TORINOSETTE
18/9/2009 – AL VIA LA QUINTA EDIZIONE DELLA RASSEGNA “TORINO SPIRITUALITA'”
Il dis-inganno
Che cosa c’è dietro l’illusione
Incontri tra idee, parole, voci e religioni diverse cercando di svelare le menzogne della società
ANNA SARTORIO
Lo spirito accomuna gli uomini, e sovente anche chi non crede percepisce in sé un anelito d’Infinito. Ecco allora, dal 23 al 27 settembre, la quinta edizione di Torino Spiritualità: cinque giorni di incontri tra idee, parole, voci e religioni di tutto il mondo. Con uno spazio anche allo spirito della laicità.
DIS-INGANNO… È il tema di quest’anno. Ovvero: lo svelarsi di ciò che è dietro ciò che appare. Dis-inganno come filo conduttore, che intreccia grandi tradizioni religiose, filosofia, storia, arte, aspirazione politica. Un’affannosa ricerca della verità propria dell’essere umano e condotta attraverso pratiche spirituali, esercizi d’introspezione e di pensiero.
…E FELICITÀ. Il festival si apre con quest’augurio, che è poi la grande aspirazione dell’uomo. Mercoledì 23, ore 18, nel cortile di Palazzo Carignano, Enrico Mentana intervista Jacob Burak, il miliardario israeliano autore del best seller «Ma gli scimpanzé sognano la pensione »? (Mondadori). Creatore del fondo d’investimento Evergreen, promotore di una nuova cultura del business basata su etica, felicità e responsabilità sociale, Burak dimostra che la nostra possibilità di essere autenticamente felici dipende da quell’1,24% di genoma in più che ci distingue dalle scimmie: la capacità di viaggiare mentalmente nel futuro. Alle ore 21, poi, nella Sala Grande del Circolo dei Lettori, toccherà al filosofo tedesco Wilhelm Schmid, introdotto da Edoardo Albinati. Il tema? L’isteria della felicità, espressione da lui coniata che spiega come la ricerca della gioia perpetua coincida troppo spesso con quella di un benessere immediato. Peccato che il risultato sia, sovente, una paradossale infelicità.
LE VIE DELLO SPIRITO. Quattro le sezioni tematiche che guideranno il percorso: Ascesi, cioè il tentativo di arrivare alla sostanza delle cose attraverso la ricerca di un dialogo più intimo con se stessi, che diventa scelta di vita; Rivelazione, il manifestarsi della verità come folgorazione spirituale o intellettuale, che muta radicalmente la prospettiva esistenziale; Vivere senza menzogna, approfondimenti per mettere a fuoco le strade che conducono alla felicità individuale e collettiva; Mistificazione, incontri per comprendere come la verità sia spesso mediata dalla coscienza, dunque camuffabile e suscettibile di manipolazione.
GRANDI NOMI. Tanti gli ospiti in arrivo: così numerosi che è impossibile citarli tutti. Ecco in ordine sparso (ma rigorosamente alfabetico): Vittorino Andreoli, Ermanno Bencivenga, Marco Bellocchio, Enzo Bianchi, Pier Cesare Bori, Luca Bonfanti,Monika Bulaj, Don Virginio Colmegna, Giampiero Comolli, Franco Cordero, Duccio Demetrio, Ilvo Diamanti, Iona Heath, Carla Gianotti, Jamileh Kadivar, Amin Maalouf, Ignazio Marino, Armando Massarenti, Luciano Mazzocchi, Vittorio Messori, Antonio Monda, Michela Murgia, Salvatore Natoli, Aldo Naouri, Shirin Neshat, Michelangelo Pistoletto, Elena Pulcini, Giuseppe Ruggieri, Christian Salmon, Marco Vannini, Gianni Vattimo,Lech Walesa.
IL PERSONAGGIO. È l’incarnazione di un sincretismo religioso non così raro nel mondo. AminMaalouf, classe 1949, giornalista e scrittore di origine libanese, nasce in una famiglia araba di religione cristiana, con padre cattolico-melchita e madre maronita. Arriverà giovedì 24 settembre, ore 21, alla Biblioteca Nazionale di via Carlo Alberto 3, con l’introduzione del vice direttore de La Stampa Cesare Martinetti. Titolo dell’incontro: «Ci salverà la cultura», appunto. Non a caso Maalouf, già collaboratore del quotidiano libanese «al-Nahar» dal 1976, dopo lo scoppio della guerra civile si trasferì in Francia per continuare a scrivere. Qui divenne caporedattore di «Jeune Afrique». Nel 1993 vinse il premio Goncourt per il romanzo «Col fucile del console d’Inghilterra».
ELOGIO DELL’OZIO. Novità di quest’anno sono i seminari di Tempo Pieno – Scuola di Otium meditativo, nati dalla necessità di rallentare i tempi, dilatarli e ampliare la misura della percezione, per riappropriarsi del sé più profondo, rimettere a fuoco le mete, prendersi cura degli obiettivi e perseguire la propria visione di vita. Tempo Pieno diventerà un appuntamento fisso del Circolo dei Lettori.
IL PARADISO NELLE NOSTRE MANI. Simbolo dell’edizione 2009 è il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto: opera che rappresenta il passaggio evolutivo in cui l’intelligenza umanatrova i modi per convivere con l’intelligenza della natura. Mercoledì 23, alle 17, Pistoletto allestirà poi, in piazza Carignano, la sua celebre Luogo di Raccoglimento e di Preghiera: un fiore a cinque petali che rappresenta quattro grandi religioni (Cristianesimo, Ebraismo, Islam e Buddismo) assieme alla quinta e umanissima laicità.
PORTICI DELL’ANIMA. Continua anche quest’anno la collaborazione con Portici di Carta, la più lunga libreria del mondo a cielo aperto. I celebri «due chilometri di bancarelle» sotto i portici del centro (con librai di Torino e provincia) tornano sabato 26 e domenica 27 settembre. Una delle vie tematiche sarà coordinata proprio da Torino Spiritualità e dedicata all’editoria dell’associazionismo culturale.
I LUOGHI DELLA SPIRITUALITÀ. Dal Circolo dei Lettori (Palazzo Graneri della Roccia) alle chiese (San Filippo Neri, San Pietro in Vincoli), dalle librerie (Feltrinelli) ai teatri (Carignano, Baretti e Alfieri) gli spazi per dialogo e ricerca saranno numerosi. L’elenco completo si può consultare navigando su www.torinospiritualità. org.
GRATIS E NO. Salvo diversa indicazione, l’ingresso è sempre gratuito. I tagliandi saranno distribuiti a partire da un’ora prima di ogni singolo evento, davanti all’ingresso (massimo due biglietti per persona). Per gli incontri a pagamento, invece, la prevendita è già cominciata al Circolo dei Lettori (via Bogino 9 – 1° piano; dal lunedì al sabato, ore 10-21): qui i biglietti si possono acquistare fino a due ore prima dell’inizio dell’evento, mentre per le prevendite online su www.torinospiritualita.org. la chiusura è 24 ore prima (costo € 10 + 1,5 di prevendita).Maattenzione: con la ricevuta dell’acquisto via web non è permesso accedere agli spazi. È necessario ritirare i biglietti nominativi presso il luogo dove si tiene lo spettacolo, a partire da un’ora prima. Le quote versate non sono rimborsabili.
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Varsavia non capisce 18.09.2009
ENZO BETTIZA
Barack Obama ha bocciato uno dei progetti strategici e politici più controversi del predecessore George W. Bush.
Opponendosi al dispiegamento delle basi per uno scudo spaziale in Europa centrorientale, il Presidente darà inevitabilmente la stura all’intreccio di consensi e dissensi di varia natura e diversa intensità sia all’Ovest sia all’Est.
Piacerà anzitutto al Cremlino, da sempre avverso all’eccessivo avvicinamento delle postazioni occidentali ai confini russi: in particolare, l’installazione nei territori ceco e polacco di batterie e di radar antimissile americani veniva considerata a Mosca, con qualche ragione, come una minaccia all’arsenale nucleare e quindi alla sicurezza militare della Russia. La tesi avanzata a suo tempo da Bush, secondo cui il progetto non avrebbe avuto un carattere offensivo contro la Russia, bensì dissuasivo contro i potenziali missili intercontinentali del lontano Iran, sembrava a molti una scusa cervellotica poco credibile. Ora l’amministrazione Obama ha trovato anch’essa, non si sa con quanta credibilità agli occhi dell’opinione conservatrice del Congresso, una sorta di controscusa tecnica e diplomatica: dai rapporti della Cia risulterebbe che l’Iran starebbe mirando solo alla costruzione di missili a corto e medio raggio, incapaci di raggiungere gli Stati Uniti e le capitali europee.
Il brusco dietrofront rispetto allo scudo in Polonia e in Repubblica Ceca è un’ulteriore tessera che egli inserisce nel mosaico già fitto delle inversioni e correzioni spesso demolitrici delle politiche di Bush. Probabile o improbabile che sia l’ipotesi d’intelligence sul ritardo estensivo degli armamenti atomici di Teheran, Obama dà l’impressione di voler scavalcare il dilemma tecnologico per attenersi strettamente alla strategia della mano tesa verso due Paesi, l’Iran di Ahmadinejad e la Russia di Putin, che da un pezzo si oppongono e contestano con crescente asprezza l’America. Insomma, accantonando il progetto Bush, Obama forse spera di poter cogliere con una fava vistosa due insidiosi sparvieri d’Oriente.
Però il gioco al rilancio positivo presenta qualche preoccupante risvolto negativo. Già il Wall Street Journal, che ha lanciato per primo la notizia, sottolinea che la manovra di Washington sarà «prevedibilmente destinata a placare la Russia ma, anche, a inasprire il dibattito sulla sicurezza in Europa». Ufficialmente il segretario generale della Nato Rasmussen, che interpreta peraltro il condiscendente parere di circoli politici euroccidentali, si è affrettato ad annunciare che il congedo dal piano Bush è un fatto in armonia con «l’indivisibilità della sicurezza di tutti gli alleati». Ma non è così. Non proprio tutti gli alleati atlantici – in particolare quelli dell’Est più coinvolti nell’installazione dello scudo, più vicini alla Russia, più esposti ai ricatti petroliferi e politici russi, ancora memori dei soprusi patiti sotto il giogo sovietico – la pensano come Rasmussen.
Voci sibilline si sono già levate dal ministero degli Esteri di Praga, dove per ora il riserbo sul passo di Obama prevale nettamente sull’applauso. Altre voci, invece più acute, storicamente più autorevoli, nazionalmente più critiche, stanno già alzandosi dalla Polonia che, insieme con la Repubblica Ceca, avrebbe dovuto e probabilmente desiderato ospitare le infrastrutture più cospicue dello scudo statunitense. Da Varsavia l’ex presidente polacco Lech Walesa, mitico leader di Solidarnosc e Nobel per la Pace, interpretando il disagio di tanti compatrioti, ha attaccato con ruvida energia la decisione di Obama invitando la Polonia a rivedere dalle fondamenta i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Non v’è dubbio che molti polacchi, euroscettici e ultrapatrioti, avevano fino a ieri dello scudo americano una visione agli antipodi di quella di molti russi: se a Mosca lo percepivano come un latente strumento di offesa, a Varsavia per contro lo sentivano e lo aspettavano come una corazza difensiva.
Non si dimentichi che la Polonia è il più importante degli acquisti orientali dell’Occidente. Quaranta milioni di abitanti, una minoranza di circa sette milioni elettoralmente influenti in America, una Chiesa potente, un’economia in moto nonostante la crisi, un’industria automobilistica (Fiat, Volkswagen, Peugeot) all’avanguardia nell’Europa centrorientale. È la terra di dislocazione di servizi di altre grandi imprese come Philips e Lufthansa. Dai tempi del crollo del Muro di Berlino, il cui ventennale si festeggerà anche a Varsavia, i polacchi hanno sempre avuto nell’America, a prescindere dai presidenti americani, un saldo punto di riferimento, spesso in contrasto con le tendenze politiche e psicologiche degli europei occidentali.
Oggi Obama, volendo «placare» i russi, rischia di alienarsi la simpatia e l’appoggio della nazione più incisiva della nuova Europa, per la quale ricorre non solo l’anniversario liberatorio della caduta del comunismo nei Paesi ex satelliti. La ricorrenza indimenticabile, fra le più tragiche della sua storia, è quella dei settant’anni passati dal 1939, quando la loro patria venne aggredita frontalmente dai tedeschi, e assalita subdolamente alle spalle dai russi. Non sappiamo bene a cosa avrebbe potuto servire in uno scenario strategico reale lo scudo di Bush. Comprendiamo che potesse irritare i russi come un’ipotesi di minaccia. Ma comprendiamo, altresì, che dopo la spartizione della Polonia fra tedeschi e russi, e dopo le fosse di Katyn, la memoria storica potesse portare numerosi polacchi a vedere nello scudo, se non altro in chiave psicologica, almeno un simbolo di difesa.
Il rischio è che le due Europe si dividano sul tema del difficile rapporto con la Russia e, contemporaneamente, su quello ambiguo con gli Stati Uniti. Il massimo che Obama potrebbe fare, dopo l’annuncio clamoroso, è di trattare la cancellazione dello scudo non come un negoziato bilaterale tra americani e russi, ma come una proposta da discutere assieme a tutti gli alleati europei della Nato. Non esclusi, naturalmente, quelli dell’Est, i più turbati e più interessati alla questione.
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Dal melone un metodo naturale per combattere lo stress 17.09.2009
Un gruppo di ricercatori francesi ha scoperto che dal melone si può estrarre un enzima chiamato superossido dismutasi (SOD) che avrebbe delle straordinarie capacità antiossidanti in grado di contrastare i danni ai tessuti.
Gli studiosi hanno testato questa sostanza su decine di volontari e hanno osservato che sui 35 soggetti che avevano assunto una capsula di placebo si registrava un forte effetto benefico che, però, scemava nel giro di sette giorni; al contrario, nei 35 che avevano assunto una pillola contenente il prezioso antiossidante, l’effetto risultava più duraturo.
Irritabilità, disturbi del sonno, stanchezza: l’enzima sarebbe in grado di ridurre i più diffusi sintomi dello stress grazie alla sua capacità di contrastare l’azione dei radicali liberi.
La responsabile dello studio, Marie-Anne Milesi, ha spiegato sul Nutrition Journal che precedenti studi avevano già ipotizzato un legame tra lo stress psicologico e lo stress ossidativo intracellulare e che l’obiettivo futuro sarà quello di valutare l’impatto degli antiossidanti su un campione di persone più ampio e su un periodo più lungo.
Per approfondire:
Fonti
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Dalla newsletter di Jacopo Fo del 16.09.2009
Mini-centrali domestiche
Un’intera pagina di Repubblica del 10 settembre mi fa sobbalzare: Volkswagen e’ impazzita?
Lancia sul mercato una caldaia domestica a metano che produce energia elettrica e costa 5.000 euro. Volkswagen promette che centomila di questi generatori domestici, EcoBlu, produrranno nel 2012 tanta energia quanto due centrali nucleari (ma il titolista si sbaglia e scrive che servono 200mila caldaie).
La notizia cosi’, nuda e cruda, non ha molto senso… Come fa una caldaia ad avere un’efficienza energetica superiore al 90% (Repubblica riporta il 94%)?
In realta’ il progetto di Volkswagen e’ ottimo, almeno sulla carta, e’ il giornalista che ha fatto una confusione terribile.
Questa caldaia non produce solo elettricita’, offre anche riscaldamento per caloriferi e acqua calda. Sostanzialmente permette di tagliare drasticamente i costi del riscaldamento utilizzando la stessa energia che impieghi per produrre calore per generare contemporaneamente anche elettricita’, per la quale si riceve un “conto energia” di 0,5 centesimi per ogni kWh prodotto.Non e’ un’idea nuova, la Fiat produsse, senza crederci, il Totem all’inizio degli anni ’80. Sostanzialmente era il motore di una 127 a gas, che produceva elettricita’, il calore della combustione del motore a scoppio veniva recuperato e utilizzato per scaldare l’acqua e quindi la casa.
In questa DOPPIA azione sta la convenienza. Due al prezzo di uno!
La novita’ del progetto Volkswagen sta nella particolare efficienza di questa caldaia-generatore di corrente (bi-generazione), stimata nel 94%, e nel sistema che colleghera’ in un unico network queste caldaie domestiche.
Ecco la traduzione di un articolo apparso su istockanalyst.com
“…Volkswagen produrra’ la centrale ad alta efficienza EcoBlue CHP (“combined heat and power” combinata calore ed energia) che sara’ azionata da un motore a metano della Volkswagen…” e ancora “… Oltre a fornire calore all’edificio in cui e’ installata, questa centrale domestica sara’ collegata in rete per formare in futuro una mega centrale elettrica avanzata…”
Link ai siti italiani:
http://www.casaeclima.com/
http://www.ok-ambiente.com/
Link ai siti stranieri:
http://www.istockanalyst.com/
http://www.greencarcongress.com/
http://www.german-info.com/
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Pannelli solari stradali
L’idea e’ di una piccola azienda americana dell’Idaho, la Solarroadways, che per il progetto ha appena ricevuto dal ministero dei Trasporti un finanziamento di 100mila dollari.
In pratica vogliono sostituire interi segmenti di asfalto stradale con pannelli solari fotovoltaici, protetti da una spesa lastra di vetro che li renderebbe resistenti al passaggio di qualsiasi mezzo.
Un rete stradale cosi’ concepita potrebbe produrre il doppio dell’energia elettrica oggi consumata negli Usa.
(Fonte: Notiziario ADUC)
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Ipercorpo: un Festival sul teatro che non c’è
Renzo Francabandera, 16.09.2009
Se esistesse un Festival della Mente in declinazione teatrale, il più serio candidato ad accoglierlo sarebbe questo spazio, pensato e ideato anni fa da alcuni giovani compagnie come avanguardia del pensiero applicato alla forma scenica. A Forlì dal 18 settembre al 3 ottobre 09. Ne parliamo con Claudio Angelini di Città di Ebla
Pensare e costruire, dare forma ad una geografia di eventi, che prescinda o rompa i limiti di un semplice contenitore, superando la divisione fra la dimensione emotiva e quella concettuale. L’indagine sulla forma, sullo spettacolo dal vivo, sia esso teatrale, musicale, performativo od installativo. Quale unione, quali confini? Sono questi gli interrogativi programmatici per l’edizione di quest’anno di Ipercorpo, festival delle nuove forme teatrali, giunto alla quarta edizione. Un festival dalle caratteristiche assai peculiari, di cui parliamo con Claudio Angelini, che ne cura la direzione artistica insieme agli altri artisti del collettivo Città di Ebla.
Claudio, siamo non più alla prima edizione di questo Festival che guarda al compesso di esperimenti fra teatro, immagine e performance che sempre più si va diffondendo come forma di linguaggio teatrale. Perchè questa scelta?
Per accogliere una spinta arrivata dai Santasangre nel 2006, che lo hanno organizzato per primi al Kollatino Underground. Eravamo compagnie appena nate, con pochissime possibilità di visibilità, con tanta voglia di confronto e sincero interesse per il lavoro degli altri. Non c’erano spazi ad accoglierci. Li abbiamo creati da soli ed abbiamo immaginato “Ipercorpo”. Città di Ebla ha trattenuto questa esperienza e proseguito un dialogo basato sulla pratica del nostro lavoro e sul più grande rischio che un artista può correre, la sua scelta di linguaggio, l’insieme degli strumenti: corpo, suono, luce, scrittura, spazio, immagine, tempo… Alcuni rapporti sono rimasti, Santasangre e gruppo nanou, altri si sono diradati anche se continuiamo a seguire con ammirazione Cosmesi e Offouro. Altri sono avvenuti successivamente, Muta Imago e Pathosformel, altri ne verranno. Il festival ha preso una sua autonoma strada al punto che probabilmente il prossimo anno cambierà nome.
Dietro questa rassegna c’è Città di Ebla, uno degli esperimenti artistici giovanili più particolari di questi anni. In che modo Ebla aderisce e promuove il teorema estetico sotteso al Festival?
Partiamo dalla città. Il nostro è un lavoro che si divide fra tempo dedicato alle produzioni e tempo dedicato all’attenzione agli altri. Pur da piccola compagnia, abbiamo lavorato in co-produzione con altri gruppi fornendo spazi, costruendo scenografie, condividendo testi per approfondimento. Il festival stesso è un plastico dinamico della città, i suoi architetti lo possono guardare dall’altro, assieme ai suoi abitanti e contribuire alla sua evoluzione urbanistica, e non è auto rappresentativo. Quest’anno, ad esempio, non portiamo nessuna nostra produzione, a parte il lavoro di Elisa Gandini, che ha sempre avuto anche un percorso autonomo, così come Elicheinfunzione.
Ci racconti in breve gli appuntamenti del festival. Che aspettative avete verso il pubblico?
E’ tutto sul sito.
Sul pubblico: amo le persone che chiedono, approfondiscono, indagano la realtà e ti chiamano a farlo con loro, insomma che non ti lasciano stare. Ecco ciò che tentiamo di regalare, assieme agli altri, al pubblico. Non ci interessano eventi per accumulare. Ci interessa talmente questo rapporto tra artisti e pubblico che la visione e l’ascolto, nei suoi tempi e modi va accuratamente preparata. E può crescere a patto che non cali la cura nello scambio.
Qual è il paradigma che guida la vostra prassi come artisti e come promotori culturali?
La trovi sul sito in apertura, e non è un caso che sia lì. “Non ci manca certo la comunicazione, anzi ne abbiamo troppa, ci manca la creazione, ci manca la resistenza al presente” Gilles Deleuze
Mi dici una cosa che secondo te, oggi, è teatrale?
Ciò che fatica ad essere definito tale. Tanto più, oggi, fatica, tanto più va all’essenza della parola Teatro. Purtroppo siamo talmente ancora legati ad una modalità ripetitiva, tardo ottocentesca e citazionistica nel rapporto con la scena, grazie a quello che viene tuttora potentemente promosso e sostenuto, che la parola “teatro” suona in maniera un po’ ammuffita.
C’è una chiusura vergognosa, lo ripeto, vergognosa e retrograda: le grandi istituzioni pubbliche e i grandi media, di qualunque sponda politica, soffocano il teatro e l’arte scenica in tutte le sue caleidoscopiche variazioni.
Caro Renzo, oggi in questa parola io mi ci sento stretto, non me la ritrovo addosso come pratica personale e fatico ad usarla per molti artisti di cui amo il lavoro. La parola “teatro” è tenuta ancorata, con grande potenza di fuoco mediatica, ad una modalità superata di svelare la scena. Ed è normale in questo momento di piena decadenza dell’occidente.
Eppure vorrei che acquisisse nuovamente, anche nella percezione comune, quel significato di alto rango, di luogo della visione condiviso da una comunità istantanea. Condivisione nella solitudine. Momento politico di altissima fattura. Luogo di silenzio e liturgia laica. Formidabile spazio di creazione del possibile, laboratorio linguistico, casa della finzione a colpi di reale.
Allora mi potrò riappropriare di una parola che oggi uso con fatica. Abbiamo più che mai bisogno di luoghi dove registi, attori, performer, fotografi, video maker, spettatori, filosofi, artigiani si incontrino. Questo luogo non è virtuale, nonostante l’importanza della veicolazione di informazioni che internet permette, ma è fisco e tangibile, è legato alla frequentazione di un spazio comune, è certamente Il Teatro.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=12895
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C’era una volta la libertà di informazione in Rete 17.09.2009
di Guido Scorza – Una proposta di legge per sottoporre alla disciplina sulla stampa tutti i siti Internet che abbiano natura editoriale. Qualsiasi cosa ciò significhi
Roma – Il 14 settembre scorso è stato assegnato alla Commissione Giustizia della Camera un disegno di legge a firma degli Onorevoli Pecorella e Costa attraverso il quale si manifesta l’intenzione di rendere integralmente applicabile a tutti i “siti internet aventi natura editoriale” l’attuale disciplina sulla stampa.
Sono bastati 101 caratteri, spazi inclusi, all’On. Pecorella per surclassare il Ministro Alfano che, prima dell’estate, aveva inserito nel DDL intercettazioni una disposizione volta ad estendere a tutti i “siti informatici” l’obbligo di rettifica previsto nella vecchia legge sulla stampa e salire, così, sulla cima più alta dell’Olimpo dei parlamentari italiani che minacciano – per scarsa conoscenza del fenomeno o tecnofobia – la libertà di comunicazione delle informazioni ed opinioni così come sancita all’art. 11 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e all’art. 21 della Costituzione. Con una previsione di straordinaria sintesi e, ad un tempo, destinata – se approvata – a modificare, per sempre, il livello di libertà di informazione in Rete, infatti, l’On. Pecorella intende aggiungere un comma all’art. 1 della Legge sulla stampa – la legge n. 47 dell’8 febbraio 1948, scritta dalla stessa Assemblea Costituente – attraverso il quale prevedere che l’intera disciplina sulla stampa debba trovare applicazione anche “ai siti internet aventi natura editoriale”.
Si tratta di un autentico terremoto nella disciplina della materia che travolge d’un colpo questioni che impegnano da anni gli addetti ai lavori in relazione alle condizioni ed ai limiti ai quali considerare applicabile la preistorica legge sulla stampa anche alle nuove forme di diffusione delle informazioni in Rete.
Ma andiamo con ordine.
Quali sono i “siti internet aventi natura editoriale” cui l’On. Pecorella vorrebbe circoscrivere l’applicabilità della disciplina sulla stampa?
Il DDL non risponde a questa domanda, creando così una situazione di pericolosa ed inaccettabile ambiguità.
Nell’Ordinamento, d’altro canto, l’unica definizione che appare utile al fine di cercare di riempire di significato l’espressione “sito internet avente natura editoriale” è quella di cui al comma 1 dell’art. 1 della Legge n. 62 del 7 marzo 2001 – l’ultima riforma della disciplina sull’editoria – secondo la quale “Per «prodotto editoriale» (…) si intende il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici“.
Si tratta, tuttavia, di una definizione troppo generica perché essa possa limitare effettivamente ed in modo puntuale il novero dei siti internet definibili come “aventi natura editoriale”.
Tutti i siti internet attraverso i quali vengono diffuse al pubblico notizie, informazioni o opinioni, dunque, appaiono suscettibili, in caso di approvazione del DDL Pecorella-Costa, di dover soggiacere alla vecchia disciplina sulla stampa.
Ce n’è già abbastanza per pensare – ritengo a ragione – che nulla nel mondo dell’informazione in Rete, all’indomani, sarebbe uguale a prima.
Ma c’è di più.
Il DDL Pecorella Costa, infatti, si limita a stabilire con affermazione tanto lapidaria nella formulazione quanto dirompente negli effetti che “le disposizioni della presente legge (n.d.r. quella sulla stampa) si applicano altresì ai siti internet aventi natura editoriale“.
La vecchia legge sulla stampa, scritta nel 1948 dall’Assemblea Costituente, naturalmente utilizza un vocabolario e categorie concettuali vecchie di 50 anni rispetto alle dinamiche dell’informazione in Rete. Quali sono dunque le conseguenze dell’equiparazione tra stampa e web che i firmatari del DDL sembrano intenzionati a sancire?
Se tale equiparazione – come suggerirebbe l’interpretazione letterale dell’articolato del DDL – significa che attraverso la nuova iniziativa legislativa si intende rendere applicabili ai siti internet tutte le disposizioni contenute nella legge sulla stampa, occorre prepararsi al peggio ovvero ad assistere ad un fenomeno di progressivo esodo di coloro che animano la blogosfera e, più in generale, l’informazione online dalla Rete.
Basta passare in rassegna le disposizioni dettate dalla vecchia legge sulla stampa per convincersene.
I gestori di tutti i siti internet dovranno, infatti, pubblicare le informazioni obbligatorie di cui all’art. 2 della Legge sulla stampa, procedere alla nomina di un direttore responsabile (giornalista) in conformità a quanto previsto all’art. 3, provvedere alla registrazione della propria “testata” nel registro sulla stampa presso il tribunale del luogo ove “è edito” il sito internet così come previsto all’art. 5, aver cura di comunicare tempestivamente (entro 15 giorni) ogni mutamento delle informazioni obbligatorie pubblicate e/o richieste in sede di registrazione (art. 6), incorrere nella “sanzione” della decadenza della registrazione qualora non si pubblichi il sito entro sei mesi dalla registrazione medesima o non lo si aggiorni per un anno (art. 7), soggiacere alle norme in tema di obbligo di rettifica così come disposto dall’art. 8 che il DDL Pecorella intende modificare negli stessi termini già previsti nel DDL Alfano e, soprattutto, farsi carico dello speciale regime di responsabilità aggravata per la diffusione di contenuti illeciti che, allo stato, riguarda solo chi fa informazione professionale.
Sono proprio le disposizioni in materia di responsabilità a costituire il cuore del DDL Pecorella e converrà, pertanto, dedicargli particolare attenzione.
Cominciamo dalla responsabilità civile.
L’art. 11 della Legge 47/1948 prevede che “Per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore“. Non è chiaro come il DDL Pecorella incida su tale previsione ma qualora – come appare nelle intenzioni del legislatore – con l’espressione “a mezzo della stampa”, domani, si dovrà intendere “o a mezzo sito internet”, ciò significherebbe che i proprietari di qualsivoglia genere di piattaforma rientrante nella definizione di “sito internet avente natura editoriale” sarebbero sempre civilmente responsabili, in solido con l’autore del contenuto pubblicato, per eventuali illeciti commessi a mezzo internet.
Fuor di giuridichese questo vuol dire aprire la porta ad azioni risarcitorie a sei zeri contro i proprietari delle grandi piattaforme di condivisione dei contenuti che si ritrovino ad ospitare informazioni o notizie “scomode” pubblicate dai propri utenti. Il titolare della piattaforma potrebbe non essere più in grado di invocare la propria neutralità rispetto al contenuto così come vorrebbe la disciplina europea, giacché la nuova legge fa discendere la sua responsabilità dalla sola proprietà della piattaforma. Si tratta di una previsione destinata inesorabilmente a cambiare per sempre il volto dell’informazione online: all’indomani dell’approvazione del DDL, infatti, aggiornare una voce su Wikipedia, postare un video servizio su un canale YouTube o pubblicare un pezzo di informazione su una piattaforma di blogging potrebbe essere molto più difficile perché, naturalmente, la propensione del proprietario della piattaforma a correre un rischio per consentire all’utente di manifestare liberamente il proprio pensiero sarà piuttosto modesta.
Non va meglio, d’altro canto, sul versante della responsabilità penale.
Blogger e gestori di siti internet, infatti, da domani, appaiono destinati ad esser chiamati a soggiacere allo speciale regime aggravato di responsabilità previsto per le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa o radiotelevisione.
A nulla, sotto questo profilo, sembrano essere valsi gli sforzi di quanti, negli ultimi anni, hanno tentato di evidenziare come non tutti i prodotti informativi online meritino di essere equiparati a giornali o telegiornale.
Si tratta di un approccio inammissibile che non tiene in nessun conto della multiforme ed eterogenea realtà telematica e che mescola in un unico grande calderone liberticida blog, piattaforme di UGC, siti internet di dimensione amatoriale e decine di altri contenitori telematici che hanno, sin qui, rappresentato una preziosa forma di attuazione della libertà di informazione del pensiero.
Ci sarebbe molto altro da dire ma, per ora, mi sembra importante iniziare a discutere di questa nuova iniziativa legislativa per non dover, in un futuro prossimo, ritrovarci a raccontare che c’era una volta la libertà di informazione in Rete.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it
http://punto-informatico.it/2709918/PI/Commenti/era-una-volta-liberta-informazione-rete.aspx
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Breve impressione sull’Afghanistan
Domenica 20.9 ho visto in 1/2 h a casa di amici, l’Annunziata ha intervistato due militari, generale e colonnello, di cui non ricordo i nomi, e La Russa, naturalmente sulla situazione in Afghanistan. La trasmissione è riuscita molto bene, ma, se La Russa e il generale avessero anteposto la parola “purtroppo”, all’affermazione che laggiù violenza e uso della forza sono inevitabili, sarebbe stata non dico perfetta, ma quasi.
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Aids, scoperto un vaccino che riduce il rischio di contrarre il virus del 31%
Un vaccino sperimentale è riuscito per la prima volta a ridurre i rischi di infezione dell’Hiv, il virus dell’Aids. L’annuncio è stato fatto stamane a Bangkok da un gruppo di ricercatori dell’esercito statunitense e da medici thailandesi, che hanno precisato che con il vaccino il riscio di infezione diminuisce del 31%. Il risultato arriva dopo una sperimentazione su 16mila volontari in Thailandia. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia dell’Onu Unaids, ogni giorno circa 7.500 persone in tutto il mondo vengono infettate dall’Hiv. Nel 2007 sono morte 2 milioni di persone a causa dell’Aids.
“Un vaccino preventivo ed efficace” – Anche se il risultato poterbbe apparire per ora modesto, è la prima volta che un vaccino sperimentale dà questi risultati. A confermarlo è il colonnello Jerome Kim che ha sponsorizzato la ricerca assieme all’Istituto nazionale di allergia e malattie infettive. Da lui la precisazione: “E’ la prova che è possibile avere un vaccino preventivo sicuro ed efficace”.
Lo studio – Si è basato sulla combinazione di due vaccini, il primo dei quali aumenta l’immunità agli attacchi dell’Hiv e il secondo rafforza la risposta dell’organismo. Si tratta dell’Alvac, della Sanofi Pasteur, e dell’Aidsvaz, sviluppato inizialmente dalla VaxGen e ora portato avanti dalla no profit Global Solutions for Incectious Diseases. La ricerca ha testato la combinazione dei due farmaci in uomini e donne thailandesi Hiv negativi, di età comprese fra i 18 e 30 anni e con rischio di contagio nella media. A metà del campione è stata somministrata la combinazione di Alvac e Aidsvax per sei mesi, agli altri solo dei placebo. Nessuno ha però saputo cosa veniva loro somministrato fino alla fine del test. A tutti sono stati forniti profilattici e consigli su come evitare infezioni sessualmente trasmissibili e a chiunque avesse poi contratto infezioni sarebbero state fornite cure antivirali gratuite.
Rischio ridotto del 31% – I partecipanti al test sono stati seguiti per tre anni, al termine della vaccinazione. E i risultati sono stati che nuove infezioni sono state registrate in 51 casi tra le 8.197 persone a cui sono stati somministrati i farmaci e in 74 tra le 8.198 che hanno invece ricevuto il placebo. Di qui la conclusione che il rischio si riduce del 31% nel caso di chi effettua la vaccinazione. Ulteriori dettagli sui risultati di questa ricerca costata complessivamente 105 milioni di dollari saranno diffuso a ottobre a Parigi nel corso di una conferenza specifica.
L’Onu: dati incoraggianti ma resta molto lavoro – I risultati della più vasta sperimentazione clinica mai condotta per un vaccino contro l’aids – annunciati oggi in Thailandia – costituiscono “un significativo passo scientifico” che alimenta “nuove speranze”, ma molto lavoro resta ancora da fare. E’ quanto affermano oggi due agenzie delle Nazioni Unite. Il vaccino sperimentato presso 16.395 volontari in Thailandia ha raggiunto un tasso di efficienza del 31,2% nel prevenire l’infezione con un effetto protettore “modesto”, affermano in un comunicato congiunto l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e il Programma delle Nazione Unite sull’aids (Unaids). Ma si tratta di un “progresso scientifico significativo poiché sono la prima dimostrazione che un vaccino può prevenire l’infezione da HIV”, aggiungono. Per Oms e Unaids molto lavoro resta da fare, anche per determinare se le due componenti del vaccino sono amministrabili in altre parti del mondo, in altri contesti e con diversi sotto-tipi dell’Hiv.
24 settembre 2009 Redazione Tiscali
http://notizie.tiscali.it/articoli/scienza/09/09/aids_scoperto_vaccino_786.html
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E’ possibile ottenere biocarburante dal fiato umano? 22.09.2009
Pare di si’ e la tecnologia necessaria alla trasformazione esiste gia’ e fa circolare i veicoli dell’aeroporto di Liverpool.
La societa’ che gestisce lo scalo aereo ha infatti installato nei suoi locali degli apparecchi in grado di recuperare l’anidride carbonica emessa dai passeggeri attraverso il respiro. Una volta imbottigliata e trattata, la CO2 viene utilizzata come nutrimento per alghe (biomasse), che poi vengono raffinate in biodiesel.
Il progetto e’ partito a gennaio, e si stima che a regime l’impianto possa fornire circa 4.000 litri di combustibile per autotrazione e riscaldamento al giorno.
(Fonte: Focus)
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ONU: OBAMA CITA REAGAN E SPERA IN UN MONDO SENZA ARMI NUCLEARI
(ASCA-AFP) – Nazioni Unite, 24 set – ”Una guerra nucleare non puo’ essere vinta e non deve essere combattuta”. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha utilizzato una citazione di Ronald Reagan per rivolgersi ai 15 membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. ”Non importa quanto grandi siano gli ostacoli che potremmo incontrare, non dobbiamo mai fermare gli sforzi per ridurre gli armamenti”, ha detto Obama, primo presidente americano a presiedere una riunione del Consigllio delle Nazioni Unite. ”Non dobbiamo fermarci fino a quando non vedremo il giorno in cui le armi nucleari verranno bandite dalla faccia della terra. Questo e’ il nostro obiettivo. Questo puo’ essere il nostro destino”.
Il summit straordinario si e’ aperto con l’approvazione all’unanimita’ di una risoluzione contro la proliferazione delle armi nucleari.
”Anche se abbiamo evitato l’incubo nucleare della Guerra Fredda, oggi dobbiamo confrontarci con una proliferazione della portata e della complessita’ delle armi che richiedono nuove strategie e nuovi approcci”, ha detto ancora il presidente americano. ”Basterebbe un solo ordigno nucleare esploso in una citta’, che sia New York, Mosca, Tokyo o Pechino, Londra o Parigi, per uccidere centinaia di migliaia di persone”.
uda/mcc/bra
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Iran/ Ahmadinejad propone un tavolo con esperti Usa su nucleare
“Pronti a comprare uranio per scopi sanitari dagli americani”
Washington, 24 set. (Apcom) – Una riunione internazionale fra scienziati ed esperti nucleari iraniani e di altri paesi, compresi gli americani. A proporla è il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, in un’intervista alle testate americane Washington Post e Newsweek. “Perché non li lasciamo sedersi intorno a un tavolo e discutere, per vedere che risultati ottengono? Penso che sarebbe una cosa positiva” dichiara Ahmadinejad alla stampa Usa, affrontando un tema – quello del controverso programma nucleare iraniano – che nel suo intervento davanti all’Assemblea generale aveva evitato con cura. Una simile iniziativa rappresenterebbe una prima assoluta. Nell’intervista, il leader ultranazionalista annuncia anche che l’Iran intende chiedere agli americani di comprare da loro l’uranio arricchito di cui ha bisogno per motivi sanitari. Questa offerta, precisa, sarà formulata da un alto diplomatico iraniano durante la riunione che si terrà il primo ottobre a Ginevra con i sei paesi incaricati delle trattative sul nucleare della repubblica islamica (Germania, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito). “Credo che sia una proposta molto solida, che potrebbe rappresentare una buona occasione per cominciare” a stabilire una legame di fiducia fra Stati Uniti e Iran e per “intraprendere una collaborazione” valuta Ahmadinejad. Una ventina di prodotti farmaceutici iraniani vengono attualmente realizzati in un reattore nucleare di ricerca a Teheran, impiegato per la produzione di isotopi radioattivi destinati all’uso diagnostico e terapeutico, spiega il presidente iraniano per motivare la necessità di combustibile nucleare. Prima della rivoluzione islamica del 1979, questo reattore era alimentato dagli Stati Uniti. “Cerchiamo di procurarci questo materiale nucleare per motivi sanitari – sottolinea Ahmadinejad – è una questione umanitaria”. Il presidente iraniano torna a ripetere che l’Iran non è interessato a procurarsi l’atomica. “Pensiamo fondamentalmente che non sia una buona cosa avere bombe atomiche” assicura, pur senza dichiarare esplicitamente che Teheran non cercherà mai di ottenerla.
http://www.apcom.net/newsesteri/20090924_184530_48c7ef6_71461.html
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A.A.A. Svendesi Stato
24.09.2009
Scudo fiscale: un certo numero di evasori, falsificatori di bilanci, riciclatori, spacciatori, trafficanti di armi e di donne sta preparandosi a ripulire il bottino. Ecco come (e perché).
Sul sito dell’Agenzia delle Entrate ci sono i moduli per lo “scudo fiscale”; e un certo numero di evasori, falsificatori di bilanci, riciclatori, spacciatori, trafficanti di armi e di donne sta preparandosi a ripulire il bottino. Pagheranno il 5% (contro la consueta percentuale dei riciclatori di professione, dal 30 al 50%) e avranno danaro lecito, realizzando il sogno di ogni delinquente: impiegare il provento del delitto senza essere scoperto. I soldi di questa gente adesso potranno rientrare.
Magari non hanno mai lasciato l’Italia: ma basterà portarli all’estero e poi portarli indietro. Una pacchia . Certo, necessità non vuol legge: siamo senza soldi, c’è la crisi (ma c’è? Berlusconi dice sempre di no); le spese correnti ci mangiano vivi; le grandi opere cui sarà affidata la memoria imperitura del regime ingoieranno risorse stratosferiche; gli sprechi hanno raggiunto soglie da Paesi arabi o africani; come si fa? Svendiamo tutto, tiriamo una boccata d’ossigeno e… Ecco e poi?
Poi niente: questo è il terzo scudo fiscale dal 2001 e il decimo condono in 30 anni; una svendita continuata. Sulle ragioni della svendita e sui suoi pregi politici poche parole: per riempire la cassa o così o una finanziaria da urlo e un aumento della pressione fiscale micidiale. Dopodiché la popolarità di Berlusconi e soci (il 68 % dei consensi!) crollerebbe a picco e i nostri si troverebbero ad affrontare numerosi processi, non più protetti dal Lodo Alfano. Ma quali gli inconvenienti? Perché i condoni, gli scudi fiscali, le amnistie fanno male al Paese? Perché ogni cittadino che può (e dunque tutti meno i lavoratori dipendenti che, poveretti, vorrebbero tanto evadere ma proprio non possono) si fa i suoi calcoli.
La percentuale di accertamento tributario su scala nazionale va dall’8 al 10 per cento; ogni cittadino sa che, se presenta una dichiarazione tributaria falsa, la farà franca in circa il 90 per cento dei casi: nessuno lo controllerà. Il rischio di finire tra gli sfigati in realtà è più basso perché, ogni 5 anni, la dichiarazione falsa non può più essere cont rollata . A questo si aggiunge il condono periodico. In media, uno ogni tre anni. Sicché anche quelle annualità ancora a rischio di controllo (sempre il 10 per cento) le sfiliamo da sotto il naso del Fisco pagando un piccolo obolo (5 per cento contro un’aliquota media del 40 per cento). Ma chi, in questa situazione, è così imbecille da pagare le imposte dovute? Una categoria sola, il lavoratore dipendente. Ecco perché la politica dei condoni è la prima responsabile dell’altissimo tasso di evasione in Italia. Eh, però, soldi ci servono e la cassa è vuota. Vero. Allora bisogna avviare una politica tributaria di lungo respiro. Dunque introdurre il principio della totale deducibilità dei costi (lo si fa negli Usa). Vado al ristorante? Mi faccio rilasciare la fattura e la deduco; compro un vestito? lo stesso; ristrutturo una casa? idem. In questo modo il Fisco sarebbe in grado di incrociare ogni costo con il relativo ricavo. Non sfugge più niente. Ah, certo, ci va una buona organizzazione, prima di tutto informatica. Però sono tempi in cui le capacità di calcolo informatiche sono incommensurabili; e, quanto all’organizzazione, mi pare che i dipendenti del Fisco siano circa 360.000; Naturalmente chissà quanti proverebbero a dedursi costi fasulli.
Qui ci va il secondo strumento: una lotta all’evasione seria. Che, nonostante tutte le balle raccontate ogni anno dal Governo (da tutti i Governi) e dalle sue strutture specializzate in materia, attualmente è una barzelletta. Prima di tutto perché la ridotta percentuale dei controlli e i ricorrenti condoni sono un ostacolo insuperabile: se ogni tre anni debbo tirare una riga sulle evasioni fatte fino ad allora, che lotta all’evasione faccio? Ma poi perché l’accer tamento tributario è talmente complicato che, prima di arrivare alla conclusione passano anni; ma tanti. Io faccio il presidente di una sezione di Commissione tributaria regionale (l’Appello): in genere esaminiamo anni dal 1998 al 2000; ma qualche volta vediamo roba del 1995. E, dopo di noi, c’è ancora il giudizio di Cassazione… Infine perché il processo penale per i delitti tributari è una vera farsa: per le solite ragioni per cui il processo penale italiano è costruito per non funzionare; e poi anche perché la legge penale tributaria è stata scritta sotto dettatura del partito degli evasori. Pensate che, per essere sottoposti a processo penale per dichiarazione infedele, occorre aver evaso un’imposta superiore a 103.000 euro, il che vuol dire che non sono stati dichiarati ricavi per circa 250.000 euro. Insomma chi fa un nero da un quarto di milione (all’anno) non sarà mai imputato. Qualche anno con una politica tributaria assennata e un assetto sanzionatorio severo ed efficiente e anche l’Italia potrebbe aspirare ad un posto tra i Paesi civili.
(da Il Fatto Quotidiano – n°2 – 24 settembre 2009)
http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578
Aprendo il link, in alto alla pagina è presente l’appello al Capo dello Stato a non firmare.
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Ora Angela farà come la Thatcher 28/9/2009
I prossimi compagni di governo chiedono politiche più drastiche. E a molti elettori non piace la sua elasticità da democristiana
MARCELLO SORGI
Merkel modello Thatcher. Fino a due giorni fa, dirlo era impensabile. Le due, si sa, non si sono mai amate e «Angie» s’era lasciata scappare una volta che non dimentica che Margaret fu tra i contrari alla Germania riunificata. Adesso, invece, dopo il voto di ieri, dovrà ripensarci.
Per tre ragioni. La Cancelliera è uscita confermata, il suo successo personale è servito a tamponare la flessione dell’alleanza Cdu-Csu, la Grande coalizione è finita travolgendo la Spd, ma le incognite del nuovo governo da formare sono tante. E il trionfatore di questa tornata, il leader liberale Guido Wester-welle, dopo undici anni all’opposizione, si prepara a sedersi al tavolo delle trattative con idee molto precise.
Le stesse che lo hanno portato alla vittoria. Delle tre partite aperte nella mezz’ora in cui i risultati hanno cambiato il volto politico della Germania, quella della Cancelliera si presenta indubbiamente come la più complicata. Angela Merkel aveva impostato la campagna elettorale nel suo stile, sfuggendo democristianamente alle domande più insidiose, tiepida verso l’obiettivo dichiarato di una nuova coalizione con i liberali, e in realtà aperta a ogni ipotesi, senza escludere neppure di continuare con la Spd o accordarsi con i Verdi, premiati anche loro dalla scossa elettorale.
Ma a sorpresa, il pragmatismo, l’arte del rinvio, la ricerca continua di un minimo comune denominatore, e insomma quelle che si erano rivelate le doti personali più apprezzate della Cancelliera, non hanno più trovato il gradimento sperato. Non è piaciuta l’immagine della Merkel che andava d’accordo con il suo vice Steinmeier al punto da sembrare, anche lei, socialdemocratica. L’appoggio avuto dagli alleati sull’aumento delle tasse e sulle politiche di risanamento economico, una scelta obbligata, pagata in massima parte dalla Spd, ha dato inaspettatamente a una parte degli elettori democristiani più tradizionali la sensazione di un cedimento. A mediazioni eccessive e a politiche sociali troppo spinte e lontane dalla tradizione Cdu-Csu (come ad esempio i congedi per maternità concessi anche agli uomini). A una mancanza del tradizionale rigore tedesco nell’amministrazione, che ha finito col pesare sui conti dello Stato. E a una smodata logica dell’emergenza. Sul caso Opel, per fare un esempio, non solo il ministro dell’Economia zu Guttemberg, ma gran parte degli elettori, avevano delle riserve. Piuttosto che aiuti di Stato, avrebbero preferito maggior rispetto delle regole di mercato. Anche a costo dell’insolvenza e della possibile liquidazione dell’azienda.
E’ tutto ciò che rende problematica l’annunciata, e ormai prossima, collaborazione tra Merkel e liberali nel futuro governo nero-giallo. Westerwelle – che ieri ai festeggiamenti è arrivato non a caso con il suo maestro Hans Dietrich Genscher, ministro liberale degli Esteri con Helmut Kohl – ha vinto le elezioni, oltre che per abilità personale e capacità di comunicazione, sfoggiate in tutta la campagna, su un classico programma liberista. Meno tasse, alzare la soglia di reddito per l’esenzione totale dal fisco a ottomila euro. Stipendi al lordo, il più possibile vicini al netto. Più merito e meno salario minimo (una bandiera che la Spd si vantava di aver piantato sulla schiena della Cancelliera). Drastica riduzione dei sussidi di disoccupazione (se paghiamo la gente per stare a casa, è stato uno dei cavalli di battaglia di Guido, come possiamo chiedere a chi va a lavorare di impegnarsi di più?). E poi, ancora: scuole più dure, più formative, più legate a criteri di selezione, con un aumento degli investimenti statali per istruzione e ricerca fino al 10% del pil (oggi sono al tre). Insomma, un programma molto tagliato e molto connotato, sulla base del quale Westerwelle ha offerto a Merkel un’alleanza di governo esclusiva e una maggioranza delimitata, chiusa cioè ad altre possibili intese, come appunto con i Verdi. Se Angela, per usare un’antica metafora di Fanfani, pensava di diluire il vino di Guido, troppo forte, con l’acqua fresca degli ecologisti, quest’opzione è esclusa in partenza. E d’altra parte non si vede come potrebbero democristiani e liberali, che hanno in comune la posizione a favore del mantenimento delle centrali nucleari almeno fino a che la ricerca sulle energie alternative darà risultati concreti (cioè, per un lasso di tempo indefinito), accordarsi con i Verdi, che già al tempo della loro alleanza con Schroeder sottoscrissero con la Spd un accordo per la progressiva chiusura delle diciassette centrali tedesche ancora attive entro il 2021.
L’identità del nuovo governo è dunque ancora tutta da definire. E’ chiaro solo che dovrà essere molto diversa da quella della Grande Coalizione appena bocciata. Anche se una svolta liberista potrebbe rendere per la Merkel più complicata del previsto la gestione di un autunno che s’annuncia assai caldo, per l’esaurirsi degli effetti dei provvedimenti anticrisi (a cominciare dalla settimana cortissima, grazie alla quale sono stati evitati migliaia di licenziamenti) e per le probabili reazioni delle aziende a una mancata, benché annunciata, ripresa economica. In questo quadro si giocherà anche il nuovo ruolo della sinistra tedesca, che torna tutta insieme all’opposizione, e ci torna con rapporti di forza assai mutati al suo interno.
Socialdemocratici e sinistra radicale, insieme, fanno oggi molto meno dei voti che al momento della sua vittoria nel 1998 faceva da sola la Spd guidata da Schroeder. Dietro la calma ostentata ieri nelle dichiarazioni ufficiali, che parlavano di amara sconfitta, Steinmeier e Muentefering sanno di aver portato a casa il peggior risultato della storia del loro partito, mentre Lafontaine e Gysi festeggiano quello migliore della Linke. Quasi due milioni di elettori socialdemocratici si sono astenuti. Più di un altro milione si sono spostati sulla Linke. Un’alleanza tra le due sinistre, che fin qui l’avevano esclusa, sarebbe stata comprensibile, e in qualche modo auspicabile, con una Spd battuta, sì, ma ancora forte, e una Linke contenuta nel dieci per cento, più o meno la percentuale che tocca a tutte le opposizioni radicali in Europa.
Con questi numeri sarebbe stato realistico il progetto di un’evoluzione di tutta la sinistra nel suo complesso, guidata dalla parte riformista, e accompagnata da una trasformazione di quella estrema, nel quadro di una collaborazione che già esiste, tra i due tronconi, in molte amministrazioni locali, a cominciare da quella di Berlino. Ma al contrario, ora diventano concreti, da una parte, il rischio di un inseguimento gridaiolo, sull’onda dell’inasprimento della situazione sociale e delle proteste che hanno fatto crescere la Linke, e dall’altra gli effetti imprevedibili della «Ostalgie», il sentimento irrazionale di rimpianto che s’affaccia, e ha fatto sentire il suo peso, nelle urne, nel territorio e nelle pieghe della ex-Germania comunista.
Tutto è più chiaro, così, tutto è più scandito, dopo quattro anni in cui, all’interno della Grande Coalizione, le cose tendevano troppo a mescolarsi. Ma detto questo, non è affatto sicuro che la Germania, da ieri, sia diventata più stabile.
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Polanski, un genio inseguito dai drammi del passato 28/9/2009
Dai nazisti a Manson: una vita tormentata
FULVIA CAPRARA
CORRISPONDENTE DA PARIGI
Chissà se gli zelanti poliziotti elvetici a cui sabato sera all’aeroporto di Zurigo è stato affidato l’arresto di Raymond Liebling, viaggiatore proveniente da Parigi con doppia nazionalità polacca e francese, sapevano di essere sul punto di scatenare un pandemonio giudiziario-cinematografico internazionale. Sull’ordine di arresto era infissa una motivazione davvero pesante: «ricercato per atti di natura sessuale con minori, segnatamente per un caso che risale al 1977, con una bambina di 13 anni, a Los Angeles». Trent’anni di latitanza: un bel record per un reato così sudicio, avranno pensato gli agenti. E hanno con doppio impegno proceduto all’arresto non appena il ricercato ha calcato l’implacabile suolo elvetico. Così da ieri Roman Polanski, regista maledetto e stimatissimo, è detenuto nel carcere dell’aeroporto.
All’uscita, dapprima inquieti, poi esterrefatti e infine indignati, l’hanno atteso invano i responsabili della delegazione d’onore del festival di Zurigo: l’aveva giustappunto invitato per ricevere una targa di onore alla carriera.
Con precisione elvetica il ministero della Giustizia ha emesso un soddisfatto comunicato in cui ha confermato l’arresto dell’illustre ricercato. «Si trova in detenzione provvisoria in attesa di estradizione sulla base di un mandato di arresto americano. Le autorità statunitensi lo ricercano attivamente ovunque nel mondo a partire dal 2005». Il ministero ha puntualizzato che il detenuto può fare appello per l’eventuale estradizione al tribunale penale e poi al Tribunale Federale che è la più alta istanza giudiziaria della Confederazione. Ultimo ma confortante dettaglio per gli avvocati di Polanski già indaffaratissimi a trovare cavilli: l’estradizione non potrà essere concessa che al termine dell’iter giudiziario svizzero». Ovvero per molto tempo non sarà consegnato agli americani.
Dal gennaio del 1978, ovvero da quando fuggì per non ritornare in carcere braccato come era dalla denuncia dei genitori della bambina, Polanski ha sempre accortamente evitato di incrociare il paziente braccio dell’estradizione. Ha trovato rifugio, cittadinanza e la terza moglie nella ospitalissima Francia, non ha mai messo piede nel Regno Unito. Forse con il passare degli anni ha dimenticato il trattato che lega Svizzera e Stati Uniti.Non tutti nella Confederazione hanno apprezzato lo zelo giudiziario. Gli organizzatori del festival, per esempio, hanno dato prova di ostinatezza: pur rinunciando a tempo indeterminato alla consegna del premio al detenuto, hanno ricordato in un comunicato che si tratta di «uno dei più straordinari cinematografari del nostro tempo». E hanno dispettosamente mantenuto la serata di omaggio.
Chi ha alzato ancor la voce è stata invece la Polonia. Polanski ha passato la sua infanzia nel ghetto di Varsavia e la madre è morta in un campo di concentramento tedesco. I più celebri cineasti del Paese tra cui Andrzej Waida, hanno inviato una lettera al governo chiedendo di intervenire: «La situazione è scandalosa, è un eccesso di zelo incomprensibile». Il portavoce del ministero degli Esteri Paszkowski, è stato prudente: «Stiamo raccogliendo informazioni sul caso». Chi non ha dubbi invece è la Francia, Paese che ha naturalizzato Polanski nel 1976. E’ scattato immediatamente il riflesso pavloviano: Parigi si schiera a difesa indignata di qualsiasi cittadino francese, in particolare se artista o intellettuale, senza badare alla natura delle infrazioni penali che costui ha commesso.
In questo caso c’è un motivo in più per impegnarsi a favore del regista: per trent’anni la magistratura e la polizia della République hanno alacremente ignorato i mandati di cattura e le richieste di estradizione americane. Il ministro della Cultura Frédéric Mitterrand, si è detto «stupefatto»: «Mi spiace vivamente che una nuova prova sia così inflitta a chi ne ha già superate tante durante la sua vita ribollente di slancio e di creatività». Il ministro ne ha discusso con il presidente «che segue il dossier con la più grande attenzione e condivide la speranza in una soluzione rapida della situazione che permetta a Polanski di ritrovare i suoi cari al più presto».
Una nuova bufera sui responsabili giudiziari della Confederazione elvetica dopo il caso Gheddafi.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200909articoli/47716girata.asp#
Fra l’altro, l’allora ragazzina, tempo dopo disse di averlo perdonato, e ne coprì persino la fuga.
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Brasile, gas, petrolio, Russia di Vincenzo Comito
Nel settore dell’energia il potere passa di mano 28/09/2009
Il petrolio brasiliano, il gas russo. Come le risorse naturali dei Bric cambiano l’asse energetico mondiale. Con numerose conseguenze
“…per i paesi nel cui territorio esso viene trovato…il petrolio può essere un grande beneficio o una maledizione, in relazione a come esso viene usato…” (The Financial Times)
“…Dio è brasiliano…” (Luiz Inacio Lula da Silva)
Premessa
E’ ormai un’opinione molto diffusa, che trova scarse obiezioni, l’idea che il centro dell’attività economica del mondo si stia spostando dai paesi sviluppati ad un gruppo di quelli emergenti. Bisogna ricordare, a questo proposito, che predire il futuro è certamente un esercizio piuttosto complicato, ma, almeno sulla base dei dati e delle informazioni che abbiamo a disposizione, l’ipotesi sopra indicata sembra in ogni caso molto plausibile.
Si discute così, ad esempio, in quale anno il Pil cinese supererà quello degli Stati Uniti e la data dovrebbe collocarsi, secondo le varie previsioni, tra il 2020 e il 2030, per quello che semplici proiezioni basate sugli andamenti storici recenti possono valere. Per quanto riguarda l’India, l’orizzonte apparirebbe un po’ più lontano, ma il fenomeno del sorpasso sugli Stati Uniti dovrebbe essere un fatto compiuto prima del 2050. Inoltre, da qualche anno, più in generale, si è posta l’attenzione sui paesi cosiddetti del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) come quelli destinati a conquistare presto l’egemonia del mondo o, per lo meno, a condividerla con i vecchi poteri.
Naturalmente, il futuro potrà smentire tutte le previsioni di questo tenore, o, invece, mostrare delle conferme in tempi anche più vicini a noi del previsto.
Se tutto peraltro può ancora accadere, ci sono dei settori produttivi nei quali il cambiamento è già avvenuto, o sta avvenendo sotto i nostri occhi. Si pensi ad esempio al business dell’acciaio, che è ormai da tempo quasi un monopolio cinese, o a quello dell’elettronica di consumo, anch’esso feudo da tempo dei produttori asiatici, per non parlare di tessile, abbigliamento, industria del mobile, cantieristica, ecc.; la lista completa appare ormai abbastanza lunga, mentre si annunciano nuove aree di conquista a breve termine.
Il settore del petrolio e del gas
Un settore certamente emblematico di quanto sta succedendo e potrà accadere in un prossimo futuro, con tutte le possibili conseguenze, oltre che economiche, anche politiche, è quello energetico.
Così, già oggi la percentuale delle risorse petrolifere controllate direttamente dai paesi produttori si aggira, secondo diverse valutazioni, intorno all’85% del totale, mentre le grandi imprese occidentali trovano crescenti difficoltà a mantenere degli spazi di movimento nel settore. Esse potevano, sino a poco tempo fa, giocare ancora delle carte importanti sul mercato mondiale grazie al loro superiore know-how tecnologico nei processi di ricerca ed estrazione del minerale e a livello del controllo delle risorse finanziarie necessarie per gli investimenti, ma tali vantaggi comparati si vanno a poco a poco esaurendo, il secondo apparentemente più rapidamente del primo.
Per capire meglio in che direzione stiano marciando le cose, ricordiamo a questo punto due rilevanti casi recenti, il primo che riguarda il Brasile e il comparto del petrolio, il secondo la Russia e quello del gas.
Premettiamo che nelle ultime settimane sono stati annunciati nel mondo e con grande fanfara diverse scoperte di nuovi giacimenti. Così una società statunitense, la Anadarko, ha comunicato l’individuazione di un nuovo bacino petrolifero molto importante lungo 1100 chilometri e che va dalle coste del Ghana a quelle della Sierra Leone. In Brasile, la Petrobras e la British Gas hanno annunciato anch’essi la scoperta di un grande giacimento al largo delle coste del Brasile; essa fa peraltro seguito ad un altro rinvenimento nello stesso paese comunicato qualche mese fa ed è stata seguita dopo pochi giorni da un’ informazione su di un altro nuovo giacimento divulgata dalla British Gas; tutto questo dovrebbe fare del Brasile un grande produttore di energia entro il 2020. Qualche giorno prima la British Petroleum aveva fornito un’analoga informazione per quanto riguarda il golfo del Messico. Intanto Chavez ha fatto sapere che in Venezuela è stato individuato un grande giacimento di gas, con il contributo anche del gruppo Eni, oltre che della spagnola Repsol.
Ricordiamo a questo punto ed in via preliminare che tutti i numeri relativi al settore del petrolio e del gas sono in genere grandemente incerti, sia per le difficoltà, in molti casi, di fornire valutazioni precise, sia, soprattutto, per la volontà degli stati e delle imprese direttamente interessati di pilotare le informazioni fornite al mercato secondo i loro particolari e contingenti interessi.
Ciò premesso, si può affermare che le notizie apparse di recente sulla stampa e relative alle nuove scoperte non sembrano comunque tali da mutare significativamente il quadro di riferimento che si conosceva già e che appare quello di un progressivo esaurirsi delle risorse energetiche (Hoyos, 2009). Le nuove scoperte, in effetti, non sembrano cambiare molto le cose a livello globale – anche se esiste ancora qualche incertezza sulle loro reali dimensioni- ed esse sembrano comunque abbastanza più ridotte come importanza rispetto a quelle che si facevano qualche decennio fa. Inoltre, va anche considerato che gli investimenti per lo sfruttamento dei giacimenti esistenti sono sostanzialmente parecchio più bassi di quanto sarebbe possibile e che comunque il tempo necessario per portare al pieno sfruttamento un giacimento appena scoperto appare molto lungo (The Financial Times, 2009). Comunque, il momento del peak oil – cioè della punta massima di produzione- a livello mondiale, secondo almeno alcune stime, potrebbe arrivare molto presto, se non è già arrivato; in ogni caso, ormai dagli anni ottanta consumiamo ogni anno più petrolio di quanto ne troviamo di nuovo (Salvioli, 2009).
Il caso brasiliano
In relazione alle importanti e recenti scoperte di nuovi giacimenti, il presidente Lula ha dichiarato che il paese si pone due priorità, quella di mantenere il petrolio in mani brasiliane e quella di assicurare che i proventi relativi siano impiegati a favore del popolo brasiliano.
A questo ultimo proposito, il governo ha dichiarato che con i proventi del sottosuolo sarà creato un fondo sociale dedicato alla lotta contro la povertà, all’educazione, alle infrastrutture, alle nuove tecnologie. Per molti paesi, specialmente quelli più piccoli e politicamente più fragili, come può essere in effetti ora il caso del Ghana e della Sierra Leone, la scoperta di giacimenti di petrolio o di gas può essere di frequente una sciagura, con il carico di corruzione, sprechi, lotte intestine, che essa può comportare. Quindi sembra corretta la previsione del governo brasiliano di programmare con molto anticipo le strade migliori per l’utilizzo delle risorse finanziarie collegate alle nuove scoperte.
Per quanto riguarda invece la priorità del controllo nazionale sulle risorse, un progetto di legge, che dovrebbe essere discusso dal parlamento entro relativamente poche settimane, prevede che per lo sfruttamento del petrolio si passi dal tradizionale sistema della concessione, usato sino a ieri anche in Brasile, a quello degli accordi di production sharing, o PSA.
Come è noto, con il primo sistema le società petrolifere ottengono la proprietà e la disponibilità del petrolio che estraggono dai giacimenti pagando una semplice royalty, più o meno elevata, al governo. Invece con il sistema di production sharing il petrolio rimane di proprietà dello stato e alle società petrolifere viene soltanto ceduta una parte dei proventi a pagamento dei servizi forniti.
Secondo il progetto governativo, verrà creata una nuova società, la Petro-Sal, a proprietà interamente pubblica, incaricata di controllare tutti gli accordi di PSA. Essa avrà il diritto di veto su ogni decisione che prenderanno i vari consorzi varati per la ricerca e la produzione del petrolio. In particolare, la nuova struttura dovrebbe anche controllare il ritmo di produzione dei giacimenti e collegarlo di volta in volta agli obiettivi politici ed economici del paese. In tali consorzi operativi la società di stato Petrobras dovrà poi avere almeno il 30% del totale delle quote e dovrà essere comunque l’operatore principale.
Naturalmente le imprese occidentali e i circoli finanziari non sono molto d’accordo con questo sistema ed avanzano molti argomenti per difendere la loro posizione (Wheatley, 2009), suggerendo, tra l’altro, che la Petrobras non avrebbe tutte le competenze e le risorse umane e finanziarie necessarie per portare avanti i progetti ed anche che, alle condizioni delineate nel disegno di legge, le imprese occidentali potrebbero non essere interessate a partecipare allo sfruttamento dei giacimenti. Ma il paese sembra avere tutte le intenzioni di andare avanti.
Incidentalmente va ricordato che la sola Petrobras investirà nelle nuove scoperte circa 174 miliardi di dollari entro il 2013 – i fondi dovrebbero venire da un grande aumento di capitale e da prestiti internazionali (Macallister, Carroll, Philips, 2009; Wheatley, 2009); non mancano i soliti cinesi-, mentre la gran parte del petrolio non sarà esportata, ma dovrà servire alle necessità del paese (Bezat, 2009, b).
Va ricordato che un progetto per alcuni aspetti simile a quello del Brasile è stato messo in campo di recente in Iraq dal governo; le società occidentali acquisiscono dei contratti in cui esse vengono pagate soltanto per la fornitura dei loro servizi di ricerca e di produzione e comunque con prezzi che hanno lasciato la bocca molto amara alle imprese che hanno partecipato alle aste.
Il caso del gas russo
Il secondo caso che sembra opportuno ricordare fa riferimento al manifestarsi di un conflitto sempre più evidente tra la politica energetica messa a punto a suo tempo dall’Unione Europea e la realtà delle esigenze impellenti dei singoli stati e delle loro imprese nel settore.
Ricordiamo che l’Unione Europea sponsorizza da tempo la costruzione del gasdotto Nabucco, un’iniziativa “strategica” secondo l’Unione, che dovrebbe servire a ridurre la dipendenza del vecchio continente dal gas russo e comunque a contribuire a liberalizzare il mercato dell’energia. Ma è noto che, parallelamente, i russi stanno portando avanti due progetti differenti. Il primo, il cosiddetto North Stream, dovrebbe collegare la Russia alla Germania, passando sotto il Baltico e ad esso partecipa attivamente la stessa Germania; il secondo, denominato South Stream, dovrebbe trasportare il gas russo attraverso il mar Caspio verso l’Europa del Sud e ad esso partecipa anche l’Eni. Nonostante le smentite che vengono da qualche parte e che affermano che i tre progetti sono tutti necessari, in realtà essi, specialmente il Nabucco e il South Stream, appaiono concorrenti, viste anche le incerte stime relative alla reale disponibilità di gas da far passare attraverso tali impianti. In ogni caso, le due pipeline indicate dovrebbero evitare che l’80% del gas russo destinato all’Europa occidentale continui a passare attraverso l’Ucraina (Bezat, 2009, a).
Mentre il progetto Nabucco incontra diverse difficoltà tecniche e politiche, giunge notizia nelle ultime settimane (Bezat, 2009, a) che anche la Francia vuole partecipare alle due iniziative sponsorizzate dalla russa Gazprom. Così viene annunciata l’imminente conclusione delle trattative tra la stessa Gazprom e la francese GDF Suez per l’ingresso della seconda, con una quota rilevante, nel capitale di North Stream; parallelamente, si apprende che sono stati avviati dei negoziati per l’ingresso della EDF, sempre francese, nel capitale di South Stream.
A questo punto, il fronte antirusso appare in frantumi e la politica energetica dell’Unione Europea sembra seguire la stessa sorte sotto i colpi dei rapporti di forza e delle pressanti esigenze dei singoli stati nazionali. Il BRIC sembra, in ogni caso, vincere ancora una volta.
Testi citati nell’articolo
– Bezat J.-M., La construction de l’Europe de l’énergie se heurte à l’hyperpuissance de Gazprom, Le Monde, 17 settembre 2009, a
– Bezat J.-M., Au Brésil, l’Etat et Petrobras resserrent leur controle sur la production de pétrole, Le Monde, 18 settembre 2009, b
– Hoyos C., Oil strikes not enough to quench demand, The Financial Times, 18 settembre 2009
– Macalister T., Carroll R., Philips T., BG’s brazilian oil find will ‘dwarf’ BP’s strike in the US Gulf coast, www.guardian.co.uk, 9 settembre 2009
– Salvioli L., Il paradigma della crescita non supererà il picco del petrolio, Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2009
– The Financial Times, Oil on the brain, 18 settembre 2009
– Wheatley J., Critics warn Brasil oil plan will deter investors, www.ft.com, 7 settembre 2009
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Nel-settore-dell-energia-il-potere-passa-di-mano
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Di Laura Balbo La spesa delle donne 25/09/2009
“The Female Factor” è il titolo a piena pagina della copertina del settimanale Newsweek del 21 settembre; e nel sottotitolo si suggerisce che “il potere di spesa delle donne potrebbe salvare il mondo dalla crisi”. L’articolo che sviluppa questa ipotesi presenta statistiche e proiezioni interessanti. Soprattutto rilevante per l’argomentazione che si propone, e anche insolito, è il dato che mette in luce quale sia la quota di denaro per il funzionamento della vita familiare, lo household spending, gestita dalle donne: negli Stati Uniti, in Australia, in Germania si tratta di oltre il 70%. Intorno al 60% in Giappone, Gran Bretagna, Russia. Più basso, ma comunque consistente, in Cina.
Naturalmente dati percentuali per aree di queste dimensioni, e indicatori che non possono che essere approssimati, valgono quel che valgono. Non si tralascia inoltre di notare che, a livello mondiale, la cifra relativa ai redditi maschili è ancora oggi pari al doppio di quella di cui dispongono le donne. Ma si indica anche che con il passaggio dalla generazione che è nel mercato del lavoro oggi alla prossima, il dato cambierà in modo radicale: assisteremo “all’emergere di un mercato che sarà il più vasto e più potente, quello costituito dalle donne”.
L’analisi e la prospettiva che vengono proposte possono apparire semplificanti. Comunque la tesi è interessante: se sono le donne a gestire quote rilevanti di denaro, si suggerisce, la ripresa dei consumi e dunque dell‘ intero sistema economico dipende da loro. Si dice: “esiste un insieme molto rilevante di studi che suggeriscono che i criteri di spesa delle donne sarebbero esattamente quello di cui il mondo ha bisogno in questa fase”. E si avanza questa ipotesi: “l’emergere di un mercato che supera i confini nazionali – quello dello household spending come gestito dalle donne- potrebbe avere effetti altrettanto rilevanti dei cambiamenti introdotti nell’economia dai due paesi a cui oggi si rivolge maggiore attenzione, India e Cina”.
Si indica che alcune grandi imprese, già molto presenti in quella che viene definita “l’area di mercato delle donne” come Nestlè, Johnson & Johnson, Wal-Mart, trarranno ulteriori vantaggi dagli sviluppi in quello che è definito il settore dei “consumi femminili”. E si attrezzano in questa direzione. Le donne, si conclude, sono “catalizzatori per processi di crescita di molti settori produttivi”.
Ancora, si fa riferimento a studi condotti in due paesi, la Gran Bretagna e l’India, sulla base dei quali si mette in luce che da quando è aumentata la presenza femminile nelle sedi politiche, sia nazionali sia locali, i criteri di investimento e di spesa si orientano verso i settori della sanità, dell’istruzione, della produzione di beni di base. Dunque non si tratta soltanto di implicazioni per l’economia, ma anche di scelte e di processi relativi all’ organizzazione sociale in senso più complesso: è a voci di spesa che producono benessere, condizioni migliori per la salute, accesso all’istruzione che le donne danno priorità. Inoltre hanno maggiore capacità di risparmio, e sono più attente, negli investimenti, ai fattori di rischio.
Un testo, e argomentazioni, davvero insoliti.
Appunto, mi è sembrato interessante segnalarli.
http://www.sbilanciamoci.info/Rubriche/La-spesa-delle-donne
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Sotto tortura il cervello mente 22.09.2009
lo stress e la sofferenza mandano la memoria in tilt e portano alla formazione di falsi ricordi. Lo rivela uno studio irlandese
Oltre che inumana, la tortura è inutile. Sembra, infatti, che sotto tortura il cervello cancelli i ricordi veri e ne crei di falsi. A rivelarlo è uno studio irlandese pubblicato su Trends in Cognitive Science, nel quale Shane O’Mara dell’Istituto di Neuroscienze del Trinity College di Dublino ha mostrato che uno stress estremo e ripetuto danneggia il cervello e le funzioni collegate alla memoria.
Dopo aver revisionato numerosi dati scientifici, O’Mara ha concluso che durante le torture il prigioniero è condizionato ad associare il parlare alla sensazione di sicurezza. Questo rende ancora più difficile, se non impossibile, determinare se durante l’interrogatorio un prigioniero sta dicendo la verità o sta solo cercando di evitare ulteriori sofferenze. Ma c’è un’evidenza ancora più importante: lo stress estremo a cui sono sottoposte le vittime condiziona alcune aree cerebrali e porta alla formazione di falsi ricordi. La corteccia prefrontale e l’ippocampo, due regioni del cervello coinvolte nella memoria, sono infatti ricche di recettori per specifici ormoni che si attivano in condizioni di stress e di privazione del sonno. La stimolazione di questi ormoni ha quindi effetti negativi sulla memoria, mandandola letteralmente in tilt.
“Uno stress molto forte e prolungato inibisce i processi biologici coinvolti nel recuppero della memoria” ha spiegato O’Mara: “Le nostre conoscenze in neurobiologia cognitiva ci dicono che i metodi come la privazione del sonno o la simulazione di un annegamento difficilmente portano a ottenere informazioni e testimonianze veritiere e compromettono le funzioni mnemoniche e decisionali”.(c.v.)
Riferimenti: Trend in Cognitive Science
http://www.galileonet.it/news/11851/sotto-tortura-il-cervello-mente
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Iraq, L’accordo petrolifero con la Cina suscita malcontento fra gli iracheni
di Timothy Williams
The New York Times, 6 settembre 2009
Provincia di WASIT, Iraq — Quando lo scorso anno la più grande compagnia petrolifera cinese firmò il primo contratto per lo sviluppo di un giacimento petrolifero iracheno del periodo successivo all’ invasione, l’accordo venne visto come un test della disponibilità dell’Iraq ad aprire agli investimenti stranieri un’industria che in precedenza li aveva vietati.
Un anno dopo, la China National Petroleum Corporation ha trovato il petrolio nel giacimento di Ahdab, nella provincia di Wasit, a sud-est di Baghdad. E mentre i rapporti tra la compagnia e il governo iracheno procedono senza problemi, la presenza di una compagnia straniera con enormi risorse che sta facendo trivellazioni alla ricerca di petrolio in quest’angolo dell’Iraq povero e rurale ha suscitato qui un’ondata di malcontento.
“Non riceviamo nulla direttamente dalla compagnia cinese, e stiamo soffrendo”, dice Mahmud Abdul Ridha, Presidente del Consiglio provinciale di Wasit, che nel corso dell’ultimo anno si è visto ridurre del 50% il bilancio da Baghdad a causa del ribasso dei prezzi internazionali del petrolio. “C’è una crisi di disoccupazione, abbiamo bisogno di strade, scuole, e impianti per il trattamento delle acque. Abbiamo bisogno di tutto”.
Il risultato è stato un movimento per i diritti locali – un fatto straordinario in un Paese dove, storicamente, il dissenso politico ha sempre portato con sé il rischio della morte – che nel corso degli ultimi mesi ha iniziato a chiedere che almeno 1 dollaro per ogni barile di petrolio prodotto dal giacimento di Ahdab venga utilizzato per migliorare l’accesso ad acqua potabile, servizi sanitari, scuole, strade asfaltate, e altre necessità della provincia, che è tra le più povere dell’Iraq.
Le ripercussioni si stanno facendo sentire anche molto al di là di questa provincia. Le frustrazioni hanno portato al sabotaggio e all’intimidazione degli operai della compagnia petrolifera cinese, trasformando il giacimento di Ahdab in un avvertimento per le compagnie petrolifere internazionali che vogliono entrare nella corsa ai profitti provenienti dalle ingenti riserve di petrolio irachene ancora non sfruttate.
Visto che l’Iraq è un Paese così fortemente dipendente dalle entrate derivanti dal petrolio, qualsiasi esitazione a livello internazionale da parte delle compagnie petrolifere a investire significherebbe anni di continua instabilità economica e politica. Tutti i ricavi petroliferi vanno direttamente al governo di Baghdad e costituiscono la base del bilancio nazionale.
Finora il governo iracheno ha respinto le richieste dei residenti, ma gli abitanti della zona stanno chiaramente iniziando ad avere la sensazione che qualcosa di nuovo è possibile.
“Nessuno avrebbe mai osato chiedere una cosa del genere durante il regime di Saddam: se lo avesse fatto, sarebbe stato sicuramente giustiziato”, dice Ghassan Ali, un contadino di 43 anni che vive vicino al giacimento petrolifero. “Adesso però siamo un Paese democratico, e dunque abbiamo il diritto di rivendicare i nostri diritti come qualsiasi altra provincia irachena”.
Alla base delle lamentele sta il fatto che, a parte l’assunzione di un centinaio di residenti come operai o guardie di sicurezza per uno stipendio pari a meno di 600 dollari al mese, il giacimento di Ahdab – un progetto di sviluppo da circa 3 miliardi di dollari- non ha portato nessun beneficio a livello locale.
Alcuni agricoltori del posto hanno iniziato a reagire distruggendo i generatori della compagnia e tagliando i condotti elettrici, infuriati perché ritenevano che i loro campi fossero stati ceduti ingiustamente alla compagnia. Altri residenti hanno iniziato a esprimere il loro sdegno per il fatto che solo pochi posti di lavoro erano stati destinati loro.
La China National Petroleum dice di aver bisogno di relativamente pochi operai, perché è ancora nella fase di esplorazione nell’ambito del suo progetto per il giacimento di Ahdab, che ha una durata di 23 anni, e non è previsto che la produzione del petrolio inizi prima di due anni e mezzo.
Ora, i circa 100 operai cinesi del giacimento lasciano di rado il loro complesso spartano, per paura di essere rapiti, dice la compagnia, anche se il governo iracheno ha schierato di recente ulteriori forze di sicurezza nella zona.
Ma la rabbia degli iracheni sta sempre più confluendo in un movimento operaio che usa mezzi corretti, e che esprime le proprie preoccupazioni riguardo a diritti dei lavoratori, autorità del governo locale, inquinamento, procedure di assunzione trasparenti, e responsabilità pubblica, tra le varie questioni.
Ghassan Atiyyah, direttore esecutivo della Iraq Foundation for Development and Democracy, un’organizzazione no-profit, dice che l’attivismo nascente nella provincia di Wasit è parte di un cambiamento più ampio all’interno di una società che fino a poco tempo fa era refrattaria ad avanzare tali richieste, a causa di anni di dittatura, sanzioni economiche, guerre, e di una cultura in cui è tuttora forte l’influenza tribale.
“In Iraq è in atto una trasformazione sociale, e ci vorranno anni perché si compia”, dice Atiyyah, “ma ciò che vediamo adesso è un nuovo ordine sociale emergente, con la popolazione rurale che sfida quella urbana che l’ha sempre guardata dall’alto in basso”.
Il governo iracheno e la compagnia petrolifera cinese hanno minimizzato le tensioni nella provincia di Wasit, dicendo che, a parte alcuni imprevisti, le cose stanno procedendo secondo i piani.
E tuttavia, il malcontento arriva in un momento critico per l’industria petrolifera irachena, che ha fatto fatica per raggiungere i livelli di produzione precedenti alla guerra, e si sta preparando ad assegnare 10 giacimenti di petrolio alle compagnie internazionali questo autunno, dopo che, la scorsa estate, un primo round di offerte per un altro gruppo di giacimenti di petrolio e di gas ha portato alla firma di un solo contratto.
Il giacimento di Ahdab contiene circa un miliardo di barili di petrolio, una quantità modesta per gli standard del Paese. In confronto, quello di Rumaila, nel sud dell’Iraq, per il quale la compagnia cinese e la British Petroleum hanno firmato un accordo di sviluppo lo scorso giugno, è il più grande dell’Iraq, con circa 17,8 miliardi di barili secondo le stime.
La China National Petroleum dice che lo scorso agosto ha rinegoziato un contratto dell’epoca di Saddam Hussein, sapendo che ne avrebbe ricavato un profitto pari appena all’1%.
“Volevamo aprirci la strada”, dice Han Ruimin, vicepresidente della Al Waha Petroleum Company, nome della joint venture di Ahdab tra la compagnia cinese e la ZhenHua Oil, sempre con sede in Cina. “La nostra strategia ha dato i suoi frutti, perché abbiamo appena ottenuto un altro contratto”, continua, riferendosi al giacimento di Rumaila.
Il giacimento di Ahdab è circondato da fittavoli che vivono in case anguste, fatte di fango, senza elettricità e acqua corrente. Speravano che l’arrivo della compagnia petrolifera avrebbe messo fine alla loro povertà.
Invece, la China National Petroleum ha assunto solamente circa 450 operai, molti dei quali vivevano fuori dalla provincia di Wasit , stando a quanto riferiscono residenti e funzionari locali.
“Il problema è che la gente si aspettava migliaia di posti di lavoro immediatamente, e poi ha capito che la compagnia faceva affidamento più sulle macchine che sulle persone”, dice Ali Hussein, presidente del consiglio locale di distretto.
Hussein dice che le dimensioni della sofferenza del posto lo hanno spinto a iniziare a discutere della situazione con la compagnia cinese con un linguaggio crudo e diretto; ma i problemi sono rimasti.
All’inizio di quest’anno, i contadini della zona si sono lamentati perché le apparecchiature sismiche ed elettriche della compagnia petrolifera, utilizzate per determinare in quali punti si possono trivellare i pozzi, stavano danneggiando le loro fragili case e i loro raccolti.
Più o meno nello stesso periodo, le linee elettriche, molte delle quali attraversavano i terreni coltivati, sono state tagliate o rubate, così come è accaduto per costosi generatori e altre apparecchiature. Questa primavera è stato lanciato un razzo che, fortunatamente, non è andato a bersaglio.
Han dice di ritenere che fosse destinato a una vicina base militare americana, anche se i contadini del posto hanno detto che sospettano che avesse come obiettivo il giacimento di Ahdab.
Altri problemi potrebbero sopraggiungere la prossima primavera, quando 1.000 operai cinesi arriveranno per costruire un impianto di trasformazione centrale.
Han dice che assumere iracheni è fuori discussione: “Non abbiamo abbastanza tempo per formare persone del posto per svolgere questo lavoro”.
Nel frattempo, le persone che vivono vicino al giacimento dicono di essere preoccupate di stare per essere inghiottite dalla ricerca del petrolio che si trova sotto i loro raccolti.
Ghazi Hwaidi, 39 anni, il cui campo di grano ora è in parte occupato da un’imponente attrezzatura sismica di prospezione del petrolio, dice di aver cercato di ottenere un risarcimento per il suo raccolto danneggiato, e di aver anche fatto domanda per un posto di lavoro presso la compagnia petrolifera – non si sa mai. Ma non ha ancora ottenuto risposta né per il risarcimento né per il lavoro.
“La mia fattoria ora è molto più simile a un giacimento di petrolio”, dice, “e io non ho ricevuto nulla per questo”.
Gli elementi per questo articolo sono stati raccolti da Abeer Mohammed e Mohammed Hussein da Baghdad, e Riyadh Mohammed e un dipendente iracheno del New York Times dalla provincia di Wasit.
(Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq)
Articolo originale
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=8243
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Ah! finalmente ho trovato quello che cercavo. A volte ci vuole tanta fatica a trovare anche una minima parte di informazioni utili.
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No, grazie del commento. Ciao
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