Quel che resta dell’acqua
I ricercatori del Lens di Firenze sono riusciti a ottenere idrogeno con un sistema più efficiente, economico ed ecologico di quelli oggi in uso. Lo studio su Pnas Ottenere idrogeno da utilizzare come carburante dall’acqua, con un sistema efficiente, economico e decisamente ecologico. Ci sono riusciti Matteo Ceppatelli e gli altri ricercatori dello European Laboratory for Non-Linear Spectroscopy dell’Università di Firenze, che aprono la strada a una attraente alternativa ai sistemi utilizzati oggi. In realtà il sistema, spiegato su Pnas di questa settimana, è stato messo a punto per far reagire tra loro elementi molto inerti, come l’azoto e il monossido di carbonio. Il prodotto secondario di questo processo, però, è tutt’altro che da scartare. “Quello che facciamo è lavorare in condizioni di pressione elevate (circa mille atmosfere, ndr.) per portare le molecole tanto vicine tra loro da indurle a reagire”, spiega a Galileo Roberto Bini, coordinatore dello studio. “Abbiamo già studiato in questo modo moltissime reazioni di polimerizzazione, senza utilizzare alcuna sostanza chimica intermediaria. Questo significa non avere sostanze da dover trattare o smaltire”. In effetti, il sistema ricorre soltanto a intermediari fisici, pressione e luce: una volta compattate, le molecole vengono colpite con un fasci laser e cambiamo la loro geometria, diventando ancora più reattive. “In particolare, in questo studio abbiamo fatto una cosa un po’ diversa”, continua Bini: “Per convincere l’azoto – che è moto inerte – a reagire, abbiamo pensato di usare l’acqua come una sorta di miccia”. Una volta che la molecola di acqua viene spezzata dalla luce ultravioletta, si viene a creare atomi idrogeno (H) e radicali (HO-). In natura questi due pezzetti si ricombinano in una frazione di secondo per ridare l’acqua. Ma a pressioni di circa un migliaio di atmosfere si guadagna abbastanza tempo per indurre HO- a combinarsi anche con le altre molecole presenti. L’“effetto collaterale” positivo, è che gli atomi H in eccesso si uniscono tra loro per dare la molecola di idrogeno (H2). Perché è interessante? “Abbiamo lavorato con molecole difficili, non le più idonee per produrre idrogeno, ma abbiamo dimostrato che è possibile utilizzare questo tipo di processo per produrre idrogeno. L’industria chimica già lavora a queste pressioni e, ipoteticamente, potrebbe usare anche la luce solare al posto del laser”, risponde il ricercatore. Certamente l’idea va testata, ma ha il suo fascino. Attualmente, infatti, il 95-96 per cento dell’idrogeno utilizzato come vettore energetico proviene da fonti non rinnovabili (idrocarburi e fossili). In questo caso invece, servirebbe solo acqua e il processo sarebbe più efficiente dell’idrolisi (il noto sistema utilizzato dai chimici per scindere l’acqua e ottenere H2), che costa tre volte l’energia che l’idrogeno prodotto riesce poi a trasportare. Lo studio fa parte del progetto Firenze Hydrolab finanziato dalla Cassa di Risparmio di Firenze, che ha riunito più laboratori dell’area fiorentina per mettere a punto nuovi sistemi di sintesi, stoccaggio e trasporto dell’idrogeno. (t.m.)
http://www.galileonet.it/news/11706/quel-che-resta-dellacqua
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6/8/2009
Chiuse sul Po un attentato all’Adriatico
L’apporto di acqua dolce sollecita l’idrodinamica marina. Azoto e fosforo nutrono la catena alimentare Ogni variazione metterebbe a rischio l’ecosistema
ATTILIO RINALDI*
Un progetto per costruire quattro chiuse sul Po. Ne ha scritto in un’inchiesta Ferruccio Sansa sulla Stampa. Ma prima di spendere due miliardi di euro bisogna ricordare che il Po è il «motore» idrodinamico, fisico e biologico del mare Adriatico. Gli apporti di acqua dolce costituiscono un importante volano dell’idrodinamica marina. La riduzione della portata d’acqua inciderà sul moto delle correnti riducendone la forza. L’apporto di sali nutritivi quali azoto e fosforo, copiosamente presenti nel Po, costituiscono la base della catena alimentare. La loro riduzione porterà ad un abbassamento della produttività con danni alla pesca. Non solo: gli sbarramenti fluviali rappresentano un ostacolo per le specie ittiche migranti e l’equilibrio biologico del fiume.
E ancora: le coste basse e sabbiose dell’alto Adriatico sono da tempo in forte erosione. Una delle cause è da attribuire alla scarsità di sabbia immessa dai fiumi. La costruzione di sbarramenti lungo l’asta del Po aggraverà tale processo. Se non bastasse c’è il rischio di un aumento di intrusione del cuneo salino. Negli ultimi anni le acque salate sono risalite per chilometri con danni al settore agricolo. Ridurre gli apporti del fiume non potrà che peggiorare la condizione.
Scene di un film purtroppo già visto. La storia recente ci consegna esempi clamorosi: le acque del fiume Colorado non arrivano più al mare, gli sbarramenti costruiti lungo il suo corso per dissetare Los Angeles e per irrigare agli aranceti californiani trattengono la quasi totalità delle sue portate. L’ecosistema del Colorado è oggi fortemente compromesso. Il lago d’Aral è letteralmente prosciugato. Nel 1960 la sua superficie si riduce del 75% della sua originaria estensione (oggi ne è rimasto il 10%). Le cause sono da attribuire alle derivazioni di acqua dai suoi immissari per irrigare i campi di cotone del Kazakistan. Dalla costruzione della diga di Assuan (1970) il Nilo ha visto ridotte le sue portate del 60%. La pesca nel Mediterraneo orientale ha subito un crollo per il minor apporto di sali di azoto e fosforo. Sudan ed Eritrea stanno ipotizzando la costruzione di altre dighe. Il Nilo a quel punto farebbe la fine del Colorado.
*Presidente Centro Ricerche Marine di Cesenatico
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=274
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Steinbeck e l’Italia di oggi
Giorgio Nebbia*, 30 luglio 2009
L’intervento Esattamente settant’anni fa, nel 1939, appariva, come romanzo ecologico e politico, Furore, dello scrittore americano John Steinbeck (premio Nobel 1962), immediatamente tradotto in Italia da Bompiani nel 1940; dal libro fu tratto, nello stesso 1940, un celebre film di John Ford, interpretato, fra l’altro, da un eccezionale Henry Fonda giovane. Vi riproponiamo questo articolo pubblicato su “L’Altro” il 29 luglio scorso
Il romanzo è ambientato negli anni trenta del Novecento, nell’Oklahoma, uno degli stati agricoli degli Stati Uniti centrali; nei molti decenni precedenti gli immigrati, sbarcando sulla costa atlantica del Nord America, avevano cercato terre fertili spingendosi verso ovest, nel selvaggio West, dove avevano trovato grandi praterie in delicato equilibrio ecologico; la coltivazione a grano e mais ha trasformato il fragile terreno dei pascoli in un suolo esposto all’erosione del vento e delle piogge e ben presto le pianure si sono trasformate in una terra arida, in una “scodella di polvere”. Centinaia di migliaia di famiglie di contadini a poco a poco hanno visto sfumare il povero reddito e, non potendo pagare i debiti e i mutui alle banche, sono stati sfrattati e sono diventati, ancora una volta emigranti.
Una di queste famiglie, quella di Tom Joad, giovani e anziani, decide di caricare le povere masserizie su una traballante automobile per andare a ovest dove dicono che in California, terra di ricchi raccolti e di acque, è possibile trovare occupazione in agricoltura. Dopo un lungo terribile viaggio la California, terra promessa, si rivela però subito ostile; ci sono troppi immigrati, non c’è lavoro per tutti e le paghe sono basse al punto che è in atto uno sciopero; i padroni, attraverso “caporali” organizzati dalla criminalità, sono disposti ad assumere i nuovi arrivati come crumiri che subito si scontrano con gli altri poveri in sciopero, poveri contro poveri.
Uno spiraglio è offerto da un campo di accoglienza statale della “Resettlement Administration”, l’agenzia creata da F.D.Roosevelt (1882-1945), divenuto presidente degli Stati Uniti nel marzo 1933, e affidata a Rexford Tugwell (1891-1979), un professore di economia, studioso di agricoltura, ma soprattutto una eccezionale figura di difensore dei diritti civili e degli emigranti. Nel campo dell’agenzia gli immigrati con poca spesa trovano casette decenti, docce e acqua corrente, spazi per i bambini; l’agenzia statale ha cura anche di procurare lavoro a paghe dignitose, organizza opere di difesa del suolo e rimboschimento, assegna piccoli appezzamenti di terreno e organizza cooperative. Naturalmente i padroni degli operai in sciopero usano la criminalità locale, con la complicità della polizia, per cercare di smantellare i campi di accoglienza con la scusa che sono fonte di disordini.
Il libro Furore finisce con una pagina di commovente solidarietà; proprio quando sembra che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la più giovane dei Joad, perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno ad un vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte che era destinato al bambino morto.
Furore è una parabola di quanto è sotto i nostri occhi di questi tempi. Alla base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente, crisi ambientali. Oggi la siccità e le inondazioni spingono persone e popoli dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa, alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Anche da noi, come nella California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri anch’essi, li respingono o costringono a lavori spesso disumani; gli immigrati nei campi: «muoiono di fame perché noi si possa mangiare», oggi come nel 1938 quando Edith Lowry scrisse il suo celebre libro, lavorano in fabbriche inquinanti e pericolose, in cantieri edili su impalcature insicure, esposti al caporalato e alla criminalità.
Come nella California dei Joad la nostra società assiste impassibile, anzi con odio, ai viaggi disperati dalle terre d’origine all’Italia, lascia marcire degli immigrati in rifugi in cui neanche i cani abiterebbero – ne abbiamo avuto testimonianze anche in recenti servizi della televisione di stato – e assiste indifferente al loro dolore: dolore per la lontananza dai loro cari, per la difficoltà della lingua; solo poche strutture di assistenza, spesso volontarie, li aiutano a superare i cavilli burocratici e li aiutano a spedire i magri risparmi alle lontane famiglie. Con la promessa di “sicurezza” per i bianchi padani e con una campagna di odio sobillata da molta parte della stampa, l’attuale maggioranza parlamentare respinge gli immigrati più indifesi, li rimanda alla loro miseria.
Eppure non siamo sempre stati così. Dopo la Liberazione, negli anni cinquanta, il Comitato amministrativo di soccorso ai senzatetto, l’Unrra-Casas, col sostegno del Movimento di comunità di Adriano Olivetti (1901-1960), assicurò una vera abitazione, non un rifugio, ai contadini meridionali immigrati nelle terre della riforma fondiaria. Apparve anche allora che un intervento statale di costruzione di alloggi e di assistenza civile può alleviare il disagio dei poveri togliendoli dalle grinfie della speculazione, della illegalità e della criminalità.
San Paolo nella Lettera agli Ebrei (cap. 13) ricorda che «alcuni praticando l’ospitalità hanno accolto degli angeli senza saperlo». Centinaia di migliaia di famiglie italiane hanno trovato nelle badanti straniere un angelo che assiste gli anziani e gli pulisce (scusate il termine) il sedere.
Ma Furore è anche una parabola di speranza: che un giorno si possa avere un’Italia governata da persone della statura politica e morale di Roosevelt e di Tugwell, capace di praticare l’accoglienza e assicurare giusti salari e dare decenti abitazioni agli immigrati che contribuiscono alla nostra ricchezza, liberandoli dallo sfruttamento per miseri giacigli ad alto prezzo.
Se non lo si vuol fare per amore cristiano, lo si faccia almeno ricordando che la paura di un popolo che non ha casa e non ha meta, genera, come ha raccontato Steinbeck, furore.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=12703
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ZeroFilo-bus: mobilità con i supercondensatori
Una fermata, una ricarica. E’ questo il ritmo cui viaggerà ZeroFilo-bus, il filobus senza filo nato nei laboratori ENEA della Casaccia, da poco diventato un brevetto e che a breve potrebbe diventare un prototipo su strada, grazie all’interesse del mondo dell’industria dell’autobus.
ZeroFilo-bus è un bus elettrico che si muove senza bisogno dell’alimentazione fornitagli dalla linea aerea con evidenti vantaggi pratici, economici e ambientali. Ovviamente essendo il “filobus” senza cavi e avendo bisogno di energia elettrica per muoversi, finora è stato necessario fargli fare il pieno di energia all’inizio del percorso; i ricercatori ENEA della Casaccia, invece, hanno studiato il sistema per trasferire al filobus, a ogni fermata di servizio, l’energia necessaria per raggiungere quella successiva e di farlo nel breve tempo di salita e discesa dei passeggeri grazie alla tecnologia dei supercondensatori. Procedimento che consente anche di saltare alcune fermate se non ci sono passeggeri in attesa di salire o di scendere.
“In fondo eliminare il filo del filobus è una vecchia idea”, spiega l’ing. Giovanni Pede, responsabile dell’attività ENEA per il progetto. “Quello che noi abbiamo fatto con ZeroFilo-bus è stato sviluppare quest’idea applicando e sperimentando le nuove tecnologie in nostro possesso: i supercondensatori e i sistemi intelligenti per la gestione della mobilità”.
I supercondensatori hanno la caratteristica di poter immagazzinare in poco tempo molta più energia di quelli ora in commercio che, ad esempio, possono accumulare energia corrispondente a una capacità di 5000 Farad (per dare un’idea della grandezza, basti pensare che il pianeta Terra ha una capacità di un Farad…); inoltre possono rilasciarla in breve tempo. I tempi di ricarica sono, infatti, nell’ordine dell’ora nel caso delle batterie, mentre sono di secondi nel caso dei supercondensatori, ecco perchè consentono la ricarica nel tempo di una fermata per salita/discesa dei passeggeri.
Altro vantaggio non trascurabile, dato dalla scelta dei supercondensatori, lo si rileva considerando che per fornire l’energia necessaria ai “filobus senza fili” servirebbe una grande quantità di batterie da collocare, controllare, riparare e sostituire, totalizzando così costi di gestione molto più alti di quelli necessari per i supercondensatori, i quali hanno anche un ciclo di vita molto più lungo di quello delle batterie (i primi realizzano anche mezzo milione di cicli, mentre le seconde solo qualche migliaio).
I vantaggi di ZeroFilo-bus sono estetici, economici e ambientali. Alcune zone delle città perdono un po’ della loro bellezza a causa della presenza dei fili aerei delle tradizionali linee di filobus, oltretutto molto costose da installare, lungo percorsi creati ad hoc: eliminarle significherebbe abbattere questi costi e poter utilizzare anche i percorsi già esistenti dei bus non elettrici.
Dal punto di vista ambientale ZeroFilo-bus è ovviamente a emissioni zero e pur considerando la CO2 rilasciata dalla produzione di energia elettrica per il filobus, è evidente che questa sarà decisamente inferiore rispetto alla quantità di CO2 prodotta dai motori dei diesel. Inoltre, parte dell’energia elettrica che servirebbe viene risparmiata, (fino al 25-30%), perché autoprodotta e accumulata dai supercondensatori sfruttando l’energia cinetica in frenata.
La Breda Menarini, società di Finmeccanica, ha inserito ZeroFilo-bus nel progetto Piattaforma Bus Innovativi che riguarda la costruzione di autobus elettrici o ibridi, ottenendo i finanziamenti del programma nazionale “Industria 2015”.
“Il nostro principale obiettivo – annuncia Pede – è quello di realizzare per il 2012 un prototipo per il sistema di accumulo di energia con i supercondensatori. Speriamo di poter realizzare anche un prototipo di ZeroFilo-bus e metterlo su strada anche grazie all’interesse di qualche Amministrazione Pubblica sensibile al tema”.
http://www.scienzaegoverno.org/n/065/065_03.htm
Fonte Enea
Luglio 2009
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I nuovi incentivi all’energia da biomasse
Con l’approvazione al Senato del disegno di legge 1441, “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”, che tra l’altro assegna al Governo l’impegno di creare un impianto legislativo per l’utilizzo dell’energia nucleare, sono stati confermati gli incentivi alla produzione di energia elettrica da biomasse.
In particolare viene data immediata applicazione alla possibilità per gli impianti di potenza installata inferiore ad 1 MW di accedere ad una tariffa fissa omnicomprensiva pari a 0,28 euro per Kwh prodotto e viene confermata la cumulabilità di tali incentivi con gli aiuti agli investimenti in conto capitale fino ad un’intensità massima del 40%.
Ma ecco, nel dettaglio, tutti gli incentivi previsti per la produzione di energia da scarti agricoli:
Biogas e biomasse
Il provvedimento conferma che per gli impianti a biogas e biomasse con una potenza non superiore a 1 MW è riconosciuta la tariffa omnicomprensiva (incentivo + energia elettrica prodotta) pari a 0,28 euro per kWh immesso nella rete elettrica. Sono inclusi gli impianti a oli vegetali puri a condizione che siano ottenuti da colture oleaginose coltivate nell’UE e che siano state incluse nel fascicolo aziendale per l’ottenimento del premio comunitario.
Biocombustibili
Per gli impianti alimentati con altri biocombustibili liquidi (biodiesel e bioetanolo) e con oli provenienti da paesi extra UE (ad esempio, olio di palma), come pure per i gas di discarica e i gas residuati da processi di depurazione, la tariffa omnicomprensiva è pari a 0,18 euro per kWh.
Rifiuti biodegradabili e biomasse non di filiera
Agli impianti alimentati a rifiuti biodegradabili e biomasse generiche non di filiera, con una potenza superiore a 1 MW, è riconosciuto un coefficiente di moltiplicazione dei certificati verdi pari a 1,3, rispetto al precedente 1,1.
Biomasse e biogas da prodotti agricoli
Agli impianti alimentati da biomasse e biogas derivanti da prodotti agricoli, di allevamento e forestali, ivi inclusi i sottoprodotti ottenuti nell’ambito di intese di filiera, contratti quadro oppure da filiere corte, cioè ottenuti entro un raggio di 70 km dall’impianto che li utilizza, con una potenza superiore a 1 MW, è riconosciuto un coefficiente di moltiplicazione dei certificati verdi pari a 1,8.
Questo incentivo verrà applicato a seguito dell’attuazione del Decreto Attuativo del Ministero dell’Agricoltura di concerto con il Ministero dello Sviluppo Economico previa consulta in sede Europea per la definizione di filiera corta.
http://www.scienzaegoverno.org/n/065/065_02.htm
Fonte:AIEL Associazione Italiana Energie Agroforestali
Il disegno di legge in PDF I provvedimenti sono alla pagina 122
Luglio 2009
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La casa ecologica? E’ fatta di riso
Un’azienda Texana ha realizzato un processo che permette di utilizzare gli scarti della lavorazione del riso nella produzione di calcestruzzo per l’edilizia. Si risparmiamo soldi e milioni di tonnellate di CO2. (Franco Severo, 10 luglio 2009)
Volete una casa davvero ecologica e a basso impatto ambientale? Utilizzate calcestruzzo fatto con la pula di riso, ossia con quella pellicola che ricopre i chicchi quando sono sulla pianta e che viene eliminata durante la lavorazione del prodotto. La pula del riso, o lolla, è infatti ricca di ossido di silicio, una componente fondamentale del calcestruzzo. Le sue potenzialità come materiale da costruzione sono note agli scienziati da decenni, ma tutti i tentativi fatti fino ad oggi di utilizzarla, dopo averla bruciata, come sostituto del cemento hanno dato risultati negativi: la cenere della pula è infatti troppo ricca di carbonio per poter essere utilizzata nelle costruzioni.
Cenere pulita. Ma un team di ricercatori del ChK Group Inc, uno studio di ingegneria con sede in Texas, ha recentemente sviluppato un processo di combustione che permette di ottenere ceneri di lolla praticamente prive di carbonio: lo scarto agricolo viene bruciato in fornaci senza ossigeno a una temperatura di 800°C. Il prodotto risultante da questo processo è silicio praticamente puro. Secondo i ricercatori il 20% del cemento convenzionalmente utilizzato nella preparazione del calcestruzzo può essere sostituito con questo silicio di origine vegetale, che oltretutto offre una maggiore resistenza alla corrosione.
Dalla risaia al pilastro. E ne trarrebbe un grande beneficio soprattutto l’ambiente: attualmente la produzione di cemento richiede infatti grandi quantità di energia e secondo uno studio del WWF è responsabile del 8% delle emissioni di CO2 globali. I soli Stati Uniti potrebbero produrre oltre 2 milioni di tonnellate l’anno di silicio vegetale, evitando l’immissione nell’atmosfera di oltre 1.500.000 tonnellate di CO2.
Eco-dollari. Il calcestruzzo ecologico verrà testato nei prossimi mesi: se avrà successo l’azienda che ne detiene i brevetti procederà alla realizzazione di una fornace capace di produrre 15.000 tonnellate di silicio l’anno, che secondo gli esperti potrebbero fruttare almeno 7 milioni di dollari.
La casa più ecologica di tutte? Nasce da un seme. Per vederla clicca qui
http://www.focus.it/natura/ambiente/news/la-casa-ecologica-e–fatta-di-riso_080709_2250.aspx
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Agosto 2009
Urbanistica open source
Mark Gorton, il fondatore di LimeWire ha recentemente annunciato di
aver lanciato un software open source dedicato all’urbanistica,
ispirato al principio del peer-to-peer. L’obiettivo di Gorton è di
stimolare la “progettazione urbanistica di massa, interconnettendo i
dati liberamente accessibili delle biblioteche, le discussioni sui
forum internet ed il già esistente software open source con cui gli
urbanisti possono disegnare la mobilità in base ai bisogni della
gente”. Il fine di questo software è di aprire ad un’audience più
ampia il processo di progettazione urbana e focalizzarla su processi
decisionali partecipativi.
Gorton ha iniziato a lavorare all’urbanistica open source nel 1999
quando ha fondato The Open Planning Project (TOPP), con l’obiettivo
ambizioso di usare il software open source per modellare il trasporto
pubblico ed il traffico nelle aree metropolitane americane. Il suo
progetto ora è diventato realtà. A Portland (Oregon) già è stato usato
il software open source GeoServer per pianificare i percorsi dei bus.
GeoServer è un server software basato su Java, per condividere e
modificare dati spaziali.
“Se dici ‘Voglio andare in bici fino al bus e poi una volta sceso
andare a piedi’, a Google e MapQuest non interessa, (…) ma diventa
una informazione importante se parli di un mondo in cui vuoi provare a
portare la gente fuori dalle loro automobili.”
Il TOPP inoltre finanzia un paio di siti di social networking che sono
interessati all’argomento dell’urbanistica-dal-basso, come
Streetsblog, che si occupa del ‘movimento delle strade vivibili’. La
prossima sfida del progetto è di aggiungere una complessità a più
livelli al software come i dati sulle comunità urbane, cosicchè il
sistema possa incorporare più fattori.
Fonte: Wired
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La precarietà come freno alla crescita
Guglielmo Forges Davanzati – 14 Luglio 2009
La crisi del pensiero liberista si manifesta, al momento, come riconoscimento della necessità di un maggior intervento pubblico in economia, quanto più possibile temporaneo, e preferibilmente limitato alla sola regolamentazione dei mercati finanziari. Nulla si dice sulla deregolamentazione del mercato del lavoro, ben poco se ne dibatte, e si stenta a riconoscere che, nella gran parte dei casi, si è trattato di un clamoroso fallimento per gli obiettivi espliciti che si proponeva: così che la ‘flessibilità’ del lavoro resta, anche in regime di crisi, un totem. E’ opportuno premettere che, ad oggi, in Italia, non si dispone di una stima esatta del numero di lavoratori precari: il che, in larga misura, riflette le numerose tipologie contrattuali previste dalla legge 30, alcune delle quali censibili come forme di lavoro autonomo. L’Istat individua 3 milioni e 400 mila posizioni di lavoro precarie, a fronte dei 4 milioni di lavoratori precari censiti dall’Isfol[1].
Gli apologeti della flessibilità prevedevano, già dagli anni ottanta, che la rimozione dei vincoli posti alle imprese dallo Statuto dei lavoratori in ordine alla libertà di assunzione e licenziamento avrebbe accresciuto l’occupazione, e dato impulso a una maggiore mobilità sociale, tale da portare anche alla crescita delle retribuzioni medie. Dal 2003, anno di entrata in vigore della legge 30 (la cosiddetta Legge Biagi), che ha impresso la più significativa accelerazione alla destrutturazione del mercato del lavoro in Italia, il tasso di occupazione in Italia non è aumentato, e nei tempi più recenti è aumentata semmai la disoccupazione, anche al netto della crisi in atto. Può essere sufficiente ricordare che, come certificato dall’Istat, nel 2008, il tasso di disoccupazione è passato al 6,7%, dal 6,1% dell’anno precedente[2]. Per quanto riguarda i salari, nel rapporto OCSE del maggio 2009 si legge che con un salario netto di 21.374 dollari, l’Italia si colloca al ventitreesimo posto della classifica dei 30 Paesi più industrializzati, e che – nel corso dell’ultimo decennio – è il Paese che ha dato maggiore impulso alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro[3].
Vi sono due ordini di ragioni per le quali le politiche di flessibilità riducono l’occupazione e i salari:
1) La precarietà disincentiva le innovazioni. Ciò accade perché se un’impresa può ottenere profitti mediante l’uso ‘flessibile’ della forza-lavoro, e, dunque, comprimendo i salari e i costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori, non ha alcuna convenienza a utilizzare risorse per finanziare attività di ricerca e sviluppo. Le quali, peraltro, danno risultati di lungo periodo, difficilmente compatibili con ritmi di competizione – su scala globale – sempre più accelerati. La compressione delle innovazioni riduce il tasso di crescita e, di conseguenza, l’ammontare di prodotto sociale destinabile al lavoro dipendente[4].
2) La precarietà riduce la propensione al consumo. La somministrazione di contratti a tempo determinato accresce, infatti, l’incertezza dei lavoratori in ordine al reddito futuro. Al fine di mantenere un profilo di consumi nel tempo quanto più possibile inalterato – ovvero al fine di non impoverirsi nel caso di mancato rinnovo del contratto – è ragionevole attendersi un aumento dei risparmi oggi per far fronte all’eventualità di dover consumare domani senza reddito da lavoro. Contestualmente, per l’operare di ciò che viene definito ‘effetto di disciplina’, la minaccia di licenziamento accresce l’intensità del lavoro. Il corollario è duplice: da un lato, le imprese fronteggiano una domanda di beni di consumo in calo; dall’altro, possono produrre quantità maggiori di beni e servizi con un numero inferiore di lavoratori. L’esito inevitabile è il licenziamento o la non assunzione[5].
A ciò si può aggiungere un’ulteriore considerazione. La compressione della domanda, conseguente alla riduzione dei salari e dunque dei consumi derivante dalle politiche di precarizzazione, incentiva le imprese a ridurre gli investimenti produttivi – dal momento che la produzione di merci non troverebbe sbocchi – e a dirottare quote crescenti del proprio capitale monetario in attività finanziarie[6]. Si tratta di un fenomeno noto come “divenire rendita del profitto”, che è alla base dei recenti processi di ‘finanziarizzazione’, e che è accentuato dall’accelerazione dei tempi necessari di produzione e vendita per far fronte alla concorrenza su scala globale. Si calcola, a riguardo, e con riferimento agli Stati Uniti (e l’economia italiana non ne è esente), che l’emissione netta di azioni da parte delle imprese non agricole e non finanziarie è diventata permanentemente negativa nel periodo compreso fra il 1994 e il 2007[7]. Ciò significa che l’acquisizione di profitti mediante la speculazione nei mercati finanziari è stata la strategia prevalente negli ultimi dieci anni, e preferita dalla gran parte delle imprese (soprattutto di grandi dimensioni) rispetto alla produzione “reale”, ovvero nella produzione di beni e servizi. Il processo ha dato luogo progressivamente a effetti di retroazione: la precarizzazione del lavoro, comprimendo la domanda, ha indotto le imprese a usare le proprie risorse in usi improduttivi, ovvero nella finanza ultra-speculativa, che dà rendimenti elevati e in tempi rapidi mediante il solo scambio di moneta contro moneta. Il che ha determinato un’ulteriore compressione della produzione e, dunque, dell’occupazione e dei salari. Letta in quest’ottica, la precarizzazione è stata – ed è – causa e, al tempo stesso, effetto della finanziarizzazione. Essa ha contribuito al venir meno di quel “patto implicito” sul quale, secondo Keynes, poteva reggersi la riproduzione capitalistica: consentire ai capitalisti di appropriarsi della “parte migliore della torta”, ma solo a condizione di farne investimenti produttivi per farla diventare più grande[8].
[1] Con la precisazione – non irrilevante – che la precarietà riguarda prevalentemente le donne, che già costituiscono il segmento dell’offerta di lavoro meno presente nel mercato del lavoro italiano.
[2] Va considerato che nel periodo che intercorre fra il c.d. pacchetto Treu e il 2006 si è registrato, in Italia, un aumento dell’occupazione, imputato in ambito neoliberista, proprio alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro. Tuttavia, come mostrato in particolare da Antonella Stirati, la crescita dell’occupazione si è avuta nei settori nei quali sono meno diffusi i contratti atipici, così che la crescita dell’occupazione nel periodo considerato deve essere attribuita ad altre variabili. Si veda A.Stirati, La flessibilità del mercato del lavoro e il mito del conflitto tra generazioni, in P.Leon e R.Realfonzo (a cura di), L’economia della precarietà. Roma: Manifestolibri 2008, pp.181-191.�
[3] Le premesse ideologiche di queste politiche sono state efficacemente individuate da Angelo Salento, su questa rivista. Per un’analisi degli aspetti economico-giuridici delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro si rinvia all’intervento di Luigi Cavallaio del 9 dicembre 2008 su questa rivista.
[4] Si rinvia, su questi aspetti, a G. Forges Davanzati and A. Pacella, Minimum wage, credit rationing and unemployment in a monetary economy, “European Journal of Economic and Social System”, 2009, vol.XXII, n.1. Per un inquadramento più generale del problema, sotto il profilo teorico ed empirico, si veda anche P.Leon e R.Realfonzo (a cura di), L’economia della precarietà, Roma: Manifestolibri, 2008.
[5] Per una trattazione analitica di questa tesi, si veda G. Forges Davanzati and R. Realfonzo, Labour market deregulation and unemployment in a monetary economy, in R. Arena and N. Salvadori (eds.), Money, credit and the role of the State, Aldershot: Ashgate, 2004, pp.65-74.
[6] In tal senso, risulta non recepibile la tesi secondo la quale la ‘finanziarizzazione’ dipenderebbe da una modifica delle preferenze degli operatori finanziari, che avrebbero assunto maggiore propensione al rischio. Sul tema, v. A.Graziani, La teoria monetaria della produzione, Arezzo: Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, 1994, pp.155-156.�
[7] Si veda K.H. Roth, Crisi globale, proletarizzazione globale, contro-prospettive. Prime ipotesi di ricerca, in A. Fumagalli e S.Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale, Verona: Ombrecorte 2009, pp.175-208.
[8] Si può incidentalmente osservare che ciò che può sembrare, in prima battuta, un luogo comune – i precari non possono permettersi di fare figli – è, a ben vedere, assolutamente vero. L’Eurispes registra che la scelta della maternità è strettamente legata alle condizioni economico-sociali delle donne e, in particolare, alla precarietà lavorativa. Circa i due terzi degli intervistati si dichiara impossibilitato a progettare un ampliamento del proprio nucleo familiare, imputando questa scelta alla ‘flessibilità’ del proprio contratto di lavoro. L’Istat certifica che, al 2008, l’Italia è tra i paesi al mondo col più basso indice di natalità, con una media di 1,30 figli per donna, il che innanzitutto non consente il cosiddetto “ricambio delle generazioni”, e il tasso di natalità degli italiani è in costante calo da almeno un decennio. Si può indurre che gran parte del fenomeno – che ovviamente attiene anche a modificazioni di ordine sociale e culturale – è imputabile alla straordinaria diffusione di contratti a termine, e ha un risvolto di lungo termine (etico ed economico) che è totalmente trascurato, se non altro perché la riduzione del tasso di natalità – al netto delle immigrazioni – implica una futura riduzione dell’offerta di lavoro e del PIL potenziale futuro.
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La scienza triste e la farfalla di Lorenz
Marco Passarella* – 16 Luglio 2009
Come mai economisti accademici, consiglieri economici ed analisti finanziari hanno sottovalutato e, in alcuni casi, completamente ignorato, i segnali della crisi esplosa nell’estate del 2007? È questa, da molti mesi, la domanda posta insistentemente da quotidiani, blog finanziari e talk show televisivi; al centro di dibattiti e convegni di mezzo mondo. Una riposta semplice, ma non banale, è che da tempo gli economisti hanno abbandonato lo studio dei classici del pensiero economico. È un fatto che nelle università occidentali l’economics, un tempo “economia politica”, sia stata ridotta, nel corso degli ultimi vent’anni, a mero tecnicismo. Un tecnicismo autoreferenziale, autistico[1] – fatto di improbabili microfondazioni e di sofisticati, ma asettici, modelli econometrici – e nient’affatto disinteressato. Da decenni, infatti, gli economisti accademici mainstream sono assurti al ruolo, in verità assai ambito, di moderni consiglieri del principe. Occupano scranni parlamentari, poltrone ministeriali e posti nei consigli di amministrazione di prestigiose banche d’affari e società multinazionali. Un ruolo che garantisce loro notorietà mediatica, denaro e potere; e alla loro disciplina uno status privilegiato nell’ambito delle scienze sociali (si parla, non a caso, di “imperialismo” della scienza economica). Nel 1979 Edward Lorenz, il padre della moderna teoria del caos, si chiese se il battito d’ali d’una farfalla in Brasile potesse provocare un tornado in Texas. Verrebbe oggi da chiedersi se davvero fosse impossibile cogliere l’elemento di insostenibilità dell’attuale assetto economico mondiale, costruito sul binomio deflazione salariale-inflazione degli assets. Un binomio esplosivo che ha reso le economie capitalistiche occidentali, già intrinsecamente instabili (lo sapevano bene Marx, Keynes e Minsky), più simili ai sistemi caotici studiati da Lorenz che al cosmo newtoniano agognato dai cultori della “mano invisibile” del mercato.
I tacchini
Un aspetto paradossale è che proprio mentre gli economisti accademici vengono messi sotto accusa da media ed opinione pubblica per non aver previsto la crisi in atto, l’economia mainstream non è mai stata così pervasiva. Parole d’ordine e categorie di pensiero elaborate nelle università d’oltreoceano, veicolate dall’insegnamento universitario e dal circuito mediale, escono sempre più di frequente dalle mura anguste dei dipartimenti di economics per entrare a far parte del senso comune. Non è difficile scorgerne l’influenza nemmeno in quelle culture che pure si vorrebbero fortemente critiche nei confronti del pensiero dominante. Alcuni esempi? “Scarsità” e “sovranità del consumatore”, categorie-cardine della scienza economica mainstream, costituiscono da tempo la base ideologica di parte delle rivendicazioni provenienti dal mondo ambientalista[2]. Esistono poi luoghi comuni anche più pericolosi e difficili da sradicare, come quelli sulla presunta insostenibilità del debito pubblico italiano o sulla necessità di affiancare alla previdenza sociale pubblica forme di previdenza integrativa privata. Benché non sia stata avanzata, sino ad ora, alcuna seria argomentazione teorica, né sia stata portata alcuna evidenza empirica a sostegno di tali tesi, esse sembrano essere ormai penetrate nel senso comune. D’altra parte, la situazione nelle università italiane non è migliore. Nel corso degli ultimi trent’anni è venuta progressivamente meno non soltanto la critica dell’economia politica, ma la stessa idea di economia politica critica (di Keyens, Schumpeter e Sraffa), ossia di una scienza sociale, politicamente significante. L’avvento dell’econometria sta, del resto, progressivamente azzerando ogni spazio residuo per la teoria economica. Come il tacchino di Russel che, sicuro della robustezza delle proprie osservazioni, si stupì allorché la mattina della vigilia di Natale la padrona, anziché riempirgli come di consueto la ciotola, gli tirò il collo, i moderni economisti si illudono di ridurre la teoria a mera induzione dal dato empirico. Riescono in tal modo a prevedere tutto, tranne… gli imprevisti.
La farfalla
Da dove viene allora la crisi dei mutui? Alla fine degli anni settanta, la rivoluzione conservatrice di Thatcher e Reagan mette fine alla lunga stagione di lotte operaie che aveva visto crescere la quota salari sul PIL in tutti i paesi occidentali, minacciando i profitti delle imprese. Con l’affermazione dei governi conservatori, viene inaugurata una nuova stagione, caratterizzata da bassi salari, alti tas-si di interesse e una politica valutaria di cambi (sostanzialmente) fissi, in grado di assicurare un clima di austerità monetaria. La resistenza delle organizzazioni sindacali è infine fiaccata, ma si mani-festa il rischio di un’insufficienza globale di domanda. Eppure, a partire dagli anni ottanta la varia-bile chiave per la crescita mondiale diventano i consumi privati delle famiglie americane. Gli Stati Uniti, e gli altri paesi anglofoni, divengono la “spugna assorbente” delle eccedenze mondiali[3]. L’Europa può, in tal modo, riscoprire la propria antica vocazione mercantilista, puntando sul traino delle esportazioni nette: macchinari e tecnologia dalla Germania e dai paesi scandinavi; manufatti a basso costo dall’Italia (minacciata, sempre più, dai temibili competitori asiatici). Ma se i salari dei lavoratori americani non crescono, come possono crescere i consumi? La risposta è che, soprattutto nel corso degli anni novanta, crescono vertiginosamente i mercati finanziari e, con essi, la ricchezza finanziaria che alimenta i consumi “autonomi” delle famiglie. Queste ultime sono state inglobate nel meccanismo della finanza globale, anche attraverso la rete della previdenza integrativa. Il salariato americano diviene, così, al contempo, un “lavoratore traumatizzato” (per via dello stallo dei salari e della condizione di crescente precarietà lavorativa), ma anche un “risparmiatore bipolare”, la cui propensione a spendere si lega sempre più all’andamento degli indici azionari[4]. Ma da cosa dipende la crescita esponenziale di Wall Street registrata nel corso degli anni novanta? Essenzialmente da tre fattori: anzitutto, dal massiccio afflusso di capitali dall’estero, in fuga dalle crisi di Messico, Asia e Russia; in secondo luogo, dalla ricerca spasmodica della massimizzazione dello shareholder value delle imprese quotate, attraverso la distribuzione di stock option ai manager; infine, dalla politica monetaria espansiva della Fed che, sotto la direzione di Greenspan, culla il sogno proibito di pilotare l’economia americana, “di bolla in bolla”, via “effetti ricchezza”, lungo un sentiero di crescita indefinita. È il passaggio dal vecchio “Monetarismo” al “Nuovo Consenso”, che configura una sorta di “keynesismo finanziario” caratterizzato da un ritrovato interventismo dello stato in economia, ma con il primato della politica monetaria. D’altra parte, l’inflazione si trasferisce dal mercato dei beni e servizi a quello degli assets (salvo tornare poi periodicamente alle commodities e agli idrocarburi, allorché si manifestano lì migliori occasioni di guadagno in conto capitale)[5].
Il tornado
“La stabilità è destabilizzante”, non si stancava di ripetere Hyman Phelp Minsky[6]. Sicché, a dispetto della retorica sulle proprietà prodigiose della Nuova Economia, la crescita euforica dei mercati finanziari non solo non poteva procedere all’infinito (con piccole start-up tecnologiche quotate più della, pur malconcia, General Motors), vista la leva che era stata fatta sui titoli, ma aveva posto le premesse per una repentina, quanto drastica, inversione del ciclo. Del resto, se è vero che la crisi è sempre la risultante di cause reali, osservava Marx, il punto di inversione viene in genere posticipato, e accentuato, dalla speculazione al rialzo sul prezzo delle merci e dei titoli[7]. In effetti, la crisi scoppiata negli Stati uniti nel 2001 aveva le proprie radici nel lungo periodo di crescita economica culminato negli anni della presidenza Clinton. Ma è solo con l’insediamento di Bush jr. alla Casa Bianca che si assiste allo scoppio della bolla delle dot-com (e qui come non ricordare le considerazioni di Keynes sugli effetti prodotti dal timore di un governo ostile[8]). Nel volgere di poche settimane, gli investimenti cadono a picco, i capitali fuggono, mentre il panico paralizza i consumi delle famiglie. L’amministrazione Bush ricorre alla leva fiscale: taglio della pressione fiscale (sui redditi elevati) e spesa militare. Ma ancora una volta è la leva monetaria, con la repentina riduzione dei tassi di interesse decisa dalla Federal Reserve, a giocare un ruolo decisivo. Lo spavento è grande, ma l’operazione riesce. A partire dal 2003 l’economia americana, e con essa l’economia mondiale, riprende a crescere. E ancora una volta la crescita è trainata dai consumi delle famiglie americane. Stavolta sono il credito al consumo, le carte revolving, i mutui facili e una nuova ingegneria finanziaria a garantire il prodigio. Ma ciò non sarebbe stato possibile senza la politica accomodante della Fed, né senza la modificazione del sistema bancario americano e il conseguente afflusso di capitali verso il settore degli immobili, la cui continua rivalutazione trasforma le case in “bancomat”. Dopo il lavoratore spaventato e il risparmiatore maniacale, si materializza una terza figura: quella del “consumatore indebitato”[9].
L’ombrello
Dal canto loro le banche americane si illudono di aver trovato il modo di scaricare e diluire il ri-schio sull’intera platea di risparmiatori. Per di più, se prima concedevano credito mantenendo un rapporto prestabilito con i depositi della clientela, a partire dagli anni ottanta cominciano a prestare sulla base del loro patrimonio, ossia dei titoli ed delle altre attività iscritte in bilancio . Il debito delle famiglie viene ora stipulato da un broker che lo cede alla banca (mediante una società veicolo), e da questa, una volta opportunamente “impacchettato”, viene ceduto agli investitori istituzionali (fondi speculativi, i ben noti hedge funds, ma anche fondi pensione). A garantire la qualità dei titoli, sovente negoziati in mercati non regolamentati né vigilati (come i credit default swap, CDS), dovrebbero provvedere le cosiddette agenzie di rating (Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch), le quali sostituiscono al tradizionale rapporto fiduciario con il cliente, una stima del rischio di insolvenza ottenuta mediante sofisticati modelli econometrici. A garantire il contenimento e la diluizione del rischio dovrebbero, del resto, provvedere le collarized debt obligations (o CDO), le famigerate obbligazioni “salsiccia”, e gli altri prodotti derivati, i quali trasformano il sistema in una casinò economy. L’illusione è che, in virtù di un mirato processo di packaging, l’ingegneria finanziaria sia in grado di rendere i titoli finanziari più sicuri dei beni su cui quegli stessi titoli si fondano[11]. Ma i titoli non rimangono nelle casse degli investitori. Vengono, invece, utilizzati come garanzia per ottenere nuovi prestiti, magari finendo negli attivi delle stesse banche che li avevano emessi e che su tale base erogano nuovi prestiti. Accade così che la bolla dei consumi venga finanziata con la bolla dei debiti (di famiglie e società finanziarie), alimentata dalla bolla degli immobili, alimentata, a sua volta, dalla bolla del credito[12]. Allorché si verificano le prime insolvenze e la vendita di immobili produce una repentina inversione nell’andamento del loro valore di mercato, ne consegue una deflagrazione colossale. L’incertezza e il sospetto si diffondono come un virus lungo i circuiti telematici della finanza e del credito: nessuno si fida più di nessuno. Siamo all’inizio dell’estate del 2007, ma dovranno passare ancora molti mesi prima che governi, economisti mainstream ed industriali si accorgano di quello che sta succedendo. Aveva proprio ragione il canuto Galbraith, un economista che, all’occasione, non disdegnava di recarsi in soffitta[13]: sarebbe buona norma, di tanto in tanto, separare i soldi (e la scienza economica) dagli imbecilli.
* Questo articolo è la versione riveduta e corretta della “lezione in piazza” tenuta a Ferrara mercoledì 1 luglio. Ringrazio gli studenti dell’“Onda” di Ferrara per la splendida serata e per il loro impegno a favore di un’università pubblica e di qualità. Al solito, la responsabilità per le tesi sostenute deve essere considerata interamente mia.
[1] Autismo che ha suscitato la dura presa di posizione di una parte degli studenti universitari in Francia e Regno Unito. Si veda, al riguardo, il sito autisme-economie.org.
[2] Quanto alla categoria di “scarsità”, il riferimento è non tanto al paventato rischio dell’esaurimento dei giacimenti di idrocarburi, il famigerato picco di Hubbert, quanto allo slogan decrescista secondo cui sarebbe da pazzi pensare ad una “crescita infinita in un mondo finito”. Il fatto è che la crescita economica è crescita di “valori d’uso” solo nella misura in cui questi veicolino un maggior “valore” (in termini monetari). D’altra parte, la stessa crescita in termini di valori d’uso non è necessariamente crescita nella quantità di merci tangibili. Né comporta, di per sé, un maggior impatto in termini di dissipazione energetica (entropia). Il problema non è, dunque, la scelta tra crescita e decrescita, ma, piuttosto, “quale” crescita si voglia. Un problema che attiene alla struttura della produzione, e al comando su tale struttura. Non è, invece, banalmente, una questione di scarsità (si veda, al riguardo, L. Cavallaro, “La nouvelle vague della decrescita”, il manifesto, 16 settembre 2007). Venendo al “consumo critico”, l’idea di una rivoluzione con il carrello della spesa cozza contro l’evidenza che il consumatore, critico o acritico che sia, può scegliere quanto e cosa comprare soltanto a valle del processo produttivo, nei limiti di ciò che è già stato prodotto. Le decisioni circa la struttura della produzione spettano alle imprese. Sono queste ultime ad orientare i comportamenti di consumo (mediante pubblicità, campagne di marke-ting, ecc.) della clientela, e non viceversa. Nulla di male, dunque, nello scegliere un pomodoro biologico o una lattina di Ubuntu Cola. Ma sarebbe bene non farsi troppe illusioni.
[3] Si veda, al riguardo, E. Brancaccio, “La crisi di un mondo di bassi salari”, Liberazione, 19 febbraio 2009.
[4] Si vedano R. Bellofiore e J. Halevi, “Lo stato è intervenuto anche nel ‘neoliberismo’”, il manifesto, 24 ottobre 2008.
[5] I prezzi di beni di consumo e servizi si mantengono, invece, relativamente stabili grazie ai bassi salari e all’afflusso di merci a basso costo dai paesi asiatici (si pensi al fenomeno Wal Mart).
[6] Si veda H. P. Minsky, Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ‘29, Torino: Einaudi, 1984.
[7] Si veda K. Marx, Il capitale. Libro terzo, Roma: Editori Riuniti, 1965[1894].
[8] Si veda J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Milano: Milano Finanza Edito-ri, 2006[1936], p. 292.
[9] Si vedano R. Bellofiore e J. Halevi, “Lo stato è intervenuto anche nel ‘neoliberismo’”, il manifesto, 24 ottobre 2008.
[10] Si veda M. Ricci, “Da subprime a Cdo: la crisi in sette clic”, la Repubblica, venerdì 22 maggio 2009.
[11] È questa, in estrema sintesi, la motivazione sulla base della quale nel dicembre del 1997 l’Accademia di Svezia con-ferisce il premio Nobel per l’economia agli americani R. C. Merton e M. Scholes. Sta di fatto che l’anno successivo, LTCM, l’hedge fund nel cui consiglio di amministrazione siedono i due economisti, dichiarerà fallimento.
[12] Si veda M. Ricci, “Da subprime a Cdo: la crisi in sette clic”, la Repubblica, venerdì 22 maggio 2009.
[13] Giusta l’espressione di Schumpeter per il quale “Senza dubbio, è meglio gettar via i modi di pensiero sorpassati che rimanere attaccati indefinitamente ad essi. Nondimeno, le visite in soffitta possono riuscir profittevoli, purché non duri-no troppo a lungo” (J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Torino: Bollati Boringhieri, 2003[1954], p. 4).
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L’ormone anti-obesità
La nuova molecola combina aminoacidi dei due ormoni naturali glucagone e Glp-1. Testata sui topi, ne riduce il peso del 25% e la massa grassa del 43% in una sola settimana
Un ormone sintetico, ottenuto combinando parti diverse di due ormoni naturali, il glucagone e il Glp-1 (Glucagon-like peptide 1), sembra avere un potentissimo effetto sul senso di sazietà e sul consumo di calorie. Ne danno notizia dalle pagine di Nature Chemical Biology i ricercatori dell’Università dell’Indiana (Usa), che hanno sintetizzato l’ormone chimera e lo hanno testato su alcuni topi, ottenendo una drastica riduzione del peso e della massa grassa in una sola settimana. “Senza alcun evidente effetto collaterale”, scrivono gli autori.
Sia il glucagone e il Glp-1 regolano il metabolismo del glucosio. Sono simili nella struttura, ma differiscono nella sequenza e nel numero di aminoacidi di cui sono composti (il primo ne ha 29, il secondo 30) e nella funzione biologica. Entrambi possono sopprimere l’appetito e aumentare il consumo di calorie.
I ricercatori, guidati da Richard DiMarchi, hanno provato a combinare tra loro diverse sequenze di aminoacidi dei due ormoni per darne un altro analogo in grado di attivare da solo i recettori di entrambi. L’ormone chimera ottenuto è stato poi somministrato con una iniezione sottocutanea in topi obesi. Dopo una sola settimana (e una sola somministrazione), il peso dei topi è diminuito del 25,8 per cento (da 51 grammi a 38 in media), la massa grassa è passata invece dal 42 al 22 per cento. Analogamente, il livello di glucosio nel sangue è diminuito in modo significativo già dal terzo giorno. Nessun cambiamento invece è stato osservato per i topi trattati con un placebo (soluzione fisiologica). I risultati sembrano legati a una maggiore attivazione del recettore del glucagone. (t.m.)
http://www.galileonet.it/news/11718/lormone-anti-obesita
Nota di Paolo Manzelli ( pmanzelli@gmail.com ) al post: Le calorie non si consumano caso mai si disperdono , inoltre sara opportuno studiare bene i problemi che possano emergere da prove simili mediante la nutrigenomica. Vedi: in http://www.edscuola.it/lre.html
ed in :
http://www.descrittiva.it/calip/dna/NUTRIGEN-note.pdf
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Copiando il grafene
I ricercatori del Nest di Pisa hanno ricreato la struttura del grafene all’interno di un semiconduttore, conferendogli eccezionali proprietà
Il primo semiconduttore che presenta le stesse eccezionali caratteristiche del grafene è stato realizzato in Italia, a Pisa, dal Nest (Laboratorio nazionale per le nanoscienze e nanotecnologie) dell’Infm-Cnr (Istituto nazionale di fisica per la materia) e della Scuola Normale Superiore di Pisa.
Scavando la superficie di un semiconduttore con un raggio di ioni, i fisici hanno ricreato su di essa una nanoscultura che, per forma, è indistinguibile dal grafene originale, arrivando a confezionare un prodotto fuori dal comune. Il grafene, infatti, è costituito di un singolo strato di atomi, tutti di carbonio e legati tra loro a nido d’ape, struttura che consente agli elettroni di muoversi al suo interno con estrema facilità e a velocità altissime (vedi Galileo). Attualmente, però, produrre grafene in grandi quantità non è possibile, perché non è facilmente lavorabile né scalabile (riproducibile in diverse scale, cioè misure).
Invece, il semiconduttore utilizzato dai ricercatori del Nest come supporto è in arseniuro di gallio, già impiegato nella costruzione di transistor veloci e laser; questo materiale è facilmente lavorabile e scalabile e, una volta assunta la forma del grafene, ne assume anche le proprietà fisiche. La ricerca ha ancora più valore dal momento che tutte le tecnologie e le apparecchiature utilizzate sono quelle comunemente impiegate nella nanofabbricazione a livello industriale.
“Siamo davvero felici di essere stati i primi ad aver realizzato il grafene artificiale”, hanno commentato Vittorio Pellegrini e Marco Polini del Nest: “Crediamo che questa ‘copia’ già inserita in un semiconduttore – cioè proprio nel posto in cui la vuole l’industria – possa rendere le straordinarie proprietà del grafene più accessibili. Aver conseguito questo risultato ci permette di essere tra i primi a sfruttarne le possibili ricadute applicative”.
L’importanza dello studio, pubblicato nella sezione comunicazioni rapide di Physical Review B, è stata sottolineata anche dalla American Physical Society. (fe.f.)
Riferimento: Synopsis on Phys. Rev. B 79, 241406 (2009)
http://www.galileonet.it/news/11729/copiando-il-grafene
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Nel luglio del 2009 si è verificato l’impatto di una cometa o di un asteroide di diametro inferiore al chilometro nei pressi del polo sud di Giove, che ha prodotto nell’atmosfera del pianeta una macchia scura, simile in dimensioni all’Ovale BA. I segni dell’impatto sono stati scoperti dall’astrofilo australiano Anthony Wesley alle 13:30 UTC circa del 19 luglio 2009 dal suo osservatorio domestico; egli ha comunicato celermente la scoperta ad altri astrofili ed astronomi, incluso il Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA. La macchia presenta caratteritiche simili alle cicatrici lasciate dall’impatto della Cometa Shoemaker-Levy 9 nel luglio 1994
I risultati di alcuni studi, resi noti nel corso del 214° convegno dell’American Astronomical Society, hanno dimostrato che la variabile pulsante semiregolare Betelgeuse ha subito, negli ultimi sedici anni, una riduzione nelle sue dimensioni, indipendente dalla variabilità, pari al 15%: il raggio della stella è infatti passato dalle 5,6 UA del 1993 alle 4,8 UA del 2009, una diminuzione pari alla distanza che separa Venere dal Sole. È oggetto di studio la causa di questa contrazione: alcuni ipotizzano che possa trattarsi di un’oscillazione che preannuncia la sua imminente esplosione in supernova; altri ritengono che la stella, in seguito alla sua rotazione, stia mostrando una differente porzione della sua superficie irregolare.
http://it.wikipedia.org/wiki/Portale:Astronomia
Wikipedia l’enciclopedia libera
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Una cucina elettrizzante
Una stufa, un frigorifero e un generatore di elettricità in un unico dispositivo che trasforma il calore in onde sonore, e queste in corrente elettrica. I progressi del progetto Score
Convertire calore in suono e il suono in elettricità. In altre parole, produrre energia elettrica mentre si è ai fornelli. E’ l’obiettivo dello Score Project: un progetto da due milioni di sterline che impegna ricercatori di tutto il mondo nella realizzazione di una stufa capace di convertire il calore generato dalla combustione di biomassa in elettricità.
Score è l’acronimo di Stove for Cooking, Refrigeration and Electricity che significa, appunto, “stufa per la cucina, la refrigerazione e l’elettricità”. Dal 2007 coinvolge numerosi atenei britannici guidati dall’Università di Nottingham e sotto la “supervisione” di governi, centri di ricerca e organizzazioni civili dell’Africa e dell’Asia, il cui compito è assicurarsi che tutti gli sforzi si concretizzino in qualcosa di utile e accessibile ai paesi in via di sviluppo.
La rivoluzionaria stufa sfrutta i principi della termoacustica, grazie alla quale è possibile generare onde sonore a partire dal calore sprigionato da un combustibile che brucia. A questa tecnologia, già sperimentata con successo nei Los Almos Laboratories, si accompagna un filone di ricerca innovativo. I ricercatori del Dipartimento di ingegneria elettrica ed elettronica dell’Università di Nottingham sono infatti al lavoro per costruire un dispositivo – un alternatore lineare – che permetta di convertire il suono in elettricità attraverso un sistema di magneti. L’energia elettrica così prodotta servirà ad alimentare un piccolo frigorifero per conservare i cibi e magari per illuminare.
Attualmente, dopo simulazioni computerizzate e test in laboratorio, gli alternatori sono in fase di sperimentazione in Gran Bretagna, Nepal e Kenya. Al termine del collaudo, previsto per il 2012, i generatori (dal peso compreso tra i dieci e i dieci chilogrammi) saranno venduti al prezzo di 20 sterline e produrranno un’ora di energia elettrica per ogni chilo di combustibile usato, per esempio, per cucinare. Ad oggi, infatti, le popolazioni delle zone rurali dell’Africa e dell’Asia usano biomasse per cuocere cibi e scaldarsi. Questa pratica, oltre ad essere inefficiente dal punto di vista energetico (fa perdere circa il 93 per cento di energia) è anche dannosa per la salute a causa dei fumi generati ed inalati negli ambienti domestici.
In attesa che gli alternatori siano prodotti su scala industriale, l’appuntamento è per il 2010 a Shanghai in occasione dell’Expo “Better City Better Life” dove i membri del progetto sono stati invitati a presentare la loro tecnologia. (m.s.)
Luglio 2009
Riferimenti: Univeristy of Nottingham
http://www.galileonet.it/news/11739/una-cucina-elettrizzante
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Il testamento biologico si fa su Google
Il nuovo servizio Google Health preserverà le decisioni di fine vita dei cittadini Usa
A chi affidare il testamento biologico? C’è chi lo mette su Facebook o su Youtube, chi compila biocard sui siti di enti o associazioni (per esempio quelli di Consulta di bioetica onlus, Fondazione Veronesi, Associazione Luca Coscioni, A buon diritto… vedi Galileo) e ora c’è anche chi lo fa su Google. Il nuovo servizio del motore di ricerca, Google Health – in cui è possibile creare un profilo con informazioni dettagliate sul proprio stato di salute – dà infatti la possibilità di formalizzare la propria decisione di fine vita.
Per ora il modulo per l’“advance directive” è riservato ai residenti Usa: lo si scarica dal sito di Caring Connection, il programma della National Hospice and Palliative Care Organization (Nhpco) per migliorare l’accesso alle cure palliative, partner dell’azienda di Mountain View.
Naturalmente è possibile scegliere con chi condividere le informazioni (Google garantisce infatti la privacy) e l’health care agent, cioè la persona che potrà prendere le decisioni per il malato. A seconda dello stato in cui si vive, si trovano i riferimenti alle normative vigenti. Il documento, firmato da due maggiorenni, ha valore legale. (t.m.)
Luglio 2009
http://www.galileonet.it/news/11738/il-testamento-biologico-si-fa-su-google
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Agosto 2009
Aids: decodificato per la prima volta intero genoma HIV
ROMA – Per la prima volta è stata decodificata la struttura dell’intero genoma del virus Hiv 1, responsabile, come il virus Hiv 2, della sindrome dell’Aids. Il risultato, che si è guadagnato la copertina del numero di Nature di domani, si deve a un gruppo di ricerca americano coordinato da Kevin Weeks dell’università della North Carolina e, secondo gli autori, apre la strada ad ulteriori ricerche che potrebbero accelerare lo sviluppo di farmaci antivirali. Avere a disposizione la mappa del Dna di questo virus ha grandi implicazioni per la comprensione delle strategie che il virus mette in campo per infettare le persone. Il virus Hiv si suddivide nei due ceppi Hiv 1 e Hiv 2: il primo è più diffuso e localizzato prevalentemente in Europa, America e Africa centrale, il secondo è localizzato soprattutto in Africa e Asia. Questo virus, spiegano gli autori, trasporta le sue informazioni genetiche attraverso un singolo filamento di Rna anziché i due filamenti del Dna. L’informazione codificata nel Dna è quasi per intero nella sequenza dei suoi blocchetti di costruzione, chiamati nucleotidi. Ma l’informazione codificata nell’Rna è più complessa: l’Rna è abile a piegarsi in strutture più intricate e tridimensionali che si creano quando l’Rna si ripiega su se stesso come se fosse un nastro. Kevin Weeks e i colleghi hanno usato una tecnologia di analisi dell’Rna chiamata Shape per decodificare l’intera struttura del genoma del virus a livello di un singolo nucleotide. Come sospettato, la composizione dei nucleotidi influenza la produzione delle proteine, ma il team ha anche mostrato che le strutture dell’Rna influenzano molti passaggi nel ciclo infettivo dell’Hiv: come per esempio la traslazione e il ripiegamento delle proteine. Lo studio ha numerose implicazioni, sia per sviluppare nuovi farmaci sia “per comprendere – sottolinea Weeks – altri ruoli nel genoma dell’Rna che sono importanti per il ciclo di vita di questi virus”. Non solo: grazie alla decodifica, gli scienziati guidati da Weeks hanno cominciato anche a comprendere quali sono i trucchi che il genoma usa per aiutare il virus a non essere individuato nel corpo umano.
http://www.ansa.it/opencms/export/site/visualizza_fdg.html_1623956510.html
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Dal nuovo 41 bis all’attacco alla libertà di associazione – Le norme del
“Pacchetto sicurezza” di cui non si parla
E’ senz’altro comprensibile, perché si tratta di questione importantissima,
che i commenti e le proteste relative all’approvazione del disegno di legge
sulla sicurezza (o ennesimo “pacchetto sicurezza”) si siano incentrate sul
tema dell’immigrazione (reato di immigrazione clandestina, prolungatissima
permanenza nei campi di detenzione amministrativa, ecc), o anche sul tema
delle c.d. “ronde”.
Ma vi sono, inserite in questa legge, altre disposizioni che pur meritano
una elevata attenzione, e sulle quali, invece, vi è assoluto silenzio,
probabilmente non a caso.
Ed è di alcune di queste norme che voglio, ora, rapidamente occuparmi, pur
nella consapevolezza che sarà indispensabile un pieno e completo
approfondimento del contenuto, e del significato, di questa legge.
1) L’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario è stato ulteriormente
modificato con un pesantissimo aumento delle restrizioni. La stessa agenzia
ANSA, alla data del 18 maggio scorso, scriveva che il ministro Alfano aveva
dichiarato: “Le nuove norme del 41 bis. sono fortissime, ed è stato fatto il
massimo che è proprio al limite della Costituzione” (e se lo dichiara lui.).
Orbene, è ora previsto che “i detenuti sottoposti al regime speciale di
detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro
esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari.
custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria”.
I colloqui sono ridotti da due a uno al mese. Il (possibile, solo possibile)
colloquio telefonico mensile è ora alternativo al colloquio “di persona”. L’ascolto
e la registrazione audio, da soltanto possibili diventano ora obbligatori
nella forma della “videoregistrazione”. E’ posto un limite ai colloqui con
il difensore (non più di tre alla settimana e di durata, ciascuno, non
superiore a quella del colloquio con i famigliari). All’aria sarà
possibile essere in un massimo di quattro persone, e per un massimo di due
ore al giorno, con “assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti
appartenenti a diversi gruppi di socialità” e perfino di “scambiare oggetti
e cuocere cibi”.
Chiunque, poi, consentirà a un detenuto sottoposto al regime di cui all’art.
41 bis di “comunicare con altri” (quindi anche soltanto scrivere una lettera
a un giornale) sarà punito con la reclusione da uno a quattro anni e, se
avvocato, da due a cinque anni.
E’ poi clamorosa la istituzione di un tribunale speciale per i reclami
contro l’applicazione del 41 bis: a decidere non sarà più il tribunale di
sorveglianza competente sul carcere ove il detenuto si trova, ma solo il
tribunale di sorveglianza di Roma.
L’estensione temporale del regime del 41 bis è stata, inoltre, estremamente
allargata: se prima era pari ad un periodo iniziale da 1 a 2 anni,
prorogabile più volte per un anno, ora il provvedimento applicativo ha
durata iniziale pari a quattro anni, prorogabile poi di due anni in due
anni.
A questo punto è necessario anche un richiamo al contestuale rimodellamento
del circuito Carcerario di Alta Sicurezza (AS), effettuato con circolare del
21 aprile 2009 del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP), che ha
accorpato nell’AS il circuito EIV (elevato indice di vigilanza, in
precedenza applicato ai politici) perché “costantemente percepito come
maggiormente afflittivo” tanto che “gli organismi giudiziari europei. hanno
già avuto modo di accoglierne le doglianze (dei detenuti inseriti in quel
circuito, n.d.r.) dichiarando la violazione dell’art. 6 par. 1 della
Convenzione” (così si esprime la circolare!). Per cui, oplà, si cambia nome,
e l’Alta Sicurezza viene articolata in AS1 – AS2 (ex EIV) e AS3, con aumento
della differenziazione dei prigionieri a seconda dell’identità (“tenendo
distinte le diverse appartenenze a organizzazioni terroristiche”).
2) Il grosso lavoro (normativo, organizzativo e “strutturale”), in corso sul
carcere, ne aumenta la “centralità”.
Ed è allora opportuno ricordare come in vari recenti provvedimenti
legislativi, qua e là siano state inserite norme che – appunto – lo
riguardano: ad esempio nel cosiddetto decreto “antistupri”, convertito nella
Legge 23 aprile 2009 n. 38, è stata estesa l’obbligatorietà del carcere,
quale unica misura cautelare possibile, anche agli imputati di reati
politici (ovvero di c.d. terrorismo), che peraltro nulla avevano a che fare
con l’oggetto della legge (“contrasto alla violenza sessuale”).
Insomma, nonostante la regola generale sia che “la custodia cautelare in
carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti
inadeguata” (art. 275, n. 3, cpp), in un primo tempo per gli accusati di
associazione mafiosa, e ora, oltre che per gli accusati di violenza sessuale
e connessi, anche per gli accusati di reati politici, se vi sono esigenze
cautelari, l’unica risposta è il carcere (nessuna possibilità di obbligo di
presentazione alla polizia, di obbligo di dimora, o di arresti domiciliari).
3) Tornando al c.d. “pacchetto sicurezza”, con la sua approvazione viene
pesantemente limitata la libertà di associazione: è infatti previsto che
“quando si procede per un delitto consumato o tentato con finalità di
terrorismo anche internazionale e sussistono concreti e specifici elementi
che consentono di ritenere che l’attività di organizzazioni, di
associazioni, movimenti o gruppi favorisca la commissione dei medesimi
reati, può essere disposta. la sospensione di ogni attività associativa”. E
quando vi sia sentenza irrevocabile che accerti che l’attività di
organizzazioni, ecc. “abbia favorito.”, il Ministero dell’Interno ordina con
decreto lo scioglimento e dispone la confisca dei beni.
Ora tutti sappiamo che quando vi è il sospetto che venga favorita la
commissione di un delitto con finalità di terrorismo, l’Autorità Giudiziaria
incrimina per concorso nel reato stesso. Quanto labili potranno, perciò,
essere i “concreti e specifici elementi” è facilissimo immaginare. Del resto
questi “specifici elementi” debbono solo “che l’attività di gruppi o
associazioni favorisca.”. Insomma siamo pressoché nel “consentire di
ritenere” campo di una piena discrezionalità. Ma quello che è più importante
sottolineare è che una simile norma può costituire il mezzo per colpire
associazioni assolutamente legali, pur nella loro assoluta contrarietà agli
attuali ordinamenti economico-sociali, interni e internazionali. Basti
pensare alle associazioni di solidarietà internazionale che sostengono i
gruppi che sono inseriti, come pretesamente terroristi, nelle “Liste Nere”,
o, anche, a quei gruppi che sostengono i prigionieri politici. Del resto,
cardine anche di questa norma, è la nozione assolutamente generica di
terrorismo, inserita nel nostro ordinamento con il ben noto decreto Pisanu
del luglio 2005 (art. 270 sexies c.p.: “Sono considerate con finalità di
terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare
grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono
compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri
pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal
compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture
politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o
di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite
terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre
norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”.
E proprio tale nozione, in astratta prospettiva, consente di allargare a
dismisura il panorama delle associazioni o gruppi che potranno essere
oggetto dei procedimenti di scioglimento.
4) Se quanto fin qui esposto mi sembra da porre al centro dell’attenzione,
si può anche “spigolare”qua e là nella legge, e vedere come vi siano spunti
repressivi un po’ per tutti.
Per i movimenti nelle piazze sono aumentate, in modo assai consistente, le
pene (in presenza di determinate circostanze, quali il travisamento, le più
persone riunite, il luogo dove avviene il fatto) per il porto delle armi da
guerra, cui – come noto – sono equiparate le bottiglie molotov, e per il
porto delle armi improprie (i semplici oggetti “atti ad offendere”).
E’ poi reintrodotto il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, abrogato
nel 1999, con previsioni di una pena (fino a tre anni invece che fino a due)
addirittura superiore a quella precedente ed abrogata.
Ma il legislatore “legge e ordine” ha un occhio di riguardo per tutti – e
qui il tono non può che diventare grottesco, anche per stemperare la
cupaggine del discorso, giungendo ad aumentare le pene anche per l'”imbrattamento”,
prevedendo sanzioni per chi vende bombolette spray con vernici non
biodegradabili ai minorenni e per chi “insozza le pubbliche strade gettando
rifiuti od oggetti dai veicoli in movimento o in sosta” (da 500 a 1.000
Euro).
5) Ora, e tornando al cuore della questione, un’ultima, rapida,
considerazione, che si ricollega alla iniziale notazione sul silenzio che ha
circondato l’approvazione di queste norme (e non mi riferisco più all'”imbrattamento”).
Questo silenzio io lo spiego con l’accordo di tutte le forze politiche,
accordo che si era già verificato, ad esempio, nella rapidissima
approvazione del decreto Pisanu, e che trae origine dalla connaturata
propensione alla repressione di quello che viene definito centro sinistra
(già propugnatore, a suo tempo, dell’inserimento permanente del 41 bis nell’Ordinamento
Penitenziario, già contrario a che l’Italia ottemperi alle ripetute
richieste del Consiglio d’Europa – Convenzione di Strasburgo di introdurre
una norma che preveda la revisione dei processi giudicati “non giusti” dalla
Corte di Strasburgo).
http://piovarolo.splinder.com
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Guerra è sempre
Loredana Biffo, 04 agosto 2009
La riflessione La pillola abortiva “banalizzerebbe” l’aborto, poiché “le donne sono inaffidabili non percepiscano la gravità del loro atto perché non soffrirebbero abbastanza”, e che quindi non estinguano il senso di colpa attraverso l’espiazione, queste sono le parole del presidente del Movimento per la Vita Carlo Casini. Peccato però che la guerra da anni viene fatta anche contro gli anticoncezionali, e poiché la storia non è sicuramente maestra di vita (perlomeno in Italia), per cattiva memoria, o peggio, per cattiva coscienza, mi permetto di ricordare che in passato (1487) l’imposizione di questo modello portò alla famigerata “caccia alle streghe”
“Ma la guerra è finita, – obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. “Guerra è sempre”, rispose memorabilmente Mordo Nahum detto “il greco”. (Da “La tregua” di Primo Levi”).
Questa frase, letta quando ero adolescente, sul bellissimo e celebre libro “Se questo è un uomo – La tregua”, di Primo Levi, mi è tornata in mente in questi giorni leggendo sui giornali tutto ciò che è stato detto dalle gerarchie vaticane a proposito della pillola abortiva Ru486, e non ho potuto fare a meno di pensare che quella della Chiesa è una sistematica battaglia ideologica, che si compie nei confronti delle donne da tempi remoti. Non di meno la guerra alle donne, alla loro libertà, viene perpetuata dalla violenza maschile che sembra sempre più feroce, stando alle statistiche sugli omicidi, una donna muore ogni tre giorni a causa della violenza di un uomo, dati che fanno rabbrividire.
Il 1 Agosto Lucetta Scaraffia, ha scritto sul Riformista che la condanna della Chiesa, è definitiva, e che non c’è nessuna ragione di sorprendersi, né di pensare che i cattolici si apprestino a riprendere una battaglia che, persa su un piano politico, continuano a combattere con un certo successo sul piano dell’assistenza alle madri. Infatti pare che i cattolici siano preoccupati della salute della donna, in quanto (sempre secondo loro), i rischi per la sua salute comportati dalla famigerata pillola sono notevolmente più alti, che il metodo farmacologico è più doloroso, sia fisicamente che psicologicamente rispetto all’ l’intervento chirurgico; e che per di più sarebbero state ben 29 le morti accertate a causa di complicazioni, non specificano però né in quanti anni, né in quanti paesi questi decessi sarebbero avvenuti. Inoltre (sempre secondo Lucetta Scaraffia) con questo farmaco le donne tornano ad abortire da sole, più di nascosto, ed eludendo i medici obiettori possono più facilmente nascondere a se stesse ciò che stanno facendo, evitando così di prendere coscienza di tale atto, non assumendosene quindi la responsabilità.
Ma la cosa più interessante è l’accusa che la Scraffia lancia alle femministe, le quali secondo lei sarebbero colpevoli di starsene in silenzio, invece di insorgere contro questo “nuovo” comportamento furtivo femminile, e di non difenderle dalla loro stessa disinformazione e leggerezza con cui si accingono ad affrontare un aborto farmacologico. Femministe e laici sposerebbero così le ragioni della Exegyn, la multinazionale farmaceutica che producendolo la Ru486, ha tutto l’interesse a presentarla come un “nuovo passo per la liberazione della donna”, senza ascoltare le voci contrarie, etichettate – secondo un vecchio ritornello – come oscurantiste e nemiche della libertà femminile.
Bene, io quando nacque il movimento femminista ero una ragazzina, ma seguii con interesse le vicende che riguardavano l’aborto, la contraccezione, e non di meno, il divorzio; a tal proposito iniziai fin da giovanissima a pensare che la vera tragedia delle donne fosse l’aborto clandestino, quello che al posto della chirurgia, si praticava con i ferri da calza, oppure con decotti di prezzemolo, metodi che hanno fatto morire migliaia di donne, e che ai nostri “paladini difensori”, interessi esclusivamente l’embrione; le donne, le intendono esclusivamente come portatrici dello stesso.
Tanto per dare un piccolo esempio di una tradizione sessuofobica, misogina, di chiara matrice cattolica, che ha inciso le coscienze con stereotipi e pregiudizi, che ancora oggi riaffiorano nel nostro cosiddetto “civile occidente”, nonostante i processi d’emancipazione tanto faticosamente ottenuti dalle donne; si leggano e rivisitino frasi del tipo:
“La donna (…) quello che non riesce ad ottenere da sola, cerca di raggiungerlo con la falsità e con inganni demoniaci (…) l’uomo si deve guardare da ogni donna, come da un serpente velenoso e da un demonio cornuto (…)” S. Alberto Magno, Quaestiones super de animalibus, XV q.11.
“Io non vedo per quale aiuto la donna sia stata fatta per l’uomo, se si esclude il fine della procreazione” S. Agostino, De genesi ad litteram, cit.,9.
“Ella ha accolto la sua vocazione privilegiata, ma tutt’altro che facile, di sposa e di madre (…) mettendosi al servizio di Dio, Ella si è posta anche al servizio degli uomini (…)”
Lettera del Papa Giovanni Paolo II alle donne, 10.
Papa Woityla ha fatto del Vangelo un Evangelium vitae, dove primeggia il diritto dell’embrione, anche quando è il risultato della violenza, assimilando omicidio, aborto e genocidio:
“Quanto apprezzamento meritano (…) le donne – scrive il papa – che con eroico amore per la loro creatura, portano avanti una gravidanza legata all’ingiustizia di rapporti imposti con la forza!” C. Woityla, Lettera alle donne, 5.
“Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto (…) tutto ciò che viola l’integrità della persona umana; tutte queste cose, (…) guastano la civiltà umana, (…) ledono grandemente l’onore del Creatore” C. Woityla, Evangelium vitae, cit., introduzione, 3.
E’ evidente che secondo la Chiesa la realizzazione della donna, è ancora legata al mito dell’Annunciazione, con la sussunzione che aderisca ad una vocazione alla maternità, conferitale dal divino, e che per tale motivo ella non può rifiutarsi di esercitare sempre e a qualsiasi condizione (si ricordi la scomunica al medico che praticò non molto tempo fa, l’aborto a una bambina di nove anni vittima di violenza sessuale); un discorso focalizzato sulla definizione di un modello culturale, che , anche nella “lettera ai vescovi sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa nel mondo”, pubblicata il 31 luglio 2004, firmata dal cardinale Joseph Ratzinger, rimane quello di Madonna, Madre e Vergine, negando in tal modo qualsiasi sviluppo storico antropologico della donna nella società, una condanna ad ogni aspirazione, all’autodeterminazione, in virtù di una concezione creazionistica, venduta ancora una volta come unica, vera ed eterna per natura. Per il fatto stesso che l’embrione, l’ovulo fecondato, è considerato vita compiuta, questa visione che ha determinato la trasformazione in legge dello Stato, stabilendo le regole per la fecondazione assistita; in una visione della donna che “madre” e “sposa” per vocazione divina, quindi dedita al sacrificio “per natura”.
Il timore è che la pillola abortiva banalizzi l’aborto, poiché le donne sono inaffidabili non percepiscano la gravità del loro atto perché non soffrirebbero abbastanza, e che quindi non estinguano il senso di colpa attraverso l’espiazione, queste sono le parole del presidente del Movimento per la Vita Carlo Casini. Peccato però che la guerra da anni viene fatta anche contro gli anticoncezionali, e poiché la storia non è sicuramente maestra di vita (perlomeno in Italia), per cattiva memoria, o peggio, per cattiva coscienza, mi permetto di ricordare che in passato (1487) l’imposizione di questo modello portò alla famigerata “caccia alle streghe”, e alla stesura ed conseguente utilizzo del Malleus Maleficarum, il manuale dell’inquisizione sulla caccia alle streghe e le sue applicazioni, nel quale si davano anche consigli contro le obiezioni laiche, perchè il predicatore deve essere accorto a proposito ti talune argomentazioni dei laici e di “esperti”,nel Malleus le donne erano descritte come “peggiori degli ebrei”, perchè a differenza di questi ultimi esse rinnegano il battesimo e fornicano con il demonio; insomma, sono il male “perchè sono donne”. La misoginia nel testo, è irrefrenabile, le donne sono mostri seducenti dotati di una insaziabile concupiscenza carnale: il peccato del sesso, è il segno della strega.
Ancora oggi l’ossessione sessuofobica, nata dal controllo della donna e del suo ventre, continua ad emergere attraverso precetti dati da uomini, come diceva Pasolini negli Scritti Corsari: “esse sono in realtà andate più indietro delle madri, resuscita intorno a loro terrore e conformismo, e nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre”. A tal proposito mi sento di poter dire a Lucetta Scaraffia che le femministe non sono affatto silenziose, e penso di interpretare lo sdegno e l’insofferenza di molte donne italiane che si sentono offese e umiliate ogni giorno dai comportamenti del Presidente del consiglio e il patetico machismo che propone come modello agli italiani “grandi scopatori”; dalle incursioni vaticane nella loro sfera privata e nella loro libertà di scelta, e visto che siamo anche cittadine dell’Europa, vorremmo che anche in Italia, sebbene con anni e anni di ritardo ci fosse la democratica possibilità di scegliere come abortire, e che comprendessero i vescovi, che i loro anatemi e le loro leggi proibizioniste non sconfiggeranno mai il dramma e il senso di perdita causato dall’interruzione di una gravidanza; per quanto mi riguarda poi, penso che “loro” in quanto uomini, non potranno mai nemmeno minimamente comprendere questo dolore secolare delle donne, quindi per favore si facciano da parte, che le donne sono dotate del ben dell’intelletto, e non abbisognano della loro protezione.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=12716
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Domani online: il frenetico giro di Álvaro Uribe in America latina
Caro Giuseppe Giulietti, sul Venezuela sbagli
Agosto 2009
Caro Giuseppe Giulietti,
leggo un tuo duro attacco contro il governo venezuelano dalle pagine di “Articolo 21”, associazione nelle finalità della quale mi riconosco pienamente. La stima che ho per te mi fa scorgere il fumo del “sentito dire” e il condizionamento del continuo inquinamento delle fonti operato dal mainstream.
Il Venezuela è un laboratorio mediatico senza pari al mondo. Come tutti i governi integrazionisti latinoamericani ha dovuto fronteggiare, inizialmente senza strumenti legislativi, un irriducibile “latifondo informativo commerciale”, contrario spesso in maniera eversiva ai governi di centro-sinistra. Tale latifondo considera (strumentalmente) ogni possibile democratizzazione del sistema mediatico come un attacco all’unica libertà d’espressione che ha a cuore, la propria.
In questo contesto la demonizzazione sempre più marcata dei processi politici latinoamericani, e in particolare quello venezuelano vede inoltre sempre più spesso accostare il presidente Hugo Chávez a Silvio Berlusconi, dipinti come due autocrati accomunati dalla smania di controllare i media. Tale accostamento è diffamatorio per il governante bolivariano. Semmai è vero il contrario: Chávez è massacrato da anni da un sistema mediatico di stile berlusconiano per squallore morale, potere economico e pervicacia della disinformazione.
In Venezuela, come nel resto dell’America latina, media commerciali ademocratici se non apertamente antidemocratici, dei quali sono proprietari uno o pochi soggetti economicamente dominanti e con rilevanti alleanze internazionali, mediatiche, politiche ed economiche, bombardano quotidianamente i governi integrazionisti facendosi beffe di ogni deontologia ed etica professionale. Ancora domenica scorsa il presidente boliviano Evo Morales ha denunciato un complotto tendente a diffamare i suoi omologhi venezuelano ed ecuadoriano, Hugo Chávez e Rafael Correa. Sui nostri giornali ho visto riportare la calunnia ma non la denuncia della stessa.
Il caso venezuelano è paradigmatico perché il sistema televisivo privato tutto fu protagonista del fallito colpo di Stato dell’11 aprile 2002 e successivamente, come senz’altro sai, dai media commerciali in questi anni si è più volte incitato ad assassinare il capo dello stato. Cosa succederebbe se in Italia, nel corso di un talk show, magari ad Anno Zero, si incitasse il pubblico a prendere un fucile di precisione e sparare contro il capo del governo Silvio Berlusconi?
Quella eversiva è solo la punta dell’iceberg. Dai media commerciali venezuelani vengono quotidianamente lanciati messaggi incostituzionali, indecenti, indiscutibilmente diseducativi. Ciò in aperta, fragrante e cosciente violazione alle leggi dello Stato che vengono continuamente sfidate, per esempio non rispettando le fasce protette per l’infanzia o incitando alla discriminazione e all’odio razziale. Tali violazioni sono distribuite in tutto il palinsesto, dai TG ai talk-show fino agli spot pubblicitari e alla fiction.
Ogni volta che in questi anni il governo ha legittimamente tentato di far rispettare le leggi, le televisioni e i media commerciali hanno alzato il livello dello scontro sapendo di contare sull’appoggio esterno (in buona o malafede) di chi cadeva nel facile paradigma del “tiranno tropicale che censura media indipendenti”.
Ricordo qui un esempio tra i tanti. Nell’aprile 2008 i nostri giornali si tuffarono sulla notizia che il perfido Chávez aveva censurato il cartone animato statunitense dei Simpson. “La Stampa” di Torino parlò di “museruola chavista contro il cartoon imperialista”. Balle: in realtà i Simpson non erano censurati ma solo considerati come non adatti alla fascia protetta, esattamente come avviene negli Stati Uniti. A un giornalista onesto sarebbero bastati cinque minuti per verificare.
E’ con tali esempi di cialtroneria che si crea il paradigma falso e tendenzioso del “tiranno tropicale che censura media indipendenti”. Ci si rende così complici dei media commerciali al di fuori di ogni regola quando non in maniera apertamente eversiva. Con stima e sinceramente ti domando e domando alla FNSI: cosa deve fare un governo democratico di fronte a un attacco così brutale, sistematico e organizzato?
A chi immagina senza conoscere un Venezuela dominato dalla propaganda ufficiale, ricordo che nelle ultime elezioni presidenziali una commissione di osservatori internazionali, della quale ho fatto parte, ha calcolato che oltre i due terzi dei media era controllato dall’opposizione. Mentre scrivo queste righe a Caracas è l’alba e, come sempre da dieci anni a questa parte, i chioschi dei giornali si popolano di quotidiani quasi totalmente avversi al governo e con un livello di aggressività personale nei confronti del capo dello Stato da noi sconosciuta e che il governo venezuelano tollera.
Nonostante tale insostenibile pressione nessun media in dieci anni è stato chiuso in Venezuela. Tale semplice verità non basta ad evitare che Chávez sia presentato come il “tiranno tropicale che attacca i media indipendenti” che indipendenti non sono affatto. Mi domando perché due mesi fa, quando il governo peruviano chiuse dalla sera alla mattina, senza che scadesse alcuna concessione, “Radio la Voz” degli indigeni dell’Amazzonia, colpevole di informare della resistenza di quelle genti nessuno, né “Articolo 21”, né la FNSI ha protestato. Siamo tutti adulti e capiamo perché Chávez faccia scandalo di per sé sempre mentre Alan García possa agire nel silenzio complice del sistema mediatico mondiale.
Il canale televisivo RCTV, apertamente golpista (e non è un dettaglio), fu trasferito sul cavo perché la concessione dell’etere era scaduta. Chi scrive fu forse l’unico giornalista italiano a presenziare dal vivo alle manifestazioni dell’opposizione che avvennero in diretta televisiva e con maxischermi in tutte le piazze di Caracas. Altro che bavaglio e censura; il governo aveva il pieno diritto di decidere essendo l’etere un bene pubblico. Ogni anno nel mondo non vengono rinnovate decine di concessioni dall’Australia agli Stati Uniti, dalla Colombia all’Unione Europea, senza scandalo alcuno salvo che quando si tratta di Chávez.
A tal proposito sarei curioso di sapere quando scadrà la concessione di Mediaset, o se è per caso perpetua, e se nel nostro paese qualcuno ritenga che sia opportuno o socialmente utile non rinnovarla e magari riassegnare le frequenze ad altri soggetti, pubblici o privati, che ne facciano miglior uso per il bene comune.
A chi sostiene che sia un attentato alla libertà di espressione non rinnovare automaticamente concessioni scadute, rispondo che ha ragione Hugo Chávez quando parla di “latifondi mediatici” che un governo democratico ha il dovere e la legittimità per redistribuire. “Libertà di espressione” vuol dire garantire la stessa a molteplici soggetti, non solo ai soliti due o tre nei secoli dei secoli. Altrimenti dovremmo concludere che l’etere non è un bene pubblico dato in concessione ma una proprietà privata che può essere ereditata di generazione in generazione, di padre in figlio come è accaduto in Venezuela e come sta accadendo in Italia da Silvio a Piersilvio senza che ciò causi particolare preoccupazione.
Proprio rispetto a ciò, rispetto a quella che nel mio libro “Giornalismo partecipativo” che uscirà in autunno, definisco non in riferimento al Venezuela come un’indispensabile “riforma agraria dell’informazione”, il paese sudamericano sta scrivendo alcune delle pagine più interessanti al mondo. In questi anni la libertà conquistata con la Costituzione partecipativa bolivariana, ha fatto nascere e prosperare centinaia di radio comunitarie, di qualunque tendenza politica, che hanno abbassato sensibilmente l’assicella della concentrazione editoriale ed economica necessaria a fondare e far funzionare un media favorendo un pluralismo che il sistema mediatico mainstream impedisce.
In tale contesto i soggetti dominanti si stracciano le vesti perché divengono un po’ meno dominanti. Non mi straccerò le vesti con loro e propongo un’altra lettura: non c’è democratizzazione possibile dell’informazione senza intaccare il potere di tali soggetti dominanti.
Certo, il senatore del PD Stefano Passigli ha scritto un libro intero, “Democrazia e conflitto d’interessi” per spiegarci che in Italia non abbiamo fatto la legge sul conflitto d’interessi per evitare che il soggetto dominante Berlusconi “facesse la vittima”. Per la nostra vigliaccheria dobbiamo piegarci alla stessa logica nel commentari cose d’America latina?
Il discorso sarebbe lungo, ma mi piace chiudere ricordando Telesur, la prima televisione pubblica multistatale al mondo, con base a Caracas, che in questo mese e mezzo ha seguito secondo per secondo il golpe in Honduras in condizioni di particolare rischio per i propri inviati e tecnici e supplendo all’assenza colpevole dei grandi network. Nel frattempo i nostri TG applaudivano al dittatore di Bergamo alta Roberto Micheletti (attendo interventi dell’FNSI sugli scandalosi TG2 e “Studio aperto” in merito). In Venezuela in questi anni, rispetto al monocolore informativo mainstream, le voci si sono moltiplicate, intersecate, rinnovate, democratizzate. Chi fino a ieri controllava tutto oggi strepita perché controlla meno del tutto ed ha finalmente dei doveri oltre che dei diritti. Bisogna seguire l’esempio di Caracas, altro che censura!
con stima
Gennaro Carotenuto
http://www.gennarocarotenuto.it/9848-caro-giuseppe-giulietti-sul-venezuela-sbagli/
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Uribe: sette paesi per sette basi contro l’America Latina
di Gennaro Carotenuto
(07 agosto 2009)
Il presidente colombiano Álvaro Uribe sta realizzando un viaggio lampo in tutto il continente per giustificare la concessione del proprio governo di sette basi statunitensi che rappresentano un fucile puntato contro tutto il Continente ma soprattutto contro la leadership brasiliana. A parte l’appoggio (misurato a onor del vero) del peruviano Alan García ha finora ottenuto solo la neutralità di Fernando Lugo e il dissenso, preoccupazione, rifiuto di tutti gli altri.
La formula scelta è tipica del vortice di incontri bilaterali e multilaterali dell’America latina di questi anni. Il presidente colombiano Uribe non vuole partecipare al vertice di Unasur del prossimo 10 agosto a Quito, che si sarebbe trasformato in un processo che lo avrebbe visto sul banco degli imputati, ma preferisce affrontare un visibilissimo tour de force che in poco più di 48 ore lo porta in quasi tutto il continente a spiegare quello che non si può spiegare: perché ha scelto di trasformare la Colombia in una portaerei statunitense in un Continente oramai compatto nel rifiutare le ingerenze militari straniere e nel darsi strutture di difesa comuni.
Forse il più contundente nel criticare il suo ospite a Palazzo Quemado, a La Paz, è stato il boliviano Evo Morales. La visita è stata brevissima, gelida, senza conferenze stampa e nessun cittadino boliviano era presente ad applaudire il presidente di una nazione sorella come normalmente avviene quando a visitare la Bolivia sono capi di stato integrazionisti. Evo Morales ha comunicato al suo fugace ospite che “porteremo al vertice di Unasur una proposta di risoluzione per impedire che sul suolo latinoamericano possa accettarsi la presenza di militari stranieri armati”.
Evo ha ricordato come lui stesso in passato, e tutto il movimento contadino e indigeno boliviano, siano stati in passato perseguitati in patria da militari stranieri ma soprattutto ha mostrato la sua preoccupazione: “il foro per risolvere controversie di tipo militare è l’Unasur e temo che qualcuno proprio per questo stia tentando di spaccare Unasur”. L’assenza di Uribe al vertice di Quito è più che un indizio che Morales abbia ragione e che proprio il Consiglio sudamericano di Difesa, ovvero rendere autonoma e coordinata la difesa della regione, sia il bersaglio più chiaro dell’azione congiunta colombiano-statunitense.
Le parole di Morales contribuiscono a tracciare il quadro della questione. Gli Stati Uniti stessi, espulsi dall’Ecuador, dichiarano che utilizzeranno le basi “nella lotta al narcotraffico, nella logistica e nell’addestramento” non si sa bene di chi. Gli obbiettivi minacciosi del Pentagono sono stati duramente denunciati anche da un quotidiano non certo “chavista” come la “Fohla” di San Paolo, e ripropongono preoccupazioni di lungo termine dell’esercito brasiliano: l’aggressione contro l’Amazzonia, la più grande riserva di acqua potabile, biodiversità, legnami pregiati e minerali al mondo “da parte di un paese più forte militarmente e più ricco economicamente del Brasile”. Comunque lo si guardi dunque, da Caracas, Brasilia, La Paz, Quito o dalla più lontana e diplomaticamente periferica Buenos Aires, le sette basi statunitensi usano la Colombia come un fucile puntato sull’autonomia piena della regione, sull’integrazione del Continente ma soprattutto, anche se lo stolto tende a guardare il dito della guerra di parole Chávez-Uribe, contro la luna della leadership brasiliana.
Meno chiare, per non dire oscure, sono le ragioni di Bogotà per opporsi ad un’integrazione dalla quale l’economia colombiana ha molto da guadagnare. Nonostante le cattive relazioni con Quito e Caracas questi due paesi in nessun momento hanno dimostrato di essere una reale minaccia contro la Colombia e l’esercito di questo, comunque lo si guardi, è armato fino ai denti per combattere la minaccia della guerriglia. Proprio Caracas, e in subordine anche Quito, sono poi due fondamentali mercati di sbocco della più importante economia industriale dell’area e la Colombia ha più da perdere che guadagnare dal fomentare militarizzazione e tensione con i paesi vicini. Forse ha ragione allora la fulminante vignetta di Paz&Rudy su Página12 di oggi. Visto che Uribe è incapace di dibattere pubblicamente del tema e perciò non andrà a Quito, la Colombia ha ottime ragioni per concedere le basi ma queste “non sono state ancora tradotte dall’inglese”.
Comunque lo si guardi, con un linguaggio forse più consono a Evo o a Hugo Chávez che non a Lula o a Tabaré Vázquez le basi militari statunitensi rispondono ad una logica “imperialista”. Se il Comando Sud, che ha schierato la IV flotta nei Caraibi dopo mezzo secolo mostra questo attivismo è per passare alla controffensiva dopo anni di ritirata. Il Venezuela è circondato dal mare e dai monti e se dovesse cadere la retroguardia brasiliana anche un’offensiva militare contro l’anomalia chavista, diretta o per interposta persona come al tempo della guerra fredda, sarebbe possibile.
Soprattutto però tutto il laboratorio integrazionista latinoamericano va marcato stretto, i suoi passi concreti per dotarsi di strutture comuni anche nel campo della difesa vanno incessantemente messi sotto stress e se possibile fatti abortire. La risposta che verrà data a Quito misurerà la capacità della regione di reagire a questa nuova aggressione.
fonte www.gennarocarotenuto.it
http://www.giannimina-latinoamerica.it/visualizzaNotizia.php?idnotizia=261
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