Lezioni di storia monetaria
di Silvano Borruso.
Se la storia dev’esser maestra di vita, la discussione in corso sul fenomeno dilagante delle valute sociali di scambio, non può portar molto lontano se basata su dati di fatto vaghi o addirittura falsi. Volgiamo quindi lo sguardo indietro di 70 anni, per mettere a fuoco eventi reali che possano aiutare a evitare gli errori del passato.
Protagonista della nostra storia è il tirolese Michael Unterguggenberger (1884-1936), borgomastro della cittadina austriaca di Wörgl, nodo ferroviario nella provincia del Vorarlberg.
Era il luglio del 1932. In seguito a una politica globale deflazionista mai dovutamente spiegata e falsamente attribuita al collasso della borsa di New York di tre anni prima, la moneta scarseggiava, le intraprese chiudevano i battenti e infuriava la disoccupazione. La cittadina di poco più di 4000 abitanti e dintorni già contava 1500 disoccupati, che inutilmente si rivolgevano al borgomastro per aiuti che non potevano venire da nessuna parte.
Però il nostro, ex-meccanico e ferroviere, aveva letto, oltre che Marx e compagnia, anche il loro antidoto: Die Natürliche Wirtschaftsordnung (Nuovo Ordine Economico) di Silvio Gesell (1862-1930). Costui, beffandosi tanto di Marx quanto di Adam Smith, puntava il dito su un disordine strutturale incredibilmente non individuato durante 26 secoli.
Esiste infatti una contraddizione inerente tra le due funzioni monetarie di intermediarietà negli scambi e porta valori nello spazio e nel tempo, ma sopratutto nello spazio. E’ evidente che denaro negli anfratti di un portafoglio o incettato in un conto di risparmio a lungo termine non viene scambiato e viceversa. Che nessuno prima di lui se ne fosse accorto è un mistero che non tenterò neanche di cominciare a chiarire. Il fatto è che Gesell se ne accorse, come si accorse che questa contraddizione fosse causa storica primaria di crisi economiche e politiche, guerre, rivoluzioni, lotte di classe, povertà nel bel mezzo dell’abbondanza, in breve della questione sociale. Alla fine della Grande Guerra, nel 1918, in una lettera al giornale berlinese Zeitung am Mittag scriveva:
Continua qui:
http://www.laleva.cc/economia/storiamonetaria.html
—
La Pompa Idrosonica, che riscalda i liquidi con onde d’urto e cavitazione
http://www.xmx.it/pompaidrosonica.htm
—
Sintesi di un lavoro su Paul Virilio ricevuta via email il 28.9.06.
Inoltro frammenti dell’archivio digitale che sto formando su Paul Virilio.
Sto infatti facendo con Ubaldo Fadini un lessico Virilio, tratto dagli
appunti del corso che abbiamo tenuto alla specialistica in filosofia
politica a scienze della formazione a Firenze nel 2005, che uscirà il
prossimo anno. Il filo conduttore del lavoro è la particolare
politicizzazione dell’estetica da parte di Paul Virilio: piuttosto che
ideologicizzazione dell’estetica si tratta di comprendere la produttività
teoretica viriliana che parte dall’estetica e dall’urbanistica per
contribuire a costruire categorie politiche atte a comprendere, nel discorso
del politico, le mutazioni tecnologiche. Incollo qui una serie di appunti in
italiano presi dal web. Si tratta di interviste e di abstract di libri
non marketing ma schegge di lavoro e inviti al dibattito
mcs
Paul Virilio prosegue la sua analisi distopica della società
dell’informazione.
E’ stato appena pubblicato in Italia il volume L’incidente del futuro,
presso Raffaello Cortina Editore.
Il teorico francese ritiene che la diffusione delle tecnologie
dell’informazione determini che tutto ciò che può disfunzionare lo farà.
La natura dell’informazione è di sostituirsi alla realtà. Essa anticipa ciò
che accade. Ma non nel senso di una mera previsione razionale, cioè
come principio ordinatore; piuttosto l’informazione coincide con l’evento.
Lo sostituisce. La sparizione della concretezza dell’esperienza,
annichilita dalla pervasività dell’esperienza, genera il caos.
L’informazione non è uno strumento per padroneggiare il mondo,
ma un processo di distruzione virale. Virilio legge in modo apocalittico gli
effetti della rivoluzione digitale, che si prolunga fino a intaccare la vita
nei suoi aspetti genetici.
La bomba informatica diventa la bomba genetica. Se gli effetti di
distruzione dell’esperienza prodotti dalla Information Technology sono tali
da minacciare la presenza della specie umana, fino a prevedere la sparizione
dei corpi, allora si tratta di un fenomeno biopolitico
che manipola le condizioni genetiche della vita. Si tratta di una eugenetica
totalitaria che spinge nella direzione fantasmagorica,
ma agli occhi di Virilio del tutto concreta e attuale, di una soppressione
delle condizioni di vita specificatamente umane.
Si trovano nel testo delle fenomenali, quanto paradossali e umoristiche,
annotazioni sulla infantilizzazione della società.
Le tecnologie ci liberano della necessità di dover pensare. Ci offrono un
mondo ludico, apparentemente emancipato dalla fatica,
dove tutto è permesso. Si tratta dell’utopia realizzata dove è finalmente
vietato vietare. Ma è appunto questo il pericolo maggiore.
La specie umana è irresponsabile di fronte i pericoli innescati dalla bomba
informatica.
Gli strumenti della critica tradizionale di stampo utopico rischiano di
essere al servizio del progetto distopico e regressivo della tecnoscienza.
Il pessimismo visionario e apocalittico di Virilio può illuminarci anche non
volendo sposare le tesi provocatorie del libro, su alcune controfinalità
della rivoluzione digitale.
L’incidente del futuro, di Paul Virilio – Raffaello Cortina editore, 6,75
……………………………
Intervista con Paul Virilio, pubblicata su Internazionale n.549 (23-29
luglio 2004) p.48 – 51
Metropoli fragili
Paul Virilio sostiene che ogni città è posseduta dal panico. La città
aperta, la cosmopoli che è cassa di risonanza di tutte le nostre azioni
è diventata un bunker e una torre di babele. Si è chiusa e mutata nel campo
di battaglia di un’autentica “guerra ai civili”,
rassegnata a subire gli assalti dell’iperterrorismo o della “bomba
genetica”.
Perché la città subisce una sorta di panico generalizzato? Perché perde i
suoi punti di riferimento e implode?
La città si è invertita. E’ stata il luogo non solo del politico, ma anche
della civitas, della civiltà.
Lo spirito, l’aria della città rendevano liberi, ma adesso accade il
contrario. La città diventa una macchina da guerra.
Oggi la città è il luogo cruciale della crisi della politica e della crisi
della guerra.
La chiamo panic city perché il panico s’impadronisce della città.
Si pensi alle megalopoli di 20 o 30 milioni di abitanti, alla vita in questi
agglomerati che non hanno più un volto umano né una dimensione umana:
città smisurate che vivono di eccessi di ogni genere. La deregolamentazione
e la derealizzazione hanno penetrato la città.
C’è stato un rovesciamento: la città, che era il centro della nostra
civiltà, è diventata il centro di destrutturazione dell’umanità.
Lei dice che non si tratta solo di una guerra nella città – o addirittura
alla città – ma di una guerra civile, o più esattamente una guerra contro
i civili.
Ormai la guerra è la città. Nel passato ci sono state due grandi epoche:
quella della guerra d’assedio e quella della guerra di movimento. Quando
sono stati inventati dei modi di sfruttare l’energia, la guerra di movimento
ha avuto la meglio sulla guerra d’assedio. Ma oggi abbiamo superato quello
stadio per trasformare la città nel campo di tutti gli scontri, con tutti i
mezzi: i bombardamenti di Londra con gli Zeppelin nel 1914, Guernica,
Rotterdam, Coventry, Amburgo, Dresda, Hiroshima, Nagasaki – e non finisce
qui. Basta guardare Grozny: rasa al suolo, tabula rasa. In Cecenia, Grozny è
la vittima di una guerra civile che in realtà è una guerra ai civili, perché
uccide molti più civili che militari, come la maggior parte dei conflitti di
oggi. Hannah Arendt è stata la prima a parlare di una guerra civile
mondiale. La storia, con l’iperterrorismo che si è sviluppato in seguito, le
ha dato ragione. Ormai la guerra non si fa più nella terra pianura di
Waterloo, ma a Madrid, Baghdad o Gerusalemme. Quando 27 piloti israeliani
dicono ai loro comandanti: “Rifiutiamo di partecipare ad attacchi aerei
contro la popolazione civile”,
puntano il dito contro questa verità: la guerra e la città si sovrappongono.
Il mondo è ormai troppo piccolo,
e la città è diventata la cassa di risonanza di tutte le nostre azioni
militari, mediatiche o strategiche. E’ un fatto assolutamente inedito.
Nel libro parla di “claustropoli”.
Proprio così. Siamo passati dalla cosmopoli, la città aperta, alla
claustropoli, cioè alla città chiusa.
Il muro di separazione a Gerusalemme ne è l’ultima manifestazione, del tutto
folle.
Negli Stati Uniti ci sono le cosiddette gated communities: 30 milioni di
americani che vivono dietro a delle roccaforti,
mentre gli ultraconservatori come Newt Gingrich esaltano il ritorno alle
città-stato.
Ma si può pensare anche a Sao Paulo e alle favelas che la circondano, o
ancora a un grattacielo.
Un grattacielo non comunica, è un’impasse, un vicolo cieco, un ghetto
verticale. Non c’è niente di più protettivo di un grattacielo.
Oggi nella città ci sono due tendenze: bunkerizzazione e babelizzazione.
E’ la prima volta che parla di sé in una delle sue opere, del suo rapporto
personale con Nantes e con Parigi. Come mai?
Ho cominciato il testo quando ho lasciato Parigi per trasferirmi alla
Rochelle. Era nato come articolo per la rivista Les Temps Modernes
e il suo argomento era proprio Parigi. In qualche modo era il mio addio alla
capitale. Poi mi è venuta voglia di continuare quando mi sono imbattuto
in un passo straordinario nella riedizione di Choses vues di Victor Hugo
(Gallimard), che comunica il suo sgomento di fronte alla distruzione
dei quartieri di Parigi per ingrandire le strade: «Domani distruggeranno
Notre Dame per ingrandire il sagrato, e se si va avanti così, distruggeranno
Parigi
per ingrandire la pianura dei Sablons», dice con rimpianto. Tabula rasa
ancora una volta. Al di là del mio amore per Parigi, dove sono nato, mi sono
reso conto che attraverso la guerra la distruzione della città continuava.
La ristrutturazione della città secondo il progetto dell’urbanista
Georges-Eugène Haussmann, per esempio, non obbediva solo a una
preoccupazione igienista: era anche la reazione alla Comune di Parigi,
l’annientamento delle stradine, dei covi di resistenza inaccessibili alla
cavalleria e all’artiglieria. L’origine dell’urbanistica haussmanniana
– come quella di Ceausescu, di Stalin, o di Saddam Hussein a Baghdad – è la
volontà di far penetrare la forza militare dentro la città.
Oggi il punto strategico centrale di questa tabula rasa è l’aeroporto,
materializzazione della guerra aerea che, come una volta in Germania
e oggi a Grozny, rade la città al suolo.
Quando parla di sé anche per evocare l’idea di una mappa mentale unica e
molto personale, il modo in cui ogni individuo costruisce le sue carte
di navigazione nella città.
La formazione d’immagini mentali mi ha sempre appassionato. L’architettura è
mentale come la pittura: bisogna avere una visione interiore per
migliorare un progetto. Oggi, invece, il virtuale sostituisce l’immagine
mentale. Per esempio, i videogiochi sono un modo di reinvestire
l’immaginario grafico. Nelle menti si crea una nuova gamma grafica che
agisce come un parassita nello spazio mentale di ognuno.
In cosa la gamma del virtuale modifica la gamma del reale?
Innanzitutto la gamma del reale è rigorosamente personale: è legata alla
vita e alla biografia di un individuo come al luogo in cui abita.
Per questo dico sempre che ognuno è l’architetto della sua città. Walter
Benjamin lo aveva capito, i situazionisti
l’hanno ripreso successivamente.
Il problema della simulazione è che invece di lasciarci reinventare un luogo
nella nostra mente ce ne fa cercare uno che già esiste altrove?
Sì, ci aspetta una sorta di analfabetismo di ritorno dell’immagine mentale,
una perdita che con il cinema non avveniva.
Certo c’erano già delle interferenze straordinarie con il cinema, ma con il
virtuale il fenomeno è decuplicato.
Ed è più grave perché potrebbe segnare l’inizio di una perdita
dell’immaginario biografico. Quello che ci permette di vivere, di essere
presenti.
Non a caso L’altrove comincia qui è il sottotitolo del mio ultimo libro.
E’ un modo per dire che la geografia scompare?
Esattamente. Oggi il problema non è la fine della storia, ma la possibilità
di una fine della geografia, nel senso del suo compimento.
Il mondo ormai è troppo piccolo per le nostre velocità di localizzazione,
trasporto e informazione. La compressione del tempo sopprime la
distanza, su cui si fonda la geografia. Nel mio libro dico: «Cosa
aspetteremo quando non avremo più bisogno di aspettare per arrivare?».
Cosa cambia con la scomparsa della distanza?
La novità è la chiusura, la Grande Chiusura. Personalmente sono
claustrofobico e asmatico, perciò ne soffro in modo particolare.
La chiusura che Foucault ha analizzato in modo magistrale in Sorvegliare e
punire è davanti a noni, ed è una questione ecologica.
A causa della compressione temporale le sensazioni di clausura,
claustrofobia e incarcerazione possono diventare nelle generazioni future
un fenomeno di massa, un panico generalizzato. Il problema non è che il
mondo sarà sovrappopolato, come si diceva quand’ero giovane;
il guaio è che il pianeta si riduce a niente.
Ma le tecnologie del virtuale non possono servire come rimedio a questo
panico carcerario del reale?
In un certo senso le tecnologie del virtuale creano un sesto continente come
sostituto degli altri cinque.
E la deriva verso il sesto continente è una sorta di supercolonialismo.
“Super” nel senso in cui l’intende la ballerina Sylvie Guillem
quando dice: «Si deve danzare, non superdanzare»,
cioè evitare di fare solo prodezze coreografiche.
Il sesto continente non potrebbe essere un modo per uscire dalla
“claustropoli”?
No, è solo una sostituzione. Bisogna produrre nuovi spazi perché il mondo è
compresso, ma lo spazio virtuale non servirà.
L’ho già detto: l’interattività è per l’informazione quello che la
radioattività è per l’energia, qualcosa d’instabile e pericoloso
. La compressione temporale ha provocato questa situazione. E’ un effetto di
panico di cui si parla poco, e per questo motivo m’interessano
gli incidenti: in un certo senso si tratta di un incidente nella percezione
del mondo.
Si è scoperto che probabilmente c’era acqua su Marte e probabilmente c’è
vita da qualche parte dell’universo.
La possibilità di un’estensione nello spazio non è forse un modo immaginario
di superare questa claustrofobia?
Certo, ma è il modo peggiore se non risolviamo prima i nostri problemi di
civiltà e decolonizzazione.
S’inventerà una nuova colonia, che diventerà una supercolonia. Le antiche
colonie, le colonie greche per esempio, potevano far evolvere una società.
Ma conosciamo anche il terribile potenziale di distruzione della
colonizzazione.
Dobbiamo interrogarci sui danni del progresso, affrontare le conseguenze di
questa riduzione del pianeta a un niente.
Quando Hannah Arendt sostiene che il progresso e la catastrofe sono “le due
facce di una stessa medaglia”,
vuol dire che bisogna analizzare scientificamente la catastrofe della
compressione temporale.
Non possiamo negarla. Una scienza all’altezza della sua reputazione deve
anche analizzare il suo incidente.
Altrimenti si hanno casi come Cernobyl e, presto, l’incidente della
clonazione.
Questo non vuol dire che si deve arrestare il progresso, ma che la scienza
deve fare autocritica.
Crede che ci sia bisogno di un’ecologia del virtuale, un’ecologia delle
immagini e del progresso?
Il mio primo libro L’insécurité du territoire (L’insicurezza del
territorio), era un saggio non convenzionale sulla situazione dello spazio
e del tempo oggi. La relatività dimostra chiaramente che a una certa
velocità il tempo e lo spazio si dilatano.
Con Velocità e politica ho provato a fare la stessa cosa: ridefinire lo
spazio-tempo della modernità.
Non solo nella città, ma anche attraverso i mezzi di trasporto e la guerra.
Non dimentichiamo che c’è sempre una guerra
in atto da qualche parte. Se non sappiamo chi è il nemico terrorista, o se
il nemico non rivendica le sue azioni,
possiamo solo analizzare il luogo in cui agisce. La metropolitana, i
grattacieli, i teatri, gli autobus, ovviamente gli aerei.
Prendiamo l’esempio della metropolitana. Durante la seconda guerra mondiale
serviva da rifugio antiaereo.
Oggi è nella metropolitana che avvengono le peggiori atrocità: si pensi alla
setta Aum a Tokio o all’ultimo attentato a Mosca.
Tutti ormai, in ogni momento, in tutti i luoghi, hanno paura dell’incidente?
Domani potrebbe esserci un attentato devastante come Cernobyl. Un attentato
che avviene non solo in uno spazio geografico,
ma anche contro il tempo. Cernobyl è stato il primo incidente del tempo. Il
Titanic è affondato in un certo luogo e poi è tutto finito;
la stessa cosa avviene con un terremoto. Ma Cernobyl è un incidente che dura
per decenni, e in realtà non si sa nemmeno per quanto!
In questo caso è il tempo che subisce l’incidente. Le conseguenze
s’irradiano nello spazio-tempo.
E un giorno, inevitabilmente, un terrorista si servirà di questo meccanismo.
Provi a immaginare di dover abbandonare Parigi
a causa di una bomba chimica o radioattiva. Guardi l’impatto degli attentati
al World trade center: proprio due grattacieli!
Immagini un attentato del genere su un’intera città.
Se la situazione è così tragica, perché non c’è nessuna resistenza? E’ il
panico che ci paralizza.
No. E’ colpa dei messaggi promozionali del tipo: tutto va bene, tutto va
meglio di ieri, vivremo tutti più a lungo. Questi messaggi accecano. La
propaganda del progresso è diventata pericolosa come la propaganda
ideologica. L’ideologia del progresso infinito è altrettanto aberrante del
totalitarismo. Non ho niente contro le nuove tecnologie, ma non sopporto la
pubblicità che gli viene fatta. E’ ora di fare autocritica sul progresso,
non solo al livello ecologico ma anche escatologico. L’efficacia e la natura
del progresso creano l’iperfragilità sfruttata dal terrorismo. I terroristi
non hanno bisogno di bombardamenti, portaerei, artiglieria e carri armati, a
loro basta saper usare la fragilità della città, dove tutto è concentrato,
per raggiungere un risultato. Il ministero della difesa o il ministero della
guerra, che una volta erano fondamentali per la sopravvivenza di una
società, di uno stato, sono rimpiazzati dal “ministero della paura”, come il
titolo del libro di Graham Greene. Se si è in grado di provocare una paura
assoluta, come quella di distruggere un milione di persone o di inquinare
una regione per un secolo, basta semplicemente tenerla sempre viva per
creare una tirannia della paura.
Lei parla molto di “guerra al reale”, nozione che compare già nei suoi saggi
precedenti.
Sì, è la derealizzazione. Ormai siamo oltre la propaganda dei film di
guerra.
Siamo davanti a un fenomeno di accelerazione della realtà. Nel 1947 si
annunciava l’accelerazione della storia;
alla fine del secolo scorso è la realtà che è stata accelerata, e in un
certo modo l’accelerazione della realtà derealizza.
Per la maggior parte delle persone, c’è una perdita del rapporto con il
reale. Il sesto continente è il luogo,
la patria di questa derealizzazione, la possibilità degli incidenti. Dà
un’assuefazione peggiore delle droghe.
Lei sostiene che bisogna tornare a una politica geofisica della materia. E’
forse una delle uscite possibili da questa situazione?
Credo di sì. E l’ecologia è un inizio. Che lo si voglia o no, l’ecologia è
rivoluzionaria,
ed è anche l’ultima rivoluzione. Ma a patto che prenda in considerazione
l’escatologia, in altre parole la fine.
Non semplicemente nel senso della fine del mondo, ma anche nel senso della
compressione dello spazio-tempo.
Quando si pensa a un treno ad alta velocità, la preoccupazione per la salute
delle persone si riduce a
una questione d’inquinamento dell’ambiente. Invece il vero dramma di un
treno ad alta velocità è la contrazione del tempo.
C’è un inquinamento delle distanze che completa l’inquinamento delle
sostanze. Prima il mondo era ampio, le persone non erano soffocate.
La rapidità dei trasporti e dei mezzi di comunicazione ha inquinato la
distanza, senza cui non c’è viaggio né scoperta.
Ma non bisogna mai tornare indietro. Dobbiamo sperare contro ogni speranza,
senza negare il male e senza negare la catastrofe.
Quindi c’è ancora una possibilità di andare avanti? Possiamo gettare nuove
basi?
Il mondo non è perduto. Ma deve fondarsi sulla verità, non sulla propaganda.
Sulla verità della fine.
Perché la fine è una possibilità. E bisogna affrontarla. Non sono disperato:
sono piuttosto l’antinichilista assoluto,
spero attraverso l’apparente disperazione.
Cyril De Gaeve e Ariel KyrouDa Chronic’Art
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Non luoghi
CITTÀ PANICO di Paul Virilio
* Raffaello Cortina, 2004, 9,80 EURO
Mauro Fabi
Paul Virilio, filosofo, urbanista ed esperto di nuove tecnologie, ci ha
abituati alla sua scrittura torrenziale, fin dai tempi de
La bomba informatica (1999) e soprattutto de L’incidente del futuro (2001).
Ora Cortina manda in libreria Città panico,
sorta di reportage della catastrofe, dove al divenire storico tradizionale
si sostituisce l’eterno presente dell’immediatezza, scandito dell’era della
comunicazione estatica e/o isterica. Qualunque evento risulta
decontestualizzato, smarrisce i riferimenti spazio-temporali, tanto che il
suo manifestarsi cade all’interno di una circonferenza il cui centro è
ovunque. La mondializzazione è contemporanea della modellizzazione, nel
senso che fa direttamente riferimento alla standardizzazione dei
comportamenti dell’era industriale, prodromo della sincronizzazione delle
emozioni.
In tal senso oggi creare un evento equivale a «rompere il mimetismo, la
modellizzazione pubblicitaria».
Creare un evento significa allora, secondo Virilio, provocare un incidente.
L’opera d’arte perde i suoi connotati «ludici» originari (l’arte è un gioco,
scriveva Max Jacob)
nonché il suo effetto stupefacente, a tal punto che è ormai possibile
parlare dell’arte dello spavento, oggi incarnata alla perfezione
dall’iperterrorismo, che ha avuto, con l’attacco alle Torri Gemelle, il suo
battesimo e il suo manifesto: l’arte della guerra
cede il passo al «ministero della paura», una paura panica appunto, inflitta
al mondo intero attraverso
quella teologia disincarnata dell’attentato suicida che succede alla
teologia incarnata del cristianesimo.
Il ruolo dell’informazione, divenuta planetaria, è quello allora di
amministrare la paura pubblica, di sincronizzare
appunto lo stupore e le emozioni, di convogliarle.
È un meccanismo che si autoconsolida, una sorta di arsenale mediatico che
non cessa di svilupparsi, grazie a queste «operazioni psicologiche»
condotte su scala mondiale. Reportage della catastrofe, dunque. Virilio
afferma, senza mezzi termini, che la più grande catastrofe
del ventesimo secolo è stata la città. Al panico dell’iperterrorismo di
massa si aggiunge la delinquenza panica,
tanto che le nostre metropoli divengono i «bersagli per tutti i terrori,
domestici o strategici».
Fuggire dalle città non serve, poiché il mondo è divenuto onnipolitano, un
non luogo privo di speranza, museo vivente delle devastazioni
causate da un progresso tecnico assolutamente incontrollabile.
——————————————–
Paul Virilio
Parigi – European IT Forum, 05/09/95
“La velocità assoluta”
SOMMARIO:
La velocità assoluta delle telecomunicazioni multimediali e il relativo
sopravvento del tempo reale comporta un trauma (1).
La tecnica di miniaturizzazione permetterà in futuro l’integrazione della
tecnologia nel corpo umano (2).
Le reti elettroniche ci forniscono una nuovo ottica mediata della realtà
(3).
Il denaro si è smaterializzato fino al punto di diventare pura informazione
(4).
La materia ha acquisito una terza dimensione, oltre a quelle della massa e
dell’energia: l’informazione (5).
L’utilizzo della memoria elettronica dei computer può portare alla perdita
della memoria dei libri, come questa a sua volta provocò la perdita della
memoria orale (6).
L’utilizzo delle reti telematiche comporta l’inerzia motoria e la perdita
dell’esperienza del viaggio (7).
Le città settecentesche con i loro spazi pubblici vengono ora sostituite
dalla città virtuale (8).
L’informazione, la terza forma della materia, è quella che conta di più
economicamente (9).
Virilio non si considera un pessimista, ma pensa che un approccio critico
alle nuove tecnologie sia necessario per garantire il progresso (10).
Il voto elettronico è una minaccia per la democrazia, che richiede una
riflessione comune, non solitaria, ma solidale (11).
L’Italia è all’avanguardia nel campo della rappresentazione (12).
Con l’utilizzo delle reti telematiche stiamo andando incontro al caos totale
di una società disintegrata (13).
Il culto della tecnica porta ad una pericolosa forma dell’integralismo
tecnologico (14).
Le autostrade elettroniche si dovrebbero chiamare supermercati elettronici e
sono delle vie di colonizzazione culturale (15).
—-
Libri:
Apocalypse Virilio
Paul Virilio prosegue la sua analisi distopica della società
dell’informazione.
E’stato appena pubblicato in Italia il volume L’incidente del futuro, presso
Raffaello Cortina Editore.
Il teorico francese ritiene che la diffusione delle tecnologie
dell’informazione determini che tutto ciò che può disfunzionare lo farà.
La natura dell’informazione è di sostituirsi alla realtà. Essa anticipa ciò
che accade.
Ma non nel senso di una mera previsione razionale, cioè come principio
ordinatore; piuttosto l’informazione coincide con l’evento.
Lo sostituisce. La sparizione della concretezza dell’esperienza, annichilita
dalla pervasività dell’esperienza , genera il caos.
L’informazione non è uno strumento per padroneggiare il mondo, ma un
processo di distruzione virale.
Virilio legge in modo apocalittico gli effetti della rivoluzione digitale,
che si prolunga fino a intaccare la vita
nei suoi aspetti genetici. La bomba informatica diventa la bomba genetica.
Se gli effetti di distruzione dell’esperienza prodotti dalla Information
Technology sono tali da minacciare la presenza
della specie umana, fino a prevedere la sparizione dei corpi, allora si
tratta di un fenomeno biopolitico
che manipola le condizioni genetiche della vita. Si tratta di una eugenetica
totalitaria che spinge nella direzione fantasmagorica,
ma agli occhi di Virilio del tutto concreta e attuale, di una soppressione
delle condizioni di vita specificatamente umane.
Si trovano nel testo delle fenomenali, quanto paradossali e umoristiche,
annotazioni sulla infantilizzazione della società.
Le tecnologie ci liberano della necessità di dover pensare. Ci offrono un
mondo ludico, apparentemente emancipato dalla fatica,
dove tutto è permesso. Si tratta dell’utopia realizzata dove è finalmente
vietato vietare. Ma è appunto questo il pericolo maggiore.
La specie umana è irresponsabile di fronte i pericoli inescati dalla bomba
informatica.
Gli strumenti della critica tradizionale di stampo utopico rischiano di
essere al servizio del progetto distopico e regressivo della tecnoscienza.
Il pessimismo visionario e apocalittico di Virilio può illuminarci anche non
volendo sposare le tesi provocatorie del libro,
su alcune controfinalità della rivoluzione digitale.
Inviato da Igino Domanin, 05:59 PM
—————————————————————————-
INTERVISTA:
Domanda 1
Lei ha parlato, a proposito delle nuove tecnologie della comunicazione, di
trauma della nascita.
Risposta
Sì, perché le comunicazioni hanno cominciato a usare la velocità limite.
Tutte le società antiche avevano sviluppato delle velocità relative. Anche
la rivoluzione dei trasporti nel XIX secolo è evidentemente legata alla
velocità relativa del treno, dell’aereo, e, in seguito, dei mezzi di
trasporto supersonici. La rivoluzione delle trasmissioni, delle
telecomunicazioni, usa, generalmente parlando, la velocità assoluta, cioè la
velocità delle onde elettromagnetiche. Era già avvenuto con la radio e con
il telefono, ma ormai avviene anche con la tele-audizione, con la
televisione e con la tele-azione o interattività. Ora l’interattività è, in
un certo senso, la nascita di un mondo unificato, di un mondo unico. Unito
da che cosa? Dal tempo reale, dall’immediatezza, dall’ubiquità,
dall’istantaneità. Viviamo dunque un tempo ineguagliabile, un tempo
mondiale, che non trova equivalenti nel passato, se non nel tempo
astronomico. Tutta la storia delle società si fa nei tempi locali, di un
paese, di una regione. La storia di domani, la storia che oggi comincia, si
fa in un tempo unico, il tempo mondiale, il tempo dell’immediatezza, quello
che si chiama “live”, “tempo reale”. Questo comporta un trauma, a mio
avviso. Il tempo reale, il tempo mondiale ha il sopravvento sullo spazio
reale, sullo spazio tempo locale, sullo spazio-tempo della storia.
Domanda 2
Fino ad oggi gli uomini hanno creato strumenti come protesi degli organi
umani. Oggi stiamo creando strumenti che sono protesi del cervello: i
calcolatori, le reti telematiche. Che cosa significa?
Risposta
Significa che si prepara la terza rivoluzione. Le tre grandi rivoluzioni
tecnologiche sono: la rivoluzione dei trasporti con la rivoluzione
industriale che l’ha determinata; poi la rivoluzione delle trasmissioni, di
cui ho già detto, cioè la rivoluzione della comunicazione immediata, delle
tele-tecnologie, eccetera; si prepara adesso, con le nuove tecnologie, la
rivoluzione dei trapianti, cioè la possibilità per le micro-tecnologie di
investire il corpo dell’uomo e non più soltanto, come al tempo della
locomotiva, di sistemare il territorio con ferrovie, autostrade, aeroporti,
canali, acquedotti. Allora la tecnica si era impiantata sul corpo della
terra, aveva trasformato la città. Adesso con la miniaturizzazione delle
tecnologie, con quelle che si chiamano micro-macchine o micro-tecnologie,
l’innesto di stimolatori della vita, della memoria, della percezione è ormai
possibile. Si assiste a un processo di fagocitazione della tecnica. La
tecnica si introduce nel vivente: è in un certo modo realizzato il sogno
futurista di Marinetti: l’uomo si alimenta di tecnica, non soltanto di
chimica, come chimica degli alimenti, ma di tecnica delle micro-macchine.
Marvin Minsky propone degli stimolatori della memoria, una memoria
supplementare, che si potrebbe innestare sul corpo e che ha, come modello,
un oggetto già esistente, che è lo stimolatore cardiaco. Recentemente due
gemelle hanno subito, all’età di due mesi, l’innesto di uno stimolatore
cardiaco. In altri termini, a partire dal secondo mese, queste due bambine
vivono a un ritmo tecnico, con un ritmo cardiaco tecnicamente
predeterminato. Vediamo qui l’immagine dell’uomo di domani: la
fusione-confusione del meccanico e del vivente. L’uomo macchina è
effettivamente possibile.
Domanda 3
Ma quali sono le conseguenze della separazione, della frattura nella
percezione, nel contatto, nello sguardo tra gli uomini e il contatto
virtuale nelle reti telematiche?
Risposta
E’ l’apparizione di una nuova ottica e di una nuova prospettiva. Ricordo che
ci sono due prospettive e due ottiche all’opera nella storia: la prima
ottica è quella dell’occhiale di Galileo, è l’ottica geometrica, l’ottica
dei raggi del sole, e questa ottica ha dato luogo a una prospettiva dello
spazio reale, attraverso gli studi di prospettiva del Quattrocento. Ma
quella di cui ci serviamo oggi è un’ottica ondulatoria, non più l’ottica
della materia, delle lenti, l’ottica dello spazio reale, del vetro, legata
alla trasparenza dell’aria, dell’acqua, ma l’ottica del tempo reale, cioè
l’ottica delle onde. In un certo senso la televisione appartiene a un’ottica
ondulatoria. Ciò vuol dire che la tele-sorveglianza può sostituire
l’apertura di una finestra. Invece di vedere attraverso il vetro di una
finestra, in questo caso vedo attraverso uno schermo l’immagine restituita
dalla telecamera. E’ noto che l’invenzione della prospettiva è l’invenzione
di una città nuova, della città europea. L’apparizione di un’ottica
ondulatoria, la prospettiva del tempo reale, la trasmissione di un segnale
che non è più del raggio solare, ma della radiazione elettromagnetica, è
l’apparizione di una prospettiva del tempo reale e quindi di un diverso
rapporto con il mondo e di un diverso rapporto con la città. E’ a mio avviso
un evento notevole. Ci sono ormai due luci: la luce diretta del sole e
dell’elettricità, con cui si illumina, e la luce indiretta della
emissione-recezione istantanea di un segnale di tele-sorveglianza. E’, a mio
avviso, un evento importante. Due luci, due trasparenze: la trasparenza
diretta di un materiale, dei miei occhiali, per esempio, la trasparenza
dell’aria, e la trasparenza indiretta della tele-sorveglianza, del video, e
quindi un evidente raddoppiamento della realtà: una realtà immediata e una
realtà mediatica. Questo è un evento veramente importante.
Domanda 4
E’ un po’ come la storia del mercato: in origine il mercato era un luogo
dove le persone si guardavano in faccia. Nel mercato capitalista non esiste
più denaro reale….
Risposta
Si assiste a un smaterializzazione del denaro, che fa parte di ciò che ho
chiamato “estetica della sparizione”. Se si prende il referente monetario,
all’origine sicuramente è il sale, sono le perle, per restare nel mondo
primitivo. Subito dopo vengono la moneta d’oro, la moneta d’argento. Il
sale, le perle, la moneta d’oro, il luigi d’oro, eccetera, sono qualcosa di
assai materiale. Poi vengono la cambiale, l’assegno, e oggi c’è la carta di
credito, che funziona in base a un impulso elettro-magnetico. Questo è il
processo di smaterializzazione della moneta. La moneta è passata dalla
ricchezza di un materiale raro – l’oro, i diamanti – a un impulso
elettro-magnetico, a una informazione. Ormai il denaro non è che
informazione.
Domanda 5
La conoscenza, il sapere non sono soltanto informazione, ma valore, buon
gusto, educazione, quello che i Greci chiamavano “paideia ” e i tedeschi
“Bildung “. Ma nei calcolatori, nelle banche-dati troviamo soltanto
informazione. Che cosa vuol dire? E’ la fine dell’idea di educazione?
Risposta
Si può dire, per dare un’immagine della cosa, che il computer è un
sintetizzatore di informazione, come certi pianoforti sono sintetizzatori di
musica. Quando si ascolta un violoncello, suonato da un vero violoncellista,
per esempio, è straordinario. Quando si ascolta un sintetizzatore di
violoncello è molto diverso. In un certo senso il computer è un
sintetizzatore di informazione, non è informazione nel senso dell’evento, ma
la sua riduzione a un segnale, a un “bit ” di informazione come si dice.
Quindi, in un certo senso, l’informazione è stata aritmetizzata,
digitalizzata, e ha perduto il suo spessore. Ma credo che si possa andare
ancora più in là. E’ curioso vedere che la materia nel passato era percepita
sotto due aspetti. In primo luogo sotto l’aspetto della massa – massa,
inerzia, pesantezza: l’architetto sa bene che cos’è -, poi, nell’età
moderna, sotto l’aspetto dell’energia. Ma ormai ha una terza dimensione:
l’informazione. Cioè oggi la materia è sempre massa, è sempre energia, ma
oltre a ciò è informazione. Questo vuol dire che la materia ha ormai tre
dimensioni e che la terza dimensione oggi pone dei problemi. Bisogna
considerare la materia come informazione? Evidentemente sì: la pietra è
informazione. Ma questo approccio alla materia ci fa perdere, forse, il
contatto fisico. Tuttavia è un fatto che la materia ha tre dimensioni e che
la terza dimensione è l’informazione.
Domanda 6
Lei non crede che la pletora di informazioni delle banche-dati possa far
diminuire la capacità di giudizio delle persone?
Risposta
Va da sè che la memoria morta del calcolatore rischia di provocare una
perdita della memoria viva dell’uomo. L’accumulazione dell’informazione
nelle banche-dati è una forma di capitalizzazione dell’informazione, che può
portare – credo che questo processo sia già cominciato – a una specie di
atrofizzazione della memoria viva dell’uomo e all’oblio della tradizione.
Ricordo che la memoria orale è già scomparsa a profitto della memoria
libresca. La perdita della memoria orale è assai grave. Le società antiche e
ancora la mia famiglia, i contadini della Bretagna, hanno una memoria orale
che risale a parecchi secoli. Questa memoria è stata praticamente abolita,
non ne resta più nulla. Allora si può dire che la memoria orale è scomparsa
a profitto della memoria libresca. Ce ne sono prove da per tutto. Ora il
passaggio dalla lettura dell’uomo alla lettura mediante la macchina di un
software, di una banca-dati, rischia a sua volta di far perdere la memoria
libresca, come si è perduta la memoria orale. Dunque c’è un rischio di oblio
e la possibilità di una industrializzazione dell’oblio, come ho detto….
Domanda 7
Bisognerebbe parlare allora, invece che di interattività, di passività?
Risposta
La passività, l’inerzia, è già un grosso problema. Il fatto di aver messo in
opera, per la prima volta nella storia, su scala mondiale, la velocità
assoluta, la velocità delle onde elettro-magnetiche, comporta infatti una
inerzia. Farò un esempio: l’uomo andava incontro all’evento o
all’informazione spostandosi nel mondo, verso l’evento… Ma, poiché ormai
l’evento viene a lui, non ha più bisogno di spostarsi. L’arrivo dell’evento
ha soppiantato la partenza e il viaggio. E’ un fenomeno di inerzia. E, a mio
avviso, questa inerzia del corpo del telespettatore o del teleattore,
dell’uomo interattivo, rischia di fargli perdere la memoria del viaggio.
Privato del viaggio, rischia di perdere la memoria delle acquisizioni che il
viaggio rendeva possibili. Farò un esempio chiarissimo. In Francia si dice:
“I viaggi formano la gioventù”. E’ il mito di Ulisse. Ma quando non ci sono
più viaggi, non c’è più memoria, ci sono solo calcolatori. Dunque è
possibile una passività davanti a questa immediatezza dell’informazione,
della memoria morta del calcolatore, che minaccia di colpire in profondità
la coscienza dell’uomo.
Domanda 8
A partire dal XVIII secolo si apre lo spazio pubblico delle grandi città
dell’Occidente. Adesso le automobili, i mezzi di comunicazione trasformano
gli spazi pubblici in spazi di comunicazione tra un luogo privato e un altro
luogo privato. Siamo arrivati alla eliminazione dello spazio pubblico
materiale e alla sua sostituzione con spazi privati telematici o telefonici.
Quali sono le conseguenze di questo fatto?
Risposta
Innanzi tutto una mutazione dell’urbanismo. L’urbanismo era effettivamente
una messa in opera della localizzazione delle popolazioni nelle grandi città
e nei luoghi di produzione. Questo movimento si risolveva in una
urbanizzazione dello spazio reale della geografia. E’ un elemento
fondamentale nella formazione dell’Europa. Ciò che avviene adesso, con le
telecomunicazioni, è l’urbanizzazione del tempo reale, cioè la costituzione
di una città virtuale, di una specie di iper-centro, che non sarebbe più una
cosmopoli come Roma o Londra, dove c’era la capitale di uno stato, quindi di
uno spazio reale, come l’Impero romano e l’Impero britannico, ma
l’iper-centro del mondo. In un certo senso non si deve più parlare di
“cosmopolis “, ma di “omnipolis “, la “città delle città”. Le
telecomunicazioni favoriscono una prossimità temporale, che forma – lo si
voglia o no – il centro assoluto del mondo. Quindi questa specie di città
virtuale delle telecomunicazioni è il vero centro. Ma non è più un centro
geometrico e tutte le città reali non sono che la periferia di questo
iper-centro delle telecomunicazioni. Una specie di città delle città che non
è situata in nessun luogo, ma che sta da per tutto ed è il luogo del potere.
Domanda 9
Non c’è un paradosso nel fatto che il capitalismo, che segna il trionfo del
materialismo, stia diventando, di giorno in giorno, nell’economia, ma anche
nella vita quotidiana, sempre più immateriale?
Risposta
E’ il grande problema della terza dimensione della materia: la massa non
conta più, l’energia conta ancora, ma ciò che più conta è l’informazione.
Quello che abbiamo detto poco fa della demonetizzazione, della
digitalizzazione delle borse, può essere trasposto anche nella vita e in
tutte le forme dell’economia. Quindi è stato toccato un limite del marxismo,
si è reso manifesto il limite di legittimità del pensiero marxista non
soltanto col fallimento dell’Unione Sovietica, ma con l’avvento della
società mondiale. Lenin diceva che il comunismo era il comunismo più
l’elettricità. Io vorrei aggiungere: meno l’elettronica. L’elettronica non
ha funzionato.
Domanda 10
Lei è considerato un pessimista di fronte a questi problemi. Quali sono
realmente i prezzi che bisogna pagare per questi progressi?
Risposta
Innanzi tutto non mi considero affatto un pessimista. Sono uno che ama la
tecnica e non sono affatto contro la tecnica, come certi ecologisti.
Semplicemente faccio una critica della tecnica. Non ci può essere, a mio
avviso, avanzamento nel campo della tecnica, che mediante la critica. Non ci
si può interessare a un oggetto tecnico, senza interessarsi alla sua
negatività. Faccio sempre questo esempio: inventare la nave è lo stesso che
inventare il naufragio, inventare il treno è inventare il deragliamento,
inventare l’elettricità è inventare la scossa. Ora l’invenzione delle
telecomunicazioni, delle reti telematiche, di Internet, del “cyber-spazio” è
anche l’invenzione di un incidente specifico, che non è altrettanto
appariscente dell’incidente ferroviario, che fa dei morti e crea disordine.
C’è una negatività, ed è questa negatività che io indago, non per negare il
progresso della tecnica, ma, al contrario, nel tentativo di superare questa
situazione. Faccio un esempio: quando è stata inventata la ferrovia, c’erano
due tipi di ingegneri: gli ingegneri civili, quelli che facevano le strade
ferrate, i binari ferroviari, i ponti e le gallerie, e gli ingegneri
meccanici, che costruivano le locomotive. E la cosa funzionava,
deragliamenti a parte. Un giorno, intorno al 1880, forse nel 1888, gli
ingegneri europei – questa è storia – si sono riuniti a Bruxelles – il luogo
è importante – e hanno detto: il vero problema non è il progresso della
macchina a vapore, della locomotiva, non è lo straordinario progresso dei
ponti metallici, l’apertura di gallerie, ma i troppi incidenti. Dunque
bisognava impedire il moltiplicarsi degli incidenti. Fu inventata allora
l’ingegneria del traffico. Il traffico è diventato un problema a sé,
problema immateriale, ma problema di fondo. Fu inventato allora il
block-system , che impedisce il deragliamento, un sistema segnaletico, assai
sofisticato, con torri di controllo, che dirigono il traffico, e il
block-system ha reso possibile la sicurezza della rete ferroviaria. Ancora
oggi col TGV, il block-system permette al TGV di andare sempre più veloce.
Oggi nelle reti elettroniche bisogna individuare gli incidenti, i
deragliamenti che, in questo caso, non sono materiali – benché talvolta la
disoccupazione… C’è bisogno di una comprensione della immaterialità della
rete, ed è il lavoro che io tento di fare. Tento di farlo perché credo che
sono tutti troppo impegnati – Bill Gates e gli altri – nella pubblicità di
questi nuovi prodotti e nessuno si preoccupa della negatività, cioè nessuno
si preoccupa del progresso. Chi si preoccupa della negatività si preoccupa
del progresso, cioè della prevenzione dell’incidente. Adesso la possibilità
di incidente è mascherata per vendere i computer.
Domanda 11
Naturalmente si pone anche un problema di democrazia, nel senso che la rete
telematica rappresenta una sfida per la democrazia, per la partecipazione.
Che cosa ci può dire a questo proposito?
Risposta
E’ un evento molto, molto grave, perché la democrazia non è solitaria, ma
solidale. Con la democrazia catodica, che si chiama anche impropriamente
democrazia diretta, si prepara una negazione della democrazia. La democrazia
è una riflessione in comune. Le esigenze di immediatezza che si fanno già
strada attraverso i sondaggi, attraverso i tentativi di Ross Perot di
referendum mediante carta magnetica in televisione, sono negazioni della
democrazia. La democrazia ha bisogno di una riflessione in comune. La
democrazia non mostra, ma dimostra. La televisione mostra: un sì o un no. E
questa alternativa di sì/no è antidemocratica. Dunque bisogna ritrovare la
riflessione in comune, bisogna evitare che la democrazia sia un mero
riflesso. Uso questo termine nel senso della psicologia. Una democrazia è
invece riflessione in comune, non riflesso solitario. In un certo senso il
voto elettronico, che è stato usato di recente in Francia, prepara un
“auditel” che sarà un “auditel” nazionale, un “auditel” democratico. E
questo è un fatto estremamente grave. Si capisce da sé che il successo di
Berlusconi, dopo il fallimento di Ross Perot, in attesa di altri eventi, è
un evento storico. E’ una storia all’italiana. Non è durata molto, ma è
stato un evento importante, a mio avviso. E’ stato, come ho detto in altre
occasioni, un colpo di stato mediatico.
Domanda 12
Non c’è un paradosso nel fatto che il capitalismo, che segna il trionfo del
materialismo, stia diventando, di giorno in giorno, nell’economia, ma anche
nella vita quotidiana, sempre più immateriale?
Risposta
L’Italia è stata sempre all’avanguardia nel campo della rappresentazione in
tutte le sue forme: nella prospettiva, nell’ottica, nel teatro, con il
barocco, con il futurismo. L’Italia è all’avanguardia in tutti i campi:
nell’arte, nella cultura, nei costumi. Non lo dico per favoritismo, lo credo
profondamente. Credo che l’Italia sia il paese di punta nel campo della
rappresentazione. Parlo dell’Occidente, beninteso.
Domanda 13
Sempre a proposito di reti telematiche: nelle reti non ci sono differenze
temporali tra prima e dopo, tra interno ed esterno, soggetto ed oggetto. Che
cosa significa?
Risposta
Noi andiamo verso una situazione babelica, verso una confusione mondiale.
Credo che il mito della torre di Babele sia un mito mediatico primario. La
torre di Babele, per l’architetto, per il direttore della scuola di
architettura, che io sono, o almeno ero, è uno dei grandi miti della
tecnica. Non ci sono molti miti della tecnica così forti come la torre di
Babele. La torre di Babele mette in opera la tecnica, l’architettura e
l’informazione, il linguaggio – e la città, perché, devo ricordare che
Babele è una città verticale, è una torre. Dunque la situazione presente
finirà, o meglio già sta finendo in un caos, nell’inquinamento
dell’informazione, nella mancanza di controllo, nella “deregulation “. Io
penso che tutto questo sarà superato, ma, per ora, stiamo entrando nel caos,
nella confusione babelica. Credo che ci sia un enorme lavoro da fare per
tentare di conoscere questa situazione, con i suoi annessi e connessi. Per
esempio, la fine del dentro e del fuori è semplice disorientamento. L’uomo
non sa più dov’è. Certo è nello spazio reale, è “in”, ma “dove”? Non è più
nell’ “hic et nunc” non è più “in situ “, l’essere non è più “in situ,” ,
non è più “hic et nunc “, è qui e là al tempo stesso. A questo punto
comincia la confusione. Il vicino e il lontano si confondono. Faccio un
esempio: la socialità è basata sull’amore del prossimo. Oggi ci viene detto
di amare il lontano come noi stessi. Non il lontano nel senso metaforico, ma
colui che vediamo nel video, colui che non puzza, colui che non ci
infastidisce. Assistiamo a una straordinaria inversione: il lontano la vince
sul prossimo. Nelle nostre città, le persone che appaiono nel video, che
facciamo apparire con lo “zapping “, non ci scomodano, non ci disturbano,
non fanno rumore, non puzzano, non vengono a bussare alla porta a
mezzanotte. Al contrario il vicino, il prossimo, mi infastidisce, mi secca,
mi disturba. Quindi siamo di fronte a una inversione: nel passato il
prossimo era l’amico e il lontano il nemico, straniero e nemico , oggi è
l’inverso. Colui che bussa alla mia porta è il nemico, mi infastidice, mi
disturba. E’ la solitudine dei grandi insiemi urbani. Al contrario, colui
che appare sullo schermo è sublimato perché è, in un certo senso, uno
spettro, uno zombi, un’ombra fuggevole, che io posso controllare con il mio
“zapping “. E’ un segno notevole, questo, della rottura del legame sociale.
Ricordo che una volta fare una città era mettere insieme le persone perché
si incontrassero nell'”agorà “, nel foro, perché entrassero in società. Oggi
siamo di fronte a una disintegrazione.
Domanda 14
Lei ha parlato contro coloro che parlano delle nuove tecnologie come di un
qualcosa che potrebbe risolvere i problemi dell’umanità. Ha detto che si
tratta di “integralismo tecnologico”.
Risposta
C’è in questo momento effettivamente un grande problema: è l’integralismo:
integralismo cristiano, integralismo musulmano, integralismo ebreo. E’ un
grande problema. La guerra santa è all’ordine del giorno perfino a Parigi
con la “Jiad”. L’integralismo mistico del monoteismo, che è un fatto
pericolosissimo per la pace civile, si incontra in Algeria, ma anche nel
Medio Oriente, e adesso anche in Francia, e si accompagna a un integralismo
tecnologico, cioè a un culto della tecnica, a un tecno-culto per un “deus ex
machina”. Non è più il dio della trascendenza del monoteismo, e quindi
dell’integralismo religioso, è l’integralismo di un dio-macchina, capace di
risolvere tutti i problemi. Io sono scandalizzato effettivamente da coloro
che presentano le nuove tecnologie in una dimensione, direi, di fede quasi
religiosa. Io dico: di fronte alla tecnica ci sono i taumaturghi e i
drammaturghi. Taumaturghi sono quelli che gridano al miracolo perché Bill
Gates ha lanciato “Window 95” o perché “Apple” ha prodotto un nuovo modello.
Penso che tutto ciò sia grave, assai grave. Manca la distanza critica che
bisognerebbe avere di fronte a qualsiasi oggetto tecnico. E’ un tecno-culto,
direi un “cyber-cult”.
Domanda 15
Si parla molto di autostrade elettroniche. Vorrei sapere se lei è d’accordo
o no con l’uso di questo termine.
Risposta
Le autostrade elettroniche dovrebbero essere chiamate supermercati
elettronici: sarebbe assai più chiaro. Si tratta di tele-acquisti. E’
evidente: tele-acquisti di informazione, tele-acquisti di convivialità,
tele-acquisti di immagini. Si tratta dunque complessivamente di
tele-acquisti. Ma mi sembra interessante che si parli di autostrade, perché
le autostrade hanno una storia che gli italiani conoscono bene, che i
tedeschi conoscono bene e che anch’io conosco bene. Sono le “autostrade” e
le “Reich autobahn “, cioè le vie strategiche fatte specialmente dal nazismo
nella prospettiva della conquista, sono strade per la conquista. Ricordo che
la Seconda Guerra Mondiale è cominciata in direzione dell’Est, là dove
arrivava l’autostrada, la ‘Reich autobah”, verso la Polonia, verso Danzica,
nel famoso “corridoio” di Danzica. Dunque, per continuare l’autostrada che
andava verso la Polonia, si dichiarò la guerra. Non si può dimenticare che
l’autostrada fascista e la “Reich autobahn” nazista sono state le immagini
della “conquista”, della grande conquista territoriale del “Lebensraum”, una
specie di colonizzazione nel cuore dell’Europa. L’immagine mi sembra
interessante sotto questo aspetto. Le autostrade dell’informazione sono, in
un certo senso, delle “Reich autobahn”, cioè vie di colonizzazione
culturale. Io non dico che sia un male in sé comunicare su scala planetaria,
ma il modo in cui si sta preparando questa possibilità è il segno di un
imperialismo della comunicazione che sta cominciando. Io sono sorpreso, sono
assai sorpreso di vedere che tutto ciò che era stato propagandato da “Apple”
come la convivialità di piccole macchine, modeste e semplicissime,
presentate come il risultato più sofisticato dell’elettronica e
dell’informatica, è stato spazzato via a profitto di una visione
imperialista dell’autostrada elettronica e della multi-medialità. E’ una
concezione evidentemenete fascista. Dunque il termine autostrada va
benissimo. Non dispiaccia ad Al Gore, vice-presidente americano: egli ha
scelto senza volerlo il termine più appropriato, ma in realtà si tratta di
supermercati.
—
Un assaggio di un testo eccezionale di Lothar Knaak
Presentazione di tre studi su alcune forme della “piccola” crudeltà comune
Le violenze individuali vengono giudicate come reati, le forme collettive però come espressioni di conflitti politici sui diversi livelli della società umana. Ciò ha come base un concetto d’identificazione che usiamo anche linguisticamente nelle forme grammaticali dei pronomi personali. La struttura è quella delle diverse estensioni del cerchio d’identità sociale. Centrale in ogni caso è la relazione personale nel raggio più stretto del “io-tu” che porta al “noi”, che si trova con un cerchio più esteso del “voi”, la quale è iscritta nell’ambito di “loro”, del cerchio più esteso delle relazioni dell’identità sociale. Ogni cerchio di questa estensione delle relazioni forma anche un’area di difesa, contenendo aspetti d’identità specifica del tipo d’intimità. Le solite ricerche sociologiche e anche psicologiche non seguono questa struttura naturale della soggettività, ma trascurano invece l’importanza della nostra dipendenza delle reciprocità dei ricambi di segnali d’identificazione. Confrontato con questa realtà si mette in moto lo smarrimento nei labirinti macrocosmi o, in direzione opposta, nei dettagli microcosmi. Negli appunti della psicologia dell’identità sociale si trovano anche studi simili, dei quali qui di seguito vengono esposti gli studi sulla violenza subita dalla vittima del terrore.
Qui: http://home.datacomm.ch/lothar.knaak/online.html
—
Crisi: proteste di massa nell’Est Europa
Di Claudio Buttazzo
Per la prima volta dal 1989 grandi cortei di protesta hanno invaso il centro
di diverse capitali dell’ Est europeo. In particolare in Lituania, Lettonia,
Estonia e Bulgaria. Ma primi fermenti si registrano anche in Polonia,
Repubblica Ceca, Ucraina.
Le manifestazioni sono state non solo fortemente partecipate, ma anche molto determinate, avendo dato luogo in alcuni casi a veri e propri assedi ai
palazzi governativi. Ed altrettanto dura è stata la risposta dei vari
regimi, che hanno mandato contro i dimostranti le forze speciali della
polizia armate fino ai denti, che sono intervenute con estrema violenza
contro i dimostranti, provocando decine di feriti. Altro che democrazia! Al
primo impatto con la protesta popolare i nuovi governanti del dopo ’89 hanno disvelato il loro vero volto. Un volto truce, che cerca di tacitare con la violenza il malcontento popolare provocato da una politica che ha creato
ricchezza abnorme per pochi privilegiati e miseria crescente per la maggior
parte della popolazione.
Qui: http://www.dirittiglobali.it/articolo.php?id_news=10629
—
Tavistock Institute
30 Tabernacle Street, London
Le origini di Tavistock
Pochi sanno quanto il Tavistock Institute ha influenzato e influenzi tuttora, sia direttamente che indirettamente e in quale profondità, la nostra vita.
Fu istituito nel 1921 per studiare i disturbi mentali, derivati dall’esposizione al terrore che si genera in battaglia, sui soldati inglesi che sopravvissero alla I guerra mondiale. Il suo scopo era quello di stabilire, sotto il controllo dell’Ufficio della Guerra Psicologica dell’Esercito Britannico, il “punto di rottura” dell’uomo in condizioni di stress.
Tavistock sviluppò le tecniche del lavaggio del cervello di massa che furono usate per la prima volta sui prigionieri americani della guerra in Corea.
I suoi esperimenti con i metodi di controllo delle masse sono stati ampiamente usati sui cittadini americani, un subdolo e oltraggioso attacco alla libertà per mezzo di psicologia applicata ad aree di territorio circoscritte.
(Leggi l’articolo per intero aprendo il link poco sopra)
—
Il caffè
(Stando così le cose io sono rovinato…)
http://www.medicinenon.it/modules.php?name=News&file=article&sid=77
Mi ricordo il primo caffè che ho bevuto.
Avevo 14 anni e mi trovavo al bar della piazza con mio zio, un preside di scuola media.
Il barista lo salutò: “Buongiorno Signor Preside!” sorridendo e mettendo enfasi su “Signor Preside” con l’attenzione riservata ai clienti di riguardo. Aggiunse:”…Caffè?”
Mio zio: “Sì grazie”… poi rivolgendosi a me: “E tu cosa vuoi?…la Coca Cola o il Chinotto?”
E io: “Voglio anch’io il caffè!”
“Ma sei sicuro?…Guarda che è amaro…non so se ti piace….e poi non fa bene ai ragazzi giovani..”
Sì sì, voglio il caffè!”
E così ebbi il mio primo caffè, non mi piacque, era amaro anche con la bustina di zucchero, e mi “legava” la lingua. Il mio istinto lo rifiutava, era un veleno, ma la mia determinazione a voler entrare a far parte del mondo dei grandi prevalse sull’istinto. Poi divenne un’abitudine, bere il caffè come i “grandi”.
Il caffè è entrato a far parte del costume di ogni popolo della terra. Ognuno ha i suoi riti a riguardo, i suoi modi di prepararlo, tanto diversi che ti aspettano sorprese se non sei preparato.
Mi ricordo il mio primo caffè ad Istanbul, mi ritrovai con la bocca piena di fondi di caffè, che vengono rigorosamente messi nella tazza!
Per non parlare di Napoli, non per niente c’è la caffettiera napoletana, dove ti mettono sempre un bicchierino di acqua da bere prima, per sentire meglio il gusto. Poi c’è che lo beve dopo, ci sono un sacco di varianti e vengono fornite un sacco di motivi e spiegazioni su come bere il caffè.
(Leggi l’articolo per intero aprendo il link poco sopra)
—
Haarp, la tecnologia per modificare il tempo (?)
«La tecnologia è come un paio di scarpe magiche ai piedi di una bambola meccanica dell’umanità. Dopo che la molla è stata caricata dagli interessi commerciali, la gente può solamente danzare, volteggiando vorticosamente al ritmo che le scarpe stesse hanno stabilito». Queste efficaci parole sono tratte dal libro: «Guerra senza limiti», scritto da due colonnelli dell’aeronautica Cinese, Qiao Liang e Wang Xiansui. Nel testo i due militari cinesi esaminano l’impatto delle nuove tecnologie sul pensiero strategico, sul terrorismo e su tutto ciò che concerne la guerra in questo XXI secolo.
Qui: http://www.indicius.it/archivio/haarp.htm
—
Quel corpo conteso
di ADRIANO SOFRI
QUANTE parole si sono consumate. “Rispetto”, per esempio. Consumata, abusata. “Rispetto, ma…”. E poi Vita, e Morte. Come si chiamerà l’assassinio quando si sia chiamata “mano assassina” quella di un medico, di un infermiere? Come si chiamerà la pena di morte quando si sia dichiarata “condanna a morte” la possibilità di lasciare riposare in pace una esistenza irreparabilmente spezzata? Che vocabolario si potrà condividere quando si siano chiamati “volontari di morte” uomini e donne che per professione e vocazione salvano e curano vite fin oltre la ragionevole speranza?
(4 febbraio 2009)
Qui:
http://www.repubblica.it/2009/02/sezioni/cronaca/eluana-eutanasia-7/eluana-sofri/eluana-sofri.html
Per parte mia penso, come stanno le cose attualmente, che sarebbe stata infinitamente meglio una siringa.
Addio Eluana, 9 Febbraio 2009.
—
Dalla newsletter di http://www.movisol.org di Lyndon LaRouche (personaggio pubblico molto controverso).
Campagna denigratoria contro Roosevelt
E’ in corso sui media internazionali una campagna denigratoria contro la figura e la politica di Franklin Delano Roosevelt, mirante chiaramente ad impedire che il Presidente Obama segua le sue orme. Lo afferma chiaramente un articolo del 1 febbraio sul Washington Post, a firma di Amity Schlaes, ex giornalista del Financial Times e membro del Council on Foreign Relations: il Presidente Obama, scrive Schlaes, “ha detto chiaramente che il suo modello è Roosevelt”, ma Roosevelt “non è degno di emulazione”. La competenza specifica dell’autrice risale ad un libro che scrisse quando usufruiva di una borsa di studio dell’American Enterprise Institute, un centro studi neo-conservatore costituito nel 1938 per contrastare le riforme promosse da Roosevelt. Il libro, intitolato “The Forgotten Man” (l’uomo dimenticato), è stato pubblicato nel 2007 dalla Harper Collins, casa editrice appartenente all’agente britannico Rupert Murdoch.
Amity Schlaes sostiene che Roosevelt non aveva una politica generale, e agiva “a casaccio”, risultando “pericolosamente imprevedibile” ai banchieri. Stigmatizza gli artefici del New Deal, sostenendo che pur non essendo veri e propri traditori, erano pesantemente influenzati dai comunisti, e solleva lo spettro dell’anti-semitismo.
Dalla Germania, il settimanale Der Spiegel online ha pubblicato il 4 febbraio un articolo del corrispondente da Washington Gabor Steingart, in cui la leadership di Ludwig Erhard nella ricostruzione economica tedesca dopo la guerra viene presentata come contrapposta alla politica di Roosevelt. Roosevelt si sarebbe limitato a creare del debito, mentre secondo Der Spiegel la politica di Erhard di “lavoro, risparmio e sudore” dovrebbe fungere da lezione per il Presidente Obama. Manco a dirlo, l’autore è un ideologo liberista che intervista spesso il megaspeculatore George Soros.
In risposta a questo articolo Helga Zepp LaRouche ha scritto che Steingart evidentemente presuppone che i suoi lettori non conoscano la storia. Roosevelt riuscì a tirare fuori l’America dalla depressione, mentre in Germania la politica di austerità di Mueller, Bruening e Schacht condusse alla dittatura di Hitler. Inoltre, la politica di ricostruzione della Germania dopo la II guerra mondiale, tramite il Kreditanstalt fuer Wiederaufbau (l’ente tedesco per la Ricostruzione) fu modellata su quella della Reconstruction Finance Corporation di Roosevelt. “Hitler avrebbe potuto essere fermato se nel 1931 la Germania avesse adottato la politica proposta dall’economista Wilhelm Lautenbach, dirigente del Ministero dell’Economia, o dal sindacato ADGB. Entrambi i piani prevedevano credito statale per creare posti di lavoro, ed avrebbero impedito la crisi sociale che consentì ad Hitler di impossessarsi del potere”.
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