La rassegna stampa di http://www.caffeeuropa.it/ del 23.04.2010
Le aperture
La Repubblica: “Berlusconi-Fini, guerra totale. Scontro durissimo alla direzione Pdl: il co-fondatore rilancia le accuse al presidente del consiglio. Votato il documento contro le correnti”. E poi: “Il premier: fai politica, lascia la Camera. La replica: mi cacci?”. L’editoriale, firmato dal direttore Ezio Mauro, è titolato: “Quella ferita al corpo mistico del sovrano”.
A centro pagina: “Il debito greco affonda l’euro e le Borse. Moody’s declassa Atene, lo spread sui titoli pubblici ai massimi da 12 anni. Nella Ue cresce la paura del ‘contagio’”.
La Stampa: “Rottura tra Berlusconi e Fini. Duro confronto alla direzione nazionale. Il presidente della Camera: criticare non è tradire. All’ex leader di An 12 voti. Il premier: se vuoi fare politica lascia la poltrona. La replica: che fai, mi cacci?”
Il Corriere della Sera: “Berlusconi a Fini: e ora dimettiti. Rottura in diretta. L’ex leader di An: Mi cacci? Io non lascio la Camera”. “Conflitto senza precedenti. Il Pdl approva un documento anti-correnti: il premier potrà espellere dal partito”. Editoriale di Pierluigi Battista dedicato a questo argomento: “La messa al bando del cofondatore”.
Il Foglio: “Fini provoca, il Cav replica: un po’ di rissa, un po’ di discussione politica. Scarso spazio alla mediazione, lungo dibattito umorale, divisione finale in minoranza e maggioranza su un odg”. “No alle correnti, sì al dissenso”.
Il Riformista: “A pesci in faccia. Lo scontro tra Berlusconi e Fini finisce in una rissa quasi fisica”. “Cose mai viste. Il ribelle: io dissento, da ggi nel Pdl c’è una minoranza. Il premier: se vuoi far politica devi dimetterti da presidente. ‘Che fai, mi cacci?’. ‘Vali il 6 per cento, allineati o sei fuori’”.
Secondo il quotidiano di Polito “il Cavaliere prepara la ‘soluzione finale’”. “Liste di epurati e voti di fiducia: così intende cacciare i ribelli”. A fondo pagina lo “scoop” dato ieri da Berlusconi nella sua replica: “Vendo Il Giornale, ci sarebbe già una cordata pro-direttore”. I “due vincitori” della assise di ieri sarebbero dunque Vittorio Feltri e Giulio Tremonti”.
Il Giornale: “Stroncato Fini. Vince Berlusconi. Resa dei conti nella direzione del Pdl. Gianfranco non sa cosa vuole, ma lo vuole: imbarazzante. Solo 11 con lui: ora si deve dimettere da Presidente della Camera”. Tra i richiami in prima pagina si promette anche “tutta la verità” sulla notizia del quotiano in vendita: si dà conto di un comunicato serale di Paolo Berlusconi che spiega che “sarà possibiile l’ingresso nella compagine azionaria di nuovi imprenditori che diano un fattivo contributo al raggiungimento degli obiettivi prefissati”. Scrive Feltri nell’editoriale che Fini è attaccato “lla cadrega”, che il suo intervento è “povero di contenuti politici e zeppo di risentimenti e malumori”, che “ormai la convivenza è compromess”, è stata “una battaglia inutile, dannosa, uno spreco di tempo. La gente è disgustata”. E chiude: “Tanto chiasso per niente. La montagna ha partorito un pidocchio”.
Libero: “Suicidio riuscito”, “Fini ko. Il Pdl vota quasi all’unanimità un documento contro il Presidente della Camera. Silvio gli chiede di dimettersi e sarebbe giusto. Ma lui non lo farà e promette nuovi guai. Nella vignetta un Berlusconi matador e un Fini nei panni di un toro: Gianfranco matato, finisce 159 a 12”.
L’Unità ha in prima una foto di Berlusconi durante lo scontro di ieri alla direzione Pdl: “In mutande”. “Fini attacca Berlusconi. Il premier replica infuriato. Finisce l’èra del partito di uno solo”. E poi: “Minoranza accerchiata. I finiani ‘ridotti’ al 6 %. Il loro capo: ‘Non lascio l apresidenza della Camera’. Bersani: ‘Patto democratico’”. Il quotidiano anticipa così l’intervista al segretari oPd: “una rissa mai vista, così la stabilità è a rischio”.
Il Sole 24 Ore: “Europa nel vortice Grecia. Moody’s taglia il rating, sale il deficit. Euro giù con le Borse”. A centro pagina il Presidente Usa e il suo intervento di ieri: “Obama striglia Wall Street”, “Ci saranno altri scossoni se non appoggiate la riforma della finanza”. Un richiamo in prima per il Pdl: “Rottura nel Pdl: tra Berlusconi e Fini scontro in diretta”. L’editoriale è firmato da Stefano Folli: “Dietro la rissa, la sfida difficile di due leader per due destre”. E in prima ancora un richiamo all’intervista nelle pagine interne all’ex Presidente Ciampi, che ammonisce: “La politica resti lontana dal credito”. Si tratta di una lunga intervista in cui l’ex Presidente sottolinea che la legge Amato-Carli è “il faro” rispetto al quale sulle banche non si deve tornare indietro.
Pdl
Maurizio Belpietro, direttore di Libero: “Mai avevamo assistito al suicidio politico di un leader e mai avevamo visto un capo dissipare, in poco tempo e con tale determinazione, un patrimonio di consensi. Gianfranco Fini invece lo ha fatto”. Cosa farà ora che è uscito dall’equivoco e cge Berlusconi ha dimostrato di avere la maggioranza schiacciante? Probabimente metterà i bastoni fra le ruote, snche se sarebbe meglio si dimettesse. Belpietro risponde anche alle parole pronunciate dal premier sugli attacchi di Libero a Fini, da cui ha ricordato di essersi dissociato, sottolineando anche che il quotidiano è di proprietà del gruppo Angelucci e che lo stesso Fini di Angelucci è amico: “la gestione è affidata ad una fondazione indipendente”, scrive Belpietro (“ho preteso la garanzia di rispondere non a Fini o a Berlusconi, ma solo ai lettori”).
Editoriale de Il Foglio: “Fine dell’eccezione”, “ora il Pdl è più normale, ma non sarà né a misura di Cav. Né a misura di Fini”, “Il primo lavacro democratico, piaccia o no, ieri c’è stato sul serio”, il Pdl “non potrà più essere soltanto il palcpscenico variopinto del monologo politico berlusconiano”, ma non sarà nenache “una combinazione di bipolarismo metodologico e politicismo da Prima Repubblica, non corrisponderà al desiderio finiano d’un quadro di sistema stabile nel quale manovrare la rendita elettorale come ai vecchi tempi”.
Per il direttore de La Repubblica Ezio Mauro quella di ieri è stata una “ferita al corpo mistico del sovrano”: il partito è sotto shock per questa ferita inferta in diretta, “il primo gesto di autonomia e di indipendenza del quindicennio”. Fini “ha deciso di rendersi autonomo, restando nel partito”, ma quel che Berlusconi “non può reggere è un’opposizione organizzata, pubblica e permanente”. Fini tenterà di restare nel Pdl parlando all aparte più moderata delle destra e del Paese, “ma inanto preparerà le sue truppe risicate, perché dovrà andarsene, più presto che tardi”. E Berlsuconi romperà non solo con Fini, ma “con tutto”, chiedendo “il giudizio di Dio nelle elezioni anticipate” e tentando di arrivare al quirinale “trasformando il populismo nella religione finale”, come dice esplicitamente il documento approvato ieri, dove si spiega che il Pdl non è un partito ma “un popolo”.
Su Il Giornale ci si occupa anche delle reazioni in casa Pd: “Il tifo dei democratici si spacca tra finiani e berlusconiani”, “D’Alema considera il leader di An ‘un interlocutore privilegiato’, gli uomini di Veltroni si schierano con Silvio”. Si fa riferimento all’intervento di ieri di Giorgio Tonini su Il Foglio di Ferrara, mentre Paolo Gentiloni dice: “mettere addosso a Fini l’etichetta di ‘terzista’ vuol dire solo fare un favore a chi, come Berlusconi, non vede l’ora di tagliargli la testa”.
Il Corriere della Sera interpella il costituzionalista Michele Ainis, che “frena” ed esclude che sia possibile sfiduciare alla Camera il Presidente.
Fiat
Tanto L’Unità che La Repubblica intervistano il segretario Cgil Epifani sul piano Marchionne per la Fiat. A L’Unità Epifani dice: “Accettiamo la sfida di Marchionne, ma il problema non è quello di lavorare un turno in più”. “La questione centrale non può essere solo la produttività”, dice ancora precisando “Niente ricatti, la Fiat ce la fa solo con i lavoratori”. La Repubblica riassume così il suo pensiero: “Pronti a più turni di lavoro, ma solo per difendere l’occupazione”, “Va fatta la trattativa, però Marchionne ritiri la minaccia di delocalizzare gli stabilimenti”. Cosa può fare il governo? “Almeno un piano di sostegno per l’innovazione e la ricerca sui motori a basso impatto ambientale”.
E poi
Su Libero: “Cade il governo in Belgio. Più vicina la secessione. Il premier Yves Leterme costretto alle dimissioni dopo l’uscita dalla maggioranza dei liberali fiamminghi in contrasto con i valloni”.
Anche su Il Foglio: “Le beghe tra fiamminghi e valloni e le manovre per la scissione del Belgio portano l’esecutivo alle dimissioni”.
Ancora su Il Foglio si occupa del Belgio e in particolare di Bruxelles, dove si trova “Il Bronx d’Europa”. Una capitale trasformata “in un’enorme banlieue”.
Il Sole 24 Ore ricorda che si tratta della terza crisi dal 2008 e che è esplosa a due mesi dalla presidenza belga della Ue.
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Ratzinger, la richiesta di dimissioni arriva dalla Spagna
Cecilia M. Calamani*, 22 aprile 2010
50 teologi spagnoli dell’Associazione “Teologi di Giovanni XXIII” hanno aderito all’appello del teologo svizzero Hans Kung chiedendo, contestualmente, le dimissioni del papa: “Crediamo che il pontificato di Benedetto XVI si sia esaurito. Il Papa non ha l’età né la mentalità per rispondere adeguatamente ai gravi e urgenti problemi che la Chiesa cattolica si trova a dover affrontare. Pensiamo quindi, con il dovuto rispetto per la sua persona, che debba presentare le dimissioni dalla sua carica”
Se in Italia le responsabilità di papa Ratzinger sullo scandalo pedofilia sono state sminuite e spesso occultate dalla stampa e da certa politica che beneficia a piane emani dell’appoggio della Chiesa, all’estero quest’aura di fiducia che protegge un papa ignaro e vittima non tiene, neanche all’interno dello stesso mondo ecclesiastico.
50 teologi spagnoli dell’Associazione “Teologi di Giovanni XXIII” hanno aderito all’appello del teologo svizzero Hans Kung chiedendo, contestualmente, le dimissioni del papa: “Crediamo che il pontificato di Benedetto XVI si sia esaurito. Il Papa non ha l’età né la mentalità per rispondere adeguatamente ai gravi e urgenti problemi che la Chiesa cattolica si trova a dover affrontare. Pensiamo quindi, con il dovuto rispetto per la sua persona, che debba presentare le dimissioni dalla sua carica”.
Se negli Stati democratici una richiesta di dimissioni del premier di turno non fa neanche più effetto, in una teocrazia come il Vaticano è un attentato al cuore di un sistema che vede nel papa l’erede designato al soglio di Pietro, la guida spirituale scelta da Dio, l’anima e la sostanza stessa della religione.
Due soli, pare, i precedenti nella storia della Chiesa: Bendetto IX (due abdicazioni, non ben documentate, nel 1045 e nel 1048) e Celestino V (1294). Storie di potere, parentele e fazioni; storie oscure e lontane dal mondo contemporaneo in cui Benedetto XVI si muove.
Tuttavia, le dimissioni di un papa sono previste dal Diritto canonico: “Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”.
Nel Bel Paese si urla al complotto contro la Chiesa, cercando di salvare l’utile alleato. Che colpa ha Bendetto XVI, in carica da soli cinque anni, della perpetrata copertura del crimine più orrendo di cui gli uomini si possano macchiare, l’abuso dell’infanzia? Il santo padre non sapeva, è addolorato, soffre accanto alle vittime, è lui stesso tradito nella sua missione!
Non è così. E se in Italia si fa finta di non saperlo, fuori dai confini che inglobano il Sacro Stato le responsabilità di Joseph Ratzinger nell’arco della sua carriera sono inconfutabili.
1980, Monaco di Baviera. Un prete sospettato di pedofilia viene trasferito in un’altra parrocchia della diocesi e il vicario generale informa per iscritto l’arcivescovo Ratzinger. Il prete continua a perpetrare i suoi crimini su altri minori tanto da essere condannato, nel 1986, dal Tribunale dell’Alta Baviera.
1981, Oakland. Un vescovo chiede alla Congregazione per la Dottrina della fede, guidata da Ratzinger, di ridurre allo stato laicale un prete pedofilo. Già riconosciuto colpevole dalla giustizia, è il prete stesso a chiedere di lasciare la tonaca. Ratzinger risponde quattro anni dopo, sconsigliando l’espulsione del prete e invitando il vescovo a tenere conto del “bene della Chiesa universale” e del danno (d’immagine) che potrebbe derivarne alla comunità parrocchiale.
1996, Milwaukee. Il vescovo chiede alla Congregazione per la Dottrina della fede, sempre guidata da Ratzinger, di aprire un processo canonico contro il prete pedofilo Murphy, che ha abusato di duecento minori sordomuti. Monsignor Bertone autorizza nel 1998 l’apertura del processo, che viene poi fermato per “dubbi sulla fattibilità e opportunità”.
Sorvolando sulla quantità di casi – di difficile enumerazione – coperti dal Vaticano a vari livelli, bastano solo questi a inchiodare Ratzinger a delle responsabilità indeclinabili. Lui c’era. Lui sapeva. Lui ha scelto.
Con quale attendibilità, ora, piange al fianco delle vittime degli abusi a Malta? Di questo si sono resi conto i teologi spagnoli che ne chiedono le dimissioni: Ratzinger non ha la credibilità per sanare quella ferita profonda e putrefatta che sta intaccando le fondamenta stesse della Chiesa. Non è lui, uno dei responsabili del silenzio che ha fatto sì che la piaga si infettasse, la figura che può operare il risanamento della Chiesa.
In ogni Paese civile – ad eccezione dell’Italia – un codice etico impone le dimissioni di un capo di governo che si macchi di colpe incompatibili con il suo ruolo. In uno Stato teocratico come il Vaticano – etico per eccellenza – ciò dovrebbe valere a maggior ragione. Ratzinger non ha solo tradito il suo mandato, ma la stessa religione che rappresenta, e con essa tutti i suoi fedeli.
Un paragone appare tristemente inevitabile. Lo scorso febbraio Margot Kaeßmann, la prima donna vescovo a capo della Chiesa protestante tedesca, si è dimessa dal suo ruolo perché guidava con un tasso alcolico in corpo superiore a quello consentito dalla legge.
Da una parte un bicchiere di troppo. Dall’altra, il tradimento dell’infanzia.
*Cronache laiche
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14698
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La newsletter http://www.movisol.org/ del 21.04.2010
Dalla crisi finanziaria alla terza guerra mondiale?
La storia è ricca di esempi di crisi economiche e finanziarie che conducono alla guerra e, nel XX secolo, a guerre mondiali. Oggi che la minaccia di insolvenze di stati sovrani segna la fine del sistema finanziario, un’escalation della guerra in Afghanistan, unita ad un probabile attacco militare contro l’Iran, minaccia di scatenare reazioni a catena che potrebbero far sprofondare il mondo in una nuova epoca buia.
Stando a fonti attendibili, i piani di una guerra contro l’Iran e l’offensiva di primavera-estate già lanciata in Afghanistan sono stati discussi al vertice del 12-13 aprile sulla sicurezza nucleare a Washington, con l’intento di allineare una adeguata “coalizione di forze” che li sostenga. Il pretesto invocato per tale operazione militare è lo sviluppo imminente di una bomba nucleare da parte dell’Iran, nello stesso modo in cui la propaganda britannica sulle “armi di distruzione di massa” di Saddam fu utilizzata per iniziare la guerra in Iraq. Come sappiamo, tali armi non furono mai trovate. E oggi lo US National Intelligence Estimate, un rapporto che tiene conto delle valutazioni di vari servizi segreti americani, rileva che all’Iran ci vorrebbero almeno dai 3 ai 5 anni per costruire una bomba nucleare.
Negli Stati Uniti stessi, le richieste a favore delle sanzioni contro l’Iran diventano sempre più forti. E il 14 aprile il gen. Petraeus ha annunciato una massiccia espansione delle operazioni militari nel Kandahar. Le truppe speciali, compresi la Delta Force dell’esercito, i SEALs della marina, le truppe del Comando Generale delle Operazioni Speciali (JSOC) e i Rangers, sono già state dispiegate contro i leader talebani. Benché il Presidente Obama abbia detto che intende ritirare le truppe dall’Afghanistan entro il 2011, molti vedono la costruzione massiccia di piste di atterraggio a Helmand come un’indicazione che i capi militari si preparano a rimanere in Afghanistan per molti anni.
Un attacco militare contro l’Iran provocherebbe il caos in tutta la regione (Afghanistan, Pakistan, Iran, Iraq e Kirghisia) che è ormai una polveriera pronta a esplodere. Sarebbe suicida da parte dell’Europa, e degli Stati Uniti, lasciarsi coinvolgere ancora di più nella guerra in Afghanistan o in una coalizione contro l’Iran.
Come ha dichiarato Helga Zepp LaRouche, presidente del Movisol tedesco: “Nel XIV secolo il crollo del sistema finanziario delle case bancarie dei Bardi e dei Peruzzi, causato da manipolazioni da Venezia, la principale potenza di allora, scatenò un’epoca buia in cui perì un terzo della popolazione mondiale, dall’India all’Irlanda, per l’effetto combinato della peste, della fame, della superstizione, dell’irrazionalità, della caccia alle streghe e delle pratiche dei flagellanti”. “Bosch e Breughel dipinsero la follia di quell’epoca”.
Per impedire oggi una nuova epoca buia, che sarebbe la conseguenza inevitabile di una nuova guerra mortale nel Sud ovest asiatico, è urgente superare la crisi economica e finanziaria con una procedura di riorganizzazione fallimentare del sistema, che separi i titoli validi da quelli tossici (il cosiddetto standard di Glass-Steagall) e dia vita ad un nuovo sistema creditizio internazionale.
È giunta l’ora della verità per l’Euro
Mentre il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e la Commissione UE preparano gli ultimi ritocchi al prestito d’emergenza alla Grecia, che verrà concesso con grande probabilità a fine aprile, i quattro “professori anti Euro” in Germania sono pronti a fare ricorso presso la Corte Costituzionale tedesca per questo finanziamento. L’autore del ricorso, il Prof. Karl Albrecht Schachtschneider, ha dichiarato che esso verrà presentato entro pochi giorni e che chiederà l’iter rapido. Potrebbe dunque esserci una sentenza nel giro di una settimana, ma potrebbero volerci anche fino a sei mesi.
L’argomentazione di Schachtschneider, docente di diritto all’Università di Norimberga, è che il prestito alla Grecia costituisce un sussidio a tasso illegale, che minaccia la stabilità monetaria prevista dal Trattato di Maastricht e viola la clausola di “no bailout” dello stesso trattato. “È una questione di diritto. Il dovere della Corte costituzionale è difendere la Costituzione tedesca. I giudici non hanno scelta se non prendere una decisione che ottemperi alla legge. Questo potrà causare una grande crisi in Europa ma la crisi c’è già”, ha dichiarato. Chiederà anche alla Corte Costituzionale di congelare gli aiuti alla Grecia fino alla sentenza.
Un altro dei quattro querelanti, il Prof. Wilhelm Hankel, docente di economia all’Università di Francoforte, ha denunciato i negoziati in corso sul prestito alla Grecia dichiarando che “l’intera manovra non fa altro che rinviare il giorno della resa dei conti. Non è nell’interesse della Grecia accettare questi soldi, perché i tagli ai salari e gli aumenti delle tasse imposti in cambio del prestito condurranno ad una depressione economica senza fine. I greci dovrebbero lasciare l’Eurozona volontariamente, svalutare e ristrutturare il proprio debito, con l’aiuto del FMI. Questo è il percorso dettato dalla ragionevolezza economica. In ultima analisi, l’unico modo di salvare l’Euro è quello di ridurre l’Eurozona”. Hankel ritiene che sia politicamente rischioso per Berlino trasferire fondi ad Atene mentre il caso è ancora pendente presso la Corte costituzionale. “Siamo in una zona oscura. Nessuno lo sa” ha detto. “Si tratta di una corte politica che cercherà di svincolarsi spostando la responsabilità al Bundestag. Il nostro obiettivo è informare l’opinione pubblica e mettere in difficoltà il governo. Gli aiuti alla Grecia richiedono una manovra di bilancio straordinaria, e questo sarà molto impopolare” ha aggiunto Hankel.
A quanto trapela dalla stampa tedesca, gli aiuti alla Grecia non saranno solo di 30, bensì di 90 miliardi di Euro, in quanto si prevede che i problemi della Grecia continuino fino al 2012. I problemi affrontati dai fautori degli aiuti sono stati indicati dal quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ) del 15 aprile, che conferma che la Corte Costituzionale tedesca potrebbe benissimo bloccare gli aiuti alla Grecia. Il quotidiano del centro bancario tedesco nota che tale trasferimento di aiuti potrebbe violare anche la sentenza storica della Corte Costituzionale del giugno 2009 sul Trattato di Lisbona.
Il FAZ suggerisce quindi di trasferire il caso alla Corte Europea di Giustizia in Lussemburgo, perché la clausola contro i finanziamenti è una legge europea, stando all’Art. 125 del Trattato di Lisbona. Dopo la sentenza della Corte Europea, il caso potrebbe tornare in un tribunale tedesco, secondo una procedura usata in molti casi precedenti.
Ad ogni buon conto, gli aiuti alla Grecia non potranno essere trasferiti prima che decida la Corte tedesca, e i mercati finanziari non intendono aspettare. Parlando a nome dei fautori degli aiuti, il FAZ suggerisce quindi che la corte tedesca invochi l’Articolo 136 del Trattato di Lisbona (paragrafo 4), che prevede decisioni esclusive dei membri dell’Eurozona relative al “miglioramento della coordinazione e della sorveglianza nella disciplina di bilancio”. Stando al quotidiano di Francoforte, l’ufficio del Presidente UE Herman von Rompuy starebbe studiando un’opzione coperta da tale articolo 136. Inoltre, in base allo stesso articolo, il Commissario UE agli Affari Economici Olli Rehn ha presentato una proposta ai ministri delle Finanze UE per un coordinamento soprannazionale dei bilanci nazionali degli stati membri dell’UE.
Presentato il treno magnetico cinese
L’8 aprile, il primo treno cinese a levitazione magnetica è stato consegnato alle autorità della provincia di Sichuan. Costruito dalla Chengu Aircraft Industrial Company, una filiale della Aviation Industry Corporation of China (AVIC), il treno viaggia ad una velocità massima di 500 km orari ed entrerà in servizio durante l’esposizione di Shanghai in maggio.
Oltre ad essere veloce, il treno è anche efficiente: a 400 kmh consuma un terzo dell’energia di un aereo. In Cina è già in funzione un treno a levitazione magnetica, costruito con tecnologia tedesca (il Transrapid). Ora la Cina ha costruito e brevettato la propria tecnologia e sta guardando agli Stati Uniti come mercato d’esportazione. L’aspetto più interessante degli investimenti cinesi negli USA è la proposta di riconvertire la vecchia linea di montaggio della GM a Fremont, in California, per l’assemblaggio di materiale ferroviario ad alta velocità. Essa va nella direzione delle proposte di riconversione del settore auto fatte da Lyndon LaRouche.
La Export-Import Bank cinese ha offerto 7 miliardi dei 12 necessari per finanziare una linea a levitazione magnetica dalla California al Nevada. La General Electric stima che gli USA spenderanno 13 miliardi di dollari per linee ad alta velocità nei prossimi 5 anni. La Cina si muove in ben altre dimensioni: solo nei prossimi tre anni saranno spesi 300 miliardi di dollari, principalmente per nuove linee ad alta velocità.
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Piazza Fontana: ‘Quell’arsenale ripulito dai Carabinieri’ , 22.04.2010
Gian Adelio Maletti, allora numero due del Sid, ricostruisce gli anni delle stragi in una lunga intervista diventata ora un libro
Tre giovani giornalisti (27, 28 e 30 anni) prendono a loro spese un aereo e vanno in Sudafrica, a Johannesburg, a intervistare un vecchio generale del servizio segreto militare italiano. I tre sono Andrea Sceresini, Nicola Palma e Maria Elena Scandaliato. Il generale è Gian Adelio Maletti, numero due del Sid negli anni della bomba di piazza Fontana (1969), del tentato golpe Borghese (1970), della strage di Brescia (1974), della strategia della tensione. Per tre giorni interrogano l’agente segreto, l’ufficiale rimasto (finora) il più alto in grado a sopportare tutto il peso dei depistaggi di Stato sulle stragi. Maletti risponde. Racconta. Non ricorda. Spiega. Nega. Rivela. In maniera obliqua e parziale, ma a suo modo illuminante, ricostruisce la trama della guerra segreta combattuta in Italia in quegli anni. Protagonisti, gli esecutori neofascisti di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale, i loro protettori dentro gli apparati di Stato italiani, le ombre atlantiche. Il lungo colloquio diventa ora un libro, “Piazza Fontana, noi sapevamo”, prefazione di Paolo Biondani, edito da Aliberti. Qui ne presentiamo un brano (pubblichiamo anche i video di quattro momenti dell’intervista al generale Maletti, parzialmente inediti, in esclusiva per il lettori dell’Antefatto). In esso, il generale Maletti parla di un informatore del Sid infiltrato nel gruppo veneto di Ordine nuovo, Gianni Casalini, fonte “Turco”. Spiega come il Sid gli impedì di rivelare alla magistratura quello che aveva visto sugli attentati del 1969. E (fatto inedito) di come i carabinieri “ripulirono” il deposito da cui proveniva l’esplosivo americano usato in piazza Fontana a Milano e probabilmente in piazza della Loggia a Brescia. Proprio domani, Maletti sarà interrogato, in videoconferenza, al processo in corso sulla strage di piazza della Loggia, l’ultima occasione giudiziaria per tentare di far quadrare i conti tra verità storica (ormai largamente acquisita) e verità processuale.
Da “Piazza Fontana, noi sapevamo” (Aliberti editore)
Sei anni dopo piazza Fontana, accadde un piccolo episodio che la vide protagonista. Era il 5 giugno 1975. Lei prese un foglio, e scrisse questo breve appunto: «Colloquio con il signor caposervizio. Caso Padova: Casalini si vuol scaricare la coscienza. Ha cominciato ad ammettere che lui ha partecipato agli attentati sui treni nel 1969 e ha portato esplosivo; il resto, oltre ad armi, è conservato in uno scantinato di Venezia. Il Casalini parlerà ancora e già sta portando sua mira su altri gr. Padovano + delle Chiaie + Giannettini. Afferma che operavano convinti appg. Sid. Trattazione futura, chiudere entro giugno. Colloquio con M.D. prospettando tutte le ripercussioni. Convocare D’Ambrosio. Incaricare gr. Cc (Del Gaudio) di procedere». Se ne ricorda?
Se dovessi ricordarmi di tutte le annotazioni che ho fatto, allora sarei un’enciclopedia vivente. Comunque sì, ricordo qualcosa. L’appunto si riferisce a un colloquio con il capo del Sid, che ai tempi era l’ammiraglio Mario Casardi. Lo scrissi piuttosto frettolosamente, come si può notare. Probabilmente, ero nel mio studio, a Forte Braschi, e c’era la macchina che mi aspettava fuori.
Il documento fu scoperto nel 1980, durante una perquisizione a casa sua. Di Gianni Casalini abbiamo già parlato: era un militante del gruppo padovano. Lavorò per il Sid, con il nome in codice “Turco”, dal 1972 al 1975: fino a quando, cioè, lei dispose la chiusura della fonte. Poco fa, lei ci ha detto una cosa importantissima: Casalini, durante la sua collaborazione, vi rivelò un grande segreto. Parlò dell’esplosivo di piazza Fontana, disse che le bombe venivano dalla Germania, che erano di provenienza americana, e che erano state consegnate ai neofascisti veneti. Tutte informazioni che rimasero misteriosamente riservate, almeno per la magistratura. Poi, nel 1975, come se non bastasse, lei prese questa decisione: chiudere la fonte. Perché?
Guardate, la decisione non fu presa da me. Fu presa dell’ammiraglio Casardi, che all’epoca era direttore del Sid. (…) Non solo non l’ha denunciato: ha cercato di evitare che dicesse altre cose. Cose piuttosto scottanti.
Sul suo appunto c’è scritto: «Casalini si vuol scaricare la coscienza».
La riunione del gruppo neofascista
Comunque, cari ragazzi, questo non è più un colloquio amichevole: questo è un tribunale, e io sono l’imputato. E invece non sono imputato.
Ma no, generale, noi non le imputiamo nulla.
No, mi piace mettere le cose a posto. Non voglio che mi si perseguiti con domande alle quali chiaramente io non posso rispondere: non per cattiva volontà, ma per mancanza di agganci mnemonici.
Non si preoccupi. Quand’è così, cercheremo di fornirle qualche nuovo appiglio. Casalini, nel 2008, ha detto molte altre cose. Il 18 aprile 1969, si svolse a Padova una misteriosa riunione: vi parteciparono i massimi esponenti del gruppo neofascista. C’era Franco Freda, Giovanni Ventura, Pozzan, Toniolo e Balzarini. E c’erano due altri personaggi, arrivati da Roma, la cui identità non è mai stata svelata. Fu stabilita ogni cosa: le bombe, gli attentati. Casalini riferì tutto al Sid. E il Sid? Che cosa fece il Sid?
Guardate, non ne ho idea. Sono passati quattro decenni.(…)
Lo scantinato di Venezia
Continuiamo a leggere. Più avanti, sempre nell’appunto, viene citato il nome di Manlio Del Gaudio, capitano dei carabinieri: «Incaricare gr. Cc (Del Gaudio) di procedere». Del Gaudio era il comandante del gruppo carabinieri di Padova.(…) Era amico del padre di Casalini, Mario. Secondo il giudice Salvini, avrebbe dovuto intercedere presso la famiglia del militante neofascista per convincerlo a starsene buono . Cioè a non parlare.
Anche questa direttiva fu impartita da Casardi. Comunque sia: io non sapevo nulla di questa amicizia. Se fosse vero, ciò spiegherebbe molte cose.
Scusi, generale, in che senso? Che cosa spiegherebbe?
Spiegherebbe, tra l’altro, che al padre di Casalini fu ordinato di ripulire alla svelta uno scantinato, un sottoscala.
Quale scantinato?
Lo scantinato di Venezia, no? Lo stesso del quale parlo nel mio appunto…
La strage di Piazza della Loggia
Generale, ci spieghi tutto con calma.
Ok, ragazzi. One should never say never, mai dire mai. Procediamo con ordine: vi spiegherò ogni cosa, una volta per tutte. Io, come dicevo, telefonai al centro di Padova, ordinando che la fonte venisse chiusa. Ordinai, inoltre, che venisse informato il comando dei carabinieri di Padova, per le incombenze del caso. (…) C’era da occuparsi, per esempio, del celebre deposito di esplosivo. (…) Chi abbia materialmente svuotato l’arsenale ha ben poca importanza. Costoro, a mio giudizio, non ebbero alcun timore di essere sorpresi sul fatto.
È un episodio gravissimo, generale. Le forze dell’ordine coprirono l’operazione, e i neofascisti riuscirono a farla franca. Ma cosa c’era, in quell’arsenale? (…) I tir carichi di esplosivo, quelli che giunsero dalla Germania, fecero tappa a Mestre, alle porte di Venezia. A bordo c’erano varie casse di tritolo, provenienti da un deposito americano in Germania: ce lo ha detto lei. È possibile, dunque, che quelle casse fossero conservate nel deposito del quale abbiamo appena parlato?
Certo, direi di sì. È un’ipotesi attendibile.
Nell’arsenale di Venezia, insomma, c’era l’esplosivo di piazza Fontana, l’esplosivo americano. Era stato Casalini, del resto, a indicarne la provenienza: è logico che ne conoscesse anche la destinazione. Questo spiegherebbe tutto: quelle bombe non dovevano essere rinvenute: l’intera strategia statunitense fu sul punto di essere smascherata. È una rivelazione pesantissima…
Io, però, non posseggo alcuna prova.
Certo, generale. Ma c’è un’altra cosa, a questo punto, che vorremmo chiederle. Il deposito restò in funzione per almeno sei anni: dal 1969 al 1975. Nel 1974, ci fu la strage di piazza della Loggia, a Brescia. Secondo le tesi dei giudici, l’eccidio sarebbe stato organizzato dallo stesso gruppo che agì a piazza Fontana: gli ordinovisti veneti. È possibile, a suo parere, che anche l’esplosivo di piazza della Loggia provenisse da quell’arsenale?
Non mi sembra un’ipotesi peregrina. Ma, ripeto, restiamo nel campo delle supposizioni. Non esistono prove.Del Gaudio e i vertici del Sid
Quello che lei non sta smentendo è uno scenario inedito, e decisamente inquietante. Ma ci dica: Del Gaudio agì di sua spontanea volontà? Sappiamo che era un membro della P2, così come i vertici della divisione Pastrengo, che fecero scomparire i rapporti su Casalini. I registi dell’operazione, molto probabilmente, si trovavano in alto: molto più in alto…
Non lo so, non lo so. So solo questo: l’ordine di svuotare l’arsenale non partì dai vertici del Sid. Non sono in grado di dire altro.
Leggi la prefazione al libro, a cura di Paolo Biondani
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Pervenuto da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org il 21.04.2010
Signori e signore siamo alla fase II della crisi
Il Fondo monetario internazionale ha avvisato che la crisi economica potrebbe entrare in una “nuova fase” con l’aumento del debito pubblico, e rischia di compromettere la stabilità del sistema finanziario globale.
Global economic crisis shifting into ‘new phase,’ IMF ominously warns
http://252.255.201.74.static.ey03.engineyard.com/stories/1419718/toolbar?ref=sp
La crisi economica serve per creare un nuovo ordine globale. Significa sfruttare il problema che loro hanno creato per centralizzare il potere in poche mani.
C’è bisogno di una nuova dislocazione strategica dei grandi attori globali.
http://img691.imageshack.us/img691/4838/20289822806789.jpg
Le parole di Gordon Brown nel 2008: “A volte ci vuole una crisi per fare accettare alla gente ciò che è ovvio e avrebbe dovuto essere fatto anni fa, e che non può più essere rimandato”.
http://www.infowars.net/articles/october2008/131008Brown.htm
Cosa ne rimane delle piccole imprese?
Small businesses don’t see recovery panning out: NFIB
http://www.marketwatch.com/story/small-businesses-dont-see-recovery-nfib-survey-2010-04-13
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Grecia chiede attivazione aiuti Ue/Fmi, 23.04.2010
Da fonte Reuters, il primo ministro greco Papandreou ha chiesto l’attivazione del pacchetto di aiuti predisposto per Atene da Unione Europea e FMI, cedendo alle pressioni dei mercati che hanno fatto schizzare il costo dell’indebitamento della repubblica ellenica.
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Un canestro di ciliegie per Obama
Stefano Rizzo, 23.04.2010
In politica un successo tira l’altro, come le ciliege. Qualche settimana fa sembrava che Obama fosse, se non distrutto, paralizzato. C’era già chi anticipava che i prossimi due anni e mezzo di presidenza sarebbero stati per lui un calvario, mentre i commentatori agitavano lo spettro – ricorrente nella politica americana – dell’anatra zoppa
I repubblicani erano ringalluzziti e incominciavano a pensare che sloggiarlo dalla Casa bianca nel 2012 non era più un impresa impossibile. Insomma il “cambiamento in cui possiamo credere” sembrava essere diventato una continuazione della inconcludenza dell’amministrazione Bush con altri mezzi.
Poi a marzo è arrivata l’approvazione della riforma sanitaria, che ha fatto rizzare le orecchie ai protagonisti del mondo politico. Allora questo Obama fa sul serio – si sono detti – è un osso duro e non molla la presa. Aveva promesso di portare in porto la riforma e l’ha fatto. Alla fine i compromessi cui si è dovuto acconciare sono sembrati virtù e non vizi, tanto più che gli aspetti più sgraditi della riforma entreranno a regime tra un paio d’anni, mentre da subito scattano le norme per estendere la copertura ai figli fino ai 26 anni e il divieto alle compagnie assicuratrici di escludere le persone con malattie pregresse.
Poi è arrivato qualche timido, ma incoraggiante segnale di ripresa economica: per la prima volta da due anni a questa parte gli Stati Uniti hanno smesso di perdere posti di lavoro e le speranze di raddrizzare l’economia in tempo per le elezioni di novembre sono aumentate. Soprattutto i deputati democratici negli stati più colpiti dalla crisi hanno incominciato a guardare al presidente come a qualcuno che li può aiutare ad essere rieletti e non dal quale prendere le distanze.
Poi è arrivato un piccolo (ma anche in questo caso significativo) successo elettorale. A compensare la clamorosa sconfitta di gennaio in Massachusetts è giunta la vittoria di un seggio della Florida. Poca cosa, ma un segnale di un inversione di tendenza, che fa guardare con maggiore fiducia alle elezioni di midterm, nelle quali per la prima volta i democratici sono posizionati meglio dei repubblicani nei sondaggi.
Anche la politica estera segnava intanto un’inversione (parziale) di tendenza. Dopo un anno di annunci condivisibile, ma di scarsi risultati concreti, Stati Uniti e Russia firmavano il nuovo trattato START, estendendo e ampliando quello scaduto a dicembre. Anche qui ciò che più conta non è tanto la riduzione delle armi nucleari e dei missili, che complessivamente sono ancora migliaia e conservano la capacità di distruggere il mondo intero più volte; ma il fatto stesso che, contro le previsioni, il trattato sia stato concluso e che gli Stati Uniti abbiano ottenuto ciò che volevano (conservare l’opzione per costruire uno “scudo” antimissili). Del resto, le reticenze russe sono state vinte proprio dal successo di Obama nella riforma sanitaria. Come? Ma perché un presidente che riesce fare approvare una legge così difficile dal suo senato dà maggiori garanzie di fare ratificare anche il trattato START.
Subito dopo c’è stata la conferenza di Washington per la messa in sicurezza degli ordigni nucleari e del materiale fissile. Ai 47 paesi partecipanti Obama si è presentato con la nuova autorevolezza ottenuta nelle settimane precedenti. La conferenza è stata un successo proprio perché i suoi obbiettivi erano limitati. Il documento conclusivo non è vincolante, ma – in analogia a quanto si fa normalmente nelle conferenze non governative – è stato fissato un “percorso”, degli obbiettivi e tappe intermedie per verificarne il raggiungimento. Il confronto va fatto con l’ultimo evento internazionale dell’amministrazione Bush, la conferenza di Annapolis sul Medioriente: quella fu un fiasco perché gli obbiettivi erano ambiziosi e i risultati nulli. Questa è stata un successo perché gli obbiettivi erano in partenza limitati e i risultati hanno corrisposto agli obbiettivi.
Cosa Obama riuscirà ad ottenere sull’altra importante questione che lo attende e che riguarda il nucleare iraniano, è difficile dirlo. La Russia, assieme agli altri membri europei del Consiglio di sicurezza, è d’accordo per nuove sanzioni; ma la Cina – con la sua consueta abilità diplomatica – è fin qui riuscita a dire e non dire. Si ha comunque l’impressione che Obama abbia dato ormai per scontato che, sanzioni o non sanzioni, è difficile impedire la marcia di Teheran verso l’atomica. Un pericolo, che se si dovesse realizzare, potrà essere contrastato con l’arma della deterrenza, mentre oggi molto più grave e incerto è il pericolo che organizzazioni terroristiche entrino in possesso di un ordigno nucleare o di materiale atomico con cui produrre una “bomba sporca” (meno letale, ma ugualmente drammatica per le radiazioni emesse).
Sul fronte strettamente politico sembra che si stia esaurendo la tanto strombazzata onda lunga dei “tea parties”. Il movimento si sta spaccando, da una parte i libertari che stanno con Ron Paul e che non vogliono alcun intervento del governo; dall’altra integralisti religiosi che vedono in Sarah Palin la loro Giovanna d’arco, e vogliono al contrario che il governo intervenga per “ricristianizzare” l’America. Dagli ultimi sondaggi, sembra che i tea parties abbiano la stessa fiducia nei confronti dei repubblicani di quella che hanno nei confronti dei democratici (praticamente nulla). In ogni caso sarà difficile per il partito repubblicano cavalcare la protesta a proprio vantaggio.
L’ultima ciliegia che sta per essere raccolta è la legge contro la finanza facile, contro i famigerati “derivati” e gli eccessi di Wall Street. Anche in questo caso i repubblicani, vista la nuova aria che tirava a favore dell’amministrazione, hanno ammorbidito le loro posizioni. Da un’ostilità preconcetta, come quella messa in atto nei confronti della riforma sanitaria, alcuni senatori repubblicani sono passati alle “riserve critiche” e, in un caso, al voto favorevole. La ragione? I repubblicani si sono resi conto che la Casa bianca e i loro colleghi democratici sono intenzionati ad andare avanti a muso duro, che già li stanno accusando di “fare gli interessi dei banchieri”, e che, se non arrivano a qualche accomodamento, anche loro rischiano di essere bocciati nelle urne, soprattutto negli stati agricoli che sono la loro base elettorale.
Insomma, maggio si avvicina, ma le ciliege stanno maturando presto quest’anno, e Obama ne sta raccogliendo un canestro.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14714
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di Sergio Bellucci, Marcello Cini
I SEGNI del comando, 18.04.2010
L’attuale capitalismo è un’immensa produzione di segni ridotti a merce. Per traformare la realtà, non basta però invocare il rispetto delle regole o, all’opposto, la loro violazione per restituire la libertà alla cooperazione produttiva. Occorre invece lo sviluppo di un welfare delle relazioni che favorisca le diversità senza che queste si traducano in forti diseguaglianze sociali
«Quando le immagini – scrive Franco Berardi nel suo articolo La misura dell’illegalità pubblicato il 27 marzo sul manifesto – non più semplici rappresentazioni della realtà, divengono simulazione e stimolazione psico-fisica i segni divengono la merce universale, oggetto principale della valorizzazione del capitale… Questa è la ragione per cui possiamo parlare di semiocapitalismo: perché le merci che circolano nel mondo economico – informazione, finanza immaginario – sono segni, immagini, numeri, proiezioni, aspettative, il linguaggio non è più uno strumento di rappresentazione del processo economico e vitale, ma diviene fonte principale di accumulazione che continuamente deterritorializza il campo dello scambio».
Sono parole che salutiamo con grande soddisfazione perchè sono in perfetta sintonia con la tesi di fondo della nostra analisi sulla svolta che il capitalismo ha vissuto nel passaggio dal XX al XXI secolo, esposta nel recente libro Lo spettro del capitale (il manifesto del 18/10/2009). «Sempre più il processo di accumulazione del capitale – abbiamo scritto infatti – si fonda oggi sulla produzione di segni dotati di senso sotto forma di merce di beni non tangibili: non solo conoscenza, informazione ma anche comunicazione intrattenimento e addirittura modelli di vita».
La legge dell’illegalità
Di conseguenza, «il lavoro nella produzione capitalistica di merci immateriali non è riducibile a pura quantità. In ogni forma, anche la più semplice, di produzione di segni c’è una componente individuale qualitativamente essenziale e non quantificabile in termini di tempo». Mentre infatti nella fabbrica di oggetti il lavoratore deve annullare la propria individualità per eseguire automaticamente e sempre più in fretta lo stesso gesto prestabilito e programmato, nella fabbrica di segni il singolo lavoratore deve sfruttare la propria individualità per inventarsi il modo più efficace per conquistare il gradimento dell’ utente per la merce che gli viene direttamente o indirettamente offerta. Nel primo caso il lavoratore manipola un pezzo di materia nel secondo deve interagire con un essere umano.
Il discorso di Bifo procede ancora, all’inizio, con argomentazioni che concordano con quelle nostre. A sua volta infatti egli afferma: «il lavoro cognitivo non può più essere ridotto, come era per il lavoro nell’industria novecentesca della produzione di oggetti materiali, alla misura del tempo necessario». Entrambi dunque osserviamo che alla deterritorializzazione, resa possibile dalle nuove tecnologie digitali, è seguita una deregulation del mercato del lavoro. Le nostre strade tuttavia cominciano a questo punto a separarsi.
Per Bifo infatti – ed è questo il punto centrale del suo discorso – segue che «il mercato del lavoro diviene il luogo della pura legge della violenza, della sopraffazione. Non si tratta – prosegue – più di semplice sfruttamento ma di schiavismo di violenza pura contro la nuda vita, contro il corpo indifeso dei lavoratori di tutto il mondo». E ancora: «La violenza è la forza regolatrice dell’economia semiocapitalistica perciò non è contrastabile con i richiami alla legalità e alla moralità».
A questo punto tuttavia, i nostri cammini prendono direzioni diverse. Intendiamoci bene. Non è che noi trascuriamo questo aspetto della svolta compiuta dal capitalismo nel passaggio dal fordismo e dal welfare socialdemocratico del XX secolo al supercapitalismo neoliberista che, aprendo anticipatamente il XXI, ha avuto in Milton Friedmann il suo teorizzatore e in Reagan e nella Thatcher i suoi realizzatori politici. La denuncia della violenza economica sociale e politica esercitata sui lavoratori e su popoli interi, documentata nei minimi dettagli da Naomi Klein nel bestseller mondiale Shock Economy, dovrebbe ormai far parte della cultura della sinistra, se ancora esistesse al di fuori dei meri termini di rappresentanza istituzionale. Noi stessi abbiamo dedicato a questo aspetto un capitolo del nostro libro e non è questa la sede per ribadirne il peso.
Il punto è che noi riteniamo insufficiente, per costruire dal basso una cultura in grado di «affermare un altro modo di vita e una nuova solidarietà del lavoro», l’esortazione di Bifo a «non rispettare le regole non scritte che il capitalismo ha imposto». Detto in termini più concreti, non è che violare «le regole» sia di per sé garanzia di successo. Soprattutto se non si ha chiaro con che cosa sostituirle.
Noi pensiamo infatti che le «regole del semiocapitale», che sovvertono quelle del capitalismo novecentesco, operino su una molteplice varietà di fronti. Per contrastarle bisogna conoscerle bene. Vediamone un breve elenco
Il primo fronte riguarda l’interesse a sostenere la domanda sullo stesso territorio ove si effettua la produzione. Chi produce (l’azienda) perde l’interesse che le merci prodotte siano acquistabili dagli stessi produttori (i suoi lavoratori o quelli che vivono nel territorio) come accadeva nella fase novecentesca. I compratori possono ormai trovarsi in ogni luogo del pianeta. Questa novità ha separato i destini delle aziende da quelle dei lavoratori. La seconda rottura riguarda la smaterializzazione del denaro e la produzione della finanza informatizzata. Si rompono i legami che impedivano la circolazione dei capitali e si crea la moltiplicazione del capitale per strutture finanziarie che possono operare in tempo reale nell’intero mondo.
Un mondo fuori linea
Il terzo fronte è invece costituito dall’intreccio sempre più pervasivo del sistema dei media, sostenuto dalla pubblicità, nell’incentivare il consumo e nella produzione di senso sociale della vita e delle relazioni. Il quarto è lo spezzettamento del ciclo produttivo con modalità diverse da come aveva pensato Ford lungo una stessa «linea», infatti oggi i pezzi del ciclo possono risiedere in un qualunque punto del mondo. La struttura informativa della azienda, informatizzata e messa in rete, può integrare i processi con una efficacia incredibile. Il quinto, infine, è l’avvento della rete Internet come mezzo per connettere imprese e clienti, produrre solo ciò che viene ordinato e con le caratteristiche richieste, facendo svolgere un pezzo del ciclo produttivo direttamente al cliente e a sue spese. La produzione diviene connessa sempre più.
Questa trasformazione ci ha fatto fuoriuscire dalle società di stampo tradizionale e inserito nelle società del mutamento. Ma questo non significa impossibilità di «governo», società del «caos», assenza di regole o di forme di conflitto che segnino un avanzamento stabile del grado di libertà. Significa solo la necessità di forme della politica e dell’organizzazione che assumano come base la cultura della complessità utilizzando fattori che poggiano sull’azione, sempre più consapevole, di un numero sterminato di persone e non sulle élites.
Non possiamo pensare, a sinistra, di restaurare forme di potere conosciute e contro le quali ci illudiamo di saper combattere. Né basta proporci di cambiare la società. La società sta già cambiando e ad una velocità che le analisi tendono a non saper anticipare. Possiamo però cercare di produrre quei piccoli cambiamenti che in un sistema complesso e instabile come quello in cui viviamo, possono instradarlo su un cammino virtuoso piuttosto che su uno catastrofico tra quelli che le possibili biforcazioni ci presentano.
Ci sono oggi pratiche, esperienze, forme organizzative già presenti nelle pieghe del tessuto sociale che, sia pure minoritarie, coinvolgono milioni di uomini e donne di buona volontà in tutto il mondo, ma potrebbero diventare dominanti. Per esempio lo sviluppo di relazioni tra individui mutuamente vantaggiose ma non dirette alla realizzazione di profitto; la pratica di forme di lavoro in cooperazione finalizzate al raggiungimento di obiettivi comuni; la formazione del consenso sulle decisioni che comportano vantaggi e svantaggi tra soggetti diversi; la composizione dei conflitti tra portatori di interessi differenti; la gestione di beni comuni nell’interesse degli appartenenti a una stessa collettività.
Negli ultimi due capitoli del nostro libro – Economie non mercantili e Per un welfare delle relazioni – cerchiamo di fornire qualche esempio di iniziative già avviate, di esperienze fruttuose e di imprese promettenti, tutte fondate sul principio base della demercificazione della produzione dei beni immateriali e della gestione delle risorse non tangibili nella forma della cooperazione e della condivisione. Questi esempi mostrano che non si tratta di utopia, ma di realizzazioni concrete. Il punto essenziale che vogliamo sottolineare è piuttosto che il loro valore esemplare sta nella loro diversità. È l’invenzione delle forme di relazioni produttive e sociali di cooperazione e di condivisione, adatte a realizzare, nelle diverse situazioni locali, i modi di vita, le aspirazioni, i gusti, le abilità, le passioni, le abilità dei singoli individui e delle loro culture, che può riuscire a costruire un mondo pacificato di donne e uomini liberi, nel quale le diversità non si traducano in una scala quantitativa di disuguaglianze di reddito, di potere, di diritti e di qualità della vita.
In nome della condivisione
Non potremmo tuttavia concludere queste sommarie indicazioni senza accennare al tema, che per noi è centrale, del ruolo che le reti devono avere nel processo di demercificazione della produzione dei beni. Citiamo a questo proposito la sociologa Mariella Berra quando prospetta la possibilità che «il dono e la cooperazione possano idealmente porsi come il presupposto naturale per la crescita di una nuova economia che utilizzi Internet e più in generale il sistema socio-tecnico delle reti come luogo di diffusione e di scambio». «Nella rete – prosegue infatti questa autrice – il soggetto non solo agisce come un attore razionale che massimizza le sue utilità individuali, ma, grazie alle estese e reversibili relazioni di scambio a cui partecipa, si trova a cooperare nella produzione di beni pubblici».
Quella della rete come un territorio-laboratorio per sperimentare la nuova forma dei beni pubblici sembra una realtà che sfugge alla politica. Il bene pubblico novecentesco, infatti, era rappresentato dall’intervento dello Stato e dalle sue articolazioni. Quello che emerge dal laboratorio-rete, invece, è una forma di autorganizzazione dal basso, che tende ad autoregolarsi e a fissare i propri obiettivi in maniera condivisa per target di interessi. Una forma che la politica, per come l’abbiamo sperimentata finora, tende a non comprendere né ricomprendere. Una forma che, probabilmente, saprà costruire un proprio modello di rappresentanza in grado di colmare la distanza percepita oggi tra la politica e la persone. Quella che ha fatto tanto parlare in questi mesi e che non è risolvibile solo sul piano quantitativo del numero dei deputati o della riduzione del loro stipendio.
Forse, per far ciò si infrangerà anche qualche «regola» esistente, ma perché si ha già in mente la sua sostituzione con una che emerge da altri comportamenti socialmente già condivisi.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20100418/pagina/11/pezzo/276425/
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Separati in casa, 27.04.2010
FEDERICO GEREMICCA
Per un problema tecnico sull’edizione di ieri l’editoriale di Federico Geremicca è uscito incompleto in alcune edizioni. Lo riproponiamo nella sua interezza e ce ne scusiamo con l’autore e con i lettori.
L’appello del Presidente Napolitano affinché le celebrazioni si svolgessero in un clima di serenità; l’invito del premier Berlusconi a far tesoro della libertà e della democrazia riconquistate con la Resistenza; le sollecitazioni e la speranza dell’Anpi, infine, che le manifestazioni non venissero turbate da tumulti e contestazioni. Tutto inutile. Assolutamente inutile. E così, anche questo 25 aprile – non il primo e probabilmente non l’ultimo – finisce in archivio con un bollettino di incidenti indegno della giornata che ricorda e simboleggia la liberazione dell’Italia dal nazifascismo.
Da Catania a Milano, è tutta un’interminabile teoria di contestazioni, diserzioni e incidenti di piazza e diplomatici. I più seri nella capitale, dove la protesta contro la presenza sul palco della neo-governatrice Polverini è culminata in un tiro al bersaglio contro il presidente della Provincia, Zingaretti, colpito da un limone in pieno volto.
Ma aspra è stata anche la contestazione subita, a Milano, dal sindaco Moratti e dal presidente della Provincia, Podestà. Nel capoluogo lombardo, il presidente della Regione, Formigoni, ha addirittura disertato la manifestazione di piazza Duomo con una motivazione che la dice lunga sul clima che si va radicando nel Paese: «Non sarò al corteo per la stesso motivo per il quale il Presidente Napolitano ha preferito commemorare la Liberazione con il momento di sabato alla Scala…».
Protagonisti delle contestazioni – che a Milano non hanno risparmiato nemmeno reduci dei campi di Auschwitz e Treblinka – giovani dei centri sociali e militanti della sinistra più radicale. «Chi semina vento, raccoglie tempesta», ha accusato il leader nazionale dei giovani del Pdci, giustificando – se non rivendicando – l’aggressione di cui sono stati fatti oggetto i presidenti Polverini e Zingaretti. E se non si capisce bene quale vento abbia seminato il presidente Zingaretti, davvero si fa fatica a cogliere il senso di una tempesta (di limoni, insulti e mandarini) in un giorno così.
Da più parti si sottolinea ormai con allarme e frequenza quasi quotidiana il fatto che il Paese stia perdendo coesione sociale. Significa che, dopo l’aggravarsi delle diseguaglianze economiche e il radicarsi di sempre più evidenti divisioni territoriali (tra Nord e Sud) l’Italia rischia di smarrire perfino quel minimo comun denominatore indispensabile a farne un Paese unito. Bisogna dire che la giornata di ieri, con provocazioni e incidenti del tutto inaccettabili, sembra esser appunto arrivata a confermare la fondatezza di quell’allarme.
Eppure era stato fatto di tutto per evitare che anche questo 25 aprile si trasformasse in una giornata da dimenticare. Sabato, a Milano, il Capo dello Stato aveva svolto un discorso tutto centrato sulla necessità di uscire da contrapposizioni pregiudiziali in nome di un’unità d’intenti capace di favorire lo sviluppo del Paese. E ieri Silvio Berlusconi è entrato nelle case degli italiani con un intervento dai toni unitari e pacati, con espliciti inviti alle forze di opposizione affinché partecipino alla riscrittura della seconda parte della Costituzione e non si tirino indietro rispetto all’annunciato processo di riforme istituzionali.
Tutto inutile, come dicevamo. Quel che resta – quel che anzi si rafforza – è infatti una incomunicabilità, una separazione che pare crescere giorno dopo giorno. In molti casi (Milano, Catania, Salerno, Bergamo…) sindaci e presidenti del centrodestra hanno addirittura preferito disertare le celebrazioni del 25 aprile temendo – come purtroppo in molte città è poi accaduto – polemiche e contestazioni. E’ un segnale quanto mai allarmante, perché l’idea che una parte politica (e quindi una parte del Paese) finisca per essere o per sentirsi esclusa da una giornata che – come ha ricordato Napolitano – è anche quella della riunificazione, ecco, tale circostanza non può che esser considerata foriera di divisioni ancor più profonde. Ci potrà guadagnare, forse, qualche «rivoluzionario» di professione. È assai più difficile, al contrario, che possa venirne una spinta positiva e in avanti per il Paese.
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27/4/2010 – ITALIA 15
A Torino un’occasione da sfruttare
WALTER BARBERIS
Qualche giorno fa il presidente Ciampi ha indirizzato al capo del governo una lettera con la quale annunciava le dimissioni dal suo incarico in seno al Comitato dei Garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
L’ex Capo dello Stato si rammaricava per il peso gravoso di un «affaticamento, fisico e psicologico», ribadendo l’auspicio che il Consiglio dei ministri non trascurasse di dare continuità a tutte le iniziative volte a favorire lo spirito unitario del Paese.
La lettera, resa nota ai membri del Comitato dallo stesso presidente Ciampi, ha dato avvio a una serie di reazioni. La prima, di generale sconforto per un abbandono che certamente ha un suo peso simbolico: nessuno può ignorare quanto sia stata e stia a cuore al Presidente la questione dell’Unità nazionale, né dunque può restare indifferente di fronte a una defezione pur motivata da ragioni di salute. A questa, tuttavia, hanno fatto seguito altre prese di posizione, di volta in volta orientate a far rientrare le dimissioni, quasi che non fossero state debitamente soppesate e meditate, oppure inclini a profittare dell’occasione per indirizzare al governo obliqui messaggi di sfiducia, di scontentezza e quindi annunci di altri conseguenti abbandoni. Si tratta di posizioni tutte legittime e rispettabili, ma a mio parere precipitose e talvolta pretestuose.
C’è chi ha scritto, ad esempio, che senza Ciampi le celebrazioni del 2011 rischieranno di diventare «una manifestazione di Torino», ovvero «un grande evento della cultura piemontese», «oppure un derby fra nazionalisti fuori tempo e federalisti senza padri». Francamente, stento a capire. Avrei detto che a Torino si stava giocando una partita importante, degna di più attenzione, se non di ammirazione.
Va ascritto a merito della Città se un’intesa fra istituzioni e persone di diverso orientamento politico ha favorito un’alleanza fra enti pubblici e soggetti privati; è un vantaggio, e forse anche un esempio, se a Torino una condivisa volontà di fare ha consentito che ci fossero dotazioni finanziarie, energie intellettuali e condizioni politiche per poter preparare con largo anticipo l’appuntamento col 150° dell’Unità. Né si comprende come possa essere definito un episodio di cultura locale l’iniziativa che si propone di dar seguito alle celebrazioni del 1911 e del 1961, che portarono a Torino, entrambe le volte, sei milioni di persone. In un Paese in cui quotidianamente ricorrono le parole conciliazione, condivisione, concertazione, a significare mille difficoltà di dialogo e di incontro, non si capisce per quale ragione svalutare una manifestazione così rara di dialoghi e di incontri. Peraltro, nessuna delle iniziative che si prevedono a Torino per il 2011 avrà i toni della retorica o intenzioni meramente celebrative: sotto il profilo storiografico, artistico e scientifico-tecnologico, si tratterà di occasioni per riflettere sulla storia degli Italiani, sulla loro capacità inventiva, sul raccordo fra l’Italia di ieri e quella di domani.
Non ci saranno né ardori nazionalistici, né chiusure campanilistiche: soltanto una volontà di futuro, che profitterà, com’è giusto che sia, per trarre lezioni dal passato. Questa è la memoria condivisa. Questo è il traguardo che dovrebbe continuare a porsi il Comitato dei Garanti: una proposta di riflessione diretta a tutti gli Italiani, continuando a chiedere alle autorità politiche di favorire ovunque, a Milano come a Roma, a Genova come a Napoli o a Palermo, quelle iniziative volte a ragionare sul significato odierno di unità nazionale e sulle nuove frontiere della cittadinanza. Nello spirito dell’articolo 5 della Costituzione, ricordando che «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Credo che agire perseguendo questi scopi sarebbe un utile esercizio di civile confronto, fra Italiani, che farebbe piacere al presidente Ciampi.
Componente del Comitato dei Garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia
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Bufale atomiche
C.R., 26 aprile 2010
Incontrando il suo alleato Putin proprio nel giorno in cui ricorre l’anniversario del disastro di Chernobyl, Berlusconi ha annunciato che entro tre anni cominceranno i lavori per la prima centrale nucleare in Italia. Ma ha aggiunto che prima di individuare la località occorre che “cambi l’opinione pubblica italiana”. E per ottenere questo scopo, il presidente del Consiglio prepara campagne di sensibilizzazione televisive lunghe un anno. I Verdi simulano una nuova Chernobyl davanti a Montecitorio. Il 1mo maggio parte la raccolta firme contro il nucleare organizzata dall’Idv
Incontrando il suo alleato preferito Putin proprio nel giorno in cui ricorre l’anniversario del disastro di Chernobyl, Berlusconi ha annunciato che entro tre anni cominceranno i lavori per la prima centrale nucleare in Italia. Ma ha aggiunto che prima di individuare la località occorre che “cambi l’opinione pubblica italiana”. E per ottenere questo scopo, il presidente del Consiglio annuncia campagne di sensibilizzazione televisive lunghe un anno. Se consideriamo che nell’ultima settimana di campagna elettorale per le regionali ha occupato, contando solo i suoi interventi in voce, oltre il 20% dei Tg Rai e oltre il 50% di quelli Mediaset , senza contare i blitz da 12 minuti a Uno Mattina, la campagna di informazione sul nucleare si profila di stampo putiniano.
Al contrario, noi ci auguriamo che l’opinione degli italiani, in prevalenza contrari al ritorno al nucleare, non cambi. Molto meglio sarebbe cambiare – e presto – il governo. E’ quindi necessario che i cittadini conoscano i costi esorbitanti di questa scelta energetica, le alternative legate all’efficienza energetica e alle rinnovabili che rischiamo di perdere inseguendo il nucleare e i gravi problemi di sicurezza del reattore francese Epr che Berlusconi e i suoi ministri vorrebbero nei loro giardini nonostante sia all’indice delle Autorità di sicurezza nucleare francese, finlandese e inglese.
Intanto, l’Italia paga per il nucleare che non ha, ma che aveva: si tratta di oltre 12 miliardi di euro per gestire le scorie radioattive. Questo, nonostante il deposito nazionale ancora non sia stato identificato ufficialmente. Anche se la sede potrebbe essere nell’area di Garigliano, tra Latina e Caserta, che per i vecchi trascorsi viene ritenuta “la piccola Chernobyl italiana”.
La denuncia è contenuta in un dossier dei Verdi presentato nel corso di un’azione di protesta di fronte a Piazza Montecitorio, proprio nell’anniversario dei 24 anni dell’incidente di Chernobyl: ai piedi di un plastico di una centrale nucleare, il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, insieme con altri rappresentanti ha simulato un incidente atomico, con tanto di tute bianche anti-radiazioni e finti malori. E non manca la denuncia: sempre secondo Bonelli, dietro l’accordo con la Francia per la costruzione di reattori nucleari in Italia potrebbero esserci “accordi riservati per la costruzione di armi atomiche”: ovvero, dietro l’accordo Sarkozy-Berlusconi potrebbe esserci un accordo oltre che di cooperazione civile anche di cooperazione militare.
Dalla chiusura delle vecchie centrali ad oggi, si osserva nel dossier, la cifra che i cittadini italiani hanno dovuto pagare per la gestione delle scorie radioattive supera i 12 miliardi di euro senza che sia stato possibile indicare il deposito unico nazionale. La quantità attuale di rifiuti radioattivi italiani di seconda (scarti di lavorazione) e terza categoria (combustibile irraggiato, scorie di riprocessamento) è pari a circa 90.000 metri cubi: 25.000 attuali e altri 65.000 provenienti dalle centrali in dismissione. A questi bisogna poi aggiungere una produzione annuale di 1.000 metri cubi di scorie provenienti da usi medici e industriali. Quelli di seconda categoria sono rifiuti pericolosi per circa 300 anni mentre quelli di terza rimangono carichi di radioattività anche per 250.000 anni.
Per quanto riguarda il deposito nazionale a Garigliano, si legge nel dossier dei Verdi, bisogna ricordare che nell’area è presente l’ex centrale nucleare in fase di smantellamento.
Pertanto, bisognerebbe capire se l’eventuale deposito accoglierebbe le scorie di quella centrale o di tutto il territorio. Secondo i Verdi, tra l’altro, la centrale di Gargliano è stata vittima di diversi incidenti. Il primo, nel dicembre 1976 il fiume Garigliano, dice il dossier, che in fase di piena è entrato nel locale sotterraneo raccogliendo e trascinando con sé oltre un milione di litri d’acqua contaminata con radionuclidi.
Nell’agosto del 1978 l’impianto chiude. E nel novembre del 1979 si verifica un incidente analogo. Nel novembre del 1980 le piogge abbondanti – aggiunge lo studio – penetrando fuoriescono nel fiume portandosi dietro Cesio 137. Nel novembre del 1982 un contenitore su rimorchio ferroviario da Roma a Garigliano perde per strada 9.000 litri di acqua con Cobalto 58, Cobalto 60, e Manganese 54. Infine, secondo il dossier, sono documentabili nel 1972 e nel 1976 due esplosioni dei filtri del camino centrale.
L’ennesimo annuncio di propaganda sul nucleare denuncia tutte le difficoltà di Berlusconi di far digerire agli italiani una scelta sbagliata e antieconomica. Per Ermete Realacci (Pd) “non basterà il diluvio di comunicazione annunciato oggi e in altre occasioni dal capo del Governo a far passare il nucleare come la soluzione a tutti problemi energetici del nostro paese”.
“Del resto – aggiunge Realacci – Berlusconi sa benissimo che la maggior parte degli italiani è contraria ad un ritorno all’atomo.
Ma con la solita strategia racconta una verità mutevole e ben sapendo che il nucleare è un argomento complicato, volutamente lo mistifica e lo nasconde. Perché intanto non taglia dalle bollette degli italiani i 400 milioni di euro che ogni anno paghiamo per lo smaltire le scorie del vecchio nucleare?”.
Il prossimo 1mo maggio Italia dei Valori inizierà la raccolta delle firme contro il nucleare e la “colossale truffa atomica” voluta dal governo. “Il nucleare – spiega Donadi – è pericoloso ed antieconomico, conviene solo alle grandi lobby e non certo ai cittadini. Nessun altro grande paese sta investendo su questa energia vecchia perché il futuro è nelle fonti sicure, pulite e rinnovabili. Gli italiani non devono pagare i costi salatissimi di una politica energetica dissennata, che vorrebbe riportare l’Italia indietro di vent’anni. Con il referendum i cittadini spazzeranno via le velleità atomiche di Berlusconi e delle lobby”.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14735
Materiale di Legambiente
dossier EPR: un reattore o un bidone? Sicurezza, rischi ambientali e costi. Tutti i problemi che gli italiani devono conoscere sulla tecnologia nucleare francese
Mai più Cernobyl. Viaggio nella memoria e nel presente del piu’ grave incidente nucleare della storia. Inchiesta su La Nuova Ecologia (aprile 2010)
cartello ” frutta e verdura radioattiva”
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Una scultura da sogno di Silvio Berlusconi
Articolo di Società cultura e religione, pubblicato giovedì 22 aprile 2010 in Svezia
[Svenska Dagbladet]
Una colossale statua iperrealistica di Berlusconi dell’artista australiano Ron Mueck può diventare realtà se il ministro italiano per i Beni Culturali Sandro Bondi ottiene il permesso.
Bondi, ex comunista e ministro ben pagato nel governo Berlusconi, ha cantato le lodi del genio di Berlusconi come un Virgilio. E nell’ultimo numero de Il Giornale dell’Arte racconta il suo sogno: realizzare a Roma un museo che sarà chiamato Berlusconiano. All’inizio si era deciso di usare il monumento Vittoriano di Piazza Venezia, ma poi la scelta è ricaduta spontaneamente sul museo Maxxi di Zaha Hadid, appena costruito. “Chi è più Maxxi di Silvio, in Italia?”, sembra aver detto Bondi.
Il museo, dedicato a Berlusconi per l’Italia della libertà dovrebbe essere costituito da più sale, nelle quali i visitatori seguirebbero il percorso verso il potere del capo del governo. Vengono presentati, nell’ordine, la sua notevole carriera come imprenditore edile negli anni ’60, con sontuose piante di Milano 2 e 3, la sua carriera come industriale, con l‘azienda Fininvest che ha costituito le fondamenta dell’enorme fortuna di Berlusconi, l’impero mediatico Mediaset che attualmente controlla gran parte della televisione e dei quotidiani.
Come sovrintendente del museo, Bondi ha già designato il conservatore critico d’arte e politico Vittorio Sgarbi.
Come controparte del museo, dall’altra parte del Tevere ci sono il Foro Italico e lo Stadio dei Marmi, in cui alcune delle statue di Mussolini lasceranno lo spazio a illustri giocatori della squadra di Berlusconi, il Milan, come Beckham, Kakà e Gattuso. “Ci saranno giochi e feste, che chiameremo Berlusconiadi” riferisce Bondi. Visitatori da vicino e da lontano verranno sedotti da statue di cera degli amici politici di Berlusconi: Bettino Craxi, i politici Dell’Utri e Previti che entrano ed escono dal carcere, Putin, Bush, Gheddafi e altri. Bondi prevede che il Berlusconiano diventerà il museo più visitato d’Italia.
Per ciascuna delle sale, Bondi è ora impegnato nella composizione di un’ode, che nel complesso costituiranno un poema dal nome Berlusconeide o Silveide, ispirato al poema epico nazionale romano Eneide. Gli inni veranno stampati dalla Electa, che appartiene alla casa editrice Mondadori posseduta e controllata da Berlusconi.
Bondi rivela che l’idea più grandiosa sarà una sala enorme con un acquario che rappresenterà il mar Mediterraneo, sormontato da un ponte che lascerà intuire il collegamento al progetto che Berlusconi non ha ancora realizzato, il ponte sullo stretto di Messina lungo 3,3 chilometri. Da lì i visitatori accederanno ai vari saloni espositivi. Nel centro della piscina si ergerà una colossale statua di 10 metri sul modello del Pensatore di Rodin, ma senza la sua espressione meditabonda. Sarà invece un Berlusconi sorridente che felicemente adesca anime umane.
Sogno o incubo? Il caporedattore de Il Giornale dell’Arte ha ovviamente inventato una favoletta, tuttavia con forti riferimenti alla realtà.
[Articolo originale “Silvio Berlusconi en drömskulptur ” di Anna Brodow Inzaina ]
http://italiadallestero.info/archives/9390
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Blogger, direttore a metà, 26.04.2010
I post non firmati non si possono imputare al gestore di un blog. Che è responsabile solo dei contenuti postati da lui stesso. Questo il parere della Corte di Appello di Torino
Roma – Nel luglio del 2006 un blogger veniva condannato dal Tribunale di Aosta per diffamazione e omissione di controllo sui commenti di utenti anonimi: oggi quella sentenza è in parte ribaltata e – pur rimanendo in capo al tenutario di un blog la responsabilità per i post personalmente firmati – viene respinta l’altra ipotesi di reato che configurava un precedente pericoloso.
Secondo la sentenza di primo grado il gestore di un blog “altro non è che il direttore responsabile dello stesso, pur se non viene formalmente utilizzata tale forma semantica per indicare la figura del gestore e proprietario di un sito Internet”: dal momento che esso può (e conseguentemente deve, se davanti a contenuti offensivi o illeciti) cancellare i messaggi degli utenti – si legge nelle motivazioni – la sua posizione e quella di un direttore di una testata giornalistica stampata sono, mutatis mutandis, identiche.
L’inchiesta era stata avviata dalla Polizia Postale di Aosta, su denuncia di quattro giornalisti valdostani nei confronti dell’anonimo autore del blog “Il bolscevico stanco”, dietro cui è stato individuato l’oggi 63enne giornalista Roberto Mancini.
Oggi la Corte di Appello di Torino presieduta dal Giudice Gustavo Witzel ha confermato la condanna per diffamazione, infliggendo a Mancini una pena pecuniaria di mille euro per due post da lui stesso firmati, ma lo ha assolto dalla più controversa accusa di omissione di controllo che aveva valso al giornalista la solidarietà di osservatori e colleghi come Reporter Senza Frontiere.
Con l’appello è venuta quindi meno l’equiparazione del blogger al direttore responsabile di una testata giornalistica che ha responsabilità editoriali su tutti i contenuti pubblicati sulle pagine di un giornale. Il gestore di un blog – invece – risponde personalmente solo dei post da lui stesso firmati.
Claudio Tamburrino
http://punto-informatico.it/2867568/PI/News/blogger-direttore-meta.aspx
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Aghi addio. Per i vaccini c’è il cerotto, 22.04.2010
Ideato in Australia, è più piccolo di un francobollo e può essere la soluzione ideale per chi teme le punture
Chi teme aghi e siringhe può tirare un sospiro di sollievo. In Australia è stato messo a punto un mini-cerotto (nano-patch) per somministrare i vaccini. E le buone notizie non finiscono qui: per ottenere una risposta immunitaria uguale a quella delle vecchie punture, basta una quantità di vaccino 100 volte minore.
Questo potrebbe essere un vantaggio non indifferente nei Paesi di sviluppo: il cerottino, più piccolo di un francobollo, usa meno vaccino e non ha neppure bisogno di essere mantenuto in ambienti refrigerati.
L’invenzione è frutto degli studi di Mark Kendall, docente all’Australian Institute for Bioengineering and Nanotechnology (AIBN) della University of Queensland.
http://salute.leiweb.it/diagnosi-e-cure/10_a_vaccino-senza-ago.shtml
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Qualcuno con cui parlare, 25.04.2010
Francesca Borri
non so se è comprensibile, pubblicata isolata su un sito web: è l’intervista incrociata a Nurit Peled e Bassam Aramin da cui il libro che sto finendo prende il titolo, “Qualcuno con cui Parlare” – è stata pubblicata in inglese, e ha funzionato: il senso è che il lettore capisca da solo, riga dopo riga, che si tratta di un’israeliana e un palestinese, fino però a non distinguere più la differenza
“Arrivarono qui dalla Russia, sionisti ma soprattutto socialisti, l’obiettivo era uno stato binazionale, e per cui quando nel 1948 gli offrirono una bella casa espropriata a dei palestinesi, mio padre rifiutò – eravamo sionisti, ma di minoranza, clandestini delle narrazioni dominanti, solo ‘gente del Medio Oriente’, senza nessuna distinzione dagli arabi…”
Una famiglia normale, sopravvissuti alla nakbah, sono nato in mezzo al deserto, in una grotta come casa, come tanti, in una vita di povertà, senza alcuna prospettiva, onestamente non ricordo se ho mai avuto dei sogni, dei progetti, a un certo punto semplicemente mi sono ritrovato un combattente… Non sapevo niente della guerra, sapevo solo di questi soldati, catapultati addosso dal buio a sparare, lacrimogeni e proiettili e manganelli e odiavano quella bandiera nera, verde rossa e bianca, sapevo solo questo, e ma non avevo armi, solo dei vecchi vestiti da cucire insieme – e allora di notte entrai nel cortile della scuola, e legai la mia bandiera all’albero più alto: e al mattino i soldati la tolsero, e io la legai di nuovo, e di nuovo i soldati la tolsero e di nuovo la legai, fino a quando non spianarono via ogni albero…”
Sapevamo della loro esistenza, certo, ma per quanto fossimo di Gerusalemme, e tutti di sinistra, non avevamo contatti, la prima volta che ho incontrato dei palestinesi studiavo letteratura, e già vivevo a Parigi…”
Poi un giorno trovammo delle armi, avevo sedici anni, abbandonate, granate e una pistola, e pensammo che finalmente Israele sarebbe finito, avevamo delle armi adesso, un proiettile per ogni israeliano e tutto sarebbe finito… Ma le granate non ferirono nessuno, e il proiettile mancò la jeep, e ci risvegliammo tutti in carcere, io per sette anni, anche se non era stato colpito nessuno, e anche se io neppure ho mai sparato, perché zoppico, e quel giorno sarei stato solo di intralcio – e però è così che per la prima volta ho incontrato un israeliano, in carcere”
“Poi fu nominato comandante di Gaza, e fu allora che decise di studiare l’arabo, perché capì di avere potere di vita e di morte su decine di migliaia di persone di cui non sapeva assolutamente nulla, con cui non poteva neppure parlare… In seguito fondò un partito arabo-israeliano, organizzò i primi incontri illegali con Arafat, e quando ero giovane questo è quello che ricordo, vivevamo nella paura, minacciati perché traditori – ma mio padre rimase un sionista fino all’ultimo, voleva solo realizzare i princìpi della Dichiarazione di Indipendenza, l’eguaglianza, la libertà per tutti, il suo arabo non era una scelta eversiva, un impegno politico, voleva solo chiacchierare con i suoi vicini…”
“Fino a quando una sera non proiettarono Schindler’s List, e io non sapevo dell’Olocausto… E vedevo tutti quegli ebrei morire, umiliati, e accatastati e nudi, e per nessuna colpa che fosse loro, solo perché ebrei e vedevo tutte quelle persone morire, e tutti quei palestinesi, umiliati e accatastati e nudi, e per nessuna colpa che fosse loro – ma come poteva, un popolo che aveva conosciuto quella sofferenza, e l’ingiustizia e il razzismo, la deportazione, come poteva adesso quel popolo fare ad altri la stessa cosa?”
“Oslo è stata una grande speranza ma è svanito tutto, ovunque è la stessa area la stessa prigione, spediscono qui migliaia di giovani convinti di essere eroi, non capiscono che sono solo assassini che minano la sicurezza di Israele…”
“Ma chi mai può rovesciare Israele in mare? Una potenza nucleare, uno tra i migliori eserciti al mondo: la verità è che questa guerra si combatte ora dopo ora ai checkpoint, non è una guerra di grandi scontri, ma di ragazzini, soldati il cui compito è solo stare lì, aspettare che la giornata goccioli via… E invece arriva il momento che ti accorgi di cosa è densa quella noia: impregnata di centinaia di migliaia di persone affamate, disperate cancellate – disposte a esplodere contro tutto questo… E non mi si inganni, ancora, che è per la mia sicurezza: perché sappiamo tutti come aggirare il Muro, e perché le barriere esistono da molto prima degli attentati suicidi: l’obiettivo è solo stremare, e costringere a emigrare è solo apartheid, e infatti io questo Muro non lo sento, non mi tocca…” “Ma è una normalità che è solo un’illusione, sono fisicamente liberi, mentalmente occupati, è un paese di sfiducia reciproca, paura sospetto, ogni giorno, vivono blindati e per non dire l’economia, perché ormai è un paese povero, solo un nuovo ghetto di ipocondrie, non fabbricano che armi e per ogni mitragliatrice altre emarginazioni e periferie, e più emigrati che immigrati…” “E noi poi, ma come avremmo reagito se fossimo stati sorteggiati dall’altra parte del Muro? Perché sono certa che avremmo organizzato la resistenza, e avremmo combattuto per la libertà – e ne sono certa perché è anche la storia di Israele, perché è la storia di mio padre”
“E quando mi ha detto che sarebbe rimasta da un’amica a giocare, le ho detto Non se ne parla neppure, perché il giorno dopo aveva un esame – se ancora potessi dirle qualcosa, direi solo Vai… Vai, gioca – vivi… E so quello che sostiene la polizia, ma che importa se i ragazzi tiravano o non tiravano pietre? Se è stata una granata o un proiettile, e se il soldato voleva o non voleva sparare, se è stato omicidio doloso o colposo – l’unica domanda sensata è perché mai deve esserci la polizia in una scuola… Cosa ci fa una frontiera in una scuola? Cosa ci fa un Muro, tra le aule e il cortile…” “Perché il dramma è quando tutto questo non è l’esito tragico di un errore, ma della corretta applicazione delle procedure, della banalità del male, diciottenni a cui si affida una mitragliatrice e si insegna che i nostri bambini sono il loro peggiore nemico, l’incubo demografico di Israele, e loro sanno che qualsiasi cosa accada, non ci sarà nessun processo, e nessun carcere…” “Perché Abir aveva nove anni, e era armata solo di un righello, e hanno detto che avrebbe tirato una granata, Abir, che le sarebbe esplosa tra le mani, ma le sue mani erano intatte, e aveva invece solo questo foro alla nuca, perché è stata colpita alla schiena, che autodifesa è?, un soldato che spara da un blindato alla schiena di una bambina di nove anni? che stato di necessità è, che pericolo è, per la quinta potenza militare al mondo, una bambina con un righello?” “E quando allora quella mattina uscì di casa, io non volevo, perché erano mesi di attentati a Gerusalemme, ma poi lei disse Mamma, lasciami vivere”
“Si dice che l’occupazione ci corrompe, ma l’occupazione prima che corrompere noi devasta gli altri, io non potrò mai essere sullo stesso piano di una madre che oltre ad avere perso una figlia, sa che non avrà mai giustizia, io non ho che ammirazione per queste donne che in condizioni terribili – causate dal mio esercito, finanziato dalle mie tasse – hanno il coraggio di vivere comunque, amare, creare famiglie futuro in case bombardate all’improvviso, mentre accompagnano i bambini a scuola attraverso chilometri di macerie, tra i fucili dei soldati e gli sputi dei coloni… Ma è la sola cosa che qui abbiamo in comune, il dolore, perché se invece l’assassino di Smadar non fosse esploso, sarebbe stato immediatamente ucciso, e la sua casa demolita sul resto della sua famiglia – e quando sono con Salwa, e le dico che siamo vittime della stessa occupazione, so che è solo parte della verità, perché l’assassino di Abir in questo momento probabilmente gioca alla playstation, e il suo inferno è più inferno del mio…” “Dopo l’Undici Settembre tutto è diventato più difficile, perché il nostro nemico non è il terrorismo, ma la parola terrorismo, questa minaccia, questo ricatto indefinito… Ma in quanti paesi è Undici Settembre ogni giorno? Hamas offre prima di tutto moltissimi servizi sociali – e comunque, qualunque sia la mia opinione, non dimentico che tutto questo arriva dall’occupazione… E che quando Hamas ha vinto regolari elezioni, avete tagliato ogni dialogo e sostegno – finanziate la pubblicità della democrazia, ma mai la sua attuazione…” “Hamas non fa che proporre tregue, ma nessuno ascolta, io non amo i movimenti religiosi, ma queste sono scelte dei palestinesi, non ho il diritto di decidere per loro, e poi cosa posso insegnare?, dite che vivo in una democrazia, e poi dite l’Iran ma qui abbiamo la Torah invece che una costituzione – quando Gaza è divelta dalla malnutrizione, non è uno scontro di civiltà, è solo una civiltà che aggredisce l’altra, è genocidio… Io combatto le ingiustizie, la religione è una questione personale – e invece i ministri israeliani sono dei criminali secondo qualsiasi ordinamento giuridico”
“Mio padre fu uno dei generali alla guida del 1967, ma capì presto che quella vittoria sarebbe degenerata in un cancro, e finì per sostenere il ritiro, fino a definire l’invasione del Libano un crimine contro l’umanità – ma nella mia famiglia non siamo mai stati pacifisti, abbiamo sempre pensato che a volte combattere è necessario: però poi bisogna sapersi fermare, ottenere la pace, altrimenti è tutto inutile…” “E allora abbiamo fissato un incontro a Betlemme, quattro palestinesi, sette israeliani: temevamo tutti fosse un’imboscata, ma poi ci siamo guardati… E non è stato facile, davanti ad uno che ogni giorno ti umilia al checkpoint, e ti arresta ti spara contro, fa le incursioni di notte a casa tua – e eppure ti appare così simile, improvviso, così fragile e incerto… Ma non è in discussione la loro fedeltà a Israele, siamo stati tutti combattenti, qui, e molti ancora sono riservisti, solo si rifiutano di servire nei Territori – come non è in discussione la nostra fedeltà alla Palestina, la resistenza armata è un diritto… Ma semplicemente non funziona”
“Ci accusano di antisemitismo, ma non siamo traditori, al contrario, il vero patriottismo oggi è criticare Israele, e chi usa l’Olocausto per giustificare l’oppressione di un altro popolo, profana lui per primo l’ebraismo, il vero antisemitismo è quello di chi si ostina in una guerra che non uccide che noi stessi, non conquista che odio nei nostri confronti – uno stato democratico e uno stato ebraico sono due cose incompatibili…” “Ma non siamo dei codardi, perché quanto sarebbe stato più facile odiare… Recuperare un fucile, e sparare, tre, quattro soldati, a un checkpoint qualunque, vendicarmi… E lo so meglio di altri, perché quando nessun israeliano fu neppure ferito, rimasi molto deluso, volevamo uccidere, era l’unica soluzione, armi e munizioni, e giù gli israeliani, uno a uno… Ma adesso ho parlato con i miei carcerieri, adesso conosco la loro sofferenza… Qui abbiamo tutti sparato, torturato ucciso – ma il solo patriottismo possibile è combattere l’odio tra di noi, il solo modo per fermare quest’onda che ci travolge, il solo coraggio, fermare noi stessi, cercare non la vertigine della vendetta, ma il punto fermo della giustizia, perché è l’odio a costringerci prigionieri più di ogni Muro…” “E invece tra Oslo e la Seconda Intifada, ai progetti di incontro tra palestinesi e israeliani non è stata destinata che la metà del costo di un singolo carroarmato – oggi che la cosa più difficile non è superare le differenze di idee, ma il Muro, perché noi non possiamo entrare in Israele, loro non possono entrare nei Territori…” “La verità è che siamo soli, e invece come in Sudafrica, l’unica strada è una tenaglia internazionale – mentre voi europei vi limitate pigramente a rispolverare ogni tanto l’idea del boicottaggio: ma boicottare chi? Il boicottaggio condanna tutti in modo vago e indistinto – cominciate piuttosto a non commerciare armi, a boicottare i criminali di guerra, arrestateli alle frontiere, usate questa cosa chiamata giurisdizione universale, non colpite a caso, inchiodate le responsabilità al loro nome e cognome”
“Oggi che il ‘terrorismo’ è la violenza dei poveri e deboli, e ‘guerra al terrorismo’ quella dei ricchi e dei forti, noi siamo qui, vittime del terrorismo e della guerra al terrorismo, perché abbiamo titolo per dire che non esiste un modo civile oppure barbaro di uccidere innocenti, solo un modo criminale… Siamo qui perché non è vero che non esiste un partner per la pace, qui per dimostrare che esiste qualcuno con cui parlare – perché l’obiettivo non è perdonare, dimenticare, ma solo cominciare a stare insieme: se continuiamo a rovistare nelle nostre vite, a scavare domande, non impileremo che ragioni per scontrarci ancora, perché tutti abbiamo sangue sulle mani, e dolore alle spalle…” “Nessuno contesta il diritto di entrambi a questa stessa terra, ma dobbiamo cominciare a raccontare la storia di qui, imparare a localizzare – perché ormai questa terra appartiene più agli ebrei e arabi di ogni luogo e tempo che a noi che ci abitiamo, e che come tutti voi abbiamo molteplici identità, e sovrapposte, non siamo interamente rappresentati da un’etichetta etnica, o nazionale o religiosa, un’etichetta sola… Io non ho paura dei rifugiati palestinesi – ma perché mai dovrei preferire un ebreo sperduto, paracadutato qui a blindarsi nella sua piccola Russia di plastica in mezzo al deserto, e che neppure parla la mia lingua?” “La parola popolo ci viene sguainata contro come un destino… I giornalisti mi chiedono sempre come posso accettare condoglianze ‘dall’altra parte’ – ma quando Ehud Olmert, che era sindaco di Gerusalemme, è venuto a trovarci io non gli ho stretto la mano, e sono andata via, perché non accetto condoglianze dall’altra parte, e questa ‘altra parte’ per me sono loro, io distinguo solo, qui, tra criminali e pacifisti… Ma perché mai il mio ‘noi’ dovrebbe riferirsi agli ebrei o agli israeliani? La fraternità non si coltiva su astrazioni come la nazione, la razza, ma vite in comune in un luogo comune”
“Ma i libri di testo definiscono i palestinesi ‘un problema da risolvere’ – sento l’eco di soluzioni terribili che la storia ha già proposto… Sono le scuole ad addestrare i soldati, non le caserme, perché sono le scuole a insegnare a non dubitare mai della ‘verità’, a insegnare una visione del mondo come necessità, come causalità in cui ognuno disciplinato deve adempiere il proprio ruolo… A insegnare che Israele non si trova negli atlanti, ma nella Bibbia: e ogni cosa ha un settore ebraico e un settore non ebraico, qui, un’agricoltura ebraica e un’agricoltura non ebraica, le città ebraiche e quelle non ebraiche – ma chi sono questi ‘non-ebrei’, questi ‘altri’?, non si sa…” “D’altra parte i libri sulla Palestina erano proibiti… Ma nessuno ha bisogno di essere indottrinato a combattere, qui, si nasce combattenti, perché da quando sei piccolo la normalità è essere umiliati e picchiati, e allora la normalità è reagire, resistere, in ogni modo, strana gente che non parla la tua lingua, che non capisci cosa vuole, e arrivano a picchiarti, sai solo questo, e allora è solo istinto di sopravvivenza, combattere…” “Sono riassunti cumulativamente come arabi – non vivono mai in città, giovani che navigano in internet, studiano per un dottorato: sono le mille e una notte, le babbucce ai piedi e un cammello al seguito, il contadino nero di terra dietro l’aratro trascinato dai buoi… E quando sono i cittadini dei Territori, sono il terrorista mascherato… Ed è così, con questo razzismo che non è educazione ma infezione, che uccidere non è più uccidere, ma evolve in altri nomi altre legittimazioni, operazione, missione contromisura…” “E li inganniamo che sono magnifici in uniforme, li chiamiamo martiri, il ritratto con la mitragliatrice, bisogna cominciare a dire che nessuno è bello vestito di brutalità”
“Eppure l’ebraico ha questo uso bellissimo, la stessa parola per reality e invention: significa che la realtà è quello che inventiamo, e che dunque può essere cambiata…” “Mi chiedono sempre come so essere così forte, ma la mia non è che vulnerabilità, ed è la mia unica ricchezza, l’impossibilità di guarire, perché le ferite non sono al fondo che un’apertura, una disponibilità al mondo all’altro, una possibilità che ci viene ancora proposta…” “Diceva, Dio abita dove lo si lascia entrare…” “Perché so solo che dopo quarant’anni, Israele non è sicuro e la Palestina non è libera… Ma c’è un giardino adesso, nel punto in cui Abir è caduta – perché quella non è l’unica relazione possibile tra israeliani e palestinesi, perché qualcosa di diverso può crescere al sole lì dove è stato versato il nostro sangue”
Bassam Aramin è tra i fondatori di Combatants for Peace, associazione di ex combattenti israeliani e palestinesi. Sua figlia Abir aveva 9 anni il 16 gennaio 2007, quando è stata uccisa da un proiettile sparato a quattro metri di distanza da una pattuglia di frontiera, all’uscita da scuola. Nonostante un foro alla nuca, secondo l’esercito israeliano è stata colpita da una pietra tirata da un compagno di classe. Le indagini – avviate su pressione internazionale – sono state archiviate per insufficienza di prove. Nessuno dei molti testimoni oculari è mai stato ascoltato.
Nurit Peled-Elhanan, figlia del generale Mattiyahu, membro della Palmach e tra i fondatori di Israele, poi del primo dipartimento israeliano di letteratura araba, insegna pedagogia all’università di Gerusalemme. Sua figlia Smadar aveva 13 anni il 4 settembre 1997, quando un palestinese è esploso lungo la strada per la sua lezione di danza, in rappresaglia a dieci civili uccisi a Gaza. Nei giorni precedenti, un’imboscata aveva falciato via dieci israeliani. Nei giorni precedenti, Arafat era stato bombardato a Ramallah negli uffici dell’Autorità Palestinese. Nei giorni precedenti, attentati suicidi per ventisei vittime israeliane avevano seguito l’assassinio di un leader di Hamas. Nei giorni preceden
è tagliato così, con l’ultima parola a metà – stavo ricostruendo la storia, di rappresaglia in rappresaglia, ma sarei arrivata fino ad abramo…
http://rete-eco.it/en/news/palestinian-civil-society/13005-qualcuno-con-cui-parlare.html
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Il latte materno protegge il neonato dal cancro, 22.04.2010
Oltre alle molte proprietà conosciute, il latte materno sarebbe anche in grado di proteggere il neonato dal rischio di ben quaranta tipi di tumore, grazie all’interazione di un suo composto chimico, con l’acido oleico presente nello stomaco dei bambini.
L’allattamento materno si dimostra indispensabile, sin dai primi momenti dopo la nascita, non solo perché poco tempo prima del parto produce il cosiddetto “colostro”, una prima forma di latte molto nutriente e concentrata, indispensabile al neonato, in quanto ricca di anticorpi che proteggono il bimbo appena nato.
Arriva dalla Scandinavia la notizia che un composto chimico del latte materno, sarebbe utile a contrastare ben 40 forme tumorali. Questo elemento farebbe naturalmente parte della composizione dell’alimento e sarebbe in grado di eliminare le cellule cancerogene.
La ricerca è stata condotta da un team di studiosi dell‘Università di Goteborg e pubblicata sulla rivista “Plos One“, essa si è basata sullo studio delle proprietà dello “Human Alpha-lactalbumin Made Lethal to Tumour cells o Hamlet“.
Questa sostanza è prodotta dall’unione dell’alfa-lattalbumina contenuto nel latte materno con l’acido oleico che si trova invece nello stomaco dei bambini, il composto sarebbe in grado di influire positivamente sulla riduzione del rischio di ammalarsi di cancro.
Roger Karlsson, autore dello studio spiega il nesso tra l’allattamento al seno e la diminuzione del rischio di tumore nei neonati, proprio grazie all’unione di questi due composti provenienti da madre e figlio.
Il gruppo guidato da Karlsson, ha potuto appurare la scoperta testando la molecola su alcuni pazienti affetti da tumore alla prostata, verificando poi, nel giro di soli cinque giorni l’effettivo miglioramento delle condizioni dei malati. In meno di una settimana si era verificato un blocco dell’avanzamento del tumore e una migliore risposta alle cure.
Nei test avvenuti in laboratorio invece, il composto chimico “Hamlet”, si è mostrato efficace non solo sul tumore alla prostata, ma ha dato positivi riscontri anche su altri 40 tipi di tumore.
“Il problema ora – spiega Karlsson – è come far arrivare la molecola direttamente nel sito dove è presente il tumore stiamo progettando una serie di altri esperimenti sull’uomo, che dovrebbero iniziare al più presto”.
Giulia Di Trinca
http://www.newnotizie.it/2010/04/22/latte/
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“La pacchia è finita”, dice l’FMI. 26.04.2010
di Debora Billi
Continuo a rileggere questo articolo del Washington Post, e continuo a non credere ai miei occhi. Si tratta proprio di un pezzo uscito dalla redazione interna, anche se sembra un pesce d’aprile ad opera di qualche hacker complottista.
Si parla dell’ultimo incontro tra il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale (il duo disastro), avvenuto domenica proprio a Washington. Il cronista ci riassume una serie di documenti politici e dichiarazioni fatto dal FMI in tempi recenti.
Il messaggio è stato recapitato con furbizia, nascosto in documenti dai titoli tipo ‘Risolvere l’eredità della crisi e incontrare nuove sfide alla stabilità finanziaria’, giustificati da concetti come ‘aumentare l’età pensionistica in linea con l’aspettativa di vita’.
E il messaggio di oggi è precisamente questo:
Nella neolingua del FMI, il futuro del mondo risiede in “riequilibrio e consolidamento”, parole antisettiche che non causano grandi preoccupazioni. Chi non vorrebbe più equilibrio nella vita? Ma la traduzione è un po’ più rude, qualcosa del genere “Arrangiatevi*. La pacchia è finita”. Per salvare l’economia globale, la gente in USA e nel resto del mondo industrializzato avrà bisogno di lavorare più a lungo prima della pensione, pagare tasse più alte e aspettarsi meno Stato sociale. E gli oggetti a poco prezzo che troviamo nei centri commerciali? Dovranno costare di più.
Ve l’avevo detto, che non sembra proprio il Washington Post. Cosa significa il riequilibrio prescritto dal FMI? Significa interrompere il circolo che vede Paesi solo consumatori e Paesi solo produttori, come USA e Cina, e il conseguente trasferimento di capitali. E come risolvere la questione? Semplice: rivalutando lo yuan o svalutando dollaro ed euro, allo scopo di stimolare le nostre esportazioni. Il risultato sarà un ovvio aumento dei prezzi, ma chi se ne importa. Il consolidamento invece, spiega ancora il Washington Post, è peggio ancora: tutti i Paesi si sono pesantemente indebitati per salvare le banche durante la crisi finanziaria, e ora occorre una correzione. Che ammonta, come disinvoltamente annuncia l’FMI, a circa il 10% del PIL. Che volete che sia? Basta aumentare le tasse e tagliare i servizi sociali, et voilà abbiamo risolto.
Capiamo sempre meglio perché gli interventi del FMI vengono chiamati “bacio della morte”. Quello che non si capisce invece è se sono Dissennatori, o semplicemente dissennati.
* Il Washington Post è un po’ più diretto, dice testualmente “Ingoiatevelo”, o meglio “Succhiatevelo”.
http://crisis.blogosfere.it/2010/04/la-pacchia-e-finita-dice-lfmi.html
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 28.04.2010
Le aperture
Il Corriere della Sera: “Grecia bocciata, paura del contagio. Vertice staordinario della Ue. Fmi al lavoro. Il piano di aiuti sale a 100 miliardi di euro in tre anni”. A bocciare i titoli di Stato di Atene ieri sono state le agenzie di rating internazionali. A centro pagina: “L’inchiesta sugli appalti ora rischia il naufragio. Stop del gip a nuovi arresti: la competenza non è di Perugia”.
Il Sole 24 Ore: “I titoli greci sono ‘spazzatura’. I mercati spingono i tassi di Atene a nuovi record e premiano dollaro e bond Usa. Fmi pronto ad alzare l’aiuto fino a 25 miliardi. S&P declassa anche il Portogallo. Borse in pesante caduta”. In prima pagina, tra le notizie della giornata, anche il richiamo del Presidente Napolitano, che ieri, ricevendo 298 nuovi uditori giudiziari, ha invitato la magistratura a stemperare i toni “Napolitano: i giudici devono recuperare la fiducia nei cittadini”.
La Repubblica: “Grecia sull’abisso, paura in Europa. Atene a un passo dal fallimento. Effetti negativi sull’asta dei Bot italiani. Il 10 maggio vertice straordinario dei leader Ue per tentare il salvataggio. ‘Titoli di Stato spazzatura’. Portogallo declassato. Crollano le Borse”. Il commento è di Massimo Giannini: “Una folle partita di poker’”. A centro pagina le parole del Capo dello Stato: “Napolitano ai magistrati: ‘Serve anche autocritica’. L’Anm: sì, ma vogliamo rispetto. Gruppo Pdl, Bocchino sfida Cicchitto alla presidenza”. In evidenza anche un reportage dalla Cina, dopo il terremoto del 14 aprilee: “Cina, dentro il terremoto nascosto”. Anche il quotidiano romano in prima pagina dà rilievo alla notizia del rifiuto da parte del Gip di autorizzare tre richieste di arresto da parte della Procura: “Non spetta a noi”.
Libero: “Miracolo Napolitano. Siluro ai giudici. Dopo aver tolto il 25 aprile alla sinistra, il Colle fa un altro regalo al Cav e invita i magistrati a lavorare e fare autocritica. Il centrodestra ha pronto un nuovo lodo Alfano”. Maurizio Belpietro firma l’editoriale. A centro pagina le notizie sulla Grecia e l’Europa. “Atene nel baratro, Portogallo e Spagna quasi”.
La Stampa: “Grecio, giù euro e Borse. Standard & Poor’s abbassa il rating. La crisi si aggrava. Atene dichiara di non potersi più finanziare sul mercato. L’Europa in un giorno brucia 160 miliardi. Spagna, 1 su 5 senza lavoro”. A centro pagina la notizia di un arresto ieri a Reggio Calabria: “E la folla applaude il superboss arrestato. Reggio, in 500 solidalei con il latitante. Grasso: in Sicilia ci insultavano, ma ora tifano per noi”. Il commento alla notizia è di Massimo Gramellini (“Il mondo alla rovescia”).
Il Riformista: “Nasce Forza Italo. I finiani non mollano e aprono la guerriglia per Bocchino. Il vicecapogruppo alla Camera si dimette ma sfida Cicchitto. ‘Mi candido alla presidenza, così ci contiamo’. Bossi manda Cota e Calderoli a sondare l’ex leader di An sul federalismo”. In prima anche un richiamo: “Tangenti per Sarko? L’affaire pakistana inguaia le President”.
Il Giornale continua ad occuparsi di Fini: “Un milione alla ‘suocera’ di Fini. La madre della compagna del presidente della Camera a capo di una società che da settembre produce parte di una trasmissione: share modesto, cachet molto meno. Intanto Berlusconi liquida l’ex l’eader di An: è isolato”. In alto il tracollo della Grecia (“l’Europa trema. I bond di Atene declassati a ‘spazzatura’. Giù anche il Portogallo: borse in picchiata”).
L’apertura internazionale del Foglio è per i democratici in Giappone e negli Usa: “Ansia democratica”. “Il Piddì giapponese succube degli scandali affossa il suo premier. Ozawa, padre padrone del partito, rischia il processo per fondi illegali. Con sé trascina il governo di Hatoyama. Le elezioni a luglio”. E per quel che riguarda Washington: il capo dei senatori democratici affretta per la riforma di Wall Street ma l’ostinazione ha un prezzo. Ci si riferisce al capo dei Democratici al Senato, Harry Reid: non vuole sottostare al diktat dei Conservatori, ormai tentati di votare no su qualsiasi tema (dalla riforma di Wall Street alla riforma dell’immigrazione, a quella del clima).
Sulla politica italiana, capitolo “Se il Pdl non implode”: “Chi sono e cosa pensano gli affiliati al partito che puntava sulla crisi”, “Repubblica aveva invocato il Cln anti-Cav. Bersani ci è cascato, Rutelli e Casini quasi. Ma il premier e Fini li stanno deludendo”. Sulla prima pagina, con copyright National Review: “Dal suo carcere in Florida, Conrad Black denuncia il business dei diritti umani: Amnesty International e Human right watch. Ma ce n’è anche per i Nobel people e altri eccentrici della combriccola liberal”.
Grecia
Su La Repubblica intervista all’economista francese Jean Paul Fitoussi, secondo cui “questa crisi rappresenta una incredibile prova di inadeguatezza delle strutture comunitarie, l’ambizioso disegno europeo non ha retto alla prova più difficile”. Dice Fitoussi: “Le agenzie di rating si accaniscono contro la Grecia? Ma che coraggio! Proprio loro che hanno mandato in rovina il mondo”. Standard & Poor e Moody’s portano sulle loro spalle la responsabilità del collasso della finanza che è stato l’inizio e la causa di tutta la crisi. Sulla Germania segnaliamo l’intervento di Andrea Romano su Il Sole 24 Ore, secondo cui il trauma che torna a farsi sentire nella percezione di tanti tedeschi è la perdita della sovranità monetaria, poiché la forza del Deutsche mark era stata il perno della rinascita della Germania occidentale. Inoltre “per la Germania la crisi greca equivale sul piano economico a quello che la guerra del Kosovo ha rappresentato sul piano della sicurezza. Oggi come allora, Berlino intende pesare in Europa per quello che può concretamente dare”; Romano ricorda infatti i tempi in cui il governo socialdemocratico decise di farsi parte attiva nella gestione dei conflitti balcanici, facendo tornare i soldati fuori dai confini tedeschi e dando così il segnale della ritrovata consapevolezza della Germania dei propri interessi nazionali.
Giustizia
Sul Corriere della Sera il “quirinalista” Marzio Breda spiega in un “dietro le quinte” il discorso del Presidente Napolitano ai 298 vincitori del concorso in magistratura. Gli intenti che lo muovono si potrebbero riassumere – scrive Breda – in una sorta di slogan: rendete la magistratura inattaccabile fino in fondo e toglierete alibi a chi la attacca (con il sottinteso: e aiuterete me a difendervi) riguadagnando credibilità e rispetto presso i cittadini. Un catalogo di comportamenti da evitare: non scivolare in “esposizioni mediatiche”, o nella pretesa di sentirsi “investiti di missioni impropre ed esorbitanti”, senza trascurare le “chiusure corporative” o i “gravi casi di inerzia”. Il Capo dello Stato ha censurato la smania di “atteggiamenti protagonistici e personalistici che possono offuscare e mettere in discussione l’imparzialità” della magistratura. Di qui deriva la “crisi di fiducia nel sistema giustizia”. Nel corso dell’incontro Napolitano ha citato come esempio per i giovani il giudice Guido Galli, ucciso da Prima Linea nel 1980, e attraverso di lui “un patrimonio di uomini che nessuna ombra, nessuna caduta, nessuna contestazione può cancellare o svilire”. In questo contesto va letta la sottolineatura di quello che ha definito un “clima di ingiusta delegittimazione” nei confronti della magistratura.
Il Sole 24 Ore riassume così le parole del Capo dello Stato: “I giudici facciano autocritica”. “Napolitano: no a delegittimazioni, ma le toghe evitino esposizioni mediatiche”.
L’ufficio del Gip di Perugia ha dichiarato gli uffici giudiziari di Perugia incompetenti a decidere sulle nuove ipotesi di reato di associazione per delinquere e riciclaggio, respingendo la richiesta di custodia cautelare avanzata dalla Procura nelle scorse settimane per tre figure chiave dell’inchiesta corruzione e appalti pubblici: l’architetto del gruppo Anemone, Angelo Zampolini, del suo commercialista Stefano Gazzani e dell’ex commissario straordinario per i mondiali di nuoto Claudio Rinaldi. Secondo La Repubblica i primi due sarebbero “tasche” del costruttore Diego Anemone per dissimulare operazioni finanziarie che nascondono tangenti e che sarebbero servite a finanziare l’acquisto della abitazione del ministro Scajola. Scadono poi, contemporaneamente, i termini di custodia cautelare in carcere per l’ex funzionario dei Lavori Pubblici Balducci.
Dal Corriere della Sera la notizia dell’arresto per bancarotta dell’imprenditore Vincenzo Angelini, principale accusatore dell’ex governatore dell’Abruzzo Ottaviano del Turco: bancarotta fraudolenta, falso in bilancio, distrazione di denaro. Aveva un tesoro di opere d’arte, anche un Tiziano, i suoi dipendenti erano senza stipendio. La Stampa intervista lo stesso Del Turco: “Non riesco mai a gioire per l’arresto di qualcuno”. Del Turco fu incarcerato subito, Angelini è agli arresti domiciliari: “Io fui sbattuto in isoamento, con 4 turni di sorveglianza a vista, per alcuni giorni, mentre per Angelini sono stati disposti gli arresti domiciliari nella sua villa”.
Politica
Dopo le tensioni scaturite dalla Direzione del Pdl, il vicecapogruppo ex An Italo Bocchino ha annunciato le proprie dimissioni dal suo incarico. Il capogruppo è attualmente Fabrizio Cicchitto. Ieri mattina Bocchino ha presentato la lettera di dimissioni indirizzata a Cicchitto, ricordando che il regolamento lega il destino del presidente e del vicario (simul stabunt, simul cadent”). In più, racconta la Repubblica, Bocchino gli ha annunciato la propria candidatura a capogruppo, “per consentire alla minoranza di esercitare il suo ruolo”. Ma Cicchitto non si è fatto cogliere impreparat, poiché l’ufficio legislativo del gruppo gli ha predisposto un parere interpretativo dell’articolo 8 del regolamento interno con cui gli esperti Pdl scrivono che non bastano le dimissioni del vice per decretare la decadenza del capogruppo. Semmai è vero il contrario. Intanto anche il sottosegretario finiano Menia ha fatto sapere di esser pronto a candidarsi a capogruppo, in rotta con Bocchino, a lui da tempo inviso.
La Stampa: “Pdl, caos sul capogruppo. Bocchino lascia e attacca. ‘Se cado io cade anche Cicchitto’. La replica: c’è altro da fare”. Nel retroscena si sottolinea quale sia il vero obiettivo di Italo Bocchino: giocando d’anticipo cerca un riconoscimento dello status di minoranza interna.
Esteri
Su tutti i quotidiani le foto del Parlamento ucraino e della rissa scatenatasi ieri, allorché i deputati erano chiamati a gratificare l’accordo sottoscritto dal Presidente filorusso Yanukovich con la Russia: prevede uno sconto sul prezzo del gas del 30 per cento in cambio del prolungamento dell’affitto per la base navale di Sebastopoli, dove staziona la flotta russa, per altri 25 anni dalla scadenza del 2017, cioè fino al 2042. Lanci di uova, fumogeni, colluttazioni, mentre il presidente del Parlamento veniva protetto con degli ombrelli. L’Ucraina ha ottenuto 100 milioni di dollari all’anno per l’affitto della base. E questo – sottolinea LA Stampa – ha fornito l’occasione per una differenziazione tra il Presidente Medvedev e il primo ministro Putin. Medvedev: il prezzo è “alto, ma non impossibile”. Putin: per questa somma sarei disposto anche a mangiarmi Yanukovich, nessuna base militare può costare tanto.
E poi
In Bassa Sassonia ha assunto ieri l’incarico di ministo del welfare la tedesca di origine turca, Aygul Ozkan, musulmana. Lo scrive il Corriere delle Sera.
Su La Stampa l’ex commissario britannico per le relazioni esterne Patten si occupa delle elezioni in Gran Bretagna: “Alla fine Cameron vincerà, l’impresa sarà governare”.
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Gli affreschi della Sala Morone ai raggi infrarossi, 21.04.2010
All’Università di Verona è stata presentata una strumentazione innovativa per l’analisi diagnostica dei dipinti murali
Studiare un affresco disponendo degli strumenti adeguati fornisce indicazioni sulla tecnica usata e sulla migliore strategia di conservazione dell’opera. Per riuscirci meglio, da oggi, il Laboratorio di analisi diagnostiche non invasive per le opere d’arte antica, moderna e contemporanea (Laniac) dell’Università di Verona ha un nuovo strumento: uno spettroscopio a infrarossi specificamente progettato per l’applicazione ai beni culturali. I ricercatori veneti lo stanno usando per studiare gli affreschi cinquecenteschi della Sala Morone, nel convento di San Bernardino a Verona, nell’ambito di un progetto dei Musei Civici e della Soprintendenza di Verona e coordinato dalla professoressa Monica Molteni, docente di Storia delle Tecniche Artistiche e del Restauro.
“Si tratta di una delle prime applicazioni al mondo di tale strumento, che si auspica possa arrivare a definire quali parti dei dipinti murali sono dipinte davvero a fresco oppure a secco, con significative implicazioni sulla futura conservazione”, spiega Loredana Olivato, direttrice del Laniac.
Due sono le caratteristiche più rilevanti del nuovo spettroscopio a infrarossi: la notevole compattezza e la capacità di fornire diagnosi attraverso analisi completamente non invasive per il dipinto studiato. Ciò significa che, senza bisogno di alcun prelievo di campioni, è sufficiente “puntare” il piccolo spettroscopio verso la parete interessata per ottenere in pochi minuti tutti i dati relativi ai composti chimici presenti nei pigmenti usati dagli artisti.
Come spiega Francesca Monti, fisica e docente presso l’Università di Verona, lo spettroscopio emette un fascio di radiazione infrarossa che colpisce il dipinto e si riflette su di esso; la radiazione riflessa viene raccolta dallo strumento e rivelata. Quello che si ottiene è uno spettro di assorbimento relativo esclusivamente alla radiazione non assorbita, ma respinta, dalle molecole di pigmento presenti nel dipinto. L’analisi dello spettro ottenuto permette quindi di riconoscere i gruppi molecolari presenti nell’area affrescata considerata.
Quello con il nuovo strumento, non è l’unico tipo di studio previsto per il progetto “Sala Morone”. Altri esami hanno già dato alcuni importanti risultati. Una prima campagna di analisi diagnostiche, infatti, ha evidenziato il metodo di riporto del disegno sull’intonaco e ha permesso di identificare le diverse “giornate” di esecuzione degli affreschi. Inoltre, un’analisi ai raggi X ha permesso di datare l’opera e riconoscere alcuni interventi di restauro avvenuti nel passato. Il nuovo spettroscopio potrebbe adesso aprire la strada a un approccio nuovo alla diagnostica per le opere d’arte, con strumenti portatili e compatti che mantengono ottime prestazioni. (g.d.)
Riferimento: Università di Verona
http://www.galileonet.it/news/12641/gli-affreschi-della-sala-morone-ai-raggi-infrarossi
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Europa unita contro l’Alzheimer, 20.04.2010
L’Eu finanzierà con due miliardi di euro la prima strategia congiunta per lo studio delle malattie neurodegenerative
I paesi europei faranno fronte comune contro il morbo di Alzheimer e le altre malattie neurodegenerative. È questo il messaggio che arriva da Stoccolma, dove a metà aprile si sono riuniti i rappresentanti dei principali istituti di ricerca che studiano queste patologie, con lo scopo di dar vita al primo Programma Congiunto sulle Malattie Neurodegenerative (Joint Programming Initiative on combating Neurodegenerative Diseases, Jpnd).
L’iniziativa, promossa da 24 nazioni, dovrebbe accelerare la comprensione dei processi alla base di questi disturbi al fine di sviluppare nuovi metodi per la diagnosi precoce, aprire la strada a trattamenti per la cura e la prevenzione, e aiutare nella pianificazione di un’assistenza sanitaria e sociale efficiente. L’Europa contribuirà al programma con circa due miliardi di euro, che si aggiungono ai quasi 160 milioni già stanziati per finanziare progetti sulle malattie neurodegenerative nell’ambito del VII Programma Quadro (FP7).
Secondo Máire Geoghegan-Quinn, commissario europeo per la Ricerca, l’Innovazione e la Scienza, il Jpnd è il primo esempio di programmazione comune dell’Unione Europea per affrontare nel modo più efficace possibile le grandi sfide sanitarie, sociali, tecnologiche e ambientali, evitando di duplicare gli sforzi. Collaborare a una strategia di ricerca unitaria, infatti, dovrebbe facilitare gli stati dell’Eu a condividere le risorse, contribuendo così anche a raggiungere gli obbiettivi di Europa 2020, la strategia promossa per preparare l’economia europea del prossimo decennio.
Al programma partecipano anche diversi ricercatori italiani, alcuni dei quali sono coinvolti in ruoli decisionali come Adriana Maggi, direttrice del Centro di Eccellenza per le Malattie Neurodegenerative dell’Università di Milano e membro del consiglio esecutivo del Jpnd. Nel comitato scientifico del network troviamo anche Stefano Cappa dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e Laura Fratiglioni, attualmente presso il Karolinska Institutet di Stoccolma.
Le malattie neurodegenerative sono strettamente legate all’età e stanno interessando sempre più persone con il progressivo invecchiamento della popolazione. Oggi circa il 16 per cento dei cittadini europei ha più di 65 anni, ma si stima che nel 2030 questa fascia di popolazione rappresenterà il 25 per cento. Al momento, i mezzi impiegati per trattare queste patologie sono piuttosto limitati e sono rivolti ai sintomi più che alle cause. Gestire le conseguenze dei morbi di Alzheimer o di Parkinson, inoltre, è piuttosto costoso perché queste patologie portano alla disabilità e si protraggono per svariati anni. (m.r.)
http://www.galileonet.it/news/12640/europa-unita-contro-lalzheimer
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 29.04.2010
Le aperture
“Spagna declassata, giù i mercati” è il titolo di apertura del Corriere della Sera, che aggiunge nel sottotitolo: “Sì di Berlino agli aiuti per la Grecia. L’Euro scivola ai minimi”.. “Telefonata Obama Merkel, azione risoluta. Tremonti da Berlusconi e Napolitano: decreto per Atene”.
A centro pagina: “Ancora tensione Berlusconi-Fini. Rissa alla Camera nel Pdl. Oggi la sfida sulle dimissioni di Bocchino”. In evidenza anche una intervista a Massimo D’Alema: “L’ex leader di An è un interlocutore”, e “non credo che in questa legislatura si faranno le riforme, anche se le vorremmo”. A fondo pagina l’inchiesta di Perugia: “Così fu comprata la casa per Scajola”. Si tratta di carte dei pm di Perugia che rivelerebbero come il costruttore Anemone comprò alcuni appartamenti poi intestati al ministro.
Il Sole 24 Ore: “Piano da 120 miliardi per Atene. Merkel: sì ai primi aiuti. S&P declassa anche la Spagna. Borse ancora pesanti (Milano -2,31%), Wall Street tiene. Euro ai minimi. Strauss Kahn e Trichet a Berlino”. A centro pagina una grande foto: “Obama va in pressing e al Senato arriva il primo accordo” sulla riforma finanziaria. I repubblicani hanno cessato l’ostruzionismo. In prima anche la notizia che ieri il governo è stato battuto su un emendamento sul ddl sul lavoro: “Assenti 95 deputati Pdl. Governo battuto sull’arbitrato nel lavoro. Passa modifica Pd. Tensione alla Camera”.
La Repubblica: “Cade anche la Spagna, trema l’Euro. Declassato il debito. Atene accusa la Germania: vuole affossarci. Nuove tensioni sulle Borse. Il Fondo Monetario: alla Grecia servono almeno 130 miliardi. Berlino apre uno spiraglio sul prestito”. A centro pagina: “Pdl, Fini rilancia la sfida del premier. ‘Non divorzio, chiedo rispetto’. Lavoro, governo battuto”.
La Stampa: “Aiuti alla Grecia, sì di Berlino. LA Germania raccoglie gli appelli. Obama chiama la Merkel. ‘Azione decisa per Atene’. Declassata anche la Spagna”. In prima anche un richiamo ad una intervista al ministro degli esteri spagnolo Moratinos (la Spagna è presidente di turno della Ue): “Il salvataggio, scelta obbligata”. A centro pagina la politica italiana (“Fini-Berlusconi, riesplode la lite”), una fotonotizia sull’attacco ad una ong pacifista in Messico: “Attaccato un gruppo di pacifisti, cinque morti”, oltre all’italiano rapito.
Il Foglio: “Perché anche Berluino fa un primo passo verso la Grecia in panne. Pressing Bce-Fmi. Per la Merkel ‘Atene non sarà un’altra Lehman. S&P taglia il rating della Spagna. Rischio ‘spazzatura’ in Bce”. In prima anche la politica interna: “Pdl tra pace e baruffa. Così le terze linee guastano il lavoro dei (pochi) pontieri. Ogg il dimissionamento di Bocchini. Fini e il Cav: ancora lontani”. Di spalla la politica internazionale: “Obama usa il metodo Bush per il suo primo processo di Guantanamo. Ieri si è aperta l’udienza presso una corte militare speciale. I procuratori offrono il patteggiamento, la difesa rifiuta”.
Il Giornale torna sul “contratto Rai della ‘suocera’” del Presidente della Camera: “Fini non smentisce e ci insulta. Il Presidente della Camera minaccia ritorsioni, parla di giornalismo di m…, perché abbiamo raccontato come la Tv di Stato usa 1,5 milioni di (nostri) Euro. Politici solidali con lui. Informazione falsa? No, verissima. Però ci attaccano”.
Di spalla la crisi: “Dopo la Grecia ora l’allarme arriva in Spagna”.
Libero: “Il piano di Fini contro il Pdl. Gole profonde. I fedelissimi svelano tutte le mosse del presidente della Camera per disfare il partito a Silvio e andare con Casini e Rutelli a fare la nuova Balena Bianca”. A centro pagina: “Salvata la Grecia, chi salva i risparmiatori? Arrivano i soldi tedeschi. Speculatori all’attacco della Spagna”.
Il Riformista: “Fini mondo nel Pdl. Il governo va sotto e partono le accuse per i finiani assenti. Bagarre a Montecitorio. L’esecutivo battuto sull’arbitrato per un solo voto. Rissa verbale nella maggioranza. Caso Bocchino, Berlusconi: ‘Fatelo fuori’. Il Presidente della Camera: ‘No ad epurazioni’”. Di spalla un articolo di Peppino Caldarola sulla inchiesta di Perugia: “Il sospetto che i Pm facciano troppa ammuina. Che succede a Perugia?”. In prima pagina anche un articolo sull’Iraq: “Il caos iracheno complica l’addio Usa”.
Grecia
Secondo l’analisi di Federico Rampini, su La Repubblica, “soffiano sul fuoco dell’europanico le grandi banche di Wall Street”.
L’editoriale del Corriere della Sera, firmato da Francesco Giavazzi, è titolato “Torpori e colpe”. “Per quattro mesi i governanti europei si sono illusi che bastassero pe larople per convincere gli investitori a sottoscrivere i titoli di Atene”, e non hanno “avuto il coraggio di dare una risposta politica forte alla crisi”. Le bugie dei governanti europei “hanno fatto perdere quattro mese ma non hanno cambiato la realtà”; anzi, l’hanno resa più difficile. Giavazzi torna a chiedere invece di far ripartire la crescita, e quindi: “non andare in pensione a 60 anni, non proteggere le rendite di qualche corporazione potente che opprime i cittadini, aprire i mercat alla concorrenza per creare più occasioni di crescita alle imprese. Non mi sembrano le priorità del nostro governo”.
Luigi Spaventa, su La Repubblica: “Si ragioni freddamente, senza fare appello alla solidarietà tra i popoli europei”, dice l’economista. Secondo Spaventa tra le due ipotesi in ballo – “lasciare la Grecia al suo destino oppure organizzare una operazione di soccorso con il contributo del paziente” – la Germania, che l’Europa pare costretta a seguire, ha seguito una terza strada, un “sì privo di convinzione all’assistenza che tuttavia viene rinviato in attesa di eventi elettorali”.
Su Il Giornale Francesco Forte (“Bisogna lasciare che Atene fallisca”) scrive che sarebbe sbagliata la tesi di chi pensa che un fallimento della Grecia trascinerebbe l’Europa con sé. “Il salvataggio del Paese è l’ennesimo soccorso alle banche che hanno comprato il suo debito”.
Alla Grecia sono anche dedicate due pagine di R2 Diario de La Repubblica: “Grecia, il dramma ellenico e l’Europa spezzata”, di Lucio Caracciolo. E poi una analisi sulla “debole democrazia” di Atene, “vista “l’invadenza dei partiti e a corruzione pubblica”.
Per il premio Nobel Nouriel Roubini, invece, “Salvare la Grecia è uno spreco di risorse pubbliche”, poiché non c’è “un problema di liquidità, bensì di insolvenza”: ne parla Il Sole 24 Ore. In assenza delle riforme strutturali necessarie per ottenere la convergenza fiscale dei Paesi dell’Unione, la Grecia ha consentito che i salari salissero negli ultimi dieci anni molto più rapidamente della produttività, con conseguente aumento del deficit delle partite correnti, giunto ormai al dieci per cento del Pil: servirebbe per Roubini “un periodo di deflazione (salari e prezzi in discesa) che potrebbe durare cinque anni, un’opzione politicamente inaccettabile. Insomma, una mission impossible”. L’unica via d’uscita secondo Roubini è impiegare le risorse pubbliche per ristrutturare il debito greco e “pilotare la sua uscita dalla Ue”.
Su La Repubblica una intervista a Jacques Attali, politologo, che propone di riscrivere il trattato di Maastricht con criteri di bilancio più vincolanti. Se i governi non faranno un ministero delle finanze comune, nessuna moneta unica potrà mai sopravvivere.
Politica
Intervistato da Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera Massimo D’Alema commenta lo scontro Berlusconi-Fini: “Ci sono in campo du visioni diverse non solo del ruolo che deve avere la destra in Italia ma anche come deve funzionare il sistema politico”. E poi: “Fini mette in discussione il tipo di bipolarismo che si è costruito in questo Paese e che è fondato sulla contrapposizione esasperata. Al di là del fatto che poi, ogni tanto, chiede strumentalmente il dialogo, Berlusconi ha costruito tutte le sue fortune sulla logica dello scontro”. Ma “Fini non è diventato di sinistra, e non è l’alleato di operazioni strumentali, ma è l’interlocutore importante – e per questo dialogo con lui da anni – di un centrosinistra che capisce che il Paese non si può governare in questo modo, altrimenti non saremo capaci di affrontare i problemi di fondo”. Quanto al suo partito, dovrebbe scegliere il candidato premier con le primarie, “ma devono essere accettate da tutti, non possono essere imposte da un solo partito o da una parte della coalizione”.
La Stampa scrive che sta scattando “l’operazione Nichi”: il governatore della Puglia avrebbe iniziato la volata per le primarie che il centrosinistra dovrebbe svolgere nel 2012 per scegliere il proprio leader alle elezioni politiche. Della squadra farebbero parte anche Luigi De Magistris, Michele Santoro (“indaffaratissimo a far lievitare l’operazione”) e Ignazio Marino.
Sulle pagine de Il Foglio una lunga intervista al responsabile del settore economia e lavoro del Pd, Stefano Fassina, sotto il titolo: “Caro Berlusconi, giù le tasse. La spesa pubblica? Da tagliare. Il fisco? Da rivoluzionare. Il federalismo? Da approvare”. Ha ragione Carlo de Benedetti quando dice che abbassare le imposte è fondamentale per tornare a far crescere il Paese.
Katyn
Su Il Sole 24 Ore la corrispondenza da Mosca racconta la decisione del Presidente Medvedev di mettere online le prove dell’eccidio di Katyn. Ci si riferisce a 7 documenti, tra i quali la lettera scritta da Beria nel 1940, in cui il capo della polizia segreta di Stalin propone la pena capitale per i prigionieri di guerra polacchi. Sulla proposta, in inchiostro blu, Stalin scrisse “Za”, ovvero favorevole. E poi il proprio nome, seguito dalle firme degli altri membri del Politburo. Scrive Il Sole che di 183 volumi di documenti, 116 sono ancora tenuti segreti. Medvedev ha promesso che alla pubblicazione di ieri ne seguiranno altre. In attesa delle grandi celebrazioni del 9 maggio per il 65° anniversario della vittoria, il Cremlino enfatizza così il distacco da Stalin per non macchiare il ruolo dell’Urss nella sconfitta sul nazifascismo.
Su La Stampa si scrive anche che il server dell’archivio di Stato russo che ha reso disponibile online i documenti sulla strage è stato mandato in tilt da due milioni di visitatori. La decisione di Medvedev, motivata dalla dichiarazione secondo cui “la Russia non ha nulla da nascondere” ed è “un dovere” compiere questo gesto, viene contrapposta a quello che fu l’attegiamento di Vladimir Putin che, da Presidente, decise di secretare 116 faldoni su 183 del dossier Katyn, e contemporaneamente i tribunali russi respinsero la richiesta di considerare genocidio la strage dei polacchi. Sulla stessa pagina una analisi di Enzo Bettiza, per cui il gesto di Mosca è una scelta “tra simbolismo e realpolitik”: E’ la “diplomazia del rimorso” la nuova linea di Mosca. Con l’Ucraina usa l’energia, con la Polonia riscrive il passato. Così il Cremlino punta ad allargare la sua influenza ad est. Ricorda Bettiza che i due terzi dei faldoni contenenti “come in un racconto metafisico di Borges, tutti i nomi dei carnefici e delle vittime, non sono stati ancora ‘declassificati’. Gran parte resta ancora blindata negli archivi della polizia segreta in Bielorussia che, per quanto satellizzata, non è più Russia”.
Una analisi di Giovanni Belardelli compare invece sul Corriere della Sera: “Adesso anche i russi sapranno dello sterminio (ma ci sono ancora segreti)”. Si ricostruisce anche l’impegno che i vertici sovietici misero, durante e dopo l’epoca di Stalin, nel compiere una opera di falsificazioni che forse non ha l’eguale nella storia contemporanea, attribuendo il massacro ai nazisti. Un’opera di falsificazione in cui venne inzialmente coinvolto lo stesso Gorbaciov, poiché sul finire degli anni 80 dichiarò che i documenti su Katyn non erano stati ritrovati ancora negli archivi sovietici. Scomparsa l’Urss, nel 2004, ai tempi della presidenza Putin, la procura militare della Federazione russa pose il segreto di Stato su una parte dei documenti relativi a Katyn: gli stessi che oggi continuano a restare segreti. Questo “riduce forse l’importanza della decisione” di Medvedev, “ma non la annulla affatto”.
E poi (Regno Unito, Iraq, 1 maggio)
Tutti i giornali raccontano della piccola “gaffe” di Gordon Brown, che ieri ha brevemente parlato con una elettrice che rimproverava ai labour che in Gran Bretagna ci sono troppi stranieri dell’est. Brown, entrando in macchina con un microfono di una tv, ha commentato definendo “fanatica” la signora. “Il premier costretto a scusarsi”, scrive il Corriere della Sera.
Stasera – scrive La Repubblica – Brown sperava di giocarsi tutto nel terzo dibattito tv. Ma con il liberal-democratico Clegg, che si dice “pronto a fare il primo ministro”, e il conservatore David Cameron, che risale nei sondaggi (36 per cento per lui, 28 per Clegg, 27 per Brown) il “disastro” di una singola gaffe potrebbe risultare rovinoso per il premier.
Secondo Bill Emmott, già direttore de L’Economist, intervistato da Il Riformista, il Regno del futuro sarà proporzionale: il paradosso è che Nick Clegg, l’uomo simbolo dell’innovazione, sarà portatore di un sistema elettorale – quello proporzionale – che in futuro toglierà agli elettori la possibilità di ricorrere a una alternanza, e dunque a un cambiamento radicale sugli scranni del governo, cui da sempre siamo abituati. Nel prossimo futuro il Regno Unito farà l’esperienza di una rappresentatività basata sulla politica della coalizione. Bill Emmott respinge le accuse a Blair di aver distrutto la socialdemocrazia e i suoi principi: “Nonostante l’iniquità continuasse a crescere durante il governo Blair, c’era un forte sentire comune che il tasso di povertà si stesse riducendo e che le opportunità fossero in espansione”. Questa percezione nasceva dall’approvazione di alcune riforme come l’introduzione del minimo salariale, che fu “una mossa del labour ispirata ai più puri principi socialdemocratici”, così come l’assistenza e le agevolazioni economiche alle famiglie con bambini, le politiche di credito fiscale per le classi meno abbienti, e i sostanziali investimenti nella sanità pubblica.
Per restare al Riformista, da segnalare un articolo sul “caos iracheno”: il leader della coalizione uscita vincente dalle legislative, Allawi, chiede ormai elezioni-bis, dopo le contestazioni al voto. Chiede la formazione di un governo ad interim capace di traghettare il Paese a nuove elezioni, sotto il controllo delle Nazioni Unite, dell’Unione europea e della Lega araba.
Su La Repubblica, in prima pagina, è Adriano Sofri ad affrontare il tema relativo alle decisioni in alcune città di tenere chiusi i negozi il primo maggio. Il titolo è più che esplicito: “Se il primo maggio diventa la festa del consumo”.
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Grecia, se la politica resta prigioniera della finanza, 28.04.2010
crisi, debito, Europa di Mario Pianta
Le proporzioni della crisi greca sono modeste in rapporto all’economia europea. Ma i tempi della finanza non coincidono con quelli della politica: in attesa delle elezioni tedesche, si è aperta una finestra speculativa “perfetta” per rovinare un paese e contagiare gli altri. Mentre l’Europa non riesce a liberarsi dall’ideologia che ha portato alla grande recessione
Si può guardare alla crisi finanziaria che investe in questi giorni la Grecia da almeno tre punti di vista diversi.
1. Un’evidente ignoranza delle (modeste) dimensioni del problema. La Grecia ha un Prodotto interno lordo (Pil) di 235 miliardi di euro nel 2009, che vale meno del 2% del totale dell’Unione europea e il 2,5% dell’area euro. Ha meno dell’1 per cento della produzione manifatturiera dell’Unione e un Pil procapite di 21 mila euro l’anno, contro 29 mila in Germania. Il debito pubblico totale è intorno ai 250 miliardi di euro, che lo porta al 115% del Pil, la stessa quota dell’Italia nel 2009. Il deficit pubblico si è impennato e nel 2010 potrebbe arrivare al 15% del Pil. Atene (e Roma) sono però in buona compagnia: l’ultimo World economic outlook del Fondo monetario mostra che l’insieme dei paesi avanzati (Usa inclusi) ha nel 2010 un rapporto deficit/Pil del 9% (contro poco più dell’1% prima della crisi del 2008) e un rapporto debito/Pil che è salito rapidamente al 100%. Gli effetti della crisi hanno fatto saltare ovunque i conti pubblici.
Il problema specifico della Grecia sta nell’assenza di risparmio privato interno che possa finanziare il debito pubblico. Quasi tutto il debito pubblico è detenuto dall’estero, circa 200 miliardi di euro, nelle mani soprattutto di investitori di Germania, Francia, Svizzera, Austria. Gli operatori privati hanno invece un sostanziale pareggio tra attività e passività con l’estero (intorno ai 112 miliardi di euro). Viceversa, l’Italia ha un debito pubblico verso l’estero di 800 miliardi di euro (quattro volte la Grecia), che rappresenta però circa la metà del debito pubblico totale, il resto è detenuto da italiani.
Dei 200 miliardi di euro di debito estero della Grecia, a breve (il 19 maggio prossimo) vengono a scadenza 9 miliardi di euro. Le dimensioni assolute della crisi risultano quindi modeste; rapportato all’economia italiana, è come se un comune come Torino non potesse pagare i debiti. Rapportato alle dimensioni dei mercati finanziari, i 9 miliardi di euro di debito in scadenza per Atene sono equivalenti a quanto le borse europee finanziano le imprese per emissioni di nuovi titoli in dieci giorni (considerando la media del febbraio 2010), e rappresentano poco più dell’1% dei movimenti di capitale in entrata nell’area euro del 2008 (dati dal Global financial stability report del Fondo monetario, aprile 2010). In ogni caso, l’Unione europea e il Fondo monetario hanno preparato un piano di finanziamenti agevolati di 45 miliardi di euro che potrebbe risolvere le difficoltà di Atene.
2. Una spettacolare asimmetria tra ciclo politico e ciclo economico
Il problema è che i tempi della finanza non coincidono con quelli della politica. L’Unione europea e l’eurozona non si sono date strutture per affrontare crisi di questo tipo e, senza un rapido sistema di decisione politica, la crisi greca è montata progressivamente nella distrazione dei politici: quando precipita, ci si trova alla vigilia delle elezioni regionali tedesche, che impongono al governo di Berlino una certa rigidità (più nella forma che nella sostanza) e – soprattutto – il rinvio della decisione sul finanziamento europeo al 10 maggio, dopo le elezioni. Si apre così una finestra speculativa “perfetta”, alimentata da un susseguirsi di dichiarazioni allarmiste e di vendite dei titoli greci sui mercati che alimentano in un circolo vizioso le aspettative di crisi finanziaria per Atene e per l’euro. Le voci discordi, i silenzi e i rinvii delle autorità politiche aggravano la spirale e martedi scorso Standard&Poor classifica i titoli di debito pubblico greco come “spazzatura”. Soltanto Paul Krugman, dalle colonne del New York Times, risponde con una durissima critica alla mancanza di credibilità delle agenzie di rating.
Proprio mentre Goldman Sachs è sotto inchiesta negli Stati uniti per la speculazione al ribasso sui mutui immobiliari che ha contribuito al crollo della finanza Usa, speculare contro i paesi “fragili” sul piano finanziario diventa una ghiotta occasione per nuovi profitti speculativi che possano risollevare un po’ i bilanci delle banche provate dalla crisi. La finanza inizia a guadagnare chiedendo tassi d’interesse più alti – per comprare i titoli di stato decennaili di Atene si chiede ora un rendimento di 7 punti percentuali più alto dei Bot tedeschi (due mesi fa era di quattro punti) -, scommette sul deprezzamento del valore dei titoli pubblici e addirittura sull’insolvibilità del governo di Atene, una replica della crisi argentina di qualche anno fa. A farne le spese – se non ci sarà un risveglio della politica – sono la Grecia oggi, domani Portogallo, Spagna e Irlanda, dopodomani l’Italia.
3. Uno strano braccio di ferro tra mercati finanziari e potere politico
Tutto questo si può leggere come un braccio di ferro tra i mercati finanziari e un potere politico frammentato tra Bruxelles, Francoforte, Washington, Berlino e poche altre capitali europee – non può non colpire l’assoluto silenzio di Roma. Mentre negli Usa il presidente Obama lancia la sua campagna per regolare e ridimensionare la finanza, l’Unione europea e l’eurozona – a un anno e mezzo dallo scoppio della crisi finanziaria – non parlano ancora di riforme per controllare il sistema finanziario. Colpita dalla crisi, ma salvata dai governi – ricordiamoci le nazionalizzazioni massicce delle banche di Gran Bretagna, Germania, Irlanda, Islanda e molti altri paesi, che sono alla radice dell’aumento dei deficit pubblici – la finanza ora addenta la mano pubblica che l’aveva sottratta al fallimento.
Il problema è che i governi – spesso nelle varianti sia di centro-destra che di centro-sinistra -, i politici, i responsabili delle autorità di controllo sono in molti casi gli stessi che avevano cavalcato la liberalizzazione della finanza e consentito la speculazione. Continuano a credere che sia bene lasciare i mercati di finanza e monete senza vincoli e tasse, sanno che i consigli di ammistrazione accolgono volentieri ex ministri e banchieri centrali e, in molti casi, provengono essi stessi da esperienze nelle banche d’investimento internazionali. La politica, insomma – nonostante il conto pesantissimo pagato alla crisi – sembra incapace di pensare ad assetti diversi dei rapporti tra bene comune e interessi privati, finanza ed economia reale, capitale e lavoro. Sembra ancora prigioniera della visione del mondo neoliberista e, a quanto pare, non se ne sono liberati nemmeno gli elettori dei paesi europei: il 6 maggio in Gran Bretagna a raccogliere più voti potrebbero essere i conservatori di David Cameron che promettono di ridurre subito l’intervento dello stato nell’economia.
Altri aspetti della crisi greca erano già stati analizzati mesi fa su sbilanciamoci.info in un articolo di Laura Bisio (Crisi del debito: oggi Atene, domani Roma?) e di Alberto Bagnai (Anche l’Europa ha i suoi stati subprime). Lezioni ulteriori di grande importanza riguardano i rapporti tra dinamiche dell’economia reale e squilibri finanziari, e l’ovvia questione di chi pagherà i costi della crisi. Per Atene, prima ci sono state le perdite di capacità produttiva, competitività e posti di lavoro, fino ad arrivare a essere il paese Ue che ha la quota più bassa di occupazione industriale. Ora arrivano i tagli per i dipendenti pubblici, i salari, i servizi, nell’impossibile tentativo di pareggiare i conti pubblici e di placare la speculazione creando povertà nel paese. Dall’esito della crisi di Atene si vedrà molto del futuro dell’Europa, e di quello che aspetta l’Italia.
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Lavoro: governo battuto, manca un terzo del Pdl
Frida Roy, 28.04.2010
Erano 95 gli assenti del Pdl e 11 quelli della Lega al momento del voto sull’emendamento del Pd al ddl lavoro che ha visto andare sotto il Governo per un voto alla Camera. Dopo la votazione e la sospensione dei lavori, si sono verificati in Transatlantico dei momenti di tensione tra esponenti del Pdl, con alcune accuse rivolte ai finiani, subito rispedite al mittente. Franceschini (Pd): cento assenze in Aula non sono mai un caso
Gianfranco Fini combatte Silvio Berlusconi con le sue stesse armi: la campagna mediatica culminata con l’intervista a “Porta a porta” è un modo di portare il confronto politico alla luce del sole, di rivolgersi direttamente all’opinione pubblica e dunque di sottrarsi alle alchimie di Palazzo.
Si capisce l’irritazione del Cavaliere per una strategia che sta trasformando il presidente della Camera in un vero e proprio concorrente politico, al di là del merito dei problemi: quando il capo della destra parla dei tanti che gli riconoscono il merito di essere l’unico ad “averle cantate” al premier, in fondo fa esattamente questa operazione. Anche con una certa abilità nel sottolineare che un grande partito democratico europeo oggi non si può permettere il lusso delle “epurazioni” né quello di una leadership carismatica che scivoli nel culto della personalità. “Governare è ascoltare, comandare è un’altra cosa”, sostiene Fini che non manca di contestare anche le critiche a Saviano o il fatto che solo oggi gli giunga la solidarietà del premier per gli attacchi de Il Giornale.
Il punto politico è tutto quì: Fini non accetta che il partito del quale è co-fondatore sia ridotto al ruolo di una ‘parentesi’ tra governo e Parlamento; anzi a suo avviso il Pdl deve essere il luogo della mediazione. Dunque è qui che si giocherà la vera partita, dal momento che il capo della destra non ha nessuna intenzione di “divorziare” da Berlusconi: non ne riconosce semplicemente l’infallibilità perché entrambi possono sbagliare e dunque chiede rispetto reciproco.
Si tratta di vedere quanto il Cavaliere possa accettare questo attacco che pone esplicitamente il problema del dissenso nei confronti del suo modo di condurre maggioranza e governo.
Un termometro importante sarà la riunione del gruppo del Pdl chiamato a discutere le dimissioni di Italo Bocchino: il capogruppo Cicchitto le vorrebbe accettare anche sull’onda dell’ invito del premier ad assumere decisioni rapide senza farsi logorare in una lunga guerriglia parlamentare. Ma secondo Fini ciò dimostrerebbe che il Pdl non è un partito liberale e che in realtà non c’è possibilità di critica.
La tensione interna è alle stelle e lo dimostrano le polemiche esplose dopo che il governo oggi è stato battuto in Aula alla Camera in una votazione importante sul ddl lavoro: i berlusconiani sospettano che alcune assenze dei finiani fossero calcolate, ma i tanti parlamentari mancati all’appello (oltre cento tra Pdl e Lega) non consentono automaticamente una deduzione di questo tipo.
L’oggetto della contesa è stato l’approvazione di un emendamento a firma di Cesare Damiano (Pd) che nella sua sostanza proponeva di sostituire all’espressione “dovessero insorgere” con “insorte” a proposito delle controversie nel rapporto di lavoro da risolvere con il ricorso all’arbitrato. Con una sola parola si è relegato il ricorso all’arbitrato soltanto alle controversie che sono già in atto tra un lavoratore e il suo datore di lavoro e non più quindi a controversie future.
Alle accuse in aula che in sostanza attribuivano la caduta della maggioranza ai ‘finiani’, è seguita una sospensione della seduta e il conseguente trasferimento nel Transatlantico delle polemiche molto vibrate tra fedelissimi di Berlusconi e ‘finiani’.
Giancarlo Lehner, deputato azzurro, se la prende con i ‘finiani’ e suscita la reazione di Antonio Lo Presti e Fabio Granata, due tra i parlamentari più vicini a Gianfranco Fini. Spiega Lehner: “Sono stato in qualche modo aggredito. Il caso ha voluto, non dico altro perché non voglio accendere gli animi, che tra gli assenti in aula ci fossero vari ‘finiani’. Mi sono limitato a chiedere ad alcuni amici che sono ex di An se questa fosse la prima imboscata… Mi hanno rassicurato, spiegandomi che si trattava del solito astensionismo”.
Lehner continua: “Quando poi sono uscito per un caffè alla buvette, sono stato aggredito da Lo Presti. Forse era già nervoso, perché risultava tra gli assenti in aula e si è scagliato contro di me. Io ho cercato di spiegargli che non l’ho mai citato e non capivo cosa volesse da me. Non siamo arrivati alle mani, c’è stato solo uno scambio forte di battute. A un certo punto si è aggiunto Granata che è stato minaccioso nei miei confronti”.
“Spero -sottolinea l’esponente del Pdl- che sia stato solo un incidente causato da nervosismo. Ma grazie a tutti questi assenti abbiamo fatto una figura barbina su un provvedimento importante sul lavoro, rinviato anche dal Quirinale…”
Pronta la replica di Granata che contesta le versione dei fatti di Lehner: “Non ho minacciato nessuno, perché sono una persona perbene”.
In realtà la battuta d’arresto della maggioranza è dovuta ai larghi vuoti che si sono registrati tra i banchi della maggioranza: 95 assenze compresi i deputati in missione nelle file del Pdl. Gli assenti ingiustificati sono risultati in 50. Vuoti anche nei banchi della Lega dove mancavano in 11: otto in missione e tre assenti.
L’emendamento Damiano è stato così approvato per un solo voto: 225 a favore e 224 i contrari.
Il relatore del Ddl Giuliano Cazzola, dopo avere ottenuto una sospensione per valutare gli effetti della modifica approvata, ha chiesto e ottenuto l’accantonamento dell’articolo a cui l’emendamento si è riferito. La questione relativa a questo articolo sarà ripresa domani.
Siparietti a parte, resta il dato che quasi 100 deputati assenti di maggioranza su una norma così importante non sono mai un caso.
Delle due l’una: se si tratta di “normale astensionismo”, come dichiarato a Lehner da alcuni colleghi Pdl ci sarebbe da indignarsi per uno stuolo di parlamentari sciattoni che invece di rappresentare i loro elettori si perdono nei corridoi del palazzo proprio quando si tratta di esprimesi su temi dei vitale importanza come il lavoro. E’ una lettura possibile, anzi probabile, visto anche il comportamento di ieri di alcuni esponenti della maggioranza tra cui l’onorevole Cota, governatore regionale del Piemonte che ha pensato bene di abbandonare l’aula proprio quando si trattava di votare il prolungamento della cassa integrazione per i lavoratori dell’Eutelia e della Phonex che da mesi attendono, senza stipendi, una mano tesa dalla politica.
Una seconda lettura però è più “interna” e parla di una maggioranza sempre più dilaniata e quindi, come spiega il capogruppo democrat alla Camera , “si comincia a vederne le conseguenze sul piano parlamentare”.
La maggioranza ci prova, certo, ma sembra avere difficoltà a mettere sotto pressione i finiani: il capo della destra ha escluso le sue dimissioni da presidente della Camera e garantisce di non volere elezioni anticipate. Su questo punto è in perfetta sintonia con Bossi il quale non vuole rinunciare all’attuazione del federalismo, la prima vittima di un eventuale ritorno alle urne. Non a caso il Carroccio ha smussato i toni nei suoi confronti. Del resto, si chiede Fini con una punta di malizia, come si potrebbe spiegare agli italiani un voto anticipato ora che esiste una maggioranza così vasta e reduce da una lunga striscia di vittorie?
Sandro Bondi dice che Fini svolge un ruolo anomalo e confonde il piano politico con quello istituzionale: dovrebbe scegliere tra i due corni senza fare perdere prestigio all’ istituzione che presiede. Ma si tratta di una controffensiva fragile: oggi nessuno può costringere Fini a lasciare la poltrona di Montecitorio e comunque, per ammissione dello stesso coordinatore del Pdl, i presidenti della Camera che si sono succeduti hanno sempre svolto un’azione politica incisiva, sia pure in direzione della massima unità delle forze politiche. Ma è quello che anche Fini rivendica di fare.
Dunque la palla torna al Cavaliere. Si vedranno nei prossimi giorni le sue contromisure ma un fatto è certo: tutto dovrà avvenire con una certa cautela perché l’Europa è nel pieno della crisi economica e perché la Lega stavolta esige un risultato vero sulle riforme.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14755
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L’industria della Difesa cinese, 27.04.2010
La Commissione degli Stati Uniti che si occupa delle relazioni commerciali ed economiche con la Cina anche sotto il profilo della sicurezza nazionale, ha scritto con una certa preoccupazione nell’ultimo rapporto 2009 http://www.uscc.gov/annual_report/2009/annual_report_full_09.pdf , che in questa crisi globale gli USA si presentano come il più grande debitore del mondo (grandi spendaccioni) e la Cina come il più grande supporto del loro debito (grandi risparmiatori).
La Cina non è più solo il paese che fornisce manodopera a buon mercato (senza capacità di negoziazione collettiva) ma punta a far maturare le proprie aziende fornitrici e assemblatrici di prodotti a tecnologia avanzata e a sostenere le industrie strategiche.
Le stesse aziende americane che si sono collocate in Cina svolgono in loco la loro ricerca, lo sviluppo e l’innovazione. Spesso queste attività contengono interessi che riguardano la sicurezza degli Stati Uniti d’America. Sono industrie che includono la tecnologia dell’informazione, l’ottica, le macchine utensili e l’energia rinnovabile.
Il Rapporto fa naturalmente riferimento all’ammodernamento dell’apparato militare cinese e al PLA (Armata popolare di liberazione), alle attività di spionaggio industriale e a quelle cyber che designano gli Stati Uniti come bersaglio.
Sul fronte militare anche se la Cina è stata riluttante ad intervenire in Afghanistan e nel Pakistan, non smette di esercitare una fortissima influenza su quest’ultimo (per il desiderio reciproco di equilibrare l’India) e investe su larga scala in Afghanistan.
La Cina inoltre cerca di assicurarsi l’importazione di petrolio e gas in Asia, in Nigeria.
Per quanto riguarda le dispute territoriali con i paesi vicini tra cui il Giappone, India, Vietnam e Taiwan, la Cina afferma di voler continuare a mantenere una politica di sviluppo “pacifico” sebbene la spesa militare vari fra i 69,5 ai 150 miliardi di dollari (molto meno dei 636,3 miliardi di dollari degli USA e più dei 32,1 miliardi dell’India).
Le stesse frizioni con Taiwan hanno più a che fare con le crisi con gli Stati Uniti, Taiwan è un punto di disaccordo e luogo dove i due poteri potrebbero entrare in conflitto direttamente.
Per capire la rivisitazione della dottrina operativa cinese avviata insieme al processo di trasformazione tecnologico dello strumento militare, bisogna andare oltre il Report statunitense in questione e tornare ai tempi della prima Guerra del Golfo.
Se nel 1979 il leader cinese Deng Xiaoping decise che il rafforzamento dell’economia civile veniva prima di quello militare, la guerra del 1991 suona come campanello d’allarme per Pechino perchè vede uno scenario completamente cambiato.
Era diventato chiaro che la dottrina di Mao che prevedeva il logoramento di un invasore in profondità per poi sommergerlo con una superiorità numerica schiacciante (nel 1987 l’esercito contava 2,3 milioni di soldati affiancati da 50 milioni miliziani, numeri più o meno rimasti invariati ad oggi) non sarebbe più stata in grado di difendere la Cina nel 21° secolo.
I conflitti sono diventati locali, spostati al di fuori del territorio nazionale e caratterizzati da un uso di forze limitate in un contesto di alta tecnologia o informatizzazione.
La stessa PLA è stata affiancata dalla polizia armata del popolo, una forza paramilitare, per quanto concerne i compiti di sicurezza pubblica. Questa è soggetta a molte delle leggi e regolamenti militari rilasciati dal Governo centrale ma in gran parte è sotto il comando del Ministero della Pubblica Sicurezza. Quando vi sono disordini interni è lei ad essere chiamata per controllare la folla in funzione anti-sommossa. Dispone di una forza totale di circa 600.000 agenti che in caso di guerra devono sostenere la PLA.
Non c’è dubbio che la Cina è in costante costruzione della sua capacità di proiettare potenza al di là delle sue rive. Non ha basi oltremare ma ha interessi globali che portano le sue unità navali (si superficie e subacquee) in missioni antipirateria al largo della costa africana e mezzi per difendere le infrastrutture e investimenti, un pò come hanno fatto gli inglesi nel 1800.
Per la prima volta, verso la fine del 2008, la Cina ha inviato tre navi militari in funzione antipirateria pronte al combattimento con elicotteri e unità speciali, dimostrando così la sua capacità di mantenere una presenza per un tempo prolungato.
Nel 2007 lancia un missile che distrugge un satellite di comunicazione, 12 giorni dopo un portavoce del ministero degli Esteri afferma che il test non era una minaccia per altri paesi.
Sempre nel 2008, immagini satellitari rivelano che la Cina ha costruito una base sotterranea navale sull’isola meridionale di Hainan e quando gli USA annunciano una vendita di armi a Taiwan conducono un nuovo test anti-missile.
Contro Taiwan Pechino ha posizionato i suoi missili a medio raggio. Negli ultimi anni ha allargato il proprio arsenale e fabbricato una nuova generazione di sottomarini capaci di lanciare armi nucleari.
L’arsenale nucleare consiste di circa 100 missili a lungo raggio (per un totale di circa 500 testate nucleari, 176 dispiegate e un numero imprecisato di testate immagazzinate, circa 240,
dato del Bulletin of the Atomic Scientists) tuttavia sebbene si sia dotata di una flessibile forza nucleare, aderisce alla strategia di difesa nucleare. Ha dichiarato che non sarà mai la prima ad usare l’arma nucleare in qualsiasi momento e in qualsiasi circostanza.
http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704830404575199720063121034.html?mod=WSJ_hpp_MIDDLENexttoWhatsNewsForth
Commento di Yumin Hu, ricercatore cinese per il disarmo, a proposito del Trattato Start II.
Nuclear arms still locked and loaded
http://www.chinadaily.com.cn/opinion/2010-04/07/content_9693508.htm
La Russia è sempre stata la prima nazione esportatrice di armamento e tecnologia verso la Cina malgrado la rottura negli anni sessanta. L’esercitazione Peace Mission del 2005 ha dimostrato una convergenza di interessi. Lo scenario ha avuto come teatro la penisola di Shandong e si è svolto secondo un inquadramento teorico-dottrinale volto a raffinare dottrina e tattica delle due forze armate nelle operazioni antiterrorismo. L’intenzione non è stata semplicemente quella di una operazione di peace keeping, ma anche commerciale.
Dopo l’esercitazione la Cina ha acquistato aerei da trasporto e aviocisterne e ha chiesto alla Russia la disponibilità di bombardieri a raggio intermedio.
L’industria cinese ha accumulato conoscenze ed expertise russa a partire dall’accordo tra Russia e la Shenyang Aircraft Industry Company con la produzione su licenza di 200 Su-27 Sk, ma non solo, la politica industriale cinese non si limita più a copiare processi di produzione e tecnologie straniere (fabbrica del mondo) ma mostra di volersi emancipare gradualmente dalle tecnologie di importazione.
Durante una conferenza sino-americana sull’ingegneria, il vicepremier Zhang Dejiang ha dichiarato che “la Cina dà il benvenuto agli esperti stranieri affinché offrano consigli sullo sviluppo industriale e sull’innovazione tecnologica del Paese, aiutando le imprese cinesi a superare le difficoltà tecnologiche” ma nel contempo il budget cinese in Ricerca & Sviluppo è cresciuto enormemente, nel 2008 è stato di 67,7 miliardi di cui il 73,3% proveniente dall’industria e il resto dai laboratori statali e dalle università.
Fino al 2010 sono previsti finanziamenti equivalenti al 2,5% del Pil ponendo di fatto la Cina dietro USA e Giappone. Per quanto riguarda i brevetti, le domande di deposito sono state 800.000 nel 2008.
http://www.oecd.org/document/10/0,3343,en_2649_33703_39493962_1_1_1_1,00.html
http://www.weforum.org/documents/GITR10/index.html
La delicata questione della proprietà intellettuale si mostra nella forte preoccupazione degli USA circa la violazione dei brevetti e il controllo delle esportazioni di tecnologia duale. L’approccio cinese alla proprietà intellettuale:
http://www.chinadaily.com.cn/china/2010-02/10/content_9453657.htm
L’organizzazione militare cinese
http://www.sinodefence.com/overview/organisation.asp
L’Esercito Popolare di liberazione (PLA) è in sostanza l’organo che controlla lo sviluppo industriale innovativo riguardo agli investimenti stranieri e verifica nelle diverse aziende civili tutto ciò che può essere di interesse militare.
Dalla China Aerospace Science and Technology Corporation (CASC) www.sinodefence.com/space/organisation/casc.asp , principale corporation controllata dal Governo e dal Comitato Centrale del Partito Comunista, proviene l’attuale Presidente.
Conta circa 100.000 addetti, 41.000 specialisti e tecnici, e 1.300 ricercatori (al 2003), ed è composta da oltre 140 unità (centri di ricerca, fabbriche, detiene la partecipazione in circa 100 società).
La sua attività spazia dallo sviluppo, produzione e vendita di missili tattici e strategici, satelliti, veicoli di lancio nello spazio, veicoli spaziali e aerospaziali e altri beni.
E’ diretta dal Partito e dalla Commissione Militare Centrale.
Nelle imprese strategiche sono stati ammessi nell’azionariato sia capitali privati sia stranieri e incentivati i rapporti con le università che si sono dotate di dipartimenti ad hoc per visionare le tecnologie straniere.
Il Dipartimento Generale degli Armamenti si occupa dell’intellicence economica, sovrintende allo sviluppo, approvvigionamento, fornitura, manutenzione e gestione del ciclo di vita dei sistemi di armamento militare. Per sostenere questi obiettivi GAD ha sei sub-dipartimenti: pianificazione globale, armi, attrezzature servizi, attrezzature militari, attrezzature di supporto generale, informazioni elettroniche e basi tecnologiche e degli affari esteri.
http://www.sinodefence.com/overview/organisation/gad.asp
Il Ministero per l’industria e le tecnologie informatiche MIIT impiega circa 600 persone ed è composto di 24 uffici e 25 divisioni. Insieme al GAD si prefigge l’obiettivo di ottenere un indotto all’avanguardia e grandi sistemisti.
http://www.siteluck.com/en/miit.gov.cn
Chen Yanhai, il direttore generale del Dipartimento per i materiali per l’industria del Ministero dell’Industria e dell’Information Technology (MIIT), ha recentemente dichiarato che nel 2010 il MIIT collaborerà con i servizi competenti per rafforzare la tutela delle risorse e stabilire un sistema di riserva dei metalli rari.
Il recente attacco a google ha riportato all’ordine del giorno la questione della cyberwar intesa non solo come spionaggio industriale ma anche come minaccia capace di trasformarsi in una vera e propria dichiarazione di guerra : “Nei prossimi 20/30 anni, i cyber-attacchi diventeranno una componente sempre più importante in guerra”, sostiene William Crowell, direttore della NSA statunitense.
Più di una volta gli USA si sono lamentati degli hacker cinesi, compresi quelli che operano per conto del governo cinese e dei militari, perché sarebbero penetrati profondamente nei sistemi informativi di aziende e agenzie governative, rubato informazioni riservate e, in un alcuni casi, ottenuto l’accesso agli impianti di energia elettrica negli Stati Uniti, innescando probabilmente due guasti.
Sappiamo però che la cyberwar viene usata anche come spunto per minacciare la libertà di internet, e questa è arrivata non solo dalla Cina ma anche dagli Stati Uniti d’America quando Michael McConnell era direttore dell’intelligence nazionale.
http://www.wired.com/threatlevel/2008/01/feds-must-exami/
Monito delle Nazioni Unite
http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5h8Uvk-jpSvCWT-bqYSg1Ws4I4yAA
La CNNC http://www.cnnc.com.cn/region/00026.html , sviluppa il programma nucleare cinese, impiega circa 200.000 persone e supervisiona 119 imprese e istituzioni. Il suo obiettivo è quello di raggiungere l’autosufficienza nella progettazione, fabbricazione, costruzione e gestione di centrali nucleari e ottenere la tecnologia del ciclo del combustibile nucleare.
Sovrintende a tutti gli aspetti dei programmi civili e militari della Cina nucleare.
Dichiarazione di Mr. Zhang ‘Van, Capo della delegazione cinese nella discussione generale
alla conferenza di revisione del TNP nel 2005
http://www.nuclearfiles.org/menu/key-issues/nuclear-weapons/issues/proliferation/china/2005-review-conference-statement-zhang-van.pdf
Il ruolo della Cina alla Conferenza di maggio sul Trattato di non proliferazione nucleare secondo il Sipri : CHINA AND NUCLEAR ARMS CONTROL: CURRENT POSITIONS AND FUTURE POLICIES
http://books.sipri.org/files/insight/SIPRIInsight1004.pdf
Nel comparto spaziale oltre alla CASC vi è un’altra grande corporation, la China Aerospace Science e Industry Corporation (CASIC) http://www.sinodefence.com/space/organisation/casic.asp , che detiene 180 sussidiarie, 120.000 addetti e diverse accademie. Fornisce missili e sistemi d’arma,elettronica aerospaziale e sistemi informativi. Assorbe quote di investimento crescenti per la fabbricazione di minisatelliti che in uno scenario di guerra cyber permetterebbe di fronteggiare il degrado o la distruzione di sistemi di comunicazione e osservazione. Sta sviluppando il programma missilistico gli SRM CSS-7 (DF-11) che è un miglioramento degli SCUD russi. Le sue Accademie stanno potenziando le ricerche sui missili da crociera lanciabili da piattaforme terrestri, navali ed aeree. E’ suo il missile usato per distruggere un satellite creando oltre 1.000 pezzi di detriti in orbita.
L’Aviation Industry Corporation of China http://www.avic.com.cn/EN/default.asp è nata nel 2008 ed è già entrata fra le prime 500 aziende del mondo (426°).
L’Avic è un consorzio di società aerospaziali con 383.000 addetti, 200 controllate e 33 istituti di ricerca e sviluppo. La Chengdu Aircraft Corporation famosa per lo sviluppo di caccia J-10 e l’FC-1, i primi interamente sviluppati in Cina anche se attraverso tecnologie israeliane e russe, e la Shenyang Aircraft Corporation, specializzata nella produzione su licenza di aerei russi, dimostrano che Pechino vuole entrare nel mercato militare con una vasta gamma di aeromobili.
http://online.wsj.com/article/SB10001424052970204731804574385490799825598.html
Il colosso Norinco http://www.norinco.com/c1024/english/productsandservices/index.html fornisce sistemi e soluzioni in materia di attacco di precisione, veicoli (camion, automobili e motocicli), macchinari, prodotti ottici, elettronici, attrezzature giacimento di petrolio, prodotti chimici, esplosivi e materiali esplosione, armi da fuoco e munizioni civili, tutto ciò che ha a che fare con l’armamento terrestre. Alcuni dei suoi prodotti sono adattamenti di attrezzature russe. E’ stato istituito nel 1980 con l’approvazione del Consiglio di Stato della Cina ed è supervisionato dalla Commissione per la scienza, tecnologia e industria per la Difesa Nazionale (COSTIND). Impiega 360.000 addetti , 131 fra laboratori di ricerca e controllate e ha stabilito circa 100 joint ventures.
Per quanto riguarda il settore marittimo vi sono la China State Shipbuilding Corporation (CSSC), conglomerato di aziende i cui investimenti sono gestiti direttamente dal Governo centrale http://www.cssc.net.cn/enlish/jgsz.php e la China Shipbuilding Industry Corporation (CSIC) http://www.csic.com.cn/en/default.htm . La prima ha 95.000 addetti, 51 sussidiarie e 9 istituti di ricerca e sviluppo e la seconda 140.000 addetti, 46 controllate e 28 centri di ricerca.
Secondo il Sipri Cina e India rimangono i principali paesi importatori di armi. L’ ottantanove per cento delle importazioni di armi della Cina proviene dalla Russia, ma il trasferimento di grandi sistemi di armi convenzionali è diminuito in modo significativo negli ultimi tre anni.
http://books.sipri.org/files/FS/SIPRIFS1003.pdf
http://www.peacelink.it/disarmo/a/31647.html
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Popper, innovare conservando
IL CENTENARIO DEL FILOSOFO E LA TRADIZIONE LIBERALE
A prima vista, il tema del convegno sembra invitarci a cercare di collocare la cultura liberale tra due poli opposti: la destra e la sinistra. Tuttavia, credo che tutti gli illustri relatori presenti al convegno siano perfettamente consapevoli di quanto ingenuo sia il tentativo di definire le idee e i programmi politici tramite un’immagine presa a prestito dalla segnaletica stradale.
Questa immagine urbanistica della politica non è una soluzione, ma al contrario è essa stessa parte integrante dei problemi che dobbiamo oggi affrontare. Anni fa, parlo del 1994, Norberto Bobbio segnalò, in un libretto che ebbe un grande successo editoriale, un problema che era nell’aria: i concetti di destra e di sinistra avevano ormai perso il loro significato.
Tuttavia, Bobbio giustamente sottolineava la grande carica emotiva ad essi associata, e suggeriva che di essi la politica non poteva fare a meno. Bisognava, piuttosto, ridefinirli. Come si ricorderà, la soluzione di Bobbio si incentrava sul concetto di uguaglianza distributiva.
A parere di Bobbio, dovremmo oggi dividere anche la cultura liberale in una destra e una sinistra e, ad esempio, collocare Rawls a sinistra e Hayek a destra, seguendo come criterio la loro maggiore o minore sensibilità nei confronti del problema della disuguaglianza sociale. Non discuto il pregevole tentativo di Bobbio. Osservo però che questa distinzione non cattura del tutto la complessa evoluzione storica del pensiero liberale e, in generale, del pensiero politico.
Ad esempio, nel secolo diciannovesimo i cosiddetti liberisti, o fautori del laissez faire, erano considerati di sinistra, mentre oggi, seguendo le indicazioni di Bobbio, dovrebbero essere considerati di destra. Desidero perciò suggerire che i concetti di “innovazione” e di “conservazione” potrebbero meglio aiutarci nel nostro compito. L’occasione di questo convegno nasce dalla celebrazione del centenario della nascita di un autore a cui devo molto: Karl Popper.
Negli ultimi anni della sua vita, Popper mostrò una chiara simpatia verso il Partito Conservatore inglese. Ciò ha causato lo sconcerto di molti suoi ammiratori. Come può il conservatorismo conciliarsi con la difesa di una società aperta all’innovazione e alla continua sperimentazione sociale? La scienza, a cui il Popper politico si è sempre ispirato, non è forse caratterizzata da continue innovazioni concettuali? In realtà, queste obiezioni sono frutto di un malinteso.
Per Popper non c’è affatto contraddizione tra l’essere conservatori per quanto riguarda le attività della politica ed essere fortemente innovativi nelle scelte di vita individuali. Il compito della politica è quello di conservare la tradizione critica che è propria della scienza. Questa tradizione non è un qualcosa di ovvio e di scontato, ma qualcosa che dobbiamo proteggere. Popper ha dedicato saggi stupendi allo studio della nascita della tradizione scientifica.
La conservazione di questa tradizione è un bene prezioso e dovrebbe sicuramente far parte dei programmi politici che il primo Popper, quello della Società Aperta, avrebbe definito “protezionistici”. Quanto detto per la scienza può essere esteso a tutte le tradizioni di cui, spesso inconsapevolmente, godiamo oggi nelle società occidentali, inclusa quella del mercato economico.
Le tradizioni, per Popper come per Hayek, non sono qualcosa di garantito dalla religione o dalla natura umana o da una saggezza sovraindividuale. Il mercato, ad esempio, non è garantito da una serie di valori o di diritti naturali di proprietà. Queste tradizioni, piuttosto, sono preziose perché rappresentano il metodo corretto che consente l’emergere del nuovo.
È questa una forma di conservatorismo liberale, che concilia l’innovazione con la conservazione, che vorrei difendere. Non ha molto senso chiedersi, in linea di principio, se esso sia di destra o di sinistra. Queste etichette sono storicamente contingenti, anche perché, come sostenne anche Bobbio, “destra” e “sinistra” ricevono in parte il loro significato dalle idee a cui vogliono contrapporsi. Sono persuaso che molti tra i presenti preferiscono analisi ed opzioni politiche diverse. Ma ciò è un bene.
Ciò che ci ha insegnato Popper, oggi quasi un luogo comune, è che la discussione critica è indispensabile, sia per il progresso sia per un esercizio non meramente formale della libertà. Ricordarlo a cospetto della realtà odierna non è rituale. È un richiamo che assume, invece, un forte e chiaro significato politico.
http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/021006a.htm
Reperito il 29.04.2010
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Grandi laghi che muoiono, 26.04.2010
Con un’impresa degna del Nautilus il primo agosto 2009 il primo ministro russo Vladimir Putin in un sommergibile esplorava il fondo del lago Baikal, il lago più profondo della terra che si stima contenga il 23% delle riserve di acqua dolce del pianeta, esclusi i ghiacciai e le calotte polari. Il gesto propagandistico di Putin è stato però presentato al mondo come una sua presa di coscienza ecologica per il futuro, per quando cioè l’acqua diventerà un bene sempre più prezioso. Per questo lo scaltro Putin avrebbe a cuore la salute ambientale del lago siberiano e dunque ha fatto persino spostare di 40 km il tracciato dell’oleodotto Eastern Siberia Pacific Ocean, la mega conduttura che dovrebbe portare dopo 4700 km il petrolio siberiano ai porti del Pacifico e che nel progetto iniziale doveva lambire le sponde del Baikal. Putin ambientalista responsabile dunque? Non tanto se pensiamo che proprio lui, nel marzo di quest’anno, ha ordinato la riapertura della The Baikal Pulp and Paper plant, una cartiera giudicata da Greenpeace come una grave minaccia per la salute del lago, già più volte chiusa dopo le pressioni degli ambientalisti. Per Putin invece conta di più l’occupazione mentre il Baikal, secondo la visone del primo ministro, profondo com’è, resisterà a questo tipo di inquinamento.
Eppure l’ex dirigente del KGB dovrebbe stare attento a fare previsioni ricordando la catastrofica condanna a morte che le autorità sovietiche avevano emesso sul lago (salato) d’Aral: dagli anni 50 in poi una sconsiderata politica agricola con la deviazione degli affluenti del lago ridusse nel corso del tempo la sua superficie da 68.000 km² a meno di 5.000. Doveva diventare una palude acquitrinosa per coltivare il riso, è invece un deserto salato, inquinato dai pesticidi e da sostanze chimiche tossiche diffuse da una ex base di armamenti chimico batteriologici piazzata su un’isola dell’ex lago. Ora sono in atto tentativi di salvare il Piccolo lago d’Aral attraverso dighe, spostamento di fiumi, nuova immissione d’acqua… opere ciclopiche, forse indispensabili ma foriere di ulteriori crisi ambientali, che purtroppo non potranno mai riportare il lago alla sua conformazione naturale.
Cambiando latitudine incontriamo un simile scenario in un altro lago che sta scomparendo, anche se in questo caso l’uomo è meno colpevole. È il lago Ciad, il settimo più esteso del mondo fino a mezzo secolo fa: da 25000 km2 di superficie del 1960 si è passati ai 2500 o anche meno di oggi. La riduzione del 90% della superficie si accompagna alla contrazione di circa il 60% nella produzione di pesca, alla diminuzione di pascoli che ha condotto ad una penuria di foraggio (nel 2006 stimata al 46.5%), alla riduzione della popolazione animale e della biodiversità. Tutto questo minaccia la vita di circa 30 milioni di persone che sopravvivono grazie al lago.
Questa agonia è causata da sempre più numerosi periodi di siccità, dall’evaporazione (il lago è profondo poco più di 10 metri anche se un tempo arrivava a 150), dal riscaldamento globale e non da ultimo dalla miscela di esasperato sfruttamento idrico e di non curanza da parte degli abitanti e soprattutto dai governi. Il lago è diviso tra quattro paesi diversi: Niger, Ciad, Camerun e Nigeria che nel 1964 avevano creato la Commissione del bacino del lago Ciad (CBLT). Un organismo sopranazionale indispensabile ma che in tutti questi anni non è riuscito a mantenere il lago in salute: ora c’è un progetto faraonico per deviare parte delle acque del fiume Oubangui (il maggior affluente del fiume Congo) nel fiume Chari e quindi arrivare al Ciad.
Anche qui le grandi opere dovrebbero limitare i danni, rischiando però di farne altrove. Forse invece hanno ragione la FAO e le Ong a battere su un altro tasto, quello della ricerca di nuovi modelli di gestione dell’acqua capace di riscoprire le tecniche agricole tradizionali: solo così si potrà recuperare, per quanto possibile, un rapporto armonico tra l’uomo, la terra e il lago, garantendo almeno la sicurezza alimentare agli abitanti della regione.
Seguono notizie sull’autore.
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