di Jacopo Fo
Comuni che tagliano le spese triplicandole 27.02.2011
Alle porte di Bologna la Rossa, 9 comuni rossi hanno deciso che possono fare a meno dell’assistenza ai disabili e ai minori a rischio.
Quel che avviene oggi a Casalecchio e dintorni è la fotocopia di operazioni simili in molti comuni (di sinistra e di destra)… si privatizza per risparmiare e si chiudono i servizi. Trovo che questa sia una scelta sbagliata, che aumenterà i costi invece di diminuirli, e cerco ora di dimostrarlo facendo qualche conto.
Il problema di questi sindaci è tagliare 1 milione e settecentomila euro all’anno. Cosa fanno?
Innanzi tutto spendono più soldi. Un anno fa creano l’Azienda Speciale Consortile, Asc, quindi dal 2010 pagano nuovo dirigente e un nuovo Consiglio di Amministrazione, si affitta una sede, nuovi mobili, ci si carica di altre spese di gestione. Secondo alcuni lavoratori che ho interpellato si avvia una macchina che costa almeno 140 mila euro l’anno (difficile verificare i bilanci che, come al solito, sono nebulosi). Nel frattempo i vecchi dirigenti della Asl che si occupavano di questo settore non si sono vaporizzati ma sono ancora tutti alle dipendenze Asl…
Finisce il 2010 e si inizia a parlare di 15/20 operatori da licenziare (gente che prende 1.000 euro al mese). E così si arriva a chiudere un servizio che presta aiuto, tra l’altro, a circa 200 minori all’anno, oltre a un notevole numero di adulti in difficoltà e disabili.
Ora, bastano i conti della serva per capire che si tratta di darsi la zappa sui piedi.
Ma prima di fare questo semplice calcolo aritmetico vorrei dire che non stiamo parlando di un servizio sociale a caso. Stiamo discutendo di una delle migliori strutture d’Italia. Un gruppo di lavoro che funziona veramente. E’ una struttura che conosco da 20 anni. Una squadra che è riuscita a organizzare progetti straordinari, trovando autonomamente finanziamenti dell’Unione Europea e portando veramente i ragazzi che vivevano situazioni domestiche allucinanti, tra povertà e follia, a rifarsi una vita. Si sono occupati di curarli, di proteggerli, di formarli, di fargli fare esperienze eccellenti, dagli scambi culturali in tutta Europa ai seminari di arte e ecologia ad Alcatraz.
Parliamo del primo gruppo di operatori sociali che sia riuscito in Italia a creare una vera sinergia tra scuola, amministrazione pubblica e forze dell’ordine, arrivando a sviluppare un prevenzione del crimine e un controllo sociale del territorio grandiosi (incredibile ma vero, troppo spesso le istituzioni non dialogano, non condividono le informazioni e non agiscono in modo sinergico).
La domanda aritmetica è: quanto vale questo lavoro?
Difficile valutare quanto risparmio produca per la collettività uno scippo evitato o un ragazzo che non va a sbattere in moto. Quindi lasciamo perdere le implicazioni più generali del lavoro di assistenza sociale, che comunque ci sono e sono sostanziose… Conteggiamo solo le spese dirette del Comune.
Ad esempio, nel distretto di Casalecchio di Reno c’è il Comune di Meraviglia, di medie dimensioni: qui sono stati spesi circa 60.000 euro l’anno per interventi educativi di prevenzione sul territorio. In 10 anni 600.000 euro. Sono stati seguiti 15 minori l’anno. Negli ultimi 10 anni, 150 minori (4.000 €/anno). Negli ultimi 10 anni sono stati evitati almeno 12 allontanamenti di minori. La durata media di un collocamento in struttura è di tre anni, con un costo di 45.000 € /anno. Il Comune di Meraviglia non ha speso 1.620.000 euro.
Totale speso € 600.000
Rischio di spenderne € 1.620.000
Risparmio € 1.020.000
Lo stesso identico discorso lo potremmo fare per casi di aduti emarginati o per il settore disabilità: prevenire è più economico che curare. Un disabile lasciato a sé stesso e ai mezzi della sua famiglia, a volte già in difficoltà, avrà molte più probabilità di perdere autosufficienza o di essere abbandonato, e quindi finire a pesare totalmente sull’assistenza pubblica. Anche qui conviene prevenire l’acuirsi del disagio…
Questi discorsi sono comprovati da svariate ricerche. Ad esempio ho collaborato con una cooperativa sociale dell’area di Treviso che, confrontando i costi dei Comuni che investivano in assistenza ai disabili dando vita ad attività ricreative, culturali e di inserimento nel lavoro, spendevano realmente meno dei Comuni che si limitavano a fornire ricoveri nei casi che si aggravavano.
E solo pochi giorni fa, proprio sulla home del Fatto online, campeggiava un articolo di Luigi D’Elia e Nicola Piccinini che, sulla base di dati statistici inglesi, sosteneva il valore economico della prevenzione e dell’assistenza, anche per situazioni come la depressione e il disagio mentale: “in Gran Bretagna sono stati gli economisti a occuparsi di depressione: per una persona depressa, un anno senza sintomi costa – stimano gli economisti inglesi – 1000 euro di psicoterapia, ma fa guadagnare 8000 euro alla collettività per resa lavorativa. Psicoterapia, non farmaci. Psicoterapeuti, non antidepressivi…”.
Che dire: sono sufficienti le prove?
E adesso chi si occupa di fermare i tagli alla prevenzione nel distretto di Casalecchio di Reno? Perché Bersani lo deve spiegare come si fa a parlare di un progetto per riformare il Sistema Italia, razionalizzare la spesa pubblica e rilanciare l’economia, e al contempo agire raddoppiando i costi reali del disagio buttando a mare quello che nelle amministrazioni rosse funziona meglio.
Vizi privati e pubbliche virtù? Certo, il bunga bunga di Gheddafi è peggio, ma anche questo sbaracca sbaracca di sinistra mi fa girare i Santissimi…
Ps: Prima di tagliare i soldi per i disabili e i ragazzi a rischio, avete tagliato le spese per l’illuminazione pubblica e le caldaie? A Padova, con il professor Fauri dell’Università di Trento abbiamo tagliato un milione e mezzo di euro intervenendo solo su illuminazione pubblica e riscaldamento… Il Comune ha realizzato l’intervento senza sborsare un euro grazie al sistema delle società energetiche Esco (finanziamento risparmio per conto terzi).
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/02/27/comuni-che-tagliano-le-spese-triplicandole/94274/
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bilance commerciali, Blanchard, Emiliano Brancaccio, euro, Giavazzi, mezzogiornificazione, salari, standard salariale, unione monetaria
Uno “standard retributivo” per tenere unita l’Europa 02.03.2011
Emiliano Brancaccio
La crisi europea non è finita: la divergenza tra i costi del lavoro per unità prodotta sta alimentando squilibri potenzialmente letali per l’Unione monetaria. Occorre uno “standard retributivo” per ridurre lo sbilanciamento tra paesi in surplus e paesi in deficit commerciale. L’interesse generale all’unità europea coincide con gli interessi dei lavoratori, siano essi tedeschi, italiani o greci.
Sembrano lontani i tempi in cui Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi (2002) consideravano l’ampliamento degli squilibri commerciali tra paesi europei un sintomo virtuoso della maggiore integrazione finanziaria della zona euro. Da qualche anno la loro tesi appare superata, e va invece diffondendosi tra gli studiosi una chiave di lettura molto meno rassicurante degli sbilanciamenti nel commercio intra-europeo. Stando a questa interpretazione alternativa la crisi dell’unità europea non può banalmente derivare da finanze pubbliche fuori controllo ma sembra piuttosto essere associata a un problema di indebitamento complessivo, sia pubblico che privato, e in particolare a uno squilibrio nei rapporti di debito e credito tra i paesi membri dell’Unione. Più precisamente si ritiene che la crisi sia alimentata da una profonda asimmetria tra economie forti ed economie deboli dell’area, che determina surplus crescenti soprattutto per la Germania a fronte di deficit commerciali sistematici per i paesi “periferici” dell’Unione. Numerosi analisti iniziano in questo senso a temere che lo squilibrio tra paesi in surplus e paesi in deficit con l’estero possa rivelarsi un grave fattore di instabilità e una potenziale minaccia per la tenuta futura dell’Unione monetaria.[1] Persino il Consiglio e la Commissione europea, solitamente riluttanti sul tema, hanno iniziato a riconoscere che uno squilibrio eccessivo nei commerci intra-europei accresce l’instabilità e il rischio di nuove crisi.
Ma quali sono le cause degli squilibri commerciali interni alla zona euro? Per quale motivo la Germania continua ad accumulare surplus mentre Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna tendono sistematicamente al deficit nei conti con l’estero? Limitarsi ad affermare che i paesi “periferici” spendono troppo mentre la Germania spende troppo poco è tautologico. Più interessante ci sembra la tesi secondo cui gli attuali scompensi commerciali sarebbero almeno in parte da imputare ad una divergenza tra i costi del lavoro per unità prodotta dei vari paesi dell’Unione. E’ questa una interpretazione di cui si discute da tempo e che raccoglie il parere favorevole di svariati esperti. Di recente tuttavia Charles Wyplosz (2011) ha respinto con risolutezza questa spiegazione. L’economista del Graduate Institute di Ginevra riconosce che dal 1999 ad oggi in Germania i salari sono cresciuti pochissimo rispetto alla produttività, per cui il costo unitario del lavoro si è ridotto e la competitività è aumentata rispetto agli altri paesi. Egli però aggiunge che il cambiamento relativo dei costi unitari non ha quasi mai superato i dieci punti percentuali. Data la bassa elasticità delle bilance commerciali ai costi unitari, Wyplosz arriva a concludere che le variazioni di questi ultimi sono state troppo modeste per rientrare tra le determinanti principali degli squilibri intra-europei.
Wyplosz è uno dei massimi esperti in tema di unione monetaria. Le sue conclusioni dovrebbero quindi almeno in parte rassicurarci sulla tenuta futura della zona euro. In realtà esse non appaiono convincenti, per almeno due motivi. In primo luogo, se il problema consiste nel verificare la robustezza della zona euro di fronte alla eventualità di nuovi attacchi speculativi, allora si deve tener presente che gli operatori sui mercati finanziari elaborano le loro strategie anche alla luce degli andamenti attesi delle principali variabili economiche. In quest’ottica si dovrebbe quindi tener conto non solo degli squilibri commerciali già registrati ma anche dei fattori che possono concorrere ad accentuarli ulteriormente in futuro. Il grafico seguente offre in tal senso alcune indicazioni:
Fonte: Brancaccio (2008) su dati OECD
La figura mostra l’andamento effettivo dei costi monetari del lavoro per unità di prodotto dal 1999 al 2007, mentre per gli anni successivi descrive la loro proiezione lineare. Dal grafico si evince che se le linee di tendenza che hanno caratterizzato il primo decennio di vita della zona euro venissero confermate anche in futuro, la divaricazione tra i costi assumerebbe ben presto dimensioni eccezionali. In particolare, il costo unitario del lavoro in Germania diminuirebbe in termini assoluti a fronte di incrementi estremamente accentuati in Irlanda, Spagna, Italia, Grecia e Portogallo. In pochi anni la forbice tra i costi sarebbe dunque tale da generare divari di competitività senza precedenti. Essa potrebbe quindi condurre a quella che Krugman (1995) ha definito una “mezzogiornificazione” delle periferie europee, vale a dire desertificazioni produttive e migrazioni di massa dalle aree più deboli dell’Unione. Vi è chi reputa questa eventualità una conseguenza logica del processo di centralizzazione dei capitali europei in atto da tempo, e della connessa tendenza alla “egemonizzazione tedesca” dell’Europa. Se così fosse si tratterebbe di un processo altamente rischioso, che potrebbe a un certo punto pregiudicare la sopravvivenza stessa dell’attuale Unione monetaria.
Il secondo limite dell’analisi di Wyplosz verte sul fatto che egli esamina le divergenze tra i costi unitari guardando soltanto ai loro effetti sui prezzi relativi e quindi sulla competitività dei paesi della zona euro. Egli cioè trascura il fatto che i mutamenti nei costi monetari unitari possono avere implicazioni anche sui margini di profitto e quindi sulla distribuzione del reddito. Per esempio, se in Germania il costo monetario del lavoro per unità prodotta si riduce può accadere che le imprese tedesche decidano di ridurre i prezzi ma può anche darsi che scelgano di aumentare i margini. Ora, eventuali aumenti del margine di profitto modificano la distribuzione del reddito: la quota salari si riduce e la quota profitti aumenta. Di conseguenza, poiché la propensione al consumo sui salari è in genere molto più alta della propensione al consumo sui profitti,[2] lo spostamento distributivo a favore di questi ultimi provocherà in Germania un calo della domanda e delle importazioni e quindi un ulteriore aumento del surplus commerciale tedesco. Oltre al consueto effetto che passa per i prezzi e per la competitività esiste dunque un secondo effetto squilibrante che passa per la distribuzione e la domanda. Wyplosz e in generale gli economisti mainstream tendono a trascurare questo fenomeno aggiuntivo, eppure esso può risultare più potente di quello tradizionale.
Se dunque la causa degli squilibri intra-europei può essere almeno in parte rintracciata nella divaricazione tra i costi del lavoro per unità prodotta, si pone il problema di individuare un criterio per contrastare questa tendenza. Ma quale meccanismo potrebbe concretamente arrestare l’ampliamento della forbice tra i costi? Nelle trattative in corso sulla riforma del Patto di stabilità, alcune forze in seno al Consiglio europeo insistono affinché si affermi ancora una volta l’idea che il mercato, lasciato a sé stesso, sarebbe in grado di correggere spontaneamente gli squilibri. Nei documenti preparatori della riforma si trovano infatti varie esortazioni, rivolte ai paesi in deficit con l’estero, ad accrescere ulteriormente la flessibilità del mercato del lavoro e ad abolire gli ultimi scampoli di indicizzazione dei salari. In sostanza, si vorrebbe che il Consiglio sollecitasse i paesi tendenti al deficit commerciale ad abolire i residui lacci normativi e contrattuali che disciplinano i rapporti di lavoro e li esortasse per questa via a lanciarsi all’inseguimento della Germania nella corsa al ribasso dei costi. In effetti questa ennesima istigazione al dumping e alla deflazione salariale non costituisce una novità. Si tratta di una politica già ampiamente sperimentata in passato. A conti fatti, essa non sembra aver minimamente contribuito ad attenuare gli squilibri e questa volta potrebbe anche far piombare l’Europa in una nuova recessione.
Un’alternativa all’attuale linea di indirizzo del Consiglio tuttavia esiste. Potremmo definirla “standard salariale” o “standard retributivo europeo”. Lo “standard” opererebbe su due pilastri: 1) Tutti i paesi membri dell’Unione dovrebbero esser tenuti a garantire una crescita delle retribuzioni reali almeno uguale alla crescita della produttività del lavoro (la definizione di “retribuzioni reali” può essere estesa fino a includere beni e servizi collettivi garantiti dallo stato sociale); l’obiettivo è di interrompere la caduta ormai trentennale della quota salari in Europa[3] e di eliminare la tendenza recessiva che da essa consegue, vista la maggior propensione al consumo dei salari rispetto ai profitti;[4] 2) Al di sopra della crescita minima, lo “standard” legherebbe la crescita delle retribuzioni reali agli andamenti delle bilance commerciali, allo scopo di favorire il riequilibrio tra paesi in surplus e paesi in deficit con l’estero; in particolare, i paesi caratterizzati da surplus commerciale sistematico dovrebbero essere indotti ad accelerare la crescita delle retribuzioni rispetto alla crescita della produttività al fine di contribuire all’assorbimento degli avanzi con l’estero. In sostanza, il primo pilastro dello “standard” opera in chiave di redistribuzione sociale, il secondo pilastro agisce sul riequilibrio commerciale, ma entrambi sono orientati al rilancio complessivo della domanda e del reddito europei.[5] Infine, la cogenza: i paesi nei quali gli andamenti del rapporto tra retribuzioni reali e produttività fossero divergenti rispetto allo “standard” dovrebbero essere sottoposti a sanzioni analoghe a quelle previste dai Trattati europei nel caso di deficit pubblici “eccessivi”.
Da un punto di vista concettuale la proposta di “standard retributivo” segue la fondamentale lezione di Keynes secondo cui la crisi può essere scongiurata solo se il peso del riequilibrio commerciale viene spostato dalle spalle dei paesi debitori a quelle dei paesi creditori, attraverso una espansione della domanda da parte di questi ultimi anziché una contrazione da parte dei primi. La proposta dovrebbe inoltre esser concepita come tassello di un piano più generale, che miri finalmente all’attivazione di un motore “interno” dello sviluppo economico e sociale europeo. Infine, un aspetto politicamente interessante dello “standard” è che esso rivela che l’interesse generale alla unità europea coincide con gli interessi dei lavoratori, siano essi tedeschi, italiani o greci.[6] Lo “standard” riesce in tal senso a generare una potenziale convergenza di interessi tra lavoratori appartenenti a paesi diversi, nonostante la divergenza tra i rispettivi costi unitari del lavoro. Potremmo in questo senso definirlo un esempio concreto e non retorico di internazionalismo del lavoro.[7]
Naturalmente resta tutta da verificare la possibilità che a breve si riescano a smuovere le istituzioni dell’Unione nella direzione suggerita dallo “standard”. Un buon avvio potrebbe consistere in una ipotesi alternativa di riforma del Patto di Stabilità da parte dei partiti socialisti e delle sinistre europee. Si potrebbero inoltre rimodulare le iniziative sul salario minimo già avviate in seno al Parlamento europeo, al fine di renderle conformi alla logica generale dello “standard retributivo”. Ad ogni modo, quel che più conta, per il momento, è diffondere la consapevolezza che l’unità europea è minacciata anche da forze centrifughe che stanno ampliando a livelli potenzialmente insostenibili la forbice tra i costi unitari del lavoro. La pretesa di contrastare queste forze affidandosi alle consuete ricette liberiste potrebbe generare effetti contrari alle attese e danni irreparabili.[8]
Riferimenti bibliografici
Alesina, A., Perotti, R. (2010), Ricette sbagliate: più spesa in Germania,18 giugno.
Banca d’Italia (2010), I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2008, Supplemento al bollettino statistico, n. 8, 10 febbraio.
Blanchard, O., Giavazzi F. (2002), Current Account Deficits in the Euro Area: the End of the Feldstein-Horioka Puzzle?, Brookings Papers on Economic Activity, n. 2.
Brancaccio, E. (2008), Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista, Studi Economici, n. 96.
Giavazzi, F., Spaventa L. (2010), The European Commission’s proposals: Empty and useless, 14 October.
Brancaccio, E. (2010), L’afflato europeista alla prova dei dati, in Brancaccio E., La crisi del pensiero unico, 2° ed., Franco Angeli, Milano.
Graziani, A. (2002), The Euro: an Italian Perspective, International Review of Applied Economics, 16, 1.
Hein E., Vogel L. (2008), Distribution and growth reconsidered: empirical results for six OECD countries, Cambridge Journal of Economics, 32.
Krugman, P. (1995), Geografia e commercio internazionale, Garzanti (ed. orig. Geography and Trade 1991).
Stockhammer E., Onaran O., Ederer S. (2009), Functional income distribution and aggregate demand in the Euro area, Cambridge Journal of Economics, 33.
Wyplosz, C. (2011), Happy 2011?, 5 January.
[1] Tra i precursori di questa tesi, cfr. Graziani (2002).
[2] Per una stima delle elasticità dei consumi rispetto ai salari e ai profitti in sei paesi OECD cfr. Hein e Vogel (2008); per una stima delle elasticità in Europa cfr. Stockhammer (2009). Per l’Italia, si veda l’indagine campionaria della Banca d’Italia (2010) sui consumi delle famiglie nell’anno 2008.
[3] Dalla metà degli anni Settanta al 2007 i primi 12 paesi che fanno attualmente parte della Unione monetaria europea hanno visto diminuire complessivamente la quota salari di oltre 11 punti percentuali; nello stesso periodo la quota salari è diminuita in Germania di 16 punti percentuali, in Francia di 12 punti, in Italia di 7 punti (database AMECO).[4] Stockhammer (2009) stima che una riduzione annuale dell1% della quota salari è correlata in Europa con una riduzione dello 0,35% del Pil. Considerato che in un trentennio la quota salari europea è diminuita di oltre 11 punti percentuali, si può ritenere che l’effetto depressivo cumulato sul livello del Pil europea possa essersi avvicinato ai 10 punti percentuali.
[5] Riguardo al primo pilastro, si potrebbe anche fissare una crescita retributiva minima più modesta, consistente ad esempio nell’obiettivo di assicurare la costanza delle retribuzioni reali. In tal modo tuttavia si depotenzierebbe la funzione anti-recessiva dello “standard”, e ciò probabilmente avrebbe anche ripercussioni negative sull’obiettivo di riequilibrare le bilance commerciali.[6] I lavoratori tedeschi potrebbero esser particolarmente interessati allo “standard retributivo”. Questo è un punto di estremo rilievo, che evidenzia l’estrema opinabilità delle riflessioni politiche di Alesina e Perotti (2010), secondo i quali in Germania non vi sarebbe alcun interesse ad assecondare processi di convergenza basati sull’adozione di politiche espansive da parte dei paesi in surplus.
[7] Sulla necessità di individuare criteri per superare la contraddizione tra retorica europeista e fenomeni di divergenza tra le condizioni materiali di lavoratori appartenenti a paesi diversi, cfr. Brancaccio (2010).
[8] Così come rischia di generare effetti contrari alle attese il suggerimento di introdurre vincoli alla espansione del credito interno, recentemente avanzato da Giavazzi e Spaventa (2010). Nel loro intervento i due economisti esaminano due proposte di regolamento avanzate dalla Commissione UE nel settembre scorso. Essi giudicano il tentativo della Commissione di introdurre procedure di sanzionamento degli squilibri commerciali “un esercizio vuoto e inutile”, perché a loro avviso eccessivamente generico e quindi pressoché inapplicabile. Una valutazione così tranchant appare tuttavia infondata. Il problema della definizione di una procedura di correzione degli squilibri commerciali non è di ordine tecnico ma politico. Piuttosto, il vero limite del documento della Commissione verte sul fatto che esso rimane ancorato alla prassi di caricare il peso dell’aggiustamento sui paesi debitori. Ad ogni modo, sulla base della loro valutazione i due economisti propongono come alternativa l’introduzione di limiti alla espansione del credito interno. Ora, non vi è dubbio che il boom creditizio abbia fortemente accentuato gli squilibri e l’instabilità del quadro europeo. Giavazzi e Spaventa tuttavia non sembrano considerare il fatto che l’imposizione di limiti ai prestiti, presa isolatamente, avrebbe effetti recessivi tutt’altro che stabilizzanti. La loro proposta andrebbe allora quantomeno affiancata a misure espansive in grado di bilanciarla. Ma di questa necessità nel loro articolo non si fa cenno.
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Julian Assange, presto il film 03.03.2011
Steven Spielberg farà un film sulla sua storia e, dopo Lady Gaga e David Beckham, anche Il fondatore di WikiLeaks si è rivolto all’ufficio brevetti per avere il controllo sul proprio nome. Una mossa per racimolar soldi?
di Martina Pennisi
La vita di Julian Assange diventerà un film. Lo svela il britannico Guardian. Lo studio fondato da Steven Spielberg, la DreamWorks, ha acquistato di diritti del libro WikiLeaks: Inside Julian Assange’s War on Secrecy di David Leigh e Luke Harding, giornalisti dello stesso quotidiano. Si tratterà di un thriller investigativo che narrerà il periodo che va dalla nascita del rivoluzionario australiano alla creazione del sito più pericoloso degli ultimi anni, fino al rilascio dei 250mila documenti del Cablegate.
E, mentre viene annunciata la presenza di WikiLeaks fra i candidati all’assegnazione del Nobel per la Pace 2011 (insieme a Internet, in pole position per la seconda votla), il suo fondatore ha deciso di inoltrare le pratiche per registrare la sua identità all’ufficio britannico dei brevetti. Julian Assange potrebbe dunque diventare a inizio maggio un marchio registrato in Gran Bretagna, nonostante un tribunale londinese abbia di recente acconsentito alla richiesta di estradizione presentata dalle autorità di Stoccolma.
Il perché di questa decisione è presto detto: il nome di Assange è da mesi al centro di battaglie mediatiche, giudiziarie e politiche e viene correntemente utilizzato come alternativa a WikiLeaks, al concetto di informazione libera e antigovernativa. E spesso associato anche ad attività parallele e allo stesso tempo antitetiche a quella da lui fondata, come il portale Openleaks. Brevettarlo come marchio vuol dire avere controllo sullo stesso nel momento in cui viene utilizzato all’interno di articoli di giornale, discorsi pubblici e servizi d’intrattenimento.
Esempio eclatante dello sfruttamento dell’immagine dell’attivista di origine australiana è la vendita online di magliette e altri ammennicoli con le stampe del logo di WikiLeaks e del viso di Assange stesso. Roba da fare invidia a Lady Gaga e David Beckham, altri personaggi che hanno provveduto a mettere sottochiave la propria identità. Secondo il suo avvocato Mark Stephens, Assange non ha mai dato l’assenso alla vendita dei suddetti gadget e rivolgersi all’ufficio dei brevetti è un modo per tutelarsi da iniziative di questo genere. Essendo WikiLeaks con l’acqua alla gola in seguito ai blocchi delle società, come PayPal, che ne raccoglievano i finanziamenti, la registrazione del marchio potrebbe essere utilizzata anche a fini commerciali. Stephens ha respinto l’ipotesi rimarcando l’intento no profit della decisione, resta il fatto che un domani potrebbe diventare una risorsa da sfruttare in extrema ratio.
In generale, la rapidità con la quale i termini circolano in Rete sta rendendo la via dell’ufficio brevetti – sia esso britannico, statunitense o europeo – sempre più affollata.
Mark Zuckerberg, per esempio, si è messo in testa di appropriarsi della parola ” Face“, termine che più comune non si può, e Cupertino ha suscitato l’ira della concorrenza, Microsoft in primis, avendo acquistato il marchio “App Store“.
Blidare un termine che è o è in procinto di diventare sinonimo di un settore commerciale o di una corrente di pensiero grazie al tam tam online è indubbiamente un mossa furba e intelligente. Quanto più è ampia l’influenza del registro al quale ci si rivolge, Assange è partito con una marcia bassa limitando l’area d’azione alla Gran Bretagna, tanto è più probabile che l’azione incontri la reazione di realtà altrettanto agguerrite e interessate. Il tutto con un unico scopo comune: diventare irreplicabili in un universo che si moltiplica senza limiti apparenti.
http://daily.wired.it/news/cultura/julian-assange-marchio-registrato.html
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Una bacca ci sfamerà tutti? 03.03.2011
Grazie a una proteina, il frutto dei miracoli impedisce di percepire i sapori amari e aspri. Per lo chef Homaro Cantu, potrebbe in parte risolvere il problema della malnutrizione nel mondo
di Tiziana Moriconi
Immaginiamo di poter chiedere agli chef più famosi del mondo quale alimento, secondo la loro opinione, potrebbe ridurre la fame dei paesi in via di sviluppo. Carlo Cracco, uno dei nomi italiani più celebri, probabilmente vi risponderebbe “ gli insetti”. Homaro Cantu, invece, chef del ristorante di gastronomia molecolare Moto di Chicago, punterebbe invece su una bacca ( Synsepalum dulcificum o Richadella dulcifica). Chiamata, non a caso, frutto dei miracoli. Il perché, Cantu lo ha spiegato al pubblico del Ted durante un evento organizzato nella Windy City il 1 marzo (” The Future of Food“): trasforma i cibi sgradevoli, per esempio le erbe amare e selvatiche, in pietanze accettabili o addirittura gustose.
In effetti, la proprietà di questa bacca, simile al mirtillo rosso e nota da diverso tempo (è stata scoperta nel 1725 nell’Africa dell’Ovest ed è gettonatissima in Giappone), è quella di mutare i sapori amari e aspri in dolci. O, meglio, di impedire alle papille gustative di percepire i due gusti per un breve periodo di tempo (1-2 ore, o anche molto meno se si beve un bicchiere di acqua calda).
Il meccanismo di azione si deve a una glicoproteina, chiamata miracolina, che si lega ai recettori per l’aspro e l’amaro nella bocca e impedisce, di conseguenza, di sentire questi sapori. In pratica, si inganna il cervello, facendogli credere di mangiare una caramella quando, invece, si sta mettendo in bocca un limone. Questa proprietà, secondo Cantu, potrebbe spingere le persone a consumare del cibo difficilmente commestibile altrimenti.
Per dimostrarlo, insieme al suo chef pasticcere Ben Roche, il cuoco ha usato le bacche con il cactus e altre piante poco appetibili. Per esempio – come Cantu spiega anche in un’intervista a Wired.com – sembra che la Poa pratensis o erba fienarola (il nome dice tutto) prenda il sapore del dragoncello.
Ovviamente, la bacca potrebbe essere usata anche come dolcificante dalle persone diabetiche o da chi vuole ridurre il consumo di zuccheri per perdere peso: “ Metti del succo di limone nella soda e avrai la Sprite più buona del mondo”, dice lo chef. Che ha usato la miracolina anche per nascondere il sapore metallico che i pazienti sottoposti a chemioterapia avvertono nei cibi (l’esperimento è stato condotto nella Mayo Clinic, in Florida). In questo caso, la glicoproteina sembra lavorare diversamente, riportando semplicemente i cibi al loro vero sapore.
Come è ovvio, c’è chi è molto scettico sulla possibilità di risolvere il problema della fame nel mondo in questo modo. Per vari motivi, non secondario quello dei costi legati alla produzione in massa di miracolina in pastiglie. Ai suoi detrattori, Cantu risponde che da una sola bacca si ottengono 16 tavolette di integratori, e che è possibile insegnare al mondo come cucinare le erbe cattive. Anche con l’aiuto del Web, dove una mappa interattiva potrebbe mostrare le aree in cui crescono le piante commestibili.
Vero è che il cibo potrebbe presto cominciare a scarseggiare anche dove oggi la sottonutrizione non è un problema diffuso.
Per convincerci della loro idea, i due chef del Moto stanno lavorando a un libro di cucina sul frutto dei miracoli, che dovrebbe essere pronto per il prossimo Natale. Sembra difficile, però, che riuscirà a sciogliere tutti i dubbi sull’efficacia di una bacca contro un problema così complesso come la malnutrizione.
http://daily.wired.it/news/scienza/miracle-berry.html
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Russia: cartelli della droga dietro le rivolte del Maghreb
Fonte: Notiziario Aduc 03/03/2011
Pur provocate dalla poverta’ diffusa e dalle grandi disparita’ sociali, le rivoluzioni in Maghreb non avrebbero avuto luogo senza la miccia accesa dai potenti cartelli della droga, ormai fortemente radicati nel nord Africa. Ne e’ convinto Victor Ivanov, direttore del servizio federale russo per il controllo sul traffico di stupefacenti, che in una conferenza nell’ambasciata russa a Roma, dedicata alla collaborazione italo-russa nella lotta alla droga, ha delineato uno scenario a dir poco preoccupante.
L’Africa e’ divenuta territorio di transito di tre grandi rotte degli stupefacenti: la cocaina dall’America latina, l’eroina dall’Afghanistan e l’hashish dall’Africa nera. Una grande circolazione di droga destinata a rifornire soprattutto il mercato europeo. “La crescita di questi traffici – ha spiegato Ivanov – ha aumento il numero di armi presenti sul territorio africano e ha favorito la formazione di gruppi paramilitari”. Oltre, naturalmente, a far affluire grandi risorse di danaro e, particolare non irrilevante, a favorire la diffusione di mezzi di comunicazione assai sofisticati, necessari per gestire i traffici. “Tutto cio’ – ha fatto notare il direttore del servizio federale russo per il controllo sul traffico di stupefacenti – ha aumentato il potenziale esplosivo della regione”, divenuta “un mucchio di legna pronta ad infiammarsi con un solo fiammifero”. Questa situazione e’ stata sfruttata dai cartelli della droga che, dunque, hanno avuto “un ruolo non trascurabile nella destabilizzazione” del nord Africa. D’altra parte, ha evidenziato Ivanov, “se guardiamo alla catena dei colpi di Stato avvenuti negli ultimi anni in Africa, essa coincide esattamente con le rotte della droga”.
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La rassegna http://www.caffeeuropa.it/ del 04.03.2011
Le aperture
La Repubblica: “Libia, ultimatum di Obama. I fedelissimi del Colonnello al contrattacco: battaglia per i pozzi di petrolio. L’Aja indaga sui crimini contro l’umanità”. “‘Via Gheddafi, pronti a usare la forza’. L’Europa blocca i beni del rais”. Sulla politica interna: “Giustizia, corsa al salva premier, lite sul federalismo”. A centro pagina una notizia di cronaca da Roma: “Violentata in caserma dai carabinieri. Roma, una donna arrestata per furto denuncia lo stupro. La Procura apre una inchiesta”.
La Stampa: “Obama: rovesciate Gheddafi. L’Ue vara il blocco dei beni. Parte il ponte aereo e navale italiano: anche traghetti privati in soccorso di chi scappa. Appello ai militari libici. Il Colonnello bombarda le zone petrolifere”. Nella parte alta della prima pagina la politica interna: “Il governo dice no all’election day”. L’opposizione protesta: “Buttati 300 milioni”. “Niente accorpamento con il referendum”. E poi: “Prescrizione breve, proposta del Pdl scatena il caos. ‘Io non ne sapevo niente’. Il premier sconfesa l’iniziativa di un deputato della maggioranza. Ghedini: va ritirata subito. Alfano: non la sostengo”.
Il Foglio: Chavez offre a Gheddafi la chance si allentare la stretta dell’occidente. Il presidente venezuelano vuole mediare la crisi in Libia. Obama replica che il rais ‘deve andarsene'”. Di spalla, la politica interna: “Così il Pd non chiude, anzi rilancia, sugli stati generali dell’economia. ‘Se il premier non convoca le parti sociali lo facciamo noi’, dice il partito di Bersani. Fassina e il ‘Pnr ombra’”:
Europa: “Paura che Gheddafgi vinca. Interviene l’amico Chavez. Ancora scontri intorno a Brega. Inglesi e francesi più determinati all’intervento. L’Italia fa qualcosa solo in Tunisia, da Napolitano il Consiglio di sifesa”. A centro pagina la notizia dello sciopero generale convocato dalla Cgil: “La Cgil accontenta la Fiom, sciopero generale a maggio”.
L’Unità: “Ha paura degli italiani”, in riferimento alla scelta del governo di non accorpare le date di amministrative e referendum: “Gettati 350 milioni. Il premier teme il voto assieme ad amministrative”. In taglio basso, una foto di Susanna Camusso: Cgil: affossano il Paese. Il 6 maggio sciopero generale”. E poi: “Donne, il Pd accusa: cancellati dal governo diritti e legge”.
Il Riformista: “Un decreto per le poltrone. Il Cav vuole aumentare i posti al governo per saziare l’appetito dei ‘responsabili'”. “Si pensa ad un provvedimento per moltiplicare i sottosegretari”, spiega il quotidiano.
Il Corriere della Sera: “Tassi più alti contro l’inflazione. La previsione del presidente della banca europea. L’America teme lo choc petrolifero. Benzina oltre 1,6”. “La Bce pronta ad aumentare il costo del denaro in aprile”. A centro pagina: “Giallo sulla prescrizione breve. Federalismo: no delle Regioni”. E poi: “Proposta sulla giustizia del Pdl Vitali. Berlusconi: non ne so nulla”. L’editoriale, firmato da Francesco Giavazzi, si sofferma sui problemi dell’economia italiana: “Il reddito degli italiani. Più coraggio per crescere”. Giavazzi si dice convinto che per far ripartire la crescita non serva una imposta patrimoniale straordinaria, e critica anche la proposta di riformare la costituzione . E propone invece due “microinterventi” che “favoriscano la concorrenza” per abbattere rendite e protezioni”.
Il Sole 24 Ore: “La Bce pronta ad aumentare i tassi. Trichet: possibile stretta in aprile per fermare l’inflazione da shock petrolifero. L’indice Fao dei prezzi alimentari ai massimi storici. L’Euro sfiora 1,40. Il Brasile aumenta il costo del denaro di mezzo punto”. A centro pagina, con la foto di una nave da guerra Usa: “Obama minaccia Gheddafi con l’opzione militare”.
A centro pagina: “Governatori contro Calderoli sul patto per il federalismo”.
Da segnalare in prima pagina un articolo firmato da Gianni Letta: “Quei ragazzi caduti per una certa idea di pace”, dove si parla di un Memoriale ai caduti di pace.
Il Giornale: “Affittopoli: nuovi elenchi vip”, “Il figlio dell’ex ministro Visco, sedi e uffici del Pd, grandi alberghi: ecco tutti i nomi”. A centro pagina una foto del governatore della Puglia Vendola: ”
Libero: “Questo signore è un pataccaro”, con foto di Pierluigi Bersani. Si parla della raccolta firme del Pd per “cacciare Berlusconi”, che secondo il quotidiano di Belpietro avrebbe raggiunto “al massimo” un milione di firme. In prima anche un articolo di Vittorio Feltri su Fini, che “h aperso il partito e cerca lavoro in tv”. Si parla della sua apparizione ieri a Porta a Porta.
Esteri
La corrispondenza da New York de La Stampa spiega che ieri il presidente Obama ha lanciato un monito ai militari libici che sostengono Gheddafi, con queste parole: “Chi commette violenze contro la popolazione civile ne sarà responsabile. Sappiate che la storia si sta muovendo contro il Colonnello”. E ancora, parole di Obama: “La violenza deve avere fine, Gheddafi è del tutto delegittimato e se ne deve andare”. Obama parla in prima persona, anziché riferirsi, come era stato in precedenza, ai contenuti di una conversazione telefonica con la Merkel, per esercitare una forte pressione verso coloro che stanno consentendo a Gheddafi di resistere. Significa, secondo La Stampa, che restare con il Colonnello potrebbe comportare l’incriminazione da parte del tribunale internazionale, mentre abbandonarlo avrebbe il senso di seguire l’esempio dei militari egiziani, cui Obama si è riferito citandone “la capacità di portare a termine la svolta” del dopo Mubarak. Le analisi di intelligence avrebbero sottolineato crepe presenti nella cerchia di collaboratori del Colonnello. La Casa Bianca punta quindi ad accentuarle. Questa sarebbe la “dottrina Obama” sulle rivolte arabe. Esemplificata dalle sue parole: “In Egitto abbiamo accompagnato il cambiamento senza intromissioni, e il risultato è stato l’assenza di antiamericanismo tra i manifestanti”. Ciò nonostante Obama ha parlato di una “totale capacità di intervento” sulla situazione in Libia, ricordando che la presenza di navi e marines al largo delle coste libiche servono per “poter intervenire rapidamente e se necessario” in caso di “carenza di cibo a Tripoli, con Gheddafi chiuso nel bunker” o di “gravi violenze contro i civili”. Incalzato dai cronisti, non esclude l’ipotesi di una no-fly zone, ma sottolinea che la priorità per gli Usa sono le “operazioni umanitarie”. L’agenzia federale per gli aiuti internazionali, Usaid, creerà postazioni lungo i confini, dove si stanno concentrando milioni di persone in fuga. Parallelamente la segretaria di Stato Hillary Clinton atterava l’attenzione sull’Iran, affermando che “sta tentando di approfittare le riforme arabe, per mettere piede in Egitto, Yemen e Bahrein”.
Una lunga analisi di Bernardo Valli, su La Repubblica, sottolinea quanto sia indispensabile una presenza araba in una eventuale azione umanitaria con impegno militare. Indispensabile sarebbe una concertazione con la Lega Araba, che ha appena espulso il Colonnello Gheddafi, ma al tempo stesso ha condannato ogni intervento straniero. Gheddafi è screditato da tempo agli occhi delle altre capitali arabe, e non a caso ad esprimergli solidarietà in questi giorni sono stati leader lontani, come Ortega, Castro, Chavez. Il destino del Colonnello non sta a cuore ufficialmente a nessuno, né nel Maghreb né nel Mashreq e nell’oriente arabo. Ma gli avvenimenti libici “tolgono il sonno” ai rais e ai monarchi sopravvissuti alle rivolte. E nei Paesi limitrofi all’Arabia saudita si teme un rafforzamento della potenza dell’Iran (dove pure il vento della protesta è arrivato, e subito represso nel sangue). L’Iran ha intensificato inflitrazioni nei Paesi che circondano l’Arabia Saudita: rivolte sono in corso nello Yemen, nell’Oman e – soprattutto – nel Bahrein – dove la maggioranza sciita chiede di essere riconosciuta come tale dalla monarchia sunnita. E rischia di trascinare nella protesta la minoranza sciita in Arabia Saudita: minoranza di notevole importanza perché popola le regioni petrolifere.
“Le cinque scintille che hanno acceso il Maghreb” è il titolo di una lunga analisi pubblicata da Repubblica e firmata da Thomas Friedman, che è stato di recente in Egitto. Dove si spiega, tra l’altro, quanta importanza abbia avuto l’elezione di un afro-americano alla presidenza Usa, peraltro dotato di un secondo nome come Hussein. Ma anche che lo stesso Google Earth ha contribuito al cambiamento del clima politico: Friedman fa l’esempio del Bahrein, dove vi è una distribuzione di terra e territorio più che iniqua, che costringe migliaia di sciiti, in maggioranza poveri, a vivere strizzati insieme in aree ristrette e densamente popolate, mentre, ad esempio, la famiglia regnante, sunnita, conserva per sé tutto il resto del Paese. Né meno importanti sono state le notizie, diffuse peraltro da Al Jazeera, sulle condanne che ci sono state nel vicino Israele nei confronti dell’ex premier Olmert (corruzione), dell’ex presidente Katsav (violenza sessuale) e via di seguito: “Quando vivi accanto a un Paese dove i potenti corrotti finiscono in tribunale, e vivi in un Paese dove molti dei potenti sono corrotti, finisci per accorgertene”.
A pagina 2 del Sole 24 Ore una lunga analisi rilancia l’allarme della Fao per i prezzi del cibo. Il caro petrolio ha rilanciato la convenienza dei biocarburanti ed ha rafforzato la domanda. Solo il riso, alimento base per oltre la metà della popolazione mondiale, resta stabile. E probabilmente è il prodotto che oggi ci separa da una crisi alimentare come quella del 2008, come spiega un senior economist della Fao, Abassian. I prezzi degli alimentari hanno avuto una impennata a febbraio (+ 2,2 per cento), ovvero un livello più alto di quello del 2008.
Ieri il presidente Sarkozy, in visita ad una chiesa dell’Alta Loira, ha dichiarato che “la cristianità ci ha lasciato una civiltà magnifica, una eredità che è un obbligo, una fortuna, e che dobbiamo trasmettere alle nuove generazioni e dobbiamo assumere senza complessi e senza pudori”. A raccontarlo è Europa, ricordando come prosegua il dibattito sul ruolo dell’islam, l’identità e la laicità in Francia, voluto dallo stesso Sarkozy. Ma il quotidiano sottolinea le defezioni o i dubbi sollevati all’interno della stessa maggioranza del presidente: dal neoministro degli esteri Juppe al primo ministro Fillon, che ha detto: “Se il dibattito dovesse essere focalizzato esclusivamente sull’Islam, e se dovesse condurre alla stigmatizzazione dei musulmani, allora mi opporrei”.
Sulla prima pagina de La Repubblica un rimando all’inserto R2, dedicato alla nuova parola d’ordine dei vertici di Pechino, che si traduce in un invito a spendere. Ecco perché il quotidiano titola: “Il partito consumista cinese”.
Si apre infatti domani l’assemblea nazionale del Popolo, sessione annuale del Parlamento cinese che – secondo La Repubblica – darà il via alla più impressionante riforma economica del nostro tempo, destinata a cambiare il volto della Cina, ma non solo il suo. La svolta dovrà convincere i cinesi a non nascondere più i soldi sotto il materasso, ma a investirli in quelle che fino a ieri erano definite “depravazioni borghesi”, ovvero i consumi. E’ partita la propaganda di Stato, e la Cina ha ordinato ai suoi funzionari di smettere di costruire viadotti e sgomberare contadini, per dare invece “gioia alla gente”. Necessario sarà aumentare gli stipendi, abbassare le tasse sui redditi medi e bassi, creare una rete di welfare che consenta alla popolazione di non risparmiare tutta la vita.
Il Sole 24 Ore racconta anche che, in vista del congresso, c’è stato un ennesimo giro di vite sui dissidenti, anche perché è stata convocata via Internet una manifestazione di protesta nelle ultime due domeniche di febbraio, rievocando esplicitamente le rivolte nel mondo arabo. Dallo stesso quotidiano segnaliamo un aggiornamento sulla situazione in Egitto, dove il premier scelto da Mubarak poco prima di uscire di scena ha lasciato l’incarico, su sollecitazione dei militari. Il movimento 6 aprile non aveva mai smesso di contestarlo. E’ stato sostituito da un ex ministro dei trasporti, Sharaf: i manifestanti vorrebbero che si recasse a giurare in piazza Tahrir. E in basso, sulla stessa pagina, l’allarme che sale dal Marocco, dove i manifestanti chiedono riforme.
Giustizia
Il Corriere della Sera parla di un “giallo” nel Pdl sulla prescrizione breve, e spiega che lunedì scorso il deputato Luigi Vitali ha presentato una proposta di legge che mira ad agevolare la posizione degli imputati ultra 65enni o incensurati. Verrebbero loro assicurate le attenuanti generiche, con tutti i benefici del caso, anche ai fini della prescrizione più breve del reato. Per i critici è una proposta che si attaglia perfettamente al premier. La proposta prevede anche “l’inutilizzabilità degli atti di indagine” se i pm ritardano l’iscrizione nel registro degli indagati rispetto al momento in cui il nome dell’indagato stesso è pervenuto a conoscenza della procura. Anche qui la proposta sembra fatta su misura per affrontare il caso Ruby, come più volte sottolineato dai difensori del premier: la telefonata alla questura di Milano da cui è partito il caso Ruby risale infatti al 27 maggio, mentre l’iscrizione sul registro degli indagati per Berlusconi è del 21 dicembre. Cronologia che ha permesso poi alla procura di chiedere il rito immediato per Berlusconi nei termini previsti, ovvero al massimo 90 giorni dalla data di iscrizione. Il testo del deputato Vitali prevede anche aumenti di pena per l’abuso di ufficio commesso dai magistrati, garanzie più solide per evitare la custodia cautelare facile, l’estensione della durata dei termini a difesa, e competenze più ampie per la corte d’assise che giudicherà anche reati contro la pubblica amministrazione e reati in cui, a vario titolo, sono coinvolti magistrati. Ma tanto il Corriere che La Repubblica sottolineano quanto il difensore del premier Niccolò Ghedini sia andato su tutte le furie, apprendendo della proposta del collega Vitali. Ghedini sarebbe convinto che l’iniziativa potrebbe offrire strumentali polemiche per quel che riguarda la prescrizione: “L’unità di crisi” di Palazzo Grazioli stava infatti lavorando a un testo sulla prescrizione breve che dovrebbe veder la luce al Senato o collegarsi con il Ddl sul processo breve che arriva alla Camera il 28 marzo. Per La Repubblica Ghedini è convinto che si tratti di un autogol ed un lungo retroscena descrive la insofferenza di molti pidiellini nei confronti dell’avvocato del premier. La proposta di Vitali – sempre secondo La Repubblica – sarebbe nata a seguito di uno sfogo dello stesso premier con l’interessato, alla ricerca di una soluzione forte per liberarsi dalla “gabbia dei processi”. Nel cerchio più stretto intorno a Berlusconi detesterebbero Ghedini per il fatto che non si è mai battuto per imporre l’unica via che loro ritengono risolutiva, ovvero il ritorno all’immunità. Ghedini in fondo sarebbe convinto che se si fanno i processi, si potrebbero vincere.
Libero titola: “Riforma o leggina? Pasticcio Pdl sulla giustizia”, e aggiunge che Ghedini “parlando di una proposta di “esclusiva iniziativa” di Vitali, “non concordata”, chiederà al deputato Pdl di ritiirarla, perché “potrebbe offrire strumentali polemiche in particolare per ciò che riguarda la prescrizione”.
E poi
Su Europa si recensisce l’ultimo saggio di Nadia Urbinati (“Liberi e uguali”, Laterza), dedicato al rapporto tra libertà ed uguaglianza nella nostra Carta costituzionale. In cui si spiega che l’individualismo nulla ha a che fare con l’egoismo. “Indivualismo democratico” come “fondamento politico e ideale della democrazia”.
Sul Sole 24 Ore un intervento firmato da Romano Prodi, Guy Verohfstadt e Jacques Delors: “Servono norme e non patti”, “sulla governance economica meglio atti comunitari che intese tra governi”.
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Come creare il raggio traente di Star Trek 04.03.2011
L’ultima promettente idea su come fare in modo che la luce attragga gli oggetti viene da Shanghai. E ha possibili applicazioni nelle nanotecnologie
di Tiziana Moriconi
Costruire un raggio traente alla Star Trek deve essere davvero molto complicato. Anche concettualmente, come dimostrano tutte le fantastiche (ma non fantasiose, anzi) speculazioni da nerd sulla fisica e la tecnologia della famosa serie televisiva. L’ultima idea – anche questa non esattamente banale – per realizzarne uno arriva dai ricercatori cinesi della Fudan University di Shanghai e di Hong Kong, che hanno pubblicato uno studio ( scaricabile gratuitamente) su arXiv.com.
Schematizzando, sappiamo che la luce ha una doppia natura: è sia onde elettromagnetiche sia particelle (i fotoni), e che un oggetto opaco assorbe parte delle radiazioni. Allo stesso tempo, però, fa rimbalzare indietro i fotoni che lo colpiscono. I pacchetti di particelle esercitano quindi una pressione: in determinate condizioni, la spinta potrebbe essere sufficiente a spostare degli oggetti, sebbene molto, molto piccoli (per esempio una molecola o un atomo). Certo, un sistema che sfruttasse questo principio non sarebbe traente, ma “ respingente” perché potrebbe muovere l’oggetto solo nel verso opposto alla sorgente.
Jun Chen, coordinatore del team, crede però che per oggetti nanometrici si possa sfruttare un altro fenomeno: le onde elettromagnetiche di un laser (per la precisione, un laser che emetta particolari raggi, chiamati Bessel) potrebbero infatti eccitare gli elettroni del bersaglio e spingerlo ad emettere, a sua volta, una luce secondaria dal lato “b” (quello non colpito dal laser). La spinta propulsiva data dai fotoni emessi dall’oggetto dovrebbe allora essere maggiore di quella dei fotoni incidenti, portando l’oggetto a spostarsi proprio verso la fonte del raggio. Questo, inoltre, invece che frontalmente, potrebbe colpire il bersaglio da diverse angolature per far muovere l’oggetto avanti e indietro, a piacimento. Certo, le distanze non si misurerebbero in metri (più che di raggi traenti, i ricercatori parlano di manipolazione ottica), ma l’idea potrebbe funzionare.
Come racconta anche New Scientist, conoscendo l’esatta forma di un oggetto e le sue proprietà elettromagnetiche, si possono calcolare l’ eccitazione e le proprietà dei fotoni secondari. A quel punto, dovrebbe essere anche possibile creare un raggio Bessel con le giuste proprietà affinché inneschi tutti i processi e diventi traente nei confronti di quello specifico oggetto.
“ È un buon inizio. E se sul piano teorico non ci sono ragioni perché non sia realizzabile, è possibile che venga realizzata”, ha commentato Ortwin Hess dell’Imperial College London intervistato dalla Bbc, sottolineando però che lo studio non ha ancora passato la peer review (l’esame a cui si devono sottoporregli articoli scientifici). Prima del team cinese, i ricercatori dell’ Australian National University di Canberra avevano realizzato un raggio laser traente che sfruttava la differenza di temperatura tra la superficie di un oggetto (di vetro) colpito e le particelle di aria al centro del fascio di luce.
http://daily.wired.it/news/scienza/raggio-traente-star-trek.html
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Le batterie flessibili al grafene 04.03.2011
Durano più a lungo e hanno una densità di carica maggiore delle batterie agli ioni di litio. E in più sono flessibili.
Il grafene, materiale che è valso ai suoi scopritori il Nobel per la Fisica, potrebbe essere la via che porterà alla produzione di batterie ricaricabili flessibili.
La scoperta è stata fatta da un gruppo di ricercatori coreani, il quale ha presentato una soluzione che promette di essere migliore e più economica da realizzare rispetto alle batterie agli ioni di litio.
Il catodo è costituito da uno strato di ossido di vanadio che ricopre un foglio di grafene; l’anodo, invece, è dato da uno strato di grafene coperto di litio; tra i due, c’è un materiale separatore.
Questa batteria dovrebbe garantire densità energetica e di carica maggiori e un ciclo di vita molto più lungo rispetto alle tecnologie attuali. In più sarebbe flessibile.
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=14290
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Pamela svela i segreti dei raggi cosmici 04.03.2011
di Giulia Belardelli
I raggi cosmici si comportano diversamente da quanto previsto dai modelli finora ipotizzati. E’ questa la conclusione a cui è arrivato un gruppo di scienziati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, analizzando gli spettri di elio e dei protoni rilevati dal satellite PAMELA (Payload for Antimatter Matter Exploration and Light-nuclei Astrophysics). La ricerca, che è stata pubblicata su Science ed è frutto di una collaborazione con centri di ricerca russi, tedeschi e svedesi, suggerisce una realtà diversa da quella indicata dal modello delle supernovae remnants, ovvero i resti delle supernove dopo la loro esplosione.
In base a questa teoria – finora la più accreditata – l’accelerazione dei raggi cosmici potrebbe essere provocata dalle onde d’urto emesse dallo scoppio di supernove dotate della stessa energia. Una volta accelerate, le particelle vengono rilasciate nello spazio interstellare per poi propagarsi attraverso i campi magnetici della galassia, “piovendo” su ogni corpo celeste, inclusa la Terra.
Ora, però, i dati del satellite PAMELA suggeriscono un’altra storia. Attraverso una strumentazione più sensibile di quella utilizzata finora, il gruppo di fisici guidato da Piergiorgio Picozza ha portato alla luce due nuove proprietà dello spettro protonico e in quello dell’elio. In primo luogo, analizzando la “rigidità” (ovvero il rapporto tra il momento e la carica elettrica) dei due spettri, i ricercatori sono riusciti a determinare che questi hanno due andamenti diversi. “Rispetto alle informazioni disponibili in precedenza – ha spiegato Piergiorgio Picozza a Galileo – il nostro studio vanta dei tempi di misurazione più lunghi e dei dati con meno rumore di fondo, perché PAMELA ha il vantaggio di trovarsi a oltre 300 chilometri dal suolo terrestre”.
Inoltre, i dati dei due spettri si differenziano in maniera significativa da quelli predetti dal modello della supernovae remnants. Secondo gli studiosi, l’unica spiegazione possibile è l’esistenza di diverse popolazioni di sorgenti di raggi cosmici. “Per esempio – ha aggiunto Picozza – è possibile che protoni ed elio vengano accelerati da due tipologie di supernove dotate di masse e composizione differenti”.
Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1199172
http://www.galileonet.it/articles/4d7092ef72b7ab4e5000009f
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Sconfiggere il tumore in 3D 05.03.2011
Esistono due recettori, KIT e PDGFR-A, atti a regolare la replicazione delle cellule. Esiste anche una particolare categoria di tumori, i tumori stromali gastrointestinali, causata proprio dall’attivazione impazzita dei due recettori di cui sopra, che continua a mutare e sopravvivere anche dopo le terapie con farmaci ad hoc. E’ a questo punto che si inserisce la sperimentazione dei ricercatori dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e del loro direttore scientifico, dott. Marco Pierotti. Utilizzando una rete di computer con diversi processori di calcolo parallelo forniti dall’Università di Trieste, gli scienziati hanno ricreato modelli virtuali, in 3D, dei recettori delle cellule tumorali, prima e dopo la loro mutazione. Grazie a questo progetto, finanziato dall’Airc e pubblicato di recente sulla Nature Reviews Clinical Oncology, è stato possibile rilevare le molecole realmente efficaci contro l’evoluzione del tumore: la pratica in laboratorio e le cure al paziente hanno poi confermato le previsioni dei test in 3D. Infatti, come afferma il dott. Pierotti “ Abbiamo registrato miglioramenti verificabili sia attraverso le immagini diagnostiche (tac, pet), sia nella risposta del tumore al farmaco specifico individuato grazie ai nostri modelli 3D”.
Il virtuale, prima riservato nell’immaginario collettivo al grande schermo e ai videogiochi, sta quindi sconfinando nella vita reale, con importanti risultati in ambito medico-scientifico.
Avanti così.
Rossella Monarca
http://daily.wired.it/blog/pazienti/sconfiggere-il-tumore-in-3-d.html
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WiFi da 200 Km con un vassoio come parabola 06.03.2011
Dotare di connessione wireless due località distanti qualche centinaio di kilometri? È possibile e decisamente low cost, come insegnano le vicende libiche. Tutto nasce dal fatto che in Libia vige la più stretta censura della Rete, e il fattaccio colpisce, in particolare, la zona orientale del paese libico, la cui connessione passa per Tripoli. Facendosi due rapidi conti, alcuni utenti del paese africano hanno stimato che era sufficiente una connessione con portata da 200 Km per collegare le zone più a Est con Creta, sfruttando le altitudini raggiunte da alcune montagne libiche (fino a 850 metri) e cretesi (anche oltre i 2000 metri). Certo, parlare con nonchalance di una connessione wireless di un paio di centinaia di chilometri può far sorridere, ma sfruttando un Long-range Wi-Fi diventa più che fattibile. L’importante è creare una serie di punti tra i quali far passare il segnale, e qui tiriamo in ballo il “Poor Man’s WiFi”.
Si tratta di un progetto che sfrutta una comune chiavetta WiFi e materiali di recupero per realizzare parabole in grado di inviare il segnale fino a una distanza di 3-5 chilometri. Di fatto, con una quarantina di questi punti, è possibile raggiungere gli agognati 200 chilometri via terra. E sfruttando determinate altitudini, sembra possibile arrivare a una connessione punto-a-punto, senza bisogno di parabole intermedie, che attraversi il Mediterraneo e metta in contatto Libia e Creta. Da alcune testimonianze, pare che alcuni libici siano riusciti nell’impresa, garantendo una (precaria) connessione al loro martoriato paese. Se pensi che alla base del “Poor Man’s WiFi”, chiavetta a parte, c’è un vassoio per cucina cinese, capisci bene che a volte basta l’ingegno per superare qualunque barriera.
http://gadget.wired.it/blog/hackinsider/wi-fi-da-200-km-con-un-vassoio-come-parabola.html
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Wisconsin, il ricatto e la minaccia 05.03.2011
Il governatore Walker intima ai Democratici: venite a votare o vi arresto. Preannunciati 1.500 licenziamenti
Per snidare i senatori riottosi, il governatore del Wisconsin prepara arresti e licenziamenti e usa l’arma del ricatto. Con due risoluzioni approvate ieri dal Senato dello Stato, il Repubblicano Scott Walker alza la posta in gioco e fissa la deadline: se l’Aventino dei Democratici non cessa, via agli arresti (se i senatori transfughi vengono individuati nel territorio dello Stato) e agli esuberi di impiegati (1.500, per “risanare il bilancio”). Sono oltre mezza dozzina i membri della Camera alta del Wisconsin espatriati in Stati frontalieri per evitare che si raggiunga il quorum necessario alla votazione di una contestata legge: il Bill 11, approvato dal Congresso del Wisconsin ma in stallo al Senato proprio a causa della fuga di quattordici Democratici, decisi all’ostruzionismo a oltranza in ragione della anti-sindacalità del provvedimento. Quest’ultimo prevede infatti l’eliminazione della contrattazione collettiva, l’onere per il dipendente pubblico del pagamento di metà dei contributi pensionistici e del 12,6 percento dei contributi sanitari. Misure che Walker ha definito ‘modeste’ in rapporto a quelle previste per il settore privato. Tali provvedimenti sono ‘necessari’ per risanare il bilancio dello Stato, che rischia la bancarotta con un buco da 3,6 miliardi di dollari. Il governatore Repubblicano ha fretta di approvare la legge.
Così, Walker ha fatto passare ieri una risoluzione che prevede una multa di cento euro per ogni giorno di assenza dalle attività del Senato e la licenza, per la polizia statale, di arrestare i senatori rintracciati sul territorio del Wisconsin. Ma anche i Repubblicani si rendono conto che non c’è modo di far applicare una simile risoluzione dalla forze dell’ordine. Più preoccupante il ricatto ai danni di 1.500 lavoratori, che rischiano di perdere il posto per l’interminabile braccio di ferro politico tra le due parti politiche. Walker vuole difendere il dettato liberista della minima interferenza del governo nel mercato a spese della massima invadenza nel settore sociale. Gli oppositori del Bill 11 sostengono che il bilancio è in rosso perché Walker ha promesso tagli drastici all’imposizione fiscale sulle imprese per almeno due anni.
I senatori Democratici hanno cominciato una protesta insieme ai sindacati che ha portato all’occupazione del Capitol, sede del Congresso, sgomberato nei giorni scorsi e oggi sottoposto a severissime restrizioni. Ieri un presidio di poliziotti è stato posto agli ingressi nel salone circolare, che sono stati limitati a un numero stabilito per evitare il caos che ha semi-paralizzato i lavori dei legislatori nell’ultimo mese. Per protestare, alcuni membri Democratici del Congresso hanno spostato le loro scrivanie nel prato del Capitol e si sono messi a lavorare lì.
Luca Galassi
http://it.peacereporter.net/articolo/27221/Wisconsin,+il+ricatto+e+la+minaccia
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Il presidente Napolitano ha firmato il decreto Romani “Ammazza Rinnovabili” 08.03.2011
Niente da fare, Napolitano ha firmato il decreto Romani sulle rinnovabili da molti ribattezzato decreto “ammazza rinnovabili” per gli esiti che potrebbe avere sull’industria italiana delle fonti di energia pulita. Lo si apprende leggendo un paio di righe sul sito del Quirinale nella sezione “Atti normativi”:
D.Lgs 03/03/2011, (In attesa di pubblicazione)
Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE
A nulla sono servite, quindi, le critiche rivolte al decreto scritto da Paolo Romani (e leggermente smussato da Stefania Prestigiacomo) dalle associazioni ambientaliste e dall’industria italiana delle energie rinnovabili. In particolare non sono stati accolti i rilievi di incostituzionalità mossi al decreto che, di punto in bianco e con effetto retroattivo, cambia le carte in tavola in un mercato in fortissima espansione e che genera un giro di affari miliardario. Probabile, a questo punto, qualche ricorso alla Consulta.
Via | Quirinale
Foto | Quirinale
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Massimo Gramellini
Masoch Italy 08.03.2011
Dopo Gucci, anche Bulgari avrà l’accento sulla i. L’hanno acquistata i francesi, nonostante la gioielleria italiana più conosciuta al mondo abbia cercato fino all’ultimo di fondersi con qualche altro marchio del made in Italy per «fare squadra». Invano, perché la maggioranza dei nostri imprenditori coltiva una visione degli affari arcaica e meschina. E preferisce regnare sul proprio orticello che condividere il controllo di una foresta. Sul giornale di domenica Mario Calabresi denunciava la nostra inadeguatezza – pratica, ma prima ancora mentale – nell’accogliere il turismo di massa cinese. Anziché per accapigliarci fra borbonici e garibaldini, l’imminente festa nazionale andrebbe utilizzata per discutere di qualcosa che sembra interessarci assai meno: il futuro. Chiederci che Italia vogliamo essere. E, soprattutto, se vogliamo essere l’Italia che gli stranieri immaginano che noi siamo.
La situazione rasenta l’assurdo. Il mondo vagheggia lo stile italiano e ci dipinge come la culla dei piaceri raffinati: sole, paesaggi, storia, cibo, vino, arte, moda, relax. Ma noi, oltre a vivere male e ad abbrutirci davanti alla tv o dietro qualche pacchiano bunga bunga, siamo nelle fauci di una classe dirigente arruffona e arraffona, incapace di avere un’idea dell’Italia e di disegnare un progetto per i prossimi vent’anni che risponda alle richieste del mercato, cioè dei giovani asiatici e dei sempre più numerosi anziani d’Occidente interessati al nostro vero talento: fabbricare qualità della vita. Un talento difficile da imitare ma, lo si è appena visto, facile da comprare.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41
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Shock Doctrine, U.S.A.
By PAUL KRUGMAN 24.02.2011
Eccovi una rifllessione: forse Madison, Wis., non è Il Cairo, dopotutto. Forse è Bagdad – in particolare, Bagdad nel 2003, quandol’amministrazione Bush metteva l’Irak sotto il governo di funzionariscelti per lealtà e affidabilità politica piuttosto che per esperienza e competenza.
Come molti lettori potranno ricordare, i risultati furono spettacolari- in un brutto senso. Invece di focalizzarsi sui problemi urgenti diun’economia e di una società frantumata, che presto sarebbe caduta inuna guerra civile micidiale, gli incaricati di Bush sono stati ossessionati dall’imposizione della visione ideologica conservatrice.
Effettivamente, con i saccheggiatori che ancora si aggiravano per levie di Bagdad, il viceré americano, L. Paul Bremer, disse ad un reporter del Washington Post che una delle sue massime priorità era “trasformare in spa e privatizzare le aziende pubbliche” – parole del sig. Bremer, non del reporter – e “far perdere alla gente l’abitudine all’idea che lo stato provvede a tutto”.
La storia della Coalition Provisional Authority ossessionata dalle privatizzazioni è la colonna portante del libro di successo di Naomi Klein “Shock Economy”, in cui sostiene che tutto questo fa parte di un modello più vasto. Dal Cile negli anni 70 in avanti, ha suggerito, gli
ideologhi della destra hanno sfruttato le crisi per fare accettare un ordine del giorno che non ha niente a che fare con la risoluzione di quelle crisi e tutto a che fare con l’imposizione della loro visione di una società più dura, più disuguale, meno democratica.
Il che ci porta in Wisconsin 2011, dove la dottrina dello shock si dispiega in pieno.
Nelle ultime settimane, Madison è stata teatro di grandi dimostrazioni contro la legge di bilancio del governatore, che negherebbe la negoziazione di contratti collettivi ai lavoratori del settore pubblico. Il Governo Scott Walker sostiene che deve far passare la sua legge a causa dei problemi fiscali dello stato. Ma il suo attacco ai sindacati non ha niente a che fare con il bilancio. Infatti, quei sindacati hanno già dichiarato la loro disponibilità a fare notevoli concessioni finanziarie – un’offerta che il Governatore ha rifiutato.
Ciò che sta accadendo in Wisconsin, invece, è una presa di potere – un tentativo di sfruttare la crisi fiscale per distruggere l’ultimo principale contrappeso al potere politico delle società e dei ricchi.
E la presa del potere passa attraverso lo smantellamento dei sindacati. Il disegno di legge in questione è lungo 144 pagine e dentro in profondità sono nascoste cose straordinarie.
Per esempio, a termini di legge si permetterebbe a funzionari nominati dal Governatore di tagliare la copertura sanitaria per le famiglie a basso reddito senza dover passare per il procedimento legislativo ordinario.
Ed ancora: “Nonostante gli ss. 13.48 (14) e 16.705 (1), il dipartimento può vendere tutti gli impianti di proprietà dello stato di riscaldamento, di raffreddamento e le centrali elettriche o può
contrattare con un’ente privato per la gestione di qualsiasi impianto, con o senza bando di gara ad evidenza publica, per qualsiasi importo che il dipartimento ritenga essere nell’interesse dello stato.
Nonostante gli ss. 196.49 e 196.80, non è necessaria nessun’approvazione o certificazione da parte della commissione sui servizi pubblici perché un’azienda municipale possa rilevare, o fare un contratto per la gestione, di tali impianti, e qualsiasi acquisto è considerato nell’interesse pubblico e rispondente ai test di verifica per la certificazione di un progetto nell’ambito dello S. 196.49 (3) (b)”.
Di che si tratta? Lo stato del Wisconsin possiede un certo numero di impianti che assicurano il riscaldamento, il raffreddamento e l’elettricità, gestiti dallo stato (come l’università del Wisconsin).
I termini della legge di bilancio, in effetti, permettono al governatore di privatizzare uno o tutti questi servizi a sua discrezione. Ma non solo, potrebbe venderli, senza bando di gara, a chiunque lui scelga. E si noti che qualsiasi vendita, per definizione, “sarebbe considerata nell’interesse pubblico”.
Se questo vi sembra un modo perfetto per instaurare il favoritismo e l’affarismo – ricordate quei miliardi mancanti in Irak? – non siete i soli. Effettivamente, ci sono così tante menti sospettose là fuori che le industrie Koch, di proprietà dei fratelli miliardari che stanno svolgendo un così grande ruolo nella politica antisindacale del sig. Walker, potrebbero sentirsi costretti a pubblicare una smentita sul fatto di essere interessati a comprare qualcuna di quelle centrali elettriche. Siete riassicurati?
Le buone notizie dal Wisconsin sono che la levata di pubblico sdegno – aiutata dalle manovre dei Democratici nel Senato dello Stato,assentatisi per negare a repubblicani il quorum – ha ritardato la corsa. Se il programma del sig. Walker era di spingere per l’approvazione della legge prima che qualcuno avesse la possibilità di rendersi conto dei suoi veri obiettivi, quel programma è stato sventato. E gli eventi in Wisconsin possono aver dato uno stop ad altri governatori repubblicani, che ora sembrano recedere da mosse simili.
Ma non non vi aspettate che il sig. Walker o il resto del suo partito cambino i loro obiettivi. Lo smantellamento dei sindacati e la privatizzazione rimangono le priorità, ed il partito continuerà i suoi sforzi per reintrodurre di contrabbando le stesse priorità in nome degli equilibri di bilancio.
http://www.nytimes.com/2011/02/25/op…gman.html?_r=2
http://it-politica.confusenet.com/showthread.php?t=272421
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Turchia: la questione di Cipro in prima linea 04.03.2011
Decine di migliaia di turco-ciprioti stanno preparando una seconda ondata di proteste contro la Turchia per i primi di marzo. C’è un crescente senso di amarezza tra i turco-ciprioti sul modo in cui la propaganda nazionalista a Cipro e in Turchia, insieme al venir meno dell’entusiasmo di Ankara per l’adesione all’Unione europea, sta erodendo le speranze per una soluzione duratura dell’isola mediterranea divisa.
Le prime da quando le truppe turche invasero Cipro nel 1974 per contrastare un colpo di Stato dei radicali greco-ciprioti sostenuti da una giunta ad Atene, le proteste contro Ankara sono iniziate il 28 gennaio, quando 40.000 turco-ciprioti, pari a un sesto della popolazione, si sono radunati nella divisa capitale cipriota Nicosia.
Le proteste sono state provocate dalle misure d’austerità imposte dalla Turchia, che ogni anno fornisce 700 milioni di dollari in aiuti all’entità turco-cipriota, non riconosciuta a livello internazionale e sulla quale vige un embargo dell’Unione europea.
Ma molti si aspettano una folla molto più grande a marzo, dal momento che ai ciprioti preoccupati per il loro lavoro si uniscono quelli arrabbiati per la pesante reazione del governo turco alla prima protesta.
“Io non c’ero il 28 gennaio perché non sono un dipendente pubblico e non dovrei essere colpito da questo pacchetto economico”, ha detto Salih Sahin, un albergatore nella città costiera di Girne. “Ma sarò là fuori a marzo. Ne ho avuto abbastanza di tutti questi discorsi provenienti da Ankara su come dovrei stare zitto e fare quello che dicono loro, perché loro ci hanno salvato la vita nel 1974”.
Sahin si riferiva alla furiosa reazione del primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan a una manciata di cartelloni esplicitamente anti-turchi sventolati il 28 gennaio.
“Chi…vi credete di essere?” ha affermato Erdoğan il 3 febbraio. “I miei soldati sono morti per voi, hanno combattuto per voi, io ho un interesse strategico [per Cipro]… Gente nutrita dal nostro Paese… non ha alcun diritto di protestare in questo modo”.
Nel frattempo, Cemil Çiçek, il vice primo ministro della Turchia nonché ministro responsabile per Cipro, ha fatto eco ai pregiudizi diffusi nella Turchia continentale contro i turco-ciprioti descrivendo i manifestanti come turchi “che parlano con accento greco”.
“Perché sventolavano bandiere greche?”, ha aggiunto. Egli si riferiva alla bandiera della Repubblica di Cipro. La Turchia è stata uno dei tre Paesi a garantire nel 1960 il federalismo bi-etnico e l’indipendenza della repubblica dalla Gran Bretagna.
Le tensioni sono aumentate ulteriormente quando gli organizzatori della prima protesta hanno annunciato che avrebbero manifestato nuovamente il 2 marzo. Il giorno dopo l’annuncio, l’11 febbraio, la Turchia ha improvvisamente sostituito il proprio ambasciatore a Cipro Nord con un alto funzionario molto impopolare che ha progettato le misure di austerità contro le quali stavano protestando i ciprioti. “La nomina appare come il modo di Ankara di punire i ciprioti per non aver perseguito i manifestanti, come Erdoğan aveva detto loro di fare”, ha detto Niyazi Kizilyurek, un analista politico presso l’Università di Cipro.
Il comportamento della Turchia ha portato alcuni a supporre che il governo guidato dal Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) abbia smesso di cercare una soluzione per l’isola soltanto sette anni dopo aver radicalmente rovesciato decenni di sostegno turco per lo status quo di divisione, appoggiando un piano delle Nazioni Unite per riunificare l’isola. Cipro Nord “è sulla buona strada per diventare l’82esima provincia della Turchia”, afferma Cengiz Aktar, un politologo dell’Università Bahcesehir di Istanbul.
Durante una visita, l’11 gennaio, alla parte greca di Cipro Sud, riconosciuta a livello internazionale, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha lasciato intendere qualcosa di simile, elogiando i greco-ciprioti per il loro approccio “creativo” ai negoziati in corso e dispiacendosi per il fatto che “la parte turca non si stia comportando di conseguenza”.
Molti analisti turchi concordano sul fatto che il volta faccia sulla questione di Cipro da parte della Turchia nel 2004 sia stata una mossa tattica finalizzata ad assicurare l’inizio del processo di adesione all’Unione europea all’inizio del 2005. Ma vedono le parole della Merkel come un esempio di come l’UE sia diventata parte del problema su Cipro, piuttosto che parte della soluzione.
Tre mesi prima della sua visita, essi sottolineano, un rapporto delle Nazioni Unite sugli sforzi in corso per riunificare l’isola affermava che greci e turchi apparivano entrambi indifferenti al processo. Fonti vicine ai negoziati dicono che, semmai, la Turchia e i turco-ciprioti hanno mostrato maggior entusiasmo per far avanzare i negoziati, premendo per una loro scadenza nel marzo 2011, a cui i leader greco-ciprioti hanno posto il veto.
La disillusione turca con l’Unione europea ha le sue radici nell’adesione della parte greca di Cipro, nonostante il suo veto al piano di riunificazione sostenuto dalle Nazioni Unite espresso al referendum del 2004.
Rifiutandosi di soddisfare le richieste di aprire i propri porti alle navi greco-cipriote finché Bruxelles non onorerà il suo impegno di rimuovere l’embargo economico ai turco-ciprioti, la Turchia ha ottenuto che otto dei 35 capitoli negoziali con l’Unione europea siano stati congelati dall’UE dal 2006. Cinque anni dopo, ci sono solo tre capitoli rimasti da aprire, e l’influenza dell’UE sulla Turchia in merito alla questione di Cipro sta rapidamente svanendo, affermano gli analisti.
“L’UE ha fatto tutto ciò che poteva ragionevolmente fare per punire la Turchia” sulla questione di Cipro, dice Sinan Ülgen, un esperto di Unione europea e capo del Centro per gli studi economici e di politica estera, un think-tank con sede ad Istanbul. “Metà dei capitoli sono sospesi e metà sono aperti. Ciò è indice di quanto sia diventata debole la relazione politica”.
Erdal Güven, un esperto di Cipro al quotidiano turco Radikal, afferma che i funzionari turchi siano giunti alla conclusione che quest’anno non saranno aperti nuovi capitoli. Egli aggiunge che, d’altro canto, non c’è nemmeno un motivo per cui essi spingano per aprirli: secondo recenti sondaggi, al 45% circa del sostegno turco all’adesione europea corrispondono 30 punti percentuali in meno rispetto al periodo d’oro dell’euro-mania che si è avuto in Turchia cinque anni fa.
Ancora più importante, con le cruciali elezioni parlamentari previste prima di giugno, l’AKP di Erdoğan sembra aver deciso di giocare la carta nazionalista.Erdoğan vuole ottenere la maggioranza parlamentare di due terzi di cui ha bisogno per far approvare una nuova Costituzione per conto proprio, afferma Sinan Ülgen. “Per farlo, sta cercando di spingere [un partito dell’opposizione di destra nazionalista] sotto la soglia nazionale del 10%” per la rappresentanza parlamentare.
Per quanto riguarda Cipro, è sorprendentemente facile trovare persone fiduciose che le proteste di gennaio e marzo segneranno l’inizio di una nuova era nelle relazioni tra i turco-ciprioti e la “madrepatria”, come essi tendono a riferirsi alla Turchia.
“Per anni, la specificità dei turco-ciprioti è stata sacrificata da discorsi astratti su lotte nazionali”, afferma Niyazi Kızılyürek, l’analista politico di Nicosia. “Le richieste che i ciprioti stanno avanzando ora sono concrete: Cipro ha un’identità diversa. La Turchia deve fare dei passi concreti per rispettarlo”.
Nicholas Birch da Osservatorio Balani e Caucaso
Questo articolo è stato originariamente pubblicato da EurasiaNet.org
http://www.unimondo.org/Notizie/Turchia-la-questione-di-Cipro-in-prima-linea
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Spagna: limite su autostrade a 110 km/h 07.03.2011
(ANSA) – MADRID – Da oggi e’ in vigore in Spagna il discusso taglio del limite di velocita’ in autostrada da 120 a 110 km/h deciso dal governo Zapatero, insieme ad altre 19 misure, per ridurre il consumo di petrolio del paese davanti al caro prezzi innescato dalla crisi libica. Secondo il governo il taglio del limite di velocita’, in vigore per 4 mesi rinnovabili se i prezzi del greggio non caleranno, dovrebbe ridurre il consumo di benzina del 10% circa, facendo risparmiare al paese 1,4 miliardi di euro all’anno.
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La rivincita degli Hedge Fund 07.03.2011
FEDERICO RAMPINI
Al culmine della crisi del 200709, quando si voleva criticare la categoria dei banchieri, li si paragonava ai gestori di hedge fund. Oggi più che un’accusa sarebbe un complimento. Nella gara tra hedge fund e banche, sono i primi a stravincere in termini di profitti. I 10 maggiori hedge fund mondiali nel secondo semestre 2010 hanno procurato ai clienti 2 miliardi di dollari in più della somma dei profitti di Goldman Sachs, JP Morgan, Citigroup, Morgan Stanley, Barclays e Hsbc messe insieme. Una vittoria tanto più clamorosa alla luce della disparità di dimensioni: le sei maggiori banche mondiali hanno un milione di dipendenti, gli hedge fund funzionano con squadre di poche centinaia.
Questi dati sono stati resi noti da Lch Investments, una filiale del gruppo Edmond de Rothschild che a sua volta investe in hedge fund gran parte del suo patrimonio.
Dall’elaborazione dei risultati emerge anche una classifica delle performance sul lungo periodo. Dalla loro fondazione a oggi, i dieci maggiori hedge fund hanno guadagnato 182 miliardi di dollari per i loro clienti. Il numero uno resta il Quantum Fund di George Soros, il più celebre e uno dei più antichi visto che fu fondato nel 1973: da allora ha procurato ai suoi clienti 35 miliardi di dollari di profitti, al netto di spese e commissioni. Non male, anche se Soros sente il fiato sul collo di un inseguitore. E’ John Paulson, fondatore e stratega dell’omonimo fondo Paulson & Co., che pur essendo più recente (iniziò la sua attività nel 1994) ha già fruttato 32,2 miliardi ai suoi clienti. Con un’accelerazione spettacolare sul finale: nel secondo semestre 2010 Paulson ha incassato un guadagno di 5,8 miliardi di dollari netti per i suoi clienti. Lo sprint del numero due è strettamente legato ad alcune intuizioni che Paulson ha avuto prima, durante e dopo l’ultima crisi. Il suo hedge fund nel 2008 puntò pesantemente contro i mutui subprime e contro le banche. Poi nel 2009 fu uno dei primi a scommettere su una ripresa dei mercati finanziari. Infine nel 2010 si è sbilanciato molto sulla ripresa dell’economia reale, e al tempo stesso ha investito sull’oro come benerifugio per proteggersi dalla debolezza del dollaro provocata dalla politica monetaria della Fed. Tre mosse vincenti che hanno portato Paulson a ridosso di Soros. Il Financial Times invita a trattare con cautela i paragoni tra hedge fund e banche, per la natura troppo diversa, i livelli di capitalizzazione e le fonti di guadagno spesso profondamente dissimili.
Ma lo stesso Financial Times ricorda che alla vigilia del crac del 2007 molti hedge fund erano meno “speculativi” delle banche se si misura la presa di rischio dall’effettoleva dell’indebitamento. In ogni caso la grande rivincita degli hedge fund è innegabile: a differenza delle grandi banche, né Soros né Paulson sono andati ad elemosinare aiuti di Stato. In termini di efficienza non c’è gara. Nella seconda metà del 2010 i cento hedge fund più grandi hanno guadagnato 70 miliardi di dollari per i loro clienti, e si sono tenuti in media delle commissioni pari al 20% cioè 17,5 miliardi. Paulson ha procurato quei 5,8 miliardi di guadagni ai clienti impiegando solo 120 dipendenti: ha quindi superato i profitti della Goldman Sachs che impiega 32.500 persone.
Questa superiorità degli hedge fund potrebbe accentuarsi ulteriormente in futuro, proprio in conseguenza delle riforme adottate dopo la crisi. La nuova normativa dei mercati varata dal ministro del Tesoro di Obama, Tim Geithner, esclude quasi completamente le aziende di credito dal “proprietary trading”, cioè dalle attività speculative con mezzi propri. Se quindi in passato la JP Morgan Chase poteva contenere al proprio interno una sorta di hedge fund, adesso questo diventa quasi impossibile. Di conseguenza gli hedge fund avranno meno concorrenza nel loro mestiere. Questo spiegherebbe, secondo alcuni, la lotta accanita che le banche hanno condotto contro la riforma Obama. Del resto c’è già stato un esodo di gestori dalle banche, alcuni dei quali si sono messi in proprio per creare degli hedge fund fuggendo dalle restrizioni imposte agli istituti di credito. Non tutti hanno avuto successo.
Christian SivaJothy, un precursore di questa tendenza che aveva lasciato Goldman Sachs già nel 2004, ha dovuto chiudere di recente il suo hdege fund SemperMacro dopo una serie di performance deludenti dal 2008 a oggi. La corsa agli hedge fund però continua e nel 2010 ne sono stati creati ben 230. Non è un mercato facile, però, e i clienti hanno tendenza a fidarsi soprattutto dei big.
Attualmente esistono 7.000 hedge fund, ma la parte del leone la fa un gruppo molto ristretto: sono il 5% dei fondi che gestiscono due terzi di tutti i capitali del settore, e che hanno ricevuto i quattro quinti di tutti i fondi affluiti l’anno scorso negli hedge fund (un totale di 55 miliardi di dollari). Le differenze nei risultati sono notevoli tra i grandi e i piccoli. I top cento nella classifica per dimensioni hanno guadagnato 70 miliardi di dollari su una massa di capitali pari a 746 miliardi (sempre nel secondo semestre 2010) mentre gli altri settemila pur amministrando capitali totali due volte più grandi hanno creato solo 59 miliardi di profitti per i clienti. E questa differenza tra i big e gli altri potrebbe scavarsi ulteriormente in futuro, proprio per effetto delle riforme. In effetti, benché le banche siano state il bersaglio principale del regolatore, qualcosa è cambiato anche per gli hedge fund. In conseguenza del giro di vite postcrisi, qualsiasi hedge fund che amministri un patrimonio superiore a 100 milioni di dollari deve registrarsi presso la Securities and Exchande Commission (Sec), l’autorità di vigilanza sulle Borse. Questo comporta una serie di adempimenti che hanno dei costi amministrativi. Poi c’è un effetto psicologico degli scandali, primo fra tutti la “truffa Madoff”: scottati da quella vicenda, i clienti più facoltosi oggi cercano degli hedge fund che abbiano al loro interno dei sistemi di controllo e verifiche molto raffinati. Anche questo ha dei costi. Forse è tramontata per sempre l’era pionieristica in cui poteva esser vera la battuta secondo cui “per fondare uno hedge fund basta avere due trader, uno schermo Bloomberg e un cane”. La distanza che si è scavata tra i colossi come Soros e Paulson e i piccoli, sembra quasi incolmabile. Tuttavia, alla fine quel che conta è l’intuito di fronte alle grandi svolte dei mercati. Paulson, lo si è visto, tallona Soros perché dal 2007 a oggi le ha azzeccate tutte.
Ma se si guarda al gruppo di testa della classifica, anche nella Top Ten oggi le strategie e gli scenari divergono. Per un Paulson che resta fondamentalmente ottimista sulla ripresa mondiale, c’è uno hedge fund come Moore Capital che ha adottato una posizione molto più prudente e difensiva. Secondo il suo gestore, Louis Bacon, la fisionomia dei mercati potrà avere scossoni improvvisi quando l’inflazione diventerà un pericolo serio e la preoccupazione dominante delle banche centrali: il diffondersi di aspettative di rialzi dei tassi potrebbe provocare un “bagno di sangue” nel mercato dei bond? Qualcosa ha cominciato a muoversi nei giorni scorsi con il “decoupling” annunciato tra la politica monetaria europea e quella americana. Nell’Eurozona, malgrado una crescita inferiore, la Bce è già pronta a rialzare i tassi. In America i buoni dati sul mercato del lavoro non sembrano dissuadere la Federal Reserve da una politica espansiva. Con le due più importanti banche centrali del pianeta che tirano in direzioni opposte, si apre un’altra fase per le “scommesse” degli hedge fund.
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2011/03/07/copertina/001rampix.html
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Obama con i Gates per la riforma dell’istruzione 08.03.2011
In visita alla Technology School, Obama ha incontrato i coniugi Gates e ha detto: “Non esiste una politica economica migliore di quella che produce più laureati, con le competenze di cui hanno bisogno per avere successo”
La campagna del presidente Barack Obama per la riforma del sistema scolastico e universitario, e per l’investimento di nuove risorse federali nella formazione, è approdata alla Boston Technology School, alla presena di Bill Gates e sua moglie Melinda, che hanno sostenuto l’istituto fin dagli albori.
I veri obiettivi della strategia del presidente – osserva il Los Angeles Times – sono i parlamentari repubblicani contrari al suo piano di aumento della spesa da destinare all’istruzione, che non prevede tagli ad altri capitoli di bilancio.
Il presidente è riuscito a coinvolgere i coniugi Gates nella sua battaglia, offrendo alla coppia un’ottima occasione per accrescere la propria popolarità. In tempi di magra – ha rimarcato Obama – c’è bisogno di tirare la cinghia dovunque è possibile, ma occorre continuare a investire per mantenere il paese al passo con i tempi.
“Non esiste una politica economica migliore di quella che produce più laureati, con le competenze di cui hanno bisogno per avere successo”, ha detto Obama agli insegnanti e agli studenti intervenuti a Boston, “per questo la riforma è una responsabilità per ogni singolo cittadino americano”.
http://www.america24.com/news/obama-con-i-gates-la-riforma-dellistruzione
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Il desiderio del Sultano e l’etologia della politica 08.03.2011
Si potrebbe raccontare il tutto nella forma di una lettera persiana. C’ è un sultano che organizza dei festini nelle proprie residenze, con canti, balli e pratiche sessuali che derivano secondo alcuni dai riti di un principe nordafricano, secondo altri da una barzelletta raccontata nei caravanserragli. A questi riti partecipano, insieme al sultano, il visir, un giannizzero e fanciulle provenienti dai più vari strati sociali. Infatti i riti sono rigorosamente interclassisti e sembra anzi che preludano a forme di promozione sociale attraverso la politica. È così che l’ eterna fiaba si rinnova, arricchendosi fin quasi al manierismo di particolari da Mille e una notte, come nel caso della ladra venuta dal Marocco. E che viene presentata come una parente del Khedivè d’ Egitto. Se però dalla finzione di Montesquieu o dalla favola di Shérazade si volesse entrare nell’ attualità politica ed esprimere qualche giudizio, il rischio più concreto sarebbe di venir tacciati di moralismo, di incomprensione della vita e della sua bellezza da pianta grassa, e dunque conviene metter subito le mani avanti. Certo, l’ immoralità del sovrano è vecchia come il potere, e nelle feste di Arcore c’ è molto di Tiberio a Capri, o di Commodo, che si era fatto installare un “lupanare in Palatio”. C’ è anche molto delle vite di quei potenti novecenteschi che sono stati i tycoon del cinema, e poi della televisione. Nei riti che vengono narrati (e che suscitano in molti ammirazione e consenso) c’ è infatti tantissimo immaginario televisivo, e si direbbe che realizzino il sogno di uno spettatore che attraversa lo schermo ed entra nel mondo delle meraviglie. Proprio qui risiede la singolarità del fenomeno. Nella politica del bunga bunga, del cucù e dello sberleffo abbiamo a che fare con un uso politico del desiderio molto moderno e spregiudicato, e la categoria più efficace per capire ciò che avviene è quella che Adorno ha chiamato “desublimazione repressiva”. Tra il principe e il popolo si stabilisce un patto: il principe permette al popolo di fare tutto quello che vuole, in materia fiscale e sessuale, e il popolo gli conferisce un mandato incondizionato. Soprattutto, tra il popolo e il principe si innesca un meccanismo di rispecchiamento: il principe è davvero, profondamente, uno del popolo. Al polo opposto, separati, persecutori, ascetici e noiosi ci sono i magistrati, lo Stato, quel che resta della terzietà e della trascendenza del potere e del diritto, a cui il principe si rivolta per comodità pratiche, mentre il popolo (che avrebbe tutto l’ interesse a godere dei diritti che ha invece di sperare nella lotteria dei privilegi) lo segue e lo sostiene per solidarietà antropologica. Da tutto questo possono emergere tre insegnamenti. Il primo riguarda il nesso tra la bestia e il sovrano, proprio quello indagato da Jacques Derrida nei suoi ultimi seminari. Il sovrano fa sfoggio di vigoria e di vitalità, e nella versione italiana, diversa in questo dalla versione americana dell’ epoca di Bush, non vanta la propria prestanza come capo militare, ma come seduttore. Tipicamente, nel corso di una manifestazione elettorale del marzo 2009 il sovrano ha fatto una specie di scongiuro ai versi dell’ inno nazionale “siam pronti alla morte”, e il 2 giugno del 2010, alla parata militare della Festa della Repubblica, ha guardato in modo ostentatamente ammirativo una crocerossina che sfilava. La dignità del potere legittimo si trasforma in un machismo primario, e a ben pensarci era già così con Mussolini, che però ha commesso l’ errore fatale di portare in guerra un popolo che da lui aveva accettato tutto, comprese le leggi razziali. Il secondo riguarda la realizzazione delle utopie. Come il sapere assoluto si è realizzato in modo perverso nella società della comunicazione, così tutti gli elementi del postmoderno, dalla scomparsa dei fatti nelle interpretazioni alla ironia (barzellette comprese) in politica sino appunto al desiderio giunto al potere si sono realizzati nel populismo. Nella fattispecie, il populista italiano, nello scherzare sull’ inno nazionale e nell’ ammirare la crocerossina realizza in forma plastica il “make love, not war”, e dimostra i limiti di quello slogan, così come delle teorizzazioni che, da Marcuse a Deleuze, nel secolo scorso, avevano insistito sulla intrinseca valenza emancipativa del desiderio. Non è così semplice: il desiderio può certo essere liberazione, ma, altrettanto bene, dominio e prepotenza. E qui veniamo al terzo insegnamento. Il mondo del populismo, soprattutto nella sua versione italiana che appare all’ estero (più che in Italia, dove con il tempo sono prevalse l’ assuefazione e l’ acquiescenza) come essenzialmente comica e oscena, è un mondo che rischia di non essere preso sul serio. Invece ha ragioni profonde, che sanno coniugare l’ arcaico e il modernissimo, e che spiegano la lunga durata del fenomeno. In particolare, il populismo italiano ha messo in scena un reality dove tutti sono uguali e intercambiabili (politici, persone di spettacolo e “pubblico a casa”) perché nessuno conta niente, e chi non è d’ accordo è accusato di supponenza e frigidità intellettuale. Ma scandalizzarsi per il lupanare in Palatio nonè togliere spazio alla vita e al desiderio, bensì riconoscere l’ inaccettabilità di un sistema di sopraffazione. Perché sarà anche vero che dai diamanti non nasce niente e dal letame nascono i fiori, ma questa è una legge di natura, vige nelle serre e negli allevamenti, non nei parlamenti. Se però vogliamo tornare dall’ etologia alla politica, e dalla natura alla storia, credo che questa esuberanza di vita ci riservi non solo tristi insegnamenti, ma anche una speranza. Questa: come l’ aver sperimentato la guerra sembra aver definitivamente vaccinato gli italiani dalla retorica della bella morte, che non ha niente a che fare con il coraggio, così quello che abbiamo sotto gli occhi dovrebbe vaccinarci dalla retorica della bella vita, che non ha niente a che fare con il desiderio, ma molto con l’ impotenza e l’ illusione. – MAURIZIO FERRARIS
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Salvataggio fallito: ecco perché la Grecia è di nuovo in pericolo 09.03.2011
Vladimiro Giacchè
Come già più volte accaduto nel corso della tempesta che dalla primavera scorsa infierisce sul debito sovrano dei Paesi europei, il governo tedesco ha affidato il compito di testare le reazioni alle sue nuove proposte alle “indiscrezioni” rilanciate dal settimanale “Der Spiegel”: una sorta di Merkeleaks. Questa volta si tratta del Meccanismo Europeo di Stabilità, una specie di Fondo Monetario Europeo, con una potenza di fuoco complessiva di 500 miliardi di euro.
Ad esso dovrebbero contribuire i Paesi membri della zona euro, in proporzione alla quota di partecipazione alla Banca Centrale Europea (quindi con un rilevante contributo italiano). Questa proposta, presentata come una grande concessione ai Paesi in crisi, è accompagnata dalla consueta lista della spesa delle cose da fare: abolire la scala mobile (abbiamo scoperto che essa è ancora in vigore in diversi Stati europei, e che alcuni governi la ritengono essenziale per motivi di equità e di stabilità sociale), alzare l’età pensionistica, mettere in costituzione il divieto di deficit pubblici, e soprattutto accettare un meccanismo automatico di sanzioni (non previsto dal Trattato di Maastricht) per chi non rientra rapidamente da debiti pubblici eccessivi.
Tutti provvedimenti assai opinabili.
Il problema, però, è che non funziona neppure la parte positiva della proposta, ossia il Fondo che dovrebbe prestare soldi ai paesi in difficoltà. Ma i prestiti, per definizione, servono soltanto a risolvere le crisi di liquidità e non quelle di solvibilità. Possono, in altre parole, risolvere soltanto condizioni di difficoltà momentanee di un Paese nell’approvvigionamento di denaro sui mercati dei capitali: quando, ad esempio, i titoli di Stato si deprezzano bruscamente a causa di un attacco puramente speculativo.
Purtroppo, però, la situazione dei Paesi europei che oggi sono nell’occhio del ciclone non è questa. La loro crisi è infatti una cronica crisi di solvibilità, perché hanno un deficit strutturale nei confronti dell’estero (ossia consumano da anni più di quanto producono). Finché si ha un deficit del genere, è inevitabile che una o più categorie di agenti economici di quel Paese accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o anche di entrambi.
Ma quali Paesi si trovano in questa situazione?
L’elenco contiene qualche sorpresa: vi troviamo infatti non soltanto Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, ma anche Francia e Regno Unito.
Tutti questi Paesi sono caratterizzati da uno scarso peso dell’industria e un peso rilevante di settori non rivolti all’esportazione (commercio al dettaglio, edilizia, trasporti, servizi al consumo e simili); in particolare, è bassa la loro quota di esportazioni verso paesi a crescita elevata.
Il cenno a Francia e Regno Unito è utile perché ci fa capire che il problema degli squilibri strutturali nei conti con l’estero non interessa soltanto i Paesi che oggi sono nell’occhio del ciclone, ma è molto più generale e potenzialmente dirompente: non è un caso che il Regno Unito vanti il record mondiale del debito complessivo (469% del Pil) e che quello francese evidenzi una preoccupante accelerazione.
Concentriamoci ora sugli Stati già investiti dalla crisi. È abbastanza chiaro che nessun prestito da parte del Fondo di salvataggio europeo potrà risolvere il problema sottostante all’indebitamento del loro settore pubblico, ossia la loro crisi di solvibilità.
Anzi, potrà solo aggravarlo: per almeno due motivi.
Il primo è ovvio: i prestiti devono essere restituiti, e perdipiù con gli interessi. Quindi, se i deficit strutturali non migliorano, i prestiti ricevuti non faranno che peggiorare la situazione.
Il secondo motivo è rappresentato dalle condizioni che accompagnano questi prestiti. Esse prevedono una forte stretta alla spesa pubblica e l’incitamento a riequilibrare i propri conti con l’estero, migliorando la competitività delle proprie merci e simili.
Il guaio è che la prima richiesta comporta una forte riduzione della domanda interna se i tagli riguardano le spese sociali, e un peggioramento in prospettiva della competitività di sistema se riguardano invece gli investimenti (ad esempio quelli in ricerca e sviluppo tecnologico, o in formazione, o in infrastrutture).
Quanto alla richiesta di riequilibrare i conti con l’estero, essendo escluse svalutazioni competitive per i Paesi che hanno adottato l’euro, è evidentemente impossibile in tempi brevi aumentare le esportazioni in misura sufficiente a riequilibrare deficit delle partite correnti che (secondo uno studio di Natixis) ammontano al 50% per la Grecia, al 20% per il Portogallo, e rispettivamente al 12% e all’8% per Francia e Spagna: non resta quindi che ridurre della stessa proporzione le importazioni. Questo significa ridurre la domanda interna in misura anche molto violenta, con l’effetto di deprimere l’economia, e quindi di ridurre le entrate fiscali, finendo con l’accrescere il deficit fiscale dello Stato.
Tutto questo spiega come mai la cura da cavallo imposta nei mesi scorsi ai paesi investiti dalla crisi, a cominciare dalla Grecia, non abbia sino ad oggi sortito gli effetti sperati. Tanto da rendere sempre più probabile quantomeno una ristrutturazione del debito pubblico greco: le probabilità che entro 5 anni la Grecia non sia in grado di onorare il suo debito sono cresciute nell’ultimo trimestre del 2010, ed oggi sono stimate al 58%. Della stessa uscita della Grecia dall’Unione Europea e quindi dall’euro (i trattati disciplinano solo l’uscita dall’Unione Europea) si parla sempre più insistentemente.
In questo modo la Grecia si riapproprierebbe, sia pure a caro prezzo, della propria sovranità monetaria.
Ma il prezzo più caro, a ben vedere, lo pagherebbero gli altri: la zona euro nel suo complesso, per il probabile scatenarsi di un effetto domino che potrebbe minacciare l’esistenza stessa della moneta unica, e comunque per il rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato dei Paesi più deboli.
E ovviamente tutti coloro, a cominciare dalle banche europee e dalla stessa BCE, che hanno in mano titoli di stato greci: le sole banche tedesche hanno in portafoglio obbligazioni greche per circa 37 miliardi di euro. Forse a quel punto qualcuno anche a Berlino e Francoforte comincerà a pentirsi di aver affrontato questa crisi offrendo soltanto prestiti, per di più condizionati all’attuazione di politiche economiche depressive.
http://www.sinistrainrete.info/index.php?option=com_content&view=article&id=1278&Itemid=70
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Microscopio ottico, oltre ogni limite 09.03.2011
Una nuova tecnica permette di infrangere i limiti teorici della risoluzione massima dei microscopi ottici. Per disvelare un mondo nanoscopico da osservare in tempo reale
Roma – Ricercatori dell’Università di Manchester sostengono di aver realizzato il microscopio ottico più potente al mondo, dotato di una risoluzione ben maggiore rispetto a quella teoricamente raggiungibile da questo genere di tecnologia e con la promessa di scendere ancora più in basso nell’indagare l’infinitamente piccolo.
I microscopi ottici “standard” sono in grado di raggiungere una risoluzione massima di un micrometro (0,001 millimetri), ma gli scienziati britannici dicono di aver “visto” oggetti 20 volte più piccoli. Il merito di un tale risultato va all’impiego di una microsfera trasparente, una particella sferica che ha il compito di catturare e amplificare immagini ottiche “virtuali” – libere dagli effetti della diffrazione ottica.
Le immagini vengono infine ulteriormente amplificate dal microscopio ottico, e come risultato è possibile osservare in tempo reale la struttura delle cellule viventi e il comportamento dei virus in maniera diretta.
“Non solo siamo stati in grado di vedere oggetti di 50 nanometri – dice il professor Lin Li dell’Università di Manchester – ma crediamo che si tratti solo dell’inizio e che saremo in grado di osservare oggetti molto più piccoli”. “In teoria – dice il professor Li – non c’è alcun limite alle dimensioni degli oggetti che saremo in grado di osservare”.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3102243/PI/News/microscopio-ottico-oltre-ogni-limite.aspx
Abract articolo originale
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21364557
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L’America riscopre la lotta di classe
Stefano Rizzo, 09.03.2011
La lotta di classe è ricominciata un mese fa nel Wisconsin ( stato di robuste tradizioni operaie e sindacali) e nel giro di pochi giorni si è propagata all’Ohio, all’Indiana e ad altri stati del Midwest, per poi irradiarsi a sud fino alla Florida e a nord fino allo stato di Washington, coinvolgendo l’Est progressista e la California
Nonostante il relativo disinteresse dei grandi media americani (e il totale disinteresse di quelli europei), è nato un movimento di protesta che per la prima volta in molti anni sta acquistando caratteristiche di lotta di classe: lavoratori e sindacati contro i padroni e i governi locali che li sostengono, poveri e disoccupati contro ricchi, dipendenti pubblici contro i rispettivi governi. Sul piano politico la protesta ha dato nuovo impulso ai democratici che, dopo la dura sconfitta di novembre, sembrano avere ritrovato slancio e capacità combattiva.
Tutto è partito dal Wisconsin, uno stato di robuste tradizioni operaie e sindacali, dove a novembre era stato eletto un nuovo governatore repubblicano, Scott Walker, e un nuovo parlamento dello stato a maggioranza repubblicana. Forte del mandato popolare il giovane e aggressivo governatore ha subito presentato un provvedimento di drastico taglio del bilancio dello stato, che prevede riduzioni nei servizi pubblici e licenziamenti. Ma non si è fermato lì: ha dichiarato anche l’intenzione di abolire per legge il diritto alla contrattazione collettiva per i dipendenti pubblici, che lo stato del Wisconsin era stato tra i primi a riconoscere fin dagli anni ’50.
In questo, come in altre questioni, Walker agiva in perfetta sintonia con il partito repubblicano a livello nazionale e con svariati altri governatori repubblicani di nuova nomina che, come lui, avevano vinto le elezioni promettendo la riduzione del deficit pubblico, con il non troppo celato obbiettivo di ridurre i servizi per i cittadini e di assestare un duro colpo ai dipendenti pubblici, rappresentati in campagna elettorale come dei privilegiati e dei parassiti. Inizialmente i sindacati del settore pubblico si sono detti disponibili al dialogo riconoscendo che il problema del debito esisteva e andava affrontato. Hanno accettato riduzioni degli stipendi e il blocco degli aumenti per tre anni. Ma quando il governatore ha preteso di abolire la contrattazione collettiva hanno capito che troppo era troppo.
Ne sono nate imponenti manifestazioni di protesta nella capitale Madison. Per settimane i manifestanti hanno marciato e inalberato cartelli, sono entrati nella sede del parlamento dello stato – la casa del popolo come viene ampollosamente chiamata – e l’hanno occupato chiedendo che Walker ritirasse le sue proposte. Sono state manifestazioni pacifiche, ironiche e fantasiose, cui nel corso di tre settimane hanno partecipato milioni di persone e che hanno presto attratto manifestanti da altri stati minacciati, come il Wisconsin, di analoghi provvedimenti antisindacali.
Walker per parte sua si è rifiutato di negoziare e ha minacciato di fare intervenire la guardia nazionale per sgomberare con la forza i manifestanti. La minaccia è rientrata a seguito dell’indignazione popolare e anche alla condanna espressa da Barack Obama. Ma Walker non si è fermato: ha fatto bloccare gli accessi al campidoglio (la sede del parlamento) impedendo che arrivassero viveri a coloro che vi erano accampati da giorni; e ha scatenato una campagna di propaganda a suon di spot pubblicitari pagata dai fratelli Koch, i magnati delle costruzioni che avevano già lautamente finanziato la sua campagna elettorale.
A questo punto è successo un fatto curioso e senza precedenti. Per bloccare l’approvazione della legge al senato, dove i repubblicani hanno la maggioranza, i senatori democratici hanno fatto ricorso ad una particolare forma di ostruzionismo: poiché per esaminare un provvedimento di spesa occorre che siano presenti almeno 20 senatori su 33 (mentre i repubblicani sono solo 19), i 14 senatori democratici sono fuggiti “all’estero”, cioè nel vicino stato dell’Illinois, rendendosi irreperibili. Se rimettessero piede nel Wisconsin Walker potrebbe ordinare alla polizia dello stato di portarli a forza nell’aula del senato garantendo così il numero legale. Al momento sono in corso negoziati tra il governatore e i senatori democratici per farli rientrare di loro volontà, ma tra scambi di accuse al vetriolo non se ne è ancora fatto nulla.
L’ultima mossa del duro Walker è stata di lanciare una campagna per il “richiamo” dei senatori fuggiaschi da parte dell’elettorato, una procedura di democrazia diretta prevista in molti stati. Se venissero raccolte le firme sufficienti i senatori “richiamati” decadrebbero automaticamente, ma è un arma a doppio tagli perché i democratici hanno minacciato di fare la stessa cosa nei confronti dei repubblicani e, con il cambiamento degli umori dell’opinione pubblica che – in base agli ultimi sondaggi – si sarebbe già pentita del voto dato pochi mesi fa e vorrebbe ora un governatore meno estremista, è possibile che ci riescano. A questo punto il caos politico e istituzionale sarebbe totale.
Ma dietro le schermaglie procedurali c’è ben altro: c’è la grave crisi economica in cui versano ancora gli Stati Uniti, dove la produzione cresce, ma la disoccupazione rimane altissima, particolarmente negli stati del Midwest a forte insediamento industriale. E c’è la crisi del sindacato che sotto gli attacchi del neoliberismo (la destra reaganiana) ha perso a partire dagli anni ‘80 iscritti e influenza. Gli Stati Uniti sono, tra le democrazie industrializzate dell’Occidente, il paese con minore rappresentanza sindacale: appena il 13 per cento della forza lavoro è iscritta al sindacato, contro una media del 50 per cento in Europa e del 30-35 per cento in Italia.
In controtendenza, con il 36 per cento di lavoratori iscritti, sono i sindacati del settore pubblico che rappresentano decine di milioni di impiegati, insegnanti, infermieri, assistenti sociali, poliziotti, vigili del fuoco. E’ un numero molto elevato se raffrontato con il misero 7,2 per cento del settore privato e se si considera che già adesso una ventina di stati vietano la contrattazione collettiva e la rappresentanza sindacale ai propri dipendenti. E’ per questo che Walker e i suoi colleghi repubblicani hanno scatenato la guerra contro i dipendenti pubblici – non tanto per risanare il bilancio dello stato, quanto per dare un duro colpo al sindacato e consolidare così la “rivoluzione” repubblicana di destra contro i diritti e le tutele sociali.
C’è un altro aspetto particolarmente odioso dell’intervento del governatore Walker, proprio perché preso alla vigilia dell’8 marzo: dal divieto di contrattazione collettiva sono esclusi i poliziotti e i vigili del fuoco, che sono per lo più uomini, mentre sono inclusi tutti gli altri lavoratori, in particolar modo della scuola e della sanità, che sono a larghissima maggioranza donne. Ma neanche questo miserevole tentativo di dividere i lavoratori ha funzionato. Alle manifestazioni di protesta tuttora in corso, accanto alle insegnanti e alle infermiere c’erano anche molti poliziotti e vigili del fuoco in divisa.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=17170
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Stop della Regione Abruzzo al metanodotto Snam 09.03.2011
Dopo le numeroso proteste dei cittadini è stato bloccato dal consiglio regionale dell’Abruzzo la procedura di autorizzazione al metanodotto della Snam, ossia un gasdotto per metano lungo 700 Km che da Taranto arriva a Bologna.
Si legge nel comunicato stampa:
La Seconda Commissione del Consiglio regionale ha espresso, all’unanimità, parere favorevole sulla proposta di legge volta a fermare il processo autorizzativo del metanodotto Snam, contro il quale sono insorti comitati, associazioni ed enti locali della Valle Peligna e della provincia dell’Aquila. Trattasi di un intervento dal fortissimo impatto ambientale e paesaggistico che dovrebbe attraversare l’intera dorsale appenninica, dalla Puglia fino alla Pianura Padana, e che in Abruzzo attraversa aree a rischio sismico.
Resta però da completare l’iter politico con il voto del consiglio Regionale del prossimo 22 marzo che dovrebbe sancire definitivamente il blocco. Con la Libia in fiamme sembrava forse più facile far accettare alle popolazioni locali il metanodotto della Snam. Il progetto è conosciuto anche come “Rete Adriatica” e consiste nel creare un metanodotto di 700 Km che da Massafra vicino Taranto arriva a Minerbio vicino Bologna.
Il gasdotto sarà interrato sotto 5 metri, avrà un diametro di 1,2 metri e ci saranno 20 metri per lato di “servitù di pertinenza”, più diverse vie d’accesso ai mezzi impegnati negli scavi e sbancamento. Evidentemente l’impatto sull’ambiente non sarà da poco perché come rileva Il Capoluogo saranno coinvolti parchi, aree protette e anche la faglia che fu interessata dal sisma in Umbria del 1997:
Il tracciato del gasdotto infatti coinvolge numerose aree naturali protette, come i parchi nazionali della Maiella, dei monti Sibillini e del Gran Sasso, oltre al parco regionale del Velino – Sirente e 21 Siti di importanza comunitaria e/o zone di protezione speciale, ritenute strategiche per la conservazione degli habitat naturali della flora e della fauna selvatiche. Inoltre il percorso si estende in zone a elevato rischio sismico: segue infatti la faglia del terremoto in Abruzzo ed entra poi in Umbria, sulla faglia del sisma del settembre 1997.
Dicono i rappresentanti dei Comitati cittadini per l’ambiente:
Quanto alla asserita “sostenibilità” del metanodotto “Rete Adriatica”, la Snam continua ad eludere la domanda: è vero o no che il progetto presenta carenze molto gravi? E cioè che mancano studi di dettaglio su aspetti fondamentali quali il rischio sismico, il rischio idrogeologico e la qualità dell’aria? Non lo diciamo noi, ma lo ha sancito la Commissione nazionale V.I.A. che, ciò nonostante, ha assurdamente dato un parere favorevole che più che tecnico è politico. Stante le pesanti criticità del metanodotto non sarebbe il caso che la Snam accettasse di confrontarsi con le istituzioni e i cittadini per individuare un diverso tracciato? Sarebbe la cosa più logica, invece che insistere su un progetto fortemente contestato dalle popolazioni dei territori interessati.
Via | Abruzzoweb, Rete 5, Il capoluogo
Foto | Il capoluogo
http://www.ecoblog.it/post/12198/stop-della-regione-abruzzo-al-metanodotto-snam
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Pechino, la muraglia verde che fermerà l’avanzare del deserto 10.03.2011
Le sabbie avanzano. E per fermarle il governo progetta la più ampia foresta dell’Asia: saranno piantati 300 milioni di alberi, irrigati deviando il corso di 24 fiumi. Ogni cittadino dovrà mettere almeno una pianta. Il costo sarà di 7 miliardi di euro
GIAMPAOLO VISETTI
PECHINO – La Grande Muraglia non basta più. Oggi solo una foresta può salvare la capitale della Cina. Non un bosco qualsiasi: contro il deserto serve la selva più vasta dell’Asia. È una missione senza precedenti, ai limiti delle possibilità della natura e dell’uomo. In qualsiasi altro Paese del mondo si sarebbe trasferita la capitale.
Come è avvenuto in Kazakhstan. Miliardi risparmiati e un’incertezza in meno. Ma la Cina è un altro mondo, oggi ha bisogno di storiche sfide e poi Pechino è Pechino. È una millenaria ed eterna città, il simbolo della patria, animata da 23 milioni di persone. Per questo nessun cinese si è stupito, ieri, leggendo sul “Quotidiano del Popolo” che il governo ha varato un’impresa destinata ad entrare nella storia del mondo: piantare trecento milioni di alberi nella regione dell’Hebei, a nord e a ovest della capitale, lungo il confine con la Mongolia Interna, per arrestare l’avanzata della sabbia dal deserto del Gobi.
La titanica impresa è stata battezzata “Grande Muraglia Verde” e mira a far crescere una nuova foresta di 250 mila chilometri quadrati di superficie. Le dune, alte fino a duecento metri, avanzano di venti metri all’anno: una velocità tripla rispetto alla media del secolo precedente. Dal 1990, sabbia, siccità e cemento hanno distrutto 135 mila chilometri quadrati di macchia. La bomba-albero non punta dunque solo a proteggere la Città Proibita dalle tempeste dei deserti: verrà fatta esplodere
anche contro il cambiamento del clima e l’avvelenamento dell’aria. Che Pechino scelga la natura per tentare di ricostruire un equilibrio infranto, nel nome della crescita economica ad ogni costo, è una buona notizia per tutti. Resta da dimostrare che il bosco di Stato resista. Gli scienziati sono prudenti. I tremila membri del parlamento manifestano invece ottimismo. Al punto da approvare con un applauso non obbligatorio l’annuncio del premier Wen Jiabao: 7 miliardi di euro per riforestare il fronte nord della nazione. Betulle e pioppi, assieme a faggi e abeti, sono solo l’inizio dell’ultima battaglia di Pechino. Per garantire l’irrigazione iniziale delle piante, nei prossimi anni saranno deviati anche ventiquattro fiumi, a partire dal Fiume Giallo.
I fatti del resto non lasciavano alternative. Anche in Cina il clima, nell’ultimo decennio, si è discostato dalla ciclicità dei secoli passati. Le contee interne e del Nord, tra gli altipiani tibetani e la Manciuria, sono flagellate da catastrofici periodi di siccità. Le precipitazioni annue, dal 2001, sono diminuite del 37%. Nella zona di Pechino i giorni di vento sono saliti da una media di 136 a 178 all’anno. La capitale, nel 2010, è stata raggiunta da 56 tempeste di sabbia. Costi e danni economici sono incalcolabili. Uno studio dell’Accademia delle scienze ha rivelato che 5 milioni di abitanti della municipalità sono a rischio diretto entro i prossimi cinque anni. Sabbia, polveri sottili ed emissioni del carbone usato per industrie e riscaldamenti formano un cocktail mortale. La fascia agricola che circonda Pechino negli ultimi cinque anni si è ridotta del 12% e nella nazione vivono 400 milioni di eco-profughi. Sono i contadini costretti ad abbandonare la terra resa sterile dalla sabbia e dai veleni, pericolosamente ammassati oggi nelle metropoli.
“Mezzo secolo di follia – dice Zheng Guoguang, capo dell’ufficio meteorologico di Stato – ha prodotto mutamenti irreversibili. Deforestazione e desertificazione delle aree coltivate sono l’effetto immediatamente più pericoloso. Dove smettono di crescere alberi, cessa di scorrere l’acqua. Pechino è minacciata dal deserto: ma prima rischia di morire di sete”. La popolazione della capitale è mobilitata. Il sindaco ha invitato ogni abitante ad acquistare e piantare un albero seguendo il tracciato della Grande Muraglia, che scorre pochi chilometri oltre la periferia. Ognuno potrà far crescere la pianta preferita, alberi da frutto compresi: questo primo tratto di nuova foresta si chiamerà “Bosco del millennio”. Le autorità comuniste sperano che l’umidità generata dalla selva, respingendo la sabbia verso i deserti mongoli e russi, induca anche la formazione di nuvole e lo scarico di piogge. Il 90% delle antiche sorgenti imperiali è prossimo all’estinzione, i laghi Ming sono ridotti a spiagge di quarzo e i pechinesi temono di doversi concentrare presto sulla costa ad est di Tianjin. A meno che una foresta artificiale, nella culla della deforestazione asiatica, torni a salvare la nuova capitale del pianeta.
http://www.repubblica.it/ambiente/2011/03/10/news/muraglia_verde-13410346/?rss
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La Libia e il ritorno dell’Imperialismo Umanitario 10.03.2011
di Jean Bricmont* – http://www.counterpunch.org.
Traduzione di l’Ernesto online
E’ riapparsa la banda al completo: i partiti della Sinistra Europea (i partiti comunisti “moderati”), i “Verdi” di José Bové, ora alleati di Daniel Cohn Bendit, che ancora non ha trovato una sola guerra degli USA-NATO che non gli piaccia, vari gruppi trotskisti, e, naturalmente, Bernard-Henri Lévy e Bernard Kouchner, tutti a chiedere qualche forma di “intervento umanitario” o accusando la sinistra latinoamericana, le cui posizioni sono molto più sensate, di agire come “utili idioti” del “tiranno libico”.
Dodici anni dopo, è tutto esattamente uguale al Kosovo. Centinaia di migliaia di iracheni morti, la NATO in una posizione difficilissima in Afghanistan, e non si è imparato nulla! La guerra del Kosovo venne fatta per fermare un genocidio inesistente, la guerra dell’Afghanistan per proteggere le donne (andateci e verificate qual’è la loro situazione ora), e la guerra dell’Iraq per proteggere i curdi. Quando si capirà che a tutte le guerre vengono attribuite giustificazioni umanitarie? Persino Hitler “proteggeva minoranze” in Cecoslovacchia e Polonia.
D’altro lato, Robert Gates avverte che qualsiasi segretario di stato che suggerisca al presidente degli Stati Uniti di inviare truppe in Asia o in Africa “deve essere esaminato nella testa”. Anche l’ammiraglio Mullen consiglia prudenza. Il grande paradosso dei nostri tempi è che i quartier generali del movimento della pace stanno al Pentagono e al Dipartimento di Stato, mentre il partito interventista è rappresentato da una coalizione di neo-conservatori e liberali interventisti, compresi guerrieri umanitari della sinistra ed ecologisti, femministe e comunisti pentiti.
Così ora, tutti dobbiamo consumare meno per il riscaldamento globale del pianeta, ma le guerre della NATO sono riciclabili e l’imperialismo ha assunto uno sviluppo sostenibile.
E’ naturale che gli Stati Uniti andranno o meno a una guerra per ragioni totalmente indipendenti dai consigli offerti dalla sinistra filo-guerra. Il petrolio non sarà probabilmente il fattore decisivo perché qualsiasi nuovo governo libico dovrà vendere petrolio e la Libia non esercita l’influenza necessaria per avere un peso importante sul prezzo del petrolio. E’ chiaro che l’instabilità della Libia genera speculazione che di per sé stessa colpisce i prezzi, ma questa è un’altra cosa. I sionisti hanno probabilmente due idee non collimanti sulla Libia: odiano Gheddafi e gli piacerebbe rovesciarlo come Saddam, nel modo più umiliante, ma non sono sicuri sul fatto che gli possa piacere l’opposizione (e per il poco che sappiamo, non gli piacerà).
Il principale argomento invocato a favore della guerra è che le cose si compiranno rapidamente e facilmente, che verranno riabilitati la NATO e l’intervento umanitario, la cui immagine è stata macchiata in Iraq e Afghanistan. Una nuova Grenada o, almeno, un nuovo Kosovo, è esattamente ciò di cui si ha bisogno. Un’altra motivazione è che l’intervento è il miglior modo per controllare i ribelli, andando a “salvarli” nella loro marcia verso la vittoria. Ma è improbabile che funzioni: Karzai in Afghanistan, i nazionalisti kosovari, gli sciiti in Iraq e naturalmente Israele sono molto felici di ricevere l’aiuto statunitense, quando ne hanno bisogno, ma dopo continuano con i propri piani. Inoltre, un’occupazione militare completa della Libia dopo la sua “liberazione” sarà difficile da conservare, il che naturalmente rende l’occupazione meno attrattiva dal punto di vista degli USA.
D’altro canto, se le cose andassero male, sarà probabilmente l’inizio della fine dell’impero statunitense. Da qui la prudenza dei funzionari incaricati, il cui compito non è propriamente quello di scrivere articoli per “Le Monde” o di parlare contro dittatori di fronte alle camere.
E’ difficile per un cittadino qualunque sapere cosa stia succedendo esattamente in Libia, perché i media occidentali si sono screditati completamente con la loro copertura dei fatti in Iraq, Afghanistan, Libano e Palestina, e le fonti alternative non sono sempre affidabili. Questo non ha toccato naturalmente la sinistra filo-guerra che è assolutamente convinta che le peggiori informazioni su Gheddafi siano veritiere, come dodici anni fa con Milosevic.
Il ruolo negativo del Tribunale Speciale Internazionale si è esplicitato un’altra volta, in questa occasione, come successe con il Tribunale Speciale Internazionale per la Jugoslavia, nel caso del Kosovo. Una delle ragioni per cui c’è stato uno spargimento di sangue relativamente limitato in Tunisia e in Egitto è che c’erano vie d’uscita possibili per Ben Ali e Mubarak. Ma la “giustizia internazionale” vuole assicurarsi che non ci sia via d’uscita possibile per Gheddafi, e neppure probabilmente per la gente vicina a lui, e con ciò lo incitano ad una guerra fino alla fine.
Se “un altro mondo è possibile”, come ripete la Sinistra Europea, allora, un altro Occidente dovrebbe essere possibile, e la Sinistra Europea dovrebbe cominciare a lavorare per quello. Le recenti riunioni dell’Alleanza Bolivariana possono servire da esempio: la sinistra in America Latina vuole la pace e si oppone all’intervento degli USA, perché sa di essere anch’essa nel mirino degli USA e che i suoi processi di trasformazione sociale richiedono, soprattutto, la pace e la sovranità nazionale. Per questo, viene suggerito di inviare una delegazione internazionale, possibilmente guidata da Jimmy Carter (che nessuno può chiamare marionetta di Gheddafi), per avviare un processo di negoziati tra il governo e i ribelli. La Spagna ha mostrato interesse all’idea, ma naturalmente Sarkozy l’ha respinta.
Questa proposta potrebbe suonare utopica ma non lo sarebbe tanto se ottenesse il sostegno delle Nazioni Unite, che in questo modo assolverebbero alla loro missione – ma ciò è impossibile a causa dell’influenza degli USA e dell’Occidente. Però, non è così impossibile che ora, o in alcune crisi future, una coalizione non interventista di nazioni, comprese la Russia, la Cina i paesi dell’America Latina e forse altri, uniscano gli sforzi per costruire alternative affidabili contrapposte all’interventismo occidentale.
A differenza della sinistra dell’America Latina, la patetica versione europea ha perso il senso di ciò che significa fare politica. Non cerca di proporre soluzioni concrete ai problemi, ed è capace solo di assumere posizioni morali, in particolare nella denuncia di dittatori e della violazione dei diritti umani, assumendo un tono enfatico. La sinistra socialdemocratica segue la destra con qualche anno di ritardo e non ha idee proprie. La “sinistra radicale” si ingegna a denunciare i governi occidentali in tutti i modi possibili, ma allo stesso tempo chiede che questi stessi governi intervengano in giro per il mondo per difendere la democrazia. La sua mancanza di riflessione politica la rende particolarmente vulnerabile alle campagne di disinformazione e rischia di trasformarla in una sorta di sostenitore passivo delle guerre USA-NATO.
Questa sinistra non ha un programma coerente e non saprebbe che fare nel caso che qualche dio la portasse al potere. Invece di “appoggiare” Chavez e la Rivoluzione Bolivariana, uno slogan senza senso che alcuni adorano ripetere, si dovrebbe umilmente imparare da loro soprattutto cosa significa fare politica.
* Jean Bricmont è professore di fisica teorica all’Università di Lovanio (Belgio) e figura eminente del movimento antimperialista europeo. Il suo libro Humanitarian Imperialism, è stato pubblicato da Monthly Review Press.
Fonte: www.counterpunch.org.
Tratto da: http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=20686#.
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Lethal Warriors 10.03.2011
di Danilo Arona
“Laggiù ho visto cose che nessuno dovrebbe mai vedere”
Devil (storia di M. Night Shyamalan)
Ogni singola notte della sua vita, da quando era tornato dall’Iraq, Sheldon T. Plummer (Olympia, Washington) si svegliava di colpo alle tre in punto. Pensava che fosse colpa del demonio e lo aveva pure lasciato scritto in un forum dedicato all’argomento. Ne esistono parecchi di questi forum: si parla si narcolessia, di Old Hag (la Vecchia Sotto il Lenzuolo), di risvegli improvvisi e condivisi alle 3,33 (la metà del numero diabolico) o di rapitori alieni dall’altra parte della finestra.
“Mi sveglio tutte le notti alle 3,33 . Ho i brividi su tutto il corpo e la stanza è gelata, e per questa cosa non ci sono spiegazioni perché il riscaldamento funziona perfettamente. Ma non ci nemmeno sono spiegazioni per questa precisione oraria: se metto l’orologio indietro di mezz’ora, spalanco gli occhi alle 3,03.”
“Gesù è morto alle 3,00 e le streghe fanno il loro sporco lavoro proprio a quell’ora.”
“Non mi sveglio proprio tutte le notti alle 3 del mattino. Ma mi sveglio spesso. E una notte ho visto sopra di me una figura nera dalla consistenza nebbiosa alta sino al soffitto. Ho fatto per alzarmi per correre ad accendere la luce, ma quella mi è volata addosso, più veloce di una pallottola. E mi sussurrava delle parole nelle orecchie che non voglio proprio ricordare.”
In quel forum non mancavano le esperienze demoniache. Ma Plummer il suo demone lo aveva incontrato in Iraq e se l’era trascinato dietro a Washington, lungo un tragitto aereo presagito sin dall’inizio degli anni Settanta dallo scrittore William Peter Blatty. Il risultato fu che, tra un risveglio e un incubo, Plummer ammazzò la moglie e la fece a pezzi, traendo ispirazione per le istruzioni “tecniche” dal serial TV Dexter.
Non è da oggi che una certa percentuale di marine americani di ritorno dall’Iraq e dall’Afghanistan torna a casa e scarica la propria aggressività su mogli, fidanzate o sconosciuti scelti a casaccio. Se non ammazzano qualcuno, uccidono sé stessi a ritmi impressionanti – le ultime cifre parlano di 18 reduci al giorno che scelgono la via del suicidio (fonte: army.times.com). Il fenomeno è noto sin dal 2004, ma la scelta, sin quando possibile, è stata quella di non parlarne o di parlarne pochissimo. Nel 2005, a mia memoria, ci fu soltanto un fugace servizio del TG3 in edizione pomeridiana.
Il settembre scorso Matthew Perkins, 30 anni e due campagne in Afghanistan e in Iraq, uccise a Manchester, Tennessee, la fidanzata e i due figlioletti di quest’ultima, inserì i corpi in sacchi di plastica della spazzatura e li rinchiuse in un armadio per vari giorni. Non esisteva alcun dissapore tra Perkins e la donna. L’uomo spesso urlava nel sonno e si svegliava di colpo, fradicio di sudore, chiedendo con disperazione al nulla: “Chi c’è? CHI C’E’?”
Eric Acevedo pugnalò la fidanzata a morte poche ore dal suo rientro dall’Iraq. Chissà come sarebbero state le sue notti?
Joseph Dwyer era perseguitato dai demoni già da tempo quando un giorno vide al bordo della strada una normale scatola di cartone vuota, la scambiò per una bomba in procinto di esplodere e provocò un brutto incidente stradale. Qualche mese più tardi Joseph si rinchiuse nel suo appartamento e iniziò a sparare dalla finestra. A casaccio, dove qualcosa sembrava muoversi. Per un caso straordinario non si fece male nessuno, ma la polizia impiegò una giornata intera a convincerlo che in giro non c’erano teste di stracci che lo volevano uccidere. Adesso Joseph non si trova più su questa terra e si è tolto di mezzo con un’overdose di tranquillanti e inalanti.
Jeff Lucey, 23 anni, tornato dalla prima fase bellica chiamata Decapitation Strike, s’impiccò nel seminterrato della casa dei genitori. La madre raccontò pubblicamente che nel mese in cui aveva partecipato all’invasione Jeff scriveva lettere terribili alla fidanzata in cui descriveva le mostruosità che aveva visto e che era stato costretto a fare. Una volta a casa, Jeff iniziò a parlare in modo sconnesso di Nassirya, la città in cui aveva avuto luogo la prima grande battaglia tra marine e irackeni. Di notte, intorno alle tre, a volte prima a volte dopo, si buttava sempre giù dal letto urlando. Dopo una notte in cui non aveva chiuso occhio affatto, ricevette sua sorella Amy con le lacrime agli occhi, dicendo di essere un assassino. E dichiarandosi “colpevole”. Prima di impiccarsi Jeff lasciò sul suo letto le targhette identificative dei soldati irackeni che aveva ucciso anche se disarmati. Lui le guardava spesso e mormorava parole incomprensibili.
Peter Mahoney, prima di andare in garage e attaccarsi al tubo di scarico, s’infilò l’uniforme con cui aveva prestato servizio.
Keith Nowichi, al rientro del suo secondo turno in Iraq, fu mandato per un anno di trattamento al Warrior Transition Unit di Fort Carson, Colorado Springs, dove collezionò solitudine, alcol e farmaci, e cesellò il tutto con il divorzio. Si uccise nel marzo del 2009 mentre si trovava al telefono con la ex moglie. Lì aveva conosciuto i Lethal Warriors, quelli della quarta Divisione Fanteria, i reduci di Falluja, quelli dei record: nove omicidi commessi da membri della stessa brigata, più 145 episodi di violenza domestica e 38 stupri.
Tutti questi ovviamente non sono demoni. Se così fosse, le contromisure sarebbero tutte sommato semplici. Sono invece i sintomi dell’ormai non più censurato PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) che esiste sin dai tempi del Vietnam, ma solo dagli anni Ottanta è riconosciuto come gravissima patologia invalidante (le assicurazioni americane l’hanno però inserita nei loro protocolli solo nel 2004…). Una sindrome che ne uccide più a casa che sul campo di battaglia, anche se le autorità militari mai lo confermerebbero, visto che i reduci sono tecnicamente dei civili. E poi, comunque, dopo i sintomi, arrivano i demoni
Secondo uno studio dell’Università della California sono trecentomila i militari tornati da Afghanistan e Iraq con segni chiarissimo di squilibrio mentale: emergenza che l’esercito affronta con appena 400 psichiatri. Con le prigioni che si riempiono di veterani: il 23% dei detenuti, un numero così alto che si sta pensando a tribunali speciali e condanne alternative. Un’inchiesta di “Time” spiega che il numero dei suicidi tra soldati ha toccato cifre record: 106 nel 2006, 115 nel 2007, 128 nel 2008. E ben 334 nel 2009: lo stesso anno i morti in battaglia sono stati 316 in Afghanistan e 149 in Iraq. Ma contando che va a buon fine un tentativo di suicidio su dieci, il numero di quelli che cercano di farla finita sale a tremila militari all’anno. Ammesso che siano dati reali: perché, insinua l’Huffington Post, i numeri, difficili da reperire, potrebbero essere superiori. E parliamo solo di militari in divisa: per quel che riguarda i veterani, le cifre sono solo ipotizzabili dato che, appunto, si tratta di civili.
Il suicidio, è noto e non da oggi, spesso diviene poi un fatto epidemico. Il mese di giugno del 2010 si sono uccisi 32 soldati, il numero più alto mai registrato Gli psichiatri e gli psicologi militari non hanno sufficienti conoscenze per affrontare questo disagio. Mark Russel, comandante della Marina specializzato in malattie mentali, ha scoperto che il 90% del personale che svolge queste funzioni non ha la formazione necessaria per curare il PTSD. Si limita a prescrivere farmaci come il Paxil, il Prozac o il Neurontin, che accentuano e addirittura provocano i sintomi.
Se non ci si uccide, si uccide. In ogni caso il disturbo mentale associato al PTSD può divenire incontrollabile. E trasformare il soggetto che ne è affetto in un lethal warrior sul patrio suolo. Difficile pensare infatti che chi viene addestrato a uccidere per non essere ucciso, una volta tornato a casa, possa inserirsi come se nulla fosse in una vita normale fatta di regole, di galateo e di rispetto per il prossimo. Difficile pensare che questa persona non abbia gli incubi e si svegli urlando più o meno alle tre di notte.
In un programma intitolato The War Within, trasmesso da Al Jazeera e dedicato al PTDS, la psichiatra americana Barbara Van Dahlen ha fatto dichiarazioni a dir poco inquietanti. Eccone un sunto:
“Il PTDS è contagioso. I reduci tornati a casa, quando si trovano in posti affollati, al supermercato, in un grande centro commerciale, o in un ristorante molto rumoroso, diventano ansiosi perché non riescono a esaminare efficacemente l’ambiente circostante e non si sentono al sicuro. Per i soldati coinvolti in esplosioni sui blindati lungo le strade, in Afghanistan e Iraq, le mogli riferiscono spesso che guidano al centro della strada, il che è chiaramente molto pericoloso qui negli USA. Ma lo fanno perché le bombe erano spesso collocate ai lati della strada e non riconoscono né realizzano che si stanno spostando verso il centro della strada, ma il cervello sta esaminando una potenziale minaccia nell’ambiente circostante. Lo stato di allerta continuo è dovuto alla paura che esista sempre un pericolo, perché chi ha subito un trauma è stato colpito da un evento che non ha potuto controllare, fortemente terrificante, distruttivo, pericoloso, o tutte queste cose insieme. Così il cervello è in allerta continua per la paura di un altro attacco o di un altro evento incontrollabile. E’ come se non esistesse una demarcazione tra la linea del fronte e casa propria, dove per definizione dovrebbe esserci solo la pace. In realtà oggi la guerra è ovunque. Perché è dentro. Non c’è solo la paura del terrorismo post 11/9, ma la paura che i reduci si portano dietro, contagiando amici e famigliari. E’ questo il vero problema che si pone nella cura dello stress post-traumatico. Non riguarda solo i soldati che tornano a casa, ma anche le loro famiglie. Abbiamo anche coniato una termine: ‘trauma secondario’, riferito al fenomeno dei familiari di soggetti affetti da stress post- traumatico che sviluppano gli stessi sintomi se le persone che hanno in casa non vengono curate. Così colpisce mogli e bambini, e chiunque passi molto tempo a stretto contatto con i reduci. Ha un potente effetto a catena che successivamente travalica il nucleo famigliare e si estende ai colleghi di lavoro, al sistema educativo quando si torna nei campus universitari. E’ a causa di questo consistente effetto a catena che noi operatori lo percepiamo come una vera emergenza sanitaria pubblica. E dobbiamo farvi fronte.”
Tutto questo – ma soprattutto il tema del contagio – ci riporta alla simbologia del profondo che scaturisce dai risvegli in preda al panico – alle 3,00 o alle 3,33 – da parte di chi soffre di PTDS. Sono esperienze visualmente demoniache che tendono a materializzare il Male (per poterlo guardare e controllare) e che alludono alla definitiva perdita dell’innocenza. Un capolavoro del 1988, Koko di Peter Straub, il tema dei reduci del Vietnam unito a quello degli orrori compiuti o testimoniati sul fronte bellico sottintendeva il trauma primario di un’infanzia distrutta a causa di adulti sadici. Un giovane soldato americano impazziva dopo essere stato costretto a uccidere un gruppo di bambini vietnamiti rifugiatisi in una grotta. Molti anni dopo, a guerra finita, l’uomo si trasformava in un serial killer che lasciava su ogni vittima orribilmente sfigurata una carta da gioco sulla quale appariva scarabocchiato il nome “Koko”. Si scopriva dopo alterne ed emozionanti vicende che chi si nascondeva sotto l’identità di Koko aveva visto da bambino la madre uccisa dal padre e lui stesso aveva dovuto subire ripetute violenze da parte del demone celato sotto le spoglie paterne. Attraverso un ricordo nascosto e il meccanismo delle analogie inconscie, Koko vendicava tanto sé stesso quanto i bambini vietnamiti con i quali s’identificava.
E’ una metafora che, nonostante gli anni trascorsi, si può ancora applicare ai lethal warriors che hanno riportato la guerra là dov’era stata dichiarata in nome di democrazie esportabili: a casa propria, tra le pareti domestiche, nella vita di tutti i giorni. Alle tre del mattino, l’ora del diavolo, per loro che ci credono.
Dopo i tumori da uranio impoverito e le sindromi della guerra del Golfo, è in arrivo qualcosa di peggio per il bellicoso Occidente: l’oscurità.
Something Wicked This Way Comes, ancora Ray…
http://www.carmillaonline.com/archives/2011/03/003822.html
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Le cellule tumorali si analizzano con un chip made in Italy 10.03.2011
DEPArray è una piattaforma creata a Bologna per controllare e spostare singole cellule. Lo scopo? Cure personalizzate e diagnosi non invasive
di Davide Ludovisi
Immaginate di riuscire a controllare e isolare singole cellule tumorali circolanti o cellule fetali nel sangue materno come se si trattasse della scelta di un libro tra i tanti in uno scaffale. Questa tecnologia esiste, ed è tutta italiana.
Si tratta di DEPArray, una piattaforma tecnologica brevettata da Silicon Biosystems, un’azienda bolognese. DepArray rende possibile segregare, selezionare e separare individualmente oltre centomila cellule attraverso un singolo chip microelettronico. Grazie a un particolare software, unico al mondo, si possono effettuare specifiche analisi o trasferire in coltura le cellule con una precisione estrema.
In realtà la metafora dei libri sugli scaffali non è del tutto corretta. Il sistema, infatti, sfrutta la micro elettronica e i principi della dielettroforesi (le cellule, cioè vengono separate grazie a un campo elettrico non uniforme) per manipolare e isolare le cellule e micro-particelle tra la miriade sospese all’interno di una cartuccia monouso. Per cui è come riuscire ad afferrare con delle pinze un granello in una tempesta di sabbia.
Il cuore del sistema è costituito da un microchip composto da trecentomila elettrodi in un circuito microfluidico. Quando una sospensione di cellule viene iniettata attraverso il sistema di canali, le singole cellule vengono ingabbiate e messe in levitazione stabile, senza mai toccare la superficie. Le cellule vengono quindi analizzate con filtri a fluorescenza, che ne facilitano l’identificazione. Individuate quelle che si vogliono analizzare basta muoverle come fossero delle pedine su uno scacchiere mediante i campi elettrici, controllandole attraverso l’interfaccia del software.
Per fare questo, l’azienda ha creato quindi un vero e proprio laboratorio biologico miniaturizzato. Un controllo così preciso consente di studiare cure personalizzate in campo oncologico, dato che si possono discriminare le singole cellule colpite da tumore da quelle sane. Riuscendo a isolare per esempio le cellule staminali tumorali si possono definire esattamente il loro profilo molecolare, determinando così nuove strategie terapeutiche mirate. In questo modo si riescono a colpire esattamente l’obiettivo, senza danneggiare l’organismo.
Un’altra applicazione interessante è anche la diagnosi prenatale non invasiva: attualmente, infatti, l’analisi delle cellule fetali circolanti nel sangue materno avviene attraverso l’ amniocentesi e l’ esame dei villi coriali, procedimenti piuttosto spiacevoli. Attraverso questo nuovo sistema, invece, il tutto potrebbe trasformarsi in un esame di routine, totalmente non invasivo.
http://italianvalley.wired.it/news/cellule-chip-bologna.html
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Identificato il meccanismo che ‘spegne’ ansia e paura 10.03.2011
Milioni di persone soffrono ogni giorno di ansia. Ma ora una soluzione potrebbe essere a portata di mano degli scienziati.
Un gruppo di ricercatori della Stanford University in California ha infatti scoperto il meccanismo cerebrale che cancella paura e ansia dagli individui. Lo studio è stato pubblicato su Nature online.
Più di una persona su 4 rischia di subire un attacco di ansia a un certo punto della propria vita. La condizione può danneggiare gravemente la qualità della vita, portando a veri e propri attacchi di panico regolari e/o allo sviluppo di sintomi come sudorazione, aumento della frequenza cardiaca e mal di stomaco.
I ricercatori hanno ora scoperto che stimolando un circuito cerebrale che si trova all’interno della struttura che conserva la materia grigia potrebbe contrastare l’ansia. I test sui topolini hanno mostrato che far scattare il meccanismo tramite impulsi di luce aumenta la propensione delle cavie al rischio, mentre inibirlo li rende più timidi e fifoni.
Secondo gli scienziati, questa scoperta apre la possibilità di realizzare farmaci migliori per aiutare le persone affette di disturbi d’ansia perchè il cervello umano sarebbe strutturato in modo simile a quello dei topolini su cui sono stati condotti i test. Per arrivare a questi risultati i ricercatori hanno utilizzato una tecnologia chiamata ‘optogenetica’ che sfrutta la fotosensibilità delle cellule nervose.
In questo caso è stato preso di mira un circuito all’interno della regione del cervello conosciuta con il nome di ‘amigdala’, riscontrando significativi cambiamenti nel comportamento dei topi.
“Improvvisamente si sono sentiti molto più a loro agio nelle situazioni in cui avrebbero normalmente percepito il pericolo, diventando pertanto più ansiosi“, ha spiegato Karl Deisseroth, scienziato che ha coordinato lo studio.
“Ad esempio, i roditori di solito – ha continuato – cercano di evitare gli spazi aperti, come i campi perchè questi luoghi li lasciano esposti ai predatori. Ma in entrambe le simulazioni in spazi aperti e coperti la volontà dei topi di esplorare le aree aperte è aumentata profondamente, non appena è stato inviato l’impulso luminoso nel circuito del cervello“.
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lettera dall’america 11.03.2011
Da: marion.milani@libero.it per ListaSinistra@yahoogroups.com
(lista: socialismo_e_socialdemocrazia@yahoogroups.com)
Ciao Filomeno!
Le cose purtroppo stanno peggiorando: il Michigan ha appena approvato una legge che concede poteri straordinari al governatore. Costui puo’ decidere di eliminare il consiglio comunale, il sindaco, i componenti del distretto scolastico e di porre tutto sotto il controllo di un manager privato. Anche in Italia esiste il commissariamento dei comuni, ma con tre differenze molto rilevanti rispetto alla legislazione approvata in Michigan:
1) in Italia che io sappia non si puo’ commissariare un comune semplicemente perche’ il governatore di una regione dice che bisogna commissionarlo (in Michigan invece e’ puro pottere dittatoriale del governatore, che fa il bello e cattivo tempo)
2) in Italia il commissario non e’ un’ azienda privata (invece in Michigan, si tratta di affidare ad una azienda privata il controllo di una citta’, di una contea, di un distretto scolastico).
3) in Italia il commissario (che io sappia) non ha il potere di rendere nulli i contratti firmati dal comune, in particolare i contratti stipulati con i sindacati (invece in Michigan l’ obbiettivo e’ sempre quello di distruggere i sindacati, semplicemente rendendo invalidi tutti i contratti stipulati nel pubblico impiego!).
Credevo che il diritto di sciopero in Europa fosse riconosciuto come diritto umano, e quindi pensavo alla possibilita’ di denuciare questi qui come stupratori di diritti umani. Naturalmente dal punto di vista legale capisco che costoro non verranno certo arrestati, ma speravo in una pubblicita’ MOLTO negativa…. capisci se la corte europea dei diritti umani dice che Ohio, Michigan, Wisconsin, Indiana sono come il Sudan, o il Bangladesh, certo non fa una bella impressione. In realta’ spererei in qualcosa di piu’, tipo un mandato di arresto europeo per questi politici, cosi’ non mettono piu’ piede in Europa (non che interessi loro… pero’ e’ sempre qualcosa…).
Le azioni di protesta sono in corso ormai da 4 settimane e si stanno intensificando dopo che queste leggi oscene sono (stanno) passando. La stessa cosa sta succedendo in Ohio (divieto di sciopero, carcere per chi sciopera, eliminazione delle contrattazione sindacale) e in Indiana.
Per quanto riguarda l’ idea di boicottare le aziende coinvolte, stiamo cercando di fare del nostro meglio. Il problema e’ che tutti i grandi supermercati, e la grande distribuzione sostengono questo tipo di politiche fasciste. Mentre in Italia e’ facile trovare piccoli negozi a conduzione familiare (per alimentari, elettrodomestici, etc.) qui e’ come cercare un ago in un pagliaio. Solo dopo una anno e mezzo sono riuscito a trovare una cooperativa di prodotti alimentari (tra l’ altro fondata da un italiano emigrato qui 50 anni fa); per il resto e’ molto difficile boicottare le grandi aziende, perche’ controllano tutto e hanno fatto tabula rasa della piccola imprese indipendente.
Non so come andra’ a finire, ma non prevedo nulla di buono…. pensati che la tanto vituperata riforma Gelmini (che personalmente mi fa schifo) introduce solo un 30% di privati nei consigli di amministrazione delle universita’. Nelle universita’ americane, la percentuale di privati (di nomina politica!) nei consigli di amministrazione e’ del… 100% !!!
Cerchero’ di tenervi aggiornati…
Alessandro
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Giappone, terremoto 8.9 Richter. Tsunami di 10 metri sulle coste. Governo: “Emergenza nucleare”
Tokyo – (Adnkronos/Ign) – Secondo l’Agenzia meteorologica giapponese (Jma) la scossa registrata alle 14.45 ora locale è stata la più potente mai registrata nel Sol Levante. Epicentro a una profondità di 24,4 chilometri. Un primo bilancio riferisce di 26 morti ma si contano centinaia di feriti e dispersi. Chiusi aeroporti, metro e ferrovie. Incendio nella centrale nucleare di Onagawa. Il governo: “Finora nessuna fuga radioattiva“. Frane e crolli nella capitale. La gente nelle strade (VIDEO – FOTO). Il premier convoca una riunione di emergenza. Pronte 30 squadre di soccorso Onu. La Farnesina sta verificando l’eventuale coinvolgimento di italiani. Per i familiari che volessero avere notizie dei loro parenti a Tokyo attivato il numero telefonico dedicato: 055/2779254. Stanno bene i 311 componenti del Maggio Musicale Fiorentino. Allerta maremoto in tutto il Pacifico, dall’Australia al Cile
Tokyo, 11 mar. (Adnkronos/Ign) – Un potente terremoto di magnitudo 8.9 della scala Richter e’ stato registrato a 150 chilometri dalla costa del Giappone. Subito è stato lanciato un allarme di tsunami con onda anomala di almeno sei metri. L’intensita’ del sisma, inizialmente fissata a 7.9 e’ stata innalzata a 8.8 dallo Us Geological Survey Said. Alla scossa iniziale, con epicentro a 130 chilometri a est di Sendai e 373 chilometri nord-est di Tokyo e a una profondita’ di 24,4 chilometri, sono seguite altre scosse di assestamento.
Per avere un’idea del bilancio delle vittime bisognerà attendere: al momento si contano almeno 26 morti e 30 dispersi. Solo nella prefettura di Iwate riferiscono di almeno 10 morti. Le vittime sono state registrate nella parte nord orientale del Paese e nella regione di Kanto. I feriti sarebbero almeno 100 e fra i dispersi ci sarebbero alcuni bambini risucchiati in mare, secondo quanto riportato dal canale Nhk.
Stando all’emittente che cita funzionari locali, le vittime sono state riportate a Minami Soma, nella prefettura di Fukushima, dove l’agenzia Kyodo riferisce di 8 dispersi per una frana. Secondo l’agenzia che cita fonti della polizia, ci sono diverse persone ferite e una nuvola di fumo nero fuoriesce da un palazzo nella zona di fronte al mare di Tokyo. Un blackout e’ segnalato in tutta la prefettura di Yamagata.
Il terremoto ha provocato una serie di incendi nella capitale. Le immagini in tv mostrano una raffineria in fiamme alle porte di Tokyo. L’aeroporto di Narita, vicino alla capitale, e quello di Sendai, sono stati chiusi.
Dopo la potente scossa è scoppiato un incendio nel locale turbine della centrale nucleare Onagawa della prefettura di Miyagi, nel nordest del Giappone.
Il governo di Tokyo ha assicurato che per ora non si sono verificate fughe di radioattivita’ dalle centrali ma ha dichiarato una situazione di emergenza sull’energia nucleare. Lo riferisce ‘Europa Press’, spiegando che la misura viene annunciata in caso di fughe radioattive o di avarie nel sistema di raffreddamento. L’Aiea ha affermato in un comunicato che sta cercando di raccogliere ulteriori informazioni su quanto sta succedendo per capire se le installazioni nucleari potrebbero essere a rischio per le conseguenze dello tsunami generato dal terremoto. Le quattro centrali nucleari piu’ vicine all’epicentro del sisma erano state immediatamente bloccate per sicurezza.
Un filmato andato in onda sull’emittente pubblica NHK ha mostrato numerose auto sommerse dall’onda del mare Kamaishi, nella prefettura Iwate, mentre l’onda di 4,20 metri dello tsunami si abbatteva sulla costa.
La prima scossa è stata registrata alle 14.45 locali. Alcuni edifici di Tokyo sono andati in fiamme.
In seguito al terremoto è scoppiato un incendio in un impianto siderurgico di Chiba. Lo ha riferito l’agenzia Kyodo, precisando che dopo il sisma ci sono state anche numerose frane che potrebbero aver sepolto diverse persone.
A Tokyo, l’emittente NHK parla di alcuni edifici in fiamme e molti feriti, spiegando che tra i danni prodotti dalla forte scossa di 8.9 , ci sono anche crolli di tetti in diversi edifici di Tokyo e Yokohama. Nella prefettura di Miyagi l’aeroporto di Sendai e’ stato invece chiuso. In citta’ vengono segnalati blackout elettrici e fughe di gas in diverse zone.
La regione nordorientale del Giappone era gia’ stata colpita da un forte sisma di magnitudo 7.3 della scala Richter mercoledi’ scorso che non aveva provocato vittime.
A Tokyo si è riunito il gabinetto di crisi e il governo ha deciso di inviare i militari nella prefettura d Miyagi. Otto aerei del ministero della Difesa controlleranno dall’alto i danni provocati nelle aree piu’ colpite. Intanto a Tokyo e’ stato sospeso il traffico della metropolitana e della veloce ferrovia leggera, che non avrebbero comunque riportato gravi danni dalle scosse.
Il primo ministro Naoto Kan in un primo commento ha detto che il terremoto ha causato “ingenti danni” mentre per il segretario del gabinetto nipponico, Yukio Edano, probabilmente si e’ trattato del peggior sisma della storia del paese.
Trenta squadre di soccorso delle Nazioni Unite sono in allerta e pronte a fornire il loro aiuto in Giappone. Lo ha annunciato Elisabeth Byrs, portavoce dell’Ufficio Onu per il coordinamento delle questioni umanitarie. “I nostri esperti sono in stretto contatto con le autorita’ giapponesi e finora tutte le risorse nazionali del Giappone sono pienamente impegnate nella risposta all’emergenza”, ha detto la funzionaria Onu, spiegando che ci sono”squadre internazionali in allerta con 30 team pronti a essere impiegati su richiesta del Giappone”.
Il Giappone ha emesso un allarme tsunami di sei metri e il Pacific Tsunami Warning Center delle Hawaii ha avvertito che l’allarme vale per Giappone, Russia, Marcus Island e Marianne del nord. Una avvertenza tsunami e’ stata emessa per Guam, Taiwan, Filippine, Indonesia e isole Hawaii. Il Servizio meteorologico degli Stati Uniti ha lanciato un allarme tsunami anche per la costa nordamericana del Pacifico, dall’Alaska alla California.
Intanto l’Unita’ di Crisi della Farnesina, in contatto con l’ambasciata d’Italia a Tokyo, sta verificando l’eventuale coinvolgimento di italiani. Per i familiari che volessero avere notizie dei loro parenti a Tokyo e’ stato attivato il numero telefonico dedicato 055/2779254.
Per il momento si sa che stanno tutti bene i 311 componenti dell’orchestra e dello staff del Maggio Musicale Fiorentino che si trovano dagli inizi di marzo a Tokyo per una lunga tournee’.
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ dell’11.03.2011
Le aperture
La Stampa: “Giustizia, riforma tra le proteste”, “Varato il provvedimento: carriere separate e doppio Csm. Insorgono opposizione e Anm: ‘Mossa punitiva’”, “Il premier: l’aspettavo dal ’94, se arrivava prima evitavamo Tangentopoli”.
In taglio basso: “La Francia: bombardare Gheddafi”, “Sarkozy e Cameron all’Ue: via il raiss. Merkel frena. Proteste in Arabia, la polizia spara”.
La Repubblica: “Giustizia, la rivolta dei magistrati”, “Il Consiglio dei ministri vara il ddl. L’Anm: norme punitiva, ci vogliono piegati al potere. D’Alema: nessun dialogo se il premier non si dimette”, “Berlusconi: con la riforma niente Mani pulite, ma non serve ai miei processi”.
A centro pagina: “Sarkozy: pronti a colpire in Libia”, “Pressing francese sulla Nato. Gheddafi riconquista posizioni. Allarme Eni: il greggio di Tripoli sta per finire”.
Il Giornale: “Finisce l’era degli intoccabili”, “Carriere separate per giudici e pm e da ora le toghe che sbagliano pagheranno. Ma i magistrati minacciano ritorsioni”. E ancora: “Bocchino-Woodcock, la strana coppia all’assalto del Giornale (e non solo)”.
A centro pagina: “Parigi dichiara guerra alla Libia”.
Corriere della Sera, sulla giustizia: “Via libera del governo alla riforma”, “Disegno di legge costituzionale: dalla separazione delle carriere all’obbligatorietà dell’azione penale ridotta”, “Berlusconi: l’aspettavo dal ’94. I magistrati: sono norme punitive”.
A centro pagina: “Dalai Lama, l’addio alla politica”. E sulla LIbia: “Sarkozy incalza la Ue: bombardare Gheddafi”, “La Nato frena. ASrabia saudita, spari sulla folla”.
Il Riformista: “Alfano chiama il Pd”, “Qualcosa si muove. Il ministro si attacca al telefono e offre piena disponibilità: ‘Il testo non è immutabile’. Bersani dice no a modifiche alla Costituzione ma apre uno spiraglio: ‘Abbiamo tre o quattro proposte da discutere’. Il leader democratico non vuole firmare cambiali in bianco ma nemmeno arroccarsi sulle posizioni di Di Pietro. Fini e il terzo Polo aprono. Berlusconi: ‘Non è un provvedimento contro nessuno’. Ma poi guasconeggia: ‘I pm devono andare dai giudici con il cappello in mano”.
A centro pagina: “Sarkozy vuole bombardare il raiss”.
Il Foglio: “Giustizia e Libertà”, “E’ il nome ‘azionista’ scelto dai Fratelli musulmani in Egitto. Gli islamisti dichiarano guerra alla ‘corruzione’ e alla ‘democrazia liberale’. Il ledaer Katatni propone di oscurare le tv nel Ramadan”.
Sulla Libia: “Sarkozy ha un piano per abbattere Gheddafi. Senza l’Onu e la Nato”, “Il presidente francese riconosce il governo dei ribelli e pensa di bombardare Tripoli. In Europa, soltanto Cameron è con lui”, “Il laissez-faire di Obama”.
Il Sole 24 Ore: “Il fisco perde i redditi più alti”. E spiega, anticipando i dati per il 2009: “gettito invariato, ma meno contribuenti sopra i 70mila euro”. “Il redditometro misurerà anche la ricchezza delle famiglie: ad aprile i primi test”.
A centro pagina, grande foto dell’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni e le sue parole: “la produzione in Libia si fermerà presto”.
Sotto la testata, sulla riforma della giustizia: “Due Csm, carriere separate, toghe responsabili. Il premier: l’aspettavo dal ’94. Il no dell’Anm”.
Giustizia
In un’analisi del Corriere della Sera si spiega che la riforma della giustizia è “davvero ‘epocale’, perchè “vuole tornare a un’altra epoca, a prima del codice del 1989, quando le varie polizie indagavano da sole, subivano ipoteche politiche, e riferivano al magistrato quando pareva a loro”. Nel progetto di riforma della Costituzione infatti si stabilisce che la giudice e pm dispongono della polizia secondo le modalità stabilite dalla legge, e si cancella l’avverbio “direttamente”. Una delle proposte depositate dal ministro Alfano proprio su questo punto due anni fa “vieta ai Pm di prendere diretta cognizione delle notizie di reato che riceverebbe solo dalla polizia giudiziaria, la quale, salvo casi particolari, potrà svolgere indagini per sei mesi senza riferire al pm”. Sulla modifica della obbligatorietà dell’azione penale, l’analisi del Corriere sottolinea come la riforma, “per rimediare alla discrezionalità di fatto dei Pm nel selezionare le indagini nel mare di reati previsti dal Codice, non procede a una seria e mirata depenalizzazione di condotte sanzionabili diversamente, ma lascia scritti nel Codice tutti i reati, per poi però affidare alla relazione del Guardasigilli e a un voto del Parlamento il potere di dettare ai Pm quali reati siano “più reati degli altri”.
Filippo Facci, che commenta i vari punti della riforma annunciata, spiega che “polizia e carabinieri non potranno essere più sguatteri dei pm, ma devono potersi muovere autonomamente, come nei sistemi di common law. Alle Procure verrebbe tolta la direzione esclusiva delle indagini”, norma da calibrare bene in modo che “la polizia giudiziaria non passi da piccolo esercito delle toghe a piccolo esercito del governo”.
Sulla Repubblica Massimo Giannini firma un editoriale dal titolo “una legge ad castam” e scrive: “E’ vero. Almeno per il momento, nel pacchetto giustizia licenziato ieri a Palazzo Chigi c’è una rottura significativa con il passato: non contiene norme ‘ad personam’ con le quali il Presidente del Consiglio si cuce addosso un salvacondotto personale. Ma non per questo è meno dirompente. Al contrario: questa è una riforma ‘ad castam’ con la quale una intera classe politica pretende di cucirsi addosso un salvacondotto collettivo”. E a dirlo è lo stesso Berlusconi in conferenza stampa, spiegando la filosofia del provvedimento, allorché ha affermato che se questo cambiamento “fosse stato introdotto venti anni fa, avrebbe evitato l’esondazione, invasione della magistratura nella politica. E quelle situazioni che hanno portato nel corso della storia degli ultimi venti anni a cambiamenti di governo, a un annullamento di una classe dirigente nel 1993”. Citando quindi le parole del premier Gianni spiega che quelle regole “avrebbero impedito al pool di Milano, sia pure tra alcuni errori e qualche eccesso, di scoprire il malaffare endemico del ceto politico della Prima Repubblica”.
Sullo stesso quotidiano ci si sofferma sugli effetti che potrebbe avere una introduzione del principio di inappellabilità di una sentenza di assoluzione in primo grado: gli esempi citati vanno dai poliziotti imputati per le violenze del G8 al processo nei confronti di Giulio Andreotti, a quello all’ex presidente della Prima sezione della Cassazione Carnevale, alla vicenda dell’ex brigatista Federica Saraceni, tutti casi in cui gli interessati in primo grado erano dichiarati non colpevoli.
L’ex procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio, oggi senatore del Pd, intervistato da La Stampa, dice che “se non ci fosse stata Mani Pulite” “il fenomeno Berlusconi non ci sarebbe stato proprio”, poiché il suo ruolo in politica “nasce perché si crea un vuoto”. Sullo stesso quotidiano due pagine-dossier sui “nodi più spinosi della riforma”. Focus sul principi di responsabilità civile: cause contro i magistrati, salta la protezione statale. Giudici come medici, chi sbaglia paga. L’Anm: ci mettono in ginocchio. Spiega il Presidente dell’Anm Palamara che con questa norma “si passa dal principio della responsabilità indiretta a quello della responsabilità diretta”. Oggi, nel caso di gravi colpe o dolo del magistrato, il cittadino intenta causa allo Stato, e poi indirettamente cita in giudizio i giudici. L’ex consigliere del Csm Giuseppe Maria Berruti sottolinea che “ogni persona che perderà una causa, e ciascuno pensa di averla persa ingiustamente, potrà fare causa al suo giudice, con il risultato di moltiplicare processi e indennizzi.
Lo stesso quotidiano intervista Marco Boato, che ai tempi della Bicamerale nel 1998 fu relatore sulla giustizia, che dice: “Copiata la mia bozza. E allora il Pds era d’accordo”.
Esteri
Marta Dassù su La Stampa, in una analisi dal titolo “doppia coppia contro l’UE”, si riferisce ai diversi indirizzi di Francia e Germania su questioni al centro della politica europea. Parigi marcia in accordo con Londra sulla questione della crisi libica, anche perché, spingendo l’acceleratore sul riconoscimento del consiglio nazionale provvisorio di Bengasi, Sarkozy “ha puntato a garantirsi vantaggi politici ed economici” nel dopo Gheddafi, puntando sulle concessioni petrolifere, “come l’Italia ha capito con qualche ritardo”. Sull’economia europea invece “la coppia è solo di bandiera”, perché tra Francia e Germania è quest’ultimo il Paese decisivo e la Merkel ha messo sul tavolo una sorta di “grande trade-off”: la Germania resterà europea (difenderà l’Euro) solo se l’Europa difenderà tedesca, ossia accetterà la disciplina finanziaria e attuerà le riforme che hanno fatto la forza del modello Deutscheland.
Il presidente Sarkozy ha anche insistito su un bombardamento mirato in Libia ed è disponibile ad andare avanti anche senza la Nato e l’Onu, come scrive La Repubblica riferendo il punto di vista del Nouvel Observateur. Sul riconoscimento degli insorti, invece, il nostro ministro degli esteri “frena” e la segretaria di Stato Usa Clinton ha preannunciato che un piano sulla Libia sarà presentato all’Alleanza Atlantica il 15 marzo, non escludendo alcuna opzione, compresa la no fly zone. Ancora secondo La Repubblica sarebbe stato il saggista Bernard-Henry Lévy (un improbabile diplomatico) a convincere Sarkozy a ricevere i rappresentanti del comitato nazionale di Bengasi e a riconoscerli. Tra le ragioni che avrebbero ispirato la svolta, la voglia di archiviare gli errori compiuti dalla Francia sulla gestione della crisi tunisina, dopo esser stata accusata fino all’ultimo di aver sostenuto i dittatori. Se ne parla anche in prima su Il Foglio.
La Stampa intervista l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea Catherine Ashton, che insiste sulla necessità di trovare un accordo e una collaborazione con la Lega Araba. Anche sulla questione del riconoscimento del Consiglio di Bengasi (“è una mossa che spetta agli Stati”), la Ashton ribadisce: “E’ mia convinzione è che dovremmo ragionare a Ventisette in contatto con la Lega Araba”. La Ashton sollecita l’adesione del vertice europeo al documento con cui la Commissione chiede sostegno ai Paesi in transizione democratica: fondi e creazione di condizioni ottimali per far funzionare la Banca Europea degli investimenti e la Banca dell’Est.
Su La Repubblica un lungo reportage dal Marocco, che “teme il vento della rivolta”. Il re ha annunciato riforme, ma schiera l’esercito.
Focus anche su La Stampa: “Mohamed VI avvia le riforme”. Ancora sul Medio Oriente in fiamme, una intera pagina sul Corriere della Sera, che riferisce degli spari sui manifestanti nelle manifestazioni di ieri in Arabia Saudita. In questo Paese è prevista oggi una “giornata della collera” e, come spiega anche La Repubblica, la tensione è alta a Ryad.E si attendono migliaia di persone in piazza. E in piazza ieri sono scesi per protestare anche gli sciiti, come raccontato nei giorni scorsi dai quotidiani.
Una analisi della situazione in cui si trova il regno saudita “in affanno” viene offerta ai lettori sulle pagine del Corriere della Sera: a firmarla è Roberto Tottoli, docente di islamistica all’Università Orientale di Napoli
E poi
Sulla prima pagina de La Repubblica rivelazioni di Wikileaks risalenti al 4 settembre 2009, dal quale si deduce come gli Usa considerassero il presidente Napolitano “il riferimento morale del Paese”. Lui “non riceve dittatori come Berlusconi”.
Su tutti i quotidiani troverete commenti sui due volumi di oltre 800 pagine dedicati alla figura di Gesù da Papa Benedetto XVI. Ne parlano su La Repubblica Vito Mancuso (“Il Gesù storico secondo Ratzinger”, su Il Giornale Andrea Tornielli (“Il Papa: ‘Gesù fu un innovatore: per primo separò fede e politica”), Claudio Magris sul Corriere (“Cristo alla prva del Getsemani, così Ratzinger trova l’eternità”).
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Col nucleare giapponese crolla un mondo di lobbysti e disinformatori e nasce un’opportunità di partecipazione popolare 14.03.2011
Bisognerebbe proporre che una delegazione di nuclearisti italiani, capeggiata da Chicco Testa, Aldo Forbice e Fabrizio Cicchitto vada a fare un po’ di lampada a Fukushima. Tanto non sta succedendo niente, vero?
Magari Chicco Testa potrebbe portare con sé il glorioso cartello che sfoggiava nell’86 davanti all’ambasciata sovietica di Roma per Chernobyl e che recitava testualmente “A tutti i morti di oggi e domani del nucleare”.
Di sicuro c’è che nella notte a Fukushima ci sono stati altri due botti sui quali nessuna persona seria può giurare rispetto alla natura e alla gravità e l’impianto di raffreddamento del reattore 2, lo ammette NHK, è ufficialmente fuori uso. Almeno altre tre centrali sono seriamente danneggiate e varie decine di persone sono sicuramente già state esposte a radiazioni. Altrettanto sicuro è anche che c’è chi non solo da Fukushima ma dall’intero Giappone sta scappando (per esempio l’intero corpo diplomatico francese) e che anche tra i giornalisti c’è chi scappa perché una cosa è fare gli inviati embedded o al seguito di delegazioni ufficiali e ben altra è andare incontro all’ignoto. Meno sicura, e non è necessario dire che nessuno si augura che succeda, è l’imminenza di una scossa di assestamento oltre il 7° grado Richter, normale dopo una del 9°, ma che andrebbe di nuovo oltre le capacità di sicurezza delle centrali nucleari.
La pratica del “l’avevo detto io” risulta stucchevole ma lo sciacallo non è chi in queste ore fa notare i pericoli del nucleare alla luce della tragedia giapponese. Sciacallo è chi in questi vent’anni di lobbysmo nuclearista ha lavorato di fino, organizzando convegni, mandando omaggini, pagando begli alberghi, e organizzando campagne di stampa truffaldine, come quella del Forum Nucleare Italiano, per superare il referendum degli anni ‘80 e far convincere gli italiani quanto è bello e pulito il nucleare mentre intanto per molti anni si evitava di far crescere eolico e solare e infine si accoltellava il settore delle rinnovabili ucciso in Italia appena pochi giorni fa dal decreto milleproroghe.
E’ una prima evidenza. Al di là di ogni altra considerazione, potenti lobby energetiche hanno lavorato nell’ultimo quarto di secolo per evitare che l’Italia segua il cammino di paesi come Germania o Israele nel campo delle rinnovabili e favorire il ritorno al nucleare. Sono due concezioni opposte di sviluppo. Da una parte uno sviluppo diffuso sul territorio, quasi partecipativo con i cittadini chiamati ad attivarsi per scegliere come vogliono riscaldarsi o illuminarsi. Dall’altro pochi impianti concentrati, ermetici negli investimenti epocali che comportano.
La seconda evidenza, quella giapponese (o dobbiamo aspettare un completo olocausto nucleare per trarre conclusioni?) è già sufficiente per offrire una grande opportunità di partecipazione politica agli italiani al crepuscolo di un berlusconismo che non muore ma continua a fare danni permanenti nel persistente discredito e insipienza dell’opposizione parlamentare. Il Ministro degli interni Bobo Maroni ha scelto di boicottare il referendum per mandarci a mare come volle Bettino Craxi nel 1991 piazzandolo a scuole chiuse e dopo ben due turni amministrativi. Mal gliene incolse a Craxi e fu la vigilia del crollo del sistema del CAF come questa volta il trionfo dei referendum può rappresentare la fine del bunga bunga. Fare il quorum il 12 e 13 giugno avrebbe un significato politico straordinario oltre le insipienze, indecisioni e complicità del centro sinistra alleato di quell’UDC già dichiaratasi favorevole a nucleare e privatizzazione dell’acqua e che nella scorsa campagna elettorale aveva nel programma la balzana idea di venti centraline nucleari regionali (sic).
Il 12 e 13 giugno sarà indispensabile andare in 25 milioni a votare per dire Sì all’energia pulita e no al nucleare, Sì all’acqua pubblica e no a quella privata e Sì alla giustizia uguale per tutti e no al “legittimo impedimento” di uno solo. Sarebbero tre colpi micidiali all’essenza stessa del berlusconismo ma il quorum potrà essere raggiunto solo con uno straordinario impegno civile. Mancano 90 giorni. Segniamoci la data sul calendario e facciamola segnare a tutti. Quella domenica a mare mandiamoci Berlusconi e Chicco Testa.
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Michael Moore: L’America non è alla bancarotta 10.03.2011
Contrariamente a quanto i tizi al potere amerebbero che voi credeste, così da rinunciare alle vostre pensione, tagliare i vostri stipendi, e adeguarvi alla vita dei bis-bisnonni, l’America non è alla bancarotta. Il paese è inondato di ricchezza e contanti. E’ solo che non sono nelle vostre mani. Ne sono lontanissimi. Sono stati trasferiti, nella più grande rapina della storia, dai lavoratori e consumatori alle banche e ai portafogli dei super-ricchi.
Oggi 400 americani da soli hanno la stessa ricchezza di metà di tutti gli americani messi insieme.
Lasciatemelo dire di nuovo. Quattrocento persone oscenamente ricche, la maggior parte di quelli che hanno beneficiato in un modo o nell’altro del “salvataggio” da molti trilioni di dollari dei contribuenti del 2008, hanno gli stessi soldi, le stesse azioni e proprietà di 155 milioni di americani messi insieme. Se non ce la fate ad arrivare a definirlo un colpo di stato finanziario, semplicemente non siete sinceri riguardo a quello che sapete che il vostro cuore vi dice che è vero.
E riesco a capire il perché. Per noi ammettere che abbiamo permesso a un piccolo gruppo di persone di darsi alla latitanza accaparrandosi la massa di ricchezza che alimenta la nostra economia, significherebbe che dovremmo accettare l’umiliante consapevolezza che abbiamo davvero consegnato la nostra preziosa democrazia all’élite danarosa. Questa repubblica la gestiscono ora Wall Street, le banche i 500 [più ricchi elencati nella rivista] Fortune e fino al mese scorso il resto di noi si è sentito totalmente impotente, incapace di trovare un modo per fare qualcosa al riguardo.
Io non ho altro che un diploma delle superiori. Ma quando ero a scuola tutti gli studenti dovevano seguire un semestre di economia per potersi diplomare. Ed ecco cosa ho imparato: i soldi non crescono sugli alberi. Crescono quando si producono cose. Crescono quando si ha un buon lavoro con un buon salario che si può usare per comprare le cose che ci servono e creare così altro lavoro. Crescono quando offriamo un sistema educativo eccezionale che poi fa crescere una nuova generazione di inventori, imprenditori, artisti, scienziati e pensatori che vengono fuori con la prossima grande idea per il pianeta. E quella nuova idea crea nuova occupazione e quella crea entrate per il lo stato. Ma se quelli che hanno i soldi non pagano la loro giusta parte di tasse, lo stato non può funzionare. Le scuole non sono in grado di produrre i migliori e i più brillanti che continueranno a creare quei posti di lavoro. Se i ricchi riescono a tenersi la maggior parte dei propri soldi, abbiamo visto che ne faranno: giocheranno temerariamente d’azzardo su folli schemi di Wall Street e distruggeranno la nostra economia. Il disastro che hanno prodotto ci costa milioni di posti di lavoro. Ciò a sua volta causa una riduzione delle entrate fiscali. Tutti finiscono per soffrire a causa di ciò che hanno fatto i ricchi.
La nazione non è al verde, amici miei. Il Wisconsin non è alla bancarotta. Affermare che il nostro paese è fallito significa ripetere la Grande Bugia. E’ una delle tre più grandi bugie del decennio: 1) l’America è alla bancarotta, 2) l’Iraq ha armi di distruzione di massa e 3) i Packers non possono vincere il Super Bowl senza Brett Favre.
La verità è che c’è un mucchio di soldi da mettere in giro. UN MUCCHIO. E solo che quelli al governo hanno dirottato quella ricchezza in un pozzo profondo che sta nelle loro proprietà ben protette. Sanno di aver commesso dei reati per far sì che ciò accadesse e sanno che un giorno o l’altro potreste aver voglia di vedere un po’ di quei soldi che normalmente erano vostri. Così hanno comprato e pagato centinaia di politici di tutto il paese perché eseguano i loro ordini. Ma giusto nel caso la cosa non funzionasse, hanno le loro comunità blindate, e i jet di lusso sempre col pieno di carburante e il motore acceso, in attesa del giorno che sperano non venga mai. Per evitare che venga il giorno in cui la gente esigerà di riavere il suo paese, i ricchi hanno fatto due cose molto furbe:
1. Controllano il messaggio. Essendo proprietari dei media hanno convinto, da esperti, molti americani di scarse risorse a comprare la loro versione del Sogno Americano e a votare per i loro politici. La loro versione del Sogno dice che anche voi potrete essere ricchi un giorno, questa è l’America, dove tutto è possibile se solo ci si impegna! Vi hanno fornito comodi esempi credibili per dimostrarvi come un povero ragazzo può diventare un uomo ricco, come il figlio di una madre single delle Hawaii può diventare presidente, come un tizio con un diploma delle superiori può diventare un regista di successo. Vi racconteranno queste storie in continuazione per tutto il giorno in modo che l’ultima cosa che vorrete sarà di buttare tutto all’aria, perché tu – sì, anche tu! – potresti diventare un giorno ricco/presidente/vincitore di un premio Oscar! Il messaggio è chiaro: tieni giù la testa, sgobba, non agitare le acque e assicurati di votare per il partito che protegge i ricchi dei quali un giorno potrai entrare a far parte.
2. Si sono inventati una pillola avvelenata che sanno che vorrete mai ingoiare. E’ la loro versione della mutua distruzione garantita. E quando hanno minacciato di far esplodere quest’arma di distruzione economica di massa nel settembre 2008, siamo rimasti istupiditi. Con l’economia e il mercato azionario in avvitamento e le banche sorprese a portare avanti una Catena di Sant’Antonio [‘Ponzi scheme’ nell’originale – n.d.t.], Wall Street ha fatto questa minaccia: o ci date trilioni di dollari dei contribuenti americani o raderemo al suolo l’economia. Sganciate o dite addio ai depositi a risparmio. Addio alle pensioni. Addio al Tesoro degli Stati Uniti. Addio al lavoro e alle case e al futuro. Era una cosa fottutamente orribile e ha spaventato tutti a morte. “Ecco! Prendete i nostri soldi! Non ci importa. Ne stamperemo altri per voi! Soltanto, prendeteli! Ma per favore lasciate stare le nostre vite, PER FAVORE!”
I dirigenti nelle stanze dei consigli di amministrazione e nei fondi speculativi non riuscivano a tenersi dalle risate, dall’allegria, e nel giro di tre mesi stavano già scrivendosi l’un l’altro enormi assegni premio meravigliandosi del modo perfetto in cui erano riusciti a ingannare una nazione piena di babbei. Milioni hanno comunque perso il lavoro, e milioni hanno perso le case. Ma non ci sono state rivolte (vedere il punto 1 più sopra).
Fino ad ora. Va in scena il Wisconsin! Gli abitanti del Michigan non sono mai stati così felici come ora di dividere con voi un grandissimo lago! Avete risvegliato il gigante addormentato noto negli Stati Uniti d’America come la gente che lavora. Proprio in questo momento la terra trema e sfugge sotto i piedi di quelli che sono al potere. Il vostro messaggio ha ispirato la gente di 50 stati e il messaggio è: NE ABBIAMO ABBASTANZA! Respingiamo chiunque ci dica che l’America è alla bancarotta e al verde. E’ esattamente l’opposto! Siamo ricchi di talento e di idee e di capacità di duro lavoro e, sì, di amore. Amore e compassione verso quelli che, senza alcuna colpa da parte loro, sono finiti per essere gli infimi tra noi. Ma bramano ancora quello che tutti noi bramiamo: riavere indietro il nostro paese! Indietro la nostra democrazia! Il nostro buon nome! Gli Stati Uniti d’America. NON gli Stati degli Affaristi d’America! Gli Stati Uniti d’America!
E allora come facciamo perché questo succeda? Beh, facciamo un po’ di Egitto qui e un po’ di Madison là. E facciamo pausa per un momento e ricordiamo che è stato povero con un banchetto di frutta in Tunisia che ha dato la vita in modo che il mondo potesse concentrare la sua attenzione su come un governo gestito da miliardari per i miliardari sia un affronto alla libertà e alla moralità e all’umanità.
Grazie Wisconsin! Hai fatto sì che la gente si rendesse conto che la nostra ultima migliore occasione per afferrare l’ultimo brandello di quel che è rimasto di ciò che eravamo come americani. Per tre settimane siete rimasti al freddo, avete dormito per terra, abbandonato le vostre cittadine per l’Illinois; qualsiasi cosa fosse necessaria, l’avete fatta, e una cosa è certa: Madison è solo l’inizio. I ricchi soddisfatti di sé hanno forzato troppo la mano. Non potevano limitarsi a essere contenti del soldi che avevano rapinato al tesoro. Non potevano essere sazi semplicemente cancellando milioni di posti di lavoro trasferendoli all’estero per sfruttare i poveri altrove. No, dovevano strapparci la nostra dignità. Dovevano zittirci e rinchiuderci in modo che non potessimo nemmeno sederci a un tavolo con loro e negoziare su cose tanto semplici come le dimensioni delle classi scolastiche o i giubbotti antiproiettile per chiunque appartenga alla polizia o permettere a un pilota di prendersi un paio di ore extra di sonno in modo da poter fare il proprio lavoro, un lavoro da 19.000 dollari all’anno [meno di 14.000 Euro – n.d.t.]. Questo è quanto prendono alcune reclute sulle linee dei pendolari, forse anche il pilota appena assunto che mi ha portato oggi qui a Madison. Mi ha detto che ha smesso di sperare in un aumento di paga. Tutto quel che chiede, al momento, è di avere abbastanza tempo a terra per non dover dormire in macchina nei cambi di turno all’aeroporto O’Hare. Questo è quanto spregevolmente siamo precipitati in basso! I ricchi non potevano accontentarsi di pagare questa persona 19.000 dollari all’anno. Dovevano privarlo del sonno. Dovevano sminuirlo e disumanizzarlo e strofinargli la faccia nella cosa. Dopotutto è soltanto un altro fannullone, no?
E questo, amici miei, è l’errore fatale dell’America degli Affari. Ma cercando di distruggerci hanno dato vita a un movimento, un movimento che sta diventando una rivolta massiccia e non violenta in tutto il paese. Sapevamo tutti che ci sarebbe stato un punto di rottura un giorno o l’altro e quel punto dipende da noi. Molti, nei media, non lo capiscono. Dicono di essere stati colti di sorpresa dall’Egitto, di non aver visto arrivare la cosa. Ora sono sorpresi e disorientati riguardo al motivo per cui in così tante centinaia di migliaia sono venuti a Madison nelle scorse tre settimane con un tempo invernale brutale. “Perché se ne stanno tutti fuori al freddo?” Voglio dire, c’è stata quell’elezione a novembre [Senato americano – n.d.t.] e si supponeva che fosse finita lì!
“C’è qualcosa che sta succedendo qui, e non sai di cosa si tratta, vero?”
L’America non è alla bancarotta! L’unica cosa che è rotta è la bussola morale dei governanti. E noi puntiamo ad aggiustare quella bussola e a pilotare la nave da soli. Non dimenticate mai che, fino a quando regge quella nostra costituzione, si tratta di un voto a persona ed è questo che i ricchi odiano di più dell’America, perché anche se sembrano avere tutti i soldi e tutte le carte vincenti, a malincuore sono consapevoli di questo fatto: noi siamo più di loro!
Madison, non arretrare. Siamo con te. Vinceremo insieme.
FONTE: http://www.znetitaly.org/
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EURO: IL PATTO E’ SERVITO. FRENO A SALARI, AUMENTO PENSIONI, FLESSIBILITA’ 11.03.2011
Alla fine ci sono riusciti, mentre noi stavamo a girarci i pollici tra primarie, crisi di governo fasulle, elezioni anticipate e sciopericchi gli europadroni hanno lavorato in silenzio. Governi di centro sinistra e centro destra hanno raggiunto una mediazione che di fatto rappresenta la fine dell’Europa sociale, si tratta di un vero e proprio colpo di stato monetario che sottrae ai parlamenti la propria sovranità economica in nome della supremazia del mercato. Questo non è solamente un attacco al mondo del lavoro ma alla democrazia stessa, che sconquassa anche la nostra costituzione che dovrà essere modificata per recepire il criterio del rispetto del patto di stabilità. Il 24 marzo si voterà l’intero pacchetto. E’ il più grande attacco al mondo del lavoro mai visto in Europa dopo il fascismo. Occorre reagire, non permettiamo a questi ladri di toglierci il futuro!
controlacrisi.org
CRISI: PATTO EURO, DA FRENO SALARI A STOP PREPENSIONAMENTI (ANSA) – BRUXELLES, 11 MAR – Legare i salari all’andamento della produttività, elevare l’età pensionabile, limitare i prepensionamenti, recepire nella legislazione nazionale i vincoli europei su deficit e debito, varare norme nazionali per la risoluzione delle crisi bancarie. E poi ancora: accelerare sulle liberalizzazioni, ridurre il costo del lavoro, rendere più flessibile il mercato dell’occupazione. Questi gli impegni che i Paesi della moneta unica si apprestano a prendere con il nuovo ‘Patto per l’eurò, il cui via libera è atteso nel vertice dei leader dell’Eurozona in programma stasera a Bruxelles. Impegni che «saranno successivamente integrati nei programmi nazionali di riforma e nei programmi di stabilità» da inviare a Bruxelles. «Ogni anno – si legge infatti nella bozza del Patto – i capi di Stato e di governo fisseranno obiettivi comuni» e «ciascun capo di Stato e di governo assumerà impegni nazionali concreti». Il «controllo politico» sull’attuazione di questi impegni spetterà agli stessi leader dell’Eurozona. «Ciascun Paese – si legge ancora – conserverà la competenza di scegliere gli interventi specifici necessari per raggiungere gli obiettivi comuni fissati» . Il nuovo Patto si accompagna al pacchetto anti-crisi che la Ue si appresta ad varare entro fine mese, e deve servire a compiere «un salto di qualità nel coordinamento delle politiche economiche nella zona euro, migliorare la competività e aumentare il livello di convergenza». Nel testo si sottolinea quindi come «gli Stati membri della Ue che non fanno parte della zona euro sono invitati a partecipare al Patto su base volontaria» .Ecco i principali punti del Patto messo a punto dal presidente delle Ue, Herman Van Rompuy, e di quello della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. – MODERAZIONE SALARI. Gli Stati dell’Eurozona si impegnano ad assicurare «un’evoluzione delle retribuzioni che sia in linea con quella della produttività». Questo «riesaminando gli accordi salariali e, laddove necessario, il meccanismo di indicizzazione». Ma anche «assicurando che gli accordi salariali nel settore pubblico corrispondano allo sforzo del settore privato». Per misurare i progressi di ogni singolo Paese, si «monitoreranno in un dato arco di tempo i costi unitari del lavoro confrontandoli con l’evoluzione in altri Paesi della zona euro». Inoltre, i Paesi «dovranno prestare attenzione anche all’evoluzione a livello regionale». – AUMENTO PRODUTTIVITÀ. Dovrà essere perseguito con una «ulteriore apertura dei settori protetti, eliminando restrizioni ingiustificate ai servizi professionali e nel settore del commercio al dettaglio». Ma anche attraverso «sforzi specifici per migliorare l’istruzione, promuovere la ricerca, l’innovazione e le infrastrutture». – RIDUZIONE COSTO LAVORO. Per stimolare la ripresa dell’occupazione, il Patto indica la necessità di promuovere la ‘flessicurezzà nel mercato del lavoro, ridurre il sommerso e «ridurre l’imposizione sul lavoro per rendere conveniente lavorare, mantenendo il gettito il gettito fiscale globale». – SOSTENIBILITÀ PENSIONI. Per rafforzare le finanze pubbliche, ogni Paese si impegna a garantire «la sostenibilità di pensioni, assistenza sanitaria e prestazioni sociali». In particolare, si rende necessario «allineare la prestazione del sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, ad esempio allineando l’età pensionabile effettiva alla speranza di vita», «limitare i regimi di pensionamento anticipato» e «ricorrere a incentivi mirati per assumere lavoratori anziani (sopra i 55 anni)». – VINCOLI DEFICIT IN LEGGE. Gli Stati si impegnano a «recepire nella legislazione nazionale le regole di bilancio della Ue fissate nel Patto di stabilità e di crescita». Ogni Paese deciderà a quale specifico strumento legislativo ricorrere (la Germania proponeva la Costituzione). – REGOLE ANTICRACK. Al fine di assicurare la stabilità finanziaria, ogni Paese dovrà «introdurre una legislazione nazionale per la risoluzione delle crisi nel settore bancario». Saranno anche effettuati «stress test regolari e rigorosi sulle banche». Sarà in particolare «attentamente monitorato per ogni Stato membro il livello del debito privato di banche, famiglie e imprese non finanziarie».
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Altra lettera dall’America
Sempre su socialismo_e_socialdemocrazia@yahoogroups.com
11.03.2011
Ciao Claudio,
allora si stanno raccogliendo firme per fare quello che si chiama un “recall”, cioe’ la possibilita’ di sostituire il governatore ed i senatori prima della fine del mandato. Purtroppo non tutti gli stati ammettono questo “recall” (per esempio, l’ Ohio non prevede nulla di simile). So che in Winsconsin si sono gia’ attivati in questo senso, e probabilmente faranno ugualmente per quanto riguarda il Michigan.
Purtroppo la costituzione americana non impedisce che ai governatori assumano poteri di “emergenza”. Come diceva Sartori qualche tempo fa, l’ America e’ una monarchia elettiva, perche’ il presidente ha praticamente gli stessi poteri che aveva un sovrano europeo nel 1700 (il motivo e’ presto detto, i coloni non avevano modelli diversi rispetto alla monarchia britannica).
Il governatore del Michigan ha avvocato a se’ poteri di emergenza con la scusa della crisi di bilancio, dei terroristi, del prezzo del petrolio (ogni scusa e’ buona ….) e questi poteri gli sono stati garantiti dal Senato e dalla Camera del Michigan.
Per quanto riguarda la corte suprema ed il sistema giudiziario negli USA bisogna fare una premessa importante: qui si diventa giudici non tramite concorso pubblico, ma in due modi:
1) i giudici di prima istanza sono eletti dalla popolazione (quindi per esempio se sei un amico di qualche corporations, questi ti pagano le elezioni a giudic e tu poi ricambi una volta che hai assunto l’ incarico… una mano lava l’ altra).
2) i giudici distrettuali e federali sono di nomina politica.
3) i giudici della corte suprema sono di nomina presidenziale (politica).
Questo ha conseguenze molto pesanti: i sindacati hanno sporto denucia all’ avvocato generale del Winsconsin e alla magistratura competente, che pero’ sono appena stati rimpiazzati dai repubblicani tramite uno spoil system. Da quello che sento, i giudici e l’ avvocato generale si esprimeranno contro i sindacati (sorpresa!).
Un altro esempio: in Pennsylvania, un giudice era in affari con una corporation che gestiva prigioni: indovinate cosa faceva il giudice? Spediva adolescenti in prigione per uno o due anni per delle sciocchezze. Finalmente, dopo che qualche adolescente si e’ suicidato,
e dopo 20 anni di tali nefandezze il giudice e’ stato condannato a ….. 10 anni di pena, ma subito liberato su cauzione.
Insomma… poi ci lamentiamo che Berlusconi ha pagato un giudice per la Mondadori…
Posso anche testimoniare direttamente quello che e’ successo in Ohio alla mia universita’ dove c’e’ stato uno scontro tra i sindacati e l’ amministrazione (controllata dagli uomini d’ affati della comunita’). La cosa e’ andata in tribunale e la sentenza (e la motivazione!) del giudice e’ stata una cosa assolutamente surreale. L’ attuale presidente del consiglio di amministrazione e’ il dirigente di una compagnia di assicurazione sanitaria ed ora ci deve essere una discussione tra i dipendenti dell’ universita’ e l’ amministrazione per quanto riguarda i “benefits” associati all’ assicurazione sanitaria… immaginate il conflitto di interessi.
Per quanto riguarda la corte suprema, l’ anno scorso i “supremi” hanno stabilito che non solo le corporations sono persone giuridiche, ma come tali hanno il diritto di finanziare in maniera illimitata candidati o partiti politici nel segreto. Fate un po’ voi due conti…
Per di piu’ il Taft-Hartley act, che e’ una legislazione federale passata alla fine della Seconda Guerra Mondiale (il presidente Truman aveva fatto di tutto per impedire che fosse approvata, arrivando a porre il veto, ma il suo veto fu annullato dal congresso) pone dei fortissimi limiti al diritto di sciopero. Ecco quello che stabilisce il Taft-Hartley act:
(da wikipedia in Inglese):
Il Taft-Hartley Act proibisce gli scioperi non autorizzati dai sindacati (wildcat strikes), gli scioperi di solidarieta’ o politici, le azioni di boicottaggio in appoggio ad un sindacato che non sia il proprio, negozi chiusi, supporto finanziario da parte dei sindacati a campagne politiche federali; inoltre richiede che le persone che occupano posizioni dirigenziali nei sindacati firmino un atto notarizzato in cui affermano di non essere comunisti. Negozi di proprieta’ dei sindacati possono essere dichiarati illegali tramite legislazione locale di un singolo stato; per di piu’ il governo federale ha il potere di precettare i lavoratori, cosa che e’ stata interpretata in modo molto “flessibile” dalle corti.
(La stessa wikipedia in Inglese, nota che “In the US and UK workers can typically strike against their direct employer only. In continental Europe, secondary action is generally lawful and the right to strike is seen as a part of broader political freedom.).
Alla faccia della liberta’ e dell’ esportare “freedom and democracy”.
Mi piacerebbe che radicali e partiti politici di sinistra in Italia fossero un po’ piu’ coscienti dei terribili conflitti di interessi, ingiustizie, sopraffazioni che avvengono oltre oceano e che per certi aspetti fanno semprare Berlusconi come un allievo di Nenni e Pertini al confronto.
Comunque vi terro’ aggiornati,
Alessandro
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L’altra formidable rivoluzione di cui i “media” si guarano bene di parlare 11.03.2011
Di: Emmanuele Lupi
Per quanto incredibile possa sembrare, in questo momento in Islanda sta avendo luogo una vera rivoluzione democratica e anticapitalista e nessuno ne parla, nessun “Media” ne riporta l’informazione, non ne troverete quasi alcuna traccia su “Google”: in breve, il black-out totale.
Tuttavia, la natura degli avvenimenti in corso in Islanda è sconcertante: un popolo che scaccia la destra al potere assediando pacificamente il palazzo presidenziale, una “sinistra” liberale anch’essa allontanata dalle “responsabilità” poiché intendeva condurre la stessa politica della destra, un referendum imposto dal Popolo per determinare se bisognasse rimborsare o no le banche capitaliste che hanno affondato il paese nella crisi a causa della loro irresponsabilità, una vittoria del 93% che impone di non rimborsare le banche, una nazionalizzazione delle banche e, punto d’orgoglio di questo processo per molti aspetti “rivoluzionario”: elezione, il 27 novembre 2010, di un’assemblea costituente incaricata di scrivere le nuove leggi fondamentali che tradurranno, d’ora in poi, la collera popolare contro il capitalismo e le aspirazioni del popolo ad un’altra società.
Mentre sull’Europa intera incombe la collera dei Popoli presi alla gola dal rullo compressore capitalista, l’attualità ci rivela un altro aspetto, una storia in atto in grado di rompere delle certezze e soprattutto di dare una prospettiva alle lotte che infiammano l’Europa: la riconquista democratica e popolare del potere, al servizio della popolazione.
Dopo sabato 27 novembre, l’Islanda dispone di un’assemblea costituente composta da 25 semplici cittadini eletti dai loro pari. Il suo obiettivo: riscrivere interamente la costituzione del 1944 tenendo ben presente la lezione della crisi finanziaria che nel 2008 ha colpito in pieno il paese. Dopo questa crisi, dalla quale è ben lontana dal riprendersi, l’Islanda ha conosciuto un certo numero di cambiamenti assai spettacolari, a cominciare dalla nazionalizzazione delle tre principali banche, seguita dalle dimissioni del governo di destra sotto la pressione popolare.
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Nucleare, Mario Tozzi: “La politica farebbe meglio a stare zitta” 12.03.2011
“Sono degli irresponsabili. Parlassero di meno e studiassero di più”. Mario Tozzi, maître à penser e mezzobusto televisivo dell’ambientalismo italiano, non usa mezzi termini nel commentare le reazioni di casa nostra al terremoto giapponese e alla minaccia di disastro nucleare. Le dichiarazioni dei vari Fabrizio Cicchitto e Pierferdinando Casini, a Tozzi non sono proprio piaciute. E’ un fiume in piena: “C’è da rimanere allibiti. Questi politici fanno finta di esser dei teorici di fisica nucleare. Non hanno nemmeno la decenza di usare la cautela che in situazioni come questa dovrebbe essere d’obbligo”.
Non parlate a Tozzi poi dell’editoriale di oggi del Messaggero a firma di Oscar Giannino. Un articolo che ha scalato la classifica delle dichiarazioni al buio che poi sono state clamorosamente smentite. Il giornalista scriveva che quanto accaduto in Giappone era “la prova del nove” della sicurezza dell’energia prodotta dall’atomo. “Che figura miserrima quella di Giannino – attacca Tozzi – Ma a una cosa è servita: a smascherare l’abitudine italiana di salire in cattedra e di parlare di cose che non si conoscono”.
Di fronte alla minaccia di un disastro nucleare, la parola d’ordine della lobby nucleare nostrana è minimizzare. “Anche l’incubo che sta vivendo il Giappone in queste ore con il danneggiamento di un reattore – continua il giornalista – in Italia viene declinato a mero strumento di propaganda politica e ideologica. Difendono l’atomo solo perché non possono tornare indietro”.
Secondo il conduttore di “Gaia, il pianeta che vive” (che tornerà in onda su Rai Tre a partire dal 31 marzo) le bugie più macroscopiche della lobby pro-atomo sono due: la sicurezza e l’economicità di questa fonte di energia. Che la tragedia giapponese le sta drammaticamente mettendo a nudo.
“Le centrali nucleari giapponesi – spiega Tozzi – sono state costruite per sopportare un terremoto di 8,5 gradi della scala Richter. Poi cos’è successo? E’ arrivato un sisma di 8,9 e le strutture non hanno retto”. Le centrali italiane saranno costruite per resistere a delle scosse di circa 7,1 gradi, ma, come sostiene Tozzi, “chi ci assicura che un giorno non arriverà un sisma più potente?”. Nessuno, appunto. Perché i terremoti sono fenomeni che non si possono prevedere. Inoltre il disastro giapponese è avvenuto nel paese tecnologicamente più avanzato del mondo. A Tokio infatti è radicata una seria cultura del rischio che è frutto di una profonda conoscenza di questi fenomeni. “Con quale faccia di tolla i vari Cicchitto ci vengono a vendere l’idea che in Italia, in caso di terremoto, le cose possano andare meglio che in Giappone? Il terremoto dell’Aquila se si fosse verificato in Giappone non avrebbe provocato neanche la caduta di un cornicione. Da noi ha causato 300 morti. Chi può credere alle farneticazioni sulla sicurezza del nucleare italiano?”, chiede sarcasticamente Tozzi. E’ vero che l’incidente nucleare è più raro, ma è altrettanto vero che è mille volte più pericoloso. E il caso giapponese, secondo Tozzi, è da manuale: “Se a una centrale gli si rompe il sistema di raffreddamento diventa esattamente come un’enorme bomba atomica. Forse è questa la prova del nove di cui parla Giannino”.
E poi c’è la questione della presunta economicità dell’energia prodotta dall’atomo. “I vari politici e presunti esperti – argomenta Tozzi – si riempono la bocca dicendo che il kilowattora prodotto dall’atomo è più economico di quello prodotto dalle altre fonti. Ma non è vero. Noi sapremo quanto costa realmente solo quando avremo reso inattivo il primo chilogrammo di scorie radioattive prodotto dalle centrali. E cioè fra 30mila anni”. Secondo il giornalista, la lobby che vuole il ritorno del nucleare propaganda la sua convenienza economica senza tenere conto dell’esternalità, e cioè dei costi aggiuntivi che ne fanno lievitare il prezzo. Che vanno dallo smaltimento delle scorie (problema che nessun paese al mondo ha ancora risolto definitivamente) ai costi sociali ed economici di un eventuale incidente. “Sono soldi che i nuclearisti non conteggiano – dice Tozzi – perché sono costi che ricadranno sui cittadini e sulle generazioni future”.
Il 12 giugno è in programma un referendum che, fra le altre cose, chiede l’abrogazione del ritorno all’atomo dell’Italia. Il rimando a quanto successe a Chernobyl nel 1987, alle grandi mobilitazioni antinucleariste fino al referendum che sancì l’abbandono dell’energia nucleare è quasi d’obbligo. Ma a Mario Tozzi il paragone non convince: “Veniamo da 25 anni di addormentamento delle coscienze. Oggi abbiamo gente come Chicco Testa e Umberto Veronesi che fanno i finti esperti e spot ingannevoli che traviano l’opinione pubblica”. Insomma, il legame fra l’incidente che scosse le coscienze e il voto popolare che funzionò nel 1987, oggi potrebbe fallire. Ma il 12 giugno non si voterà solo per dire no all’atomo. I cittadini saranno chiamati anche ad esprimersi contro la privatizzazione delle risorse idriche e contro la legge sul legittimo impedimento. Temi che, affianco al no all’atomo, potrebbero convincere i cittadini ad andare alle urne. E consentire alla tornata referendaria di raggiungere il quorum.
di Lorenzo Galeazzi e Federico Mello
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