Buongiorno di Massimo Gramelli
L’agente del Fisco 22.10.2010
Oggi il Buongiorno lo scrive un’agente del Fisco veneta, che non vuole sia riportato il suo nome.
«Lavoro dove si racimolano soldi per un’Italia che langue. Giorni fa arriva da me una persona di colore che in un italiano stentato mi spiega che non sapeva (ma la legge non ammette il non sapere) di dover presentare la dichiarazione dei redditi per aver lavorato da due datori di lavoro diversi nello stesso anno, il 2005. Ora, nel 2010, questa persona è disoccupata, non può pagare, manifesta tutta la sua rabbia di fronte alle nostre leggi e vede in me la rappresentante di uno Stato ingiusto che non riesce a beccare i grandi evasori e allora se la prende con quelli come lui… Questa persona è disperata, una disperazione violenta e minacciosa, tanto che sono costretta, per paura, a far valere la mia posizione di pubblico ufficiale. Di fronte alla mia reazione si spaventa, muove le labbra ma non parla, vedo in lui la fatica di trattenersi, vedo in quegli occhi tutto quel che può avere subito sul lavoro e nella vita. Vedo tutta l’ingiustizia di un mondo sbagliato. Quanto disagio ho provato, quanto desiderio di poter fare qualcosa, quanta voglia di una vita diversa, magari dura per tutti ma anche giusta per tutti… Penso che un lavoro come il mio ti faccia sentire male ma anche bene, che ti faccia sentire più vicino alla realtà vera e non a quella che qualcuno vuole propinarci. Un lavoro così può aiutarti a non essere uno stupido ingranaggio di una stupida macchina. E penso che un lavoro così ti aiuti a mantenere intatto un cervello che sa pensare e un cuore che sa dare».
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41
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Lettera aperta a Fabio Fazio
Germano Zanzi, 25.10.2010
Le contraddizioni di Sergio Marchionne, Ad della Fiat, e “l’altra verità”, quella dell’accusata Fiom
Nella Sua trasmissione di domenica 24 ottobre, Lei ha invitato il Signor Marchionne Ad Fiat.
Per il carattere aperto e pluriculturale della trasmissione, è stata una scelta giusta.
Ciò detto, non possono essere passate per “pure verità” tutte le affermazioni fatte dal suddetto, tra l’altro come vedremo, molto contraddittorie. Per chi ha seguito con interesse la vicenda Fiat (sono tra quelli, essendo il tema lavoro tra quelli centrali dei miei interessi personali, come impiego del mio tempo, in quanto pensionato ma proveniente da una lunga esperienza sindacale).
Lei ha detto in trasmissione, che gli stipendi operai ammontano sui 1200euro mensili. Avrebbe dovuto divulgare anche quello di Marchionne, altrimenti è violazione della privacy di una parte di dipendenti Fiat. Questa la prenda come battuta.
Le contraddizioni di Marchionne:
• La Fiat non ha mai ricevuto aiuti da nessuno ed ha retto la sfida con gli altri perché i suoi collaboratori sono bravi? Si è sollevata da sola da una lunga crisi (Marchionne ha detto che la Fiat era morta).
Come mettere d’accordo questa frase con quelle successive che dicono:
• L’assenteismo (secondo le partite di calcio); i ritmi lenti e la disorganizzazione degli stabilimenti italiani, rispetto quelli degli stabilimenti di altri produttori o quelli della Fiat decentrati altrove;
• Che la Fiom è minoritaria e che i suoi iscritti sono coloro che ostacolano il lavoro (questo era il senso).
(ma allora, se sono pochi, anche gli “ostacoli” sono insignificanti;)
E’ tutto e solo merito suo e delle sue 18 ore di lavoro ??? (non è alla catena di montaggio e il suo lavoro è fatto di pause in modo organico).
Gli incentivi non hanno favorito solo l’acquirente perché, se è vero, e lo sarà, che ogni 10 auto che si vendono in Italia, 7 sono straniere. Logicamente la Fiat – senza incentivi – ne avrebbe vendute meno. Quindi, ha goduto degli incentivi!
Inoltre, la Fiat come giustamente altre realtà produttive in crisi, ha beneficiato degli interventi dei cosiddetti ammortizzatori sociali, cioè, la Cassa Intregrazione, pagata con risorse pubbliche. Si dirà che, questi soldi vanno ai lavoratori – è vero – ma la Fiat può così tenere legate a se molte professionalità e esperienze di lavoro, che, altrimenti, perderebbe.
Marchionne non ha detto che, la soluzione adottata a Pomigliano, non è frutto di una trattativa ma imposta con il metodo del “prendere o lasciare” e non ha detto che la Fiom non si è rifiutata di trattare ma non è stata disponibile a trattare su questioni che non possono essere trattate dal sindacato perchè è materia “indisponibile” in quanto “diritti costituzionali” individuali.
Ma se è così sicuro di non avere violato alcun diritto dei lavoratori, perché non ha letto in trasmissione le parti contestate dalla Fiom? Teme forse che, gli italiani, siano cretini e non ne capiscano il contenuto?
Il minimo che possa fare caro Fabio, è quello di invitare “l’altra verità” cioè, l’accusata Fiom. Diversamente, deluderebbe coloro, e sono tanti, che la seguono nella Sua trasmissione come una delle poche che seguono il principio della “par condicio”.
Grazie.
In attesa che rimetta ordine.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16077
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Da simyzag@yahoo.it per ListaSinistra@yahoogroups.com del 26.10.2010
Un carteggio Ichino-Leonardi
Un esempio di quanto fuorviante sia un dibattito tutto centrato sulla contestazione dei dettagli senza che si entri nel merito della sostanza, sulla ciccia della questione vi è il dibattito per via epistolare fra il più famoso giuslavorista “democratico” quel tal senatore del PD Ichino e il ricercatore dell’Ires Leonardi
Primo round
Comincia Leonardi, che invia a Ichino le sue riflessioni sulla vicenda Fiat. Il ricercatore Ires cita una statistica della Fondazione di Dublino secondo la quale il tasso di assenteismo in Italia non è superiore alla media europea; dati che priverebbero di fondamento l’accanimento della Fiat contro i presunti sfaticati di Pomigliano. In punta di diritto, poi, Leonardi contesta la cosiddetta “clausola di
tregua”, ossia le deroghe al diritto di sciopero previste dall’accordo separato,( difeso a spada tratta da Ichino) la parte dell’intesa campana che secondo molti intacca i diritti fondamentali dei lavoratori sanciti dalla Costituzione e dai contratti collettivi.( Ichino sul suo blog, e non solo, ma anche pubblicamente, ha smentito “clamorosamente” detta illegalità contenuto nell’accordo)
Ichino gli risponde che secondo lui l’assenteismo c’è: “Sulla clausola relativa alle ‘punte anomale di assenza per malattia’”, il senatore afferma di “non concordare con le critiche che vengono mosse alla disposizione contenuta nell’accordo”. E aggiunge che “a Pomigliano le punte di assenza in corrispondenza con la partita del mercoledì hanno continuato a verificarsi anche di recente, fino a quando lo stabilimento ha lavorato”. Quanto alla clausola di tregua, Ichino smorza i toni: per lui “non si parla di ‘tregua assoluta’, ma ‘relativa’, ( una finezza dialettica da perfetta scuola di sofismo) cioè limitata agli scioperi relativi a materie disciplinate nel contratto”. “Detto questo – conclude
Ichino-, mi interesserebbe molto poter discutere con te serenamente, anche in pubblico, di tutta la questione. Perché, invece di continuare a discutere a distanza, non organizziamo un ‘faccia a faccia’, a Roma o a Milano, anche in una sede Cgil?”.
Secondo round
Nella replica di Leonardi la disponibilità al confronto c’è: “La tua proposta”, scrive il ricercatore dell’Ires, “mi onora molto. Al di là dei dissensi che posso nutrire verso le tue posizioni, ti considero un maestro di diritto del lavoro. Ma accolgo la tua proposta e ti prometto di farne parola con quanti, ad esempio all’Ires e in Cgil nazionale, possono rendere operativamente possibile un confronto simile. Ma altre sedi possono essere prese in considerazione, ovviamente. Incluse quelle della rete”.
Quanto ai temi, il dissenso resta. Leonardi insiste su un “calo significativo dell’assenteismo” a Pomigliano. E poi domanda: “Se tornassimo a chiederci cosa significa lavorare ‘alla catena’ con ritmi e saturazioni ‘sotto il minuto’? Per decenni? Dove da 10 minuti in più o in meno di pausa si pretende di ipotecare la vita o la morte di una impresa?”. E invita a non evocare “scenari vagamente ‘antropologici’ e caricaturali (tipo: indolenza o cultura ambientale) dal retrogusto un po’ razzista, a cui peraltro Pomigliano e Napoli non sono certamente nuovi”.
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Zag(c) <http://vecchia-talpa.blogspot.com/>
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Giustizia ambientale e decrescita economica: un’alleanza tra due movimenti 11.10.2010
Joan Martínez Alier, è docente universitario presso l’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale (ICTA) dell’Università Autonoma di Barcellona, membro del Comitato Scientifico dell’Agenzia Europea dell’Ambiente e presidente della Società Internazionale di Economia Ecologica. È direttore della rivista Ecología Política. È autore di Economia ecologica: energia, ambiente società, Garzanti, 1991; Ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, Jaca Book, 2009.
Economia ecologica, metabolismo sociale ed ecologia politica
I flussi di energia e materia nell’economia mondiale non sono mai stati così elevati come oggi. In questo articolo si sostiene che l’incremento del metabolismo sociale stia causando un numero crescente di conflitti intorno all’estrazione delle risorse e allo smaltimento dei rifiuti. Tutto ciò fa fiorire un movimento per la giustizia ambientale in diverse parti del mondo (Agyeman et al, 2003, Carruthers, 2008, Pellow and Brulle, 2005, Pellow, 2007, Schlosberg, 2007, Roberts, 2007, Walker, 2009). L’espressione “giustizia ambientale” è stata utilizzata per la prima vota negli Stati Uniti all’inizio degli anni Ottanta in riferimento alle proteste locali contro il “razzismo ambientale”, ovvero la sproporzione dell’impatto dell’inquinamento in aree abitate soprattutto da gruppi etnici svantaggiati (Bullard, 1990, 2005, Pulido, 1996, Camacho, 1998, Carmin and Ageyman, 2010); d’altra parte quest’espressione è oggi applicata ai movimenti spontanei e alle organizzazioni per la giustizia ambientale in ogni parte del mondo (e alle reti o alle coalizioni che essi formano attraverso i confini; Bandy and Smith, 2005), opponendosi alle industrie estrattive e protestando contro l’inquinamento e i cambiamenti climatici (Martinez-Alier, 2002). La giustizia ambientale riguarda la redistribuzione intragenerazionale, senza dimenticarsi della redistribuzione intergenerazionale, comprendendo dimensioni di giustizia non distributiva, come il riconoscimento e anche la prevenzione delle forme di esclusione dalla partecipazione.
Le organizzazioni per la giustizia ambientale sono alleate potenziali di quei gruppi ambientalisti che nei paesi ricchi criticano l’ossessione per la crescita del PIL. Questi gruppi formano il movimento per la decrescita (Latouche, 2006), che almeno in parte trae le sue origini nell’ambito dell’economia ecologica.
L’ecologia economica è un campo interdisciplinare nato negli anni Ottanta (Costanza, 1991, 1996, Ropke 2004, Martinez-Alier and Ropke, 2008, Spash 2009) dalla convergenza di interessi tra egologisti che studiavano l’uso dell’energia nell’economia umana (Odum, 1971, Jansson, 1984) ed economisti dissidenti sulla scia di Nicholas Georgescu-Roegen (1966, 1971) and Kenneth Boulding (1968). Di grande influenza sono stati i lavori di K.W. Kapp sui costi sociali (1950), e di Kneese e Ayres (1969) sulla pervasività delle esternalità. L’ecologia economica si occupa dello studio fisico dell’economia (il metabolismo sociale), dello studio dei diritti di proprietà sull’ambiente e della loro relazione con la gestione ambientale, dello studio della sostenibilità ambientale dell’economia (può il capitale industriale sostituire il cosiddetto “capitale naturale”?), della valutazione economica di servizi ambientali positivi e dell’impatto negativo delle “esternalità”, oltre che di metodi di valutazione multi-criteriali per classificare diverse alternative in presenza di valori incommensurabili.
Il metabolismo sociale riguarda i flussi di energia e materia in economia. Lo studio del metabolismo sociale si interseca con l’ecologia industriale. Talvolta viene chiamato ecologia sociale (per esempio dal Sozial Ökologie institute a Vienna guidato da Fischer-Kowalski), e si preoccupa di misurare il rapporto tra la crescita economica e l’uso di energia (Warr, Ayres et al, 2010) e la dematerializzazione assoluta o relativa dell’economia (in rapporto per esempio al PIL), attraverso lo studio dei flussi di materia.
È da molto tempo che l’economia analizza i flussi di energia (Cottrell, 1955, Martinez-Alier, 1987, 2007, Haberl, 2001, Cleveland 2008a,b, Hall et al 1986, Sieferle, 2001, Debeir et al, 1991). Uno dei principali punti di interesse è la crescita o il declino dell’EROI (Energy Return On Energy Input), l’inverso del costo energetico necessario per ottenere energia.
Oggi l’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, pubblica regolarmente stime sui flussi di materia. Ne esistono anche di specifici per i paesi del Sud del mondo (talvolta frutto di tesi di dottorato) e spesso sottolineano l’esistenza di alti deficit di physical trade (n.d.t. differenza fra materia che entra e materia che esce con il commercio estero).
L’ecologia politica (Blaikie & Brookfield, 1987, Robbins, 2004, Peet & Watts, 1996, Rochelau et al, 1996, Bryant & Bailey, 1997) studia la distribuzione ecologica dei conflitti e in particolare l’uso del potere per assicurarsi l’accesso alle risorse e ai servizi ambientali, o per delocalizzare gli effetti negativi dell’inquinamento in base all’origine etnica, alla classe sociale, alla casta o al genere. Si concentra sull’estrazione locale e internazionale di risorse e sui conflitti legati allo smaltimento dei rifiuti e studia l’uso del potere nell’individuazione delle procedure di decision-making relative alle questioni ambientali, considerando quanto permettano o impediscano l’utilizzo di differenti strumenti di valutazione. Insieme alla sociologia ambientale, l’ecologia politica studia anche i movimenti ambientalisti. Questo articolo si basa sulle conoscenze elaborate da queste scienze della sostenibilità
Trends
Circa vent’anni dopo la conferenza delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro nel 1992, le tendenze in materia ambientale sono allarmanti. I modesti obiettivi dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite di limitare la perdita di biodiversità non sono stati raggiunti e anzi sono stati abbandonati. L’HANPP (Human Appropriation of Net Primary Production, l’appropriazione da parte delle attività umane della produttività primaria netta) incrementa la pressione sulla biodiversità (Vitousek et al, 1986, Haberl et al, 2009). La perdita di biodiversità viene talvolta vista come un fallimento del mercato cui porre rimedio con un’adeguata determinazione del prezzo. Altre volte vengono (giustamente) condannate la cattiva governance, l’inadeguatezza delle istituzioni e le politiche neoliberali che promuovono il commercio e che garantiscono gli investimenti stranieri. Tuttavia, gli impatti ambientali, ivi compresa la scomparsa della biodiversità, sono principalmente il prodotto dell’aumento del metabolismo sociale dell’economia umana. Questo è il fattore principale. Gli impatti sarebbero simili seguendo politiche social-democratiche di stampo keynesiano o in sistemi economici socialisti o comunisti, se le tecnologie, i livelli di popolazione e i consumi pro-capite fossero quelli odierni.
Pertanto, la produzione dei principali gas serra continua ad aumentare a causa dei crescenti flussi metabolici dell’economia. Fino al 2007 le emissioni di CO2 aumentavano al ritmo del 3% all’anno. Dopo una battuta d’arresto nella crescita nel biennio 2008-2009, sono necessariamente destinati a crescere nuovamente a meno che non vi sia una decrescita economica. Dovrebbero diminuire il prima possibile del 50% o 60% secondo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). Al fallimento dell’accordo di Kyoto del 1997 (che non è stato ratificato dagli Stati Uniti) va ad aggiungersi il mancato raggiungimento di un accordo sulla riduzione delle emissioni a Copenhagen nel dicembre 2009. Il presidente Obama non è in grado di convincere il Senato degli Stati Uniti ad accettare l’imposizione di un tetto o di tasse sul biossido di carbonio, e ha pertanto deciso opportunisticamente di accusare la Cina, che nei fatti è oggi il più grande produttore di CO, anche se il livello pro capite è ancora fortunatamente quattro volte più basso di quello degli Stati Uniti.
La concentrazione di CO2 nell’atmosfera era di circa 300 ppm quando Svante Arrhenius scrisse sull’aumento dell’effetto serra nel 1895; ora ha quasi raggiunto i 400 ppm. L’incremento annuo è di circa 2 ppm. In sostanza non viene fatto nulla per invertire questo trend. Le emissioni di CO2 provocate dall’economia umana sono principalmente dovute all’utilizzo di combustibili fossili. Il picco del petrolio è ora molto vicino, forse è stato già raggiunto. Il picco di estrazione dei gas naturali verrà raggiunto nei prossimi venti o trent’anni. Ciò significa un maggiore utilizzo del carbone, anche se con il carbone la produzione di CO2 per unità di energia è molto più elevata che con il petrolio e il gas.
Pertanto, prendendo in considerazioni altri trend negativi come la diminuzione della disponibilità di molte specie commestibili di pesci, la diffusione dell’energia nucleare e la sua proliferazione militare, e l’avvicinamento del “picco del fosforo”, ci sono buone ragioni per riaffermare la rilevanza dei dibattiti degli anni Settanta sulla desiderabilità di un’economia di stato stazionario nei paesi ricchi e persino di un periodo di decrescita (Schneider et al, 2010). La decrescita nelle economie ricche dovrebbe condurre a un’economia di stato stazionario (Daly , 1973). Questa proposta è sostenuta dai movimenti di giustizia ambientale del Sud del mondo che si lamentano degli scambi diseguali da un punto di vista ecologico (Bunker, 1984, 1985, 2007, Hornborg, 1998, 2009, Hornborg et al, 2007, 2010, Muradian and Martinez-Alier, 2001, Muradian et al, 2002, Rice, 2007, Roberts and Parks, 2007).
Il picco della popolazione: amatevi di più ma non moltiplicatevi
Tra tutti i trend preoccupanti e i “picchi” incombenti che segnalano conflitti distributivi, un trend positivo è il rapido calo del tasso di crescita della popolazione umana. Il picco della popolazione sarà probabilmente raggiunto intorno al 2045 in presenza forse di 8,5 miliardi di persone. Le esortazioni alle donne europee a fare più figli che diventino lavoratori che pagheranno le pensioni di un numero così elevato di persone anziane sono ridicole (Latouche, 2007), dal momento che a tempo debito i lavoratori diventerebbero a loro volta pensionati. La piramide della popolazione (ancora insegnata a scuola) dovrebbe essere disegnata come un rettangolo (con una piccola piramide in cima, ammettiamolo pure). I dibattiti tra malthusiani e marxisti, e tra malthusiani e alcuni economisti favorevoli alla crescita di popolazione, sono ancor’oggi rilevanti, così come le dottrine delle femministe neo-malthusiane del Novecento (Emma Goldman, Madaleine Pelletier, Nelly Roussel, Margaret Sanger, Maria Lacerda de Moura…) (Ronsin, 1980, Masjuan and Martinez-Alier, 2005).
La transizione socio-ecologica verso livelli più bassi nell’uso di energia e materia verrà favorita dalla transizione demografica mondiale, tanto più se – dopo aver raggiunto un picco – la popolazione scenderà a 6 miliardi, così come indicano alcune proiezioni (Lutz at al, 2001). Si ricordi che la popolazione mondiale è crescita di quattro volte durante il Ventesimo secolo, da 1,5 miliardi a 6 miliardi di persone. L’importanza della crescita della popolazione per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente è ovvia, come indicato dall’equazione di Paul Ehrlich: I = PAT.
La consapevolezza ambientale sta ora influenzando i tassi di nascita. Ma già nel Novecento ci sono stati numerosi dibattiti su “quante persone può sfamare la Terra”, anche se si focalizzavano solo sui bisogni delle specie umane. C’era una grande differenza tra il malthusianesimo originario di T.R. Malthus e il neo-malthusianesimo del Novecento che in Francia ha preso il nome di la grève des ventres. Ci sono quindi diverse varianti di malthusianesimo che possono essere così riassunte.
MALTHUSIANESIMO di Malthus. – La popolazione subisce una crescita esponenziale a meno che non venga influenzato da guerre e pestilenze, o da castità e matrimoni ritardati. La disponibilità di cibo cresce in modo meno che proporzionale all’input di lavoro, a causa delle rendite decrescenti. Da qui, la crisi della sussistenza.
NEO-MALTHUSIANESIMO DEL ‘900. – Le popolazioni umane potrebbero auto-regolare la propria crescita attraverso la contraccezione. La libertà delle donne è stata richiesta per questo, ed è per sua stessa natura desiderabile. La povertà è stata spiegata dalle disuguaglianze sociali. Una “procreazione consapevole” era necessaria per impedire bassi salari e pressione sulle risorse naturali. Questo è stato un movimento dal basso di successo in Europa e in America contro gli Stati (che volevano più soldati) e le Chiese.
NEO-MALTHUSIANESIMO DOPO IL 1970. – Una dottrina e una pratica sponsorizzata dalle organizzazioni internazionali e da alcuni governi. La crescita della popolazione è vista come una delle cause principali della povertà e del degrado ambientale. Pertanto gli Stati devono introdurre dei metodi contraccettivi, anche senza il precedente consenso delle donne.
ANTI-MALTHUSIANESIMO. – È la prospettiva che assume che la crescita della popolazione umana non rappresenti una seria minaccia all’ambiente naturale, e che contribuisca alla crescita economica, come sostenuto da Esther Boserup (1965) e da altri economisti.
L’ecologismo dei poveri
Un altro trend positivo è la crescita dell’ecologismo. Uno degli aspetti affrontati è la consapevolezza della pressione della popolazione sulle risorse naturali. Ma ci sono altre manifestazioni. L’ecologismo dei poveri e dei popoli indigeni sta aumentando (Guha & Martinez-Alier, 1997, Dunlap & York, 2008). Gli attivisti e le comunità che stanno alle frontiere delle merci (Moore, 2000) talvolta sono in grado, insieme alle organizzazioni per la giustizia ambientale, di fermare le estrazioni di minerali e la distruzione degli habitat e dei mezzi di sussistenza delle comunità umane (come è accaduto nell’agosto del 2010 a Niyamgiri Hill in Orissa, contro i progetti della compagnia Vedanta per una miniera di bauxite; Padel & Das, 2010). Esercitano il diritto al consenso preventivo sulla base della Convenzione 169 dell’ILO che si applica alle comunità indigene (quando sono riconosciute come tali) (Urkidi, 2010b); introducono anche istituti come i referendum locali contro le attività estrattive in America Latina (come in Esquel and Tambogrande, Walter & Martinez-Alier, 2010, Muradian & Martinez-Alier, 2003, Haarstad & Floysand, 2007) o sviluppano nuovi progetti per lasciare i combustibili fossili nel suolo, come nel caso dei campi petroliferi di Yasuní ITT nella zona amazzonica dell’Ecuador (Martinez-Alier & Temper, 2007, Finer et al, 2010, Larrea & Warnars, 2009). Sono andati a buon fine tentativi di portare davanti ai tribunali compagnie come la Shell, per quanto sta facendo nel Delta del Niger, o come la Chevron-Texaco, per ciò che ha fatto in Ecuador (Clapp & Utting, 2009). Le donne sono spesso alla guida di questi movimenti (Veuthey & Gerber, 2010).
Le organizzazioni per la giustizia ambientale del sud del mondo difendono le identità e i territori locali (Escobar, 2001), ma la loro crescita si spiega non con il fascino per una politica delle identità, ma con i conflitti provocati dall’aumento del metabolismo sociale nell’economia mondiale che sta in questo periodo raggiungendo i suoi limiti massimi. Le organizzazioni per la giustizia ambientale e i loro network sono pertanto una forza cruciale nel tentativo di rendere l’economia mondiale meno insostenibile.
Ci sono conflitti relativi all’insostenibilità dell’estrazione di biomassa (contro la deforestazione, per esempio delle mangrovie, contro le piantagioni di alberi, i bio-carburanti, l’espropriazione della terra, la pesca intensiva) o all’esplorazione e l’estrazione di petrolio e gas, conflitti sull’uso dell’acqua (dighe, deviazioni dei fiumi, acquiferi) (Carrere and Lohman, 1996, McCully, 1996, OCMAL, 2010, Bebbington et al, 2007, Bridge, 2004, Martinez-Alier, 2001 a.b, GRAIN, 2007, Gerber et al 2009, De Echave et al, 2009, Svampa and Antonelli, 2009, Urkidi, 2010a, Urkidi and Walter, 2011, Orta et al, 2008, Orta and Finer, 2010). Ci sono anche conflitti sui trasporti e sulle infrastrutture necessarie per i trasporti e conflitti sullo smaltimento dei rifiuti nelle città, nelle campagne e in mare (discariche o inceneritori, inquinamento dell’aria e del suolo, esportazione di rifiuti elettronici, smantellamento delle navi) (Demaria, 2010). Il più grande conflitto sullo smaltimento dei rifiuti riguarda i diritti di proprietà negli oceani e nell’atmosfera dove poter scaricare le quantità in eccesso di CO2. Ci sono anche molti conflitti sull’applicazione delle nuove tecnologie (la cyanide nelle miniere d’oro a cielo aperto, OGM, energia nucleare) che provocano rischi ancora incerti distribuiti in modo iniquo (EEA, 2002, Pengue, 2005, Pereira and Funtowicz, 2009).
Contro le esportazioni a buon mercato e in favore di energie rinnovabili e popolazioni locali
In paesi che sono esportatori netti di materie prime (Giljum and Eisenmenger, 2004, Muñoz et al, 2009) ci sono movimenti che chiedono di tassare le esportazioni per ragioni ambientali, o almeno di eliminare i sussidi per i combustibili fossili o per le industrie che esportano metalli. Un caso attuale ha luogo in Sudafrica, dove c’è stata opposizione alla concessione da parte della Banca Mondiale di un prestito di 3,75 miliardi di dollari alla compagnia Eskom per la grande centrale a carbone di Medupi. Le organizzazioni per la giustizia ambientale sudafricane scrivono: “pensiamo alle energie rinnovabili, non a centrali a carbone (o nucleari), come via per uno sviluppo ottimale delle economie del sud del mondo, che porti alla creazione di più posti lavoro, all’incremento di capacità nelle produzioni locali, e ad evitare gli errori ambientali dei paesi del nord del mondo. Come in Sudafrica, la maggior parte dei progetti per centrali a carbone della Banca Mondiale sono pensati per servire l’industria, non le persone. Non portano necessariamente a un incremento pro capite dell’accesso all’energia. Per contro, le industrie sono per lo più spinte verso l’esportazione in linea con la Banca Mondiale che promuove la produzione orientata alle esportazioni. I beni sono pertanto consumati soprattutto nei paesi sviluppati. Inoltre, molte industrie vengono create con investimenti diretti stranieri. In questo processo, una gran parte dell’industria pesante dei paesi sviluppati è stata rilocalizzata in paesi in via di sviluppo, alla ricerca di energia e di lavoro più a buon mercato…”
Le organizzazioni per la giustizia ambientale sudafricane propongono invece un’alternativa gestionale che ponga al centro il lato della domanda, a partire dalla graduale eliminazione dell’elettricità a buon prezzo per “isolare” le fonderie che hanno una connessione limitata con l’economia e che si basano su un uso intensivo di capitale, piuttosto che di lavoro. Questa energia liberata dovrebbe essere ridistribuita per fornire ai consumatori una maggiore scorta garantita di Elettricità minima gratuita, con una tariffa calmierata che ne incoraggi la conservazione e favorisca il cambiamento verso tecnologie a energia rinnovabile.
Giustizia climatica
L’energia non può essere riciclata, pertanto anche un’economia che non voglia crescere ma che utilizzi comunque elevate quantità di combustibili fossili avrebbe bisogno di rifornimenti “freschi” da quei luoghi che stanno alle frontiere delle merci. Lo stesso vale per i materiali, che concretamente possono essere riciclati solo in una certa misura (come per esempio il rame, l’alluminio o l’acciaio), e non più che per il 40% o 60%. Quando l’economia cresce, la ricerca di materie e fonti di energia è ovviamente ancora più grande. C’è un’“accumulazione attraverso l’espropriazione” (Harvey, 2003) o Raubwirtschaft. Si potrebbe anche aggiungere la nozione di “accumulazione attraverso la contaminazione”, che significa che i profitti capitalistici aumentano in funzione della capacità di disfarsi dei rifiuti a costi molto bassi o nulli. Ciò non mostra tanto un fallimento del mercato quanto un (provvisorio) successo nel trasferimento dei costi (Kapp, 1950).
Non solo gli attivisti per la giustizia climatica (Bond, 2010a), ma anche molti governi di paesi relativamente poveri chiedono ora che il debito ecologico sia rimborsato, uno slogan utilizzato per la prima volta in America Latina tra le organizzazioni per la giustizia ambientale nel 1991 (Robleto and Marcelo, 1992, Smith, 1996, Simms, 2005, Peralta, 2009). Gli Stati Uniti, l’Unione europea e il Giappone non riconoscono questo debito. Tuttavia a Copenhagen nel dicembre del 2009 almeno venti capi di governo o ministri hanno esplicitamente menzionato il debito ecologico (o debito climatico) nei loro discorsi, alcuni utilizzando anche una parola pesante come “riparazioni”. Pablo Solon, l’ambasciatore boliviano presso le Nazioni Unite, ha affermato che “ammettere la propria responsabilità rispetto alla crisi climatica senza intraprendere le azioni necessarie per farvi fronte è come se qualcuno desse fuoco alla vostra casa e poi si rifiutasse di ripagarla. Anche se il fuoco non è stato appiccato volutamente, con la loro inazione i paesi industrializzati hanno continuato ad aggiungere benzina al fuoco… È completamente ingiustificabile che paesi come la Bolivia siano ora costretti a pagare per la crisi. Ciò implica un impatto enorme sulle nostre risorse limitate per proteggere il nostro popolo da una crisi causata dai ricchi e dai loro iper-consumi… I nostri ghiacciai si sciolgono, le siccità diventano sempre più frequenti, e le fonti d’acqua si prosciugano. Chi dovrebbe occuparsi di questo? A noi sembra giusto che sia l’inquinatore a pagare e non il povero. Noi non stiamo attribuendo colpe, ma solo responsabilità. Come dicono negli Stati Uniti, chi rompe paga”. Il retroscena del discorso di Solon è stata un’affermazione di Todd Stern (in qualità di negoziatore degli Stati Uniti) alla conferenza stampa di Copenhagen il 10 dicembre 2009: “Riconosciamo nel modo più assoluto il nostro ruolo storico per quanto riguarda le emissioni nell’atmosfera per come è la situazione oggi. Ma il senso di colpa o la colpevolezza o le riparazioni – le rifiuto categoricamente” (Bond, 2010b, anche in http://www.climate-justice-now.org/bolivia-responds-to-us-on-climate-debt-if-you-break-it-you-buy-it/).
La richiesta di compensazioni per il debito climatico vent’anni dopo Rio 1992 è ora ascoltabile da chiunque sia presente alle negoziazioni internazionali. Pertanto nel dicembre del 2009 a Copenhagen l’allora ministro delle relazioni con l’estero dell’Ecuador (Fander Falconì) ha affermato che i paesi poveri erano come “fumatori passivi”, menzionando esplicitamente il fallimento nell’applicare il “principio del chi inquina paga”. Ha anche chiesto il pagamento del debito climatico o l’ammissione delle responsabilità storiche per il cambiamento climatico. Parikh (1995) ha calcolato in circa 75 miliardi di dollari all’anno il debito climatico da parte del nord verso il sud del mondo. Ha calcolato i costi risparmiati dai ricchi grazie al fatto che non attuano le necessarie riduzioni delle emissioni. Srinivasan et al. (2008) hanno quantificato (in più di 2 trilioni di dollari) il debito ecologico accumulato dal nord verso il sud. Per la maggior parte si tratta di debito climatico. Tutto ciò è stato pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences, dando prova della credibilità del concetto di “debito ecologico”. In numerosi libri ed articoli, Paredis et al (2008) e Goemmine & Paredis (2009a,b) illustrano una discussione concettuale e un metodo per quantificare il debito ecologico, un concetto dei movimenti dal basso che – come loro stessi dicono – è “giunto a maturazione”.
Via Campesina: l’agricoltura contadina rinfresca la terra
All’inizio degli anni settanta, a partire da H. T. Odum che vedeva l’agricoltura moderna come “coltivare con il petrolio” (Odum, 1971), numerosi ricercatori di sono occupati del rapporto tra output e input nei sistemi agricoli. I calcoli più noti sono stati elaborati da Pimentel (Pimentel et al, 1973) e pubblicati su Science (anche Pimentel, 1979). Colpiva rendersi conto che il rapporto energetico tra output e input della produzione di grano in Iowa o in Illinois era più basso che nel sistema di produzione tradizionale di grano del Messico rurale, noto con il nome di milpa. Da un punto di vista economico, l’agricoltura moderna ha aumentato la produttività per unità di lavoro e in qualche misura quella per ettaro, ma da un punto di vista fisico ha abbassato l’efficienza energetica (Leach, 1975, Naredo &Campos, 1980).
Via Campesina, una coalizione agricola di contadini e di piccoli coltivatori (Desmarais, 2007, Borras, 2008, Martinez-Torres and Rosett, 2010), è ora molto presente nel dibattito sul cambiamento climatico, con la sua tesi che “un’agricoltura contadina sostenibile rinfresca la terra” (WRM, 2008), un argomento in parte fondato sul fatto che l’agricoltura industriale moderna “non produce più energia ma la consuma”. A partire dagli anni settanta, studi sull’EROI (Energy Return On Energy Input) dell’agricoltura suffragano questa posizione. L’agrarianismo ecologico o il neo-narodismo ecologico (come l’ho chiamato nel 1987) sta crescendo (Martinez-Alier, 2011).
Decrescita economica socialmente sostenibile
Mentre nel Sud le organizzazioni per la giustizia ambientale e le loro reti si battono contro gli abusi nelle estrazioni delle risorse e nello smaltimento dei rifiuti, in alcuni paesi ricchi è comparso un movimento sociale per una decrescita economica sostenibile. Si basa su gruppi della società civile ma trova supporto anche tra alcuni accademici (anche se non ancora tra i governi) come si è visto nelle conferenze di Parigi in aprile del 2008 e di Barcellona in marzo del 2010 ( HYPERLINK “http://www.degrowth.eu” http://www.degrowth.eu). In Italia e in Francia prende il nome di movimento per la decrescita o décroissance.
La decrescita economica socialmente sostenibile (Martinez-Alier, 2009b, Martinez-Alier et al, 2010) è sia un concetto che un piccolo movimento dal basso che trae le sue origine dai campi dell’economia ecologica, dell’ecologia sociale, dell’antropologia economica e in gruppi di attivisti ambientalisti e sociali. Il movimento fa riferimento a diversi precursori, tra cui Nicholas Georgescu-Roegen (1906-94), padre fondatore dell’ecologia economica, autore di The entropy law and the economic process (1971). Una selezione di scritti di Georgescu-Roegen è stata pubblicata in francese (con la traduzione di J. Grinevald eI. Rens, 1979) con il titolo di Démain la décroissance.
Non sorprende che gli attivisti della decrescita in Francia e in Italia siano affezionati a un concetto dell’ecologia industriale e dell’economia ecologica: il paradosso di Jevon o l’effetto rimbalzo (“rebound effect”; Jevons, 1865, Polimeni et al, 2009). Hanno letto antropologi economici come Serge Latouche (2006), sono ispirati da pensatori ecologisti degli anni Settanta come André Gorz e Ivan Illich. Potrebbero aver letto anche A prosperous way down di H.T. and E. Odum (2001) ma probabilmente non l’hanno fatto. In ogni caso il movimento europeo per la decrescita non si basa su scritti iconici. È un movimento sociale che nasce da esperienze di co-housing, squatting, neo-ruralismo, che reclama le strade, le energie alternative, la riduzione dei rifiuti e il riciclo. È un movimento nuovo ed è diventato un nuovo programma di ricerca verso una branca delle scienze della sostenibilità che potrebbe essere chiamata “studi per la decrescita economica”, strettamente connessi agli “studi per la transizione socio-ecologica” (Fischer-Kowalski and Haberl, eds., 2007, Krausmann et al, 2008, Krausmann et al, 2009). La parola chiave “decrescita economica” è stata introdotta con successo in riviste accademiche in inglesi già dalla conferenza di Parigi del 2008 e sono stati pubblicati o sono previsti dei numeri speciali per il 2010-2011 nelle riviste Journal of Cleaner Production, Ecological Economics, Environmental Values. È necessario fare ricerca sugli aspetti ambientali, tecnologici, demografici, sociali e socio-psicologici di una decrescita economica socialmente sostenibile che porti a un’economia di stato stazionario (Kerschner, 2010), in alleanza con i movimenti per la giustizia ambientale del sud del mondo.
Oltre il PIL sta la decrescita economica
Per le povere popolazioni rurali coinvolte nei conflitti per l’estrazione delle risorse, la minaccia alla loro esistenza in termini di inquinamento dell’acqua e di espropriazione della terra è ovvia. Loro attingono alle risorse e ai servizi ambientali direttamente dalla natura, al di fuori del mercato. Quando sono costretti a spostarsi, non possono permettersi di acquistare una casa e della terra. Non possono nemmeno pagare l’acqua in bottiglie di plastica se i loro fiumi e gli acquiferi sono inquinati dalle attività estrattive. Questo fatto ha dato origine alla nozione del “PIL dei poveri”, che non è compreso nelle stime economiche. Ecco una delle ragioni per cui non dovremmo fidarci delle stime macroeconomiche nazionali e andare “oltre il PIL”.
Questa espressione, “oltre il PIL”, è recentemente diventata di moda a Bruxelles tra alcuni funzionari e politici europei quarant’anni dopo che il presidente della Commissione Sicco Mansholt nel 1972 aveva criticato il PIL e proposto di porre una fine alla crescita economica nei paesi ricchi. Lo slogan a Bruxelles è “rinverdire l’economia: oltre il PIL” (“the greening of the economy: beyond GDP”).
La crescita del PIL va di pari passo con una pressione crescente sulla biodiversità, con il cambiamento climatico e la distruzione delle comunità umane che stanno alle frontiere delle merci. Un consumo eccessivo da parte delle persone ricche e di classe media non è solo una minaccia per le altre specie e per le future generazioni umane. Impedisce già oggi alle persone povere di avere accesso in modo equo alle risorse e allo spazio ambientale (Spangenberg, 1995).
Gli attivisti ambientalisti sono confortati dalle critiche accademiche al PIL. In realtà già molto tempo fa attiviste femministe e accademici (Waring, 1988) avevano argomenti convincenti contro il PIL dal momento che “dimenticava” non solo di tener conto dei servizi della natura ma anche del lavoro domestico non retribuito. In più, un altro tipo di critica verso il PIL si sta affacciando sulla scena sociale, il cosiddetto paradosso di Easterlin, per come è stato aggiornato dal lavoro degli psicologi sociali. Sembra che l’incremento della felicità sia correlato all’incremento del reddito solo al di sotto di un certo livello di reddito pro capite.
Questo genere di critiche contro i metodi e l’importanza del PIL vanno molto al di là della semplice misura complementare di performance sociali, così come fa l’ISU (Indice di Sviluppo Umano) che si avvicina di molto al PIL pro capite. Vanno anche al di là della semplice idea di “rinverdire il PIL” o di introdurre altri fattori aggiuntivi.
Tra gli indici fisici di sostenibilità il più conosciuto è senz’altro l’Impronta Ecologica (IE) che ha fatto il suo debutto nel 1992 in occasione di una conferenza di economisti ecologici (Rees and Wackernagel, 1994). Il WWF pubblica regolarmente i risultati dell’Impronta Ecologica. L’Impronta Ecologica traduce in un singolo numero di ettari l’uso pro capite di terra per cibo, fibre, legname, più l’ambiente costruito (spazio lastricato per case e strade), più la terra ipotetica necessaria per assorbire il biossido di carbonio prodotto dal consumo di combustibili fossili. Per le ricche economie industriali, il totale raggiunge i 4 ettari o più pro capite, dei quali più della metà sono costituiti dalla terra necessaria per l’assorbimento ipotetico del biossido di carbonio. La rappresentazione in ettari è facile da capire, e piace a molte persone, ma noi sappiamo che il biossido di carbonio prodotto dagli esseri umani va negli oceani (circa un terzo, provocando di fatto una loro acidificazione), e che metà della quantità prodotta rimane nell’atmosfera (provocando l’aumento dell’effetto serra). Inoltre calcoli dell’Impronta Ecologica assumono anche gli esseri umani abbiano il diritto di utilizzare la maggior parte del pianeta.
Andare oltre il PIL significa qualcosa di diverso da “rinverdire il PIL” o all’altro estremo dal genuflettersi davanti a un singolo indice ambientale come l’Impronta Ecologica. Dovrebbe significare entrare in una valutazione multi-criteriale partecipativa e deliberativa dell’economia, lavorando con dieci o dodici indicatori di performance socio-culturali, ambientali ed economiche (Shmelev & Rodriguez-Labajos, 2009, Zografos & Howarth, 2008). Forse tutti gli indicatori migliorano contemporaneamente in un certo periodo o, più facilmente, alcuni migliorano e altri peggiorano. “Oltre il PIL” dovrebbe implicare la definizione di obbiettivi per la riduzione dell’uso di energia e materia e per altri indicatori andare oltre il singolo imperativo della crescita economica, anche quando ciò significa lasciare alcuni debiti finanziari insoluti.
Conclusione: un’ovvia alleanza
I debiti possono essere pagati (in qualche misura solamente) schiacciando i cittadini attraverso tasse e riduzioni di salario oppure con l’inflazione oppure ancora con la crescita economica. Ma la crescita economica (o nei paesi ricchi persino lo stato stazionario agli attuali livelli di popolazione e consumo) non è compatibile con la sostenibilità economica. In questo momento gli sforzi per far aumentare il tasso di crescita economica nei paesi OCSE attraverso l’obbligo di ripagare i debiti finanziari è in conflitto diretto con la disponibilità di risorse non rinnovabili e con la capienza delle discariche. Gli economisti ecologici fanno giustamente riferimento a questo proposito alle teorie di Soddy di 90 anni fa (Daly, 1980, Kallis et al, 2009).
Invece di essere ossessionati da una crescita che permetterebbe la restituzione del debito finanziario accumulato e che porterebbe felicità a tutti, nei paesi ricchi dovremmo comportarci in modo tale da non incrementare l’elevato debito ecologico che abbiamo già contratto. In ragione di questo, una moderata decrescita economica (che implichi un più basso metabolismo sociale) rappresenta un obbiettivo plausibile per le ricche economie industriali. Ciò sarebbe supportato dalle organizzazioni per la giustizia ambientale e dalle loro reti nel Sud del mondo, che si stanno battendo nei conflitti per la distribuzione ecologica. Le organizzazioni per la giustizia ambientale si lamentano degli scambi diseguali da un punto di vista ecologico e del debito ecologico, sono alleati potenziali del movimento che nei paesi ricchi chiede una decrescita economica socialmente sostenibile.
L’elemento distintivo dell’ecologia politica è la presenza di potere nell’ecologia degli esseri umani. Gli esseri umani hanno modificato gli ecosistemi con la loro capacità tecnologica di aumentare la disponibilità e l’uso exosomatico dell’energia e della materia, comprese le biomasse e l’acqua. Tali cambiamenti – ce ne rendiamo conto ora – non sono sostenibili nel lungo periodo. Cambiano il clima (come annunciato già dal 1895), distruggono la biodiversità ad un ritmo elevato. L’aumento dei flussi di energia e materia (il metabolismo sociale delle economie avanzate) è stato raggiunto con pesanti costi sociali e ambientali, non solo per le generazioni future ma anche per il presente. Ci sono enormi disuguaglianze nel mondo, sia tra il Nord e il Sud, ma anche tra diversi paesi del Nord e diversi paesi del Sud. Alcune persone utilizzano 250 gigajoules di energia all’anno, la maggior parte dei quali prodotti da petrolio e gas, altre persone si accontentano di meno di 10 gigajoules, compresa l’energia che traggono dal cibo e quel po’ di legname e sterco essiccato che utilizzano per cucinare. Per mantenere una distribuzione ecologica così iniqua per quanto riguarda l’accesso alle risorse, per mantenere tali disuguaglianze anche nello smaltimento dei rifiuti (compreso l’accesso iniquo ai serbatoi di assorbimento del biossido di carbonio) i potenti esercitano il loro potere, talvolta mascherato da relazioni di mercato e diritti di proprietà ingiusti. Il potere si manifesta talvolta in forza bruta, talvolta è l’abilità di definire l’agenda e di imporre procedure decisionali che escludano intere classi di persone, come accade nelle negoziazioni internazionali sulla biodiversità e il cambiamento climatico.
Le prospettive ottimistiche rispetto alla modernizzazione ecologica, all’assoluta “dematerializzazione” dell’economia e alle discese nelle curve ambientali di Kuznets si confrontano con la realtà degli input crescenti di energia e materia nell’economia mondiale, con la crescente produzione di rifiuti compreso il biossido di carbonio, e il crescente trasferimento dei costi ambientali. Le organizzazioni per la giustizia ambientale del sud del mondo rappresentano una delle forze principali nella lotta contro le ingiustizia socio-ambientali e nello spingere l’economia mondiale verso la sostenibilità. Sono attive sia a scala locale che globale, ma non hanno una posizione contro la crescita economica nei loro stessi paesi, che sarebbe impopolare e persino insostenibile in America Latina, Africa o nei paesi poveri dell’Asia. Ciononostante stanno contribuendo all’introduzione di nuovi concetti come quelli di Buen Vivir, Buona Vita (Sumak Kawsay, in Quechua) nella costituzione dell’Ecuador del 2008, ben lontano dalla fissazione sulla crescita.
L’alleanza potenziale tra il movimento della decrescita in Europa non può richiedere un accordo sul fatto che la crescita economica debba fermarsi ovunque. Si basa piuttosto su una prospettiva comune contro l’egemonia dell’economico e in favore del pluralismo dei valori (come raccomanda l’economia ecologica; Martinez-Alier et al, 1998), sull’accettazione e il sostegno a un neo-malthusianesimo dal basso di stampo femminista, sul riconoscimento del debito ecologico e la critica agli scambi ecologicamente iniqui. L’esportazione di merci non è vista come virtuosa perché va insieme alla crescita del metabolismo sociale e pertanto provoca danni ecologici. Al contrario della tesi promossa regolarmente persino dalla Oxfam (frontiere aperte alle esportazioni dal sud), l’alleanza tra i movimenti per la giustizia ambientale e il movimento della decrescita si fonda su quello che alcuni economisti e politici dell’America Latina, come Alberto Acosta in Ecuador, chiamano “post-estrattivismo” (che è contrario sia “alle economie-enclave e alla maledizione delle risorse” che all’“estrattivismo redistributivo”) (Gudynas, 2010). Inoltre, la richiesta di restituzione del debito climatico da parte del nord al sud del mondo e la pretesa che questo debito non debba crescere ulteriormente da forza agli ambientalisti della decrescita del Nord del mondo.
(traduzione di Chiara Marchetti)
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Joan Martinez-Alier
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Nuove rivelazioni dal sito WikiLeaks.
Il Pentagono documenta quel che i pacifisti denunciano
Soldati uccisi dai loro commilitoni, stragi sulle ambulanze, torture e violenze continue, centinaia di migliaia di morti. Così viene documentata la guerra in Iraq. Non da un sito pacifista ma dal Pentagono
26 ottobre 2010 – Alessio Di Florio
“Coloro che hanno cercato più la guerra della pace, che hanno confidato più nella forza che nel dialogo ne risponderanno davanti alla storia, alla propria coscienza e a Dio” (23-03-2003, vescovi della Toscana).
Così si esprimevano nel 2003 i vescovi toscani davanti all’orrore delle prime bombe su Baghdad. I primi fuochi di una guerra che sempre più hanno trascinato l’Iraq in un baratro infernale. Così in molti probabilmente avranno pensato davanti agli ultimi documenti pubblicati dal sito WikiLeaks. Documenti che disvelano una realtà che probabilmente 7 anni fa neanche gli antimilitaristi più pessimisti potevano immaginare. Si è squarciato definitivamente il velo e il mostro bellico è nudo davanti alla Storia e al Mondo.
Nell’agosto 2004 infuriò un terribile scontro armato sui ponti di Nassiriya. La rivista missionaria Nigrizia, così come tutti coloro che diedero voce alla popolazione irachena, fu tacciata di odio verso i soldati italiani e di menzogne. Oggi sappiamo che non soltanto gli iracheni avevano ragione, ma che fu un atto deliberato e sconsiderato. I soldati sapevano benissimo di sparare ad un’inerme ambulanza. E cosa stavano provocando. Ricordate il grido “annichiliscilo”? Due soldati italiani inseguono un uomo ormai inerme e uno urla all’altro di ucciderlo senza pietà. Anche in quel caso lo sdegno e l’indignazione furono messi a tacere da coloro che invocarono la generica violenza della guerra, il timore e la paura che l’uomo fosse solo apparentemente indifeso e invece un nemico minaccioso contro i soldati italiani in un episodio comunque isolato. Nossignore, non fu e non è mai stato così. Oggi lo possiamo affermare con assoluta certezza e fondatezza: quella era la quotidianità di un massacro, voluto, studiato, scientemente preparato a tavolino. Un massacro come migliaia di altri che hanno insanguinato, e insanguinano l’Iraq. Un Iraq trafitto dalla violenza, violentato nel suo animo profondo, nella sua storia e nella sua quotidianità. Torture giorno dopo giorno, nelle carceri e ovunque un uomo fosse prigioniero della Coalizione. Torture come neanche durante il governo di Saddam Hussein. Scolpiamo queste parole nella pietra, una volta per tutte. Sarebbero da stampare su un foglio di carta e portarle nel portafoglio. Leggerle quotidianamente, mostrarle ovunque agli epigoni dell’attacco militare. Non sono parole di Noam Chomsky o di Gino Strada, di un pacifista o di un antiamericano. No! E’ il Pentagono a dichiararlo, sono i mandanti della guerra ha sancirlo definitivamente. Oggi l’Iraq vive nel peggiore dei suoi regimi, soffre una violenza che non ha mai conosciuto. Oggi, non dimentichiamolo. Perché mentre sto scrivendo, perché qualcuno sta leggendo, il sangue scorre ancora in Iraq. Le violenze e le torture, i massacri e gli assassinii proseguono.
E un ultimo moto d’indignazione, specchio di tutto l’assurdo delirio, non può non essere dedicato a Nicola Calipari. Perché quanto riporta WikiLeaks supera follemente ogni ragione umana. Giuliana Sgrena sul Manifesto del 24 ottobre ha scritto che probabilmente questa è “la versione americana dei fatti” sostenuta per “giustificare la sparatoria e l’uccisione del numero due della sicurezza di un paese alleato”. Se così fosse sarebbe ancora più grave. Se questa fosse la realtà dei fatti, e non addomesticata dal Pentagono per nascondere una vera e propria esecuzione, significa che siamo ostaggi dei peggiori pazzi criminali che la Storia abbia mai conosciuto. Uccidere un uomo, sparare a bruciapelo, per una telefonata significa che la pazzia è totalmente incontrollata, che nulla di umano e anche solo lontanamente vicino ad una mente umana ci sta governando…
http://www.peacelink.it/editoriale/a/32608.html
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Wikileaks, cracker all’attacco 25.10.2010
Il sito di controinformazione sarebbe finito vittima di professionisti del cracking. Coincidenza, poco prima della pubblicazione della ciclopica raccolta di documenti sulla guerra in Iraq
Roma – Wikileaks è caduto vittima di un attacco hacker perpetrato da “persone molto abili”, dicono i curatori del sito di controinformazione più chiacchierato degli ultimi mesi. La “breccia” aperta nei server di un servizio specializzato nella diffusione di informazioni riservate è stata aperta poco prima che il team di Wikileaks si preparasse a far esplodere l’ennesima “bomba” mediatica, una raccolta di oltre 390mila documenti confidenziali riguardanti la guerra in Iraq scatenata da Stati Uniti e nazioni alleate.
I documenti, neanche a dirlo, solo stati comunque rilasciati (in anticipo sui tempi previsti) scatenando un nuovo sommovimento nei mezzi di comunicazione, impegnati ad analizzare i dati in essi contenuti – si parla di 66mila civili uccisi, torture, e scarso controllo da parte delle autorità statunitensi sulla condotta dei suoi soldati – o anche a prendere di mira il founder di Wikileaks Julian Assange, che abbandona un’intervista della CNN in conseguenza dei toni “personalistici” imposti dalla giornalista dell’emittente USA.
La nuova bomba mediatica di Wikileaks è esplosa, gli archivi del “più grande leak di documenti militari classificati” sono online, ma prima della loro pubblicazione l’infrastruttura telematica del servizio ha rischiato grosso: l’attacco hacker è stato confermato da “fonti anonime” interne a Wikileaks, e ha preso di mira il server XMPP di Amsterdam usato per veicolare le comunicazioni su instant messaging cifrato.
I cracker sono riusciti a mettere le mani sulle chiavi private usate per la suddetta cifratura, dice la fonte anonima, costringendo Wikileaks a spostare la sua infrastruttura di “chat” in un altro server questa volta in Germania. Ora è tutto tornato alla normalità, ma lo staff di Wikileaks mette in evidenza la professionalità degli hacker, evidentemente motivati o assoldati da organizzazioni (governi?) interessate a penetrare all’interno delle comunicazioni riservate di Wikileaks.
L’attacco, dicono le persone informate sui fatti, non ha nulla a che fare con la tendenza del sito a finire offline per “operazioni di manutenzione”, né sembra avere connessioni con il recente sacco di Cryptome. I cracker che pochi giorni fa hanno preso di mira il sito di controinformazione – impegnato sul fronte della libera diffusione di documenti secretati ben prima della nascita di Wikileaks – erano “scolaretti che avevano messo le mani sulla password”, dicono le fonti, mentre gli hacker di Wikileaks erano veri e proprio professionisti consapevoli di quel che facevano.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3019973/PI/News/wikileaks-cracker-all-attacco.aspx
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Il sultano del Qatar vorrebbe comprarsi Christie’s 25.10.2010
La notizia ha dell’incredibile. Il sultano del Qatar, l’emiro Hamad bin Khalifa Al Thani, vuole costruire un grande museo per il suo piccolo stato e, per farlo, ha messo nella ‘lista della spesa’ niente di meno che… la Casa d’Aste Christie’s!
“Christie’s ha legami con il materiale che stiamo raccogliendo per il nostro museo” ha dichiarato al Financial Times lo sceicco. Al momento l’emirato non ha fatto alcun offerta per l’azienda di proprietà del francese Francois Pinault.
Il Qatar, non è un mistero, è il più grande esportatore mondiale di petrolio. La famiglia dell’emiro ha già una vasta collezione di opere d’arte, così come i grandi magazzini Harrod’s (aquistati la scorsa primavera per quasi 2 miliardi di euro) e svariate proprietà immobiliari in tutto il mondo.
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UNA CITTÀ n. 175 / 2010 Giugno
Intervista a Ugo Leone
realizzata da Barbara Bertoncin
LA SETTIMA MERAVIGLIA
L’improvvida decisione di destinare due cave del Parco Nazionale del Vesuvio a discarica; il sospetto, poi confermato dai gabbiani, che la spazzatura non fosse stata nemmeno trattata; il paradosso di smaltire rifiuti dall’intera regione in un’area candidata a diventare la settima meraviglia della natura; intervista a Ugo Leone.
Ugo Leone, già professore ordinario di Politica dell’ambiente presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Napoli “Federico II”, è presidente del Parco Nazionale del Vesuvio.
Per tentare di fronteggiare l’emergenza rifiuti in Campania, tutt’altro che risolta, ora in pieno Parco Nazionale del Vesuvio sono state individuate due ex cave per farne sversatoi di rifiuti. Com’è possibile?
In effetti è uno scandalo, la cui origine risale a un paio d’anni fa, per la precisione al 23 maggio 2008, quando il governo, con decreto legge, in deroga alla Legge Quadro sulle aree protette n. 394/91 e al Dpr che il 5 giugno 1995 aveva istituito il Parco Nazionale del Vesuvio, individuò nel Comune di Terzigno -in località Pozzelle e Cava Vitiello- due ex cave come possibili discariche per “lo smaltimento in piena sicurezza dei rifiuti urbani” prodotti in Campania.
Questa individuazione di per sé non bastava per dare inizio allo sversamento, perché occorreva che si riunissero, in quella che si chiama la Conferenza dei Servizi, tutti i soggetti interessati, e cioè il Parco, i comuni, alcuni assessorati regionali, la Sovrintendenza, eccetera. Ebbene, in quella Conferenza dei Servizi, a opporsi all’apertura della discarica furono solamente il Parco e la Sovrintendenza, e così la maggioranza si espresse favorevolmente all’apertura della discarica in località Pozzelle 3-Cava Sari. Si trattava in realtà di una maggioranza fantasma, se così si può dire, perché molti degli invitati erano assenti e però è stato fatto valere il principio del silenzio-assenso. Comunque di fatto passò l’autorizzazione ad utilizzare una di queste cave, chiamata Cava Sari, che ha una potenzialità di 650-700.000 tonnellate, come sversatoio di rifiuti. Da quel momento è cominciato il procedimento di messa in sicurezza. La discarica infatti ha l’obbligo di raccogliere rifiuti preventivamente trattati, perché c’è il rischio che ce ne siano anche di pericolosi, tossici, nocivi, eccetera eccetera.
Va da sé che il Parco Nazionale del Vesuvio e i comuni direttamente interessati, in particolare Terzigno, Boscoreale e Boscotrecase, tre dei tredici comuni che fanno parte della comunità del Parco hanno subìto questa decisione. Dalla fine del 2008, è cominciato lo sversamento. I problemi però sono sorti quasi subito e se ne sono accorti innanzitutto gli abitanti di quell’area, per via del cattivo odore dei rifiuti che andavano in putrefazione, e dal fatto che i gabbiani hanno cominciato a svolazzare.
La presenza dei gabbiani cosa significa?
E’ un segnale evidente che qualcosa non funziona in una discarica di rifiuti. Nel nostro caso specifico è la prova che nella cava vengono sversati rifiuti cosiddetti “tal quale”, cioè il sacchetto dell’immondizia così come ogni famiglia lo getta nel cassonetto. In questo “tal quale”, statisticamente, c’è un trenta per cento di sostanza organica, cioè di rifiuti alimentari, che sono quelli che, andando in putrefazione, producono il percolato, cioè quel liquido che dovrebbe poi essere raccolto, messo in vaso, e diversamente smaltito.
Tutto questo ha creato non solo allarme, ma una forte protesta sia dei cittadini, che si sono organizzati in comitati, sia del Parco che già era ricorso al Tar, non tanto avverso la decisione di aprire una discarica (che era avvenuta -si fa per dire- con tutti i crismi della regolarità) ma contro il fatto che per portare i rifiuti nella Cava Sari si era proceduto all’ampliamento di una strada già esistente, cosa assolutamente vietata e non contemplata nella Conferenza dei Servizi. Non solo, si era cominciata la costruzione di una nuova strada, anche questa non contemplata e non autorizzata. Il Tar ha considerato ricevibile il ricorso e ha momentaneamente bloccato la costruzione della nuova strada. Ma intanto i rifiuti hanno continuato ad essere sversati lungo il vecchio itinerario.
Il Parco, insieme con associazioni ambientaliste e con i comitati dei cittadini, ha allora consegnato una petizione all’apposita Commissione dell’Unione europea, la quale, fortemente sensibilizzata da alcuni commissari italiani, in particolare l’onorevole Cozzolino del Pd, ha presentato una interrogazione all’Unione Europea sulla inopportunità che in un’area protetta, per giunta Parco Nazionale, si utilizzasse una cava come discarica di rifiuti.
La Commissione delle petizioni ha inviato qui, alcuni mesi fa, una delegazione presieduta dall’olandese Judith Markeis, che ha visitato la cava. I commissari si sono immediatamente resi conto che le cose non stavano come gliele avevano raccontate e avendo i delegati chiesto di andare proprio nel fondo della discarica, siamo scesi in mezzo a queste grandi quantità di rifiuti maleodoranti tra i gabbiani svolazzanti. La commissaria ha messo proprio le mani tra i rifiuti, ha trovato dei copertoni, ma soprattutto, cosa che ha destato stupore e scandalo, un fusto all’esterno del quale era indicata la presenza di sostanze pericolose, in quanto tossiche.
La delegazione ha fatto visita non solo alla discarica di Cava Sari, ma anche ad altre situazioni controverse, diciamo così, della situazione napoletana di smaltimento dei rifiuti, e alla conferenza stampa che ha concluso la visita durata tre o quattro giorni, la presidente ha detto che è assolutamente incredibile che si apra una discarica in un’area naturale protetta, e per giunta in un posto di tanta bellezza. Ecco, queste più o meno sono state le parole che ha utilizzato.
Ora la preoccupazione dei cittadini e del Parco è che essendo la cava Sari prossima alla saturazione, si voglia utilizzare come discarica anche la cava vicina…
Si tratta della cava Vitiello, dal cognome dei proprietari, contigua alla cava Sari, ma di enormi dimensioni. Si calcola che sia la più grande d’Italia e fra le più grandi d’Europa, con una capienza di almeno tre milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti. Allora, qui il rischio è veramente gravissimo.
Anche in questo caso c’è stata la convocazione di una Conferenza dei Servizi, perché tutti i soggetti interessati si esprimessero. Solo che questa Conferenza dei Servizi fu convocata -guarda caso, se posso essere malizioso- il 30 dicembre del 2009. Si tenga conto che, per legge, la cosiddetta emergenza rifiuti in Campania sarebbe terminata il 31 di dicembre e dal 1° gennaio del 2010 tutte le competenze in materia di rifiuti sarebbero passate per legge alla Provincia. Fortunatamente il 30 dicembre le cose sono andate in modo diverso dalla volta precedente, perché i votanti si sono espressi, dopo una lunghissima e faticosa battaglia procedurale e sui contenuti, contro l’utilizzazione della cava di Vitiello come discarica, con una votazione di sette a sei. Il risultato è stato ribaltato all’ultimo momento, grazie al voto del comune di Terzigno, che in quel momento non aveva un sindaco, ma un commissario. Perché il commissario ha votato contro l’apertura della discarica? Perché per l’apertura della precedente Cava Sari il Presidente del Consiglio, allora come oggi Silvio Berlusconi, aveva promesso al sindaco di Terzigno, col quale vantava grande amicizia e dimestichezza, una quantità di royalties (che per un comune di piccole dimensioni erano molto stimolanti), che però non sono mai arrivate. A quel punto il Comune si è risentito e ha votato contro. Così la Conferenza dei Servizi si è espressa contro l’apertura della discarica e noi ce ne siamo tornati a casa a festeggiare il Capodanno abbastanza sereni. Ma non tranquilli. Purtroppo infatti la Conferenza dei servizi non ha l’ultima parola: il Governo ha sempre la possibilità di ribaltare una decisione, come di fatto è avvenuto a febbraio di quest’anno, quando il Consiglio dei ministri, in nome del prevalente interesse sociale della cittadinanza, ha autorizzato l’apertura di quella cava Vitiello come discarica.
Nel frattempo però, come dicevo, era venuta la delegazione europea, che ha fortemente criticato questa decisione. Adesso le cose stanno così: la Cava Sari si va riempiendo, la competenza dal 1° di gennaio è passata alla Provincia, che ha lo stesso colore politico della Regione e del Governo, e però è contraria a questa apertura. Il 24 maggio scorso c’è stato un Consiglio provinciale sul tema proprio delle discariche a Terzigno. Io sono stato invitato a partecipare, ho fatto le mie dichiarazioni, le mie proposte, ma devo dire che in quella sede non c’è stato alcuno che si sia dichiarato favorevole a quell’apertura. Solo che nell’ordine del giorno approvato in quella sede, si è detto che l’opposizione all’apertura della discarica deve servire come stimolo alla riduzione della quantità di rifiuti che nella Provincia e nella Regione in genere vengono mandati in discarica. Che è né più e né meno quello che la legge nazionale già prevede, anzi, prescrive: entro il 2012 il 60-65% di rifiuti solidi urbani dovrà essere smaltito tramite raccolta differenziata e avviamento dei rifiuti come materie distinte nelle varie filiere di riciclaggio.
Intanto il Vesuvio è in semifinale per essere votato tra le contemporanee sette meraviglie del mondo. E’ paradossale…
I paradossi sono due: il primo, che il Governo, quello che c’era allora, individua, con la legge 394 del 1991, una serie di realtà di particolare valore naturalistico, e le promuove a Parco Nazionale. Nel far questo prescrive che i parchi siano dei baluardi, per così dire, di legalità a tutela e salvaguardia della natura e della biodiversità. Purtroppo il Ministero dell’Ambiente manda pochissimi soldi -sempre di meno, dico tra parentesi-, perché i parchi possano realizzare questo obiettivo. Ecco, in questo contesto, un altro Governo stabilisce che in deroga a tutto questo, in quel parco si possano sversare i rifiuti.
Il Vesuvio, secondo paradosso, è un vulcano fra i più noti, se non il più noto della Terra, tanto è vero che di suo, senza particolari promozioni, è stato votato nei luoghi più disparati del mondo come potenziale settima meraviglia della natura -di quelle contemporanee, cioè da aggiungere alle sette meraviglie del passato. (Queste sono soprattutto sette meraviglie della natura, mentre in quelle passate, si ricorderà, c’erano soprattutto opere artistico -monumentali: il colosso di Rodi, gli archivi di Alessandria, eccetera). Allora noi tutti adesso spingiamo molto perché questo riconoscimento abbia i voti necessari e il Vesuvio (già in semifinale) abbia i voti sufficienti per entrare a far parte delle sette meraviglie.
Sarebbe un punto decisivo a favore di chi si oppone all’apertura della discarica…
Beh, che accanto alla settima meraviglia ci sia uno sversatoio di rifiuti sarebbe una contraddizione difficile da difendere.
La vostra opposizione alla discarica non è comunque assoluta. Può spiegare?
Ci tengo a chiarire che la nostra posizione non è per un generico “no”. Quando si parla di rifiuti, di opere fastidiose, per così dire, ormai da anni si fa riferimento alla “sindrome Nimby” (non nel mio giardino). Allora io dico realisticamente questo: un parco, dove comunque vi sono anche persone, (per quanto il legislatore cerchi di limitarne la presenza) è anche un’area nella quale si consuma, si agisce e di conseguenza si producono rifiuti, quindi non deve esserci una pretesa che quello che si produce in un parco debba essere smaltito altrove. Però bisogna anche tener presente che lo smaltimento dei rifiuti non è uguale dovunque.
Allora, in un’area protetta bisogna essere particolarmente attenti a che questo avvenga in modo corretto. E certamente non è assolutamente ipotizzabile che l’area protetta sia poi al servizio del resto della provincia, quando non addirittura della regione. Quindi, dicevo, il nostro non è un “no” nel senso “non nel nostro giardino”, ma un “no” che ha due motivazioni. In una regione, soprattutto in una provincia e in una città come Napoli, venuta all’attenzione nazionale ed estera per la cosiddetta “emergenza rifiuti” (emergenza che è stata risolta, si fa per dire, mettendo la polvere sotto il tappeto, ma comunque ricorrendo esclusivamente all’apertura di discariche) non si può pensare di stivare i rifiuti tolti dalle strade nel modo più indifferenziato possibile, dovunque si trovasse un buco o una spianata sulla quale accumularli. Qui si è andati contro la legge, che impone che lo smaltimento debba avvenire in misura crescente in modo differenziato e basandosi soprattutto sul riciclaggio. Quindi noi diciamo che, nel momento in cui, come Parco, ci siamo detti disposti, d’accordo con tutti i comuni, ad ospitare sul nostro territorio la costruzione di un paio di impianti di compostaggio, che sono quelli che trasformano l’umido in compost utile come fertilizzante per l’agricoltura, non si può procedere a sversare tonnellate di rifiuti indifferenziati. Seconda motivazione: noi diciamo che i rifiuti non devono andare nella cava Vitiello, non solo perché sta in un parco, ma perché è una cava di eccezionale valore naturalistico, storico. E’ veramente un laboratorio: c’è la stratificazione visibile di tutte le eruzioni del Vesuvio, dal 79 d.C., per lo meno, in poi, e questo può essere oggetto di studio e perfino di visite turistiche. Vi assicuro che è una cava di grande bellezza!
In più il Parco Nazionale del Vesuvio -e se non questo, quale?- si avvia anche a diventare un “geo parco”, cioè un parco nel quale il valore geologico è di grande importanza. Insomma, è veramente impensabile che in queste situazioni, in quella cavità possano essere ammassate tre milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti.
Ma i rifiuti che confluirebbero lì, da dove arrivano?
Da tutta la provincia, se non anche dal resto della regione. E’ stato calcolato, dal generale Morelli, vice di Bertolaso, che l’utilizzo di quella discarica darebbe un’autonomia di quattro anni, mentre se la Provincia dovesse rinunciarvi, questa autonomia scenderebbe a due anni. Benissimo, io dico che due anni sono sufficienti perché si intraprendano le vie che la legge prevede per smaltire i rifiuti diversamente, a cominciare dalla riduzione, perché come si sa di rifiuti se ne produce una quantità enorme, a cominciare dalla quantità di imballaggi spesso inutili che caratterizzano gran parte dei nostri rifiuti.
Pensate di avere qualche chance?
Io ho un po’ di fiducia in più che nel passato, soprattutto dopo la visita della delegazione. In questa delegazione c’erano anche dei commissari campani. Uno è quel Cozzolino al quale facevo prima riferimento, un deputato al Parlamento europeo espresso dal Pd. Gli altri, viceversa, sono commissari espressi dall’attuale maggioranza. Tuttavia tutti e quattro sono legati da un comune obiettivo, che è quello di cercare di recuperare quei circa 500 milioni di euro, che l’Unione europea ha bloccato per penalizzare l’Italia per non avere risolto il problema dei rifiuti in Campania. Ecco allora che se vogliono recuperare questi fondi avranno buon gioco, o migliore gioco, se dimostrano che è stata intrapresa una via più virtuosa.
http://www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=2051
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 27.10.2010
Le aperture
Il Corriere della Sera: “Trattativa sul lodo Alfano. Estesi i termini per gli emendamenti. Berlusconi: scudo necessario con questi magistrati. Casa di Montecarlo, il pm chiede l’archiviazione per Fini”. L’editoriale è firmato da Paolo Valentino ed è dedicato alla notizia della condanna a morte per Tarek Aziz: “Il giudice di Bagdad”. A centro pagina: “Il figlio di Ciancimino indagato per mafia. ‘Contatti con i boss’. Accusato di fare da tramite con Provenzano”. In prima, con foto, anche la notizia del sisma in Indonesia: “Sisma, tsunami, vulcano: strage in Indonesia”.
La Repubblica: “Berlusconi: il Lodo contro questi pm. Il premier: commissione di inchiesta sui magistrati. Riparte la trattativa sullo scudo”. Nel sottotitolo si parla della richiesta di archiviazione per la casa di Montecarlo: “Niente truffa”. E poi: “Il presidente della Camera era stato indagato”. A centro pagina: “Iraq, pena di morte per Tareq Aziz. L’Europa: fermatevi”. Ne parla anche Adriano Sofri, sulla prima pagina del quotidiano. Di spalla un richiamo alle pagine R2 del quotidiano: “Liu e gli altri, gli invisibili del dissenso cinese”. A fondo pagina il richiamo ad una intervista a Julian Assange, il capo di Wikileaks: “La paura di Mr Wikileaks. ‘La mia vita è in pericolo'”.
Libero: “I pm graziano Fini. I magistrati ammettono che la casa del cognato è stata venduta a un terzo del valore. Ma non si chiedono chi ne ha beneficiato. I Tullianos possono brindare alla salute della vedova Colleoni. Silvio: fossi stato io”. Fini “era indagato per truffa aggravata. Stavolta però toghe e giornaloni non hanno fatto uscire la notizia”. L’editoriale di Belpietro: “Ma non è assolto dalle responsabilità politiche e morali”. A centro pagina il quotidiano dà spazio ad uno scoop del Fatto quotidiano: “I giudici cercano un’altra Noemi. Il Fatto scova una marocchina: denuncia per violenza. La Procura nega”. E sopra: “Obiettivo Berlusconi”. Più in piccolo la notizia che il portavoce del Pdl Capezzone è stato aggredito ieri con un pugno: “Capezzone assalito vicino alla sede del partityo. E’ il portavoce del Pdl. Pugno in faccia”.
Il Giornale: “Fini è indagato, ma l’hanno nascosto. La beffa di Montecarlo. La Procura ammette che la casa fu svenduta a un terzo del suo valore, poi si arrampica sugli specchi e chiede di archiviare la truffa. In arrivo una nuova campagna di veleni su Berlusconi: nel mirino una ragazza. E il clima di odio fa un’altra vittima: il portavoce del Pdl preso a pugni per strada”. A centro pagina, con foto di Andreotti, Prodi e D’Alema, questo titolo: “Chi ha dato 100 miliardi di Euro a Fiat”. E tre sono “i premier che hanno fatto più favori al Lingotto”. A centro pagina: “Ma non si può mettere a morte quel criminale di Tarek Aziz”.
Il Riformista: “Basta forca. L’infinita vendetta irachena. Pena capitale: l’Alta corte di Bagdad ha condannato a morte Tareq Aziz, ex vicepremier di Saddam”. A centro pagina: “Il pugno in faccia a Capezzone. Il portavoce del Pdl aggredito a Roma da uno sconosciuto”. In evidenza in prima pagina anche un richiamo all’intervento che ieri Epifani ha pronunciato al teatro Saschall di Firenze, ad un convegno organizzato dalla minoranza della Fiom, con Durante e Landini. Il titolo: “Marchionne? In Germania lo avrebbero cacciato”.
Il Fatto quotidiano: “Berlusconi, la minorenne e quella strana adozione. Dopo le rivelazioni de Il Fatto, confermata l’indagine della Procura di Milano. Ruby, la giovane marocchina che tira in ballo il premier, è in una comunità. Di lei si interessa la famiglia di Lele Mora. Perché?”. Secondo il quotidiano “il racconto della ragazza sugli incontri con B è al vaglio del Pm Sangermano”. In prima pagina anche un richiamo alla notizia di una morte in carcere: “Simone fatto morire come Stefano Cucchi. Stroncato dall’anoressia a Regina Coeli. Aveva 32 anni, una figlia piccola, doveva scontare un residuo di pena”. Intanto ieri sono stati chiesti 12 rinvii a giudizio proprio per la morte di Cucchi.
La Stampa: “Casa di An, non c’è truffa”. La procura chiede l’archiviazione per Fini e l’ex tesoriere del partito. Il presidente della Camera era indagato. Lodo Alfano, prove di intesa Pdl-Fli. Il premier: scudo inevitabile con certi Pm”. A centro pagina la foto dall’Indonesia: “A Sumatra terremoto con un centinaio di vittime e oltre 500 dispersi, eruzione a Giava”. Mario Tozzi firma un commento: “Il fragile patto con la geologia”. Di spalla: “Tareq Aziz condannato a morte. ‘Salvatelo’. Il mondo si mobilita”. Due commenti: “Il sapore della vendetta”, di Vittorio Emanuele Parsi, e “I due volti del consigliere”, di Mimmo Candito.
Il Foglio: “Il Cremlino non vuole la bomba iraniana, per questo resta a Bushehr. L’Iran carica l’uranio russo nella sua nuova centrale. Medvedev aiuta gli ayatollah e cerca di ridurre la loro minaccia. L’Aiea in visita a Mosca”. Di spalla la politica interna: “Non solo lodo Alfano. Un nuovo caso Cucchgi risveglia il palazzo sul problema delle carceri. Il Guardasigilli rifende il suo piano: ‘Creati 2000 posti in due anni. Ma per i fondi deciderà Tremonti”. Il quotidiano di Ferrara sottolinea che dall’inizio dell’anno sono 51 i suicidi.
Il Sole 24 Ore: “Ripresa sempre più lenta. L’euro forte pesa sull’export. Si riapre lo scontro sul Patto Ue: vari Paesi non vogliono cambiare i Trattati”. E poi: “In Lombardia frena la produzione e si riduce l’occupazione”. A centro pagina i dati del dossier statistico Caritas sull’immigrazione: “Dagli stranieri l’11 per cento del Pil italiano”.
Aziz
La Stampa dedica due intere pagine alla vicenda di Tareq Aziz, rientrato nel 2003 dall’estero a Baghdad nonostante l’offerta di asilo di Chirac. Il suo avvocato Mario Lana accusa: “Se verrà eseguita la condanna a morte sarà per impedire che vengano dette verità scomode, come temono iracheni e americani”. Nel 2009 Aziz era stato condannato a 15 anni per l’uccisione di 42 commercianti sciiti ed era stato assolto dalle accuse di persecuzione religiosa per la repressione che i baathisti compirono nel 1999 contro gli sciiti. Ieri invece, ricorda il quotidiano, l’Alta corte di Baghdad lo ha condannato a morte “per aver cercato di eliminare i partiti religiosi, in particolare sciiti, prima del 2003”, ovvero prima della guerra in Iraq. La Repubblica sottolinea la contraddizione tra una recente assoluzione e la condanna a morte di ieri: per aver preso parte a una campagna di repressione contro gli esponenti del partito Dawa, una forza sciita, che poi è il partito dell’attuale premier iracheno Al Maliki. Ecco perché il figlio di Aziz ha dichiarato che “si tratta solo di una vendetta”, che il padre non ha nulla a che fare con l’attività repressiva svolta negli anni 80 nei confronti dei partiti religiosi. Secondo il figlio di Aziz la condanna a morte conferma che i documenti pubblicati da Wikileaks dicono il vero su quanto accaduto in Iraq negli ultimi anni: fa riferimento alle repressioni svelate da Wikileaks, scattate dopo la fine dell’ultima guerra in Iraq dagli sciiti sulle altre minoranze religiose, come sunniti e cristiani. Si ricorda che nell’agosto scorso Aziz dichiarò: “Obama ha lasciato l’Iraq in balia dei lupi”. Il riferimento era anche al padrinaggio di Teheran sugli sciiti di Al Maliki in Iraq.
Il Sole 24 Ore, in una analisi, evidenzia il sospetto che si voglia chiudere la bocca a un testimone scomodo che aveva accusato la nuova leadership di consegnare il Paese all’Iran. Da tempo, ricorda Il Sole, Aziz non aveva una influenza politica diretta, ma ha continuato a rappresentare un regime in cui era dominante la minoranza sunnita, che ora vorrebbe una maggiore rappresentanza nel Paese, e che, per questo, aveva fatto vincere la lista dello sciita laico Allawi. Ma il primo ministro Al Maliki sta facendo di tutto per restare in sella accaparrandosi il favore degli altri partiti sciiti, come quello dei sadristi: la condanna alla forca di Aziz serve a ricompattare il fronte sciita e per i sunniti è una vendetta del partito Dawa di Al Maliki.
Su La Stampa, si ricostruisce la figura di Aziz, cristiano di rito caldeo, vicepresidente e responsabile degli esteri, il ‘volto buono’ di un regime crudele. Si intervista anche uno psichiatra cui spesso la Cia si è rivolta, Gerrold Post, che sottolinea come comunque Aziz non fu mai in grado di convincere Saddam, che lo usava per mandare segnali al mondo, giocando sul suo profilo di leader pacato e ragionevole.
Fausto Biloslavo su Il Giornale sottolinea che, per quanto possa trattarsi di una vendetta, Aziz non è una “pecorella smarrita”: ricorda quando cercava di spiegare che il Kuwait invaso da Saddam era la diciannovesima provincia dell’Iraq, che da caldeo si mise ad inseguire il panarabismo di Saddam, e che davanti alla nazionalizzazione delle scuole cristiane “non ha battuto ciglio”, come ha ricordato l’arcivescovo cattolico di Bagdad.
Economia
Sulla prima pagina de La Repubblica Massimo Giannini ricorda che da 4 mesi non c’è il Presidente della Consob, la commissione di vigilanza sulle società e la Borsa. E’ “un sintomo che riassume la gravità della patologia italiana e l’irreversibilità della malattia berlusconiana”, secondo Giannini: “Sarebbe come se a New York la Sec americana restasse per mesi senza presidente perché la Casa Bianca e il Congresso non sanno trovare un compromesso sul candidato”. Dopo l’uscita di scena di Lamberto Cardia sono fioccate le candidature, ma non se ne fa niente. La governano i tre commissari rimasti, “e per fortuna lo fanno egregiamente”. Buona parte dell’impasse “ruota intorno alla richiesta del Carroccio di trasferire a Milano la sede dell’Authority.
La Stampa ricorda che ieri il Presidente vicario della Consob, Vittorio Conti, ascoltato in una commissione alla Camera, ha espresso la sua contrarietà al trasloco della Consob a Milano, poiché comporterebbe costi pesanti e darebbe benefici difficilmente valutabili.
Il Sole 24 Ore intervista Nichi Vendola (“Le imprese? Si fidino di me”). L’intervista comincia con una risposta sulle dichiarazioni di Marchionne relative alla scarsa competitività: “Nel processo alle classi dirigenti non è Marchionne che può svolgere il ruolo della pubblica accusa. Il sistema delle imprese è stato complice di una gigantesca pigrizia culturale legato a una idea leggera e di facili costumi della competitività da guadagnare per intero attraverso la compressione del costo del lavoro e della progressiva semplificazione delle relazioni industriali”. Rivendica a se stesso di aver creato in Puglia “non una politica anti-imprenditoriale, ma una nuova politica industriale”, invitando gli imprenditori ad affrontare la globalizzazione e finanziando i distretti industriali di filiera. Ancora sulla Fiat: “Ma l’Italia è in affanno perché ci sono dei furbi a Pomigliano? O perché, per esempio, la Fiat ha investito pochissimo?”. E ancora, sulla presenza pubblica in economia: “Lo Stato non deve diventare imprenditore ma essere il punto di vista dell’interesse globale, e su questo indirizzare i finanziamenti alle attività produttive”. Lei vuole essere l’espressione politica della Cgil? “Non ho messo in piedi il partito della Cgil. Non voglio un partito malato di neo collateralismo. E penso che i sindacati abbiano sbagliato sempre quando l’hanno fatto. Ma il sindacato non può mai essere filogovernativo”. Ammonisce contro il rischio che “ci si innamori dell’idea di un governo di transizione che congeli tutto fino alla scadenza naturale della legislatura. Ma un governo che mettesse insieme centrosinistra e parti del centrodestra per fare le riforme economiche sarebbe un colpo per la democrazia”.
Ieri il segretario generale della Cgil Epifani, partecipando alla iniziativa promossa dalla minoranza moderata della Fiom, ha detto, riferendosi a Marchionne: “Che cosa sarebbe successo se in Germania l’Amministratore delegato di un grande gruppo avesse parlato in televisione e non davanti al suo comitato di sorveglianza? In Germania lo avrebbero cacciato”. Ne parla La Repubblica.
Su Il Riformista, oltre alla frase su Marchionne, si dà conto delle tensioni tra Epifani e Landini, che ha “addirittura lasciato l’assemblea prima delle conclusioni di Epifani”, ieri. Epifani, riferisce ancora il quotidiano, sempre in riferimento a Fiat e Pomigliano, ha voluto puntualizzare che “il problema non sono i turni ma la qualità di ciò che si produce: se la Fiat ha 20 mila operai in cassa integrazione non può pretendere utili”, e “se ci sono operai in Cig è perché non si vendono i modelli”.
E poi
Come preannunciato, anche oggi Il Foglio dedica due intere pagine alle elezioni di midterm. Parla della “conquista del west” poiché ad ovest i Repubblicani potrebbero guadagnare 60 seggi alla Camera. 13 possibili risultati e candidati nei rispettivi Stati. Poi un commento di Mattia Ferraresi, che sottolinea come sia in corso comunque uno scontro tra élite: “le elezioni vengono presentate come lo scontro tra rampolli di Harvard e contadini col forcone. Ma è una guerra tra aristoi”. Anche il Tea party ha tratti elitari, ci sono i finanziatori, le associazioni di base, i tycoon eccetera.
Sul Sole 24 Ore si scrive che i centristi sono in qualche modo “emarginati” dal dibattito elettorale e che la polarizzazione ha contagiato economisti e manager. Joseph Stiglitz, ad esempio, dice che il centro politico ha fallito. Sullo stesso quotidiano, un reportage nella terra dei Democratici: “Se anche il New England volta le spalle ad Obama”.
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Il sapore della vendetta 27.10.2010
VITTORIO EMANUELE PARSI
Era prevedibile che la sentenza di condanna a morte per Tareq Aziz, ex vicepresidente dell’Iraq di Saddam Hussein, provocasse forti reazioni in tutto il mondo.
Aziz aveva sempre cercato di accreditarsi come il volto moderato del regime sanguinario di Saddam, giocando con scaltra spregiudicatezza sulla sua appartenenza alla fede cattolico-caldea e su quel suo aspetto fisico bonario, se non addirittura dimesso, con quel viso che ricordava vagamente quello del presidente cileno Salvador Allende, ucciso dai golpisti di Pinochet.
Evidentemente Aziz non era per nulla quello che molti volevano disperatamente che fosse. Era un militante del partito nazional-socialista del Baath, un altissimo gerarca del regime di Hussein, pronto a servirlo per gli scopi più brutali, sfruttando le sue qualità «diplomatiche», che non si allontanò da Saddam neppure quando il tiranno decise di gassare i suoi sventurati sudditi. In ciò, Aziz era l’equivalente iracheno dei Ribbentrop e degli Hess, che in ogni occasione cercarono con la frode di accreditare l’idea falsa di un nazionalsocialismo quasi rassicurante, diverso da quello che era in realtà. In quanto figura di spicco del regime, perfettamente a conoscenza e complice di ogni sua scelta criminale, Aziz è politicamente, moralmente e penalmente colpevole, in solido con quel padrone che fino all’ultimo ha scelto di servire, e che ora si appresta a seguire sul patibolo. E proprio qui sta il punto della nostra contrarietà e delle proteste del mondo: sull’entità e la qualità della pena. Come tantissimi altri, anche chi scrive ritiene che la pena di morte sia un retaggio del passato di cui, con fatica, perseveranza e passione in Europa ci siamo finalmente liberati. Togliere la vita anche al peggiore dei criminali ripugna alla nostra coscienza, ci sembra un atto indegno del progresso umano che offende innanzitutto la nostra dignità.
Evidentemente queste obiezioni morali lasciano il tempo che trovano a chi ha deciso di accogliere la pena di morte nel proprio ordinamento (dall’Iraq alla Cina, dal Giappone agli Stati Uniti). Se un ordinamento giudiziario come quello iracheno prevede la pena capitale, del resto, per l’entità dei crimini di cui anche Aziz si è macchiato, quella pena può essere definita appropriata, sempre che le procedure seguite per decretarla siano state rispettose di quanto prevede la legge irachena. Su questo i dubbi sono tanti e fondati, e le continue rivelazioni sull’eccessiva disinvoltura con cui sono state commesse, incoraggiate e tollerate sistematiche violazioni dei diritti umani da parte delle nuove autorità irachene e delle forze occupanti, dopo la caduta del regime di Saddam, non fanno che accentuare queste perplessità.
Persino chi volesse sostenere che la sentenza nei confronti di Aziz è stata emessa nel rispetto formale e sostanziale delle procedure legali irachene dovrebbe non essere insensibile a una ragione squisitamente politica che consiglia un atteggiamento di clemenza nei suoi confronti. Innanzitutto per allontanare il sospetto che quello che si sta consumando a Baghdad sia «anche» un regolamento di conti. Mentre invece le nuove autorità irachene avrebbero l’interesse a cercare di marcare in tutti i modi possibili il proprio differente status etico rispetto al regime di cui Aziz era esponente di primissimo piano. Osservava con ragione Niccolò Machiavelli, molti secoli orsono, che talvolta la ragion politica richiede di compiere azioni moralmente riprovevoli ma politicamente necessarie. Si può essere d’accordo o no, ma di certo anche il Segretario della Repubblica fiorentina sottoscriverebbe che la ragion politica non richiederà mai di compiere azioni stupide e controproducenti, che attirano su chi le compie l’ostilità di una parte considerevole del mondo. Se per l’esecuzione di Saddam si poteva forse invocare la ragion politica (il regime era fragilissimo, appena in via di instaurazione, in un contesto di guerra civile), nel caso di Aziz simili considerazioni non sussistono. E la sua esecuzione appare un atto forse vendicativo, ma sicuramente tanto stupido quanto moralmente riprovevole.
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La globalizzazione aiuta la catastrofe 27.10.2010
CARLO GRANDE
Ancora una volta, probabilmente, in fatto di tsunami si può dire che la globalizzazione aiuti la catastrofe: come quattro anni fa – anche se grazie al cielo con effetti assai meno dirompenti – l’onda si è abbattuta su coste ampiamente frequentate dai turisti occidentali e dalla popolazione locale, che vive a livello del mare per “sfruttare” (si fa per dire) la loro presenza: con meno sovraffollamento gli effetti sarebbero probabilmente stati minori. Un secolo o due orsono, ad esempio (come è stato detto a proposito della tragedia del 2006), una fitta “barriera” di mangrovie avrebbe inoltre smorzato l’urto, e le eventuali capanne di paglia, a differenza delle strutture di cemento armato, non si sarebbero rivelate trappole mortali.
Ancora: gli “indigeni” non si sarebbero trovati lì. Semplicemente perché, per istinto, in primo luogo avrebbero costruito sulle alture e poi perché al primo cenno del ritirarsi delle acque avrebbero capito – ricordate? – ciò che una bambina inglese di dieci anni, curiosa di fenomeni naturali, aveva capito benissimo: “Che come le acque dell’oceano si ritirano – così aveva scritto Massimo Fini all’epoca – non per una marea conosciuta e periodica, la prima cosa da fare è correre nella direzione opposta con tutto il fiato che si ha in corpo”.
Ricordiamo ancora le isole Andamane, arcipelago di piccole isole vicinissime all’epicentro del terremoto-tsunami 2006. Sulla parte, diciamo così, “civilizzata”, i morti furono quasi diecimila e i dispersi oltre cinquemila. Sulle isole più piccole delle Andamane, dove vivono popoli cosiddetti “primitivi” (i tedeschi li chiamano “popoli della natura”), tribù che non hanno mai accettato intromissioni, non solo degli occidentali ma anche degli indiani del cui territorio formalmente fanno parte, non ci fu una sola vittima. Investiti dal maremoto con enorme violenza, come disse una responsabile della Croce Rossa, la dottoressa Namita Ali, “Sono stati più furbi dei cosiddetti civilizzati: conoscono l’oceano, non costruiscono le abitazioni sulla spiaggia ma sulle colline”. E quelli che stavano sulle rive dell’Oceano appena hanno visto il mare ritirarsi sono scappati sulle alture.
Chi sono dunque i “primitivi”? Loro o quelli che sfruttando la devastante onda del denaro cercheranno di ricostruire, di rimettere tutto “a posto” com’era prima, di ricreare un bel “Paradiso artificiale”?
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IL GRAN PREMIO ALL’EUR
“Colata di cemento con la scusa della F1” 27.10.2010
Roma, mega progetto intorno al circuito dell’Eur: grattacieli al posto delle aree verdi. Italia Nostra: i terreni ceduti ai privati in cambio delle infrastrutture del Gran Premio
di PAOLO BOCCACCI
Il cemento ha il colore di una fotografia di quello che sarà. Due alti palazzi gemelli da una parte e dall’altra all’altra del verde delle Tre Fontane, davanti ai bianchi marmi dell’Eur, dove adesso si stagliano il rosso dei campi da tennis e delle piste di atletica e il verde di quelli da basket. Ognuno sarà un piccolo grattacielo, ben quindici piani fuori terra che si allungano in altri sette piani accanto, a forma di una L, e tutti e due ospiteranno appartamenti di lusso, uffici e negozi, messi in vendita per lanciare e realizzare il Gran Premio di Roma e far sfrecciare nell’estate del 2013 i bolidi della Formula Uno nel quartiere.
I progetti Gli ‘effetti’ sull’ambiente
Il progetto è stato presentato all’inizio di agosto in grandi cartelle rosse e bianche nelle stanze che contano del Campidoglio e adesso aspetta il via libera della conferenza dei servizi, convocata per il 9 novembre, e poi del consiglio comunale. I due palazzi del comprensorio si chiamano con nomi poetici, Porta dei Pini e Porta delle Tre Fontane. Ma sono 80 mila metri cubi che si abbatterebbero su uno degli angoli storici destinati a verde attrezzato del quartiere, quelli dove dagli anni Sessanta intere generazioni di ragazzi, con le loro magliette bianche e le scarpette da ginnastica, hanno cominciato a correre sulle piste, a giocare a tennis e a pallacanestro.
Così scendono in campo le associazioni dei cittadini del quartiere (Comitato Salute Ambiente Eur, Coordinamento Comitati e Cittadini per la Difesa dell’Eur, Coordinamento No Alla Formula Uno e La Vita degli Altri Onlus) e Italia Nostra, con un dossier dal titolo “Le mani sull’Eur” e un appello al sindaco Alemanno, ma anche ai ministri dei Beni Culturali, Sandro Bondi , e dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, e al premier Silvio Berlusconi. “Ribadiamo” scrivono “la nostra estrema preoccupazione riguardo un progetto che sembra aver preso forma parallelamente alla concezione di Roma Capitale, dimostrando finalità e modi privatistici, troppo lontani dall’interesse pubblico. Un’impresa che si è avvalsa, finora, di modalità di comunicazione a nostro avviso poco chiare, basate sui più agili metodi dell’imprenditoria privata, quando l’oggetto in discussione sono un quartiere storico, gioiello del Razionalismo, e il benessere di migliaia di cittadini”
I nuovi edifici, che si aggiungerebbero ai 150 mila metri cubi da costruire nell’ex Velodromo, spazzeranno via all’inizio tutte le strutture sportive delle Tre Fontane che sarebbero rase al suolo per far posto ai cantieri e poi ricostruite nello spazio rimanente.
Frutto dell’operazione sarebbero quei cento milioni che servono a Roma Formula Futuro capitanata dal presidente degli industriali della Federlazio Maurizio Flammini, ex pilota e patron della macchina organizzativa del Gran Premio romano, per approntare le opere necessarie a far sfrecciare i bolidi per le strade dell’Eur.
Un progetto per il quale la contropartita per la città consisterebbe nel nuovo ponte su via delle Tre Fontane, nella ristrutturazione di via delle Tre Fontane, trasformata in un boulevard, e la recinzione dei parchi dell’Eur, da quello degli Eucalipti a quello del Ninfeo all’altro del Turismo.
E la variante al piano regolatore, con relativo accordo di programma, che dovrebbe dar vita al comprensorio, sarebbe ricavata mettendo a disposizione di privati una parte di suolo pubblico destinata originariamente a verde e a servizi di livello locale come “paesaggio naturale di continuità” che collega la valle del Tevere al parco di Tormarancia. Insomma Ente Eur e Comune regalerebbero i terreni alla società costruttrice in cambio di altre opere necessarie per il Gran Premio.
“Un’operazione ridicola” attacca il consigliere del Pd Athos De Luca, uno degli storici difensori del verde della Capitale “se si pensa che gli edifici dovrebbero ospitare alla fine solo 720 abitanti e trecento addetti degli uffici”.
Altro discorso l’allargamento del ponte delle Tre Fontane per far passare sotto il circuito, un’opera da 26 milioni di euro. E quale sarà l’impatto con almeno centomila spettatori? Basteranno i parcheggi in un’area di tre-cinque chilometri intorno al circuito?
Infine è di pochi giorni fa l’ennesima bagarre sul fronte del contestatissimo Gran Premio all’Eur. “Non c’è alcun contratto con Roma”, rivela Bernie Ecclestone dal circuito coreano di Yeongam. E il sindaco Gianni Alemanno precisa: “La disponibilità di Ecclestone è certa, la proposta deve passare in Consiglio”. Ma davanti ora c’è il grande scoglio della colata di cemento sull’Eur.
http://roma.repubblica.it/cronaca/2010/10/27/news/gran_premio_eur-8469927/
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IL CASO
Non pagano la retta dell’asilo
nomi pubblicati sul web 27.10.2010
Aosta, piccolo comune sotto accusa per l’elenco di genitori e figli morosi. “Tutto in regola, la privacy è stata rispettata”
di MEO PONTE
AOSTA – La lista “nera” elenca otto famiglie: quattro italiane, una indiana e tre marocchine. Accanto al nome del padre quello dei figli con tanto di scuola frequentata e infine il debito, compreso di multa, cumulato con i servizi comunali per il mancato pagamento della mensa scolastica. La si trova sul sito Web del comune di Pont Saint Martin, quattromila anima al confine tra Valle d’Aosta e Piemonte. C’è finita il 3 settembre ma solo giovedì scorso, dopo un’interpellanza della minoranza di centro sinistra, la giunta comunale del piccolo centro valdostano (composta da Union Valdotaine e indipendenti) si è resa conto di aver creato una specie di “gogna” informatica. “Abbiamo comunque elencato tutti: italiani e stranieri – dice Guido Yeuillaz, 49 anni, visibilmente imbarazzato – non abbiamo fatto altro che espletare la procedura prevista dal regolamento comunale secondo la quale le persone morose vengono avvertite dapprima con un sms poi con una telefonato diretta e infine con una lettera affinché possano chiedere l’esenzione dal pagamento delle rette se in difficoltà economiche. Nessuna delle otto famiglie ha risposto… “.
Al sindaco che ci tiene a sottolineare che ogni giorno nelle scuole del paese (un asilo nido, due materne, due elementari, una media, un liceo e un istituto professionale) il comune garantisce 500 pasti al costo di 3,50 euro (“cucinati dalle nostre cucine, non ci fidiamo del catering”) i consiglieri di minoranza hanno fatto notare che forse elencare i morosi sul sito Web era un po’ troppo. “C’è un’evidente violazione della privacy – spiega il consigliere Cleta Yeuillaz – le persone che non hanno pagato sono state messe alla berlina con l’evidente rischio di discriminazione in un piccolo paese come il nostro… “.
A rendere ancor più grottesca la vicenda è che i “debiti” cumulati in totale dalle otto famiglie non superano i 5000 euro, anche se maggiorati delle sanzioni. La famiglia di Giuseppe F., il cui figlio frequenta la scuola elementare, “deve” al comune 129 euro e 90 centesimo che, con interessi e spese, sono diventati 144 euro e 31 centesimi. I più “colpevoli” paiono essere i coniugi marocchini che avendo tre figli alla scuola materna hanno accumulato una debito di 1585 euro e 95 centesimo, cresciuto con gli interessi di mora, a 1624 euro e 35 centesimi.
Il responsabile del servizio (che si firma burocraticamente Pasi Mario) però non ha esitato a rendere pubblico il debito degli otto e forte anche “del parere favorevole di contabilità attestante la copertura finanziaria espresso dal Ragioniere capo” ha diligentemente riportato sul sito comunale l’elenco delle ingiunzioni di pagamento. Guido Yeuillaz, il sindaco, ora ammette: “Forse elencare anche i nomi dei bambini è stato un po’ troppo. Ho ripreso il segretario comunale per questo che però ha agito in buona fede. Ma ci tengo a precisare che qui non siamo ad Adro, che qui non si fanno discriminazioni”.
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/27/news/asilo_mensa-8470056/
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Microcredito nella Regione Piemonte per mettersi in proprio 24.10.2010
Al fine di agevolare sia l’accesso al credito, sia nuove iniziative imprenditoriali per mettersi in proprio, in Piemonte una rete costituita da enti no profit e da istituzioni ha dato vita ad un fondo di garanzia per il microcredito avente una dotazione finanziaria pari a quattro milioni di euro. A darne notizia è la Confcommercio nel far presente come potranno essere concessi, attraverso le banche aderenti, finanziamenti per importi pari a massimi 25 mila euro per ogni singola richiesta; per trasformare l’idea imprenditoriale in un business di successo sono previste anche consulenze tecniche e servizi di tutoraggio al fine di permettere di poter avviare al meglio la nuova impresa.
I quattro milioni di euro a disposizione, nell’ambito di un’iniziativa che nasce grazie ad un protocollo d’intesa che è stato siglato dalla Confcommercio, dalla Fondazione don Mario Operti, Compagnia di San Paolo, Regione Piemonte e Fondazione Cassa Risparmio Cuneo, permetteranno di andare a garantire l’80% degli importi erogati dalle banche per i quali, quindi, non saranno necessarie garanzie aggiuntive.
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Rimborso Iva gas metano: vittoria del Sunia 19.10.2010
Il Sunia, Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari, ha reso nota un’importante vittoria in materia di imposte applicate sul gas metano ad uso civile per i condomini. Il Sindacato, nello specifico, s’è vista accolta una class action avviata nel luglio scorso nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, con la conseguenza che ora possono partire le pratiche per il rimborso. Secondo il Sunia, infatti, ora si apre la strada per andare a recuperare quanto indebitamente versato negli anni scorsi, mentre per il futuro il risparmio medio sui consumi di gas, a favore di alcuni milioni di famiglie, viene stimato dal Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari tra gli 80 ed i 140 euro all’anno che di questi tempi sono oro colato.
Al fine di poter chiedere il rimborso sulla maggiore Iva pagata per i consumi di metano ad uso civile (il 20% anziché il 10%), il Sunia con un comunicato ufficiale ha fatto presente che a breve metterà a disposizione presso le proprie sedi i moduli per la restituzione dell’imposta sul valore aggiunto pagata in eccesso.
http://risparmioemutui.blogosfere.it/2010/10/rimborso-iva-gas-metano-vittoria-del-sunia.html
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Super olio, antiossidante senza calorie 26.10.2010
Una dose di 100 milligrammi rappresenta dose consigliata da Fda
(ANSA) – MILANO, 26 OTT – Super olio ma senza calorie. E’ questa una delle piu’ recenti applicazioni della nutraceutica, disciplina a meta’ strada fra la farmaceutica e la scienza degli alimenti su cui puntera’ il riflettori la rassegna Nuce International, in corso a Milano. Il super olio e’ un estratto di olio d’oliva con un livello concentrato di antiossidanti polifenoli, tanto che una dose quotidiana di appena 100 milligrammi corrisponde al consumo di olive raccomandato dalla Food and Drug Administration.
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2010/10/26/visualizza_new.html_1728040071.html
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Pesce: un buon alleato per gli ammalati alla prostata 20.10.2010
In chi ha già sviluppato il tumore il consumo di prodotti ittici può migliorare la prognosi
Secondo una rassegna canadese di studi sul tumore alla prostata, pubblicata sull’American Journal of Clinical Nutrition, sembra che mangiare spesso pesce, quando ormai il tumore si è già sviluppato, possa ridurre il rischio che si formino metastasi e la mortalità.
Fino ad ora diversi studi hanno evidenziato che il consumo regolare di pesce comporta alcuni benefici per la salute tra cui una riduzione del rischio di avere un infarto o un ictus, tuttavia è ancora poco chiaro il suo ruolo nei confronti del tumore della prostata.
Per cercare di chiarire questo punto i ricercatori canadesi hanno analizzato una trentina di studi sul tema giungendo alla conclusione che il pesce non sarebbe di grande aiuto nella prevenzione di questo tumore, ma gioverebbe una volta che la malattia si è sviluppata.
In particolare, dai dati raccolti emerge che gli uomini che mangiano spesso pesce hanno un rischio ridotto del 44 per cento di sviluppare metastasi nonché un rischio ridotto del 63 per cento di soccombere per colpa del cancro.
Secondo i ricercatori canadesi gli effetti benefici del pesce potrebbero essere legati all’azione antinfiammatoria degli oli di pesce in grado di contrastare la progressione del tumore.
Insomma via libera al consumo di pesce, anche se non si conoscono ancora le quantità ottimali, ricordando di variare la tipologia e di abbinarlo ad altri alimenti benefici, a partire da frutta e verdura.
Fonte: Corriere della Sera
http://www.entrainfarmacia.it/rimedi_naturali/pesce_alleato_prostata/view
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Le Fondazioni bancarie 26.10.2010
Quando Chiamparino del Pdmenoelle o Tosi della Lega si sono occupati di Intesa San Paolo e Unicredit lo hanno fatto come azionisti che vogliono incassare i dividendi. Questo perché i partiti controllano indirettamente quote di proprietà delle banche attraverso le fondazioni bancarie delle varie città, da Torino a Verona. La cacciata di Profumo è dovuta al prosciugamento dei dividendi verso le Fondazioni. L’aumento delle quote della Libia in Unicredit è stato un pretesto, infatti chi lo ricorda più? Quanti soldi arrivano alle 88 fondazioni bancarie ogni anno? Un fiume di denaro. Le banche italiane distribuiscono la metà del profitto netto in dividendi agli azionisti. Le Fondazioni usano questi soldi per progetti no profit nel territorio. Gli utili delle banche sono spesi dalle Fondazioni per attività di loro scelta (il cui ventaglio possibile è molto ampio) per ottenere un vantaggio elettorale. I partiti possono anche decidere le nomine bancarie. Un esempio è Chiamparino che scelse il presidente del consiglio di gestione di Intesa San Paolo in quanto, come sindaco, era delegato della Fondazione San Paolo che possiede il 10% di Intesa San Paolo.
Fassino che si rallegra di avere una banca o Boss(ol)i che vuole le banche del Nord dopo la vittoria in Piemonte e in Veneto sono sintomi di una babele di ruoli, parole di schizofrenici della politica trasformati in banchieri. Il cui compito non dovrebbe essere incassare dividendi o fare nomine bancarie, ma amministrare la cosa pubblica. Il denaro compra consenso, voti, e questo è uno dei compiti occulti delle Fondazioni. La capitalizzazione delle banche italiane è tra le più basse d’Europa, in sostanza la cassa piange. Il meccanismo delle banche “mucche da mungere” che non reinvestono una parte importante dei profitti perché destinata ai partiti sta per finire. Il primo motivo è la crisi, il secondo le nuove regole di Basilea 3 che impongono l’aumento del capitale di copertura sui possibili rischi entro il 2013. La coperta è sempre più stretta, salteranno prima i partiti a livello locale o falliranno le banche?
Ps: Vorrei che la destinazione della spesa delle Fondazioni e la motivazione di ogni scelta siano rese pubbliche in modo capillare e comprensibile al cittadino.
http://www.beppegrillo.it/2010/10/quando_chiampar/index.html?s=n2010-10-26
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Perquisizioni casa per casa a Terzino 26.10.2010
A Terzigno è partito il rallestramento casa per casa alla ricerca di nonsisacosa. E’ una forma di intimidazione. Chiunque può essere perquisito. Come direbbe il grande Totò: “Voi perquisite a scopo intimidatorio? E io non mi intimidisco!”.
“La denuncia, partita da Facebook, è stata confermata a CNRmedia dai manifestanti. “Le forze dell’ordine stanno perquisendo le nostre case, senza mandato. Sfruttano l’articolo 41 sul possesso di armi e droga per intimidirci”. Dalla questura di Napoli confermano le perquisizioni parlando però di “operazioni di routine” “Si presentano a casa e perquisiscono tutto, creando dei problemi con i genitori e con le mogli”. Con queste parole ai microfoni di CNRmedia un manifestante di Terzigno denuncia l’operato delle forze dell’ordine che starebbero perquisendo le case di alcuni manifestanti in base all’articolo 41, quello relativo al possesso di armi e droga.“L’articolo 41 – spiega ancora il manifestante – è un metodo usato dalla polizia quando vuole entrarti in casa, perché non ha bisogno di alcun mandato. Ti perquisiscono alla ricerca di armi e droga e se non trovano nulla ti rilasciano un foglio con gli estremi della perquisizione e l’esito negativo. Altrimenti ti arrestano”.Fino a questo momento, sempre secondo i cittadini anti-discarica, tutte le perquisizioni sono state negative. “Stiamo parlando di persone senza precedenti, completamente incensurate. Sono stati perquisiti circa quindici giovani manifestanti: qualcuno è stato rilasciato immediatamente, altri sono stati portati in questura di Napoli per poi essere liberato senza che sia stato trovato nulla”. Gennaro Giugliano, Napoli
http://www.beppegrillo.it/2010/10/perquisizioni_a.html
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L’eredità di Néstor Kirchner sull’America latina del XXI secolo 27.10.2010
America latina, Argentina, Diritti umani, Globalizzazione, Neoliberismo, Politica internazionale, Primavera latinoamericana, Primo piano
Chi poteva immaginare Nestor Kirchner, il ragazzo della Gioventù Peronista divenuto presidente della Nazione in uno dei momenti più difficili della storia mai facile dell’Argentina, come un cardiopatico morto a sessant’anni appena compiuti? Chi poteva immaginare, ricordando l’immensa vitalità con la quale saltava da un capo all’altro della Patria grande latinoamericana, che in questo inizio di XXI secolo aveva contribuito a disegnare nella sua ineludibile integrazione, che il suo cuore potesse non reggere più?
Anche quando nelle ultime settimane erano giunte notizie allarmanti su ricoveri e interventi chirurgici, si collocava Don Néstor ancora nella sfera dei giovani cavalli di razza della politica continentale. E lo si vedeva alla vigilia di lanciarsi in una nuova e più appassionante sfida politica, quella di succedere a sua moglie Cristina e tornare alla Casa Rosada per dare continuità al progetto kirchnerista di Argentina. È quel progetto che aveva plasmato la speranza dell’Argentina nei giorni bui dell’uscita dalla notte neoliberale che aveva portato il paese al crollo di fine 2001.
Ancora pochi giorni fa svolgeva un ruolo attivissimo nella soluzione del colpo di Stato in Ecuador contro il governo amico di Rafael Correa, lui segretario generale di quella UNASUR, l’Unione delle Nazioni Sudamericane che in poco tempo si è imposto come il principale consesso regionale sulla base del fatto che il contributo degli Stati Uniti (da sempre egemoni nell’OSA, l’Organizzazione degli Stati Americani) è in genere il problema e quasi mai la soluzione alle crisi regionali.
Il primo straordinario contributo di don Néstor fu evitare il far ripiombare il paese nel passato obbligando il suo rivale Carlos Menem a rinunciare al ballottaggio al quale erano giunti insieme nella corsa alla prima elezione presidenziale post-crollo del dicembre 2001. Menem era l’uomo simbolo delle peggiori tragedie neoliberali, della distruttiva parità col dollaro che in 13 anni aveva completamente deindustrializzato il paese, della chiusura delle mense costringendo migliaia di bambini a morire di fame, dell’abbandono delle scuole e degli ospedali pubblici, del disastro culturale prodotto dalle televisioni commerciali, dell’impunità per le violazioni dei diritti umani e delle “relazioni carnali” con gli Stati Uniti.
Semplicemente sconfiggendo la prospettiva dell’eterno ritorno di un governo coloniale a Buenos Aires, Néstor Kirchner aprì una pagina nuova nella storia del grande paese australe. Per voltare pagina, in un modello sociale, quello kirchnerista, non certo radicale, ricostituì la sovranità nazionale stuprata dalla dittatura del Fondo Monetario Internazionale. Con l’aiuto politico ed economico del brasiliano Lula da Silva e del venezuelano Hugo Chávez, chiuse la pagina più nera della storia argentina saldando il debito con l’FMI e recuperando la capacità del paese di scegliere le proprie priorità. Inaugurò così una stagione nella quale rifecero capolino le nazionalizzazioni, un vero tabù in un paese completamente privatizzato, e fu uno dei baluardi, di nuovo con Lula e Chávez, nell’impedire il progetto dell’ALCA.
L’Area di Libero Commercio delle America doveva essere la risposta di George Bush alla Cina: l’intera America latina doveva essere un’immensa maquiladora dove in condizioni di lavoro semischiaviste, omologhe a quelle cinesi, gli Stati Uniti potevano combattere la battaglia per l’egemonia mondiale con il paese asiatico organizzando l’intera economia latinoamericana in nome di tale supremo interesse. Fu un battaglia che gli USA persero in quei giorni di Mar del Plata nel 2005 quando Kirchner sfilava con al fianco Diego Armando Maradona e gridava insieme a tutto un continente il proprio NO al modello neocoloniale rappresentato da Bush. Se è ragionevole sostenere che il neoliberismo non è mai tramontato in America latina, anche nei paesi integrazionisti, è altrettanto vero che la rottura della teoria della dipendenza operata in questo decennio da uomini come Néstor Kirchner è la premessa fondamentale alla costruzione di un modello sociale meno ingiusto.
Proprio con Lula e Chávez, don Néstor inaugurerà quel “concerto latinoamericano”, consultazioni quotidiane e incontri continui, che hanno portato a quello straordinario fiorire delle relazioni economiche (più che triplicate) e politico sociali nella regione, fino a ieri impedite dal modello neocoloniale di sviluppo.
Ma il contributo del ragazzo della Gioventù Peronista non si ferma alla politica economica e internazionale. In un momento nel quale il paese doveva ricostituire la propria dignità, capì che questa non potesse sedimentarsi senza giustizia. Così Kirchner si caricò del peso e del rischio politico di abrogare le leggi dell’impunità volute in epoca neoliberale per i militari violatori dei diritti umani responsabili dei 30.000 desaparecidos. Se oggi migliaia di processi per violazioni dei diritti umani sono in corso e l’Argentina è in grado di puntare il dito contro paesi come la Spagna incapace di fare giustizia per i crimini del franchismo, ciò è merito di quella generazione testarda di militanti di sinistra e peronisti della quale Kirchner faceva parte e che con l’abrogazione delle leggi d’impunità, Punto Finale e Obbedienza Dovuta, qualcosa di impensabile nell’Argentina neoliberale, ha saldato un impegno morale con i compagni sterminati per imporre il modello economico che ha distrutto il paese.
Oggi che finisce la corsa di Néstor Kirchner si aprono grandi interrogativi. Il kirchnerismo, il presidente, Cristina Fernández, hanno davanti a loro ancora un anno di governo per superare l’assenza del candidato naturale alla presidenza della Repubblica nelle elezioni del prossimo anno. La nuova America latina deve superare la prima scomparsa di un suo leader storico. La continuità dei processi popolari non è assicurata, ma le premesse, anche per l’azione di personaggi come Néstor Kirchner, ci sono tutte.
http://www.gennarocarotenuto.it/14365-leredit-di-nstor-kirchner-sullamerica-latina-del-xxi-secolo/
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I mercati e la stampa neoliberale plaudono alla morte di Néstor Kirchner e sognano José Serra in Brasile 28.10.2010
America latina, Argentina, Disinformazione, Globalizzazione, Media, Neoliberismo, Politica internazionale, Primavera latinoamericana, Primo piano, Problemi globali
Alla notizia della morte di Néstor Kirchner i mercati schizzano verso l’alto. Per il “Wall Street Journal” la morte è positiva perché apre la prospettiva ad un governo “market friendly”, che vuol dire “people unfriendly”.
Testuale: “la morte di Kirchner è un’opportunità”. Per il momento dovranno farsi una ragione del fatto che alla Casa Rosada c’è Cristina Fernández de Kirchner, alla quale in queste ore sta arrivando la solidarietà di tutti i democratici d’America (nell’immagine la bella copertina di Página12 di oggi, disegnata da Daniel Paz).
Intanto il “Financial times” endorsa (invita i brasiliani a votare) per José Serra nell’imminente ballottaggio contro Dilma Rousseff. Con un linguaggio insolitamente aggressivo e maschilista il quotidiano londinese liquida Dilma come “una protégée” di Lula. Nel succo il motivo dell’endorsement è che Serra può allontanare il ritorno della minaccia Lula nel 2014. Il governo brasiliano ha risposto ufficialmente che il tempo del colonialismo è passato da un pezzo.
Sia il “Wall Street Journal” che il “Financial Times” sono ossessionati dall’integrazione latinoamericana, che ovviamente vedono come il fumo negli occhi, e dall’amicizia dell’Argentina di Néstor e Cristina e del Brasile di Lula e Dilma con il Venezuela e con Cuba e dalla capacità soprattutto brasiliana di giocare da attore globale per esempio per evitare una guerra con l’Iran.
Continuano a vedere il mondo con il solo paraocchi del loro tornaconto, indifferenti alla vita e alla morte delle persone (le loro intere collezioni testimoniano il plauso all’Argentina neoliberale per le misure economiche che mandavano a morte per fame migliaia di bambini) fino ad applaudire alla morte di un politico democratico perché questa morte farà loro guadagnare soldi. Nel loro delirio razzista, non riescono neanche a pensare una politica internazionale policentrica e nella quale un paese del sud del mondo, il Brasile (figuriamoci l’Argentina o il Venezuela) non debba chiedere il permesso a loro. Al mondo, per fortuna, le voci ciniche di sciacalli mediatici come il “Wall Street Journal” o il “Financial Times” o l’ “Economist” sono sempre più flebili. E se milioni stanno piangendo don Néstor, nessuno verserebbe una lacrima per tali sciacalli mediatici.
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Immanuel Wallerstein
Chi vuole il fardello afghano? 27.10.2010
Non è un segreto che molti paesi ritengano di essere interessati a chi governerà l’Afghanistan. E nel corso degli ultimi trent’anni molti paesi hanno mandato truppe o forniture militari o anche ingenti finanziamenti per determinare in Afghanistan il governo che vorrebbero. Non è difficile vedere come di fatto la misura in cui i paesi terzi hanno raggiunto i loro obiettivi sia molto limitata. E le prospettive per quei paesi non sembrano poi così buone. Tra le forze esterne cresce la sensazione di dover limitare gli interventi attivi. L’ingerenza crea un fardello che non sembra ricevere molte gratificazioni.
L’Unione Sovietica ci rimase seriamente scottata negli anni ottanta del secolo scorso e alla fine ritirò tutte le sue truppe. Il presidente che intendevano sostenere fu impiccato pubblicamente da una nazione riconoscente. I mujaheddin appoggiati dagli Stati Uniti nella resistenza all’intervento sovietico manifestarono la loro gratitudine coltivando e sostenendo un movimento, al-Qaeda, che da allora in poi ha dedicato tutte le sue energie alla jihad contro gli Stati Uniti e contro tutti coloro che al-Qaeda considera loro alleati.
La guerra civile afghana – che coinvolge più di due fazioni – prosegue ininterrottamente da allora. La componente preponderante, i talebani, ha conosciuto in questa guerra fasi alterne. Attualmente attraversa una fase decisamente ascendente. Poiché quasi tutte le nazioni esterne, salvo il Pakistan, non fanno che ripetere i loro giudizi negativi sui talebani, la capacità di questi ultimi di resistere e guadagnare terreno all’interno ha portato a molti ripensamenti privati tra tutti i paesi terzi interessati. L’interrogativo «dobbiamo continuare nel nostro intervento?» è tra le priorità un po’ ovunque.
I paesi confinanti a nord e ad ovest – Uzbekistan, Tagikistan, Russia (anche se non per confine diretto), oltre all’Iran – sono tutti preoccupati. Non vogliono un governo dominato da talebani militanti e in gran parte di etnia pashtun. Temono, forse correttamente, che finirebbe per opprimere in vari modi le regioni settentrionali e occidentali cui sono legati dal punto di vista etnico. Ma nessuno di quei vicini sembra pronto a inviare truppe e tutti di conseguenza sono a favore di negoziazioni politico intra-afgane che si concludano garantendo una qualche protezione delle aree settentrionali ed occidentali.
Gli Usa al momento hanno un folto contingente di truppe in Afghanistan. In teoria hanno preso l’impegno di ritirarle gradualmente a partire dal luglio 2011. Sempre in teoria il governo statunitense spera nella disfatta, o almeno nella possibilità di domare le forze talebane, e in un rafforzamento dell’esercito regolare afghano sotto l’autorità del governo formalmente legittimo presieduto da Hamid Karzai.
Le truppe statunitensi sono affiancate da una forza costituita da svariati paesi aderenti alla Nato. Se gli Stati Uniti intendono aspettare fino alla metà del 2011 per richiamare i loro soldati, la maggior parte dei paesi Nato sono ansiosi di andarsene prima o comunque di annunciare adesso con certezza un ritiro definitivo e imminente.
Nel caso degli Stati Uniti il ritiro pone una questione di politica interna. Il presidente Obama sta valutando se perderà più voti ritirando le truppe o al contrario non ritirandole. I risultati dei sondaggi di opinione indicano un numero crescente di votanti stanchi di quella che vedono come una guerra impossibile da vincere, in un paese lontano. La mia previsione è che la spinta isolazionista stia superando quella interventista nella politica statunitense. Ma questo lascia ancora altri due outsider – il Pakistan e l’India. Si tratta ovviamente di due paesi impegnati in una annosa e reciproca lotta politica (e spesso militare). E ciascuno valuta la situazione in Afghanistan in primo luogo in base alle implicazioni che può avere per i propri conflitti.
Il Pakistan in tutto questo periodo ha sempre sostenuto i talebani per mezzo dei servizi segreti dell’esercito. Oggi tende a negarlo perché questo esaspera gli Stati Uniti, ma non ci crede nessuno. Il Pakistan è convinto di poter controllare i talebani afgani e pensa che un ristabilito governo talebano a Kabul rappresenterebbe una muraglia contro l’India.
Il governo indiano è stato, negli ultimi dieci anni, un sostenitore attivo del regime di Karzai, perché lo ritiene uno strumento utile a neutralizzare l’influenza pakistana nel paese e capace alla lunga di aiutarli a creare le necessarie infrastrutture per ottenere risorse energetiche da Iran e Russia. Sia l’India sia il Pakistan potrebbero essere arrivati a riconsiderare le loro opzioni. O almeno, vi sono alcuni analisti governativi indiani convinti che ritirandosi, e cedendo l’Afghanistan ai pakistani, somministrerebbero al Pakistan una polpetta avvelenata che finirebbe per risucchiarne le energie e le risorse militari. Quegli analisti contano sulla formidabile indipendenza degli afgani, in particolare dei pashtun, sicuri che non tollererebbero il controllo pakistano come non hanno tollerato quello sovietico o statunitense.
E quanto al Pakistan? Non esistono solo i talebani afgani ma, sia pure separatamente, anche quelli pakistani. Mentre l’Isi può apprezzare e sostenere quelli in Afghanistan, è sicuramente poco entusiasta della variante locale. Occuparsi dei talebani pakistani potrebbe distrarre il Pakistan dalla questione dell’India più di qualunque altra cosa. Ritirarsi da un eccessivo impegno in Afghanistan potrebbe in qualche misura ridurre le tensioni interne.
Allora un possibile esito delle continue guerre civili in Afghanistan è che nel giro di cinque anni o giù di lì tutti potrebbero essersi stancati del fardello di quell’impegno, abbandonando gli afgani al loro destino – «a cuocersi nel loro brodo», per usare un’espressione popolare. E che aspetto prenderebbe allora un simile Afghanistan? Difficile dire. Potrebbe verificarsi una situazione molto spiacevole, che vedrebbe tutti gli afghani sottoposti alla shar’ia nella sua versione più feroce. Oppure potrebbe sorprenderci tutti con quella specie di atmosfera alla “vivi e lascia vivere” che l’Afghanistan ha conosciuto in alcuni momenti della sua storia. E comunque il resto del mondo se ne preoccuperà? I prossimi cinque o dieci anni si profilano dappertutto come un periodo terribile dal punto di vista economico e politico. Forse mancheranno il tempo e le energie per occuparsi dell’Afghanistan.
(traduzione di Maria Baiocchi)
Copyright di Immanuel Wallerstein, distribuito da Agence Global
http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2010/mese/10/articolo/3582/
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La paura di Mr. Wikileaks
“La mia vita è in pericolo”
“Sfido il Pentagono e le banche in nome della battaglia per la verità”. Il peggior nemico per me è probabilmente l’esercito Usa. E poi la finanza, diversi Paesi e anche gruppi religiosi
di JOSEBA ELOLA
LONDRA -Julian Assange vive in un universo di segreti, e dunque non poteva non essere segreto anche l’incontro con l’uomo che è diventato un grande nemico del potentissimo Pentagono. L’uomo che ha fondato un sito web nel dicembre del 2006 è anche l’incubo di grandi banche, multinazionali e governi.
Ho letto un titolo che le metteva in bocca questa frase: “Sono un giornalista militante”. È vero?
“Io sono un editore. E in quanto editore sono anche il direttore e il portavoce della mia, della nostra, pubblicazione. Ho a che fare con il giornalismo da quando avevo 25 anni, quando partecipai alla stesura del libro Underground, e attualmente, considerando lo stato di impotenza del giornalismo, mi sembrerebbe offensivo essere chiamato giornalista”.
Perché?
“Per gli abusi del giornalismo”.
A che abusi si riferisce?
“L’abuso più grande è la guerra raccontata dai giornalisti. Giornalisti che si rendono corresponsabili della guerra non facendo domande, abdicando alla propria integrità e appiattendosi vigliaccamente sulle fonti governative”.
Qual è in questo momento il suo peggior nemico?
“Dal punto di vista delle risorse impegnate per starci addosso, l’esercito degli Stati Uniti”.
Quali altri nemici ha?
“Le banche. La maggior parte degli attacchi legali che abbiamo ricevuto viene dalle banche. Siamo
stati attaccati anche dalla Cina, quando avevamo diffuso del materiale che criticava certe attività del Governo di Pechino. Siamo stati attaccati anche da culti, sette che commettono abusi, come la Chiesa di Scientology, i mormoni…”.
Questi suoi nemici la inducono a temere per la sua vita?
“Qualcuno, come Daniel Ellsberg, l’uomo che nel 1971 svelò i documenti del Pentagono sulla guerra del Vietnam, sostiene che la mia vita è in pericolo”.
E lei che cosa pensa?
“Credo che un rischio ci sia, piccolo ma non insignificante. C’è un rischio serio che venga processato e arrestato. Stanno cercando di montare un caso di spionaggio contro di me e altri membri dell’organizzazione”.
La sua decisione di pubblicare i nomi degli informatori afgani, quando ha reso pubblici i documenti
sull’Afghanistan, ha sollevato un polverone… Pensa di aver commesso un errore?
“Pubblicando 76.000 documenti riservati sui 90.000 di cui siamo in possesso, ci sono molte cose di cui parlare. Quei documenti hanno rivelato ora, data, luogo e circostanze della morte di circa 20.000 persone. Punto e basta. Nei due mesi trascorsi da quando è stato pubblicato quel materiale, per quanto ne sappiamo nessun civile afgano è stato danneggiato dalla pubblicazione dei documenti”.
Alan Rusbridger, il direttore del Guardian, dice che i media tradizionali hanno abbandonato il giornalismo di inchiesta perché costa molto ed è poco sexy. È d’accordo?
“Sì, lo hanno abbandonato quasi completamente, questo è sicuro. Il prezzo che paghi è caro: ti crea dei nemici, ti obbliga a sostenere dei costi per prevenire attacchi giudiziari. Io credo che ci sia domanda di giornalismo d’inchiesta da parte dei lettori, ma il costo a parola in rapporto ad altre forme di giornalismo è alto, specialmente per il giornalismo sovvenzionato da interessi particolari”.
Le cose cambieranno? La rivoluzione digitale e iniziative come WikiLeaks produrranno giornalismo indipendente?
“Possiamo andare nelle due direzioni. Forse arriveremo a un sistema con un maggior controllo giudiziario e accordi internazionali per reprimere la libertà di stampa, o forse andremo verso un nuovo standard in cui la gente si aspetta e pretende un’informazione più aggressiva rispetto al potere; e un contesto commerciale che renda redditizie inchieste di questo genere; e un contesto legale che le protegga”.
È ottimista a questo proposito?
“Siamo a un bivio fra questi due scenari futuri. Per questo è così importante e così interessante far parte di questo progetto. Con le nostre azioni di oggi stiamo determinando il destino del contesto mediatico internazionale dei prossimi anni”.
(Copyright El Paìs – La Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)
http://www.repubblica.it/esteri/2010/10/27/news/intervista_assange-8469701/?ref=HREC1-2
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AMAZZONIA FERITA
Il Perù dei piccoli sfida i giganti del petrolio 28.10.2010
La lettura della sentenza è stata sospesa. Lo sciopero della Giustizia peruviana ha bloccato di nuovo la fine del processo nei confronti di padre Mario Bartolini, 71 anni, e altre tre persone. Il destino giudiziario del missionario italiano – da 35 anni nell’Amazzonia peruviana, a fianco di indios e contadini – è ancora incerto. La decisione del magistrato Julio Cesar Aquino Medina – del tribunale dell’Alto Amazonas – potrebbe slittare «di altri 15 giorni o un mese», spiega all’<+corsivo>Avvenire<+tondo> l’avvocato di padre Mario, Constante Diaz. «Ciò che realmente ci preoccupa è la possibile strumentalizzazione politica del processo. Pare che la procura sia molto interessata ad una sanzione». Diaz ricorda che un mese fa un altro religioso (inglese) ha rischiato l’espulsione. Il problema, sostiene, è più ampio: «Temiamo che dietro ci sia la volontà di castigare la Chiesa amazzonica, per la sua difesa delle comunità native».
La procura peruviana – che accusa Bartolini di un presunto delitto di istigazione alla rivolta – chiede per lui 11 anni di carcere (che comunque verrebbero annullati, visto che il religioso ha oltre 70 anni). Ma chiede anche l’espulsione. L’avvocato non crede si arriverà a tanto: «Al massimo penso che potrebbero condannarlo, per presunti danni, a un anno di arresti domiciliari. L’espulsione sarebbe uno scandalo». Ma di cosa è accusato precisamente il missionario italiano degli indios? «Dopo la tragedia di Bagua, alcuni cercarono un capro espiatorio. E lo trovarono in Bartolini. Il gruppo parlamentare dell’Apra presentò una denuncia, in riferimento ad un’omelia del religioso. Le sue parole sono state strumentalizzate».
L’accusa è paradossale, afferma il legale: «Padre Mario durante lo sciopero indigeno del 2009 restò per un mese a fianco dei nativi, ma non per istigarli. Al contrario, ebbe un ruolo di intermediatore con le autorità, è stato sempre un interlocutore delle comunità e della polizia. Ha fatto di tutto per evitare gli scontri». Il parroco di Barranquita lo ha sempre detto: accetterà con tranquillità ogni tipo di sentenza. «È sereno – assicura l’avvocato – è voluto ritornare alla sua Barranquita. Ha la coscienza a posto».
In appoggio a padre Bartolini, martedì sono scesi in piazza centinaia di indios: le comunità native dell’Alto Amazonas e Datem del Maranon hanno marciato fino alla sede del Potere Guidiziario di Yurimaguas per chiedere l’assoluzione del parroco.
Il passionista, che da oltre tre decenni accompagna i gruppi indigeni e rurali di questa povera regione peruviana, è una voce scomoda per molti: nel 2006 si schierò con gli indios contro l’uso di alcuni territori da parte di una compagnia dedicata alla produzione del biodiesel.
AMAZZONIA FERITA
Questa volta lo scenario è un fiume, non la foresta. Ma il problema di fondo non cambia. Almeno 5.000 indigeni amazzonici delle etnie shawi, achuar e awajun bloccano – da lunedì – il fiume Marañón, nella regione di Loreto. La zona non è lontana dai territori che furono al centro degli scontri del giugno 2009, ai quali è collegato il processo per presunta istigazione alla rivolta contro il missionario passionista italiano Mario Bartolini: la sentenza è stata rinviata.
Gli indigeni questa settimana hanno deciso di paralizzare l’unica via di comunicazione della zona – il Marañón – utilizzando piccole imbarcazioni e corde che impediscono il passaggio delle lance «che trasportano i prodotti di prima necessità e portano i cittadini in altri luoghi», spiega Dennis Pashanase, portavoce degli indios in rivolta. Protestano contro la compagnia petrolifera argentina Pluspetrol: la accusano di averli ingannati, di aver promesso – in cambio dello sfruttamento degli idrocarburi dell’area – benefici che non sono mai arrivati. L’accusano anche di un recente incidente, in cui 300 barili di petrolio sono finiti nelle acque del fiume, inquinando la loro fonte di vita. «Si erano impegnati a darci dei benefici, ad appoggiarci in settori come l’educazione e la sanità. Invece, alla fine, erano solo parole. E questo ha creato l’indignazione della popolazione» denuncia Pashanase. La Pluspetrol rigetta le accuse. Nella zona sono arrivate alcune navi della Marina peruviana: nonostante le pressioni, gli indigeni non vogliono abbandonare la protesta. Come accadde a Yurimaguas nel 2009, anche questa volta gli indios manifestano contro il congelamento virtuale di una legge che obbligherebbe lo Stato a consultare i nativi quando una decisione politica ed economica riguarda i loro territori.
È solo l’ennesimo conflitto che accende l’Amazzonia peruviana: uno dei territori più ricchi al mondo in biodiversità, ma anche un immenso bacino di risorse minerali, gas e oro nero. È qui che si gioca una dolorosa partita, che vede due Perù contrapposti: il Perù che reclama investimenti internazionali, accordi commerciali ed esportazioni (che teoricamente dovrebbero portare ricchezza per tutti), e il Perù che chiede di rispettare la natura, la casa degli avi, i boschi, i corsi d’acqua, i diritti ancestrali degli indios che vivono da sempre in queste terre. Il braccio di ferro fra due visioni di crescita distinte – praticamente opposte – va avanti da anni, ormai. Miniere, compagnie petrolifere, gasdotti: le polemiche si moltiplicano. I contrasti riguardano zone immensamente preziose dal punto di vista ambientale, che i nativi, le Ong, diverse organizzazioni internazionali e osservatori indipendenti vorrebbero proteggere da trivelle e inquinamento. Ma il governo di Alan Garcia è sostenitore di una ricetta differente: le esportazioni e gli investimenti di capitali stranieri dovrebbero portare vantaggi a tutti i peruviani.
La vicenda del Marañón ricorda le proteste dello scorso anno, alle quali è legata la storia di padre Bartolini. Nell’aprile del 2009 gli indigeni dell’Amazonas iniziarono uno sciopero pacifico contro alcuni decreti legge collegati al Trattato di libero commercio fra il Paese sudamericano e gli Usa. Le norme – secondo le comunità native – avrebbero violato i diritti territoriali degli abitanti della zona e avrebbero potuto limitare il loro accesso al bene più prezioso: l’acqua. Gli indios reclamavano anche in quell’occasione il dovere dello Stato ad interpellarli. Il timore principale era una sorta di “privatizzazione” occulta di milioni di ettari di foresta amazzonica, sotto forma di concessioni. La Chiesa – attraverso la voce dei nove vescovi delle regioni amazzoniche – invocò il dialogo: «Negli interventi che riguardano le risorse naturali non devono predominare interessi di gruppo che trascinano irrazionalmente fonti di vita, danneggiando nazioni intere e la propria umanità». Per il governo, questi decreti avrebbero solo garantito sviluppo economico per tutto il Perù, anche per l’Amazzonia.
Dopo diverse settimane di sciopero – con importanti vie di comunicazione completamente paralizzate – a Bagua intervenne in forze la polizia. La tensione degenerò in un bagno di sangue. Morirono 23 poliziotti e 10 indios. Padre Bartolini è stato accusato successivamente di avere istigato le proteste nella zona, in particolare a causa di un’omelia (pronunciata durante una messa per le vittime di Bagua) in cui dichiarò: «Dobbiamo chiamare assassini coloro che uccidono per denaro». Il missionario di Roccafluvione negli anni Ottanta fu minacciato dal Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru, ma non abbandonò mai Barranquita. La sua gente, ora, prega perché non venga espulso dal Perù.
Michela Coricelli
http://www.avvenire.it/Mondo/peru+piccoli+sfida+giganti_201010280814345630000.htm
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di Grazia Zuffa
FUORILUOGO
La battaglia per la marijuana libera in California 27.10.2010
A pochi giorni dal voto in California (il 2 novembre), i sondaggi danno un testa a testa fra favorevoli e contrari alla legalizzazione della cannabis, con questi ultimi in recupero nelle ultime settimane. Se approvata, la Prop19 consentirebbe ai cittadini californiani maggiori di 21 anni la coltivazione e il possesso personale fino a un’oncia di marijuana, mentre le città e le contee potrebbero autorizzare la coltivazione e il commercio legali. Il dibattito si sta facendo rovente anche perché a fianco degli oppositori è sceso in campo il governo federale. Per primo, il Procuratore Generale Federale Eric H. Holder jr dichiara che il Dipartimento di Giustizia Federale perseguirà con rigore la coltivazione e la vendita di marijuana, anche in caso di approvazione del referendum. Una minaccia grave, perché Obama ha sempre detto di voler rispettare i pronunciamenti popolari. Poi, è la volta dello zar antidroga, Gil Kerlikowske, la settimana scorsa impegnato in un giro elettorale in California. Visitando un servizio per le dipendenze, lo zar ha predetto un aumento dei consumi, con conseguente aumento delle dipendenze da marijuana, in caso di vittoria della Prop 19.
Il danno della marijuana è uno degli argomenti favoriti dei proibizionisti, che hanno impostato una campagna terroristica alla Refeer Madness degli anni trenta. Ma la salute pubblica è anche uno degli argomenti pro legalizzazione: se la Prop 19 passasse, milioni di Americani potrebbero usare una cannabis di sicura composizione. Proprio la sicurezza della sostanza sul mercato legale permetterebbe entro breve tempo di sgonfiare il mercato nero, come a suo tempo è accaduto dopo la fine della proibizione dell’alcol. Un studio condotto dalla Rand Corporation, appena uscito, calcola in 2 miliardi di dollari le perdite di profitto dei trafficanti di droga messicani in caso di legalizzazione. La Law Enforcement against Prohibition, un’associazione che riunisce più di 35.000 agenti di polizia e operatori della giustizia denuncia il silenzio degli oppositori circa il fallimento della proibizione. «I cittadini vogliono che la polizia li protegga, non che gli agenti perdano tempo dietro reati insignificanti di marijuana», scrivono J.MacManara e S. Downing, due ex capi della polizia (Usa Today, 20 ott.)
Stephen Gutwillig, della Drug Policy Alliance (la più importante organizzazione che si batte per la riforma della politica della droga), risponde punto su punto allo zar antidroga: «La verità è che oggi la marijuana è meno cara, più potente e facilmente disponibile ai giovani di qualsiasi età. La metà di tutti gli arresti per droga è per reati minori di marijuana ma questo non influisce di una virgola né sulla domanda né sull’economia illegale». Quanto al rischio di dipendenza, «la marijuana è molto meno additiva dell’alcol e delle sigarette» – aggiunge Gutwillig – senza contare che «la maggioranza dei consumatori di cannabis è in trattamento semplicemente perché presi dalla polizia, il 57% secondo i dati federali».
Il danno della proibizione si misura anche sulla discriminazione razziale. Secondo uno studio diffuso pochi giorni fa da ricercatori del Queens College, City University of New York, dal 2006 al 2008 nelle 25 principali città della California gli arresti di Afro Americani per possesso di marijuana hanno superato di molte volte quelli dei bianchi. Ad esempio, a Los Angeles, i neri arrestati per detenzione di canapa sono sette volte il tasso dei bianchi; a San Diego, sei volte.
Comunque vada a finire, la California ha già deciso di ammorbidire la proibizione della cannabis. Agli inizi di ottobre, il governatore Arnold Schwarzenegger ha firmato una legge che riduce il possesso di marijuana fino a 28.5 grammi a semplice infrazione, punibile con una multa di 100 dollari, senza alcun procedimento giudiziario né problemi di fedina penale. La legge entrerà in vigore il 1 gennaio 2011. «In questi tempi di drastici tagli alle spese della giustizia e della polizia, non possiamo permetterci di spendere le limitate risorse che abbiamo perseguendo gli illeciti per marijuana», ha dichiarato il governatore. Ma non è questo uno degli argomenti forti dei sostenitori di Proposition 19?
(Sondaggi e commenti sul referendum su www.fuoriluogo.it)
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20101027/pagina/10/pezzo/289923/
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La ritirata strategica di Obama 22.10.2010
Giorgio Bignami commenta la situazione USA alla vigilia del referendum californiano per la tassazione della marijuana.
Non può meravigliare più di un tanto il pesante avvertimento dell’amministrazione Obama ai californiani: non azzardatevi a votare a favore della legalizzazione della cannabis; e se approverete la proposta, fermamente mi impegno a dispiegare tutte le forze federali per far rispettare la legge nazionale proibizionista. Cioè al di là di una tolleranza degli usi medici della cannabis in California e in alcuni altri stati, il comandante supremo traccia un limite invalicabile, con tanto di appoggio del suo ministro della giustizia che anche lui sprizza fulmini e tuoni.
Non ci si può meravigliare di questa uscita poichè dai tempi dei discorsi progressisti prima delle presidenziali, la marcia di Obama è stata tutta una penosa “ritirata strategica”, nel tentativo di arginare la frana nelle imminenti elezioni di fronte al clamoroso successo della campagna denigratoria della destra più retriva. (Ancora un passettino, e molti americani si convinceranno che il loro presidente e i suoi complici mangiano bambini come i rossi di una volta). Le prime dichiarazioni di Obama e del suo Drug Czar per un cambio nella politica della droga sono così state ben presto smentite dai successivi bilanci nei quali aumentava, anzichè diminuire, la percentuale di fondi destinati alle attività di repressione, rispetto ai fondi per la prevenzione, l’informazione, l’educazione, la riduzione del danno. (Non parliamo in questa sede né della valanga di dollari regalata agli speculatori, né della castrazione della riforma sanitaria e di quella della finanza, né delle analisi di esperti non sospetti, i quali trovano nella storia dell’avvocato Obama chiare tracce di una robusta vocazione di “conservatore illuminato”, difensore a parole dei diritti dei deboli e alleato nei fatti con i poteri forti).
Nel campo della politica delle droghe non occorre la sfera di cristallo per prevedere una serie di conseguenze negative del giro di valzer di Obama. La prima riguarda la scena internazionale, dove non pochi paesi che si considerano più “progrediti” del nostro vedranno confermate le loro normative fortemente proibizioniste (la Svezia, la Francia); dove altri paesi, meno proibizionisti, vedranno incoraggiate le spinte sempre più forti a pentirsi a favore di politiche più dure (l’Olanda, il Regno Unito); dove altri ancora, come la Russia – nella quale non si parla neanche di metadone né di scambio di siringhe, dove la quasi totalità degli utilizzatori per via iniettiva è sieropositiva o già ammalata di AIDS – vedranno consacrata dal partner statunitense la “bontà” della loro politica. Non parliamo poi di paesi come il Messico, dove si sperava che una legalizzazione della cannabis potesse contribuire a calmierare l’orrenda macelleria provocata dal narcotraffico; o come l’Italia, dove non solo vedremo rafforzata la linea dell’attuale governo, ma anche sfumare quel tenue residuo di vocazione antiproibizionista che ancora vivacchiava in quel che resta della sinistra (e del resto il governo di centrosinistra, tra il primo e il secondo regno Berlusconi, non ha neanche tentato di modificare la normativa liberticida e assassina sulle droghe).
La riaffermazione dell’indirizzo proibizionista americano porta anche parecchia acqua al mulino di quell’organo ad hoc delle Nazioni Unite (l’UNODC) la cui vocazione proibizionista è tra l’altro spesso in contrasto, su argomenti vitali (riduzione del danno, lotta all’HIV/AIDS, e altro) con quella di altri organi delle stesse NU, come l’OMS. Il nuovo direttore russo Fedotov, la cui nomina ha suscitato un universale sgomento, è già partito in quarta con le cortine fumogene dei discorsi illuminati (educazione, prevenzione, e tutto il resto del bla-bla-bla); ma a meno di una sua vocazione suicida attraverso lo scontro frontale con i boss di Mosca e di Washington, non si vede come possa cambiare la politica sinora seguita. Infine una notazione sulla situazione interna degli Stati Uniti. Da oltre due secoli, anche a parte i fatti più noti – l’epico braccio di ferro tra i sostenitori di un governo centrale forte (i federalisti come Alexander Hamilton) e i paladini delle autonomie locali con un governo centrale debole (come Thomas Jefferson); il sanguinoso strappo della guerra di secessione (ancora oggi per gli americani The War senza aggettivi) -, tutta la storia dell’Unione è stata segnata da ripetuti conflitti tra le comunità locali e i singoli stati, da un lato, e il potere federale, dall’altro: conflitti che hanno spesso richiesto molto tempo, molta fatica, molti soldi per giungere a una ricucitura. E ora, se un po’ più o un po’ meno del 50% dei californiani vota per la legalizzazione della cannabis, e se in caso di approvazione il presidente manda l’FBI e l’esercito, come una volta in Alabama per più nobili motivi, cosa potrà accadere?
La California non è una delle proverbiali formiche di Gino & Michele: ha una quarantina di milioni di cittadini già discretamente incazzati (per esempio, poichè hanno solo due senatori a Washington, come il Wyoming con mezzo milione di abitanti e altri sei stati sotto il milione); e se si incazzano ancora di più per l’intervento minacciato da Obama – un intervento che tra l’altro impedirebbe sia l’instaurazione di un controllo di qualità su di un prodotto già consumato in enormi quantità, sia un risanamento delle finanze statali attraverso una tassazione della cannabis come quella del tabacco e deglii alcolici – le conseguenze paiono imprevedibili.
http://www.fuoriluogo.it/sito/home/9885
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Il tribunale delle donne per i Balcani 26.10.2010
Il 14 settembre a Sarajevo si sono date appuntamento più di 60 donne per parlare di giustizia. Una giustizia diversa, che non misura la soddisfazione delle vittime in anni di condanna, pene e sentenze.
Il percorso che ha portato al primo dibattito pubblico per l’istituzione del tribunale delle donne per i Balcani è cominciato nel 2000. Iniziatrici sette organizzazioni di donne che hanno fatto della resistenza al militarismo e del riconoscimento dell’altra, una pratica politica quotidiana: Donne in nero (Žene u crnom) Serbia, Centro per gli studi delle donne (Centar za ženske studije) di Zagabria, Centro per gli studi delle donne (Centar za ženske studije) di Belgrado, Centro per le donne vittime di guerra (Centar za žene žrtve rata) di Zagabria, Rete delle donne del Kosovo (Rrjeti i Grupeve të Grave të Kosovës) Kosovo, Anima Kotor del Montenegro e Donne per le donne (Žene ženama) della Bosnia e Herzegovina.
Il tribunale delle donne è un’iniziativa che appartiene al discorso del dissenso, un modello di giustizia riparatoria/restaurativa, che si contrappone alla giustizia dei tribunali tradizionali. Questo tribunale trova le sue radici in una forma di resistenza che, dopo le violenze della guerra intende offrire spazi di dignità, ascolto e riconoscimento della perdita.
Un tribunale che concentra la propria attenzione sulle vittime, e su i/le sopravvisute. Un tribunale fatto da donne e uomini autorevoli che vuole tessere e ricucire memoria ma anche restituire emozioni e relazioni. Dal 1993 quando per la prima volta è stato proposto, ci sono state 35 tribunali delle donne che hanno offerto una prassi di giustizia diversa e alternativa, che hanno parlato di guerre ma anche di povertà, traffiking. Violenze diverse, scaricate tutte, sui corpi delle donne e non solo.
A Sarajevo, insieme a Corinne Kuman, fondatrice del tribunale per le donne c’erano Sylvia Marcos (Messico), Yvette Abrahams, (Sud Africa), Eman Khamma (iraq), Vichuta Ly (Cambogia) e Ethel Long Scott (US). Donne che hanno alle spalle esperienze di conflitti, esclusioni, margini. Donne che hanno dato per prima cosa a sè e quindi alle vittime, voce e volti di persone reali, facendole uscire dall’anonimato e dalla massa informe in cui la vastità del crimine o la fama dei carnefici le aveva ricacciate.
A Sarajevo, in una fredda mattina autunnale, all’ultimo piano dell’hotel Saraj gli scenari possibili del tribunale prendono forma. E’ la riflessione, ma anche la pratica politica e la visione poetica di Corinne. Che rivendica la libertà e la sacralità di parole fragili come quelle che appartengono al mondo delle emozioni per ribadire il diritto trasversale dei sud del mondo ad una gustizia riparatoria.
Una giustizia che non risponde alle categorie giurisprudenziali dei diritti umani occidentali spacciati per universali. Consumati e sviliti dall’impotenza e inazione delle Nazioni Unite. E’ la resistenza atipica delle vittime che non si accontentano di giudici e tribunali internazionali pagati per fornire giustizie circoscritte e con il contagocce. Che fingono di non vedere quanto i crimini del Ruanda, della Bosnia Erzegovina somiglino a quelli perpretati dagli Stati Uniti in Vietnam, Afganistan, Iraq…
Il tribunale delle donne proposto da Corinne è la ricostruzione della memoria e della storia per una restituzione, riparazione di quanto calpestato. E’ la capacità di Yvette di rivivere l’apartheid e di rielaborarlo con i figli e le figlie dei perpetratori per liberarli dalla colpa. Diversa ed eguale al senso di colpa contro il quale combatte Vichuta, sopravvissuta alla follia Kmera in Cambogia. Una giustizia che viene dai margini, dalle donne sfruttate ed escluse dell’india cosi come dai resistenti del messico zapatista e comunitario di Sylvia; e che ritorna all’Iraq, di Eman, per ricordare come le guerre per la democrazia uccidano più della tirannide dichiarata.
Una nuova e dunque diversa, più umana giustizia per i balcani di Staša, delle donne in nero, che vede come la trappola del paternalismo socialista si sia reinventata nel capitalismo, proponendo indifferenza contro solidarietà, terrore globale contro terrori locali. O la ricostruzione, nelle parole di Biljana, del centro di studi delle donne di Zagabria, di rete emozionali, di spazi sicuri dove ritrovare la propria umanità e liberarsi dell’alienazione del pensiero occidentale che riduce tutto a leggi, norme, regole, standard.
Per 4 ore 60 donne immaginano una giustizia che non usi le parole consumate della democrazia e della cooperazione allo sviluppo. Rivendicano il diritto ad un immaginario che dia voce alle comunità dimenticate, che riveli la trama delle cose e non si faccia abbagliare dai riflettori puntati sul singolo mostro. Il tribunale delle donne per i Balcani è tutto qui, in questa corrente di energia che fonda la propria resistenza sulla disobbedienza e la riconciliazione.
Valentina Pellizzer inviata di Unimondo
http://www.unimondo.org/Notizie/Il-tribunale-delle-donne-per-i-Balcani
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Panama: Ripristinati i diritti dei lavoratori 23.10.2010
C’è voluto del tempo ma alla fine il governo panamense ha fatto un passo indietro, e anche se il presidente dello stato centroamericano Ricardi Martinelli ha dichiarato che “ non ci sono stati nè vincitori né vinti” un vincitore forse c’è: il popolo di Panama. A oltre tre mesi dalle numerose manifestazioni di protesta e dallo sciopero generale che ha bloccato Panama il 13 luglio scorso finalmente, i panamensi che chiedevano il ritiro della Legge 30 hanno potuto tirare un sospiro di sollievo.
La famigerata legge – che tra le altre cose limitava fortemente il diritto di sciopero dei lavoratori – è stata abrogata lo scorso 10 ottobre dopo giorni di negoziazione del cosiddetto Tavolo di Dialogo tra il governo e membri della società civile, sindacati, ambientalisti, difensori dei diritti umani. Al suo posto sono state presentate 6 proposte di legge.
Dopo aver ricevuto i documenti dal Tavolo del Dialogo che ha analizzato la Legge 30 del giugno 2010, il Consiglio di Gabinetto in una riunione straordinaria ha approvato i sei progetti di legge che cancellano la precedente legge. Risulta quindi che 19 articoli rimangono invariati, 19 modificati e uno abrogato.
Il presidente Ricardo Martinelli ha affermato che “ il risultato del dialogo dimostra che tutte le volte che mettiamo gli interessi del popolo prima degli interessi personali e politici possiamo realizzare qualunque accordo di cui possa beneficiare il paese”. Dichiarazioni forse inopportune dato che le proteste sono costate la vita a un numero ancora imprecisato di persone e molte soffrono ancora le conseguenze di una brutale repressione.
E’ comunque un risultato importante: numerosi rappresentanti dei movimenti sindacali, degli ambientalisti e difensori dei diritti umani sono d’accordo nell’affermare che anche se non si è ottenuto il 100% delle richieste avanzate, gli accordi costituiscono un trionfo per il movimento popolare e onorano la memoria dei morti durante la repressione delle forze dell’ordine di Bocas del Toro.
Le rivendicazioni del popolo nelle strade, la capacità di negoziazione e discussione dei rappresentanti popolari, le posizioni ferme e convinte, la solidarietà internazionale ricevuta da diverse parti del mondo, sono stati i fattori determinanti per ottenere un risultato nel cosiddetto Tavolo di Dialogo sulla legge 30, che gli attivisti impegnati nelle denunce e nel rifiuto della legge considerano un trionfo del popololo.
Secondo Genaro Lopes dirigente sindacale del Sindacato Unico Nazionale dei Lavoratori nelle Costruzioni SUNTRACS “le lezioni imparate sono molte. Il movimento sociale si è mantenuto attivo, generando azioni di mobilitazione e presentando argomentazioni inconfutabili sulle ricadute negative del progetto. La solidarietà internazionale – continua Lopes – è stata un altro punto chiave, centinaia di lettere di condanna della violenza e violazione dei diritti umani inviate al governo, la carovana di solidarietà dal Messico fino a Panama, le manifestazioni davanti alle ambasciate del paese centroamericano in vari paesi del mondo”.
Anche se rimangono altri aspetti da risolvere e importanti obiettivi da raggiungere, “si è riusciti a frenare le politiche del Governo Martinelli, dirette a indebolire e liquidare le organizzazioni sindacali e privarle dei diritti dei lavoratori come il diritto allo sciopero, alla contrattazione collettiva e poter disporre in maniera autonoma delle proprie risorse finanziarie ottenute con la quota di iscrizione al sindacato” si legge nell’editoriale della Voz del SUNTRACS (in.pdf).
Anche se i risultati del Tavolo di Dialogo sono a tratti contraddittori, la soddisfazione dei panamensi è per essere riusciti a eliminare almeno i punti più controversi della legge anche se c’è ancora molto lavoro da fare. I risultati più importanti sono sicuramente il ristabilito diritto di sciopero per i lavoratori, il diritto di poter disporre delle quote sindacali e il ripristino degli studi di impatto ambientale.
Si mantiene però la legge Carcaelazo, che criminalizza le proteste della società civile, “attualmente 149 persone che hanno partecipato alle manifestazioni hanno un procedimento penale in corso – denunciano dall’Unidad de Lucha Integral del Pueblo – e il governo non ha accettato la proposta di incarcerare preventivamente le forze dell’ordine in flagranza di abuso di autorità”, uno degli obiettivi della lotta del popolo delle proteste. Il dirigente Francisco Paz della Confederazione Nazionale dell’Unità Sindacale Indipendente CONUSI, ha dichiarato che “uno degli aspetti centrali era la legge sulla polizia, che dava praticamente alla polizia la licenza di uccidere durante manifestazioni di protesta, senza avere nessuna conseguenza, questo era considerato da molti come un attentato ai diritti umani”.
Solo due giorni prima dell’approvazione dei 6 progetti di legge in sostituzione della legge 30, si era tenuta un’ultima manifestazione, una specie di avvertimento: se la legge non fosse stata abrogata la gente era pronta a nuove mobilitazioni e a un nuovo sciopero generale. Ora il paese centroamericano può stare tranquillo, ma è fondamentale non abbassare la guardia, sindacati e società civile sono pronti a vigilare che gli accordi vengano mantenuti e continueranno a chiedere giustizia per i compagni: “noi lavoratori continueremo a difendere le nostre conquiste e i nostri diritti a qualsiasi prezzo, e non ci fermeremo finché i nostri compagni di Bocas del Toro non avranno giustizia”.
Elvira Corona (inviata Unimondo)
http://www.unimondo.org/Notizie/Panama-Ripristinati-i-diritti-dei-lavoratori
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Scorie nucleari, l’Europa proporrà lo stoccaggio sotterraneo 27.10.2010
Il prossimo 3 novembre la Commissione europea attraverso il commissario UE per l’energia Günther Oettinger ha intenzione di promuovere lo stoccaggio sotterraneo per le scorie nucleari. Ritiene la Commissione che sia la soluzione più sicura. La proposta non è stata ufficialmente data, ma è una notizia trapelata e ha già creato malumori e non solo tra gli ambientalisti. Ogni Stato membro rimane responsabile per la sua politica sulla gestione dei rifiuti radioattivi, ha detto la Commissione, ma la nuova direttiva li obbliga a creare un programma nazionale per l’attuazione di smaltimento, nonché autorità nazionali per la regolamentazione.
In Europa non sono ancora state prese decisioni risolutive in merito allo stoccaggio delle scorie nucleari. Il punto è che oramai la questione diventata urgente e secondo l’esecutivo Ue a pressare sulla decisione pesano costi elevati, mancanza di finanziamenti e minacce terroristiche.
La proposta, sostiene che interrare in strati geologici profondi è “l’opzione più sicura e sostenibile” per la gestione finale delle scorie ad alto livello. La soluzione sembra avere riscontro e consenso scientifico a livello mondiale. In Europa è la Svezia ad avere al momento i piani più avanzati per seppellire i rifiuti nucleari in contenitori rivestiti di rame a una profondità di circa 500 metri. A preparare depositi sotterranei anche Francia e Finlandia.
I Verdi al Parlamento europeo accusato Oettinger di consultazione insufficiente e condannato la mancanza di punti di vista della società civile nella proposta.
La tedesca Rebecca Harms dei Verdi MEP sostiene che la procedura utilizzata per arrivare alla legge non è stata corretta. Ma sopratutto che non si tiene conto del vero problema:
Non c’è una vera percezione del problema delle scorie nucleari. Non sappiamo neanche quanti rifiuti nucleari siano stoccati presso gli Stati Membri.La Commissione farà la sua proposta di direttiva nonostante il fatto che questa tecnica – smaltimento geologico in profondità – sia attualmente oggetto di numerosi dibattiti nella comunità scientifica.
La direttiva, dunque, dovrebbe considerare invece che gli Satti membri riservino quote consistenti per lo smaltimento delle scorie nucleri tenendo conto della responsabilità dei produttori di rifiuti radioattivi. I Verdi sostengono che i costi dovrebbero essere calcolati da parte di un organismo indipendente. In Francia i costi di smaltimento per le scorie radioattive prodotte da EDF sono raddoppiati in pochi anni.
Un commento succulento di un mio omonimo:
GIUSTO PER DIRE ….la CHEMIOTERAPIA non ha nulla a che fare con la RADIOTERAPIA .
non confondiamo pere con carciofi .
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DOPODICHE’ …..gli ecotonti non sanno un sacco di cose …..come per esempio il fatto che la maggior parte delle ceneri di ACCIAIERIE e CENTRALI A CARBONE sono radioattivi .
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IL MATERIALE RADIOATTIVO derivante dalle centrali nucleari …e’ risibile …rispetto a quello normalmente prodotto in un paese industrializzato.
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‘Tempi precari’, a Torino i giovani tra arte, vita e lavoro 27.10.2010
Comincia venerdì 29 novembre 2010 a Torino, Tempi Precari, opere d’arte in spazi non comuni. L’idea è quella di una rassegna diffusa sul territorio, che individua e trasforma luoghi pubblici in spazi espositivi. La precarietà della vita lavorativa investe gran parte della popolazione giovanile italiana e si riflette nell’ambito della sfera sociale e privata.
Se per la generazione nata nel dopoguerra e negli anni sessanta, l’obiettivo era migliorare la propria condizione di vita rispetto a quella delle generazioni precedenti, oggi molti ragazzi metterebbero la firma per avere anche solo metà delle opportunità di lavoro che hanno avuto i loro padri e le loro madri.
Tempi precari, a cura di Francesco Poli ed Elisa Lenhard nell’ambito di Torino 2010 Capitale Europea dei Giovani, presenta il lavoro di circa 40 artisti e comincia con tre sedi espositive alquanto significative. Il Centro per l’impiego di via Bologna 153, gli Assessorati alla Cultura del Comune di Torino, della Regione Piemonte e la sede di Finpiemonte.
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Indice di Percezione della Corruzione
Transparency International (TI) ha pubblicato il rapporto 2010 sulla “percezione della corruzione nelle pubbliche amministrazioni” di tutto il mondo.
Se abbiamo ben capito l’IPC viene calcolato analizzando le notizie dei media sui fatti di corruzione.
Quest’anno l’Italia perde punti, piazzandosi al 67.mo posto della classifica (178 i Paesi esaminati).
E’ il peggior dato registrato dal 1997 ad oggi, siamo davanti alla Georgia ma dietro al Ruanda, alla Croazia, alla Macedonia, al Ghana e alle isole Samoa.
Gli Stati Uniti scendono al 22.mo posto, per la prima volta non sono nei primi 20, mentre primeggiano Danimarca, Nuova Zelanda, Singapore, Finlandia e Svezia.
(Fonte: Ansa)
Fonte imm
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Reddito minimo europeo, al via il progetto pilota di Francesca Balzani 25.10.2010
Sarà inserito nel bilancio 2011 il progetto pilota presentato da Francesca Balzani per dare il via al “reddito minimo europeo”, una garanzia di solidarietà sovranazionale quale diritto di cittadinanza europea.
Il progetto ha lo scopo di “rafforzare una strategia dell’Unione europea di inclusione attiva volta a garantire che ciascun individuo disponga delle risorse necessarie per condurre una vita compatibile con la dignità umana in tutti i paesi dell’Unione”.
Il reddito minimo, infatti, è un importante strumento di inclusione sociale che manca solo in Italia, in Grecia e in Ungheria.
In particolare, il progetto finanzierà “la creazione di una rete intesa a favorire lo scambio di buone prassi tra Stati membri, amministrazioni locali e territoriali, sindacati e associazioni sui programmi di reddito minimo nazionale. Le informazioni raccolte e scambiate dovrebbero altresì facilitare l’elaborazione di uno studio su possibili misure comuni per un reddito minimo”.
Attraverso questo progetto nasce così una linea di bilancio sperimentale per il reddito comune europeo partendo proprio dalle esperienze di quei Paesi che già hanno questo strumento.
“Varare il ‘reddito minimo europeo’ significa gettare le basi di una solidarietà sociale di livello europeo che può contribuire allo sviluppo del senso di cittadinanza europeo” commenta Francesca Balzani.
“Sono veramente soddisfatta perchè, come ho sempre ripetuto anche nel corso della mia campagna elettorale, l’Europa deve dare finalmente seguito a quella importante raccomandazione che invita tutti gli Stati a riconoscere il diritto di ogni persona a risorse e prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana”.
Francesca Balzani
Membro della Commissione Bilancio
Relatore Ombra al Bilancio 2010 e 2011 per l’Alleanza Progressista
dei Democratici e dei Socialisti al Parlamento Europeo.
http://www.francescabalzani.it/symcms2/web/symcms/showpag/index/page_id/apri-news/news_id/262
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finanza, tassa, Ttf di Andrea Baranes
La tassa sulla finanza arriva in parlamento 27.10.2010
Mentre la finanza ha ripreso il suo gioco globale, fa molti passi avanti la proposta di tassare le transazioni finanziarie. Ma il governo italiano non se ne accorge
A tre anni dallo scoppio della peggiore crisi finanziaria della storia recente, a due dal fallimento di Lehman Brothers e dopo il moltiplicarsi di vertici internazionali, dal G20 in poi, cosa è stato fatto per riformare il sistema finanziario?
Nel 2006 il 30% delle operazioni sui mercati finanziari erano eseguite da algoritmi di computer senza alcun intervento umano. Nel 2009 queste operazioni, che si concludono spesso nell’arco di pochi millesimi di secondo e che non hanno alcun rapporto con l’economia reale, erano aumentate al 60% del totale.
L’import-export di beni e servizi nel mondo è stimato intorno ai 15.000 miliardi di dollari l’anno. Il mercato delle valute ha superato i 4.000 miliardi al giorno. In altre parole circolano più soldi in quattro giorni sui mercati finanziari che in un anno nell’economia reale, come dire che oltre il 90% degli scambi valutari è pura speculazione. Lo stesso mercato delle valute era pari a 3.300 miliardi di dollari nel 2007. Una crescita di oltre il 20% dallo scoppio della crisi a oggi.
Con una finanza ripartita come se nulla fosse successo, dovremo attendere lo scoppio di un’altra bolla speculativa per sperare finalmente in qualche intervento serio di regolamentazione? E se dovesse arrivare una nuova crisi, quale governo sarà in grado, in una situazione di grande difficoltà tanto per i conti pubblici quanto per l’economia, di stanziare ulteriori risorse per tappare le falle?
E’ necessario e urgente approvare delle misure concrete. Una di queste è la tassa sulle transazioni finanziarie – Ttf – un’imposta estremamente ridotta – pari allo 0,05% – su ogni acquisto di strumenti finanziari. Il tasso minimo non scoraggerebbe i “normali” investimenti sui mercati, mentre frenerebbe chi opera con orizzonti di secondi o millesimi di secondo e che dovrebbe pagare la tassa per ogni transazione. Il peso della tassa diventa progressivamente più alto tanto più gli obiettivi sono di breve periodo.
In altre parole la Ttf rappresenta uno strumento di straordinaria efficacia per frenare la speculazione senza impattare l’economia reale e per ridare alla sfera politica una possibilità di regolamentazione e controllo su quella finanziaria. La dimensione della finanza è tale per cui anche un’imposta dello 0,05% permetterebbe di generare un gettito di centinaia di miliardi di dollari l’anno su scala internazionale, da destinare al welfare, alla cooperazione allo sviluppo, alla lotta ai cambiamenti climatici.
Al di là del gettito, gli effetti della Ttf sarebbero estremamente positivi per l’insieme dell’economia. Chi esporta vedrebbe ridotto il rischio di speculazioni sulle valute; la quotazione del petrolio e delle materie prime sarebbe più stabile e prevedibile; diminuirebbero le possibilità di attacchi speculativi sui titoli di Stato. Il recente esempio della Grecia ha purtroppo chiarito le possibili conseguenze tanto economiche quanto sociali di tali attacchi. L’Italia, anche in ragione delle dimensioni del debito pubblico, non può certo dirsi al riparo da eventuali analoghe manovre.
Se l’Inghilterra della City di Londra, cuore pulsante della finanza mondiale e delle sue potentissime lobby si oppone alla Ttf, non a caso le nazioni che in Europa ne chiedono con maggiore forza l’introduzione sono Francia e Germania, Paesi dove l’economia si basa ancora sui settori industriali. Si potrebbe affermare che i cosiddetti “poteri forti” si sono resi conto che la finanza ha superato qualunque limite. Se la grande industria ha beneficiato per decenni di un sistema economico e finanziario deregolamentato, oggi i consumi ristagnano, è più difficile ottenere credito in banca, gli stessi titoli azionari e obbligazionari delle principali imprese sono in balia delle tempeste speculative. In queste condizioni anche due governi conservatori hanno sottoscritto una proposta che le reti della società civile internazionale sostengono da tempo.
E’ allora davvero difficile spiegarsi le reticenze del governo italiano, un paese in cui le piccole e medie imprese costituiscono l’ossatura del sistema economico e che beneficerebbe anche più dei vicini europei dall’introduzione di una Ttf.
La campagna zerozerocinque, che vede la partecipazione di oltre trenta organizzazioni e reti della società civile italiana lavora da tempo in questa direzione. La Cisl è tra i promotori della campagna. La Cgil ha recentemente firmato un appello internazionale che chiede la sua introduzione al G20 di Seoul che si terrà nei prossimi giorni. Economisti di diversa estrazione e orientamento hanno pubblicato un appello per l’introduzione della tassa. Negli scorsi giorni un disegno di legge per una Ttf con primo firmatario un deputato del Pd e co-presentato da parlamentari di quasi tutti i gruppi politici di maggioranza e di opposizione è stato depositato in parlamento. Lo stesso Pd sembra essersi attivato, seguendo l’esempio dei socialisti europei.
Su un tema per certi versi analogo, nei giorni scorsi il presidente della camera Fini ha proposto la tassazione delle rendite finanziarie al 24-25%, in linea con la media europea. Una proposta lanciata da diversi anni dalla rete Sbilanciamoci!. Finalmente il dibattito sulla necessità di limitare lo strapotere della finanza sembra decollare, seppure con molto ritardo, anche nel nostro èaese. Si tratta di segnali incoraggianti ma ancora insufficienti.
Se l’Italia si unisse a Francia, Germania, Spagna, Belgio, e alle altre nazioni dell’area euro che si sono già schierate a favore della Ttf, si potrebbe raggiungere una massa critica sufficiente per una veloce implementazione. Oltre ai vantaggi già richiamati, si tratterebbe di un segnale di grande forza nella direzione di una sua applicazione in altre nazioni, e progressivamente su scala internazionale.
La finanza è nata come strumento al servizio dell’economia. Oggi questo rapporto è totalmente ribaltato, la finanza detta la sua legge e condiziona pesantemente le attività economiche. La Ttf andrebbe nella direzione di una necessaria inversione di rotta. Gli speculatori e gli squali della finanza devono pagare il conto della crisi, non i cittadini e i lavoratori. Non ci sono difficoltà tecniche per una sua implementazione, è solo questione di volontà politica. Se non ora, quando?
Un commento succoso di Davide:
assurdità demagogiche 27.10.2010
A parte che io sono scettico sulla bontà di tasse che riducono la liquidità dei mercati, come farebbe questa tobin tax. Ma a parte questo: questa tassa chi la applicherebbe? L’Italia soltanto? Se un hedge fund vuole speculare sulla lira, sui titoli di stato o su azioni italiane lo può tranquillamente fare su circuiti fuori dai confini nazionali. Lo sapete questo? Chiedetevi come mai la maggior parte delle società di riassicurazione e gli hedge fund hanno sede nei paradisi fiscali. Introdurre tasse sulle transazioni finanziarie o come si sente dire altrove sulle rendite finanziarie non fa altro che spostare le contrattazioni altrove. L’unico risultato è che in Italia ci saranno meno posti di lavoro nel settore finanziario. E gli speculatori continuano imperturbati come sempre. Le vostre sono le classiche assurdità demagogiche che i politici di sinistra usano per riempire la bocca quando non sanno cosa fare.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-tassa-sulla-finanza-arriva-in-parlamento-6725
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ambiente, cibo, crisi di Luca Colombo
La (ri)volta del cibo 23.10.2010
Concentrazione, accaparramento, speculazione. Le cause che erano alla base della crisi alimentare del 2007 sono tuttora presenti. E non possono essere risolte con una modernizzazione forzata
La crisi alimentare del 2007-2008 ha rimesso cibo e agricoltura al centro della scena. La fiammata dei prezzi che la caratterizzò è stata analizzata come evento congiunturale determinato da una concomitanza di fattori, sul cui contributo specifico persistono opinioni e analisi fortemente divergenti. Per quanto tra le sue cause siano state individuate anche flessioni produttive in alcune regioni cerealicole e i crescenti consumi in India e Cina, la destabilizzazione del sistema agroalimentare non è dovuta a un peggioramento (tanto meno repentino) dei suoi fondamentali produttivi o a un improvviso impennarsi della domanda di cibo. Anche il recente palesarsi del calo produttivo russo originato dall’ondata di calore e siccità della scorsa estate non può da solo spiegare la rapida ascesa dei prezzi dei cereali e dell’insieme dei generi alimentari che si registra negli ultimi tre mesi. E non è un caso che il Comitato Sicurezza Alimentare delle Nazioni Unite, i cui lavori si sono recentemente conclusi a Roma, abbia dedicato una particolare attenzione al tema della volatilità dei prezzi e alla vulnerabilità che determinano, tanto da metterli in stretta correlazione con la creazione o il rafforzamento di reti di protezione sociale.
È evidente che i tumulti che hanno caratterizzato la crisi alimentare del 2007-’08, e che si sono riprodotti in Mozambico all’inizio dello scorso settembre causando 13 morti, impongono al sistema di governance globale di tornare a farsi carico del problema agricolo e alimentare e di individuare nuovi assetti che contrastino le previsioni di prezzi elevati per i generi alimentari nel prossimo decennio (vedi quelle Fao-Ocse) e di contemporanea compressione dei redditi dei produttori agricoli.
Le distorsioni della filiera, caratterizzata da una crescente concentrazione, il dirottamento della risorsa alimentare verso tuttora crescenti utilizzi energetici e verso una ipertrofica zootecnia industriale, così come i fenomeni speculativi che agiscono a livello finanziario e tramite l’accaparramento di derrate nei periodi di scalata dei listini, contribuiscono a dare un carattere strutturale alla fragilità del sistema agroalimentare. Che le cause che hanno caratterizzato la crisi alimentare di tre anni fa siano tutte ancora in essere, lo ha anche segnalato Olivier De Schutter, il Relatore Speciale dell’Onu per il diritto al cibo, esortando i decisori politici a intervenire su questi fattori a salvaguardia della sicurezza alimentare e degli stessi assetti sociali e politici.
A testimonianza che i fenomeni speculativi siano numerosi ed eterogenei per attori e modalità, di questa destabilizzazione prolungata ne stanno approfittando coloro che ritengono, interessatamente, di dover rilanciare il paradigma produttivista nelle campagne (in primis quelle del sud del mondo) seguendo lo schema della Rivoluzione Verde. L’offerta –mercantile- di sementi di varietà migliorate, non escluse quelle transgeniche, di pesticidi e fertilizzanti assume così un carattere umanitario per garantire messi crescenti a un’umanità sempre afflitta da problemi demografici. Vetrina per questa retorica è l’Africa, la cui immagine funziona sempre bene quando si parla di fame, ora oggetto di una grande offensiva volta a realizzare una seconda Rivoluzione Verde per la quale si è costituita un’alleanza composta da grandi fondazioni filantropiche, industria e personalità quali Kofi Annan.
L’assunto è che se nel 2050 saremo più di 9 miliardi avremo bisogno di molto più cibo che solo una modernizzazione complessiva dell’apparato produttivo può garantire. Vittime predestinate di questo approccio sono i produttori di cibo, per definizione pre-moderni, e il contributo che il lavoro e il presidio sul territorio rurale offrono, rimpiazzati da tecnologie, capitali ed energia fossile oramai disponibili solo a condizione di mercato, dopo che l’estensione a tutto il pianeta dei programmi di aggiustamento strutturale ha spazzato via i piani di ricerca pubblica, di assistenza tecnica e di intervento delle autorità pubbliche a sostegno dell’attività primaria. Ma se capitali e tecnologie sono sempre più elitari e il petrolio sarà sempre più scarso e costoso l’accesso al cibo sarà sempre più aleatorio.
L’interconnessione delle molteplici crisi che emergono in questi anni –ambientale, climatica, economica, sociale, occupazionale, oltre che alimentare- rendono piuttosto evidente come una produzione di piccola scala, diffusa, inclusiva, ecologica presenti soluzioni e ammortizzatori per molte di tali tensioni. Un miliardo e trecento milioni di produttori di cibo non possono più essere visti come bacino di manodopera di sostituzione per l’industria (tra l’altro ormai impossibile da assorbire) o retaggio di un passato, ma come la componente chiave di un rilancio dell’attività agropastorale capace di leggere e curare il caos climatico, di gestire e valorizzare le risorse naturali, di alimentare i mercati interni accorciando e ricontestualizzando anche culturalmente le dinamiche di consumo alimentare.
* sintesi di un articolo comparso su “Rivista di diritto alimentare”, n. 2-2010, in www.rivistadirittoalimentare.it.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/La-ri-volta-del-cibo-6698
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Grandi imprese/14 di Vincenzo Comito
Ligresti campione d’Italia 22.10.2010
Il gruppo che fa capo all’imprenditore di Paternò riassume il modello italiano di business nella sua forma più pura: scarsi rischi e alti utili, profitti privati e perdite pubbliche. Dagli esordi immobiliari alla profonda crisi attuale – ignorata dalla Consob dormiente – i numeri di una storia tutta italiana
Premessa
Una delle basi fondamentali della costruzione della finanza moderna, costruzione che ha valso, negli ultimi decenni, a molti degli studiosi che vi hanno contribuito il premio Nobel per l’economia, è quella che correla il rendimento di un investimento al suo livello di rischio: più alto il rischio, più alto deve essere il rendimento, più ridotto il rischio, più ridotto il profitto relativo.
Ma questa massima, evidentemente, è largamente ignorata nel nostro bizzarro paese, dove le grandi fortune si fanno spesso prendendosi rischi bassissimi. Così il modo più semplice e contemporaneamente tra i più redditizi per fare impresa in Italia è di solito quello di avviare un business nel settore delle costruzioni, in particolare sviluppando delle attività immobiliari. Basta essere abili nelle relazioni, essere disposti a trasgredire le regole e collegarsi a qualche politico di peso, coinvolgendo quest’ultimo ed eventualmente il suo partito/corrente/gruppo affaristico, in qualche modo “finanziariamente”, negli specifici progetti da portare avanti. E il gioco è fatto. Si può dire che sulle modalità appena indicate si basa un meccanismo di “accumulazione primitiva” fondamentale dei capitali in Italia.
Se poi qualche cosa in itinere va male, si può ricorrere anche a qualche banchiere di fiducia, che comunque, a suo tempo, colpito dalle loro capacità “imprenditoriali”, avrà già accompagnato i nostri eroi, con ampie linee di credito, nei loro vari progetti.
Il modo più elementare, dal punto di vista operativo, per fare poi dei soldi nel settore è quello, ampiamente noto, di comprare dei terreni agricoli, farseli trasformare in aree edificabili e far poi arrivare i geometri con i camion e le gru. Una ricetta quasi infallibile. Ma le possibili varianti del gioco dei soldi possono essere molte.
Pensiamo che Salvatore Ligresti, forse in questo momento il campione più rappresentativo del settore immobiliare del nostro paese, abbia sperimentato quasi tutte tali varianti nel corso della sua lunga vita. E’ anche giusto che le attuali gravi difficoltà del nostro modello di sviluppo trovino puntuale simmetria nei rilevanti problemi attuali dell’imprenditore siciliano.
La storia
Originario di Paternò, in Sicilia, Ligresti si trasferisce a Milano sul finire degli anni cinquanta. Sulla sua carriera finanziaria aleggeranno a lungo, come del resto su quella di Berlusconi, dei sospetti di legami con la mafia, mai provati anche dopo alcune indagini della magistratura. Nella città lombarda si fa strada con abilità; ad un certo punto stringe i legami con Bettino Craxi, grazie anche al quale negli anni ottanta avviene l’esplosione dei suoi affari, quando, da una parte, diventa il protagonista della grande crescita edilizia della città, mentre, dall’altra, riesce a mettere le mani in maniera avventurosa, dopo anche delle aspre vicende giudiziarie, sulla società di assicurazioni Sai, già di proprietà del gruppo Fiat. Egli stringe presto i suoi legami anche con Enrico Cuccia, mentre è da sempre molto vicino alla famiglia Larussa, anch’essa di Paternò.
Nel 1986 scoppia a Milano lo scandalo delle aree d’oro: Ligresti viene indagato per corruzione, ma alla fine se la cava con delle piccole condanne. Negli anni novanta lo attendono altri e più seri guai giudiziari: coinvolto, tra l’altro, in tangentopoli, l’imprenditore viene condannato a due anni e quattro mesi e va in galera; ma dopo poco tempo, viene scarcerato e affidato ai servizi sociali. Seguiranno altre condanne minori.
Il suo impero imprenditoriale ne soffre molto e una crisi finanziaria lo spinge a cedere una buona parte delle sue attività. Ma poi, nei primi anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, Mediobanca gli da una mano per farlo uscire dai guai. Si tratta peraltro della seconda volta –la prima era stata nel 1989 quando, per liberarlo da qualche problema finanziario, la banca era riuscita a far quotare in borsa la Premafin, la sua capogruppo, a prezzi astronomici. Sempre la banca d’affari milanese arriverà al soccorso una terza volta ancora nel 2010.
E’ del 2002 l’acquisizione di Fondiaria, sempre con l’aiuto determinante di Mediobanca. E’ del 2004, poi, l’ingresso nel patto di sindacato di Rcs. Intanto Ligresti si è alleato con Berlusconi e partecipa quindi da protagonista delle grandi operazioni immobiliari del periodo successivo. Ma egli non manca di fare affari anche in città rette dal centro-sinistra, come Firenze e Torino. Nel 2008, su sollecitazione di Berlusconi, parteciperà all’ operazione Alitalia, insieme ad una serie di imprenditori titolari di business fortemente legati alla politica. Nello stesso 2008 viene indagato dalla procura di Firenze per episodi di corruzione legati ai progetti edilizi della città e nel 2010 viene rinviato a giudizio.
La struttura societaria attuale
Per arrivare a Premafin, il centro nodale della attività del gruppo, bisogna passare attraverso l’intermediazione di molte società. Così i tre figli di Salvatore Ligresti si servono di strutture di diritto lussemburghese, la Hike, la Canoe e la Limbo, attraverso le quali controllano complessivamente circa il 31% del capitale della finanziaria –le percentuali relative ai possessi azionari delle varie società, in questo come nei casi successivamente citati, vanno considerate come approssimative, dal momento che le varie fonti spesso danno delle cifre differenti. Le azioni possedute dalle tre società sono però depositate presso una fiduciaria, la Compagnia Fiduciaria Nazionale. Salvatore Ligresti, invece, attraverso un’altra lussemburghese, la Starlife, controlla totalmente Sinergia, che a sua volta possiede il 60% della Imco; Sinergia e Imco detengono complessivamente circa il 20% della Premafin. Salvatore Ligresti e i suoi figli sono poi legati da un ferreo patto di sindacato e, nella sostanza, comanda soltanto il padre, ormai vicino agli ottanta anni di età.
Ai tre figli, che occupano cariche di presidente, vicepresidente, consigliere, nella varie società del gruppo, vengono riconosciuti rilevanti stipendi e bonus, che ad esempio nel 2008 hanno oscillato tra i 4,6 e i 5,0 milioni di euro per ciascuno; in questo modo, essi estraggono ogni anno rilevanti somme dalle società operative, che, almeno in parte, impiegano poi per rinforzare le basi patrimoniali e finanziarie delle società comprese nella parte alta della piramide. Che i proprietari di un’impresa ottengano dei bonus legati ai risultati annuali appare singolare e una delle tante caratteristiche per così dire “pittoresche” del nostro paese.
L’intero pacchetto del 51% della Premafin in possesso delle varie società della famiglia sarebbe peraltro da molto tempo in pegno alle banche a fronte dei crediti concessi dalle stesse (Pons, 2010).
La Premafin, a sua volta, controlla circa il 47,7% del capitale della Fonsai –un altro 11% è nella mani della stessa Fonsai e della Milano Assicurazioni-, la principale struttura operativa del gruppo, che è anche la seconda entità assicurativa del paese, nata dalla fusione tra Fondiaria e Sai. Con circa 12 miliardi di premi raccolti nel 2009, essa possiede poi partecipazioni, di controllo e non, in molte società di tipo assicurativo, immobiliare, finanziario e vario.
Un’altra società controllata da Premafin, l’Immobiliare Lombarda, partecipa poi al controllo della più grande impresa di costruzioni italiana, la Impregilo; il gruppo Ligresti, il gruppo Benetton e il gruppo Gavio possiedono in effetti insieme, a partire dal 2005, attraverso la Igli –di cui ognuno dei tre soci detiene il 33,3% delle azioni-, il 29,9% del capitale della stessa Impregilo. Il controllo del gruppo è stato a suo tempo rilevato dai tre soci dalla Gemina in difficoltà, grazie, come al solito, anche agli auspici di Mediobanca. Tra gli altri soci di Impregilo si segnalano anche le Generali, con il 3,25% del capitale.
La Premafin detiene inoltre il 5,5% del capitale della Rizzoli- Corriere della Sera, il 5% della Pirelli, il 4,2% di Gemina, il 3,9% di Mediobanca, l’1% di Assicurazioni Generali, lo 0,4% di Montepaschi, lo 0,3% infine di Unicredit. Così la finanziaria costituisce un nodo importante del sistema di equilibri di potere economici e politici del nostro paese, partecipando tra l’altro a numerosi patti di sindacato sulle stesse società sopra indicate. Qui risiede una fonte molto importante, anche se non la sola, del potere di Salvatore Ligresti e della sua sicura ancora di salvezza in caso di difficoltà.
In un tale quadro di riferimento, ovviamente l’interesse di Ligresti per i processi di internazionalizzazione appare molto limitato. Le sue società di assicurazione hanno una proiezione estera che è, nella sostanza, minima e non sappiamo neanche di rilevanti iniziative immobiliari del gruppo in una direzione che non sia nazionale. Importante è invece la dimensione internazionale delle attività di Impregilo, ma essa è preesistente all’ingresso di Ligresti e degli altri attuali soci nella compagine azionaria della società.
Le difficoltà in essere e il loro precario superamento
Nel 2010 Ligresti deve far fronte a quella che appare forse la più grave crisi della sua carriera. La Fonsai, complice la crisi, registra in bilancio 390 milioni di euro di perdite nel 2009 e circa altri 157 nel primo semestre del 2010, dopo aver ottenuto un utile di 620 milioni nel 2007 e di soli 91 milioni invece nel 2008 –la crisi aveva già cominciato a mordere.
Rileviamo, parallelamente, che la società presenta da sempre una struttura finanziaria più consona agli interessi di controllo di Ligresti che a quelli degli investitori (Penati, 2010). Tra l’altro, vi si registra un’incidenza degli investimenti immobiliari – quelli in particolare che Ligresti ha interesse a scaricare sul suo bilancio- sul totale degli impieghi che è molto più alta delle consuetudini del settore. La Fonsai è inoltre obbligata a tenere in bilancio titoli azionari pari al 7% del capitale della controllante Premafin, più altre partecipazioni improprie, mentre essa stessa appare largamente sottocapitalizzata. Intanto la Milano assicurazioni perdeva 140 milioni nel 2009 e 195 nel primo semestre 2010. Parallelamente la Premafin ha presentato un deficit economico di 413 milioni nel 2009 e di un po’ più di 175 nel primo semestre di quest’anno.
Hanno pesato sui risultati delle strutture citate sia il cattivo andamento del comparto assicurativo che di quello immobiliare.
Se la Consob obbligasse Ligresti ad adeguare il valore di carico in Premafin della partecipazione in Fonsai a quello di mercato il colpo sarebbe molto duro, perché significherebbe una minusvalenza di 562 milioni in capo alla controllante. Ma la Consob, organismo che si è dimostrato nel tempo del tutto inutile, si guarda bene dal muovere un dito.
Intanto l’immobiliare Sinergia, che presenta in bilancio un debito intorno ai 300 milioni di euro, non ha pagato le rate che scadevano a giugno 2010 su una linea di credito di 108 milioni concessa da Unicredit e su di una di 30 milioni concessa da GE Interbanca.
Per far fronte a queste ed altre difficoltà Ligresti ha mosso delle pedine su più fronti. Intanto ha sostanzialmente fatto prelevare denaro dalle casse della Fonsai pur in difficoltà per dare ossigeno alle società di famiglia, in particolare alla Imco e alla Sinergia, con buona pace ancora una volta della Consob e degli azionisti di minoranza della stessa Fonsai. In dettaglio, la società assicurativa, mentre è spinta per suo conto a vendere molti immobili per fare cassa e per superare le sue difficoltà interne, viene obbligata ad acquistare società, palazzi e terreni dal suo azionista, tra i quali in particolare l’intero capitale di Immobiliare Lombarda, una catena alberghiera, la Ata hotels, nonché quote dei fondi di investimenti inventati da Ligresti per collocarvi degli altri suoi immobili. Così Ligresti ha venduto con una mano e comprato con l’altra (Oddo, 2010). Inoltre, sempre la Fonsai è obbligata a distribuire un dividendo anche dopo un bilancio così disastroso come quello sopra indicato.
Più in generale, sono arrivati in soccorso dell’amico in difficoltà Unicredit, Mediobanca, Generali, Intesa San Paolo, Mps, Interbanca e compagnia bella.
Così il riassetto finanziario di Sinergia si è fatto da una parte con la cessione alla fondazione MPS di Eurocity sviluppo edilizio per 110 milioni di euro, mentre dall’altra Unicredit ha accettato di ristrutturare il suo credito da 108 milioni di euro in scadenza a giugno 2010.
Un’altra partita difficile è anche avviata alla soluzione. Fonsai possiede attualmente, attraverso la Milano Assicurazioni, il 27,2 % di Citylife, la società titolare del megaprogetto di riqualificazione immobiliare sui terreni dell’ex fiera di Milano; con i suoi 2,4 miliardi di euro di valore esso appare uno dei maggiori progetti nel settore in Europa. Gli altri azionisti di Citylife sono le Generali con il 41,3% e Allianz con il 31,5%. La prima mossa significativa delle Generali sotto la presidenza di Geronzi è stata quella di fornire un paracadute finanziario al gruppo Ligresti (Riva, 2010); l’imprenditore siciliano non appariva in grado di partecipare alla presa in carico della quota del 20% posseduta precedentemente dalla famiglia Lamaro, così acquisite interamente dagli altri due soci; ma soprattutto Ligresti ha potuto accordarsi con Generali su di un’opzione di vendita della sua quota, opzione con scadenza nel settembre 2011.
Sempre Ligresti si è poi attivato per portare avanti, con la complicità dei comuni interessati, diversi progetti minori in Lombardia e si è messo a vendere anche una parte rilevante del suo patrimonio immobiliare, tra cui anche la torre Velasca a Milano.
Nel lungo termine, bisogna considerare che potrebbero diventare molto redditizi i terreni che Ligresti possiede in un quartiere a ridosso dell’area dell’Expo 2015 e che il comune di Milano vorrebbe trasformare in un gigantesco centro direzionale.
Le difficoltà del gruppo, per quanto forse superabili con il tempo, sembra che abbiano comunque risvegliato l’interesse su Fonsai di V. Bollorè, il finanziere francese che è uno dei protagonisti delle vicende Mediobanca-Generali; egli, per il momento, ha acquistato una partecipazione ridotta nella società, ma viene sospettato di essere potenzialmente pronto ad acquisirne il pacchetto di controllo per conto di una società assicurativa francese, la Groupama. Su questo punto ci sarebbero comunque delle discussioni con Mediobanca, che preferirebbe invece una qualche soluzione meno drastica ai problemi strutturali dello stesso Ligresti, soluzione che appare peraltro complessa.
Alla fine, il quadro del gruppo non appare certamente in prospettiva come molto brillante, ma non è da escludere che la famiglia, grazie alle sue abilità imprenditoriali, nonché grazie al supporto di amici e parenti, riuscirà a galleggiare ancora a lungo sulle vicende economiche e politiche del nostro paese.
Testi citati nell’articolo
– Oddo G., Ligresti, i debiti e oltre 550 milioni di minusvalenze…, www.ilsole24ore.com, 29 giugno 2010
– Penati, Bisogna salvare il soldato Ligresti, www.repubblica.it, 29 maggio 2010
– Pons G., La bolla Premafin tiene a galla l’impero Ligresti, www.repubblica.it, 10 luglio 2010
– Riva M., Capitalismo da Medioevo, www.espresso.repubblica.it, 2 luglio 2010
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Ligresti-campione-d-Italia-6693
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Anticipazione
Economisti tra sogno e realtà 22.10.2010
Un’anticipazione dal libro “L’economia come scienza sociale e politica” (Aracne, 2010)
Il primo capitolo del volume “L’economia come scienza sociale e politica” che qui si presenta parte dall’idea che sogno degli economisti è quello di quello di individuare, spiegare, interpretare, diffondere “leggi economiche” naturali, immutabili e incontrollabili. Quindi sogno e pratica di molti economisti sono quelli di inventarsi e presentare leggi, comportamenti, relazioni oggettive e naturali attraverso i quali studiare e interpretare i fenomeni economici.
Il grosso problema per gli economisti è però, da sempre, che ciò che ci si aspetta da loro è una spiegazione di quanto avviene nella realtà economica, e anche la proposta di eventuali strumenti per modificare e migliorare una realtà considerata non soddisfacente o non giusta. La scienza economica, come tutte le scienze sociali, si interessa delle relazioni tra gli uomini, e gli uomini, si sa, sono un po’ imprevedibili e litigiosi, hanno comportamenti che non rientrano nei comodi schemi di razionalità ipotizzati dagli economisti: la realtà spesso va per proprio conto non rispettando la teoria economica. Insomma la realtà non rispetta le leggi.
Questo fenomeno porta a due conseguenze, di segno opposto, ma entrambe gravi. La prima è relativa a un crescente distacco dell’analisi teorica economica dalla realtà: il sistema economico di riferimento dell’analisi diventa cioè sempre più astratto, e le ipotesi semplificatrici diventano uno strumento che, invece di essere utilizzato per isolare da una situazione complessa i problemi più importanti, ha come fine a sé la possibilità di applicazione degli strumenti analitici, con un ribaltamento della relazione strumento-obiettivo.
Il secondo fenomeno è che, mentre tali livelli di sofisticazione rimangono ristretti al dibattito accademico, la società civile si trova ad affrontare problemi e domande sul funzionamento di una economia reale. Si è quindi sviluppata una tendenza, senza dubbio da parte dei mass media e molto spesso anche della classe politica, ad appropriarsi, divulgare e malauguratamente a tramutare in interventi di politica economica alcuni dei risultati provenienti da ricerche che si basavano sulla costruzione di sistemi economici e di individuazione di leggi comportamentali del tutto irrealistici. I risultati così “volgarizzati”, che spesso diventano luoghi comuni di massa e di mass media, sono strettamente dipendenti dalle ipotesi irrealistiche che stanno alla base del modello utilizzato per ottenerli. Siamo quindi in presenza di un fenomeno che, da una parte, vede una sempre maggiore astrattezza ed estraneità ai problemi reali da parte della letteratura economica accademica e, dall’altra, una volgarizzazione di queste teorie e leggi che, isolate dal proprio contesto, diventano inutili luoghi comuni o veri e propri errori.
La via alternativa non è facile: la cosa migliore dovrebbe essere, per gli economisti che non si riconoscono in questa tendenza, quella non tanto di parlarne, ma di praticarla; se un approccio alternativo è veramente efficace, avrà in sé la capacità di affermarsi. Purtroppo un meccanismo del tipo: “le idee buone automaticamente cacciano quelle cattive”, che, come è noto, non si adatta al mondo politico, non funziona neanche nel mondo accademico. La possibilità in astratto di discernere ciò che è buono da ciò che è cattivo è molto difficile, se non impossibile: spesso in economia, come in tutte le relazioni tra gli uomini, ciò che è bene per gli uni può essere male per gli altri, le verità oggettive sono ben poche.
Sta di fatto che i meccanismi di selezione delle idee seguono percorsi tortuosi, conflittuali e di potere ben diversi da un confronto ideale e aperto. Forse ciò è inevitabile, basta però ricordare che le idee che vincono e dominano in economia non rappresentano improbabili leggi oggettive e immutabili, ma solamente quelle che meglio rispecchiano i rapporti di forza istituzionali, politici e accademici, indipendentemente dalla loro capacità di comprendere la realtà dei fenomeni economici.
In questo capitolo del volume sono raccolti tre interventi, il primo relativo alla mia critica generale, vicina allo sfogo, della deriva che la teoria economica negli ultimi decenni ha preso; degli altri due, il primo descrive uno schema generale dal quale, a mio avviso, è possibile partire per portare di nuovo la teoria economica a interessarsi della interpretazione della realtà, ritornando a essere considerata una scienza sociale e politica e quindi con un ampio uso della multidisciplinarietà; il secondo scritto è relativo al rapporto chiave tra ecologia ed economia, rapporto a mio avviso in grado di essere affrontato proficuamente soltanto da una teoria economica che abbandoni quasi completamente le impostazioni teoriche mainstream.
da Paolo Palazzi, “L’economia come scienza sociale e politica”, Aracne, 2010
Capitolo 1 – Palazzi.pdf 1,02 MB
http://www.sbilanciamoci.info/Rubriche/Economisti-tra-sogno-e-realta-6692
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Processi industriali a zero emissioni? Ci vuole la nanochimica 27.10.2010
Il 4 ottobre del 2010 è una data da dimenticare per l’Ungheria: una marea di fanghi rossi tossici fuoriusciti da un bacino di decantazione di residuati della lavorazione della bauxite (il minerale dal quale si estrae l’alluminio) ha invaso prima un’area di 40 chilometri quadrati e successivamente ha raggiunto il Danubio, minacciando l’ecosistema fluviale. Un disastro ambientale provocato dal cedimento della chiusa di una vasca che contiene gli scarti della pulizia chimica della bauxite, la cui fuoriuscita ha causato l’inondazione di sette villaggi circostanti, la morte di nove persone e il ferimento di 150.
Come evitare in futuro tragedie ecologiche e umane come queste? Certamente aggiornando e migliorando i processi di produzione dell’alluminio o di qualsivoglia metallo, evitando enormi accumuli di residuati provenienti dai processi di lavorazione chimico-industriale. Il deposito sul Danubio conteneva 50 milioni di metri cubi di fanghi rossi.
“L’incidente che ha riversato nel bacino del fiume Marcal prima e del Danubio poi, almeno un milione di metri cubi di fanghi rossi”, spiega Mario Pagliaro dell’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati (Ismn) del Cnr di Palermo, autore del libro sulle nanotecnologie “NanoAge”, “è del tutto analogo a quello che nel 2000 accadde in Romania in una miniera d’oro, che sversò in un fiume al confine con l’Ungheria acque al cianuro”.
A inquinare territorio e acque, secondo il ricercatore, è stato il sottoprodotto della pulizia dell’allumina o bauxite volto a ottenere alluminio purissimo. Un risultato che richiede processi chimico-industriali complessi con il supporto di grandi quantità di energia ad altissimo voltaggio, che producono scarti di lavorazione, per l’appunto i fanghi rossi, contenenti metalli tossici diversi come il bario, il titanio e il cadmio, oltre al ferro. Veri e propri liquami ad alta tossicità che la maggior parte delle raffinerie – inclusa quella ungherese – fa decantare in grossi serbatoi per recuperare e riciclare la soda.
“Quello che occorre, allora, sono processi di produzione dell’alluminio che possano utilizzare allumina meno pura, cioè elettrodi selettivi. Per farlo”, prosegue il ricercatore dell’Ismn-Cnr, “dobbiamo usare la nanochimica per assemblare elettrodi metallici la cui nanostruttura consenta un funzionamento selettivo, convertendo in metallo l’ossido di alluminio e lasciando invariate le altre specie chimiche della materia prima”.
Anche al Cnr si sta lavorando nel campo delle nanotecnologie per il miglioramento dei processi industriali. “Con queste prospettive, è necessario incentivare lo sviluppo della nanochimica, ad esempio defiscalizzando le ricerche di processi a zero emissioni proprio come fa la Norvegia con la ricerca del petrolio”, conclude Pagliaro. “Ciò porterà allo sviluppo di processi produttivi puliti ad altissimo valore aggiunto che potranno essere condotti anche nei paesi europei e asiatici dove, a causa del basso costo del lavoro e dell’energia, vengono condotti processi obsoleti e spesso pericolosi per l’ambiente e per la salute”.
Rita Lena
Fonte: Mario Pagliaro , Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati, Palermo, tel. 091/6809370, email mario.pagliaro@cnr.it
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Recam sa come trattare le acque 27.10.2010
Le applicazioni delle nanotecnologie relative al trattamento delle acque sono di grande interesse, data l’estrema urgenza del problema. Nel mondo, infatti, 1,2 miliardi di persone non hanno accesso a fonti idriche sicure e 2,5 miliardi a servizi igienici di base.
In quest’ambito di intervento una nuova sostanza nano strutturata, cristallina e altamente reattiva, caratterizzata da piani grafenici che assumono una particolare struttura e conformazione, conferendo al materiale proprietà uniche in termini di proprietà energetiche e di capacità di rimozione dei contaminanti. Il Recam® (Reactive Carbon Material) è stato presentato nel corso della conferenza internazionale ‘NanotechItaly 2010′, svoltasi a Venezia e organizzata da Cnr, Airi/Nanotec IT e Veneto Nanotech dallo scopritore Ivano Aglietto.
“Il Recam, allo stato non disturbato”, spiega Aglietto, “si presenta in fiocchi con una struttura cellulare formata da foglie o cuscini cavi, costituiti a loro volta da cellette separate da sottili strati di carbonio granitico, molto flessibili e collassabili. Queste, delle dimensioni che vanno da poche decine a centinaia di micron cubici, sono diverse centinaia per ciascuna foglia e contribuiscono ad aumentare a dismisura la superficie specifica del prodotto formato da ‘cuscini’ cavi. La sua produzione avviene a partire da una miscela di materiali a base di carbonio grazie a un processo di tipo esotermico, fisico-chimico innovativo e rispettoso dell’ambiente. La produzione di Recam, inoltre, è ecofriendly perché non richiede l’apporto di alcuna forma di energia, l’utilizzo di acidi, solventi o sostanze chimiche aggressive e non vengono rilasciati gas tossici”.
Il suo uso costituisce un approccio innovativo nello scenario delle tecnologie di depurazione delle acque. “I processi di applicazione”, conclude Aglietto, “si distinguono dalle tecnologie convenzionali di trattamento per l’elevato potere di rimozione di una vasta gamma di contaminanti, i ridotti costi di investimento e gestione, l’assenza di produzione di fanghi e per la semplice realizzazione dell’impianto, facilmente modulabile in funzione delle portate di refluo da trattare e delle concentrazioni da raggiungere allo scarico”.
Il Recam, infine, è un materiale inerte, non infiammabile, idrofobo, completamente stabile, del tutto privo di composti tossici, solventi o metalli pesanti. Qualità che hanno fatto sì che la sua compatibilità ambientale fosse certificata da istituti di ricerca internazionali e dal ministero dell’Ambiente. L’industrializzazione è della Sa Envitech s.r.l.
Roberto Nicchi
Fonte: Ivano Aglietto , SA Envitech s.r.l., Cavenago di Brianza (MB), tel. 02/95338029, email ivano.aglietto@sa-envitech.com
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