Il cemento del futuro è fatto con la CO2 29.10.2009
Un nuovo materiale potrebbe rivoluzionare il modo di costruire gli edifici nel ventunesimo secolo: si tratta di un particolare tipo di cemento, realizzato immagazzinando e trasformando allo stato solido il diossido di carbonio, cioè la tanto pericolosa CO2, responsabile principale del surriscaldamento globale. La sperimentazione di questo materiale è in corso negli Stati Uniti ad opera della compagnia Calera Biz e ha già suscitato le attenzioni del mondo scientifico americano, in particolare della rivista Scientific American (1).
L’industria delle costruzioni è una delle più inquinanti in assoluto, poiché la produzione e il trasporto dei materiali edili necessitano di molta energia, che proviene sempre, in America come in Europa, da carburanti fossili. L’Epa, l’Agenzia di protezione dell’ambiente americana ha quantificato in una tonnellata le emissioni di CO2 per ciascuna tonnellata di cemento tradizionale prodotta. Il cemento della Calera, invece, ribalta l’equazione perché, secondo quanto sostiene la compagnia stessa, si può produrre una tonnellata di cemento sequestrando mezza tonnellata di CO2. Il processo potrebbe essere ancora più vantaggioso, ad esempio, se la produzione di cemento di carbonio avvenisse nei pressi di una centrale alimentata con i combustibili fossili, che garantirebbe la “preziosa” CO2 necessaria.
Alla Calera Biz. assicurano che questo materiale, simile nel colore e nella composizione al gesso, darebbe garanzie migliori del cemento tradizionale in quanto a durata, solidità e qualità antisismiche. Il principio sarebbe lo stesso delle procedure di carbon capture and storage, con una sola, decisiva differenza: invece di sparare in vena al Pianeta del veleno, lo si potrebbe trasformare in qualcosa di utile e innocuo.
Note
(1) Cement from CO2: a Concrete Cure for Global Warming? (documento pdf da Scientific American)
http://www.pianeta.it/edilizia/il-cemento-del-futuro-e-fatto-con-la-co2/
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Bocciato in sicurezza l’EPR, quello che vuole Enel 4.11.2009
Le autorità di vigilanza sul nucleare di Francia, Gran Bretagna e Finlandia bocciano il sistema di sicurezza dei reattori EPR. Il problema è nel sistema di controllo d’emergenza, che in caso di anomalia potrebbe saltare assieme a quello ordinario. Ora Areva e committenti dovranno rivedere i progetti per correggere la lacuna di questi reattori, gli stessi si vorrebbero costruire anche in Italia. Ma da noi nessuno ne parla.
L’EPR ha un problema di sicurezza e il disegno va rivisto. Arriva una nuova gatta da pelare per lo European Pressurized Reactor, il reattore di terza generazione ad acqua pressurizzata della francese Areva. Lo stesso che – stando ai progetti di Enel ed EDF – dovrebbe essere il perno del rinascimento atomico italiano. La notizia è arrivata con un comunicato congiunto (vedi pdf) dalle autorità di vigilanza sul nucleare della Gran Bretagna e dei due paesi in cui si stanno costruendo reattori con questa tecnologia: Francia e Finlandia.
In una mossa senza precedenti l’authority inglese HSE’s ND, la francese ASN e la finlandese STUK hanno deciso di muoversi assieme per far notare ad Areva e ai suoi committenti una lacuna in materia di sicurezza del disegno attuale del reattore e per imporre che vi si rimedi.
Il problema rilevato dalle tre authority è nel dispositivo di emergenza dell’impianto, ossia il sistema che in caso di anomalia dovrebbe permettere di controllare ugualmente il reattore. I dispositivi di sicurezza dei reattori EPR, attualmente in cantiere, non sarebbero adeguati per un motivo preciso, fa notare il comunicato: il sistema d’emergenza non è indipendente rispetto al sistema di controllo normale. Il rischio è che entrambi, essendo interdipendenti, possano andare in avaria contemporaneamente con il risultato che di far perdere completamente il controllo del reattore.
In Francia la notizia ha fatto abbastanza rumore, con Verdi e Socialisti che hanno chiesto una commissione d’inchiesta parlamentare sulla sicurezza del nucleare e associazioni antinucleariste come “Sortir du Nucleaire” che hanno chiesto di fermare il cantiere dell’EPR di Flamanville (l’unico attualmente aperto in Europa oltre a quello finlandese di Olkiluoto3) e di annullare il progetto di un nuovo reattore a Penly. Intanto, secondo quanto disposto dalle tre authority, sia il costruttore Areva che i committenti, come l’utility d’oltralpe EDF e la finlandese TVO, dovranno darsi da fare per ovviare al problema e per riproporre i progetti rivisti alle rispettive autorità nazionali, cosa che l’utility francese ha assicurato farà entro fine anno.
Areva minimizza (questo link si apre cliccando nel medesimo link dell’articolo riportato nel collegamento in calce http://qualenergia.it/view.php?id=1153&contenuto=Articolo): “il dialogo tra operatori, costruttori e autorità per la sicurezza nucleare è parte integrante del processo di costruzione e certificazione di nuovi reattori” e il richiamo non avrà conseguenze sulle tabelle di marcia dei reattori in costruzione. Ma non è forse un caso che solo qualche settimana fa il direttore del progetto del reattore EPR di Olkiluoto3 per l’utility finlandese TVO (interrogato al giornale francese Les Echos) nell’annunciare l’ennesimo ritardo del cantiere lo imputasse tra le altre cose anche a “ritardi nello sviluppo del sistema di controllo”.
A rendere più duro il colpo più duro dall’inusuale scelta delle tre autorità di parlare assieme e con un annuncio pubblico: le azioni di Areva ieri hanno perso il 5%. Il richiamo congiunto delle autorità, infatti, difficilmente renderà più facile la vita nei cantieri di quelli che dovrebbero essere i primi due EPR mai realizzati al mondo. Cantieri che, tra costi lievitati, obiezioni sulla sicurezza e ritardi, i loro problemi li hanno già avuti in abbondanza. A Flamanville, progetto iniziato più tardi, il ritardo accumulato è di “soli” due anni, in Finlandia i lavori sono iniziati nel 2005 e dovevano essere conclusi nel 2009, ma ad ora si sono accumulati 3 anni di ritardo e la spesa prevista è salita da 3,2 a 5,3 miliardi di euro, dando origine a una guerra legale tra il costruttore Areva e il committente finlandese TVO ( si veda Qualenergia.it “Olkiluoto, un pozzo senza fondo”).
Di tutto questo poche sparute parole sulla stampa di casa nostra. Per la serie “non disturbate il manovratore”?
GM
http://qualenergia.it/view.php?id=1153&contenuto=Articolo
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L’Onu scappa dall’Afghanistan 6.11.2009
L’Afghanistan è un luogo troppo pericoloso per l’Onu, che ritirerà oltre la metà del suo personale straniero. E quando l’Onu lascia un’area di crisi, non è certo un bel segnale. Lo insegna la storia recente in Iraq. Nel 2003 il sacrificio dell’inviato Sergio Vieira de Mello costrinse le Nazioni Unite a fare fagotto e diede inizio alla spirale di violenza culminata nella cosiddetta guerra settaria. Il portavoce dell’Onu Aleem Siddique ha detto ieri che le Nazioni Unite ricollocheranno 600 dei loro quasi 1.100 dipendenti stranieri: alcuni saranno spostati in località più sicure sempre in Afghanistan, mentre altri dovranno lasciare «temporaneamente» il Paese.
Gli italiani feriti
Anche questa volta il ritiro, per quanto parziale e provvisorio, arriva dopo un tragico attentato, l’assalto della settimana scorsa a Kabul in cui sono rimasti uccisi cinque dipendenti stranieri delle Nazioni Unite.
In questo scenario, quattro soldati italiani sono rimasti feriti ieri mattina nell’ovest del Paese. Stavano effettuando una ricognizione quando il loro blindato “Lince” è saltato su un ordigno, danneggiandosi ma proteggendoli “miracolosamente” dall’urto. I quattro sono praticamente illesi, ha rassicurato una fonte del contingente italiano a Herat. E all’ora di pranzo si trovavano regolarmente in mensa con gli altri compagni. Ecco perché i soldati italiani chiamano il blindato “San Lince”, ha ricordato ieri il ministro della Difesa Ignazio La Russa.
Le decisioni Usa
La tensione, trascorsa la fase a rischio attacchi del processo elettorale, resta altissima. La mossa dell’Onu potrebbe anche complicare i piani degli Stati Uniti. Il presidente Barack Obama, chiamato nelle prossime settimane a pronunciarsi su un robusto aumento delle truppe, si augura che allo stesso tempo venga rafforzata l’assistenza da parte di personale civile. Diversamente, l’Afghanistan rischia di essere solo un campo battaglia, facendo perdere di vista gli obiettivi di rappacificazione, per non dire della ricostruzione.
L’Onu ha circa 5.600 dipendenti nel paese, l’80% dei quali di nazionalità afghana. I 600 stranieri che saranno spostati rappresentano circa il 12% del personale totale. «Le Nazioni Unite sono in Afghanistan da quasi un secolo e non ce ne andremo ora. Il popolo afghano vuole che restiamo», ha detto il portavoce Aleem Siddique all’agenzia Reuters.
via gli stranieri
Intanto al grido di «stranieri fuori dall’Afghanistan», centinaia di persone hanno manifestato a Lashkar Gah, capoluogo della provincia di Helmand, contro le forze della coalizione.
All’origine della protesta l’uccisione di 9 civili durante un’operazione della Nato nella provincia meridionale del Paese. Secondo altre fonti, invece, i morti sarebbero 11, uccisi da un raid aereo statunitense.
L’Isaf ha confermato di aver centrato ieri con un missile un gruppo di ribelli che stava piazzando una bomba artigianale, e che nessun civile si trovava nelle vicinanze.
Il presidente Hamid Karzai, che dopo l’annullamento del ballottaggio si appresta a insediarsi per un nuovo mandato, ha ordinato l’apertura di un’inchiesta. «Il presidente condanna vivamente l’attacco che ha ucciso nove civili a Babaji, nella provincia di Helmand», si legge nel comunicato in cui si annuncia l’apertura di una inchiesta.
Alle precarie condizioni della sicurezza e all’instabilità politica si aggiunge l’ostilità della popolazione locale. Una nota della Isaf ha informato ieri della morte di un altro soldato americano, colpito durante un attacco nell’est del Paese. Sale così a 460 il numero di militari stranieri uccisi in Afghanistan dall’inizio dell’anno, 282 dei quali americani. Si tratta dell’anno più sanguinoso dall’invasione del 2001. I militari italiani coinvolti nell’esplosione di ieri appartengono al 183esimo Reggimento paracadutisti della Folgore: sono il primo caporal maggiore Luca Telesca; il primo caporal maggiore Francesco Catania e i caporal maggiori Vincenzo Crispo e Francesco Munafò. Sempre il ministro La Russa ha confermato che fra tre giorni inizierà il ritiro dei 400 soldati italiani mandati come rinforzo per il periodo elettorale. A questo punto sono circa 3.000 i nostri militari impegnati su un fronte sempre più caldo.
http://www.libero-news.it/articles/view/591403
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Scudo, pace Italia-Svizzera: «Dialogo per superare criticità» 5.11.2009
Italia e Svizzera intendono continuare «il dialogo superando le criticità emerse nelle ultime settimane nell’applicazione dello scudo fiscale». E’ la volontà comune affermata dal ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola e dal responsabile dell’Economia svizzero, Doris Leuthard, nel corso di un incontro al Dicastero di via XX Settembre.
Nel colloquio fra i due ministri, che non hanno competenze dirette nei settori fiscale e finanziario, si è discusso dello stato delle relazioni tra l’Italia e la Confederazione elvetica in campo economico-commerciale e nel settore energetico. I rapporti economici tra i due paesi, sottolinea il ministero, «sono improntati a forti legami storico, culturali e linguistici». L’Italia è il terzo partner della Svizzera a livello globale e il secondo nell’Unione europea; l’interscambio commerciale tra i due paesi è stato di 25,7 miliardi di euro nel 2008; gli investimenti italiani in Svizzera sono stati pari a 225 milioni; la Confederazione è il sesto paese investitore in Italia. E anche se negli ultimi mesi le relazioni commerciali hanno risentito della difficile congiuntura internazionale, i due ministri hanno condiviso l’opportunità di aumentare la cooperazione economico-commerciale bilaterale.
La Svizzera vuole «andare avanti con i negoziati sulla doppia imposizione, ma la condizione è che non vogliamo essere sulla lista nera». Lo afferma il ministro dell’Economia svizzero, Doris Leuthard, che oggi ha incontrato il collega italiano, Claudio Scajola, con cui ha parlato anche della «volontà di continuare il dialogo, superando le criticità emerse dopo lo scudo fiscale». Leuthard ha definito “legittimo” lo scudo fiscale ma, ha aggiunto, «non accettiamo questa criminalizzazione: la Svizzera non è più sulla lista grigia, non è un paradiso fiscale».
Il ministro svizzero, pur precisando di non essere competente per la materia fiscale, ha ricordato che le relazioni commerciali tra Italia e Svizzera «non hanno problemi: la Svizzera è al sesto posto come investitore in Italia e l’Italia al terzo nell’interscambio con la Svizzera. Inoltre – ha aggiunto – ci sono 50mila transfrontalieri al giorno che vengono in Svizzera in cerca di lavoro: non vogliamo problemi bilaterali e speriamo che ci sia una soluzione – ha continuato – sullo scudo fiscale».
Leuthard ha definito “utile e importante” il negoziato sulla doppia imposizione: «Abbiamo concluso più di 17 nuovi accordi su questo e vogliamo procedere con i Paesi vicini».
Ma allo stesso tempo ha criticato duramente «la maniera in cui è stato fatto lo scudo fiscale», citando in particolare l’installazione di videocamere alle frontiere: «Non è il modo adeguato», ha detto. Nell’ambito del dialogo da lei auspicato tra i due Paesi, non è, comunque, previsto un incontro con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.
Tremonti. Lo scudo fiscale sta dando risultati buoni e il Tesoro si attende dall’operazione «un gettito fiscale di 3-4 miliardi». Lo ha detto, secondo quanto riferito da alcuni partecipanti, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ai rappresentanti della maggioranza nel vertice di questa mattina al Senato sulla Finanziaria. Tremonti, riferiscono le stesse fonti parlamentari di maggioranza, ha anche aggiunto che «il rientro medio dei capitali e di 800mila euro» e che «l’80% delle operazioni riguarda rientro di capitali e non semplici regolarizzazioni». Da un gettito fiscale di 3-4 miliardi, in base all’aliquota del 5% applicata sui capitali regolarizzati, si potrebbe stimare un rientro compreso tra i 60 e gli 80 miliardi.
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Leucemia, nuovo farmaco uccide cellule malate 5.11.2009
Gli scienziati irlandesi che hanno realizzato la scoperta la considerano “rivoluzionaria“: si tratta di un nuovo farmaco in grado di uccidere le cellule della leucemia.
La molecola, ribattezzata PBOX-15, distrugge le cellule cancerose nei pazienti adulti con una prognosi negativa che hanno mostrato resistenza ad altri trattamenti.
Il Professor Mark Lawler del Trinity College Dublin chiarisce che occorreranno dai tre ai cinque anni prima che la scoperta della sua equipe si traduca in un farmaco utilizzabile per la cura della leucemia.
“Siamo ancora nelle prime fasi dello sviluppo della molecola; dobbiamo effettuare altri studi fondamentali, per esempio capire quali possano essere gli effetti collaterali“, dice il professore.
“Ma i primi risultati sono molto promettenti, vogliamo dare questa nuova speranza ai malati di cancro“, aggiunge Lawler. Lo studio è frutto di una collaborazione tra scienziati irlandesi (Trinity College Dublin, St James’s Hospital, sempre a Dublino, e Belfast City Hospital) e italiani (dell’Universita’ di Siena).
Il Professor Lawler spiega che, nei test condotti sui pazienti affetti da leucemia, il farmaco ha attaccato e spezzato la struttura delle cellule malate. Il farmaco si è dimostrato efficace anche nel trattamento della Leucemia Linfocitica Cronica (LIC), il tipo di tumore del sangue e del midollo osseo che rappresenta la forma di leucemia più comune tra gli adulti nel mondo occidentale.
Secondo l’equipe di Lawler, il PBOX- 15 è risultato più efficace delle attuali cure usate per curare la malattia e ed è riuscito a uccidere anche le cellule dell’LIC resistenti agli altri farmaci, come si legge sulla rivista Cancer Research.
Per approfondire:
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Banda larga: arrivederci al 2011 5.11.2009
Il governo ha deciso di congelare gli 800 milioni di euro promessi. Il digital divide rimane dov’è: per il momento la priorità sono altre, se ne parlerà alla fine della crisi
Roma – L’eliminazione del divario digitale italiano può, anzi, deve aspettare, “perché il governo ha cambiato l’ordine delle priorità”. Lo ha dichiarato il il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, spiegando che gli 800 milioni di euro promessi dal governo per l’adeguamento della Rete italiana sono stati congelati in attesa che la crisi economica si sia esaurita del tutto.
Letta ha sottolineato che i fondi erano stati promessi prima dell’esplosione del credit crunch: “Abbiamo dovuto riconsiderare le cose per dare la precedenza a questioni come gli ammortizzatori sociali perché – ha proseguito – l’occupazione è la nostra principale preoccupazione”.
Questa cifra sarebbe dovuta essere parte di un fondo totale di 1471 milioni di euro, il minimo indicato dal Rapporto Caio per consentire all’Italia superare il digital divide e mantenere fede alle promesse fatte dal ministro Renato Brunetta poco più di due settimane fa. Anche il viceministro Paolo Romani aveva sottolineato l’importanza di “partire oggi per non perdere il treno della banda larga”.
Servono soldi per mantenere i lavoratori in cassa integrazione, per incentivare le aziende: ciò che preme all’esecutivo italiano è il rilancio dell’economia, per il quale 800 milioni di euro potrebbero rivelarsi utili. Tuttavia è sempre Letta a spiegare che “i fondi stanno lì, non sono stati spesi nè sciupati: una volta usciti dalla crisi si potrà riprendere l’ordine della priorità, e la prima sarà la banda larga”.
Le reazioni sulla blogosfera italiana non si sono fatte attendere, ma nonostante le sollecitazioni di sblocco fatte al convegno “Il futuro dell’economia digitale in Italia”, organizzato da IAB Forum, è stato ancora una volta Letta a ribadire l’impossibilità di utilizzo immediato degli 800 milioni.
Sembra quindi che solo nel 2011 si inizierà a investire seriamente per dare agli utenti italiani un velocità di navigazione tra 2 e 20 mbps. Una banda sì larga, ma non paragonabile a quella che avranno presto a disposizione gli utenti svedesi e finlandesi. In Finlandia si parla di Diritto alla Rete e ci sono progetti per far arrivare 100 mbps in ogni abitazione, mentre dall’altra parte del Golfo di Botnia entro il 2020 almeno il 90 per cento della popolazione navigherà anch’essa a 100 mbps.
http://punto-informatico.it/2743741/PI/News/banda-larga-arrivederci-al-2011.aspx
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Parnassus – l’uomo che voleva ingannare il diavolo
Di Manfred Zeit, 4.11.2009
Terry Gilliam raggiunge l’apice della sua genialità visionaria. Riflette sulla civiltà contemporanea e sul significato stesso del fare cinema, del rappresentare, trasportando lo spettatore dentro e fuori dal suo specchio, in mirabolanti mondi “immaginari”. Ultima interpretazione “incompleta” del grande Heath Ledger al quale il film è dedicato
Il millenario immortale Dr Parnassus ha stretto un patto col diavolo, in cambio dell’anima di sua figlia, che dovrà cedergli al compimento del suo sedicesimo anno, ha ottenuto l’immortalità e il potere di materializzare i mondi immaginari e desiderabili di ogni persona. Parnassus si aggira per una cupa Londra contemporanea col suo baraccone, l’Imaginarium, accompagnato dalla figlia Valentina, dal giovane assistente, di lei innamorato, dal classico alter-ego nano e dal furbastro affabulatore Tony, salvato dalla crew del Dr Parnassus proprio mentre già penzolava con la corda al collo.
Sgombriamo subito il campo: trattasi di un capolavoro, complesso, iperstratificato, geniale, beffardo. Difficilmente catalogabile e assolutamente destinato ad entrare nella storia del cinema come uno dei più personali film visionari che siano mai stati prodotti. Capolavoro di un regista, Gilliam, che è ormai impossibile non accostare ai grandi maestri del cinema “fantastico autoriale” di ogni epoca: da Méliès a Fellini, da Vigo a Tim Burton, fino agli inglesi Ken Russel, Peter Greenaway e Derek Jarman – si, perché la Londra postmoderna e violenta di Gilliam (unico americano dei Monty Python!) che si trasfigura in regno di delirio immaginativo dalle tinte punk-elisabettiane, è decisamente affine a quella che vediamo in molte opere di questi tre autori.
Se in buona parte delle pellicole precedenti del regista (“Brazil”, “La leggenda del Re Pescatore”, “Delirio e paura a Las Vegas”, “Tideland”) l’immaginario e il fantastico erano luoghi di fuga da un reale crudele, insostenibile o più semplicemente insoddisfacente, in “Parnassus” è il reale ad essere ormai confuso e irrimediabilmente interscambiabile con l’Immaginario. Un Immaginario che non è quello de “Il favoloso mondo di Amélie”, ma è invece pericoloso, da incubo e troppo spesso mistificatorio in quanto corrotto da un Reale sempre più distorto e illusorio (i giornali, i soldi, i desideri sfarzosi e mielosi delle ricche signore londinesi, il falso buonismo della beneficenza alleata con la mafia). Ecco, anche se a una prima superficiale lettura questo dato può sfuggire, anche qui, più che mai, il cinema di Terry Gilliam, ha una profonda valenza “politica”; il lato fantastico non è mai lasciato andare a briglia sciolta, semmai è utilizzato per fare riflettere, per ridestare importanti interrogativi sulla società in cui viviamo. Tutta la pellicola è attraversata da un profondo conflitto di forze, di categorie, di valori opposti: bene-male, verità-menzogna, vita-morte, realtà-finzione, passato-presente… E il mondo che passando “attraverso lo specchio” ognuno trova non è mai consolatorio, conciliante, è semmai pericoloso, rapisce, esplode, oltre ad essere, il più delle volte, esteticamente kitsch, ridicolo, demenziale.
In “Parnassus” tutto il cinema di questo autore è come compendiato, la poetica di Gilliam si manifesta appieno e volteggia ad altissima quota. I riferimenti estetici sono innumerevoli, e a tal punto disparati e distanti che a volerne elencare soltanto una decina, già sembrerebbero troppo incoerenti e inconciliabili per poter coesistere in maniera convincente in un’unica opera. Ma il talento di Gilliam, questa volta, riesce magnificamente a inglobarli nella sua visione, oltreché a farseli complici nel veicolare la propria esigenza espressiva. In “Parnassus” c’è il Faust di Goethe, ma anche quello di Marlowe, c’è tutta la follia fantasiosa degli elfi e delle fate Shakespeariani e indubbiamente anche il Prospero de “La Tempesta”, c’è Lewis Carroll (già “Tideland” era una sorta di riscrittura di “Alice nel paese delle meraviglie”), ci sono infiniti rimandi alla storia dell’arte, c’è la psichedelia acida messa in cortocircuito con effetti digitali, ai limiti del cattivo gusto, da disturbante video-game, c’è del sottile e sarcastico sense of humor molto britannico, c’è pure del tardo romanticismo goticheggiante, sempre molto britannico, polveroso e strampalato; si va da Mary Shelley, Henry James, M.P. Shiel ai mimi di Lindsay Kemp, la casa museo londinese di Sir Soane, le wunderkammer, le bancarelle di Portobello Road.
Sebbene Terry Gilliam, per realizzare i suoi mondi immaginari, abbia fatto pieno uso di effetti digitali, la forza di quest’opera non è data esclusivamente dalla sua tracotante e mirabolante potenza visiva. Tutt’altro, in quanto è nella grandezza umana, e al contempo iconica, dei suoi personaggi che risiede il fascino più irresistibile di questo film. Gli attori sono tutti diretti in una maniera assolutamente unica, i loro personaggi rimangono, colpiscono. Christopher Plummer è un Dr Parnassus perfetto, capace di attraversare le epoche della lunghissima vita del suo personaggio in maniera convincente e toccante; sua figlia, interpretata da Lily Cole, è incantevole, una bellezza fatata, pittorica (sembra quasi uscire da una tela di Cranach o da un’acquaforte di Dürer); l’assistente nano (che è meglio di un nano!) di Verne Troyer incarna perfettamente l’elemento ironico della storia; Mr. Nick è un Diavolo dandy-blues al quale il grande musicista Tom Waits regala, grazie alla geniale intuizione del regista, la sua interpretazione cinematografica più memorabile. Infine, ma non per ultimo, proprio perchè il film è dedicato a lui, è da magnificare l’interpretazione di Heath Ledger, scomparso durante le riprese, probabilmente suicida, che interpreta il ruolo ambiguo e fascinoso di Tony, seduttore di cuori e di anime.
« Era straordinario, non penso che il mondo abbia nemmeno cominciato a comprendere la reale portata del suo incredibile talento. Penso che nessuno della sua generazione possa nemmeno avvicinarsi alle sue capacità, era semplicemente il più straordinario attore sulla faccia del pianeta. »
Così ha dichiarato Terry Gilliam, durante la retrospettiva dedicata al suo cinema in occasione Milano Film Festival 2008. E proprio la morte del suo attore feticcio, ha portato il regista a interrompere le riprese di “Parnassus”, fino a quando, non volendo né buttare via le parti già girate da Ledger, sostituendolo con un altro interprete, né completare il film attraverso la ricostruzione digitale dell’amico defunto, si è egli stesso inventato una soluzione “di sceneggiatura” geniale, oltreché perfettamente coerente. Quando Tony passa attraverso lo specchio dell’Imaginarium cambia volto a seconda di come la persona che sta accompagnando desidera vederlo. A incarnare i volti “desiderati” di Tony accorrono tre dei più grandi attori cinematografici contemporanei, Johnny Depp, Jude Law, Colin Farrell (i quali devolveranno tutti i loro compensi alla figlia dell’amico). Così l’Imaginarium diventa anche metafora del cinema stesso come produttore di sogni, realizzatore dei desideri delle persone. Il Tony di Johnny Depp, accompagnatore immaginario della ricca signora la quale vede passare sulle acque le fotografie dei suoi tre defunti divi favoriti, dichiara che gli attori non muoiono mai, diventano miti e restano vivi continuando ad alimentare l’immaginario di chi li ama.
Tra il finale e i titoli di coda apparirà un commovente teatrino nel quale è incorniciato il giovane Heath, vestito dei costumi di un simbolico Pierrot, sovrastato dal titolo “Un film di Heath Ledger e amici”.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13377
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La vera storia del club Bilderberg
di Olghina di Robilant – 31/10/2006
I “soci” del Bilderberg descritti come adepti di una setta da “Codice da Vinci”. Potenti in grado di cambiare il corso della storia o solo un’associazione di ricchi influenti?
Quello che ci rivela il segreto più segreto del mondo si chiama Daniel Estulin ed è il nipotino di un vecchio colonnello del KGB, ma è soprattutto un giornalista specializzato in vari tipi di indagini ed inchieste. L’ultima lunghissima sua fatica sta incendiando la stampa francese e non solo. Riguarda il nome di “Bilderberg” che sarebbe un’associazione segreta di potentissimi nel mondo intero.
Non una lobby, non una loggia massonica ma un vero e proprio Club ideato nel 1954 in un palazzo olandese a Oosterbeckl dal principe Bernardo d’Olanda, padre dell’attuale regina Beatrice, e da David Rockefeller; un’associazione formata da eminenze grigie, politici, imprenditori, teste coronate e potentissimi di tutto il mondo i cui nomi includono Juan Carlos di Spagna e sua moglie la regina Sofia, Filippo del Belgio, Carlo d’Inghilterra, George Soros, Henry Kissinger, Gianni Agnelli, Niarchos, i Rothschild e tutti i più noti personaggi dell’ultimo mezzo secolo. In breve, un concentrato di potere che pare si sia mosso in tutte le direzioni scegliendo e favorendo addirittura l’elezione di Capi di Stato, Bill Clinton pare, stabilendo l’utilità di armamenti e guerre, facendo rotolare molte teste ed eleggendone altre, sostenendo i conflitti in Irak e Afghanistan, sostenendo gigantesche operazioni imprenditoriali con le loro “Advising Committee” o “ Steering Committee” ed altri tantissimi comitati per ogni diversa causa.
Incredibile? Molti negano, molti accusano, il giornalista a sua volta si difende con tanti (troppi) dettagli che offrono credibilità. Per esempio ci dice che nel Maggio del 2003 i partecipanti al Club segreto si incontrarono al Palazzo Trianon di Versailles, nel 2004 al Grand Hotel delle isole Borromee a Stresa, nel marzo del 2005 al Dorino Sofitel Seehotel a Rottaci-Egern vicino a Monaco e nel Giugno di quest’anno all’Hotel Brookstreet di Ottawa in Canada.
Dice che le riunioni durano 4 giorni, sempre da un Giovedì mattina alla Domenica pomeriggio, e che in tali occasioni gli alberghi prescelti si svuotano della normale clientela per offrire la massima segretezza. Pare che, attualmente, sia il visconte belga Etienne Davignon, anziano Commissario europeo, quello che dirige le destinazioni dei gruppi. Si fanno chiamare i “Bilderbergers” e le loro affiliazioni includono membri specializzati per diverse voci. Lo “Steering Committee” (comitato direzionale o guida/governo dello sterzo…insomma i timonieri) ad esempio sarebbe costituito da 35 personaggi famosi e potenti sia europei che americani.
Troppi i particolari da elencare. Pare che i tanti soci si ritengano pionieri della costruzione europea e di grandi scelte a livello mondiale, e che non accettano di essere criticati o giudicati come setta occulta. Ma lo sono, almeno fino ad ora, e non certo in odore di santità volendo dar credito al giornalista indagatore. Curiosamente a pubblicare il libro dell’inchiesta di Daniel Estulin sono editori spagnoli. I titoli dei due libri/inchiesta sono: “Los secretos del Club Bilderberger” edizioni Planeta, e “La verdadera historia del Club Bilderberg”. Dico ‘curiosamente’ perché tra i membri del Club indicati con reiterazioni figurano proprio i sovrani di Spagna. Ancora una dimostrazione della democrazia spagnola che si eleva al disopra delle istituzioni e poteri e differenza di altri Stati europei. Non si possono cercare i ‘bilderbergers’ sui siti Internet, perché i soci non sono ingenui e non vorrebbero certamente essere pubblicizzati. Forse oggi però si possono trovare molti commenti, articoli e Blog sull’argomento.
Di certo i potenti complottano, come hanno sempre fatto, a livello mondiale ma quello che si ottiene dalle pagine dei due libri citati è un mondo che ci porta diritti a Dan Brown e il suo “Codice da Vinci”. Una trama pazzesca, ed una storia, quella dei grandi settari di Estulin, che fa sembrare infantile l’invenzione dello scrittore americano. Basterebbe quel nome da loro scelto, Bilderberg, che significa in tedesco: la “montagna delle immagini”; come a voler sottolineare l’importanza odierna dell’immagine e quanto si può fare, influenzare, agire, trasformare, condizionare e schiacciare usando l’immagine.
C’è da supporre che tra gli strumenti più adoperati vi sia l’editoria, le televisioni, Internet e tutti i grandi mezzi della tecnologia comunicativa. Sennò perché parlare di ‘immagine’? Cospirazioni? Complotti? Dice Pierre André Tagueff, storico e autore di libri sui complotti mondiali: “I Bilderberg” non vedono con dispiacere il fatto che si attribuisca loro un potere invisibile. E’ lusinghiero per loro. Secondo me si tratta più semplicemente di un’associazione tra donne e uomini ricchi e potenti. Il che però non esclude la possibilità di un gioco perverso, con altre società segrete, dando loro il potere di “mossieri”.
Che fare? Che io sappia non c’è mai stato un processo intentato contro i protagonisti e autori di tale settarismo. Del resto oggi è anche una moda dilagante quella dell’esoterismo, del complottismo e il voler decriptare il mondo che ci circonda. Ecco il successo di “X Files” e il “Codice da Vinci” oltre a centinaia di cospirazionisti su Internet. E’ come dire: “ meglio un demonio che dia un senso a tutto piuttosto che niente” . Deduzione desolante quella di Tagueff , che però non giustifica la possibilità di un gioco reale tra realissimi personaggi potenti, ovviamente sempre a danno degli impotenti.
Olghina di Robilant per Dagospia
Fonte: http://www.noreporter.org/
30.10.06
ARTICOLI DI DANIEL ESTULIN:
UN INCONTRO CON LA POLIZIA ITALIANA VERSO IL BILDERBERG
IL MONDO NEL PALMO DELLE LORO MANI: BILDERBERG 2005 (PARTE PRIMA)
IL MONDO NEL PALMO DELLE LORO MANI: BILDERBERG 2005 (PARTE SECONDA)
BILDERBERG: ALEX JONES INTERVISTA DANIEL ESTULIN
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=6252
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di don Andrea Gallo, La Repubblica Genova il 6.11.2009
L’Italia è percorsa dall’ossessione identitaria.
La Libertà religiosa non può non tener conto del rispetto del pluralismo.
I Padri fondatori dell’Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a “radici cristiane” nel 1950.
La loro intuizione profonda era quella, in cui si voleva unificare l’Europa, intorno all’eguale diritto di tutti e di ciascuno.
Un Europa interetnica, interreligiosa, laica.
Questa è la strada maestra. Riflettiamo profondamente, non stracciamoci le vesti. Liberiamoci da argomenti strumentali.
Il Crocifisso non è un’icona culturale.
Il Cristo Gesù per i credenti, è il Salvatore di tutti e non è sicuramente un simbolo di Divisione.
Anche il fronte “laico commetterebbe un gravissimo sbaglio, servendosi del Pronunciamento per rilanciare una incivile campagna anticristiana.
In questi giorni rispunta l’uso politico della religione cattolica e dei suoi valori. Mussolini soleva dire: “sono cattolico e non cristiano”.
Ci si butta nell’opportunità feconda per guadagnare consensi in una triste stagione dove vince la frammentarietà culturale e etica e le tentazioni identitarie. Vaghe e localistiche.
In tempi postcristiani la religione “trionfa” soprattutto come risorsa identitaria ed etica che la rende più facile preda di forze politiche che vogliono sfruttarla a proprio vantaggio elettorale.
Gesù ha voluto una comunità di seguaci inserita nella “Città” in cui sono “principi irrinunciabili” il perdono, l’amore dei nemici, il servizio agli altri, l’accoglienza, la solidarietà, l’Amore, il Martirio.
Al Cristianesimo servono testimoni non testimonial. Mi chiedo frastornato: come mai così tanto zelo nel difendere il “Crocifisso” nelle scuole non si estende ai nove milioni di poveri, ai precari, ai senza lavoro, ai “senza identità, ai senza casa, ai migranti, ai “Clandestini”, ai Detenuti, alla salute di tutti.
Credo sia l’occasione di porsi domande serie, almeno all’interno delle Comunità Cristiane. C’è autentica conoscenza del fondamento storico della Fede Cristiana in Cristo risorto?
Il Cuore del messaggio Cristiano ha ben poco a che fare con giochi di potere, interessi economici, meschinità travestite da nobili parole, impunità, arroganza, xenofobia, omofobia, razzismo.
La buona “notizia” che può destare la Fede non è affidata a un libro o una pellicola, a professioni ipocrite, ad un crocifisso, ma a Uomini e Donne in carne e ossa : è la “vita” dei Cristiani che deve essere un racconto credibile del Vangelo, un racconto che nessuna “crociata” può sconfessare.
Solamente riconoscendo la pluralità dei valori presenti anche nella Società non cristiana che si può stare nella storia e tra gli Uomini secondo lo Statuto evangelico. (I lettera a Diogneto).
Continueranno i ricorsi, le grida ,le sceneggiate.
C’è una gara per esibirsi “chierichetti” nei confronti dei Vescovi. Non ci credo proprio: l’emergenza grave non è la sentenza del “crocifisso”negato.
Nel mio iter scolastico, dall’asilo al Nautico, il crocefisso era scortato a destra dal Re Vittorio Emanuele III e a sinistra dal Duce.
L’Emergenza gravissima è la tenuta democratica del Paese intero. Termino citando un passaggio del Card. Dionigi Tettamanzi, all’Omelia del 1 novembre al Campo della Gloria del Cimitero monumentale di Milano letta dal Mons. Gianfranco Bottoni.
Parlando dell’Italia di oggi dice: “Al di là delle diverse e opinabili diagnosi, c’è il fatto che oggi molti, forse i più, non si accorgono del processo, comunque in atto, di morte lenta e indolore della Democrazia, del processo che potremmo definire di progressiva “eutanasia” della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista.”
Non mi preoccupa come finirà l’applicazione del Regio decreto del 1924 che introduceva il “crocifisso” nelle Aule scolastiche.
Vorrei mantenere lucidità di giudizio per concludere che questa sentenza può aiutare tutti a comprendere meglio i segni dei tempi, lo ripeto, in cui la difesa della libertà religiosa non può non preoccupare, con tutto il cuore laico, cristiano il rispetto del pluralismo, e soprattutto può stimolare a vincere le “paure” per affrontare una riflessione più profonda sulla convivenza tra i diversi, considerando la ricchezza, un Bene e un valore proprio questa sua alterità.
Ripartiamo da capo con Umiltà, ogni mattina, davanti alla Croce.
Il Cristiano è abitante della Polis (è un diritto, ma anche un dovere) mentre ha la Sua Cittadinanza nei cieli.
Ecco la Profezia della Fede cristiana.
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Democratici e cristiani 9.11.2009
LUCIA ANNUNZIATA
Il volto e la sapienza parlamentare sono quelli di Nancy Pelosi, Madam Speaker come recita il suo titolo, che lasciando l’aula dopo il voto ha replicato ai complimenti con quello che appare già come il migliore degli understatement della storia parlamentare americana: «Dopo tutto, è stato facile». In realtà non lo è stato affatto. Pelosi ha messo insieme un successo mai ottenuto da nessuno dei suoi predecessori: una maggioranza risicata, ma maggioranza, di 220 contro 215 a favore dell’assistenza medica universale in America.
Ma questa vittoria non sarebbe stata possibile senza un incredibile, inatteso, e fino all’ultimo improbabile accordo con i vescovi della Chiesa cattolica americana. Senza il loro sì molti dei deputati democratici non avrebbero votato a favore.
Dentro questa prima vittoria in Congresso della riforma medica è nascosta dunque una seconda pepita d’oro. L’accordo trovato fra Casa Bianca e Chiesa ha implicazioni ben più profonde della stessa vittoria parlamentare, perché traccia ora una strada maestra nei rapporti fra il presidente Barack Obama e papa Benedetto. Il compromesso trovato dimostra fin dal suo percorso il valore di cambiamento che contiene.
Da parte democratica è stato il capolavoro, come si diceva, di Nancy Pelosi, capo della maggioranza democratica alla Camera. La Pelosi è essa stessa cattolica (sia pur «da caffetteria» come dicono i conservatori), ma anche, da anni, voce preminente a favore dei diritti delle donne e dunque dell’aborto.
Dall’altra parte, c’è stata la Conferenza episcopale che fino alle ultime ore prima del voto ha tenuto il punto, mobilitando le sue parrocchie in tutti gli Usa, perché la riforma non contenesse un indiretto via libera all’aborto fornendogli copertura medica. L’assistenza finanziaria all’interruzione della gravidanza non è punto irrilevante – il maggior numero di aborti si segnala infatti proprio fra le classi più povere. Argomento questo imbracciato, di converso, dalle molte organizzazioni femminili per dimostrare quanto ogni eventuale compromesso su questo emendamento sia punitivo proprio per le donne più esposte.
Che in questo ginepraio di voci, interessi e fedi, si sia alla fine trovata una intesa è quasi un miracolo. Intesa che, da sola, come si diceva, prova non solo la saggezza politica dei democratici, ma anche quanto importante sia per l’amministrazione Obama un accordo con i cattolici.
La prima ragione che ha indotto Obama a trattare – anche mettendo in conto di perdere, come è successo, una parte di elettorato femminile – ha a che fare con la composizione dell’attuale Congresso. I democratici negli Anni 80 e 90 hanno continuato ad eleggere senza problemi rappresentanti con forti opinioni pro aborto. Ma nelle ultime elezioni Obama ha trascinato con sé a Washington una maggioranza così ampia e variegata da non permettere più una posizione coesa sul tema. Semplicemente, i nuovi eletti hanno una base troppo differenziata per poter votare una rottura radicale con la Chiesa.
La Chiesa, appunto. L’altro grande protagonista di questa battaglia. La Chiesa americana, come si sa, ha vedute sociali molto ampie, ed ha appoggiato con entusiasmo Obama. Non era un appoggio scontato. I democratici sono anche in buona parte cattolici, ma questo voto dei fedeli di Roma negli ultimi anni è stato molto oscillante. Proprio nella rielezione del 2004 di Bush, e proprio sul tema dei valori e dell’aborto, passò in massa ai repubblicani. La riconquista di questo settore di elettori è dunque molto preziosa per i democratici di oggi. La Chiesa Usa, a dispetto di tutte le sue traversie – di cui la più famosa sono gli scandali pedofili – e del diminuire dei suoi fedeli, mantiene infatti una grande influenza proprio nelle aree sociali colpite oggi dalla crisi, le zone ex operaie, ed è rilevantissima fra i latini, unico settore di voto che tende a crescere.
Eppure, in questa ricerca di una sintonia fra Casa Bianca e Chiesa cattolica in America c’è qualcosa di più degli stessi interessi nazionali comuni. Obama è molto amato dai vescovi Usa per la sua piattaforma sociale anche a livello internazionale. Questi vescovi, potente forza anche nella politica del Vaticano, sono dunque forti sostenitori di un rapporto speciale fra Roma e Washington. Fra Benedetto e Obama, ragionano, ci sono grandi interessi comuni: la giustizia sociale, l’Africa, il progetto «verde» per il mondo. Ma finora proprio la posizione dei democratici sull’aborto ha impedito ai rapporti fra Roma e Washington di diventare calorosi.
La Chiesa americana, lavorando per un accordo sulla riforma universale senza aborto, ha inteso dunque lavorare anche a far progredire le relazioni fra queste due grandi potenze che sono gli Usa e il Vaticano. La loro collaborazione, sognano i vescovi Usa, può preparare un ulteriore passo avanti per tutto il mondo.
E’ dunque con questo senso di speranza che dobbiamo leggere l’articolo scritto ieri dal settimanale cattolico «America», fondato nel 1909, gestito dai gesuiti, considerato la più influente voce cattolica del Paese. Il titolo è: «Il voto alla Camera: un grande trionfo per la Chiesa», e vi si riafferma il senso di un passaggio storico, di una mediazione trovata su due temi difficili eppure irrinunciabili. E’ stato un trionfo della Chiesa cattolica. Ma anche per una visione del mondo che la Chiesa ha sostenuto spesso da sola, contro l’individualismo radicale della cultura americana. «Il nostro credo che l’assistenza universale sia un diritto, non un privilegio, ha ieri fatto un gigantesco passo avanti. Ieri ha fatto un gigantesco passo avanti anche l’idea che l’opposizione all’aborto sia un principio su cui non sono possibili compromessi».
Come si vede, sono parole chiare, e impegnative. Soprattutto per Obama.
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8/11/2009 – IL NODO DELLA RIFORMA
Giustizia, Fini stoppa Berlusconi: “Più rispetto per gli altri poteri”
Il presidente della Camera si dice contrario allo scudo salva premier: «Clima da caserma, non firmerò». E sulle riforme: «Siano condivise»
ROMA
Gianfranco Fini marca la propria distanza dall’impostazione che Berlusconi dà alla propria investitura popolare, e soprattutto manifesta la propria contrarietà al nuovo «scudo» per Berlusconi a cui sta lavorando Niccolò Ghedini, vale a dire alla legge che sostanzialmente accorcia i tempi di prescrizione dei reati. Intervistato da Fabio Fazio a «Che tempo che fa», Fini ha sollevato anche dei dubbi sulla reale indipendenza degli attacchi di Vittorio Feltri dallo stesso Berlusconi.
Il presidente della Camera è partito proprio dalla nuova bordata del direttore de «il Giornale», che in un articolo ultimativo, preannuncia che in settimana Berlusconi chiederà a tutti i parlamentari del Pdl di firmare un documento in cui si impegna a votare una legge «scudo» per proteggerlo dai nuovi processi. «Gli autografi si chiedono a Sting non ai deputati», ha detto riferendosi al cantante inglese anch’egli ospite di Fazio. «Il presidente della Camera come tale, poi – ha aggiunto – non firma nulla. I deputati si regolano loro».
Su Feltri, Fini ha prima stemperato la polemica («sono convinto che le volontà che Feltri attribuisce a Berlusconi non sono tali»), salvo poi mettere i puntini sulle i: «Berlusconi sa per certo che Feltri quando spara a palle incatenate nel campo amico danneggia in primo luogo il premier stesso. Il fatto è che lui è l’editore, e questo è quello che non mi quadra». Il problema rimane sempre lo stesso, e cioè il modo in cui Berlusconi intende il Pdl e la sua leadership, «che non può essere una monarchia». «Il Pdl così come è organizzato non mi seduce al 100% – ha detto Fini – Non mi piace la caserma. Vorrei che ci fosse un pò più di rispetto delle opinioni degli altri, anche se queste dovessero apparire eretiche».
La questione poi riguarda non solo l’autorità di Berlusconi nel centrodestra, ma anche nel Paese come Presidente del Consiglio: «Berlusconi ha diritto di governare – ha osservato – glielo hanno dato gli elettori. E deve governare nel pieno rispetto di altri organismi previsti dalla Costituzione», vale a dire «della Corte costituzionale, del Parlamento, del Presidente della Repubblica e della Magistratura».
Inevitabilmente il discorso cade sulla giustizia e sul nuovo «scudo» a cui Ghedini sta lavorando: «è giusto discutere di ciò che nella giustizia non va, compreso l’abnorme lunghezza dei processi», ma questo non significa adottare la strada della cosiddetta prescrizione breve: «Il problema è dare al cittadino danneggiato il diritto di veder tutelata la propria volontà di arrivare a una sentenza. Se con una leggina – ha concluso – si annullano processi, il cittadino che ha già pagato l’avvocato, che si è imbarcato in un processo, quel cittadino si arrabbia». L’ultimo distinguo è sulle candidature per le regionali: alcune di esse «sono inopportune», spiega Fini, anche «se hanno un sacco di votì» perchè questi a volte dipendono «da poteri che non sono trasparenti». Un altolà a Cosentino in Campania, anche se Fini non lo nomina.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/200911articoli/49215girata.asp
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9/11/2009 – UN PROTAGONISTA LONTANO DAI RIFLETTORI
Il tramonto di Kohl nella Germania in festa
Costretto alla solitudine mentre il Paese celebra il suo trionfo
ENZO BETTIZIA
BERLINO
In queste ore di orazioni commemorative, di fragori musicali, con fuochi d’artificio che solcano e infiammano il cielo notturno di Berlino nel ventennale del Muro crollato, non riesco a liberarmi da un pensiero fisso e una visione che mi perseguitano. La mia mente da alcuni giorni continua a girare intorno al busto di un ottuagenario corpulento, dallo sguardo mite e vago, rassegnato all’infermità che lo costringe in una sedia a rotelle. Con voce afona e parole stentate egli sta presentando un grosso libro, un mattone autentico, a un pubblico sparuto di giornalisti, fotografi, operatori televisivi.
In tutto, poco più d’una ventina di persone, occhi e obiettivi puntati sul torso inconfondibile, rigido ma maestoso, di Helmut Kohl: il cancelliere e protagonista della riunificazione, l’uomo che, consegnato ormai drasticamente al passato, aveva contribuito vent’anni orsono all’implosione del regime tedesco dell’Est, alla fine della guerra fredda in Germania e in Europa. Con stupore seguito a domandarmi perché, tranne alcuni funzionari editoriali, non fosse presente in sala nessun ministro, o qualificato esponente governativo, o ambasciatore di vaglia internazionale. L’evento solitario, chiamiamolo così, si era svolto per l’esattezza il 4 novembre, vigilia dell’anniversario, all’interno di un bianchissimo edificio eretto sui confini dell’ex Muro e dedicato alla memoria del presidente Kennedy che da quella zona lanciò il grido leggendario: «Ich bin ein Berliner!».
Mi trovavo lì quasi per caso, su una provvida segnalazione del collega Alessandro Alviani, a due passi dalla Porta di Brandeburgo nel centro simbolico, pieno di cicatrici oggi invisibili, il più drammatico della metropoli una volta spezzata in due. Sulla fine di ottobre si era già visto Kohl impietrito sulla sua sedia mobile, in un teatro genere cabaret nel settore orientale, accanto a un Gorbaciov appesantito e un Bush padre che, nonostante gli 85 anni, appariva il più vispo del trio storico e un po’ fantomatico. Un evocativo quanto fulmineo squarcio di visibilità. Subito offuscato dal clamore mondiale del discorso al Congresso americano di Angela Merkel, creatura ingrata di Kohl, accusata da taluni di «parricidio politico» e assimilata addirittura dallo «Spiegel» all’ambiziosa principessa tedesca divenuta Caterina e superzarina settecentesca di tutte le Russie.
Alla Kanzlerin proveniente dall’Est, dall’Oltremuro, che nasconde un pugno di ferro in guanti di velluto, gli americani hanno concesso l’onore di rivolgersi alle due camere riunite dei senatori e dei deputati; Adenauer, nel 1957, aveva dovuto presentarsi prima a una camera e poi all’altra. Superata in parte la crisi Opel, anche se non digerita dai sindacati e dai manager tedeschi, il presidente Obama e l’opinione statunitense hanno dato un notevolissimo peso politico e psicologico, nell’anniversario della caduta del Muro e nell’avvio della seconda coalizione presieduta dalla Merkel, alla sua visita e alle parole da lei pronunciate a Washington. Su tale sfondo ampio, ricco di contrasti e d’incastri d’interesse, in cui l’odierna Germania «giallo-nera» si profila come una locomotiva europea e un’alleata prioritaria dell’America, il tramonto e la solitudine di Kohl acquistano un significato storico, di cambio d’epoca, che va al di là delle molte e cocenti sue sventure personali.
Il suicidio della prima moglie Hannelore nei giorni di decollo della Germania unita; la perdita di potere all’interno della Cdu di cui per 25 anni era stato leader e padrone; il progressivo ridimensionamento della figura pubblica, aggravato dalla recente trasmissione televisiva di un film critico sulla sua vita privata; infine l’ingratitudine pilatesca, forse calcolata, della Merkel che gli volta le spalle nel momento più acuto della tangentopoli sul finanziamento dei partiti che lo colpisce moralmente e psichicamente. «Basta, oramai deve andarsene», sentenziò con calma nordica e glaciale l’ex protetta ed ex ministro dell’ambiente.
Non posso fare a meno di pensare a tutto questo mentre il cancelliere della Germania occidentale dal 1982, poi della Germania tout court fino al 1998, sta promuovendo a bisbigli e mezzi sorrisi l’enorme libro bilingue, stampato in tedesco e inglese dalle edizioni Axel Springer, dedicato alla rievocazione del Muro, contenente una ruvida mattonata di quindici chili, costo 1989 euro. «Per l’appunto, 1989», farfuglia quasi divertito Kohl, mostrandoci un altro libro molto più leggero, più piccolo, insomma più normale. Lo agita in aria lievemente e sorride. «Questo», dice, «pesa e costa molto di meno. Se lo comprate, leggerete le mie memorie dal crollo del Muro all’unità della Germania». Alla fine della promozione, tiro fuori una banconota da dieci euro per acquistare soltanto il memoriale di Kohl, ma, dalla pronuncia un po’ austriaca del mio tedesco, i commessi capiscono che non sono berlinese e mi offrono riguardosi una copia in omaggio.
Ringrazio e, uscendo, sbircio sul retro di copertina due autorevoli inviti alla lettura. Uno è di George Bush senior: «Tutto ciò che è avvenuto non sarebbe avvenuto senza l’intervento del mio amico cancelliere Kohl». L’altro è di Gorbaciov: «Noi abbiamo avuto con Helmut Kohl, cancelliere federale tedesco, l’uomo giusto al posto giusto nel momento storicamente giusto». Dei poeti longevi si usava dire che sarebbero dovuti morire giovani. Degli uomini di Stato tempestivi andrebbe forse detto che, colto l’attimo decisivo del mutamento, non dovrebbero sopravvivergli troppo a lungo. La solitudine è il costo di sopravvivenza di chi, ancora vivo ma già dimenticato, è ormai entrato per sempre nei gironi importanti della storia.
Il semplice e accorto pluricancelliere di Bonn e di Berlino, costretto a cavalcare più che a domare la storia scatenata, si è ritrovato purtroppo disarcionato al fotofinish del galoppo: non c’è altro da dire, o da aggiungere, all’apparizione simpatica ma isolata, remota, ipnotica, come fulminata di Kohl fra i muri levigati e bianchi del mausoleo dedicato al berlinese onorario John Fitzgerald Kennedy.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200911articoli/49219girata.asp
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CAMPAGNA NAZIONALE “SALVA L’ACQUA” – IL GOVERNO PRIVATIZZA L’ ACQUA !
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Dalla newsletter di Jacopo Fo, del 6.11.2009
Si chiama Addiopizzo Travel ed e’ la prima agenzia di viaggi in Sicilia specializzata negli itinerari “pizzofree”: alberghi, negozi, artigiani, ristoratori che hanno deciso di non pagare il pizzo alla mafia.
L’idea e’ di tre studenti palermitani mentre la rete delle strutture “che non danno un euro alla mafia” e’ composta da oltre 400 persone.
http://www.addiopizzotravel.it/
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L’Incubatore di Colleferro
Inaugurato presso l’Incubatore Bic Lazio di Colleferro un impianto a microturbina multi-fuel alimentato da biomasse, il primo in Italia.
Progettato e realizzato da Tep (Tecnologie per l’Energia Pulita), in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria Meccanica dell’Universita’ di Tor Vergata, e’ in grado di produrre sia energia elettrica (100 kilowatt) che energia termica per il riscaldamento, consumando all’anno 1.050 tonnellate di biomasse proveniente dagli scarti agricoli.
L’ equivalente di circa 2000 barili di petrolio, con 800 tonnellate di anidride carbonica risparmiate all’atmosfera.
Oltre ai consumi dello stesso Incubatore di Colleferro (3.000 mq suddivisi in 8 ambienti) la microturbina soddisfera’ il fabbisogno energetico di 33 abitazioni.
Approfondimento:
Lazio: nasce a Colleferro il nuovo Polo per Biomasse ed Efficienza Energetica 8.11.2009
Inaugurato da Bic Lazio il primo impianto italiano a microturbina multi-fuel alimentato da biomasse, destinato a sviluppare l’efficienza energetica e valorizzare la filiera agro-energetica locale
Previsto dal progetto ”Polo per le Biomasse e l’Efficienza Energetica” dell’Assessorato all’Ambiente della Regione Lazio, e’ stato inaugurato presso l’Incubatore Bic Lazio di Colleferro il primo impianto a microturbina multi-fuel alimentato da biomasse esistente in Italia, con l’obiettivo di sviluppare l’efficienza energetica e valorizzare la filiera agro-energetica locale.
”Abbiamo finanziato questo impianto nell’ambito della riqualificazione della Valle del Sacco dopo il problema dell’inquinamento. Ed e’ stato scelto il Bic proprio perche’ potesse essere d’esempio a tutti gli operatori della zona di come la Green Economy puo’ nascere anche a supporto dei disastri ambientali. – ha dichiarato l’Assessore all’Ambiente e Cooperazione tra i Popoli della Regione Lazio, Filiberto Zaratti – Questo impianto e’ innovativo ed e’ frutto di tecnologia italiana che siamo felici di provare assieme al Bic e all’Universita’ di Tor Vergata perche’ possa essere il primo esempio di una lunga serie e possa incentivare la filiera corta delle biomasse. La piccola taglia scelta, infatti, e’ perfetta per le PMI italiane e per la taglia media degli appezzamenti agricoli”
Realizzato con il supporto economico della Regione Lazio, l’impianto servira’ ad alimentare l’Incubatore di Colleferro che funzionera’ con energia prodotta da residui di lavorazione. L’Incubatore, attivo sul territorio dal 1999, ha una superficie di circa 3.000 mq e dispone di 8 ambienti (da 75 a 140 mq circa) destinati alle imprese, ciascuno dei quali provvisto di allaccio agli impianti elettrico, telefonico e idrico. Le aziende insediate possono inoltre disporre di una sala formazione da venti postazioni e di spazi attrezzati per ospitare convegni. Attualmente Bic Lazio ha avviato un servizio sperimentale per la valorizzazione degli scarti da lavorazione di vetroresina, con il quale l’Incubatore intende specializzarsi sui temi dell’efficienza energetica e della sostenibilita’ come opportunita’ di impresa.
”Le energie alternative non sono solo una questione legata alla tutela dell’ambiente – ha sottolineato il Presidente di Bic Lazio, Enrico D’Agostino – ma anche una grande opportunita’ di crescita economica. In linea con quanto dichiarato dall’Unione Europea, credo che sia auspicabile la realizzazione di sistemi che contribuiscano a sviluppare nuova imprenditorialita’ attraverso l’innovazione tecnologica e la ricerca. L’impianto che inauguriamo quest’oggi puo’ essere infatti replicato anche in altri contesti, come ad esempio in aziende agricole, piccole attivita’ industriali ed artigianali. Proprio per questo motivo ritengo che sia fondamentale avviare una efficace azione di formazione per le scuole e per le PMI presenti sul territorio, per far si’ che venga innescato un processo virtuoso di diffusione di queste soluzioni”.
Questo impianto di cogenerazione di energia elettrica e termica, di piccola dimensione, e’ stato progettato e realizzato da Tep (Tecnologie per l’Energia Pulita), in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria Meccanica dell’Universita’ di Tor Vergata ed e’ interamente basato su tecnologia italiana (microturbina TURBEC e caldaia METALREF).
”L’Incubatore d’imprese di Colleferro – ha evidenziato il prof. Stefano Cordiner, che fa parte del gruppo di ricerca dell’Universita’ Tor Vergata che cura la sperimentazione – e’ il luogo ideale per realizzare questo importante progetto di sviluppo, il cui obiettivo e’ un utilizzo efficiente delle biomasse. La totale flessibilita’ dell’impianto di alimentazione sara’ fondamentale per trasferire alle imprese incubate il concetto di efficienza energetica. La possibilita’ di adeguarsi alla disponibilita’ locale di biocombustibili (spesso variabile per quantita’ e qualita’) e’ infatti da un punto di vista tecnologico basilare per la diffusione di questo tipo di energia. L’impiego dell’energia cosi’ prodotta, in un luogo dove le aziende crescono e realizzano nuovi processi produttivi, fara’ in modo che il concetto di risparmio energetico diventi sin dall’inizio parte integrante di questo percorso di crescita. Il rapporto di collaborazione tra l’Universita’ Tor Vergata e BIC Lazio, grazie al fondamentale supporto della Regione, e’ quindi un elemento centrale per fare si’ che questa opportunita’ venga colta pienamente”.
Si tratta, in definitiva, di una nuova e concreta prova dei vantaggi in termini di risparmio e sostenibilita’ ambientale che l’energia da biomasse puo’ garantire alle PMI ed alle aree rurali ed industriali della nostra regione. Uno degli scopi dell’impianto, a sperimentazione attuata, e’ proprio quello di progettare altri sistemi di generazione di energia, sulla base di esigenze specifiche: ad esempio, per una impresa che produce carta che abbia molti avanzi di lavorazione, potrebbe essere progettato un impianto che generi energia utilizzando appunto questi scarti.
Dal punto di vista tecnico l’impianto di Colleferro ha una potenza di 100 kilowatt e funzionera’ con 1.050 tonnellate di biomassa all’anno, l’equivalente di circa 2000 barili di petrolio. Sono circa 800, invece, le tonnellate di anidride carbonica che ogni anno si evitera’ di disperdere nell’ambiente. Si stima inoltre che l’energia di questo impianto possa contemporaneamente fornire elettricita’, riscaldamento e raffrescamento a 33 appartamenti, o soddisfare le necessita’ di un piccolo insediamento industriale.
L’impianto, attivato presso l’Incubatore di Bic Lazio in sostituzione del precedente sistema energetico, consente quindi un notevole risparmio in termini di emissione di CO2 e si propone percio’ come un punto di riferimento nel settore agro-energetico, che diventera’ strategico per la Valle dei Latini e per l’intera regione. La sede dell’Incubatore sara’ dunque un vero e proprio ”dimostratore di tecnologia” per la microgenerazione di energia, oltre a diventare un ”laboratorio didattico” sul tema dell’efficienza energetica e della generazione distribuita di energia. L’obiettivo e’ quello di sostenere lo sviluppo di attivita’ imprenditoriali nella filiera agro-energetica, accompagnando e promuovendo l’utilizzo di energie alternative tra le imprese e gli enti locali in un territorio come quello dell’area di Colleferro e della Valle dei Latini, che ha bisogno di interventi di questo genere per avviare buone pratiche per il futuro.
”Questa esperienza – ha commentato l’Assessore alla Piccola e Media Impresa Daniele Fichera – costituisce un significativo esempio di concreta integrazione tra politiche di tutela ambientale e politiche di promozione dello sviluppo. Un fronte sul quale insieme con l’assessorato all’Ambiente vogliamo lavorare per verificare la riproponibilita’ di esperienze analoghe in altri contesti”. L’auspicio e’ che le imprese investano in nuove tecnologie lungo la filiera energetica (sviluppo di nuovi business all’interno di programmi di riconversione industriale, di diversificazione o spin-off), operando una riorganizzazione interna (organizzativa, di processo, di gestione delle forniture) volta ad acquisire maggiore efficienza energetica, con conseguente riduzione dei costi, aumento dei posti di lavoro e crescita della propria competitivita’.
”Sono convinta – ha detto l’Assessora regionale al lavoro Alessandra Tibaldi – che la strada intrapresa con questo esempio pratico di creazione di energia pulita vada nella direzione da tutti auspicata di uno sviluppo ecosostenibile. La Green Economy, sia in ambito macroeconomico che nelle buone pratiche locali quale e’ questa dell’Incubatore di Colleferro, si pone chiaramente come traguardo immediato per procedere nella riconversione industriale di aree dismesse o in crisi. Realizzare in casa propria azioni che possano essere di stimolo e riferimento per il territorio e’ molto importante. L’Incubatore di imprese, dove nascono idee e muovono i primi passi produzioni alternative destinate a fornire alimento all’innovazione, e’ un luogo simbolico da cui far partire questo messaggio. Anche attraverso queste iniziative intendiamo favorire l’uscita da questa drammatica crisi economica che colpisce particolarmente il territorio colleferrino e della Valle del Sacco”.
” Con la crisi occupazionale che ha colpito il territorio della Valle del Sacco – ha evidenziato l’on. Renzo Carella – appare necessario una rilettura dell’articolo 14 LR 36/92, affidando a Bic Lazio la realizzazione di un nuovo piano integrato per la riconversione ed il rilancio delle attivita’ produttive ed occupazionali di quest’area, anche in virtu’ della sua consolidata esperienza e per la presenza dell’Incubatore a Colleferro”. ”L’impianto che inauguriamo quest’oggi risponde all’esigenza di investire nelle fonti di energia rinnovabile – ha concluso l’on. Silvano Moffa – soprattutto in un territorio come questo, cosi’ duramente colpito dalla crisi ambientale ed occupazionale. Il futuro di quest’area dipendera’ dalla capacita’ delle istituzioni di confrontarsi e di collaborare per valorizzarne le potenzialita”’.
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Il Babau & i maledetti cretini
Manfred Zeit, 5.11.2009
Musica Il trio milanese presenta i suoi fonodrammi dai racconti di Edgar Allan Poe. Ancora segnali confortanti e stimolanti dal sottobosco sperimentale della “Milano musicale” (ma non solo). Segnali che meritano attenzione, ascolto, risalto! Attendiamo nuove ribalte che ospitino degnamente e con più visibilità questo genere di progetti
Notte di Halloween. La città è piena di feste danzanti, costose, tristi, affollate ma vuote.
Milano non è solo questo. Perlomeno qualcosa di differente ancora esiste, resiste! Molto ben nascosto naturalmente, continua a esserci un certo fermento in questa città sorda, un fermento alimentato da persone che danno vita a progetti artistici sentiti, ricercati, difficili e in, quanto tali, necessari.
Vado a vedere Il Babau & i maledetti cretini. Allo Spazio Castelletto di Pioltello, un vecchio cascinale, ex ricovero bestiame con le mangiatoie in pietra, sperduto in mezzo a un parco, in fondo a un chilometro di strada stretta e sterrata affiancata da fossati e ruscelli. La luna è quasi piena: location ideale per ospitare lo spettacolo del Babau. Sarà un segnale interessante e significativo questo proliferare di luoghi fuori città, nei reconditi più nascosti della pianura padana, dove hanno luogo concerti, spettacoli sperimentali e di nicchia?! Io lo spero, già qualche tempo fa mi ha molto positivamente colpito l’Ortosonico di Giussago, un cascinale, sempre alla fine di un lungo sterrato, che presenta da qualche anno una programmazione di prima categoria.
Il Babau e i maledetti cretini è un trio (dopo svariati cambiamenti di formazione) che presenta dal vivo, un intrigante tris di fonodrammi, della durata di circa 20 minuti l’uno, tratti da tre rispettivi racconti di Edgar Allan Poe (in ordine di scaletta: “Cuore rivelatore”, “La maschera della morte rossa”, “La verità sul caso di Mr Waldemar”).
Avevo già visto Il Babau in un bar freakettone sperduto in un uno degli angoli più remoti del quartiere Corvetto, dove il vociare degli astanti mi aveva impedito di godere appieno della loro proposta. Si, perché trattasi di qualcosa da ascoltare veramente, da entrarci in sintonia, da comprendere; qualcosa che merita e necessita un contesto da auditorium, teatro.
La formazione de Il Babau & i maledetti cretini è composta da i fratelli Franz e Damiano Casanova e da Andrea Dicò: Franz incarna il lato teatrale e letterario del progetto, oltre a suonare parti di tastiere, synth vari, “giocattoli e carillon” e chitarra, adatta i testi e soprattutto da vita a un interessante recitativo d’impronta carmelobeniana che, a mio modo di vedere, diventa ancora più interessante quanto più si distacca da certe intonazioni proprie del suo modello di riferimento. Damiano, a detta stessa degli altri componenti della band, è certamente la mente musicale del Babau, suona principalmente la chitarra ma anche lui non disdegna di cimentarsi alle tastiere e ai vari oggetti, produttori di suoni e rumori di cui la musica del gruppo è elegantemente saturata. Andrea che ha un passato di batterista sanguigno decisamente rock, già con Guignol, Phoebe Zeitgeist, Gopala e Stardog, si rivela qui sofisticato percussionista-rumorista, pur senza perdere nulla della sua energia più “carnale”, mettendola però a disposizione di uno stile dai toni più teatrali, compositivi, gustosamente retrò.
I riferimenti musicali della band sono uno dei suoi punti di maggiore originalità e ricercatezza, in quanto sono assolutamente anti-trendy, non indie pop wave, non paraculi, ma semmai fieramente inattuali e difficili, sebbene perfettamente, oltreché in maniera non scontata, funzionali ai testi che accompagnano. Si va da tutto un campionario di prog-rock dei Settanta italiani – Goblin, Area, Rovescio della medaglia, Balletto di bronzo – soprattutto nei primi due pezzi, a un chiaro e convincente tributo alla musica dei tedeschi Popol Vuh, maestri della psichedelia krauta e autori delle inarrivabili colonne sonore dei primi capolavori di Werner Herzog – soprattutto nell’ultimo pezzo “La verità sul caso di Mr Waldemar” che mi è parso il più fuoco, il più “forte”, proprio nel suo essere più scarno, essenziale, quasi “concettuale” nel suo incedere liquido e ipnotico. Un’altra influenza musicale che si riscontra nel progetto Babau è quella di Frank Zappa, dal quale i tre hanno in qualche modo assorbito una certa attitudine ironicamente sfiancante e deliziosamente bislacca.
Insomma, carne al fuoco ce n’è molta, e tutta di primissima qualità! non si può che augurare al Babau di perfezionare sempre più il suo già collaudato congegno, magari accostandosi in fase di arrangiamento a un “produttore artistico” di forte segno, magari arricchendo il tutto con qualcosa di più prettamente performativo-visivo che possa accostarsi al loro sound facendolo emergere in maniera un po’ più catturante e meno ostica, senza per questo snaturarne l’essenza che deve comunque rimanere quella di un progetto di ricerca, di sperimentazione, fuori dagli schemi, duro e “oscuro”.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13404
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Statue, menzogne e rock n’ roll 9.11.2009
Tra il 1949 e il 1955 era stato dedicato a Stalin, a Praga, il più grande monumento esistente in Europa: 17.000 tonnellate di granito suddivise in 235 blocchi e rinforzate con cemento armato componevano la scultura disegnata da Otakar Švec il quale, a causa delle pressioni psicologiche esercitate su di lui dai committenti e dalla cittadinanza, spesso di segno opposto, si tolse la vita tre settimane prima dell’inaugurazione. Poco dopo iniziò la critica del culto della personalità anche in Cecoslovacchia e l’imbarazzante oggetto venne distrutto già nel 1962 con 800 Kg di esplosivo. Rimase solo il basamento, che divenne, nel 1990, sede di una radio pirata, Radio Stalin, che trasmetteva clandestinamente contenuti divenuti poco popolari o proibiti nella nuova Cecoslovacchia; poco dopo vi venne costruito il primo locale rock della città e nel 1996, in occasione del mega HIStory Tour di Michael Jackson venne eretta sul basamento una statua del cantante che, se non poteva competere con quella del vecchio segretario del PCUS, era comunque imponente, con i suoi 10 metri di altezza.
L’accostamento tra Michael Jackson e Josif Stalin (?), e soprattutto tra le loro rappresentazioni megalomani, dice molto più di ciò che non si pensi sullo scontro tra socialismo e liberalismo nel Novecento, e soprattutto sulla vittoria finale di quest’ultimo. Le lotte operaie erano state potenti su entrambi i lati della cortina di ferro, come la loro repressione brutale, ed erano sempre state legate, a diversi livelli, al binomio e al rapporto tra quantità di lavoro e quantità di salario. Se infine soltanto uno dei due sistemi di potere venne sconfitto dai movimenti fu perché questi furono là più estesi e più radicalmente ostili all’assetto istituzionale, e questa ostilità non nasceva tanto o principalmente da una mancanza di democrazia – che certo esisteva, ma esiste anche ad ovest – bensì da una carenza nella quantità, ma soprattutto nella qualità dei beni di consumo. Alle merci luccicanti dell’ovest – spesso insane o pericolose, ma ammantate di colori e seducenti pubblicità – l’est aveva sempre e solo contrapposto il rosso, onnipresente colore della politica istituzionale, frustrando alla lunga i sogni e le aspirazioni popolari. Che non si tratti di una congettura lo dimostrarono nel 1989 le colonne di automobilisti orientali in fuga verso ovest, che si sarebbero trasformate nel 1990 in code alle casse dei supermercati (e, in una folle logica d’indebitamento che lasciò molti sul lastrico, in code agli sportelli delle banche, in cerca di prestiti).
Oggi ben pochi coltivano lo stesso amore, nell’est Europa, per quello che credettero un sogno e per quella che scambiarono per immediata liberazione; resta però il fatto che se il fantasma della felicità e del comunismo che aveva sconvolto l’Europa nella prima metà del secolo si era trasformato in comunismo fantasma ad est – il culto di un simbolo o di un’idea, la statua di Stalin – quella stessa speranza si era trasformata in felicità fantasma ad ovest, dove le folle, più che adorare un leader politico, adorano le rock star. Tra questi due inganni e fantasmi, e tra questi due tipi di schiavitù e adorazione, il secondo risultò vincente. Un fenomeno non previsto a Berlino, né avrebbe potuto essere diversamente, vista la sufficienza con cui la classe politica considerava le tendenze e i mutamenti del costume giovanile: nel giugno del 1988, un anno prima dell’esodo e della caduta, turbolenze agitarono le strade di Berlino est, dove centinaia di giovani affrontarono i reparti della polizia antisommossa. La causa era stata proprio lui, il Re del Pop, che stava tenendo un concerto accanto al Reichstag, a Berlino ovest e proprio accanto al perimetro del Muro. I giovani di Berlino est si erano accalcati lungo la barriera per ascoltare come i coetanei dell’ovest, ma la polizia aveva ritenuto necessario disperderli, forse inconsciamente consapevole del pericolo che quelle sonorità rappresentavano per il suo potere. Già dagli anni Settanta la diffusione di un gusto per il jazz, ma soprattutto per il punk nell’est Europa era stata affrontata con una repressione abbastanza dura, in particolare nella città più colpita dal fenomeno, Praga.
Tuttavia le cose stavano cambiando, soprattutto nell’Unione Sovietica, dove il partito comunista aveva iniziato politiche nuove, con la Glasnost e la Perestroijka, dal 1985. Fu così che appena un anno dopo i riots di Berlino est, nell’agosto 1989 – e in quei mesi gli eventi polacchi e cinesi, tra movimento sindacale e rivolta giovanile, avevano fatto passare un secolo – una folla immensa, forse 100.000 persone, si radunò nello stadio Lenin di Mosca. Per la prima volta i giovani russi poterono assistere a un concerto in piedi, e le novità non si fermavano qui: si sarebbero esibiti per due giorni in un “Music Peace Festival” le più grandi star del firmamento glam rock statunitense – Motley Crue, Bon Jovi, Cinderella, Ozzy Osbourne – e anche i tedesco-occidentali Scorpions, che da quel concerto trassero ispirazione per la canzone che sarebbe divenuta l’inno del 1989, Wind of Change. L’occasione per il concerto era stata la campagna del governo sovietico contro la diffusione delle droghe, e in particolare dell’eroina; una campagna simile a quella dei paesi occidentali negli stessi anni, con la particolarità che se gran parte della droga era arrivata negli USA dal Vietnam negli anni Settanta, nell’URSS arrivava attraverso l’Afghanistan, dove la patria socialista era impegnata in una sanguinosa occupazione – da cui si stava proprio in quei mesi ritirando – e da dove i soldati tornavano spesso già tossicodipendenti (come accade, ora di nuovo, agli americani).
Il concerto di Mosca ebbe un grande impatto liberatorio sui giovani della città: due giorni di pura festa e puro divertimento, in mesi colmi di incertezza e di tensione, a soli tre anni dalla tragedia di Cernobyl, che aveva sembrato voler indicare, con la nube tossica e radioattiva che aveva sprigionato, il futuro di ansia e lutto che avrebbe potuto avvolgere l’umanità. Poco importa che, come in tutta la storia del rock, qualcosa di assurdo accompagnasse una kermesse in bilico tra l’ironia e l’ipocrisia. Più che il pugno sferrato dal batterista Tommy Lee all’organizzatore dell’evento Doc McGhee, colpevole di aver messo Bon Jovi in scaletta prima dei Motley Crüe, o del tentativo di Ozzy Osbourne, “beyond drunk” a causa della prelibata vodka russa, di uccidere sua moglie – che mal si conciliavano con il titolo dell’evento, “Music Peace Festival” – a rendere apparentemente incoerente lo show fu l’ampio e prevedibile uso di sostanze stupefacenti nel backstage, a pochi metri dai volontari dell’associazione che aveva organizzato il concerto. Lo stesso Ozzy Osbourne si abbandonò ad accese dichiarazioni contro l’uso di droghe durante la conferenza stampa, per poi essere portato a spalla lungo il corridoio nella sua stanza. Ma i ragazzi che vivevano l’evento avevano voglia di tutto tranne che di essere mesi in guardia dalle droghe, mentre assistevano alle schitarrate fronteggiati da uno schieramento di soldati dagli sguardi impassibili, in divisa militare, a dividere la folla dal palco.
Se si osserva il look dei più giovani tra i contestatori della DDR negli anni Ottanta si nota come essi riproponessero proprio uno stile vagamente rock, con i jeans, i giubbotti di jeans o di pelle e soprattutto i capelli lunghi. L’influenza del sogno americano in questa sua più sofisticata versione – l’occidente come piacere, sensualità e trasgressione – fu determinante nel determinare l’acutezza dell’odio che i giovani orientali provavano per l’apparato statale, scolastico e poliziesco dei loro paesi. L’occidente vinse anche e soprattutto sul terreno dell’immagine, che è un elemento materiale degli scontri sociali, al pari di tutti gli altri. Poco importa che il rock n’ roll, nella sua essenza, sia una grande truffa, e che – come i ragazzi occidentali che sperano di diventare rock star e poi devono lavorare e mettere su famiglia, colmi di malinconia – i ragazzi orientali non abbiano infine trovato, a Berlino ovest, che un po’ di coca-cola e qualche cinema porno: la produzione di spettacoli, l’introduzione di miti e sguardi, e la vendita di identificazioni e sogni, è stata una delle armi economico-politiche più azzeccate del capitalismo su modello statunitense, e ha contato almeno quanto i carri armati nella guerra fredda. Certo, anche la polizia occidentale aveva il suo da fare, a Berlino ovest, con i ragazzi che occupavano case per fare concerti punk, ma questa è l’ambivalenza di ogni merce, di ogni desiderio, di ogni musica o arte, e dell’esistenza stessa. Del resto proprio da occidente, e addirittura dai domini di sua maestà, veniva quel Johnny Rotten che, nella canzone Holidays in the Sun, sbraitava nel 1977 le allucinate vacanze dei Sex Pistols sotto il Muro, e sembrava anticipare il successo della grande truffa anche oltre il vallo. Guardando la barriera e il filo spinato, cantava “I don’t under stand this bit at all” (“Non ci capisco niente”); ma nella strofa precedente aveva ammesso, al limite tra menzogna e ironia, ed esprimendo il brivido della trasgressione, ma vissuto da occidente: “I was waiting for the comunist call”, aspettavo la chiamata comunista…
http://www.infoaut.org/articolo/statue-menzogne-e-rock-n-roll
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La Banca del Mezzogiorno non risarcisce il Sud
Sergio Marotta – 8.11.2009
Quella della Banca del Mezzogiorno è una vecchia idea del ministro Tremonti. Poco dopo la sua burrascosa uscita dal secondo governo Berlusconi nell’estate del 2004, in seguito ad un duro scontro politico che lo vide opposto a Gianfranco Fini, ne espose i contenuti in un articolo apparso sul «Corriere della Sera». Il ragionamento di Tremonti era il seguente: da quando ha perso i suoi più importanti istituti di credito a seguito del processo di concentrazione bancaria che ha portato il Banco di Napoli nell’orbita di Intesa Sanpaolo e il Banco di Sicilia in quella di Unicredit, il Mezzogiorno è l’unico territorio «debancarizzato» d’Europa; e, poiché nessun territorio può svilupparsi senza una banca che abbia i suoi centri decisionali all’interno del territorio stesso, occorre costituirne una nuova con le caratteristiche descritte. Con il che Tremonti, un po’ tardivamente, riprendeva una tesi già avanzata da illustri economisti.
Tremonti fu il primo firmatario di una proposta di legge per la costituzione della Banca del Mezzogiorno presentata alla Camera il 10 marzo 2005 e, rientrato nell’esecutivo come vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Economia del terzo governo Berlusconi, trasfuse la sua proposta in alcuni commi della finanziaria per il 2006 prevedendo un irrisorio stanziamento iniziale di cinque milioni di Euro. All’inizio di marzo del 2006, nell’imminenza delle elezioni politiche, il Comitato promotore della Banca del Mezzogiorno S.p.A. fu presentato a Napoli nella sede del Circolo dell’Unione.
Una ‘stranezza’ nel progetto di Tremonti che fece subito dubitare circa la serietà delle intenzioni del ministro fu quella di affidare la presidenza onoraria del comitato promotore al principe Carlo di Borbone, erede dell’ultimo re delle Due Sicilie, e la vicepresidenza al principe romano Lillio Sforza Ruspoli.
Con la vittoria del centrosinistra alle elezioni del 2006 il progetto fu accantonato per essere, poi, ripreso dallo stesso Tremonti con la legge 133 dell’agosto 2008 dove la «Banca del Mezzogiorno» veniva fondata nuovamente dall’art. 6 ter. L’estate scorsa, infine, il progetto è stato rilanciato con forza dal presidente del Consiglio in persona che ne ha fatto niente di meno uno dei punti centrali del suo programma di rilancio dello sviluppo economico del Mezzogiorno.
Il progetto di Tremonti poggiava su due considerazioni di tutta evidenza: sugli imprenditori del Sud grava un costo del credito superiore di circa un punto e sei rispetto a quello del Centro Nord; una banca estranea al tessuto economico locale non può interpretare il territorio e valutare correttamente la solidità del singolo imprenditore. Tali considerazioni erano state criticate, sin dall’inizio, dall’ABI e dal suo presidente di allora, Maurizio Sella, che, pur ammettendo l’esistenza di una differenza nei tassi a breve tra il Sud e il Centro Nord ne attribuiva la causa esclusivamente al maggior grado di rischiosità ambientale, settoriale e dimensionale.
Per certi aspetti, l’idea di Tremonti qualche effetto l’ha prodotto: non solo ha sicuramente accelerato il processo di costituzione di un’altra banca, la «Banca del Sud», fondata qualche anno fa con il contributo determinante della Fondazione Istituto Banco di Napoli, ma ha anche dato un impulso al processo di riorganizzazione territoriale dei due principali gruppi bancari italiani. Intesa Sanpaolo, infatti, ha fortemente rilanciato il Banco di Napoli moltiplicandone gli sportelli in tutto il Mezzogiorno dove il nome Banco di Napoli è comparso accanto al nuovo simbolo dell’acquedotto romano – voluto da Giovanni Bazoli – che contraddistingue le banche del gruppo; mentre, dopo qualche iniziale incertezza e un duro scontro sui dirigenti locali, anche Unicredit sta rilanciando il Banco di Sicilia il cui nome appare nelle filiali dell’isola accanto al logo e ai colori del gruppo milanese.
La Banca del Mezzogiorno di cui si è discusso in Consiglio dei Ministri opererà per almeno cinque anni come istituzione finanziaria di secondo livello. Il che significa che, almeno all’inizio, non si vedranno sportelli bancari con il simbolo della nuova banca. Esso apparirà soltanto accanto ai simboli delle banche di credito cooperativo che vorranno partecipare all’operazione e a quello delle Poste Italiane – che all’operazione parteciperà per volontà del Governo – sui prodotti finanziari offerti al pubblico dei risparmiatori. La Banca del Mezzogiorno, infatti, emetterà obbligazioni e titoli indirizzati a finanziare piccole e medie imprese che investono nel Mezzogiorno ovvero specifiche opere infrastrutturali da realizzare nel Sud, fornirà consulenza e supporto alle piccole e medie imprese per ottenere fondi statali ed europei e stimolerà la nascita di nuove banche autoctone nella forma del credito cooperativo.
Il vero punto di forza della nuova banca, secondo il Ministro dell’Economia, sarà l’applicazione di una fiscalità di vantaggio ai prodotti finanziari elaborati dalla Banca del Mezzogiorno. Nonostante il fatto che la fiscalità di vantaggio non si sia rivelata un’opzione di policy efficace per il Sud, secondo Tremonti, tale misura sarà in futuro determinante per indirizzare nuovi flussi finanziari verso il Mezzogiorno. I risparmiatori che acquisteranno i titoli della nuova banca presso la rete delle Poste e delle banche di credito cooperativo che avranno aderito all’iniziativa per una somma pari o inferiore a centomila euro potranno usufruire di una tassazione ridotta al 5 per cento sugli interessi maturati anziché del 12,5 per cento dei normali titoli del Tesoro o del 27 per cento dei conti correnti bancari. Avranno quindi un rendimento maggiore perché dovranno pagare meno tasse mentre i loro soldi non saranno a rischio perché i titoli emessi Banca del Mezzogiorno godranno della garanzia dello Stato.
Un progetto indubbiamente “creativo” quello messo in piedi dal ministro Tremonti, certo più potente sul piano politico-propagandistico che su quello tecnico-economico. Un piano che comunque ha dovuto districarsi tra mille resistenze del mondo finanziario e mille difficoltà dell’attuale legislazione bancaria interna e comunitaria. Tuttavia perché procedere le incognite sono numerose: il disegno di legge dovrà essere approvato dal Parlamento; l’Unione europea dovrà dire la sua sull’operazione che potrebbe presentare profili di criticità alla luce dei Trattati sia sotto il profilo della distorsione della libera concorrenza sia sotto quello degli aiuti di Stato vietati dai Trattati; e, non ultimo, il Comitato promotore composto da quindici membri dovrà impegnarsi in tempi brevi a raccogliere le adesioni dei soggetti privati interessati all’operazione che dovranno essere in maggioranza rispetto allo Stato destinato ad uscire, dopo cinque anni, dal capitale della nuova banca.
Ma ciò che più colpisce non è tanto l’inutile complessità del progetto messo in piedi da Tremonti, quanto piuttosto il fatto che esso sia del tutto diverso da quello immaginato dallo stesso ministro dell’Economia e sostenuto fino all’estate del 2008. Il progetto iniziale, infatti, prevedeva per la Banca del Mezzogiorno un azionariato popolare diffuso, privilegi patrimoniali per i vecchi soci dei banchi meridionali, la partecipazione degli enti locali meridionali e, soprattutto, la possibilità di acquisire marchi e rami d’azienda, cioè di riprendere e sviluppare fin da subito un’attività di una vera e propria banca e non di un’istituzione bancaria di secondo livello. Insomma, il ministro del Tesoro aveva in mente un istituto bancario che potesse, almeno in prospettiva, restituire al Sud ciò che al Sud era stato tolto: un sistema bancario autoctono ed antico che, nell’opinione di molti meridionali, non era meno solido di quello del resto del Paese.
Il progetto approvato dal Consiglio dei ministri, invece, appare il risultato di un compromesso: la Banca del Mezzogiorno non potrà fare concorrenza ai grandi gruppi bancari italiani perché non potrà utilizzare i marchi storici dei banchi meridionali finiti nell’orbita delle prime due banche del Paese, mentre dovrà limitarsi ad essere un istituto di secondo livello con qualche ambizione nell’ambito dei circuiti del credito cooperativo che storicamente nel Sud non è mai stato solido e capillarmente diffuso come nel Centro e nel Nord del Paese.
Così come proposta da Tremonti e approvata dal Consiglio dei ministri, la Banca del Mezzogiorno non servirà certo a restituire al nostro meridione quel sistema bancario proprio ed autonomo che le liberalizzazioni e privatizzazioni degli ultimi anni gli hanno sottratto e che appare indispensabile per intraprendere la strada di uno sviluppo endogeno ed autopropulsivo.
http://www.economiaepolitica.it/index.php/mezzogiorno/banca-del-mezzogiorno/
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