E’ morto Monicelli, padre della commedia 30.11.2010
Il regista, 95 anni, si è lanciato dal balcone dell’ospedale S. Giovanni di Roma
di Alessandra Magliaro
ROMA – Negli ultimi mesi ha abbracciato la protesta dello spettacolo contro i tagli alla cultura, ha incitato i giovani a ribellarsi per un futuro migliore, si è lamentato che il cinema di oggi non riusciva a raccontare l’Italia come è, ma stasera non ce l’ha fatta a guardare al suo futuro. Mario Monicelli si è tolto la vita lanciandosi dall’ospedale San Giovanni di Roma, dove era ricoverato.
Era nato il 15 maggio del 1915 a Viareggio, figlio del critico teatrale e giornalista Tommaso e dopo la laurea in storia e filosofia a Pisa aveva esordito nel cinema nel 1932 con il corto, firmato insieme ad Alberto Mondadori, Cuore rivelatore. E’ stato uno dei padri della commedia italiana, con Dino Risi, Steno, Luigi Comencini.
Negli ultimi anni, perché era un maestro del cinema e per ragioni anagrafiche, gli era toccato l’ingrato compito di commentare i colleghi che se ne andavano: dal Tiberio Murgia, Ferribotte di uno dei suoi capolavori I soliti ignoti, ai grandi sceneggiatori con cui aveva lavorato tante volte, Suso Cecchi D’Amico e Furio Scarpelli e Piero De Bernardi, per citare solo quelli di quest’anno. Monicelli, come era nel suo carattere, rispondeva con arguzia, un pizzico di cinismo, raccontava aneddoti, rifuggiva ogni sentimentalismo per tirare fuori il meno ovvio di ciascuno di loro, così come avrebbe preferito si dicesse di lui stesso. Negli ultimi anni la vena amarognola e caustica di Monicelli più che nei film era venuta fuori nelle sue uscite pubbliche: era stato al Viola Day di febbraio e al primo no B day nel dicembre scorso a Piazza San Giovanni, aveva urlato ai giovani di tenere duro: “viva voi, viva la vostra forza, viva la classe operaia, viva il lavoro. Dobbiamo costruire una Repubblica in cui ci sia giustizia, uguaglianza, e diritto al lavoro, che sono cose diverse dalla libertà” ed era stato a Montecitorio con i colleghi nel luglio 2009 per protestare contro i tagli al Fus. L’Italia era per lui “una penisola alla deriva”. Monicelli non aveva paura di tirare fuori quello che sentiva, senza false diplomazie. Questo era sempre stato il suo carattere e forse a questa verità, dolorosa come il cancro alla prostata che lo aveva colpito, non ha resistito stasera.
Una volta – a Venezia nel 2008 – scherzò, ma neppure tanto perché lui era fatto così: “Non vedo l’ora scompaia De Oliveira. E’ stato sempre la mia ossessione. E’ più anziano di me – il regista portoghese è del 1908 ndr – , più bravo di me ed è stato invitato anche a più festival di me”. Questo il Monicelli più recente, barricadero, poi il Monicelli che passerà alla storia, il regista della Grande Guerra e dei Soliti Ignoti. Nel 1937, sotto lo pseudonimo di Michele Badiek, si era cimentato per la prima volta con il lungometraggio (Pioggia d’estate) e aveva conosciuto Macario e Totò che lo ingaggerà nella sua squadra di autori, Fece amicizia con Steno, si avvicina ai circoli della sinistra antifascista. Ma poi si arruola (in cavalleria) e attraversa indenne le campagne d’Albania e d’Africa. Nell’autunno del ’43, tornato in Italia, lascia l’uniforme, arriva a Roma, fiancheggia anche la Resistenza insieme all’amico anarchico Comunardo. Erano già i giorni di Roma città aperta, si affermava il neorealismo e ben presto, a Monicelli e Steno richiamati in servizio per Totò dal produttore Carlo Ponti, viene in mente di adattare la maschera del grande comico alle storie di vita che facevano furore.
Nasce così nel 1949 Totò cerca casa, esordio ufficiale nella regia sia di Monicelli che di Steno, grandissimo successo e farsa passata alla storia come “una delle più belle parodie del neorealismo mai realizzate”. E’ impossibile ripercorrere tutta la sua carriera, film dopo film, successo dopo successo, con oltre 66 regie e più di 80 sceneggiature. Basti dire che al trionfo dei successivi Vita da cani e Guardie e ladri (premiato a Cannes per l’interpretazione e la sceneggiatura nel ’51) corrispondono i problemi con la censura sia per questo che per Toto’ e Carolina. Dall’anno successivo cessa il sodalizio con Steno e dal ’54 quello sistematico con Toto’. Al ritmo di più di un film all’anno Monicelli approda, nel 1958 ad uno dei successi più limpidi: I soliti ignoti (nomination all’Oscar), l’ultimo film con Totò e il primo con Vittorio Gassman ‘sdoganato’ come mattatore comico. Del 1959 è un capolavoro assoluto come La grande guerra (altro film avversato dalla censura e poi trionfatore a Venezia con il Leone d’oro), del 1963 il doloroso I compagni con Mastroianni, del ’66 l’irripetibile invenzione de L’armata Brancaleone.
Sono gli anni dell’amicizia con Dino Risi, degli scontri con Antonioni, del controverso rapporto con Comencini, del trionfo della commedia all’italiana e dei ‘colonnelli della risata’. Nel 1968 Monicelli inventa Monica Vitti attrice comica per La ragazza con la pistola, nel ’73 ironizza sulle voglia di golpe all’italiana con Vogliamo i colonnelli, nel 1975 raccoglie l’ultima volontà di Pietro Germi che gli affida la realizzazione di Amici miei. Molto apprezzato anche in America, riceve ben tre nomination all’Oscar (oltre che per I Soliti ignoti candidato come miglior film straniero, per le sceneggiature de I compagni e Casanova 70). Nel 1977 recupera la dimensione tragica della commedia sceneggiando il libro di Vincenzo Cerami Un borghese piccolo piccolo. Negli annì80, da ricordare, fra i tanti film, Il Marchese del Grillo e l’unanime consenso per Speriamo che sia femmina.
Nel 1991, riceve il Leone d’oro alla carriera. L’anno dopo con il feroce Parenti serpenti dimostra di saper leggere le trasformazioni della società italiana con l’acume e la cattiveria di sempre. E’ del 2006 invece il tanto desiderato ritorno sul set di un film, rallentato da ritardi e difficoltà produttive, con Le rose del deserto, liberamente ispirato a Il deserto della Libia di Mario Tobino e a Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco.
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cinema/2010/11/29/visualizza_new.html_1675427987.html
—
L’ombra del Gattopardo 28.11.2010
di Goffredo Fofi | tutti gli articoli dell’autore
In un buon romanzo, Il Gattopardo, che non è tra i miei preferiti per la collocazione di chi racconta, il principe di Salina trae dalla Storia (l’Unità d’Italia, i nuovi padroni piemontesi) una morale acida e amara. Essa è di constatazione ma è anche, in sostanza, per il principe e per i finti vinti come lui è, di insegnamento o meglio di incitamento a sapersi adattare al nuovo corso. La frase è diventata proverbiale, ma in questi giorni non mi è capitato di vederla citata. Dice che tutto deve cambiare se si vuole che non cambi niente, che non cambi l’essenziale. Dice, per l’esattezza: «Perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
Questa oscena saggezza riguarda l’ordinamento classista della società, i poteri concreti e basilari – che sono economici, che riguardano il privilegio economico, i modi di dominare e di agire dei gruppi dirigenti e dei loro singoli rappresentanti, i quali non vengono affatto messi in discussione, che devono restare nelle solite mani e ci restano. Nei casi più gravi, dopo una guerra mondiale e alla fine di una dittatura, si può assistere al rotolamento di qualche testa e marchio, a qualche “epurazione” (in Italia, dopo la guerra, i procedimenti di epurazione dei rappresentanti del vecchio regime colpirono solo pochi, e quasi soltanto in basso, e per breve tempo), nei casi meno gravi, come quello del nostro Paese alla fine del 2010 e in vista della fine, si presume e si spera, del ventennio berlusconiano, è molto facile prevedere che anche stavolta non cambierà niente di sostanziale. Qualcuno verrà messo in pensione anticipata, qualcun altro scivolerà da un ente a un altro e da un incarico a un altro e da una banca a un’altra, qualche gruppo politico portatore di qualche possibile novità sensata avrà per qualche tempo un’effimera importanza – anche perché protetto e cioè insidiato da media famelici – ma rischiando di non durare a lungo se vi si riverserà una schiera di politici e amministratori pronti ad adattarsi alla nuova situazione, con piccoli salti di campo, con spostamenti abili e calcolati o anche, tra i soliti pretoriani e peones, confusi e scomposti.
La pratica recente delle primarie è una buona cosa, perché almeno per il momento non sembra facilmente manipolabile, ma non basta a scalfire i blocchi consolidati dei professionisti della politica, sempre assai abili nei girotondi delle cariche e nella cura delle clientele, e se lo scontento dilaga anche nei confronti dei poteri ancora in carica, se il costo della vita aumenta e la retribuzione delle prestazioni lavorative cala e le stesse possibilità di lavoro diminuiscono a vista d’occhio per il fallimento di un modello economico che ha retto e illuso per lungo tempo, però sono ben radicati nel nostro humus culturale profondo un modo di pensare e dei modelli di comportamento che nessuno sembra aver davvero l’intenzione di scalfire.
]Detto più chiaramente, se nel ’45 i fascisti erano scomparsi (ed erano stati la strabocchevole maggioranza della popolazione almeno fino all’entrata in guerra) già oggi va rapidamente scemando il numero di quelli che osano dirsi berlusconiani e che però hanno votato e idolatrato fino a pochi giorni addietro il loro affascinante super-ricco e i suoi magnifici esempi di comportamento civile e morale. Ma questo non vorrà dire che sia morto il berlusconismo e che gli italiani siano improvvisamente guariti dalla loro tendenza al conformismo e all’opportunismo. O, a sinistra, a dire A e fare B e magari a pensare C, e cioè a pensare e vivere, dicendo e credendo il contrario, da perfetti berlusconiani.
Nulla cambierà davvero? La speranza è l’ultima dea, e questa dea è bene onorarla e pregiarla sempre, nonostante le lezioni e le punizioni della realtà, è bene aggrapparsi a quel che di buono il futuro può offrirci e difendere e proteggere il poco che ci convince. Ma è anche bene guardare agli spostamenti della politica con qualche diffidenza, per non farsi fregare un’ennesima volta e perché sarà molto difficile che qualcosa possa davvero cambiare – con questa classe dirigente, con i rappresentanti che ci siamo dati, con le piccole e grandi complicità che abbiamo collezionato nei vent’anni delle vacche grasse (per alcuni grassissime).
Di tutto questo andrebbe rimproverato anche il giornalismo, che credo corresponsabile della miseria morale del nostro paese e di noi tutti, e che, su questo ci si potrebbe giurare, non cambierà negli anni a venire né il pelo né il vizio. Ma l’argomento è troppo grave per risolverlo in due battute, e bisognerà ritornarci.
http://www.unita.it/commenti/goffredofofi/l-146-ombra-del-gattopardo-1.256777
—
pc quotidiano 1 dicembre – STUDENTI IN RIVOLTA CONTRO LA GELMINI: L’approvazione della legge alimenta la ribellione 01.12.2010
Le grandi manifestazioni di ieri degli studenti di tutto il paese hanno dimostrato l’immensa volontà di continuare la protesta contro la legge gelmini e il governo berlusconi non lasciando fuori nessuno di coloro che appoggiano la riforma, dalla confindustria alla stampa, occupando i luoghi simbolo del potere politico ed economico, dai palazzi alle stazioni ferroviarie.
L’approvazione del decreto alla Camera dei deputati dimostra il totale disprezzo che questa “classe politica” al potere ha per le masse popolari giustamente in rivolta, in questo caso centinaia di migliaia di giovani che non si lasciano ingabbiare dalle chiacchiere del potere o della finta opposizione che nella sostanza è d’accordo con la riforma ma che pensa solo che ci vorrebbero più soldi per applicarla.
Ha dimostrato anche tutta l’inconsistenza di chi straparla di giovani e del loro futuro, come la cgil all’ultima manifestazione nazionale, ma poi non alza un dito per appoggiare il movimento. Né partiti né sindacati hanno fino a questo momento indetto uno sciopero di categoria né tanto meno uno sciopero generale oramai assolutamente indispensabile.
Il governo e tutti coloro che non vogliono opporsi seriamente hanno di fatto lanciato con l’approvazione della legge un’altra sfida a tutto il movimento degli studenti e dei giovani e meno giovani oramai precari universitari.
Questa riforma è fortemente voluta dalla Confindustria della Marcegaglia, dal sindacato dei padroni, lo stesso che prova ad eliminare, con il sostegno attivo del governo, i diritti dei lavoratori per schiavizzare modernamente gli operai.
Lo scontro adesso continua fino al ritiro del ddl Gelmini. Il passaggio al senato segnerà altri momenti importanti della lotta che si deve sviluppare in piena autonomia e durante la quale tutti sono chiamati a schierarsi.
I blocchi della polizia davanti al palazzo del potere a difesa di un gruppo di delinquenti al totale servizio dei padroni non hanno fermato gli studenti che hanno provato a rimuovere gli ostacoli.
Le cariche della polizia non possono più scoraggiare giovani che hanno afferrato la sostanza della posta in gioco: il loro futuro.
****
riproduciamo il comunicato del 26
Grandiosa giornata di lotta del movimento degli studenti ieri, università, strade, monumenti, invase da una marea montante di giovani, che dice basta ed è ben determinata a lottare fino in fondo per il ritiro della riforma Gelmini e se possibile per le dimissioni del ministro e la caduta del governo.
Questo movimento gode del consenso delle masse popolari perchè la riforma taglia l’università, nega il diritto allo studio ai giovani di provenienza proletaria e popolare, mette sempre più l’università al servizio degli interessi dei padroni, ne umilia la funzione culturale e critica, la riforma Gelmini è la stessa che licenzia una marea di insegnanti precari e di lavoratori della scuola, mentre sposta fondi verso le scuole privati e clericali, la riforma Gelmini è un tassello della politica antipopolare del governo, della discarica della crisi sui proletari e le masse.
Il movimento degli studenti raccoglie e porta avanti il vento dell’ovest che viene dalle grandi lotte studentesche che attraversano tutti i paesi europei e gli stessi USA, che hanno avuto nei giorni scorsi come epicentro prima la Francia, poi la Gran Bretagna.
Il movimento degli studenti va più avanti delle lotte operaie e precarie che si sviluppano nel paese, rompe con processioni e forme puramente difensive di lotte, assedia i palazzi, si sviluppa in forme generali simultanee e con quotidianità crescente, non si intimorisce di fronte alla violenza poliziesca lanciata dal governo contro di esso e in questo assolve a una funzione di avanguardia verso l’insieme del movimento operaio e proletario e all’opposizione politica e sociale contro il governo Berlusconi, attuale comitato di affari della borghesia imperialista italiana, soggetto trainante del moderno fascismo come tendenza al regime, sostenuta in diverse forme da tutti i partiti parlamentari, dalla maggioranza dei sindacati confederali.
Per questo bisogna sostenere con forza e decisione il movimento degli studenti, difenderne anche l’autonomia dai partiti parlamentari e dai sindacati confederali, ma il miglior sostegno e quello di mobilitarsi verso le fabbriche, le lotte operaie, il movimento dei precari e disoccupati, non tanto e non solo per sostenere e partecipare alle manifestazioni, ma per seguirne l’esempio assediando i palazzi del potere e i luoghi simbolo delle città, bloccando strade e ferrovie, lavorando per uno sciopero generale nazionale che paralizzi il paese, imponga la caduta del governo Berlusconi e ponga una ipoteca contro ogni governo che non raccolga le esigenze delle masse in lotta.
proletari comunisti
26 novembre 2010
http://proletaricomunisti.blogspot.com/2010/12/pc-quotidiano-1-dicembre-studenti-in.html
—
Verso Cancun
Autore: Cacciari, Paolo
Ciò che accade nel Veneto allagato e ciò che accade nel pianeta Terra sono eventi strettamente legati; ancora una prova della stretta connessione tra locale e globale. Carta clandestino, 30 novembre 2010
Le chiamano “bombe d’acqua”, sono precipitazioni intense quanto quelle di un anno intero e concentrate in un fazzoletto di poche centinaia di metri quadrati. Spianano le culture e sfondano i tetti delle costruzioni. Frequenti nelle aree subtropicali, abbiamo cominciato a fare la loro conoscenza nell’ultima alluvione nel Veneto. I meteorologi ci dicono che sono una conseguenza del fatto che l’aria calda trattiene più vapore acqueo di quella fredda. Scrive Bill Mc Kibben (Terra, Edizioni Ambiente, 2010): “Nelle zone aride aumenta l’evaporazione e quindi la siccità. Quando poi finisce nell’atmosfera, prima o poi l’acqua torna giù”. Ecco spiegato molto semplicemente il fenomeno per cui le precipitazioni totali su alcuni aree del pianeta sono aumentate di molto con eventi meteorologici estremi: temporali che in un solo giorno rovesciano decine di centimetri di pioggia. Ne sanno qualcosa le popolazioni dei comuni della pedemontana veneta da quindici giorni impegnati a svuotare cantine e riparare tetti. (Vedi i resoconti nel sito di Carta Estnord: due morti, migliaia di sfollati, decine di migliaia di case allagate, un miliardo di danni).
E’ incredibile come nemmeno di fronte ad eventi così evidenti non vi sia alcuna capacità (nei mass media e nelle forze politiche mainstream) di connettere i sempre più frequenti disastri “locali” alla catastrofe naturale globale in corso. Ci si azzuffa con “Roma ladrona” per ottenere qualche milione di risarcimenti, al massimo ci si lamenta per i mancati interventi di manutenzione delle opere di regimentazione delle acque, ma nessuno prende parola per denunciare lo scandalo di un governo che rema contro le pur insufficienti e balbettanti iniziative dell’Unione Europea sulle emissioni di gas serra. Sembra che gli ultimi negazionisti delle cause antropiche del caos climatico siano annidati nel Ministero dell’Ambiente italiano, oltre che in Polonia. Ma se ai polacchi possiamo concedere la giustificazione della necessità di sfruttare le miniere di carbone, per l’Italia la presenza dell’immarcescibile direttore generale Corrado Clini, plenipotenziario per i negoziati sul clima da Kioto a Copenaghen, dimostra che tutti i governi succedutesi di centrosinistra e di destra sono rimarti succubi ai voleri degli intoccabili padroni dell’energia: dall’Eni di Scaroni alla Sorgenia di De Benedetti, dalla Saras di Moratti agli inceneritori della premiata ditta Marcegaglia. Per non ricordare che gli italiani detengono i primati mondiali di produzione pro capite di cemento e di automobili in circolazione. Il nostro, cioè, è il modello industriale più energivoro che si possa immaginare. L’urgenza di una sua riconversione (variamente ricordata dagli scritti di Guido Viale e da pochi altri economisti) viene quotidianamente negata dalle politiche economiche governative e confindustriali. Questa è la prima ragione del declino economico e del disastro ambientale in Italia.
Anche per queste “peculiarità” nazionali, il percorso di avvicinamento a Cancun nel nostro paese deve essere più impegnativo; deve rompere il velo di ignoranza e di omertà calato sulle questioni climatiche. A questo scopo è nata una rete (Rigas) molto vasta di associazioni e comitati che prepara il contro-vertice di Cancun con varie iniziative, così come già successe lo scorso anno in occasione del precedente “incontro tra le parti” di Copenaghen.
Innanzitutto va richiamata l’attenzione sui rischi che l’umanità sta incorrendo. Il più accreditato climatologo del mondo, scienziato della Nasa, James Hansen (Tempeste, con introduzione di Luca Mecalli, Edizioni Ambiente, 2010) ci avverte che se dovessimo continuare a bruciare tutti i combustibili fossili che conosciamo – e che con tanto accanimento cerchiamo di estrarre in fondo agli oceani e tra le rocce bituminose – “le calotte glaciali si fonderebbero completamente con un innalzamento finale del livello del mare di 75 metri e gran parte di questo processo si svolgerà nell’arco di qualche secolo”. Spiega bene Mc Kibben: “Siamo all’inizio del cambiamento più vasto e profondo mai registrato nella storia dell’umanità, pari solo a quei grandi pericoli che abbiamo potuto leggere nelle tracce lasciate nelle rocce e nel giaccio (…) Non si tratta di un cambiamento transitorio, è la Terra che sta mutando (…) La calotta polare artica si è ridotta di 2,8 milioni di chilometri quadrati, più di quanto sia mai stato registrato nella storia (…) I tropici si sono espansi di due gradi di latitudine a nord e a sud, con la conseguenza che alla fascia climatica tropicale si sono aggiunti altri 22 milioni di chilometri quadrati. A conseguenza di ciò, le regioni subtropicali aride si spostano ora verso nord e verso sud, con gravi conseguenze per i milioni di persone che vivono in queste regioni aride di recente formazione (…) Le barriere coralline cesseranno di esistere come strutture fisiche entro il 2100, forse 2050”.
Tutti gli altri effetti sugli ecosistemi si possono trovare ben elencati e classificati nell’ultimo Living Planet Report del WWF 2010 (anno internazionale della biodiversità): l’indice del pianeta vivente continua a scendere mentre la pressione antropica sulla biosfera (impronta ecologica) continua a salire.
La rivista “Nature” ha pubblicato studi in cui si rivela che l’ultima volta in cui i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera raggiunsero i valori simili a quelli attuali (390 parti per milione) fu circa 20 milioni di anni fa; ma allora il mare salì di 20 metri e le temperature di 10 gradi centigradi.
Conclude Mc Kibben: “L’Olocene è ormai agli sgoccioli e l’unico mondo che gli umani hanno conosciuto all’improvviso vacilla”. L’Olocene è la nostra era geologica, il cui inizio è stato fissato 11.700 anni fa, all’interno della quale si è potuta sviluppare la civiltà umana ad iniziare dal neolitico, 7.000 anni fa.
Insomma, di fronte a mutamenti irreversibili così sconvolgenti, servirebbe una energia positiva inversa: una rabbia benedetta, una santa indignazione… una sollevazione morale capace di imporre l’obiettivo del rientro delle emissioni in atmosfera di CO2 nella soglia delle 350 parti per milione per contenere l’incremento della temperatura ad un grado massimo centigrado a fine secolo. A partire da questo obiettivo sarebbe possibile declinare una serie di politiche specifiche. Basti pensare che il settore agroalimentare (e della carne in particolare) genera da solo tra il 40 e 50% delle emissioni globali di gas serra. Pensiamo poi ai trasporti, all’edilizia, all’energia… Per ogni settore, in ogni parte della terrà sarebbe necessario calcolare i flussi di materie e di energie impegnati nei cicli produttivi e di consumo e pianificarne la loro riduzione; ricalcolare il “metabolismo sociale” (come dice Joan Martinez-Alier, L’ecologia dei poveri, Jaka Book, 2010) di ogni attività umana in funzione della sostenibilità ambientale e tenendo conto dell’equità sociale. Politiche ambientali e politiche sociali si devono sposare. Sono noti gli enormi squilibri nella produzione pro-capite di gas climalteranti tra i vari paesi del mondo e, al loro interno, tra le diverse classi sociali. Peggio ancora: nessuno calcola che in realtà la grande parte di emissioni di CO2 nelle “fabbriche del mondo” in Cina o India in realtà è dovuta alla produzione “delocalizzata” di merci che consumiamo in questo emisfero del pianeta e che quindi andrebbero correttamente addebitate a noi, non a loro (“emissioni per procura”). Vanno poi calcolati anche i debiti climatici accumulati dalle società del nord del mondo in secoli di saccheggio e di colonizzazione del sud.
A Cancun sappiamo già cosa (non) accadrà. Avremo la conferma che dall’alto, dai vertici, dalla governace mercatoria, nulla di buono può venire per i cittadini del mondo, per i commoners espropriati dall’uso dei beni comuni della terra: dopo il suolo, l’acqua e l’aria. Anche questa volta dovremmo cominciare dal basso, a “fare la rivoluzione” in casa nostra, a partire dal rivendicare piani energetici comunali che rispettino gli obiettivi di Kioto sul modello delle Transition Town, filiere agroalimentari corte, zero sprechi e zero rifiuti, acqua in caraffa, più piste ciclabili e aree pedonali, certificazioni delle abitazioni… insomma una vera e profonda riconversione ecologica dell’economia, degli stili di vita, delle istituzioni pubbliche.
http://eddyburg.it/article/view/16270/
—
Wikileaks e America latina, un primo bilancio 30.11.2010
E’ impressionante leggere come nel giugno 2009 l’ambasciatore statunitense in Honduras considerasse “totalmente illegittimo” in privato il golpe che in pubblico difendeva a spada tratta. Colpisce leggere che si chieda un rapporto sulla salute mentale di un presidente, quella argentina, colpevole di resistere a lusinghe lobbystiche. Nella difficoltà di poter già scandagliare direttamente l’archivio di Wikileaks, ancora largamente indisponibile, si possono solo fare dei bilanci parziali su cosa sia contenuto nei documenti “declassificati” rispetto all’America latina.
Tuttavia molto di importante e contestuale viene già fuori, a partire da quel punto dolente che è la chiara prosecuzione, anche durante il governo di Barack Obama, di una doppia morale da guerra fredda per quanto concerne il golpe in Honduras del giugno 2009 o del riflesso condizionato, nei casi argentino, venezuelano, boliviano ci sono già i primi documenti, di chi non ha ancora elaborato il lutto per la fine del “Washington consensus” e che ritiene che i dirigenti politici che non rispondono alle logiche e agli interessi statunitensi siano “pazzi”.
Il governo degli Stati Uniti si adoperò in Honduras non solo appoggiando il golpe, ma fornendo, spendendo la propria autorevolezza, materiale per una campagna di stampa per legittimare il dittatore di Bergamo alta, Roberto Micheletti, che aveva rovesciato il legittimo governo di Mel Zelaya, reo, per la prima volta nella storia del paese centroamericano, di una politica estera autonoma che lo aveva avvicinato ai governi integrazionisti. A tale campagna risposero sull’attenti molti noti sicari mediatici che, come El País di Madrid, negarono a lungo il golpe e presentavano i fatti in maniera opposta alla realtà. Tuttavia come conferma un rapporto tra i primi ad essere pubblicati, gli statunitensi, e con loro i grandi media, sostenevano pubblicamente la legittimità della destituzione di Zelaya, ma Wikileaks dimostra sapevano e tra loro si dicevano apertamente che quello di Tegucigalpa era un golpe, che quello che si formava e che avrebbero difeso contro tutto il Continente era un governo illegittimo e che le presunte dimissioni di Zelaya erano un falso fabbricato ad arte. Pubblicamente, insomma, sostenevano l’esatto contrario di quello che ammettevano in privato.
E’ la stessa logica palesata da Franklin Delano Roosevelt per il dittatore nicaraguense Anastasio Somoza e pedissequamente riprodotta da ogni governo statunitense (Barack Obama incluso) per tutti i banditi e violatori di diritti umani che avevano convenienza di appoggiare. “E’ un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”, disse di Tacho Somoza il grande presidente del New Deal che contribuì a sconfiggere il nazismo. E’ la stessa logica, quella usata per Micheletti, con la quale, da Alfredo Stroessner a Efraín Ríos Mont, da Fulgencio Batista a Humberto Castelo Branco, da Hugo Banzer ad Augusto Pinochet fino all’honduregno Tiburcio Carias, gli Stati Uniti hanno appoggiato e purtroppo continueranno ad appoggiare alcuni tra i peggiori criminali della Storia. E’ perciò un bene che Wikileaks abbia accorciato i tempi storici di “declassificazione” dei documenti per ricordare, anche a chi considera comodo non vedere, non sentire, non dire, che, almeno fino al giugno 2009, in piena restaurazione della speranza obamita, nulla era cambiato.
E’ con questa immutabile logica che l’Ambasciatore a Panama parla nel dicembre dell’89, a pochi giorni dall’invasione, di “speranze di golpe” contro il gorillone Manuel Noriega che prima di diventare scomodo avevano appoggiato. Ed è con questa logica che l’Ambasciatore a Brasilia sonda nel 2005 un generale brasiliano importante come Jorge Armando Felix per spiegargli quanto negativo fosse per il Brasile essere alleati di Hugo Chávez e capire se tale generale fosse disponibile a ostacolare (tentativo fallito) la politica integrazionista latinoamericana del governo Lula rompendo l’alleanza col Venezuela.
E’ importante sottolineare che la logica “wikileaks”, così come è utilizzata dai grandi giornali che dispongono e centellinano le informazioni, mentre la pubblicazione sul sito prosegue a un rilento tale che potrebbero volerci mesi ad avere un quadro chiaro, porta ad un doppio binario interpretativo. Da una parte ci sono le notizie, come quella rilevante sul golpe in Honduras. Dall’altra ci sono le opinioni o le voci, che nella fattispecie vengono fatte assurgere alla categoria di notizie. In questo vi è un rischio grave, come vediamo in queste ore per i “party selvaggi” di Silvio Berlusconi. Delle due l’una, che piaccia o no: o il nostro principale alleato spiava le notti brave del nostro capo del governo, e sarebbe interessante ma gravissimo, oppure i funzionari di Via Veneto stavano raccogliendo nulla più di voci e gossip, peraltro largamente diffusi senza bisogno che potenze straniere dessero loro credito.
In questo contesto il rischio è la sopravvalutazione di come un gruppo coeso di personale diplomatico, al 90% maschio, bianco, anglosassone, protestante, con un grosso conto in banca, appartenente alla “world class” mondiale e con la marcata tendenza all’abuso di superalcolici, appartenenti alla classe dirigente di un paese in grado di eleggere personaggini come Ronald Reagan o avere come ministri cannibali come Henry Kissinger o Donald Rumsfeld, giudica l’intera classe politica mondiale. Proprio nel momento della pubblicazione dell’archivio, che è senz’altro un momento di delegittimazione, rendendo pubblici episodi poco commendevoli come lo spiare il segretario generale delle Nazioni Unite, il punto di vista riservato e in genere squallidamente sprezzante, se non razzista, di questo gruppetto di persone, stride con i pubblici sorrisi ma diventa fonte per l’opinione pubblica mondiale e quasi vulgata.
Il problema non è quanto scrivono i diplomatici, che fanno (spesso bene) il loro mestiere e di mestiere compilano rapporti dove devono dar conto anche delle voci. Il problema è la propensione della stampa, e di una parte importante dell’opinione pubblica, a prendere per oro colato non le notizie (come quella sull’Honduras che in linguaggio bushiano è “una pistola fumante”) ma le opinioni che vengono inopinatamente fatte assurgere alla categoria di sentenze.
Ed allora è in questo contesto che altre rivelazioni sono interessanti e vanno inquadrate. Come quella profondamente maschilista che tende in queste ore a far passare per squilibrata, uterina, lunatica, la presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner. Ciò avviene, oltretutto, nel rispetto dello stereotipo dominante, per il quale la presidente peronista viene sempre descritta come figura senza spessore politico rispetto al marito Néstor e addirittura incapace di sopravvivere politicamente alla morte di questo. Da questo pregiudizio parte un effetto valanga scandaloso. Gli informatori argentini (e se li chiamassimo spie?) della diplomazia statunitense sostengono che alcuni passaggi della politica di Cristina li sconcertano. Di conseguenza Hillary Clinton fa chiedere un folle “rapporto sullo stato mentale e di salute” del presidente argentino. Una volta resa pubblica la semplice esistenza della richiesta di tale rapporto la stampa mondiale si sente autorizzata a pensare, e a scrivere, che, per il governo degli Stati Uniti, “Cristina Fernández è pazza”.
Bene ha fatto allora il presidente venezuelano Hugo Chávez (sul processo di demonizzazione del quale attendiamo succulente rivelazioni) a chiedere provocatoriamente che qualcuno indaghi anche sulla salute mentale di Hillary Clinton. Quella che emerge nelle carte è infatti l’incapacità degli Stati Uniti di accettare che l’America latina abbia politiche autonome o che a Buenos Aires possano aver portato al governo personaggi come l’ex-ministro degli esteri Jorge Taiana (in gioventù vicino a Montoneros) o l’uruguayano Luís Rosadilla, ex guerrillero tupamaro, al quale Washington ha negato trent’anni dopo il visto d’ingresso. La verità è allora che Washington mal sopporta di ritrovarsi oggi al governo esponenti di quella gioventù che negli anni ‘70 tentò di eliminare fisicamente con il Piano Condor. Una generazione della quale anche i Kirchner, come il presidente brasiliano attuale e futuro Lula da Silva e Dilma Rousseff, o il presidente uruguayano Pepe Mujica, facevano parte.
Così, in genere, quando oggi membri del governo nordamericano come Arturo Valenzuela, sottosegretario per l’America latina di Hillary Clinton, vanno a fare azioni di lobbying per conto degli interessi statunitensi trovano fermi dinieghi da parte di dirigenti politici come Cristina Fernández che, al contrario che in passato, mettono al primo posto gli interessi del loro paese e non l’essere ben considerati a Washington. La conseguenza però è che nei rapporti rivelati da Wikileaks ritroviamo giudizi come “Cristina Fernández è autoritaria”, “Cristina Fernández è incapace di accettare critiche”, “Cristina Fernández è umorale” ma non troveremo mai scritta la motivazione di tali giudizi: “Cristina Fernández è stata caparbia nel difendere gli interessi argentini”.
I dettagli sul presidente argentino sono paradigmatici per spiegare il contesto. E’ un contesto largamente condizionato dall’ideologia Bush nel quale lo spionaggio resta fondamentale e nel quale la categoria di “nemico” è estesa alla società civile, compresi i movimenti sociali che tanto hanno rappresentato nell’America latina all’Alba del XXI secolo. Questi, per il bushismo, erano considerati tout court come “terrorismo” e sui quali attendiamo di leggere.
Molto resta da scoprire, anche se senza farsi particolari illusioni né di trasparenza né di completezza in un contesto dove già colpisce che non sarebbero attesi documenti su Cuba. E’ un bene però difendere il diritto di Wikileaks a mettere a nudo le pratiche professionali di questo spezzone della superelite mondiale nella sua prerogativa a giudicare senza essere giudicati. La Rete si conferma uno strumento potentissimo per abbattere i monopoli, i santuari delle classi dirigenti, la menzogna, il segreto, lo spionaggio e democratizzare l’informazione e il pianeta. In questo Wikileaks probabilmente ci farà sapere cose che sappiamo già e che spesso abbiamo già scritto e raccontato e che tuttavia sono esattamente l’opposto a come i media velinari le hanno ribaltate e raccontate all’opinione pubblica di massa. Mai, statene certi, faranno autocritica.
Aspettiamo di leggere qualcosa su come un grande paese come il Messico in questi anni è tornato ad essere una colonia e di come si è costruita l’enorme macchina per isolare e destabilizzare i governi integrazionisti, a partire da quello venezuelano e boliviano per finire a quelli più deboli come quello honduregno vittima del golpe del giugno 2009. Quello che colpisce ancora una volta è la grande dignità degli umili: quando mai nella storia si è visto un governo del Paraguay, nella persona del Ministro degli Esteri Héctor Lacognata, presentare una durissima lettera per denunciare il malessere e la preoccupazione del suo governo per la sistematica ingerenza statunitense nella vita politica, sociale ed economica del paese che Wikileaks mette a nudo?
http://www.gennarocarotenuto.it/14607-wikileaks-e-america-latina-un-primo-bilancio/
—
Cure palliative a casa solo per pochi 26.11.2010
di Marzio Bartoloni
L’assistenza a casa per i malati terminali è un miraggio per il 60% degli italiani, circa 36 milioni di persone. E per ben 6 milioni, l’unica figura di riferimento è il medico di famiglia. Figli, mogli, mariti costretti a provvedere a proprie spese a infermieri e altre figure necessarie. Un costo che può raggiungere i 3.000 euro mensili in assenza di organizzazione e supporti. Con una programmazione centralizzata, sarebbero invece sufficienti soli 8 euro all’anno della quota capitaria che lo Stato destina ad ogni cittadino (1.700 euro ogni 12 mesi) per assicurare figure professionali specializzate per assistere il malato a casa fino agli ultimi giorni.
L’indagine – pubblicata sul supplemento di Monitor dell’Agenas e presentata questa mattina durante il congresso della Simg – conta le realtà che effettivamente erogano cure a casa – 311 centri – attraverso équipe dedicate (167) e altre forme di erogazione (144). Con una distribuzione che risulta comunque «geograficamente disomogenea» tra le diverse Regioni e all’interno delle stesse Regioni.
In buona sostanza il servizio viene garantito da équipe dedicate circa al 40% dei residenti, soprattutto nelle Regioni del Nord. Il restante 60% dei cittadini risiede in Asl dove non sono stati individuati centri dedicati. Mentre in ben 20 Asl, con 6 milioni di residenti, c’è il deserto: non c’è, insomma, nessun tipo di servizio. Qui il medico di famiglia rappresenta l’«unico potenziale riferimento per garantire un percorso palliativo domiciliare».
«Per la prima volta si è realizzata in Italia un’indagine a tappeto che ci ha permesso di scattare una fotografia completa ed aggiornata e di capire quali sono i punti deboli – afferma Pierangelo Lora Aprile, Responsabile dell’Area Cure Palliative della Società Italiana di Medicina Generale, che celebra fino a domani a Firenze il congresso nazionale -. Noi siamo di fatto, in alcune realtà del Paese, l’unico baluardo che sta affrontando il problema dell’assistenza ai malati in fase terminale a livello capillare sul territorio. Il problema è organizzativo e richiede il potenziamento immediato dei servizi di assistenza domiciliare già esistenti e funzionanti con personale infermieristico e medico specializzato. Questo potrebbe migliorare da domani la situazione in larga parte della penisola». Esiste un gradiente nord sud, che vede il meridione in situazione più critica, ma anche in alcune zone settentrionali il servizio è carente. «Per costruire una rete nazionale delle cure palliative, come vuole la recente legge 38 del 2010, occorre integrare la presenza degli hospice, con quella di cure domiciliari adeguate – afferma Giovanni Zaninetta, presidente della Società Italiana di Cure Palliative -. E queste ultime devono possedere gli stessi standard di qualità su tutto il territorio nazionale». Gianlorenzo Scaccabarozzi, Direttore del Dipartimento della Fragilità di Lecco propone una ricetta: «Occorre che lo sviluppo della rete nei suoi nodi fondamentali (casa, hospice, ospedale) diventi una priorità nella programmazione regionale e locale, attraverso obiettivi specifici di mandato per i Direttori generali. Oggi non è così». A questa prima ricerca, compiuta a livello nazionale hanno risposto ben il 97% delle Asl presenti sul nostro territorio e centinaia di Centri. Emerge, purtroppo, che le cure palliative restano spesso l’espressione dell’iniziativa singola.
In questo percorso virtuoso la pubblicazione, un supplemento al n. 26 dei quaderni di Monitor che viene presentata oggi al Congresso, rappresenta un tassello importante: «Ha un duplice obiettivo – spiega Fulvio Moirano Direttore dell’Agenas -: da un lato, offre l’opportunità al sistema dei professionisti di verificare lo stato dell’arte, prendendo atto delle differenze regionali e distrettuali che ancora permangono. Dall’altro, analizza la percezione che di queste cure hanno gli operatori sanitari, esplorando le opinioni, il livello di conoscenza del problema, le attitudini e i comportamenti dei principali professionisti dell’assistenza domiciliare in ogni Regione». Su questo fronte i risultati sono incoraggianti: la cultura media è buona e il servizio, dove esiste, raggiunge livelli di eccellenza. Il 53% garantisce una continuità assistenziale sulle 24 ore ed il 45% una pronta disponibilità medico-infermieristica.
Le cure palliative rappresentano da tempo una priorità per i medici di medicina generale che già nel 2008 avevano condotto al proprio interno un’indagine per verificare il livello di sensibilità e competenze: «Il 93% di noi è pronto a gestire il paziente terminale a casa, ma chiede di poter essere aiutato da un’equipe formata – afferma Claudio Cricelli, presidente nazionale Simg – buone le conoscenze anche sul fronte farmaci: il 92% sa che non vi sono limiti alla dose massima di morfina, un importante indicatore di appropriatezza. Esistono però ambiti di miglioramento, ad esempio sul livello di prescrizione degli oppiacei, che in Italia è ancora troppo basso. Per questo, anche in questo nostro congresso nazionale dedichiamo così ampio spazio a questo tema».
Ad oggi, il 60% dei decessi avviene in una corsia di ospedale per acuti e molti di loro ogni anno sono malati terminali. «Attenendosi ai dati risulterebbe che nel 59% delle Asl è attiva una rete di cure palliative, ma, purtroppo, sappiamo che la realtà italiana non è ancora a un livello così alto – spiega Zaninetta -. Dunque occorre fare chiarezza sui termini definendo nei fatti che cosa si intenda con questo termine. Questa ricerca è un ottimo punto di partenza per riuscirci». «Un documento che – conclude Moirano – mi sembra particolarmente utile in questo momento, in cui è in fase avanzata la discussione sul provvedimento di definizione dei Livelli essenziali di assistenza, che tratta anche delle cure palliative domiciliari alle persone in fase terminale della vita».
http://www.sanita.ilsole24ore.com/PrimoPiano/Detail/1345693
—
Wikileaks e la Basilicata 30.11.2010
Tra i famigerati file svelati da Wikileaks che riguardano l’Italia non ci sarebbero solo le informative sui festini di Silvio Berlusconi e il suo rapporto forse troppo conciliante con Vladimir Putin. Ci potrebbero anche essere affari interessanti compiuti dai russi nel settore petrolifero italiano. Ovviamente al sud.
Secondo il senatore di Fli Egidio Digilio, infatti, alcuni siti di stoccaggio del gas naturale lucani potrebbero trovare una spiegazione grazie ai file svelati:
Tra i documenti diffusi via web da Wikileaks ce ne sono di sicuro alcuni interessanti che, secondo il “filone” delle preoccupazioni degli Usa per l’intesa tra Eni e Gazprom, ci auguriamo possano finalmente contribuire a far luce sulla vicenda dei siti di stoccaggio del gas acquisiti in Valbasento da una società russa, una vicenda dai troppi aspetti ancora oscuri e che ho sollevato nel luglio 2008 con un’interrogazione all’allora Ministro Scajola. Solo adesso, dopo le prime notizie diffuse sul materiale del Dipartimento di Stato Usa, comincio a capire le ragioni di una mancata risposta
Non resta che aspettare che qualche paziente lucano si metta a spulciare il sito di Wikileaks per scoprire se il senatore ha ragione o ha torto. Sarebbe anche interessante andare a vedere se ci sono documenti su altre grosse operazioni che hanno portato i russi nell’industria petrolifera italiana, come l’acquisizione del 2008 da parte di Lukoil della metà della raffineria Erg di Priolo.
Via | Ola Ambientalista, Pagine di Difesa
Foto | Flickr
—
Eccezionale ritrovamento in Francia, spuntano centinaia di nuove opere di Picasso 29.11.2010
Non è un ritrovamento di poco conto, ma quanto basta per aprire un nuovo museo dedicato a Picasso. 271 oggetti scoperti in Francia per un valore complessivo di 60 milioni di euro. Ci sono alcuni dipinti del periodo blu, nove collage cubisti, molti disegni, alcuni sketchbook ed altre opere in corso di classificazione.
Li conservava un elettricista residente nel sud della Francia, che sostiene di averli ricevuti in dono dal pittore stesso e da sua moglie, presso di cui lavorava. Sembra che Guennec (questo il nome del tecnico ormai in pensione) lo scorso gennaio abbia contattato Claude Picasso, figlio del pittore scomparso nel 1973, per ottenere una certificazione circa l’autenticità di 175 lavori, che non comparivano nell’archivio ufficiale delle opere dell’artista catalano.
Dopo essersi reso conto che gli oggetti erano effettivamente stati realizzati da suo padre, Claude ha chiamato la polizia che, solo recentemente, ha confiscato i lavori. Il figlio infatti, pur nascondendo che fosse un uomo molto generoso, sostiene che Pablo abbia sempre firmato e dedicato le sue donazioni, così da poter in qualche modo tener traccia dei loro eventuali movimenti sul mercato e sapere allo stesso tempo se qualcuno dei destinatari dei suoi doni si fosse trovato in difficoltà economiche.
Secondo una recente stima l’intero corpus di opere di Picasso conterebbe circa 20.000 pezzi, molti dei quali andati perduti. Il corpus più consistente di opere ritrovate e non ancora catalogate, risale ai primi anni trenta e si presenta in buone condizioni. Nel frattempo, per Guennec è scattata una denuncia per ricettazione.
—
Eolico, i certificati verdi eliminati dal 2015 30.11.2010
Il Consiglio dei Ministri è impegnato in queste ore in una discussione particolarmente interessante sulle rinnovabili: abolire dal 2015 i certificati verdi. Ne parlavamo proprio in un post di ieri, dopo le denunce di Report a proposito del gioco della compravendita di certificati verdi e di energia che rinnovabile non è.
Riporta Via dal vento da Mf che saranno queste le novità:
Passaggio a un sistema di tariffa incentivata per tutte le fonti rinnovabili e un nuovo meccanismo più semplice per l’autorizzazione dei piccoli impianti. Sono queste le novità principali contenute nella bozza del decreto per l’attuazione della normativa europea 20-20-20 che sarà discussa oggi in consiglio dei ministri. Il provvedimento, con il quale il governo fissa meccanismi e criteri per raggiungere l’obiettivo del 17% del mix energetico complessivo da fonti rinnovabili entro il 2020, smantella il vecchio sistema dei certificati verdi, eliminati a partire dal 2015. È previsto però una sorta di periodo transitorio: tra il 2011 e il 2015 gli impianti che producono certificati verdi avranno diritto al ritiro dell’invenduto da parte del Gse, ma a un prezzo del 30% inferiore a quello fissato nel 2007. In ogni caso, dal 1° gennaio 2013 tutti i nuovi impianti saranno incentivati con il sistema feed in, con tariffe differenziate in base a fonte e potenza installata. Questo meccanismo sarà valido per gli impianti fino a 10 megawatt, mentre per quelli più potenti gli incentivi saranno assegnati con aste al ribasso, in cui i produttori dovranno contenderseli proponendo i progetti più efficienti. Per quanto riguarda il fotovoltaico, infine, entrerà nel regime disegnato dal decreto solo allo scadere del Nuovo conto energia, valido fino alla fine del 2013.
Gli stati generali delle rinnovabili si terranno il 9 dicembre e c’è da credere che non passeranno inosservati.
Foto | Flickr
—
Le speranze da un vaccino italiano. Ma i governi non rispettano gli impegni
Nel mondo più di 33 milioni di persone vivono con l’Hiv; 2,6 milioni i nuovi casi registrati e 1,8 milioni i decessi. Mille bambini ogni giorno nascono con l’Hiv in Africa. Povertà e ignoranza fanno sì che solo la metà delle donne incinte sieropositive ottengano i farmaci per proteggere i figli. Le promesse non mantenute dell’Italia. Carla Bruni riconoscente con il Papa. L’editoriale di Elton John su Independent
Fonte: Repubblica.it, di Emanuele Stella 01/12/2010
ROMA – Sono 33,3 milioni, nel mondo, le persone che vivono con l’Hiv, 2,6 milioni i nuovi casi registrati e 1,8 milioni i decessi. Ogni giorno in Africa, epicentro del contagio, più di 1.000 bambini nascono con l’Hiv, e la metà di loro muore prima di raggiungere i due anni. Marginalità, povertà, analfabetismo fanno sì che solo la metà delle donne incinte sieropositive, nei paesi in via di sviluppo, ottengano i farmaci necessari per proteggere dall’infezione i figli che portano in grembo. E’ l’allarme contenuto in “Bambini e Aids: quinto rapporto di aggiornamento 2010” realizzato da Unicef 1, Oms 2, Unfpa 3, Unesco 4 e Unaids 5, presentato in occasione della giornata mondiale contro l’Aids del 1° dicembre.
Disparità di trattamento. L’Oms ha pubblicato nuove linee guida per il trattamento con farmaci antiretrovirali di neonati e bambini, consentendo a molti più bambini sieropositivi di accedere tempestivamente alle terapie. Nei paesi a basso e medio reddito il numero dei bambini sotto i 15 anni che ricevevano i trattamenti è salito da 275.300 nel 2008 a 356.400 nel 2009. La percentuale di donne in gravidanza che ricevono questi farmaci è quasi raddoppiata – dal 24% al 45% – tra il 2006 e il 2008, ma la crescita ha poi subìto un rallentamento.
Nel 2009 il 53% delle donne incinte affette da Hiv è stata sottoposta a terapia, ma la qualità dei programmi di prevenzione e trattamento per le madri e i bambini non è omogenea, e cambia da paese a paese.
Il contagio tra i tossicodipendenti. Più di 3 milioni dei circa 15,9 milioni di consumatori di droghe iniettabili hanno l’Hiv, sottolinea il rapporto “Out of harm’s way” della Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa 6, secondo il quale negare i servizi per la riduzione del danno ai consumatori di droghe iniettabili sta contribuendo alla trasmissione del virus e costituisce una violazione dei diritti umani. Non serve la prigione, ma l’accesso ai necessari servizi sanitari, dalla terapia sostitutiva ai programmi sullo scambio di aghi e siringhe. Benché cinque paesi – Cina, Malaysia, Russia, Ucraina e Vietnam – ospitino il maggior numero di consumatori di droghe sieropositivi, le cifre stanno crescendo anche in Africa, Medio Oriente, America Latina, Asia meridionale, centrale ed orientale. Il rapporto si focalizza sull’Europa orientale e l’Asia centrale, dove il 60% dei consumatori di droghe iniettabili è sieropositivo, e dove leggi e politiche continuano a criminalizzare i tossicodipendenti.
In Ucraina. Qui, il numero di sieropositivi è talmente alto che il paese sta andando incontro a un’epidemia generalizzata. In Europa orientale e nella Federazione Russa si assiste a livelli preoccupanti di trasmissione dell’Hiv da parte dei consumatori di droghe iniettabili alla popolazione generale. Il rapporto rileva che, ad oggi, la spesa per i programmi di riduzione del danno è appena dell’1.4% su un totale di 11.3 miliardi di dollari spesi complessivamente per programmi su Hiv e Aids, una somma irrisoria se comparata alle necessità.
Non basta l’intervento “verticale” sull’Aids. Secondo le Nazioni Unite, il 2010 sarebbe dovuto essere l’anno del raggiungimento dell’accesso universale alle cure per HIV/AIDS. In realtà, ricorda Actionaid 7, le persone sottoposte ai trattamenti anti-retrovirali sono solo un terzo di quante ne avrebbero urgente bisogno. La denuncia è contenuta nel rapporto ‘Ogni promessa è debito: l’Italia e la lotta all’AIDS’, che analizza il ruolo dell’Italia nella lotta all’Aids. “Cinque milioni di persone sono state sottoposte al trattamento anti-retrovirale, una crescita di 12 volte negli ultimi 5 anni. Ma non dobbiamo farci ingannare”, ha sottolineato Marco Simonelli, curatore del rapporto, “sebbene le risorse impegnate dalla comunità internazionale dei donatori siano raddoppiate negli ultimi 4 anni, rimane ancora elevata la distanza tra le risorse disponibili e quelle necessarie per combattere la pandemia”. Per Actionaid oltre a incrementare le risorse è necessario investire nella qualità degli aiuti passando “da un approccio ‘verticale’, volto a contrastare la fase di emergenza della pandemia, a uno trasversale costituito da interventi per rafforzare i sistemi sanitari nel loro complesso”.
Le promesse non mantenute del governo. Nell’ultimo decennio, ha ricordato Simonelli, l’Italia ha contribuito alla lotta all’Aids per l’80% attraverso il Fondo Globale per la lotta contro l’HIV/AIDS, la tubercolosi e la malaria e per il restante 20% attraverso accordi bilaterali con i singoli Paesi beneficiari. “Ma negli ultimi due anni il nostro paese è l’unico tra i donatori a non aver versato le proprie quote al Fondo, cioè circa 130 milioni di euro all’anno”, ha ammonito l’esperto, “sommate al contributo straordinario di 30 milioni di dollari promesso durante il G8 dell’Aquila dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, l’ammanco italiano sale a circa 280 milioni di euro. Un ritardo aggravato dall’imbarazzante assenza del nostro governo alla Conferenza di Rifinanziamento del Fondo Globale stesso”.
Il vaccino italiano. E’ in fase di sperimentazione, ed è in grado di riportare alla normalità il sistema immunitario. Secondo Barbara Ensoli, del Centro nazionale Aids 8 dell’Istituto superiore di Sanità – che sta sviluppando il vaccino – i risultati ottenuti sono “entusiasmanti” 9: in 87 pazienti trattati, dopo 48 settimane, si osservano miglioramenti notevoli nel sistema immunitario compromesso dal virus. Il vaccino agisce sulla proteina TAT, vero motore dell’Hiv, scatenando una risposta immune duratura e depotenziandone l’azione distruttiva.
Medici senza frontiere. Anche da parte di questa organizzazione c’è il richiamo nei confronti dei paesi donatori alle proprie responsabilità: “Il prezzo delle nuove medicine di cui abbiamo bisogno rischia di impennarsi, ora che i paesi donatori stanno facendo un passo indietro nei loro impegni per l’espansione delle cure contro l’Aids”, dichiara Gilles van Cutsem, coordinatore medico di Medici senza frontiere per il Sud Africa e il Lesotho. Le nuove raccomandazioni dell’Oms per la cura dell’Aids sottolineano la necessità di curare i pazienti tempestivamente e con farmaci meglio tollerati, prima dell’instaurarsi di infezioni opportunistiche come la tubercolosi. I dati sui progetti in Lesotho dimostrano la validità di questa nuova strategia: fornire prima le cure ai malati riduce la mortalità del 68%, i nuovi contagi del 27%, i ricoveri ospedalieri del 63%, e riduce del 39% il numero di persone che abbandonano le cure. “Ma proprio ora che le nuove indicazioni di cura ci danno una speranza, i fondi che i paesi donatori stanziano per l’Hiv/Aids sono stagnanti”.
“Giù le mani dalle medicine”. Il Fondo Globale per la lotta all’Hiv, Tubercolosi e Malaria ha ricevuto solamente 11.700.000 dollari di finanziamenti, invece dei 20 milioni di cui avrebbe bisogno. Il programma PEPFAR sovvenzionato dagli Stati Uniti, che supporta circa la metà delle cure di tutte le persone sieropositive nei paesi in via di sviluppo, per il terzo anno consecutivo ha visto ridurre i propri finanziamenti. Medici senza frontiere ha lanciato la campagna “Europa, giù le mani dalla nostre medicine!”, per chiedere alla Commissione Europea di bloccare le trattative in corso con l’India, la “farmacia del terzo mondo”, che avrebbero come risultato la restrizione dell’acceso ai prodotti generici a basso costo.
Le iniziative di solidarietà. Giovani della Croce Rossa Italiana sono impegnati in occasione della giornata contro l’Aids nelle piazze di tutta Italia per promuovere la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili. Novantacinque le iniziative in calendario, più di 20.000 i ragazzi coinvolti. Astinenza, fedeltà e preservativo le tre “opzioni” che i ragazzi della Cri illustreranno ai coetanei. Ecco l’elenco delle località 10 nelle quali si svolgeranno iniziative dei Giovani della CRI.
Terre des Hommes. Si occupa di migliaia di bambini vittime dell’Aids in Zimbabwe (dove un bambino su 4 è orfano a causa dell’AIDS) ma anche in Costa d’Avorio e Mozambico. Propone l’acquisto di un test HIV da donare a 10 orfani dello Zimbabwe con una donazione di 15 euro. Basta collegarsi al sito 11 e seguire le istruzioni.
Carla Bruni “riconoscente” con il Papa. Carla Bruni-Sarkozy 12, première dame
di Francia, si è detta “stupita, sorpresa e riconoscente” dopo le aperture del Papa Benedetto XVI sull’uso del preservativo per ridurre i rischi di contaminazione da Aids.
Parlando stamattina ai microfoni di RTL per la Giornata mondiale di lotta all’Aids, la Bruni ha detto: “sono molto emozionata per la recentissima dichiarazione di Benedetto XVI, e riconoscente. Alcuni paesi africani sono cristiani ed ascoltano molto la parola del Papa”.
Elton John scrive editoriale su Independent. In occasione della giornata mondiale della lotta all’Aids, il quotidiano britannico Independent ha deciso di affidare la direzione dell’edizione per Ipad al celeberrimo musicista. Nel suo editoriale, Elton John racconta emozionato le sue “prima volte” (“…é la prima volta che dirigo un giornale , è la prima volta che uso un computer e la prima volta che posso dire: questa è la notizia di prima pagina e…. La gente mi ascolta”) e spiega l’immagine di copertina: “ci sono dei fiori, simboli di qualcosa che fiorisce e muore: penso sia un’immagine molto forte di cosa vuole essere la nostra lotta all’Aids”.
—
Edilizia, il “miracolo” berlusconiano
Monica Maro, 01.12.2010
Per la prima volta nella storia del Paese operai, sindacalisti e imprenditori del settore edile scendono in piazza gomito a gomito per protestare contro i dissennati tagli del governo nelle infrastrutture e gli scandalosi ritardi nei pagamenti per lavori già eseguiti
Sul piano nazionale il settore edile ha perso solo negli ultimi tre anni qualcosa come 30 miliardi di investimenti pubblici, vale a dire il 30 per cento del totale. Numeri che fanno spavento e che si traducono in 250mila posti di lavoro in meno, concentrati specialmente nelle zone deboli e 30mila solo in Sicilia. E questi sarebbero i grandi risultati del “governo delle grandi opere” e del magniloquente “piano nazionale per il Sud”.
I primi manifestanti sono arrivati a piazza Montecitorio di prima mattina per un presidio fuori dal comune: per la prima volta le organizzazioni delle imprese edili protestano insieme ai sindacati dei lavoratori del settore per il rilancio del comparto. La manifestazione nazionale vede riunite, infatti, le 14 sigle promotrici degli stati generali delle costruzioni (dall’Ance alle cooperative, da Confartigianato alla filiera dell’indotto riunita in Federcostruzioni e i sindacati, Fillea Cgil, Filca Cisl, Feneal Uil). “Si protesta contro l’insufficiente politica industriale per il settore edile”, come sottolineano i partecipanti. Infatti all’inizio della crisi sono stati cancellati, considerando l’indotto, 250 mila posti di lavoro che rischiano di arrivare a 290 mila nel 2011, con migliaia di imprese che hanno chiuso i battenti.
I manifestanti, con i tipici caschetti da cantiere, agitano slogano come “le piccole opere fanno grande il Paese”, “lavorare per lo Stato non paga”, “la crisi preme il fisco ci spreme”, “portiamo a casa la ripresa”.
Una “manifestazione ben motivata” dice Bersani, segretario Pd “perché abbiamo un crollo enorme dell’attività edilizia e delle opere pubbliche in particolare”. “In questi due anni – è l’analisi di Bersani – sono diminuiti gli investimenti, abbiamo trasformato la spesa per gli investimenti in spesa corrente. Non è vero che abbiamo ben governato i conti pubblici. Questo ha portato dei guai molto seri – sottolinea – perché si sono bloccate le piccole opere che dovevano essere un volano di questa fase, lasciando che i comuni virtuosi facessero investimenti subito per dare un po’ di lavoro. Si è bloccato tutto e adesso ne paghiamo le conseguenze”. Per Bersani ci siamo messi in “un circolo vizioso”. “E’ il circuito dei pagamenti che non gira: se lo Stato non paga le imprese, queste a loro volta non possono pagare i lavoratori, le banche sappiamo in che situazione sono quanto a larghezza di credito e le imprese non hanno fiato per andare avanti , quindi si perde occupazione”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16375
—
La ragazza con l’orecchino di perla. 01.12.2010
Nel 350simo anniversario della sua fondazione (30 novembre 1660) la Royal Society chiede a 10 intellettuali britannici a quali grandi domande, secondo loro, la Scienza è chiamata a rispondere nei prossimi tre secoli. Sette di questi dieci intellettuali sono catturati dai grandi enigmi (che resteranno tali) da Discovery Channel: cosa c’era prima del big bang, riusciremo a colonizzare l’universo, riusciremo a spiegare il concetto di infinito, comprendere cosa sia la coscienza … etc, due si rivolgono a temi più terreni: la sopravvivenza della nostra specie e le nuove tecnologie per l’autoproduzione (non quelle della permacultura, ma quelle iper-tech dei printer 3D. Ma è la scrittrice Tracy Chevalier, autrice del romanzo “la ragazza con l’orecchino di perla” che mette i piedi nel piatto di una scienza ormai distaccata dalla realtà:
Tracy Chevalier: Come faremo a far fronte alla crescente popolazione mondiale?Possiamo parlare quanto ci piace di energie rinnovabili, di riciclaggio e di agricoltura sostenibile, ma è la popolazione la questione che conta davvero. Eppure è quello su cui tante persone scelgono il silenzio. Abbiamo reso la riproduzione un diritto umano insindacabile. Fare così ci porta o ad essere per l’eugenetica o ad essere autoritari e repressivi, come nel caso del figlio unico in Cina. Ma prima o poi dovremo fare qualcosa. Non importa quanto ricicliamo, quanta energia rinnovabile produciamo e quanto cibo in più produciamo, verrà un momento in cui la popolazione mondiale sarà insostenibile. C’è di più, la pressione sulle risorse avviente ad entrambe le estremità dello spettro della popolazione, non solo nascono più bambini, ma la gente vive più a lungo. Si immagina perfino che alcune persone potrebbero presto vivere per 200-300 anni. Questo potrebbe essere un trionfo della medicina, ma un disastro per il mondo. Così mi piacerebbe vedere gli scienziati creare un modello di crescita della popolazione in grado di prevedere il punto di rottura per il pianeta e in questo quadro poter organizzare una politica globale.
Un piccolo problemino: non abbiamo tre secoli di tempo per risolvere il problema demografico e un ritorno della Scienza fra i comuni mortali è altamente desiderabile.
http://malthusday.blogspot.com/2010/12/la-ragazza-con-lorecchino-di-perla.html
—
Pisanu, accordi e disaccordi 01.12.2010
di G. Scorza – Tutti contro l’articolo 7 del decreto Pisanu, tutti con soluzioni che non appaiono calzanti. Le iniziative degli Onorevoli Palmieri e Della Vedova
Roma – Era il 5 novembre quando il Ministro dell’Interno Roberto Maroni annunciava solennemente che dal primo gennaio, dopo oltre 5 anni di attesa, finalmente, anche gli italiani avrebbero potuto navigare in Rete attraverso le postazioni WiFi pubbliche, senza bisogno di preventiva identificazione a mezzo carta d’identità.
Sono passati oltre venti giorni ma le parole del Ministro non sono, sfortunatamente, state seguite dai fatti.
Il Governo non ha, infatti, sin qui presentato nessun disegno di legge per abrogare o sostituire la disciplina attualmente dettata dal c.d. Decreto Pisanu.
È un fatto grave, che proietta sulla figura del Ministro dell’Interno un’ombra scura: quella di chi ha voluto e saputo cavalcare mediaticamente una diffusa e sacrosanta richiesta dei cittadini, pur senza essere né pronto, né intenzionato a far seguire alle parole i fatti.
Frattanto, tuttavia, come già scritto, in Parlamento qualcosa si è timidamente mosso e, dopo anni di silenzio, pendono, oggi ben cinque disegni di legge – provenienti da ogni schieramento – che con toni e gradazioni diversi propongono tuttavia tutti l’abrogazione dell’art. 7 del Decreto Pisanu o una sua importante riformulazione.
Sfortunatamente, però, non è ancora iniziato l’esame di nessuno di tali disegni di legge e le ore di questa legislatura sembrano, ormai, contate.
Sarebbero – spiego, più avanti perché uso il condizionale – quindi, da salutare con favore le iniziative degli Onorevoli Palmieri (PdL) e Della Vedova (FLI) che, nelle scorse ore, hanno proposto due emendamenti al Disegno di legge Sicurezza, attualmente in discussione alla Camera.
Si tratta, infatti, di una scorciatoia attraverso la quale il Parlamento si ritroverà costretto ad affrontare la questione del Decreto Pisanu.
Occorre, tuttavia, rilevare – e questa e la ragione dell’utilizzo del condizionale nel valutare le due iniziative – che i due emendamenti proposti lasciano perplessi.
L’On. Palmieri propone di intervenire sul ddl Sicurezza, inserendo un art. 3bis, che preveda:
“2. Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, con decreto del Ministro dell’interno, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, sono stabilite le ipotesi in cui si rende necessario il tracciamento di dati identificativi del dispositivo utente o la preventiva identificazione, anche indiretta, dei soggetti che utilizzano postazioni pubbliche non vigilate, ovvero punti di accesso pubblici a tecnologia senza fili, per accedere alla rete internet.
3. Le modalità di controllo dei dati previsti dal codice di procedura penale e dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, ed il controllo sull’osservanza del decreto di cui al comma 1 sono effettuati dal Ministero dell’interno.”.
Bene l’abrogazione dell’art. 7 del Decreto Pisanu, male l’idea di demandare ad un Decreto ministeriale e, dunque, ad un provvedimento destinato ad essere scritto nelle segrete stanze del Ministero dell’Interno, l’individuazione addirittura delle “ipotesi in cui si rende necessario il tracciamento di dati identificativi del dispositivo utente o la preventiva identificazione…“.
Mentre, infatti, discutere di eventuali modalità tecniche alternative al documento di identità per procedere all’identificazione può essere questione da demandare ad un Decreto ministeriale, l’individuazione delle ipotesi in cui le esigenze di sicurezza sono predominanti rispetto a quelle di privacy è – o almeno questa è la mia opinione – una questione ben più rilevante che merita, in un Paese democratico, un ampio ed approfondito dibattito parlamentare.
Con il suo emendamento, l’On. Della Vedova, propone, invece, di aggiungere al DDL sicurezza un art. 7bis, attraverso il quale sostituire l’attuale art. 7 con le seguenti previsioni:
“2. Per coloro che già esercitano le attività di cui al comma 1 in base a pregressa licenza, la denuncia è richiesta a partire dal 1° gennaio 2011.
3. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni del capo IV del titolo I e del capo II del titolo III del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, nonché le disposizioni vigenti materia di sorvegliabilità dei locali adibiti a pubblici esercizi. Restano ferme le disposizioni di cui al decreto legislativo 1o agosto 2003, 259.
4. Con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, da adottarsi entro quindici giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono stabilite le misure che il titolare o il gestore di un esercizio in cui si svolgono le attività di cui al comma 1 è tenuto ad osservare per il monitoraggio delle operazioni dell’utente e per l’archiviazione dei relativi dati, anche in deroga a quanto previsto dal comma 1 dell’articolo 122 e dal comma 3 dell’articolo 123 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.
4-bis. Coloro che esercitano le attività di cui al comma 1 proteggono le reti, anche con tecnologia senza fili, e gli strumenti informatici contro l’accesso abusivo di cui all’articolo 615-ter del codice penale e contro il rischio di intrusione e dall’azione di programmi di cui all’articolo 615-quinquies del codice penale”.
Data la complessità delle procedure e degli adempimenti da porre in essere per condividere risorse di connettività WiFi che l’On. Della Vedova propone di introdurre nel nostro ordinamento al posto della disciplina vigente, tutto sommato, vien da dire che sarebbe meglio ringraziare l’Onorevole per lo sforzo ma tenerci il nostro vecchio e inutile Decreto Pisanu.
Francamente, trovo assurdo che dopo gli annunci solenni del Ministro Maroni e la presentazione di ben cinque disegni di legge “tripartisan” volti all’abrogazione del famigerato art. 7, questa vecchia, inutile ed anticostituzionale disciplina sia così dura a morire.
È così difficile scrivere che l’art. 7 del Decreto Pisanu è abrogato e che, nei prossimi mesi, il Parlamento valuterà, all’esito di un ampio ed approfondito dibattito, se e quali iniziative adottare per sostituirlo, ammesso che si ritengano ancora sussistenti le esigenze di sicurezza che spinsero il Ministro Pisanu all’adozione di un provvedimento che lui stesso, oggi, valuta costituzionalmente “border line” e che l’identificazione dell’utente di una connessione WiFi sia ritenuta una misura utile a qualcosa o a qualcuno?
O ci sfuggono i reali interessi in gioco o dobbiamo, purtroppo, prendere atto che in questo Paese ormai si è incapaci di guardare in positivo alle “cose della Rete”, persino quando si è tutti d’accordo.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it
http://punto-informatico.it/3048825/PI/Commenti/pisanu-accordi-disaccordi.aspx
—
Sulla torre degli immigrati 03.12.2010
Sono scesi dopo un mese ma la protesta degli immigrati, a Milano come a Brescia, non è finita Perché riguarda una nuova questione sociale
L’Unità
Luigi Manconi
Cara Susanna Camusso, tra tanti arrampicatori sui tetti (Antonello Venditti ben due volte, su quello della facoltà di Architettura di Roma), non c’è stato uno che abbia deciso di salire sulla torre della ex Carlo Erba di via Imbonati, a Milano. In quello spazio ristretto, per 27 lunghi giorni, hanno vissuto cinque stranieri. Ieri hanno dovuto sospendere la loro protesta ed è assai probabile che vengano espulsi dal nostro Paese. La loro azione, come quella intrapresa a Brescia, aveva un obiettivo: il rilascio del permesso di soggiorno per quanti non hanno ottenuto la regolarizzazione a seguito di comportamenti illegali dei propri datori di lavoro. Sullo sfondo, c’è una realtà di abusi e truffe, di discriminazioni e di sperequazioni, di speranze deluse e di aspettative frustrate. Quelle vicende mostrano come la “sanatoria” del settembre del 2009, oltre a essere di dubbia costituzionalità (discrimina in base al tipo di attività lavorativa), ha consentito che su individui già costretti a una vita marginale gravassero meccanismi di pressione e ricatto ai limiti dell’estorsione. L’esito è stato che migliaia di stranieri hanno versato, di tasca propria, cinquecento euro più altro denaro destinato ad agevolare le pratiche, in gran parte dei casi mai giunte a buon fine. Per una volta, il danno e la beffa, sono stati perfettamente contestuali, per molti versi prevedibili, spesso pianificati. Si è trattato, insomma, di una vera e propria soperchieria ai danni di chi si trovava in una condizione di estrema debolezza, nelle zone in ombra del mercato del lavoro, privo di potere contrattuale e di garanzie legali. Quelli saliti sulla gru di Brescia e sulla torre della ex Carlo Erba sono le vittime ultime di un atto di prepotenza statuale, che produce e riproduce discriminazione per via istituzionale. I sindacati hanno seguito la vicenda che si manifesta drammaticamente in quegli uomini inerpicati a una trentina di metri dal suolo ma che riguarda migliaia di persone. Di lavoratori. Si deve trovare una soluzione intelligente, capace di disinnescare un meccanismo che rischia di portare tanti – che si battono per conquistare legalità e visibilità – in una condizione di irregolarità e di occultamento nelle pieghe più oscure del mercato del lavoro e della vita urbana. Cara Susanna Camusso, mi auguro che i sindacati siano in grado di impedire l’espulsione di chi, a proprio rischio, ha fatto emergere una ingiustizia tanto oltraggiosa; e sappiano trovare una soluzione per chi non è stato regolarizzato. Innanzitutto per una ragione di diritto, ma non solo. Tra gli iscritti alla Cgil sono 380 mila gli stranieri e moltissimi altri aderiscono a diverse organizzazioni sindacali. Questo conferma inequivocabilmente che quella dell’immigrazione non è più – se mai lo è stata – una questione di “buoni sentimenti” e nemmeno di solidarietà. È un pezzo, piuttosto, della questione sociale complessiva: e della questione sociale al tempo della nuova Grande Crisi. Per quest’ultimo motivo, sarebbe un grave errore ritenere che quei cinque stranieri sulla torre abbiano rappresentato solo un elemento periferico e residuale, da trattare con sufficienza quasi fossero altrettanti “casi umani”. Si tratta, invece, del “fattore umano”di una contraddizione profonda che registra il mercato del lavoro in presenza di grandi trasformazioni nazionali e sovranazionali. Guai, perciò, a pensare che “ben altri” siano i veri problemi. No, non è così: quei lavoratori sono, per un verso, i destinatari finali di un provvedimento di legge discriminatorio e irrazionale; e, per altro verso, costituiscono la conferma dei processi di mutamento del senso comune e della mentalità condivisa nel nostro paese. Il loro isolamento, l’imbarazzo che creano, la distanza incalcolabile tra loro e la città, sono altrettanti segnali di un radicale cambiamento in atto nella percezione collettiva della natura e del senso del legame sociale. Un numero crescente di italiani ritiene che, per sopravvivere alle intemperie (economiche e sociali) sia necessario, o comunque inevitabile, escludere, selezionare, discriminare. Non sono razzisti, quegli italiani che la pensano così. Sono spaventati. Anche per questo motivo, sarebbe stato utile un gesto, un messaggio, un’azione. Che so? Ritrovarsi sotto quella torre della ex Carlo Erba (attenzione: ho detto sotto, che c’ho un’età). È ormai troppo tardi?
http://www.flcgil.it/rassegna-stampa/nazionale/sulla-torre-degli-immigrati.flc
—
In Russia la prima banca dell’uranio 03.12.2010
Anche se qualcuno afferma che l’uranio è abbondante e non ci sarà mai scarsità, con conseguente aumento del prezzo, a quanto pare le cose non stanno proprio così. Altrimenti non si spiegherebbe la nascita, in Russia, della prima banca dell’uranio per rifornire gli impianti nucleari.
Creata da RosAtom, in seguito ad un accordo tra il governo russo e la Agenzia internazionale dell’energia atomica, la banca dell’uranio nasce per contenere 120 tonnellate di materiale fissile. Un quantitativo sufficiente a ricaricare due volte un reattore ad acqua leggera da 1000 MW. L’uranio, onde evitare il rischio che a qualcuno venga voglia di “svaligiare la banca”, ha un arricchimento sotto il 5%. Solo usi civili, quindi.
Come afferma la stessa RosAtom la banca servirà a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti per gli stati che non sono dotati di impianti di arricchimento. Magari anche per una futura Italia nucleare, se mai realmente ci sarà, visti i buoni rapporti tra Putin e Berlusconi. Con buona pace di chi afferma che il nucleare rende indipendenti, quindi, è assai probabile che oltre che per il gas naturale l’Italia diventi dipendente dalla Russia anche per l’energia nucleare.
Via | RosAtom, Nuclear News
Foto | Flickr
—
Pallone e ambiente: la Spal si finanzia con il fotovoltaico 02.12.2010
Un raggio di sole nei campi di calcio; potrebbe essere questo lo slogan dell’iniziativa che sta per essere portata avanti da una società calcistica italiana. Stiamo parlando della gloriosa e nobile decaduta Spal di Ferrara (oggi militante nella Lega Pro, ma con un illustre passato nella massima serie) che ha scelto di investire sul fotovoltaico per assicurarsi un futuro sereno. La società emiliana ha infatti avviato le pratiche per l’installazione di un impianto fotovoltaico da 14 MW.
Sin qui nulla di eclatante, se non fosse che, almeno negli intenti del proprio presidente, questa tecnologia dovrà garantire nei prossimi anni una base solida di ingressi economici (vendita dell’energia in rete e compensi derivanti dal Conto Energia) su cui poter fare affidamento. Siamo quindi di fronte ad un esempio più unico che raro di società calcistica produttrice di energia verde. A sottolineare la valenza dell’iniziativa è lo stesso presidente Cesare Butelli: siamo la prima società sportiva in Italia ad intraprendere un’attività produttiva finalizzata all’autosostentamento.
In un calcio, conclude Butelli, in cui la norma delle società calcistiche è quella di gestire bilanci in perdita abbiamo individuato questo sistema come soluzione al problema. L’impianto, che sorgerà su una discarica dismessa a nord di Ferrara, sarà costituito da più di 63.000 pannelli fotovoltaici. L’avvio dei lavori è previsto prima della fine dell’anno, dopo il rilascio, ormai imminente, delle necessarie autorizzazioni. Come ciliegina sulla torta prevista inoltre la realizzazione di un percorso didattico insieme ad una piccola aula laboratorio per le scuole.
—
In Germania il 20% delle superfici agricole sarà Bio per prevenire le alluvioni. E noi? 30.11.2010
scritto da Giovanni Bertizzolo | postato in Agricoltura biologica
L’ultimo numero di Terra Nuova, “mensile per l’ecologia della mente e la decrescita felice” riporta la notizia che il governo tedesco intende convertire il 20% delle superfici agricole a coltivazione biologica. Questa scelta è dettata dalla necessità di prevenire le inondazioni. Il terreno coltivato senza l’uso di fertilizzanti chimici, lavorando prevalentemente in superficie e senza arature profonde, dove i processi di decomposizione delle paglie e delle piante, dei sovesci e del letame, mantengono la terra ricca di nutrienti e viva, con una forte presenza di lombrichi, di microfauna, di microrganismi, agevola l’assorbimento delle acque che cadono in eccesso.
Come drammaticamente emerso anche dalle recenti piogge che hanno “sommerso” Vicenza e Padova, il carattere torrenziale degli eventi non trova sul terreno modo di defluire. Ma una grande parte della “responsabilità” di questo è dovuto all’uso sconsiderato che abbiamo fatto del territorio: strade, capannoni, case, piazzali cementati, distruzione, tombatura di fossati, la tecnologia agroalimentare o i terreni alla mercé della chimica che li ha resi sempre più aridi e inerti.
Alla fine, come dimostrano in Germania, non ci resta che tornare alla vecchia e sana coltivazione naturale, senza chimica, con rispetto della natura, delle stagioni, dell’equilibrio del terreno, attraverso l’agevolazione dei processi naturali di fermentazione degli scarti vegetali e animali, l’uso sapiente delle rotazioni colturali. L’agricoltura biologica non è che l’unica forma oggi possibile per pensare ad una strategia futura. Questo dovrebbe essere il modello ispiratore per una nuova politica agraria che tenga presenti le esigenze della natura e dell’uomo. In questo senso, la Germania ci sta dando un’altra lezione…
—
Dagli USA la plastica senza petrolio 11.2010
“Produciamo da biomassa le stesse molecole che attualmente vengono ottenute dal petrolio, senza la necessità di cambiamenti nelle infrastrutture”. Non può che suggerire applicazioni davvero interessanti questa affermazione di George Huber, direttore di una ricerca condotta da ingegneri chimici dell’Università del Massachusetts Amherst e pubblicata su “Science”.
Huber e la sua equipe di ricercatori hanno, infatti, sviluppato un impianto per produrre elevati quantitativi di sostanze chimiche a partire da olio pirolitico, il più economico dei biocombustibili attualmente disponibili. Finora questi composti potevano essere ottenuti solo in impianti a bassa resa ma, continua Huber “noi abbiamo mostrato come avere rese tre volte maggiori di quanto finora mai ottenuto da olio pirolitico. In pratica abbiamo fornito la roadmap per convertire l’olio pirolitico, di scarso valore, in un prodotto con un valore superiore a quello del combustibile per trasporti.”
Nello studio, Huber e collaboratori hanno mostrato come produrre olefine (ossia alcheni, molecole contenenti un doppio legame carbonio carbonio, che rappresentano i mattoni costitutivi di molte plastiche e resine) e composti aromatici (usati per produrre poliuretani e plastiche) a partire da olio pirolitico. Il segreto sta nell’aumentare la resa aggiungendo una fase di idrogenazione prima della catalisi zeolitica, in questo modo, la squadra del Massachusetts, ha aumentato la produzione di benzene, toluene, xilene e olefine fino a tre volte.
La tecnologia sviluppata dagli scienziati di Amherst potrebbe ridurre notevolmente o addirittura eliminare la dipendenza dell’industria chimica dai combustibili fossili, un mercato che muove circa 400 miliardi di dollari all’anno. Potrebbe, quindi, costituire una vera e propria svolta nella produzione di materie prime di base per l’industria chimica.
Huber evidenzia anche che “Questa tecnologia può fornire un notevole impulso all’economia, dato che gli oli pirolitici sono in commercio. La principale differenza fra il nostro approccio e il metodo corrente è la materia prima; il nostro processo usa una materia prima rinnovabile, la biomassa vegetale. Invece di comprare petrolio per produrre sostanze chimiche, sfruttiamo oli pirolitici prodotti da colture non alimentari e biomassa lignea nazionale. Ciò fornirà agli Stati Uniti e ai suoi agricoltori un nuova notevole fonte di reddito”.
Huber e colleghi stanno ora cercando, attraverso esperimenti e calcoli economici, di determinare le percentuali del mix ottimale di idrogeno e oli pirolitici per ottenere il prodotto con il miglior rapporto qualità-prezzo. Intanto, hanno realizzato lo start-up di un’impresa denominata Anellotech, che prevede di commercializzare la tecnologia attraverso il piccolo impianto pilota già in funzione presso il campus dell’università, ma avendo anche già depositato il brevetto Anellotech allestirà successivamente un impianto dimostrativo commerciale e potrà impegnarsi anche nello sviluppo di impianti industriali.
Fonte: Science del 26 novembre 2010
www.sciencemag.org/
http://www.scienzaegoverno.org/n/092/092_01.htm
—
Una centrale ibrida ad alta produttività 11.2010
Un innovativo intervento congiunto delle società tedesche RAG Montan Immobilien e RWE Innogy, volto a ottimizzare e rendere continua la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili: il progetto di una centrale che produrrà energia sia dal vento sia dall’acqua.
Una soluzione ideata per sopperire all’instabilità dell’energia eolica senza ricorrere a fonti fossili: quando il vento sarà più forte, tutta o parte dell’energia prodotta dagli aerogeneratori sarà usata per pompare l’acqua da un bacino inferiore a uno superiore, posto a circa 50 metri più in alto. Durante i momenti di picco della domanda di elettricità sulla rete, l’acqua sarà scaricata verso il basso, azionando le turbine idrauliche. In questo modo si stima che sarà possibile generare tra 15 e 20 MW, con bacini di accumulo dell’acqua di 600.000 metri cubi. Questo nuovo sistema potrebbe inoltre essere utilizzato per rendere produttivi siti che al momento non lo sono, tanto che il primo sito individuato per la costruzione della centrale-prototipo è un cumulo di detriti prodotti dall’attività mineraria nei pressi della città di Hamm, in Renania settentrionale. Se gli studi di fattibilità economica e tecnica e le sperimentazioni previste nei prossimi 18 mesi avranno conclusioni positive, le due società potrebbero costruire in seguito altri impianti simili nella zona.
Secondo Fritz Vahrenholt, presidente del consiglio di amministrazione della RWE Innogy: “È urgente trovare un modo per sopperire all’incostanza del vento, altrimenti la crescita di questa fonte di energia rinnovabile si fermerà. Nelle pianure della Germania settentrionale i cumuli di detriti, alti fino a 100 metri, sono un’ottima soluzione: da un lato hanno un regime di venti favorevole, dall’altro il dislivello può essere sfruttato per una centrale idroelettrica ad accumulazione con sistema di pompaggio. Inoltre non intervenendo sull’ambiente naturale si ottiene un consenso più facile dalla popolazione”.
Fonte: Rag Montan Immobilien
www.rag-montan-immobilien.de
http://www.scienzaegoverno.org/n/092/092_02.htm
—
Europa. Il modello che non funziona
Autore: Amoroso, Bruno
É un’illusione salvare il capitalismo dalla sua crisi semplicemente aggiungendo le merci della “green economy” alle altre e lasciando immutato il resto. Il manifesto, 5 dicembre 2010
Il decennio in corso ha appiattito la politica dell’Unione Europea al potere dei centri finanziari e del sistema dell’euro gestito dalla Bce. L’Ue assomiglia sempre più agli Stati uniti, dove gruppi finanziari e militari di potere sono in grado di assumere la governance dell’intero sistema. La turbolenza finanziaria programmata e provocata da questi gruppi, un atto predatorio organizzato mirante all’espropriazione del risparmio delle persone, è stata una dimostrazione di arroganza che gli eventi successivi hanno pienamente confermato. Così come è stato confermato il loro controllo politico e finanziario sulle istituzioni degli Stati europei. Solo pochi mesi fa l’impressione che le istituzioni europee avrebbero fatto qualcosa per introdurre una maggiore trasparenza e un controllo dei centri e delle istituzioni finanziarie era molto diffusa. Ma queste impressioni si sono rivelate sbagliate. I responsabili della crisi sono divenuti presidenti e membri delle commissioni che dovrebbero controllare e riformare il sistema. E quando la Commissione europea si è decisa a parlare, alcune settimane fa, non è stato per istituire controlli e sanzioni sui centri finanziari e sulle cosiddette istituzioni di controllo della Banca centrale europea e delle banche centrali nazionali, ma per mettere vincoli più forti alle politiche economiche degli Stati membri ed ostacolare gli sforzi per ridurre i danni prodotti dalla crisi economica e sociale causata dalla speculazione finanziaria.
Il bersaglio di queste nuove misure dell’Ue sono i sistemi europei di welfare, con la loro varietà di diritti sociali e del lavoro ereditati dal passato. La loro destabilizzazione fa seguito a quella attuata per le relazioni e le politiche industriali durante gli anni Ottanta e Novanta e a quella realizzata a partire dagli anni Sessanta per l’agricoltura europea. Il processo di delocalizzazione dell’industria europea, seguito dall’annullamento dei diritti sociali e del lavoro, costituiscono parte di questo scenario. Il ruolo di Washington e dei suoi istituti finanziari nella governance della globalizzazione ha trovato il suo partner europeo nell’alleanza tra Germania, Francia e Gran Bretagna all’interno dell’Ue.
Il modello sociale che si vuole imporre all’Europa è quello danese. L’industria danese è stata molto innovativa nella produzione di energia alternativa (eolica e solare). Come è avvenuto per l’industria automobilistica in altri paesi dell’Ue durante i decenni precedenti, lo stato e le istituzioni pubbliche hanno favorito questo innovativo settore con investimenti e infrastrutture. Tuttavia, la logica di investimento dei capitali privati è divenuta la stessa di qualsiasi altro settore for-profit. Non è orientata alla stabilità e crescita sostenibile ma a una sempre maggiore crescita indipendente dalle reali esigenze.
Il loro sogno sarebbe di fornire almeno un mulino a vento per ogni persona come è stato fatto con l’industria dell’automobile, dei telefoni cellulari, del telefono, ecc. Invece di essere un incentivo a ridurre l’energia consumata diviene esattamente il contrario. Il collasso ambientale che produrrà nei prossimi due decenni, quando tutte queste macchine diverranno obsolete e dovranno essere sostituite, non preoccupa ovviamente i produttori, esattamente come accade con l’industria automobilistica. Questo mostra che alla radice di queste politiche non ci sono scelte alternative di specializzazione (auto, auto elettriche o mulino a vento) o tendenze innovative, ma la cultura della globalizzazione e di un capitalismo predatore capitalista che ispira tali comportamenti. La Danimarca è uno dei migliori produttori europei di mulini a vento. Una delle società è Vestas, una società con grandi imprese in varie regioni della Danimarca e in altri paesi. Il 26 novembre l’impresa ha informato i lavoratori e l’opinione pubblica che, a causa di una ridotta crescita percentuale di questo settore in Europa, numerosi stabilimenti saranno chiusi. Circa 3000 lavoratori saranno licenziati. Le regioni coinvolte sono tra le meno sviluppate della Danimarca e fortemente dipendenti da questa impresa per la loro sopravvivenza economica. Si tratta di regioni (come Nakskov e Lolland Faster) che hanno incontrato gravi problemi durante la chiusura dei cantieri navali pochi decenni fa. Questa nuova industria aveva riportato speranze di stabilità, e lavori pubblici furono fatti per migliorare le infrastrutture e per la spedizione dei prodotti via mare.
(…) Le ragioni addotte per la chiusura di queste imprese sono che le aspettative di un grande salto avanti per il settore “verde” in Europa non si sono ancora verificate. Le aspettative sono state superiori alla realtà ed hanno influenzato la valutazione dei risultati di bilancio del terzo trimestre dell’anno. (…) All’inizio del 2010 questa grande impresa produttrice di mulini a vento ha scelto di mantenere una sostanziale sovracapacità produttiva in Europa, in attesa di un aumento della domanda nel corso del 2010 e 2011. (…) Questi sono i fatti, freddi come le reazioni delle persone coinvolte: lavoratori, sindacati e politici. È un vero peccato quanto accade, si è detto, meglio cercare lavoro altrove. Nessuna menzione particolare del problema e nessun conflitto di qualsiasi tipo è citato nei quotidiani di quei giorni. L’agenda politica era occupata da scandali politici di vario genere, dall’agitazione populista contro gli islamici, dal pericolo terrorista negli Stati Uniti, ecc. Sul mercato del lavoro nulla: la chiamano flexicurity.
Le reazioni sono state diverse in Gran Bretagna dove Vestas, un’impresa che è stata in grado di creare 21.000 posti di lavoro nel green jobs in tutto il mondo, è divenuta oggetto di critiche. Vestas e i suoi dirigenti si sono trovati improvvisamente nella poco familiare e spiacevole situazione di essere l’obiettivo di lavoratori esasperati, sindacati, politici ambientalisti che accusano la società di perseguire il profitto a scapito dei posti di lavoro. La fabbrica sull’isola di Wight britannica è stata occupata per protestare contro l’annunciata chiusura di un ramo dell’azienda con 525 dipendenti. «Riteniamo di essere stati trattati ingiustamente ed eliminati da una società il cui unico obiettivo è il profitto», ha dichiarato uno dei direttori locali dell’azienda al giornale The Guardian. I media, contrariamente a quanto accade in Danimarca, hanno seguito da vicino il conflitto e la polizia britannica si è rifiutata di interrompere l’occupazione degli stabilimenti.
Tuttavia in Gran Bretagna il problema è più complesso. Il ministro dell’ambiente Ed Milliband ha presentato un nuovo piano per il clima che prevede la creazione di 400 mila green jobs mediante la costruzione di almeno 7 mila mulini a vento. Ma l’opposizione delle autorità locali alla creazione di nuovi mulini a vento è molto diffusa. Il direttore generale di Vestas, Ditlev Engel, ha parlato di un problema dovuto alla diffusa attitudine «non nel mio giardino», problema che ha interrotto la possibilità di espansione del settore del paese. Il governo britannico sta cercando di sostenere le attività di Vestas, mentre la società sembra più orientata a lasciare il mercato britannico. I rappresentanti dei lavoratori sono contrari a dare più soldi alle imprese private e sostengono invece proposte di nazionalizzazione del settore.
I licenziamenti in un contesto di crescente disoccupazione e le gravi restrizioni delle finanze pubbliche pongono il problema delle nuove politiche per l’occupazione in una situazione di cambiamento della specializzazione e della distribuzione internazionale del lavoro. Con riferimento alla situazione negli Stati Uniti James K. Galbraith osserva che «il problema dei posti di lavoro ha praticamente nulla a che fare con la situazione dell’industria manifatturiera. In termini assoluti l’occupazione manifatturiera negli Stati Uniti non è aumentata dalla fine degli anni Cinquanta, nonostante il raddoppio della popolazione che si verificato da allora ad oggi, e la caduta in questo settore dal 2000 è stata precipitosa, tale da raggiungere meno del 9 percento dell’occupazione totale di oggi. La perdita di posti di lavoro nel settore manifatturiero è dovuta agli aumenti di produttività, alla concorrenza estera ed alla delocalizzazione, prima in Messico e poi in Cina. Nulla può essere fatto in merito e nulla sarà fatto. La creazione di posti di lavoro riguarda i servizi. Si tratta di trovare cose utili da fare per le persone, fornendo loro reddito ed alle imprese che li impiegano un equo profitto. Tuttavia, il ruolo dello scopo di lucro nella creazione di occupazione non dovrebbe essere sopravvalutato. Quasi il 17% dell’occupazione totale è fornita dal settore statale. Un’altra grande parte è nel settore no profit, alimentato da donazioni filantropiche, incentivato da deduzioni fiscali per iniziative di solidarietà, ecc».
Ma tutto questo ci introduce nel dibattito del nostro (italiano ed europeo) progetto di economia e di società destinato a soppiantare quello declinante del mercato capitalistico. Un discorso che merita di essere proseguito.
* Professore emerito all’università di Roskilde (Danimarca), dove insegna Economia internazionale dal ’72. Dirige il Centro studi Federico Caffè
http://eddyburg.it/article/view/16294/
—
La pericolosa restaurazione europea 05.12.2010
Rosaria Rita Canale e Ugo Marani
Il concomitante verificarsi in Europa – a seguito della crisi finanziaria scoppiata nel 2007 – di situazioni di persistente ed elevata disoccupazione, da un lato, e di crescita del disavanzo e del debito pubblico, dall’altro, aveva fatto riemergere, anche all’interno del paradigma teorico consolidato, dubbi sul fronte della politica economica. Sul versante fiscale, riguardo la necessità incondizionata di contenere la spesa e di risanare il debito pubblico; sul fronte della politica monetaria, circa il mero perseguimento del solo obiettivo della stabilità dei prezzi. Nonostante però le condizioni economiche di molti paesi non siano, da allora, mutate e la crisi non possa dirsi passata, si assiste oggi ad un nuova chiusura sul fronte della politica fiscale e ad un atteggiamento apparentemente più accomodante sul fronte di quella monetaria, senza, tuttavia, che la minaccia di nuovi rialzi dei tassi di interesse sia fugata.
Quando nacque l’Unione Monetaria, con il Trattato di Maastricht furono fissati i vincoli ai ratios rispetto al reddito di disavanzo e di debito pubblico. Allora il fiscal retrenchment fu generale per tutti i paesi che poi divennero membri, nella fiducia che potessero operare i cosiddetti “effetti keynesiani di politiche fiscali non keynesiane”, ovvero i presunti effetti espansivi di politiche fiscali restrittive (Giavazzi e Pagano 1990). Paradossalmente, dopo il varo dell’UME furono proprio i paesi leader a stabilire atteggiamenti del tutto incoerenti con gli ammonimenti contenuti nel Patto di Stabilità e Crescita, che sembravano essere rivolti solo agli altri paesi dell’Unione: se Francia e Germania, infatti, pretendevano che, ad esempio, Spagna, Portogallo e Italia rientrassero celermente nei valori prefissati del rapporto del disavanzo pubblico con il PIL, nelle circostanze in cui lo sforamento riguardava l’economia tedesca o quella francese si manifestava un’assoluta indisponibilità al risanamento.
Il Patto di Stabilità conobbe poi una seconda versione sottoscritta nel 2006 poco prima dello scatenarsi della crisi finanziaria internazionale. Questa versione più morbida della politica fiscale europea prendeva atto delle resistenze nazionali, specie dei grandi paesi, a subire limiti alla gestione interna del ciclo economico. Il minor rigore istituzionale era il portato, realistico, dell’assenza di vincoli sovranazionali e delle pretese di “extraterritorialità” di Francia e Germania. In quel periodo la BCE, sempre ferma nel condannare il supposto potenziale di instabilità connesso alla crescita dei disavanzi e del debito pubblico, non aveva trovato, ancora, nei grandi paesi europei degli alleati disponibili a riscrivere, e non solo a minacciare, nuove più severe regole del gioco.
Lo scatenarsi della crisi finanziaria degli ultimi tre anni sembrava aver messo in atto tendenze che ridefinivano il quadro della politica monetaria e della politica fiscale, e a livello non solo europeo. Oliver J. Blanchard, guru scientifico del Fondo Monetario Internazionale, teorizzava con prontezza i possibili effetti positivi, e non solo di breve periodo, di politiche fiscali espansive; tutta l’accademia ortodossa esprimeva pareri meno tranchant rispetto al passato a riguardo (Blanchard, Dell’Ariccia e Mauro 2010). L’Unione Monetaria Europea, ma non solo essa, adottava programmi propri di sostegno al reddito comunitario e consentiva, di fatto, deroghe al Patto di Stabilità, a seguito dei massicci interventi nazionali di bail-out del sistema finanziario e della inevitabilità di misure di tamponamento della recessione. Parafrasando l’Economist si passava da Hoover, il presidente americano che non fu in grado di gestire la Grande Depressione, a Keynes.
Ma la normalizzazione speculare, da Keynes a Hoover, è stata altrettanto improvvisa e ora si passa, dopo la grande paura della recessione, ad un nuovo mix di politica economica, caratterizzato da nuova, paradossale, maggiore austerità (International Monetary Fund, 2010). E’ come se la ricreazione fosse finita. E questa volta la restaurazione non è praticata solo dalla Banca Centrale Europea, ma anche dalla Germania.
Forte di una ripresa che sta riguardando sia le componenti interne della domanda aggregata sia la competitività delle esportazioni, la Germania, vincendo le iniziali ritrosie della Francia, propugna un Patto di Stabilità assai più severo, sia nella fase di monitoraggio europeo dei bilanci nazionali, sia nelle sanzioni per i paesi che non dovessero osservare le regole comunitarie. A seguito delle pressioni teutoniche sulle istituzioni comunitarie, una task force sulla governance presieduta da Van Rompuy, ha prodotto un rapporto, recepito dal Consiglio d’Europa del 28 e del 29 ottobre che prevede addirittura un inasprimento delle sanzioni ai paesi che non rispettano il Patto di Stabilità (e Crescita), di fatto traghettando in una nuova fase la politica fiscale in Europa che minaccia così di diventare ancora più restrittiva di quanto non lo fosse stata prima della crisi. La motivazione addotta per tale inasprimento è il rischio default dei paesi con un debito elevato e il fatto che gli attacchi speculativi e la pressione esercitata dai mercati sui titoli dei paesi cosiddetti PIGS – assicurate dalle agenzie private di rating Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s – rischiano di mettere in discussione la stabilità dell’intera area Euro.
Ricacciate dalla porta del conflitto di interessi dopo la crisi dei sub-prime statunitensi (Benmelech e Dlugosz, 2009), accusate di formulare giudizi che seguivano l’euforia del mercato invece di renderlo meno propenso alla speculazione (Covitz e Harrison, 2003), le agenzie di rating trovano nuova linfa, finanziaria e di prestigio, dalle valutazioni della Banca Centrale e della Commissione Europea, a proposito del ruolo che hanno i mercati finanziari nel determinare le condizioni di rischio e di default dei sovereign bonds degli stati nazionali europei. Dovranno essere le agenzie di rating, a svolgere, nei fatti, il ruolo del braccio armato dei custodi dell’ortodossia finanziaria e del nuovo Patto di Stabilità (Manganelli e Wolswijk, 2007; van Riet, 2010). Come se le agenzie di rating avessero qualche informazione aggiuntiva, rispetto ai sottoscrittori, delle condizioni dell’emittente pubblico o della sua willingness a onorare la copertura per lo stock di titoli in circolazione.
In tutta questa discussione non si fa mai menzione esplicita alla relazione che esiste fra andamento dei conti pubblici e crescita.
Il pericolo recessivo non rappresenta però l’unico limite dei nuovi accordi. Infatti, il rapporto van Raumpuy suggerisce una serie di misure che di fatto creano un conflitto fra le istituzioni europee e i governi nazionali: alle sanzioni automatiche si sostituisce – ad esempio – la sospensione del diritto di voto violando di fatto il principio di “no taxation without representation” (de Grauwe 2010).
Le perplessità, oggi, su queste novità non riguardano solo i critici del fiscal retrenchment ma anche analisti meno “schierati”. All’estremo opposto la Banca Centrale Europea considera le sanzioni proposte ai paesi “lassisti” contenute nel Rapporto Van Rompuy ancora troppo “benevole” poiché avrebbero un carattere discrezionale e non automatico, come Jean-Claud Trichet, suo presidente, desidererebbe: solo una totale garanzia di severità sulla conduzione delle politiche fiscali nazionali consentirebbe, nell’ossessiva attenzione alla stabilità dei prezzi, di mantenere l’attuale maggiore duttilità nel rifinanziamento del fabbisogno di liquidità nell’area dell’euro.
Queste le nubi recessive che si addensano sull’Europa (Chowdhury, 2010). E non sembra promettere bene neanche l’annuncio entro dicembre di un meccanismo di salvataggio tutto europeo per i paesi in condizione di estrema instabilità finanziaria perché di certo non ispirato a quei principi che guidarono la creazione del FMI nel periodo successivo agli accordi di Bretton Woods. Perciò, è notizia di questi giorni, non è improbabile che la BCE presto rialzi i tassi di interesse nel tentativo di convincere la “politica” ad adottare ferrei vincoli fiscali e a contenere le eventuali spinte inflazionistiche provenienti anche dai piani di salvataggio dell’ultimo minuto, tornando a ergersi a garante “neutrale” dell’intera area Euro.
Sembra evidente perciò che l’Europa si stia muovendo verso posizioni ignote – e di certo conflittuali – dal punto di vista della praticabilità istituzionale e assai pericolose dal punto di vista della proposta complessiva di politica economica. Come il Financial Times argutamente rileva, l’Europa ricerca il raggiungimento di una trinità di obiettivi impossibile: “no bail-out-no exit-no default”.
Bibliografia
Alesina A. Stella A.(2010), The Politics Of Monetary Policy, NBER working paper 15856, april.
Benmelech E. e Dlugosz J., 2009, The Credit Rating Crisis, National Bureau of Economic Research Working Paper Series, n°15045.
Blanchard O., Dell’Ariccia G. Mauro P.(2010) ” Re-thinking Macroeconomic Policy” IMF Working Paper, February
Canale, R.R., P. Foresti, U. Marani and O. Napolitano (2008) “On the Keynesian effect of (apparent) non-Keynesian fiscal policies”, Rivista di Politica Economica, 1: 5-46.
Chowdhury A., 2010, The Fallacy of Austerity-Based Fiscal Consolidation, A commentary in the VoxEu Debate on the Global Crisis, Luglio.
Covitz D.M. e Harrison P., 2003, Testing Conflicts of Interest at Bond Ratings Agencies with Market Anticipation: Evidence that Reputation Incentives Dominates, Federal Reserve Board Papers.
Giavazzi F. and Pagano M. (1990) “Can severe fiscal contractions be expansionary? Tales of two small European countries”, NBER working paper series No. 3372.
International Monetary Fund, 2010, Fiscal Exit: from Strategy to Implementation, Fiscal Monitor, November.
Manganelli S. e Wolswijk G., 2007, Market Discipline, Financial Integration and Fiscal Rules. What Drives Spreads in the Euro Area Government Bond Market?, European Central Bank Working Paper Series, n°745.
Van Riet A. (ed), 2010, Euro Area Fiscal Policies and the Crisis, European Central Bank Occasional Paper Series, n°109.
Commento di Stefano Valenti del 06.12.2010:
Quella dei mercati finanziari è ormai una vera e propria dittatura.
La scelta ideologica di utilizzare la politica monetaria come unico strumento di controllo del ciclo ha causato la bolla speculativa scoppiata nel 2008, frutto dell’immissione di un oceano di moneta in occasione dello scoppio della bolla dei titoli internet. Ora, con gli stessi criteri s’impone agli stati una politica restrittiva di bilancio, simultaneamente in tutti i paesi, per costringerli a ridurre i deficit causati dalla speculazione e dalla fissa dei profitti a breve termine dei mercati e delle istituzioni finanziarie, a volte indirettamente (per effetto della recessione economica indotta) e a volte anche direttamente (la necessità per gli stati di caricarsi di debiti nel tentativo di salvare le banche).
Tutto questo è pura follia.
http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/la-pericolosa-restaurazione-europea/
—
Yunus, il banchiere dei poveri che si intasca i soldi dei poveri 03.12.2010
di Marcello Foa
Il Nobel per la Pace si sarebbe tenuto i 74,5 milioni di euro ricevuti da alcuni governi europei invece di usarli per il microcredito. Secondo la tv norvegese il governo del Bangladesh sapeva tutto dal 1998
Ci sono notizie che non vorresti mai leggerle. Figuriamoci scriverle. E quando arrivi all’ultima riga ti aggrappi alla speranza che sia tutto falso e che i giornalisti abbiano sbagliato clamorosamente. Vuoi continuare a credere a un uomo che è stato capace di unire anziché dividere, di offrire una chance di riscatto a chi non ha mai visto la luce nella sua vita, in nome di un altruismo autentico, senza connotazioni politiche; né di destra, né di sinistra, semplicemente migliore.
Ma la fonte è autorevole – la tv nazionale norvegese – e l’autore del servizio un giornalista danese pluripremiato, che ha indagato per mesi come fanno i reporter di razza, raccogliendo documenti, interviste, incrociando dati e cercando riscontri. L’accusa è grave e circostanziata: il bengalese Muahmmad Yunus, vincitore del Premio Nobel per la Pace e inventore del sistema del microcredito, avrebbe sottratto 74,5 milioni di euro alla Grameen Bank. Come un politicante qualsiasi, come un tangentaro. Con l’aggravante che quei soldi non sono stati dirottati dalle casse di un Paese ricco, ma in Bangladesh, da quelle della banca da lui stesso fondata e la cui missione é quella di dare una chance di riscatto ai più poveri tra i più poveri.
Tom Heinemann, questo il nome del giornalista, dimostra come nel 1996 Yunus abbia girato sette miliardi di taka bengalesi (circa 74,5 milioni di euro) alla Grameen Kalyan, una società di sua proprietà, che opera nel campo dell’assistenza sanitaria. La somma era stata donata dal governo norvegese – e in misura minore da quelli di Svezia, Olanda e Germania – per finanziare microimprenditori.
Proprio seguendo le tracce di queste donazioni, l’inviato danese ha potuto scoprire quello che appare come un prelievo ingiustificato. «Per sei mesi ho chiesto di poter parlare con Yunus, il quale però si é sempre negato», ha dichiarato il giornalista. Il banchiere dei poveri preferito il silenzio, verosimilmente nella speranza che il reporter si stancasse, che non trovando riscontri potesse lasciar cadere la sua inchiesta.
Invece i riscontri c’erano. E da tempo. Il governo norvegese, che, contrariamente ad altri verifica sempre come vengono impiegati i fondi donati all’estero, si accorse subito che quei milioni erano stati dirottati. Iniziò a tempestarlo di lettere, pretendendo un chiarimento. Yunus disse che dovevano essere accantonati per pagare imposte future. Spiegazione plausibile, ma non esauriente. Perché non lasciarli semplicemente in banca?
Domanda, a cui Yunus fu incapace di dare una risposta pertinente, fino al primo aprile 1998 quando si giocò il tutto per tutto: «Se la gente, fuori e dentro il paese, ostile ai progetti della Grameen Bank si impossessasse della lettera, ci sarebbero stati gravissimi problemi in Bangladesh», scrisse al presidente del Norad, l’ente norvegese per l’Aiuto allo sviluppo; il quale temendo il peggio decise di tenere la bocca chiusa, d’intesa con l’ambasciata di Oslo a Dacca e dello stesso governo del Bangladesh.
Qualche mese dopo Yunus fece ricomparire 21 dei 74 milioni di euro, versandoli nelle casse della banca, ma non i rimanenti 53 che, a quanto pare, a distanza di anni, furono trasformati in un prestito della Grameen Kalyan alla Grameen Bank, con modalità ancora una volta anomale. Per quale ragione una società attiva nel volontariato medico dovrebbe prestare una cifra così ingente a una banca? E a quale tasso?
Da tempo alcuni economisti sostengono, in perfetta solitudine, che i tassi reali applicati dal banchiere altruista non siano affatto di favore. L’inchiesta della tv norvegese sembra avvalorare i dubbi sull’effettiva utilità del micorecredito. Heinemann non si è accontentato dei dati ufficiali, ma é andato a verificare di persona. «A Jobra abbiamo incontrato la figlia della prima che ottenne un microcredito, Sufiya Begun. Siamo poi stati nell’Hillary Village, dove la ex first lady americana dichiarò appoggio a Yunus e alla sua Banca. E abbiamo visto solo povera agente che dal microcredito non ha guadagnato nulla, se non altri debiti». Un grande inganno, sotto gli occhi del mondo. Forse. Speriamo di no.
—
SmokyLeaks 04.12.2010
Enrico Piovesana
Si fa chiamare H@rlock, come il ‘pirata spaziale’ del cartone animato giapponese. Anche lui è una specie di pirata, ma del cyberspazio. E’ un hacker, che ha accettato di parlare a PeaceReporter del fenomeno WikiLeaks
Come viene vissuto e interpretato nel vostro ambiente lo scalpore mediatico mondiale suscitato dai ‘leak’ di Julian Assange?
Premetto che non parlo a nome di qualsivoglia movimento hacker: esprimo solo il mio punto di vista personale. Detto questo, è evidente che gli ultimi documenti diffusi da WikiLeaks non rivelano nulla di nuovo: non fanno altro che confermare verità già note o del tutto scontate. Nessuno scoop, nessun mistero svelato: solo una valanga di gossip internazionale, perfetta per distrarre l’opinione pubblica da questioni ben più importanti, come la crisi strutturale dell’attuale sistema economico: meglio che la gente pensi ad altro! E tutto fumo negli occhi. Se quelle di WikiLeaks fossero informazioni realmente scomode e imbarazzanti per il potere, i mass media avrebbero reagito come hanno sempre fatto in questi casi: le avrebbero ignorate, o quantomeno minimizzate. Invece gli hanno dato il massimo rilievo: prima hanno creato l’attesa, la suspense, ora non parlano d’altro. Hanno fatto di Julian Assange, fino a poco tempo fa sconosciuto ai più, un’icona planetaria utile al sistema di potere.
C’è chi sostiene che se Assange rappresentasse realmente una minaccia al sistema, sarebbe già morto o in galera.
Al sistema, Assange serve vivo e latitante, come Bin Laden: se lo facessero fuori o lo arrestassero, perderebbe la sua funzione e diventerebbe un martire scomodo. Mi spiego. L’operazione WikiLeaks, oltre ad essere un utile diversivo di massa, è anche un ottimo pretesto per chi vuole limitare la libertà della rete e la libertà di informazione in generale. Se si paragona questa fuga di notizie a un ‘attacco terroristico’, a un nuovo ’11 settembre informatico’, se si trasforma Assange nel ricercato globale numero uno alla stregua di Osama, è per poter giustificare una guerra globale alla libertà della rete. Assange non rappresenta una minaccia al sistema perché ne fa parte, o per lo meno è stato così ingenuo da farsi manipolare da esso.
Da chi? Se Assange è un burattino, chi sono i burattinai? Chi c’è dietro WikiLeaks? Chi la finanzia?
Una cosa è certa: WikiLeaks non vive di donazioni. Fino a poco tempo fa non avevano fondi sufficienti, erano sull’orlo della chiusura. Poi, improvvisamente, i soldi sono arrivati, e così tanti da consentire operazioni come quelle che poi abbiamo visto. Daniel Schmitt, il numero due di WikiLeaks, è stato cacciato da Assange proprio perché voleva capire da dove fossero piovuti tutti quei soldi, e come mai così all’improvviso: scrupoli che l’australiano non ha gradito. WikiLeaks, nato come un progetto indipendente, povero e dai nobili intenti, col tempo si è guadagnato credibilità nel mondo della ‘libera informazione’, diventando una risorsa molto preziosa, un ‘asset’ ideale per chi volesse compiere un certo tipo di operazioni: bastava sostenerlo e manovrarlo a dovere. A quel punto sono arrivati sia i finanziamenti che le informazioni: non penserete mica che i cablogrammi arrivino dagli hacker! Quella è tutta roba passata da persone interne all’establishment: e non parlo del soldatino Bradley Manning, ma di organizzazioni ben più potenti.
Quali? Servizi segreti? Lobby finanziarie?
C’è chi tira in ballo la Cia, chi il Mossad. C’è chi parla di George Soros, il magnate americano che finanzia tutto e il contrario di tutto. C’è chi parla della potente organizzazione cyber-criminale russa Rbn (Russian Business Network, ndr). Difficile dire chi abbia ragione: forse tutti.
http://it.peacereporter.net/articolo/25680/SmokyLeaks
—
Cuba affronta una sfida strategica
Rete dei comunisti, 05.12.2010
Il perfezionamento del sistema economico, pianificazione e socialismo:verso il VI Congresso del Partito Comunista Cubano. Cuba divide. questo è indubbio. Com’è indubbio che il futuro Congresso del partito segnerà profondamente il futuro dell’isola. Paneacqua ha deciso quindi di offrire uno spazio libero ed aperto alla discussione. Inviate i vostri articoli a: pubblicazione@paneacqua.eu specificando dibattito Cuba
Il VI Congresso del Partito Comunista Cubano (PCC) è stato convocato per aprile 2011 e sarà fondamentalmente incentrato sui processi in corso di aggiustamento e perfezionamento del sistema economico, alla luce della crisi sistemica economica internazionale che ricade pesantemente su tutti i paesi a capitalismo maturo ma ancor più decisamente sui Paesi in Via di Sviluppo (PVS), e in particolare su Cuba a causa dell’intensificarsi dell’infame bloqueo imposto dall’imperialismo.
In preparazione del Congresso nei giorni scorsi è stato emesso e diffuso da parte del PCC un documento economico-sociale che è oggetto di grande dibattito fra i militanti del partito, i lavoratori e i cittadini cubani, a dimostrazione della forza e della capacità dinamica della democrazia partecipativa cubana sia sul piano politico-sociale sia economico.
Il documento già nel titolo ( Progetti di linea guida della politica economica e sociale del Partito e della Rivoluzione) fa intendere quali sono gli assi portanti del dibattito in corso; infatti le sue 32 pagine sono divise in ben 12 sezioni che evidenziano l’attuale modello di gestione economica e i possibili perfezionamenti, le linee di politica macroeconomica interna ed esterna, la politica di investimenti e della scienza , tecnologia e innovazione, le politiche sociali, le politiche settoriali (con particolare riferimento ai settori agro-industriale, industriale ed energetico, turismo, trasporti, costruzioni alimentari e risorse idrauliche) e l’ultimo capitolo dedicato alle politiche per il commercio.
Le 12 sezioni si articolano poi in 291 articoli sulle linee guida che dovranno essere discussi nei posti di lavoro con una grande funzione del sindacato CTC, nei quartieri con un ruolo guida da parte dei CDR e solo dal dibattito di base, popolare e partecipativo, scaturiranno le idee-forza definitive che si discuteranno al prossimo congresso del PCC di aprile, in modo da rafforzare la democrazia socialista e il processo rivoluzionario.
Dato che è molto importante il dibattito che si sta sviluppando in preparazione di tale Congresso, soprattutto per ciò che riguarda le forme che la transizione socialista può assumere nel XXI secolo a fronte della crisi sistemica del capitale, è importante anche per i comunisti che operano nel cuore della potenza imperiale europea capire il significato che può assumere per noi “qui ed ora”.
Vogliamo subito togliere qualsiasi dubbio e quindi le scusanti non tanto ai dichiarati controrivoluzionari, ma soprattutto a quella sinistra occidental-centrica che in maniera diretta o parzialmente velata fa con la sua pratica politica e la sua propaganda operazioni contro il Governo e il popolo di Cuba, per colpire la stessa idea della possibilità politica di uscita della crisi del capitale attraverso una ripresa forte dei percorsi per il superamento del modo di produzione capitalista in chiave socialista e rivoluzionaria. Per questo vogliamo immediatamente evidenziare che il principio irrinunciabile della transizione socialista attraverso la pianificazione è presente in tutto il documento. Infatti, oltre alle dichiarazioni del Ministro dell’Economia Marino Murillo Jorge e dello stesso Raul, che hanno affermato più volte che la pianificazione socialista è irrinunciabile e che l’unico modo di controllo dell’economia è attraverso il piano, già all’inizio del documento si pone in maniera chiara l’affermazione che “nell’attualizzazione del modello economico cubano prevarrà la pianificazione e non il mercato”. In tutte le linee guida contenute nelle 12 sezioni del documento si ribadisce che qualsiasi investimento o costo deve essere definito all’interno del piano, e si auspica anzi una maggiore collaborazione e interrelazione fra i vari settori produttivi affinché si possa attuare la pianificazione in maniera più equilibrata, e sempre concordemente con il settore dell’istruzione del Ministero dell’Educazione, in modo da rendere la formazione elemento centrale per avere lavoratori sempre più qualificati e consci e responsabili sulle difficoltà nell’attuazione della pianificazione socialista con il fine del consolidamento del processo rivoluzionario.
E’ per questo che la pianificazione deve essere condivisa e realizzata in termini equilibrati sia nei settori interni che esterni dell’economia in modo da raggiungere uno sviluppo armonico e fortemente caratterizzato dalla compatibilità sociale ed ambientale.
E’ il criterio della responsabilità personale e collettiva quello che può dare impulso all’attualizzazione e perfezionamento del sistema economico, con un ruolo centrale dei dirigenti e dei quadri che devono guidare il processo e rispondere dei risultati rispettando le risorse a disposizione, gli sforzi del popolo e l’equilibrio sociale e la sostenibilità ambientale.
E’ chiaro che per far ciò il documento parte da una analisi estremamente puntuale sui problemi presenti nell’economia cubana e le linee di risoluzione. Si inizia per esempio a considerare l’instabilità dei prezzi dei prodotti e dei servizi, sia di quelli importati, ma anche di quelli esportati e della grande difficoltà di ottenere finanziamenti esterni; è chiaro che la crisi internazionale del capitale ha reso ancora più fluttuanti tali prezzi e ciò, accompagnato dall’inasprirsi del blocco economico, commerciale e finanziario da 50 anni imposto dall’imperialismo USA, ha determinato seri danni di carattere socio-economico generale ma anche nella capacità d’acquisto delle esportazioni.
L’introduzione del documento evidenzia anche che la presenza attiva e di promozione dell’ALBA svolta da Cuba a partire dal 2004 ha potenziato le possibilità di relazione politico-economica internazionale, non solo verso il Venezuela e gli altri paesi della regione ma anche con altri importanti partners come la Cina, il Vietnam, la Russia, l’Angola, l’Iran, il Brasile e l’Algeria.
Tra gli elementi negativi va anche considerato che tra il 1988 e il 2008 ci sono stati almeno 16 uragani disastrosi che hanno provocato danni all’economia cubana per svariati miliardi di dollari e processi di ricostruzione di strategiche infrastrutture.
Altro elemento importante è che l’introduzione pone l’accento oltre che su questi fenomeni negativi esterni a partire dalle gravi ricadute dell’attuale crisi sistemica del capitale, anche su fattori di inefficienza interna , tra i più urgenti da risolvere: l’abbassamento della capitalizzazione della base produttiva e delle infrastrutture e dalla bassa efficienza e produttività del lavoro.
Si evidenzia altresì che anche se già dal 2003 si è realizzata una elevata centralizzazione dei meccanismi di assegnazione o utilizzazione della divisa straniera; in particolare dal 2005 si sono combattute delle importanti strozzature dell’economia per affrontare il deficit finanziario della bilancia dei pagamenti. Ciò ha portato ad adottare diversi provvedimenti in particolare per riprogrammare i pagamenti del debito esterno, per tentare di accrescere e diversificare le esportazioni e la sostituzione delle importazioni, ed anche per mettere in atto programmi addizionali per il risparmio energetico e ad incrementare gli investimenti industriali strategici maggiormente finalizzati al futuro del paese.
Nonostante tali positivi provvedimenti, il documento evidenzia che permangono dei problemi irrisolti che se non affrontati decisamente e immediatamente possono limitare molto lo stesso futuro economico e sociale del paese.
Per esempio tra i problemi centrali e strategici da risolvere ci sono quelli di mettere a produzione le cosiddette “terre oziose”, cioè non coltivate che rappresentano circa il 50% del totale e puntare quindi ad innalzare i rendimenti agricoli ; trovare immediate alternative di fonti di investimento per far fronte ai processi di bassa capitalizzazione delle industrie e delle infrastrutture ; recuperare la capacità di esportazione incrementando e diversificando i beni e i servizi, riducendo al contempo la elevata e insopportabile dipendenza dalle esportazioni che continua a determinare una significativa esposizione debitoria verso l’estero; accelerare inoltre gli studi per eliminare nel più breve tempo possibile la doppia circolazione monetaria del peso cubano e peso convertibile, che crea a tutt’oggi indubbiamente disparità e disequilibrio.
Da ultimo si affrontano i temi dell’eliminazione degli organici improduttivi attraverso la garanzia di continuità del lavoro in settori strategicamente più produttivi e forme di ristrutturazione dell’occupazione anche attraverso l’ampliamento di forme di lavoro non statale e in conto proprio; o trovando modalità per incentivare l’incremento della produttività del lavoro elevandone le motivazioni con aumenti salariali e al contempo rafforzando i meccanismi di redistribuzione delle entrate, eliminando le forme dannose di paternalismo ed egualitarismo, che non significa però assolutamente diminuire il criterio fondamentale per la rivoluzione cubana che è il mantenimento dell’uguaglianza, del lavoro e reddito per tutti.
Per realizzare tali obiettivi il documento a cui sono chiamati al dibattito tutti i cubani è costruito proprio in maniera che l’attuazione venga sviluppata in maniera graduale come linea di politica economica di prospettiva a medio termine e condivisa dal popolo. Si consideri inoltre che su tali punti relativamente alla riorganizzazione dell’occupazione si sono modificate con il consenso popolare norme giuridiche attuando, disposizioni generali del Consiglio di Stato, del Consiglio dei Ministri e Risoluzioni emesse da vari Ministeri, in primis il Ministero del Lavoro e della Sicurezza Sociale, della Banca centrale di Cuba, dall’Istituto Nazionale della Casa.
Quando si parla di tempi medi si intende il Piano quinquennale fino al 2015 che dovrà risolvere i suddetti problemi ma al contempo realizzare i necessari e forti incrementi salariali previsti. Ovviamente per far ciò sarà necessario porre una accorta e adeguata relazione fra produttività del lavoro e salario medio, interrompendo quel circolo dannoso che vede oggi Cuba come unico paese in cui negli ultimi dieci anni l’incremento salariale medio è stato considerevolmente più alto degli incrementi di produttività del lavoro.
E’ sempre entro il 2015 che in funzione anche dell’ampliamento di lavori non statali e di quelli a carattere autonomo e in conto proprio, si sta studiando una Legge Tributaria che, attraverso tassazioni di tali forme di lavoro, ha come obiettivo centrale quello di ottimizzare la distribuzione della ricchezza che si genera nel paese.
E’ chiaro che tali linee di perfezionamento dell’economia da realizzarsi in prima istanza entro il 2015 devono partire da un assunto centrale posto già a suo tempo sia da Fidel Castro che da Raul, secondo il quale Cuba non può continuare ad essere l’unico paese al mondo dove una parte della popolazione possa vivere senza lavorare, ma è il lavoro di ogni individuo e la sua produttività quella che determina l’incremento salariale per soddisfare sempre più le necessità.
Il documento “Progetti di linea guida della politica economica e sociale del Partito e della rivoluzione” sottolinea in maniera chiara senza alcun dubbio e contraddizione, fin nella sua introduzione, che l’attuazione di tali politiche economiche di perfezionamento e aggiornamento seguiranno sempre e comunque il principio che “solo il socialismo è capace di vincere le difficoltà e preservare le conquiste della Rivoluzione e che nell’attualizzazione del modello economico predominerà la pianificazione e non il mercato. Nella politica economica che si propone è sempre presente che il socialismo è uguaglianza di diritti e uguaglianza di opportunità per tutti i cittadini, non egualitarismo. Il lavoro è allo stesso tempo un diritto e un dovere, motivo di realizzazione personale per ciascun cittadino e dovrà essere remunerato in maniera conforme alla sua quantità e qualità”.
E’ chiaro che tali linee attuano così nei fatti il principio fondamentale del socialismo: da ognuno secondo le proprie capacità ad ognuno secondo il suo lavoro.
Il principio fondamentale che ispira tutte le 32 pagine del documento è incentrato sulla assunzione del concetto vivo di democrazia partecipativa secondo la quale “chi decide è il popolo”.
Pensiamo che il risultato di tale dibattito nel PCC, nel sindacato CTC nei CDR e con tutto il popolo cubano abbia anche delle ricadute notevoli sul rafforzamento dei processi di transizione socialista negli altri paesi dell’ALBA e in genere in tutti i Sud del mondo dove si stanno tentando processi di autodeterminazione e di integrazione a forti connotati antimperialisti, anticapitalisti e, in forme differenziate a specifico carattere socialista.
Siamo certi che tutto ciò sia sufficiente al momento per far chiarezza contro le farneticazioni di cui in maniera vergognosamente strumentale e controrivoluzionaria si è occupata la stampa occidentale, anche di quella sinistra smarrita, che non avendo un progetto politico da contrapporre alla crisi del capitale, attacca e offende gli sforzi di Cuba e di tutti quei paesi che si muovono nella prospettiva anticapitalista e nei percorsi di transizione al socialismo; processi e percorsi che, anche se a volte possono avere alcune loro contraddizioni, denotano tutta la loro grande forza di porsi strategicamente fuori dal modo di produzione capitalista e di continuare la grande battaglia internazionale per la rivoluzione socialista.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16415
—
NASA scopre una nuova forma di vita 03.12.2010
L’agenzia spaziale statunitense ha annunciato una scoperta di fondamentale importanza per la ricerca di nuove forme di vita: un batterio in grado di usare l’arsenico al posto del fosforo per i suoi processi cellulari
Roma – NASA ha scoperto una forma di vita “aliena”, perlomeno se confrontata alla definizione classica di vita: un nuovo batterio in grado di funzionare integrando arsenico, un elemento sin qui quasi totalmente estraneo ai processi vitali degli esseri viventi, nelle sue componenti genetiche e non. L’alieno è un californiano, ma secondo l’agenzia spaziale statunitense getterà le basi per un tipo di esobiologia totalmente nuovo.
GFAJ-1, questo il nome del batterio estremofilo scoperto dai ricercatori NASA, è stato al centro di una conferenza stampa annunciata con insolito anticipo e con la promessa di ridefinire il concetto di “vita come la conosciamo”. L’annuncio ha dato origine a ogni sorta di speculazioni sulla scoperta di “E.T.” sulle lune di Saturno (magari Rea o Titano), su uno dei tanti esopianeti sin qui individuati o altrove, nondimeno qualcuno ha comunicato anzitempo quale fosse il reale oggetto dell’evento organizzato da NASA.
GFAJ-1 vive nel lago Mono nei pressi del parco nazionale Yosemite, in California, uno specchio d’acqua dotato di un ecosistema molto ricco. I ricercatori statunitensi hanno isolato il microrganismo e lo hanno “alimentato” con l’arsenico, un elemento generalmente impossibile da metabolizzare se non per alcuni rari organismi già noti alla scienza.
Ma GFAJ-1 è dotato di una capacità sorprendente, sin qui mai riscontrata in altri esseri viventi: non solo il batterio è in grado di usare l’arsenico per i suoi processi cellulari, ma è anche capace di adattarlo alla produzione interna di materiale genetico. I laboratori NASA hanno praticamente assistito alla nascita di una nuova forma di vita, in cui il fosforo presente negli elementi fosfato del DNA era stato sostituito in pianta stabile dall’arsenico.
La scienziata NASA Felisa Wolfe-Simon e il suo team non usano mezzi termini nella presentazione della nuova scoperta, scomodando paragoni “pop” con Star Trek (Horta) e sostenendo come l’arsenio-batterio rappresenti una chiave di volta senza precedenti per la ricerca di nuove forme di vita – su questo e sugli altri pianeti dell’universo.
Avere la prova provata dell’esistenza di organismi dotati di un DNA alieno, non basato sul gruppo di elementi tradizionalmente associati alla vita (carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, fosforo e zolfo) apre prospettive di studio inedite. NASA è convinta di aver fatto una scoperta destinata a “espandere” la definizione di vita, per cui d’ora in poi i ricercatori dovranno aspettarsi l’inaspettato nell’esplorazione del cosmo.
Alfonso Maruccia
TAG: scienza, NASA, esobiologia, biologia, dna, ricerca
http://punto-informatico.it/3050238/PI/News/nasa-scopre-una-nuova-forma-vita.aspx
—
Un dispositivo genetico artificiale per comandare l’Rna 01.12.2010
di Moreno Colaiacovo
I ricercatori dell’Università di Stanford (Usa) sono riusciti a riprogrammare una cellula di lievito senza toccare il Dna, ma utilizzando un “dispositivo genetico sintetico” che interferisce con la catena di montaggio delle proteine. Come dimostra il loro studio su Science, questo dispositivo controlla il destino dell’Rna e può essere usato per ottenere una proteina piuttosto che un’altra.
Gli autori del lavoro hanno sfruttato un processo che avviene normalmente all’interno di tutte le cellule. È lo splicing, un’operazione di “taglia e cuci” che interessa l’Rna messaggero, cioè la molecola che trasporta l’informazione contenuta nel Dna alle strutture deputate alla sintesi delle proteine. Cambiando il modo in cui il messaggero viene tagliato, si possono ottenere proteine più o meno funzionanti.
Come degli hacker professionisti, i ricercatori sono riusciti a ingannare questo sistema, introducendo una molecola-sensore per proteine (le proteine in questione possono essere ogni volta diverse, a seconda di ciò che si vuole ottenere). Per esempio, i bioingegneri californiani hanno messo alla prova la loro tecnica innovativa su un gene che rende le cellule sensibili a un farmaco. In questo caso il sensore è stato progettato per segnalare la presenza della beta-catenina (una proteina prodotta in grande quantità nelle cellule tumorali). Se il sensore non percepiva la beta-catenina, l’Rna messaggero veniva tagliato in modo tale che la cellula non fosse sensibile al farmaco. In questo modo, solo le cellule tumorali potevano essere uccise, mentre le altre sopravvivevano.
Siamo nelle prime fasi della ricerca, ma le applicazioni che questa tecnica lascia intravedere sono tantissime, soprattutto perché i sensori possono essere disegnati in modo da recepire la presenza di qualsiasi proteina. Tra i possibili utilizzi, uno particolarmente interessante potrebbe proprio essere quello nella terapia genica applicata all’oncologia: programmando degli appositi circuiti genetici da inserire nelle cellule si potrà, per esempio, eliminare in modo selettivo soltanto quelle tumorali, lasciando intatte quelle sane.
http://www.galileonet.it/articles/4cf60d3672b7ab316b00003c
—
Google scopre mega giacimento geotermico in Virginia 05.12.2010
Google continua ad investire nelle energie rinnovabili alternative al petrolio, al gas naturale e al carbone. L’ultimo di questi investimenti è quello fatto in Virginia, negli Stati Uniti, dove il colosso del web ha finanziato una ricerca sulla geotermia della Southern Methodist University con un sostanzioso assegno da 481.500 dollari.
Soldi spesi molto bene, visto che i ricercatori hanno scoperto che il potenziale geotermico della Virginia è il 78% più alto del previsto. E, quindi, economicamente molto interessante anche per uno stato che produce energia in gran parte con le centrali a carbone. Ora si dovrà capire come e quanto si potranno sfruttare le risorse geotermiche che, dalla nuova stima, si pensa potrebbero arrivare a 18.890 MW di energia all’anno. Il tutto a impatto zero sul clima, senza emissioni di CO2.
Non è la prima volta che Google spende per le rinnovabili: da ricordare i 200 milioni di dollari investiti nello sviluppo dell’eolico off shore e l’organizzazione del premio per la mobilità sostenibile, andato ad una bizzarra funicolare a pedali.
—
In aumento negli oceani le zone morte senza ossigeno 03.12.2010
Appena qualche anno fa riportammo notizia su Ecoblog del fatto che, secondo alcuni rilevanti studi scientifici, l’equilibrio della vita in alcune vaste aree degli oceani fosse seriamente a rischio. A distanza di tempo un recente studio dei ricercatori Ove Hoegh-Guldberg e Mark McCormick dell’Università australiana James Cook of Townsvillepone, pubblicato sulla nota rivista Science, pone nuovamente l’accento sulla questione. Dalla ricerca si evince che nelle acque del pianeta siano in aumento il numero di zone morte, particolare questo non di poco conto considerato che la ovvia conseguenza sarebbe l’estinzione di numerose forme di vita.
Cosa si intende per “zona morta”? A rivelarcelo è lo studio stesso indicandoci che si tratta di aree con livelli talmente bassi di ossigeno da impedire la sopravvivenza di qualsiasi forma di vita. Le cause di questo scempio sarebbero da imputare principalmente ai cambiamenti climatici, alla pesca eccessiva e agli scarichi di sostanze nutrienti che creano fioriture di alghe e di batteri che a loro volta sottraggono ossigeno all’acqua.
Secondo opinione comune fra diversi ricercatori la presenza di zone morte presso le coste è legata all’eccessiva antropizzazione e alla sua attività (scarichi in mare e pesca eccessiva su tutti), mentre i principali fattori che “sterilizzano” gli oceani sarebbero determinati da profonde trasformazioni delle correnti marine.
—
Il Cavaliere studia l’extrema ratio 07.12.2010
“Un altro premier del Pdl e io ministro”
Fino al 14 nessuna subordinata allo schema fiducia o voto. Ma una terza ipotesi si affaccia ad Arcore. Il legittimo impedimento lo proteggerebbe anche con il nuovo incarico
di CLAUDIO TITO
Un “piano B”. Una valvola di sicurezza se tutto dovesse precipitare. Un’exit strategy se i pezzi del puzzle disegnato da Palazzo Chigi non dovessero incastrarsi. Silvio Berlusconi anche stavolta ha iniziato a mettere a punto una via d’uscita. Da imboccare solo se il prossimo 14 dicembre il suo governo verrà sfiduciato. “Fino a quel giorno nessuno deve parlare di opzioni diverse – ha ordinato ai suoi fedelissimi – . Il nostro obiettivo è la fiducia piena e in caso contrario le elezioni anticipate. Ma dal 15 in poi valuteremo il da farsi”. E nel “da farsi” ora compare anche la possibilità di un altro esecutivo, guidato da un altro esponente del Pdl, e che elenchi tra suoi i ministri proprio il Cavaliere.
Magari in un dicastero che ha già ricoperto ad interim, quello degli Esteri. Si tratta solo di una extrema ratio da adottare solo se la situazione non presenterà alternative. Una “mossa del cavallo” per sorprendere tutti e uscire dall’angolo avendo ancora lo “scudo” del legittimo impedimento. Sta di fatto che il progetto ha iniziato a fare capolino dalle parti di Arcore. Un’eventualità che nel week end lo stesso presidente del consiglio ha soppesato. Mal volentieri, certo, ma ammettendo che dopo il 14 “tutto va preso in considerazione”.
Le “colombe” del suo partito, del resto, sono da tempo all’opera per attenuare la violenza dello scontro con Fini e Casini. Hanno messo in guardia l’inquilino di Palazzo Chigi sulle conseguenze dello scontro all’ultimo
sangue. Ci ha provato Gianni Letta e Fedele Confalonieri. Persino Umberto Bossi lo ha invitato a trovare un’intesa con il presidente della Camera. Soprattutto hanno cercato di fargli capire che la bocciatura dell’esecutivo a Montecitorio potrebbe comportare lo “slittamento” di molti peones verso il sostegno ad un nuovo governo. Una spinta che nel centrodestra potrebbe rivelarsi fatale. Pure nel “blindatissimo” Palazzo Madama, i numeri potrebbero improvvisamente ribaltarsi dopo il 14. Basti pensare a Beppe Pisanu che ripete ad ogni piè sospinto: “Io sono contro le elezioni anticipate”. Oppure alla pattuglia dei cosiddetti “scajoliani”. Timori che stanno scuotendo il partito di maggioranza relativa impegnato a escogitare un “patto di fedeltà” tra i senatori. Che, però, non riesce a prendere corpo.
“Io – ha ripetuto ieri Berlusconi – sono sicuro che avremo i numeri anche alla Camera. Verdini e La Russa me lo hanno giurato. E comunque non voglio farmi ricattare da nessuno”. Eppure, anche il Cavaliere sa che in caso contrario la strada delle urne potrebbe, appunto, non essere scontata. Anche per le attenzioni che il Quirinale sta rivolgendo alla grave crisi economica, alla burrasca che sta attraversando l’euro e alle difficoltà del nostro debito pubblico. Non a caso, dicono sul Colle, è sbagliato prefigurare alcunché fino a quando non si conoscerà la portata della verifica parlamentare.
Proprio per questo, l’inquilino di Palazzo Chigi non vuole trovarsi impreparato davanti al peggio. E insieme alle “colombe” non esclude ora che, se la richiesta di scioglimento delle Camere non verrà accolta, l’alternativa potrebbe essere sì un altro governo guidato da un esponente del Pdl, ma con lui stesso membro del nuovo esecutivo. In particolare come responsabile della Farnesina. Una mossa fatta apposta per mettere in difficoltà Fli e Udc. E soprattutto un modo per blindarsi rispetto a quella che da sempre chiama la “persecuzione giudiziaria”. Perché se la Corte costituzionale, proprio il prossimo 14 dicembre, dovesse confermare la costituzionalità del legittimo impedimento, lui continuerebbe a usufruirne. Quella norma, infatti, vale fino ad ottobre 2011 per il presidente del consiglio e per i ministri. Non solo. Poiché il Cavaliere considera Gianni Letta e Angelino Alfano gli unici affidabili per la realizzazione di questo quadro, conquisterebbe una serie di benefici: contare su un premier “leale”, su una presenza costante e “dominante” in consiglio dei ministri, sulla possibilità di continuare a mantenere tutti i contatti con le cancellerie straniere. Soprattutto verrebbero lasciate inalterate le sue chance di una ricandidatura alle elezioni del 2013 e alla corsa per la successione al Quirinale.
A quel punto, raccontano le “colombe” che hanno indotto il presidente del consiglio a valutare questa possibilità, “per Fini e Casini sarà davvero difficile sottrarsi. E per Napolitano impossibile non accogliere la nuova maggioranza e il nuovo equilibrio”. Al momento, però, si tratta solo una “extrema ratio”. Che il premier prenderà in considerazione solo a partire dal 15 dicembre. Anche perché non tutti, nel centrodestra, potrebbero gradire il “rilancio” berlusconiano”. Ad Arcore, in questo fine settimana, hanno infatti fatto notare che in uno scenario del genere, la Lega potrebbe puntare le sue fiches su un altro “vice-Cavaliere”: ossia su Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia, da sempre vicino al Carroccio, e considerato con le competenze migliori per affrontare la crisi economica.
Per questo l’inquilino di Palazzo Chigi vuole tenere nascoste le sue carte. Tentare la prova di forza. Per poi scartare tutti se la situazione fosse senza via d’uscita. Ma senza rompere l’asse con Umberto Bossi.
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/07/news/piano_b-9907555/?ref=HREA-1
—
Un riarmo da un miliardo di euro 11.11.2010
Il governo Berlusconi ha i giorni contati, ma prima di lasciare il potere ha voluto fare un ultimo regalino a Finmeccanica. Con il silenzio-assenso delle opposizioni
Nei giorni scorsi, nonostante le difficoltà finanziarie in cui versano le casse dello Stato, le commissioni Difesa di Camera e Senato hanno approvato in fretta e furia, e con il silenzio-assenso dell’opposizione Pd, un programma di riarmo del valore di quasi un miliardo di euro, buona parte dei quali finiranno alle aziende belliche del gruppo industriale guidato Pier Francesco Guarguaglini.
Il programma pluriennale di acquisizione armamenti, legato al crescente impegno bellico dell’Italia sul fronte di guerra afgano e alle esigenze strategiche della Nato, prevede una spesa complessiva di di 933,8 milioni di euro nell’arco dei prossimi quattro/nove anni.
Vediamo il dettaglio di quella che potrebbe essere l’ultima lista della spesa del ministro della Difesa, Ignazio La Russa.
200 milioni di euro sono destinati a fornire i nostri elicotteri da guerra A-129 Mangusta, operativi in Afghanistan, dei nuovi sistemi di puntamento Ots fabbricati dalla Salex Galileo di Finmeccanica, che consentiranno di colpire al meglio gli obiettivi ”nei nuovi scenari di impiego degli elicotteri, in situazioni caratterizzate da fluidità e indeterminatezza della posizione delle forze amiche e nemiche”. Nella stessa cifra è compresa una fornitura, sempre per gli elicotteri Mangusta, di nuovi missili anticarro Spike, di fabbricazione israeliana, che andranno a sostituire gli attuali missili Tow, meno potenti.
22,3 milioni di euro verranno spesi per l’acquisto di 271 mortai da 81 millimetri di nuova generazione, fabbricati all’estero, e del relativo munizionamento, prodotto invece negli stabilimenti di Colleferro (Roma) dell’azienda di armamenti italo-britannica Simmel Difesa. Pezzi d’artiglieria più precisi, destinati a ”elevare le capacità operative delle unità terrestri attualmente impiegate nei diversi teatri operativi” (leggi: sul fronte afgano).
125 milioni di euro sono stanziati per la costruzione, alla Fincantieri di Genova, di una nuova unità navale della Marina militare con funzione di appoggio alle forze di incursori, ricerca e soccorso, destinata a sostituire la vecchia nave A-5306 Anteo. Sarà una nave da guerra, armata di cannoni e mitragliatrici, di quelle con i portelloni anteriori per lo sbarco di mezzi anfibi.
87,5 milioni di euro verranno spesi per dotare i sommergibili classe U-212 (il ‘Salvatore Todaro’, lo ‘Scirè’ e altri due in costruzione) di un nuovo siluro ‘pesante’ (6 metri lunghezza per 1,2 tonnellate), evoluzione dell’attuale modello A-184. A costruire questi nuovi missili subacquei sarà la Whitehead Alenia Sistemi Subacquei (Wass) di Livorno, del gruppo Finmeccanica.
63 milioni di euro serviranno a realizzare, presso l’aeroporto militare di Pisa, un grande ‘hub’ aereo militare nazionale ”dedicato alla gestione dei flussi, via aerea, di personale e di materiale dal territorio nazionale per i teatri operativi”. In pratica, si tratterà della più grande base aera della Nato d’Europa, destinata a funzionare come piattaforma logistica di tutte le future missioni militare alleate all’estero.
236 milioni di euro sono stati stanziati per creare una rete informatica militare sperimentale, detta Defence Information Infrastructure (Dii), ”necessaria per la trasformazione net-centrica dello strumento militare, elemento essenziale ed abilitante per la pianificazione e la condotta delle operazioni”. Un progetto che vede coinvolta, tra gli altri, la Elsag Datamat, altra azienda del gruppo Finmeccanica.
200 milioni andranno infine all’AgustaWestland di Finmeccanica per l’acquisto di dieci nuovi elicotteri Aw-139: velivoli militari di soccorso da utilizzare in operazioni all’interno del territorio ”nazionale o limitrofo”.
Enrico Piovesana
http://it.peacereporter.net/articolo/25227/Un+riarmo+da+un+miliardo+di+euro
—
Povera Italia. “La vita precaria ci fa diventare un Paese cattivo”
Fonte: LUCIANA SICA – la Repubblica | 01 Dicembre 2010
L´intervista/ Marco Revelli racconta il suo nuovo saggio. È un´analisi sullo stato di sofferenza economica che mina il tessuto sociale “L´impoverimento riguarda anche il ceto medio e i giovani senza più prospettive” “Tra frustrazioni risentimenti e crisi d´identità ormai dilaga l´invidia sociale”
Sono i lavoratori del ceto medio e i giovani, i nuovi poveri in Italia. La situazione è peggiorata per tutti, più grave che all´inizio degli anni Ottanta quando si contavano sei milioni di persone in condizioni di indigenza. Oggi non soltanto sono almeno due milioni in più ma – secondo i dati Istat del 2008 – gli italiani messi ko da una spesa imprevista di settecento euro sono diciannove milioni, più di un terzo della popolazione. Proprio noi messi così male, noi che apparteniamo al “club dei grandi”?
È un ritratto dell´Italia reale, stridente nell´asprezza dei numeri con il racconto “apologetico” del potere, Poveri, noi, il breve saggio di Marco Revelli in uscita oggi da Einaudi (pagg. 128, euro 10). Il politologo, alla guida negli ultimi tre anni della Commissione d´indagine sull´esclusione sociale, racconta un Bel Paese più povero e molto più cattivo. Usa una metafora: come Gregor Samsa, il protagonista del celebre racconto di Kafka, anche noi un giorno ci siamo svegliati e ci siamo ritrovati irriconoscibili. Non solo delle canaglie con gli “ultimi” della piramide sociale che è meglio spingere sempre più in basso, meglio ancora se “fuori”. Ormai con un´inedita ferocia trattiamo un po´ tutti gli “altri”, quelli che per le ragioni più svariate stanno peggio di noi –negli ambienti di lavoro come anche in famiglia.
Professor Revelli, lei fa dubitare delle “magnifiche sorti e progressive” di questo Paese così pieno di simboli di un´opulenza anche ostentata. Non sarà un catastrofista?
«Sono i numeri e i fatti, le statistiche e le storie di cronaca che denunciano vistosamente l´estrema fragilità della nostra struttura economica, sociale e anche morale. Non solo non siamo in crescita, ma su un piano che inclina pericolosamente verso l´arretratezza. Viviamo una condizione generalizzata di malessere che disgrega il tessuto sociale, producendo una rottura a catena delle relazioni, dei legami, dei meccanismi più elementari della solidarietà. Gli effetti sono gravissimi sulla qualità e sulle prospettive della nostra democrazia».
La crisi morde anche sulle fasce finora considerate relativamente “forti” del mercato del lavoro: sul ceto medio. Chi sono questi nuovi poveri?
«Sono figure sociali estranee alla “cultura della povertà” che – per stile di vita, interessi, amicizie, rapporti professionali, modelli famigliari – appartengono a tutti gli effetti a una middle class che si considerava “garantita” contro il rischio del declassamento e a maggior ragione dell´impoverimento».
Faccia degli esempi.
«C´è l´ingegnere dell´Eutelia (ex Olivetti) ad altissimo livello di professionalità che contava su un reddito medio-alto e si ritrova “messo in mobilità”. Ci sono i tanti impiegati delle industrie, i “quadri” tecnici d´improvviso privi di consulenze, i piccoli e medi commercianti schiacciati dalla grande distribuzione. Tutti fino all´altro giorno sicuri del proprio tenore di vita, e ora in grave affanno. E poi ci sono le donne, anche laureate e con una posizione professionale di tutto rispetto, costrette a cambiare radicalmente vita se si ritrovano sole – dopo una separazione, il che è molto frequente. Sono donne che spesso hanno figli, pagano una baby sitter, e magari anche il mutuo o le rate dell´auto… Non saranno “tecnicamente” povere, ma la loro è una condizione difficile, per quanto in genere dissimulata».
Sono invece tutt´altro che poveri “occulti” i giovani, derubati del presente e del futuro. Lei scrive che sono stati “massacrati”. Non teme che l´espressione sia troppo forte?
«No, perché sono proprio loro le vittime sacrificali del declino del nostro Paese. Qui parlano i numeri: l´80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto… Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. La scelta di puntare esclusivamente sulla cassa integrazione ha aperto un ombrello sui padri, ma lasciando fuori i figli, licenziabili con facilità e a costo zero. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al “mondo dei cognitivi”, alle nuove professioni come l´informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato».
C´è poi lo scandalo della povertà delle famiglie numerose, il 40 per cento concentrate nel Sud. Quanti sono in Italia i bambini che oggi non hanno niente e domani saranno degli adulti a rischio?
«Il Paese del Family Day ha il triste privilegio di avere il tasso più alto di povertà minorile dell´Unione europea. A inchiodarci a un 25 per cento è Eurostat: come dire che un minorenne su quattro vive in una famiglia molto disagiata, e che in questo Paese fare più di due figli è una maledizione».
Cosa ci sbattono in faccia – sgradevolmente – le statistiche dei poveri?
«La realtà di un Paese che arranca e l´illusionismo allucinatorio di un Paese virtuale da piani alti. In mezzo, tra le punte della forbice, trovano terreno fertile le frustrazioni e i veleni, i risentimenti e i rancori, le rese morali e i fallimenti materiali, le solitudini e le crisi d´identità che hanno sfregiato l´antropologia sociale italiana. L´indurimento del carattere nazionale e la diffusione dell´invidia come sentimento collettivo. L´intolleranza per le fragilità dei deboli, la tolleranza per i vizi dei potenti. Tutto il repertorio d´ingredienti che hanno nutrito le fiammate populiste, il “tribalismo territoriale” come forma di risarcimento, ma anche le più silenziose ondate di “esodo” dalla politica e dallo spazio pubblico».
Con quali effetti sulla qualità della democrazia italiana?
«I principi democratici vengono profondamente corrosi in un Paese dove cade la speranza nei meccanismi di redistribuzione del reddito e sembra impossibile attingere alla ricchezza dei pochi fortunati, dove chi è povero è destinato a rimanere povero e una parte consistente della popolazione cessa di considerare pubblicamente garantita la propria aspirazione a una vita degna. L´individuo insicuro della propria posizione e timoroso del proprio fallimento chiede al potere protezione e offre al potere fedeltà. Oggi questo scambio perverso riempie il vuoto lasciato dai diritti, ma né la discrezionalità dei diversi titolari dei poteri né la dedizione dei servi appartengono allo statuto della democrazia. Senza un segnale netto di alt a questa deriva, che implica un confronto duro con le attuali classi dirigenti, si rischia l´abdicazione al proprio status di cittadino e un ritorno alla passività del suddito».
—
Rispondi