: “J-O-B-S”, “posti di lavoro”. E’ il messaggio che racchiude la protesta di oltre 36 milioni di cittadini che hanno votato contro i democratici in segno di protesta per le scelte economiche dell’Amministrazione. Obama dice: “Mi assumo la responsabilità di queste umilianti perdite,perché in questi due anni non abbiamo fatto abbastanza progressi. Gli elettori che mi avevano votato si aspettavano risultati che non si sono concretizzati”, “ho provato dolore per la sconfitta di tanti eccellenti deputati e senatori, a volte chi ricopre il mio incarico ha difficoltà a mantenersi in contatto con la gente, è già successo a Reagan e Clinton, dopo due anni di Presidenza, essere puniti per come andava l’economia”. Fa riferimento alla disoccupazione: “Se oggi fosse al cinque o sei per cento la situazione sarebbe ben differente. Tende la mano ai leader repubblicani: serve responsabilità in entrambi i partiti. Nessuno ha il monopolio della saggezza, dobbiamo sederci in una stanza assieme e lavorare per risollevare l’America, per poter fare dei progressi entro il 2012”. Incalzato sulle concessioni che è disposto a fare, parla della sanità, la riforma a lui più cara, che il deputato Rep Boehner vuole smantellare: “Se i repubblicani suggeriscono delle modifiche positive, sarò felice di considerarle, a cominciare dalle norme percepite dalle piccole aziende come un ostacolo alla conduzione delle attività. Sui tagli fiscali di Bush, in scadenza a fine anno, ribadisce che intende rinnovarli per la classe media e aggiunge che “bisogna aiutare le imprese a investire” lasciando intendere di esser pronto a fare altrettanto per le aziende pronte ad assumere. Sulla spesa pubblica, ammette che “la gente è preoccupata dal deficit” e invita a “compiere assieme delle scelte su dove tagliare”. Il quotidiano interpella Michael Barone, del centro studi conservatore American Enterprise Institute, che dice: “Quello che è chiaro è che non può permettersi di ignorare i repubblicani, perché controllando la Camera controllano anche le Commissioni che gestiscono la spesa del governo: possono chiudergli il rubinetto e lasciarlo a secco”.
L’Unità intervista Benjamin Barber, già consigliere di Bill Clinton, secondo cui “quello che poteva fare, l’ha fatto nei primi due anni, e non è poco. Se la situazione economica migliorerà, come è probabile, nel 2012 sarà rieletto”. Per Barber si tratta di una reazione alla recessione che Obama ha ereditato da Bush e contro la quale non è riuscito a fare abbastanza: basta guardare ai dati della disoccupazione reale, che oscilla tra il 17 e il 20 per cento, e davanti ad una crisi economica così forte il Presidente ha potuto solo impedirne l’aggravamento. Parlando dei Tea Party, dice che hanno calvalcato rabbia e risentimento ma, in alcuni casi, “hanno spaventato i moderati, che avrebbero potuto votare repubblicano se si fossero presentati candidati più credibili”. E a tal proposito cita il Delaware e il Nevada. Per Barber i candidati Tea Party possono affermarsi nelle primarie, dove vota meno gente, o prevalere in qualche distretto alle parlamentari, ma una loro affermazione in massa è impossibile, sono una bolla destinata a sgonfiarsi.
La Repubblica intervista John Bolton, ex consigliere di Bush ed esponente di spicco dei neocon, secondo cui “come prima conseguenza, questa grande vittoria influenzerà l’agenda di Obama, che non potrà andare avanti secondo le linee sin qui seguite”. Sui Tea Party e il rapporto con i Repubblicani, su quanto si dovrà tener conto della loro ascesa, Bolton dice: “Il solo fatto che il tea Party abbia avvicinato alla politica e portato alle urne molta gente che prima non ci seguiva cambia sicuramente i rapporti di forza all’interno del GOP (Grand Old Party).
Elezioni Usa 2
Sul ruolo del probabile neospeaker dei Repubblicani John Boehner, una analisi del Corriere della Sera, secondo cui è ipotizzabile un “indietro tutta” dei Repubblicani su tasse e riforma sanitaria. Amministrare un trionfo straordinario, ma anche fragile, questo il dilemma dei repubblicani. Boehner sa che tra due anni dovranno sottomettersi di nuovo al giudizio degli elettori: dovrà negoziare con la Casa Bianca, ma senza concedere troppo; dovrà imporre la propria agenda ma senza paralizzare il Parlamento ed utilizzare le energie fresche dei Tea Party evitando di farsi trascinare “dall’entusiasmo di matricole che già parlano da rivoluzionari” quando dicono “siamo qui per abbattere il regime di Obama”. Boehner, ricorda Il Corriere, è un “reaganiano” ma anche un “pragmatico”, ex imprenditore prestato alla politica.
Per Il Sole 24 Ore il futuro leader della Camera Boehner è “all’attacco per abrogare la riforma sanitaria”. Cita le parole del leader repubblicano:”C’è stato un cambiamento di rotta in queste elezioni. Mi chiedo se il Presidente rispetterà il volere del popolo. Se lo farà saremo pronti a lavorare con lui. Ma il messaggio è chiaro. Si chiede una riduzione del ruolo del governo, un recupero del rapporto di fiducia con la gente, un aiuto per le piccole e medie imprese”. Sullo stesso quotidiano Claudio Gatti da New York ricorda che “sono stati sconfitti i candidati paperoni”. “Se c’è una categoria di candidati rep che ha perso, è proprio quella degli straricchi: Linda McMahon (regina del wrestling nel Connecticut al Senato) Meg Withman (ex ad di Ebay, battuta in California) CArly Fiorina (ex ad di Hewlett Packard, avversaria della senatrice uscente Barbara Boxer, California), Buffalo Carl Paladino, immobiliarista sconfitto nello Stato di New York, John Raese (magnate dell’acciaio e dell’asfalto, in corsa per un posto al Senato nella West Virginia).
Robert Reich, già ministro del lavoro di Clinton, a La Repubblica dice che l’economia e la disoccupazione hanno avuto un peso centrale nella vittoria repubblicana. Ma non vanno dimenticati errori come il bailout, il salvataggio di Wall Street dal fallimento, cui molti americani sono contrari: “Obama avrebbe dovuto imporre condizioni rigide alle banche, chiedere loro di limitare bonus e stipendi, di concedere prestiti alle piccole imprese, di consentire ai proprietari di case di riorganizzare i mutui e bloccare le lobby dei banchieri”.
Il Foglio: “Un film di Clint Eastwood, Gran Torino, dice due o tre cose interessanti sullo spirito dell’America. Primo: non c’è auto bella e solida come una Ford prodotta nel Midwest. Secondo: nessun governo sa difendere una famiglia meglio di un vecchio fucile. Terzo: persino i bifolchi del Michigan possono avere grandi ideali. Il successo dei Tea Party al voto di lunedì riporta le libertà dell’individuo – il principio di autodeterminazione nei rapporti tra Stato e cittadini – a al centro della vita americana. Non è un dato elettorale, ma culturale” Sul tema si esercitano Edward Lutwak, Antonio Donno, Marco Bassani, Nicola Rossi, Carlo Stagnaro.
Per Nicola Porro (Il Giornale) dai “libertari Usa” arriva “una lezione per l’Italia”: “Le elezioni sono state decise dai Tea Party, un movimento antitasse con forti connotazioni protezionistiche. E’ “la vittoria dei parvenu” snobbati. Per Porro ciò che importa è che lo spirito americano, nel momento della difficoltà economica, chiede meno Stato e non già più intervento. I Tea Party sono “un gigantesco schiaffo” all’establishment americano, non si ritrovano nel politicamente corretto dei liberal, e non sopportano le lobby e le grandi corporation dei Repubblicani. Un riferimento al Berlusconi del 1994.
La Stampa intervista l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato e riassume così il suo pensiero: “Obama ritorni a parlare al cuore degli americani”, “Solo la narrazione dei Tea Party è arrivata alla gente, ma è puro populismo”. Amato sottolinea che in questi anni di presidenza Obama c’è stato un fortissimo inasprimento idoelogico, sulla scia di quello dei tempi di Bush: “ma quando Bush aveva i conservatori più ideologizzati a gli evangelici a proprio favore, li includeva in una maggioranza rendendoli meno evidenti. Nel momento in cui invece le posizioni più estreme sono emerse come grida di un’opposizione, hanno finito per dare il tono generale all’opposizione”, anchge perché i media li ha amplificati. I Tea Party ci sono anche in Italia, con Beppe Grillo? “I Tea party sono un fenomeno schiettamente americano. Grillo un po’ somiglia, ma per ragioni che mi sfuggono viene collocato a sinistra”. Colpe di Obama: ha parlato “come fosse il presidentre della Brooking Institution”, “un modo narrativo freddo, da analista, in una parola non da uomo politico”. E così, ad esempio, “Gli interventi per l’industria dell’auto non sono arrivati all’opinione pubblica come aiuti per i lavoratori, per gli operai, ma come sostegno a Big Money”.
Politica
In che direzione si muove l’iniziativa del Comitato sui servizi segreti presieduto da D’Alema, che ha chiesto l’audizione del premier? Secondo il Corriere si indagherà sul controllo degli accessi nelle residenze presidenziali, sull’avvicendamento degli uomini che si occupano della tutela del premier, dei rapporti internazionali. Tra i membri del comitato si dà per scontato che Berlusconi non risponderà alla convocazione. L’invito a Berlusconi serve ad aprire l’istruttoria, e a fornire anche una “copertura” ai servizi segreti per ribadire che la credibilità dell’intelligence non può essere messa in discussione, soprattutto sul piano internazionale: prendendo spunto dalla smentita egiziana della notizia secondo cui Ruby era la nipote di Mubarak, si parlerà dei criteri di accesso a Palazzo Grazioli, a Villa Certosa e ad Arcore, tenendo conto che le prime due sono “sedi alternative di governo in situazioni di emergenza”. La questione si pose già nel 2009, quando il fotografo Zappadu immortalò ragazze ospiti della residenza in Sardegna e il premier ceco Topolanek nudo a bordo piscina. Si ripose, ai tempi della D’Addario, che registrò la voce del premier a palazzo Grazioli. Il senatore Pdl Quagliariello, intervistato, dice che la valutazione se farsi ascoltare e quando rimane al premier. Dice che la solidarietà che D’Alema ha dato ai carabinieri della scorta del premier è “inopportuna e offensiva”. E che ciò che si dice all’interno del comitato non dovrebbe uscire per vie ufficiali. Un criterio di prudenza impone al premier di aspettare, fino a che il Copasir non rientrerà nei suoi binari tradizionali, dice Quagliariello.
Sulla inchiesta di Milano sul caso Ruby, da registrare le parole del procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, che dice: “Noi perseguiamo reati, delle vicende private non ci interessiamo”, come riferito dal Corriere. E il procuratore ribadisce che il premier non è indagato.
Le pagine R2 Diario de La Repubblica sono dedicate al tema “abuso di potere”, ovvero “quando è l’istituzione a violare tutte le regole”. Gli ultimi casi che hanno coinvolto il premier – si legge sul quotidiano – sono uno degli aspetti della anomalia italiana, perché il superamento dei limiti da parte di chi governa mina la democrazia. Si cimentano sul tema Nadia Urbinati, Bill Emmot (ex direttore Economist, che sottolinea come in Gran Bretagna o nelle altre democrazie occidentali ci sarebbero state le dimissioni) e Aldo Schiavone.
In grande videnza su La Repubblica, un’intervista al cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, che viene interpellato esplicitamente sulle vicende di Berlusconi di questi giorni: “Il problema più grave -dice Tettamanzi- lo vivono i genitori che devono spiegare cosa sta succedendo ai propri figli, alle figlie che hanno la stessa età di quelòle che si vedopno in foto sui quotidiani in questi giorni”, “si parla tanto di valori, si brandisce questa parola come un programma e uno scudo. Ma poi ci si comporta ispirandosi a principi molto diversi”.
Sul Corriere si riferisce dell’incontro “teso” tra il segretario Pd Bersani e il sindaco di Firenze Renzi, che riunisce “i rottamatori” in una convention del fine settimana. Bersani non andrà a Firenze, per evitare fischi, secondo il Corriere. La Repubblica riassume così la posizione di Bersani: cita Boccaccio e il suo “paioti io fanciullo da dover essere uccellato?”. Ovvero, “non mi rottami, caro Renzi”. E’ stata una visita di cortesia, quella del sindaco di Firenze alla sede del Pd, che non ha mutato le distanze. Renzi: “Fa una gran fesseria a non venire a Firenze. A me comunque può tornare utile. La discussione sarà più libera”.
Alla riunione dei “rottamatori” dedica ampio spazio Il Riformista, come preannunciato anche in prima pagina (“Renzi pensa a ‘rottamare’. Provare a fare il sindaco?”, scrive, ad esempio, Roberto Morassut).
Il Riformista scrive che sull’inchiesta Why Not la Procura di Salerno ha smentito De Magistris, negando che vi sia stata una “guerra tra Procure”: per i magistrati salerninati il rifiuto dei colleghi catanzaresi a trasmettere gli atti del fascicolo non era finalizzato a difendere i giudici ‘complottisti’, ma sono a tutelare la posizione di altri personaggi mai indagati.
La Stampa offre ai lettori un colloqui con la neosegretaria Cgil Susanna Camusso: “Ora un’intesa con Cisl e Uil”, dice, spiegando di avere “una bozza da sottoporre a Bonanni e Angeletti sulla base degli accordi del ’93”.
E poi
Su La Stampa attenzione per la sopravvivenza dei cristiani in Medio Oriente. Mario Marazziti, portavoce della comunità di Sant’Egidio, dice: “c’è il pericolo che un mondo di convivenza sparisca”. “Il Medio Oriente si impoverisce anche se migliaia di cristiani immigrati (filippini, indiani) possono diventare la salvezza per le antiche chiese cristiane”.
Su Il Foglio, una lunga analisi sotto il titolo “Dopo duemila anni, Al Qaeda caccia i cristiani dal Medio Oriente?”. E sul tema si interpella il vescovo di Baghdad, monsignor Warduni, che dice: “Questo è il nostro Paese, qui siamo nati e qui vogliamo essere seppelliti”, “dobbiamo essere pronti anche alla croce”. E poi: “I terroristi qualche volta se lo dimenticano, ma noi siamo qui prima di loro, come fiori nel giardino dell’Iraq”.
Alla vigilia della visita del Papa in Spagna – racconta La Repubblica – nascono polemiche su come chiamare il monumento simbolo della città di Cordova: moschea o cattedrale? Il vescovo della città ha chiesto di definirla cattedrale, e chiede di eliminare dalle guide e segnali per i turisti i riferimenti all’Islam.
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Via dalla Cina: la manodopera costa troppo 26.10.2010
Lo ha deciso la Toray Industries, società giapponese.
Giappone. Se digitate “delocalizzare in Cina” su Google vi escono più di 8.000 risposte. In effetti è il “nuovo spettro che si aggira per l’Europa”, questa volta, però, rivolto ai lavoratori e non ai capitalisti. “Operaio: accetta i sacrifici, aumenta la produttività, perchè altrimenti chiudo e apro in Cina”. Questo il messaggio che hanno ormai chiaro in testa i lavoratori, non solo europei. Ma, ora non va più bene nemmeno la Cina.
E’ notizia di ieri, infatti, che la Toray, industria chimica giapponese, ha deciso di trasferire parte della sua produzione dalla Cina ad altro paese asiatico “perchè le spese per il personale sono cresciute improvvisamente”.
Yukihiro Sugimoto, vice presidente della società, ha spiegato che i costi di produzione sono aumentati rapidamente nella fascia costiera della Cina, a seguito della forte crescita economica e che quindi cercherà nuove basi di produzione in Thailandia o Indonesia.
Nello specifico, la produzione della fibra tessile sintetica, Heattech, vedrà calare la sua produzione in Cina dall’80% al 50% entro il 2015.
Come si dirà “delocalizzare” in cinese?
http://www.onli.it/home_ssol.php?site=1&n=articles&category_id=15&article_id=133525&l=it
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