Di Benedetto Vecchi
LA POLITICA INSORGENTE NELLE MAGLIE DELLA RETE
Lo sciame DELLA COMUNICAZIONE 16.10.2009
Il nuovo libro di Manuel Castells. Un’analisi puntuale sulla natura del potere nella globalizzazione, dove i media sono diventati il luogo privilegiato della decisione politica come testimonia il laboratorio italiano. Ma anche ipotesi di resistenza alla «fabbrica del consenso»
Lo stato nazionale esercita da sempre un potere sulla società, ma in quelle democratiche deve sottostare a regole che ne limitano l’azione. È questo, da sempre, l’architrave delle teorie liberali del potere, che hanno dovuto fare i conti con la critica di molti teorici – da Max Weber a Georg Simmel, da Lenin a Carl Schmitt, da Antonio Gramsci a Jürgen Habermas – che hanno invece analizzato il potere a partire dalle differenze sociali, di ceto, di casta, di classe, cercando così di svelare l’arcano del perché, nelle società borghesi, lo stato impone rapporti di sudditanza e legittima gerarchie sociali attraverso il consenso dei «governati».
È questa la cornice analitica di Potere e comunicazione (Università Bocconi Editore, pp. 665, euro 34.50), un importante volume di Manuel Castells sul ruolo esercitato dalla comunicazione all’interno delle società capitaliste. Anche Castells crede che c’è esercizio del potere e non dominio solo se c’è consenso verso l’operato dello stato nazionale, ma è compito della «comunicazione pubblica» circoscrivere le dinamiche, talvolta conflittuali altre volte no, in cui ogni «attore sociale» esprime i suoi interessi, definendo le relazioni di reciprocità, autonomia o dipendenza rispetto gli altri attori sociali. Una proposizione che pone questo saggio di Castells sulla scia dalla riflessione di Jürgen Habermas sull’opinione pubblica e sull’agire comunicativo come una prassi sociale che definisce la «virtù pubblica». Con una sostanziale differenza: per Castells la comunicazione non è relegata solo alla formazione di un’opinione pubblica che controlla l’operato del sovrano, ma è un agire pubblico che «produce società» senza l’intervento delle tradizionali istituzioni delegate alla «messa in scena» della weltanshauung degli attori sociali. In questa vision, la carta stampata, la televisione, la radio e più recentemente Internet non sono un quarto potere, bensì i medium del potere sans phrase. Ipotesi altresì suggestiva laddove l’autore la affianca con una lettura della globalizzazione economica come potente acido corrosivo dell’ordine politico liberale e di quella democrazia rappresentativa che ne era la più compiuta espressione. L’esercizio del potere non passa quindi attraverso il controllo dello stato, ma attraverso il «governo» dei media, tanto di quelli antichi che ipermoderni.
Il mondo in casa
L’autore ha fatto molto parlare di sé per la trilogia su L’era dell’informazione, dove sosteneva l’emergere di una nuova forma di capitalismo definita «informazionale» per la centralità dell’informazione nella produzione di valore e per l’egemonia di modelli produttivi «reticolari». Per Castells, infatti, l’informazione è, al tempo stesso, materia prima del processo lavorativo in quanto conoscenza, ma anche strumento di coordinamento per reti produttive diffuse che spesso ignorano, meglio scavalcano i confini nazionali. In altri termini, l’informazione alimenta e governa i flussi produttivi che non coincidono necessariamente con uno spazio delimitato. La rilevanza delle tecnologie digitale nel garantire il coordinamento delle reti produttive è fuori discussione. E ciò vale anche per la comunicazione.
Castells dà quindi per acquisito il fatto che il mondo possa essere considerato, dal punto di vista della circolazione delle informazione, il villaggio globale di Marshall McLuhan, ma sottolinea la novità costituita dalla globalizzazione, che porta il mondo dentro le case attraverso la televisione e come la differenziazione sociale alimenti la costituzione di molti pubblici. Il linguaggio specialistico parla di crisi dei media generalisti e del passaggio dal modello broadcasting (da uno a molti) al modello narrowcasting, cioè che esistono molte platee che vanno soddisfatte attraverso una differenziazione nei contenuti offerti tuttavia sempre secondo una modalità unidirezionale. La globalizzazione si basa cioè su una differenziazione dei prodotti editoriali e una parallela proposta di una vision omogenea della realtà. Un doppio obiettivo che per essere raggiunto alimenta la concentrazione della proprietà dei media o la partnership tra imprese, visti gli alti costi delle piattaforme tecnologiche e dei prodotti editoriali. Questa pluralità di fonti di informazione e un’altrettanta pluralità di media a disposizione alimenta la convinzione che mai nella storia umana c’è stata così tanta libertà di espressione, come in questo inizio di millennio. Convinzione errata, perché la differenziazione di prodotto e di strumenti rispecchia la accentuata differenziazione sociale allo scopo, però, di confermare opinioni predefinite e offrire un contesto dove i processi di identificazione culturale possano trovare il percorso meno accidentato nella sequenza individualismo, «comunalismo», che secondo Castells costituisce la polarità potenzialmente destabilizzante della globalizzazione e che per questo va governata attraverso i media.
Significativa è, a questo proposito, la lunga parentesi che l’autore dedica alle posizioni del neuroscienziato Antonio Damasio attorno alle emozioni e i processi decisionali. Per Damasio, infatti, quando uomini e donne devono decidere, scelgono sempre l’alternativa che poco si distanzia dalle proprie convinzioni. Se questo frame analitico si applica alla ricezione dell’informazione, le posizioni che incontrano il favore del pubblico si snodano attorno alle loro convinzioni, rifiutando invece quelle lontane. Accade così che i media organizzino la comunicazione in maniera tale che le contraddizioni e i punti di conflitto in una discussione pubblica siano depotenziati e ridotti a un talk show attorno a opinioni tanto generiche, quanto inoffensive.
I nemici del diritto
Siamo quindi al di là della vecchia querelle se i media siano dispositivi di manipolazione delle coscienze o se invece rispecchino tendenze, modi di essere, opinioni già presenti nella realtà. Nello schema proposto dall’autore i media riflettano identità, opinioni già esistenti proprio perché, in quanto dispositivi normativi, esercitano potere. Non è però un gioco a somma zero quello che propone Castells, perché se il potere è la prassi comunicativa tesa all’imposizione, attraverso il consenso, di un ordine sociale servono regole precise che fissino confini e limiti all’azione dei media, in quanto confini e limiti a chi esercita un potere – politico o economico, poco importa – nella società. Posizione liberal che l’autore sostiene evidenziando come gran parte dei paesi democratici hanno regolamentato l’uso dei media. Ed è con tono allarmato che l’autore denuncia l’anomalia italiana, dove Silvio Berlusconi è un imprenditore politico che non tollera appunto regole e limiti alla sua azione, in quanto proprietario di una corporation che fa coincidere il suo destino con quello dell’Italia.
La denuncia degli aspetti degenerativi del caso italiano – conflitto di interessi, gestione disinvolta del potere esecutivo per rafforzare il proprio potere economico, la minaccia reiterata di ritorsioni verso i media non omologati ai voleri del cavaliere – sono tutti condivisibili, ma portano a considerare, a differenza di quanto fa Castells, l’Italia non un’anomalia, bensì un laboratorio dove la comunicazione è sussunta definitivamente dal potere. Ciò che sta accadendo nel nostro paese è il tentativo di mettere a fuoco una compiuta produzione mediatica della decisione politica. Le istituzioni statali vanno occupate non perché luoghi esclusivi del «politico», ma per prevenire una «politica insorgente» attraverso la gestione diretta, dai media alla formazione, dei processi di identificazione culturale. Che poi ci sia un imprenditore politico a tirare le fila dovrebbe far riflettere sulla natura del populismo postmoderno che occupa il centro della scena politica nel capitalismo contemporaneo: non un residuo del passato, ma la forma politica che si candida a indicare via d’uscita dalla crisi della democrazia rappresentativa e dello stato-nazione. L’enfasi sulla libertà e sulla differenziazione sociale e culturale del populismo postmoderno convive infatti con la produzione mediatica di una sintesi tra interessi conflittuali tra loro, fattore indispensabile per la decisione politica.
Il potere dei movimenti
La possibilità di fermare questa «fabbrica del consenso» sta dunque nello sviluppo di una «politica insorgente» da parte dei movimenti sociali. Castells non sfoggia un ottimismo di maniera, quanto la motivata convinzione che gli attuali movimenti sociali sono da leggere anche come un agire comunicativo che sviluppa un punto di vista critico sull’esistente e che individua in alcune tecnologie dell’informazione il medium privilegiato. Internet, dunque, come medium alternativo, che però esprime un contropotere con cui i media mainstream devono confrontarsi. La candidatura di Barack Obama, il tam-tam che ha portato alla sconfitta il partito popolare in Spagna nel 2004, la rivolta dei giovani iraniani contro il governo di Tehran o i movimenti antiglobalizzazione sono tutti esempi di una «politica insorgente» che ha avuto la capacità di condizionare e influire sul potere costituito per poi dissolversi come accade in natura agli sciami.
La «politica insorgente» è cioè vincolata a una contingenza, esaurita la quale il contropotere espresso dai movimenti sociali ripiega su forme più convenzionali di pressione politica. Manca cioè quell’elemento che rende un fattore permanente la presenza di una politica insorgente e il suo corollario sociale, il contropotere esercitato dai movimenti sociali. È cioè assente un’analisi critica sul modo di produzione, delle gerarchie e dei rapporti di sfruttamento dentro la fabbrica del consenso. In assenza di questo la teoria del potere proposta da Castells riposa sul terreno delle regole e dei diritti, disincarnati dai rapporti sociali esistenti nella realtà.
Le esperienze di social networking, le liste di discussione, il Citizen journalism sono cioè una presa di congedo dal modello in cui c’è un’emittente e molti destinatari per sostituirlo, con una circolazione dei contenuti dai «molti a molti». Ma questa rappresentazione dell’«autoproduzione comunicativa» pone il problema su come il contropotere della politica insorgente si debba rapportare con il potere costituito. Castells sostiene cioè che la politica insorgente non prevede continuità, ma si manifesta come uno sciame che si dissolve una volta raggiunto l’obiettivo per cui si era formato. La sua è la fotografia di ciò che avviene nella realtà. Ma se la «politica insorgente» è anche la critica ai prodotti della fabbrica del consenso, il passo successivo da compiere è la critica del modo di produzione vigente al suo interno. Le tecnologie digitali, il contropotere dei movimenti sociali sono solo la fenomenologia della «politica insorgente». Serve solo organizzarla nel tempo e nello spazio.
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19.10.2009
Concordo con l’insegnamento nelle nostre scuole di una religione diversa da quella cattolica come alternativa ad essa.
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I nuovi fascismi mascherati e la sinistra smarrita
Un colloquio tra Flores d’Arcais e Saramago indaga le inquietudini che attraversano Italia ed Europa: libertà, giustizia, svuotamento della politica, religione. Il Nobel per la letteratura è in questi giorni in Italia per la presentazione del suo ultimo libro “Il quaderno”, edito da Bollati Boringhieri.
di Paolo Flores d’Arcais, da “Il Fatto Quotidiano”, 14 ottobre 2009
Nel tuo “Quaderno” scrivi: “Che penserà Dio di Ratzinger e della Chiesa cattolica apostolica romana?”. Ironicamente, perché per avere una risposta – sottolinei – bisognerebbe prima dimostrarla, l’esistenza di Dio, il che è impossibile. Ma citi anche Hans Küng, il più grande teologo cattolico vivente, quando riconosce che “le religioni non sono mai servite ad avvicinare tra loro gli essere umani”. Ora, Ratzinger, da quando è diventato Papa, pretende che tutti i parlamenti dell’Occidente debbano imporre a tutti i cittadini, credenti o meno, leggi che obbediscono alla volontà di Ratzinger stesso, in tutto ciò che riguarda il sesso, la vita, la morte, la ricerca scientifica (dal preservativo alla pillola alle staminali, dall’aborto all’eutanasia …). Ratzinger sostiene che solo se si segue il principio “sicuti Deus daretur” (ma quale Dio? E chi ne interpreta la volontà?) le democrazie possono evitare il collasso nel nichilismo. Molti laici si piegano. In Italia il parlamento sta approvando una legge che obbliga al sondino per la nutrizione artificiale anche la persona in coma chi ha deciso di rifiutarlo. Ratzinger sarà così il padrone dei nostri corpi, un vero e proprio ritorno al medioevo. Non so cosa pensi Dio di Ratzinger, ma cosa ne pensa José Saramago?
Saramago – Ratzinger è nulla più che un dettaglio. Un dettaglio di una istituzione mastodontica che pesa come un macigno sulla coscienza dell’uomo. Che Ratzinger abbia il coraggio di invocare Dio per rafforzare le sue mire di un neo-medievalismo universale, un Dio che non ha mai visto, con il quale non si è mai seduto a prendere un caffè, dimostra solamente l’assoluto cinismo intellettuale del personaggio. Mi sono sempre considerato un ateo tranquillo perché l’ateismo come militanza pubblica mi sembrava qualcosa di inutile, ma ora sto cambiando idea. Alle insolenze reazionarie della Chiesa Cattolica bisogna rispondere con l’insolenza dell’intelligenza viva, del buon senso, della parola responsabile. Non possiamo permettere che la verità venga offesa ogni giorno dai presunti rappresentati di Dio in terra ai quali in realtà interessa solo il potere. Alla Chiesa nulla importa del destino delle anime, quello che ha sempre voluto è il controllo sui corpi. La ragione può essere una morale. Usiamola.
Flores d’Arcais – Nel tuo libro hai dedicato parecchie pagine al giudice Baltasar Garzon che ci ha fatto capire l’importanza di “non diventare vili nemmeno una volta, per non diventare vili per sempre”. Il giudice Garzon, sottolinei, è oggetto di un vero e proprio tiro al bersaglio perché alimenta le speranze di chi vuole che la giustizia sia “eguale per tutti”. E’ lo stesso tiro al bersaglio che si è fatto in Italia contro i magistrati di Mani Pulite, e si continua a fare contro quelli antimafia, o che scoperchiano intrecci tra criminalità, affari, istituzioni (vedi l’ultimo caso, De Magistris, costretto a rinunciare alla toga e candidarsi alle europee). Eppure un tempo “law and order” era la bandiera della destra (almeno a parole). Non sarà che a privilegiati e reazionari interessa solo l’ “order” della sopraffazione, in nome della “law” finché si dimostra docile ai potenti, ma contro la legge, non appena un giudice la prenda sul serio nei confronti di tutti?
Saramago – Sostanzialmente non dobbiamo confondere legge e giustizia. La legge può essere rivolta contro la libertà, la giustizia può essere snaturata nella pratica quotidiana. Legge e giustizia sono strumenti che hanno bisogno di una revisione continua, incessante, instancabile da parte di cittadini consapevoli. Non saprei in che modo si possa raggiungere questo obiettivo, però bisogna trovare la maniera di infondere alle istituzioni giudiziarie l’anelito di giustizia che ha sempre caratterizzato la specie umana. Non sto pensando ad una società ideale, penso – questo sì – ad una società libera, capace di correggere da sola il proprio operato. Il ruolo dell’istruzione dovrebbe essere fondamentale, ma proprio per questo è necessario riformare tutto il sistema scolastico, dalle scuole primarie all’università. Che lo si voglia o no, la celebre frase scritta sui muri della Sorbona, “vietato vietare”, apparentemente così rivoluzionaria, è stato un cattivo servizio reso alla democrazia.
Flores d’Arcais – Ci sono due pagine bellissime in cui ricordi un tuo viaggio a Napoli e un incontro enigmatico e inaspettato col mondo della camorra. Le hai dedicate all’impegno e al coraggio di Roberto Saviano, e attraverso di lui alla necessità che lo scrittore, anche a rischio di essere “condannato a morte”, come Rushdie, come Saviano, non dimentichi di essere in primo luogo un cittadino. Scrivi addirittura: “mi sento umile, quasi insignificante, di fronte alla dignità e al valore dello scrittore e giornalista Roberto Saviano, maestro di vita”. Oggi il “pensiero unico” irride l’intellettuale impegnato, del resto sempre più raro. Ma il disimpegno di tanti scrittori e intellettuali non è uno degli elementi della crisi delle democrazie?
Saramago – Credo che sia una delle cause, ma non la sola. La democrazia realmente esistente va giudicata e ridiscussa tutti i giorni perché tutti i giorni si va degradando un poco di più. Stiamo vivendo una serie di crisi che si rafforzano a vicenda: crisi dell’autorità, crisi della famiglia, crisi dei costumi, crisi morale in generale e l’elenco potrebbe essere interminabile. A mio giudizio una società disimpegnata come la nostra difficilmente può generare scrittori e intellettuali impegnati. Non siamo le guide delle masse, ma al contrario molte volte ci lasciamo condizionare da esse. Se la democrazia è in crisi, prendiamoci la nostra parte di colpa, ma affrontiamo anche le responsabilità degli altri, non siamo gli unici responsabili.
Flores d’Arcais – L’Italia è al 44esimo posto nella graduatoria della stampa libera di “Reporters sans frontieres”, distanziata perfino dal Mali e dal Ghana (il Portogallo è al 16esimo). Ma l’Italia è anche il Paese dove riescono straordinarie manifestazioni di massa organizzate dalla società civile (spesso in polemica con i partiti di “opposizione”, pavidi e assenti): dal milione di cittadini nel “girotondo” del settembre 2002, fino alle centinaia di migliaia di una settimana fa, una sorta di gigantesco fiume carsico che ogni tanto si inabissa ma che da anni non scompare mai. Ti sembra manicheo parlare di due Italie, completamente diverse per valori e per civiltà, diverse quasi antropologicamente? E che effetto ti fanno?
Saramago – In ogni Paese ci sono almeno due Paesi, a volte tre o quattro. Tuttavia, per quanto una manifestazione possa essere importante non credo la si debba prendere come l’annuncio di un imminente cambiamento. Mi importa molto di più l’azione quotidiana che tiene desta l’attenzione dei cittadini e consente risposte rapide. Ho ancora presente la rivoluzione portoghese che in alcune circostanze sembrava non fosse assolutamente in grado di fare fronte in questo modo al modificarsi della realtà. E la realtà italiana di oggi vede un Berlusconi che fin qui ha avuto buon gioco sugli sforzi dell’opposizione, perché si è trattato di un’opposizione vana, poco dotata di idee e divisa in tendenze, gruppi e interessi personalistici e di “parrocchia”.
Flores d’Arcais – Al sostantivo “criminale” o “delinquente” i dizionari riportano come definizione: colpevole di reati (o delitti, o crimini). Berlusconi è stato riconosciuto responsabile molte volte (cfr. Gomez-Travaglio “Se li conosci li eviti”, p. 56-59). Ma se qualcuno in televisione prova solo a chiamarlo con il titolo che gli spetta (da ultimo l’onorevole Di Pietro) si scatena un putiferio di interruzioni e minacce. Da scrittore e da democratico, che effetto ti fa questa sovversione del significato delle parole, a cui quasi tutti i media in Italia si piegano, per compiacere Berlusconi?
Saramago – La parola è una delle prime vittime del dispotismo di tutti i colori. Purtroppo è la stessa società che collabora con falsa innocenza a questa operazione di cosmesi politica che parte dall’alto. Ma i maggiormente colpevoli sono quei mezzi di comunicazione che adottano prontamente la voce del padrone anche quando danno l’impressione di contestarla. Il processo di inganni cui tutti siamo sottoposti permanentemente ha molti capitoli. La perversione della parola e’ uno di questi capitoli e non certo dei meno minacciosi.
Flores d’Arcais – E’ storia ormai nota che il tuo “Quaderno” (che dopo un week end nelle librerie è già in classifica) doveva uscire da Einaudi, che però lo ha rifiutato. Non ti chiedo un giudizio sui vertici Einaudi, sei troppo “signore” per maramaldeggiare. Ma in Italia esiste ormai un problema dilagante di servitù volontaria. E cosa ti sembra più pericoloso per il dilagare di un regime anti-democratico?
Saramago – A mio giudizio é più pericolosa la servitù volontaria che trasforma l’asservito in complice dichiarato. Del resto, per “il capo” la servitù volontaria è la cosa più vantaggiosa perché gli consente l’alibi di negare ogni censura, di negare di aver mai ordinato a qualcuno di proibire questa cosa o quell’altra. E’ stato, credo, il caso della Einaudi. L’eccessiva prudenza dei suoi dirigenti é arrivata al punto da far fare loro una cosa che probabilmente nessuno aveva imposto.
Flores d’Arcais – In Italia la sinistra, tutte le volte che sceglie una posizione “moderata” (in realtà subalterna) recita la litania della necessità di “scegliere il male minore” e accontentarsi. Ma già oltre mezzo secolo fa, denunciando il clima montante del maccartismo, Hannah Arendt ricordava “il nesso assai stretto che esiste tra il male minore e il male maggiore”, poiché “lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori ci hanno invariabilmente condotto ai primi”. Tu segui con attenzione le vicende politiche italiane. Come spieghi il masochismo dei dirigenti della sinistra? Stupidità, opportunismo, omologazione all’establishment, corruzione e altri interessi inconfessabili?
Saramago – Credo che pochi abbiano riflettuto sull’ipotesi che quanto sta ora accadendo affondi le sue radici nel compromesso storico. Non sono un esperto di politica italiana, però ho sempre avuto la sensazione che con il compromesso storico sarebbe iniziata la decadenza della sinistra italiana. Se sono in errore, gradirei che me lo dimostrassero. Con il passare del tempo quello che all’epoca qualcuno poteva considerare un atto di patriottismo si è andato trasformando in un processo molteplice di corruzioni di diverso tenore, che alla fine hanno fatto dell’Italia il prototipo per eccellenza di dove porti l’incapacità di valutare le conseguenze di una scelta I risultati sono sotto i nostri occhi.
Flores d’Arcais – La sinistra in Europa viene sempre più spesso sconfitta. E anche quando vince prepara la prossima sconfitta concretizzando intanto un programma di destra. Sembra aver rinunciato al compito di realizzare (o almeno approssimare, ma instancabilmente) tutti e tre i famosi valori: “libertà, eguaglianza, fratellanza”. La parola “eguaglianza” è stata addirittura bandita dal vocabolario dei politici della sinistra, come fosse una malattia. Ma senza l’impegno per l’eguaglianza a cosa può servire una sinistra? E non sarà che le sue sconfitte nascono proprio da questo tradimento?
Saramago – Se così stanno le cose difficilmente il problema potrà essere risolto. Una cosa è infatti promettere l’eguaglianza, altra cosa è realizzarla nella realtà. Volendo, si possono sempre trovare dei motivi per rimandare la concretizzazione della più solenne delle promesse. La cosa più terribile che caratterizza la sinistra sul piano internazionale è comunque l’assenza di idee. La destra non ha bisogno di idee per governare (Berlusconi non ne ha alcuna), mentre la sinistra se non ha idee non ha più nulla da dire ai cittadini. Se non mi sbaglio troppo, questo è il problema centrale.
Flores d’Arcais – L’antifascismo è la radice moderna della democrazia in Europa, esattamente come l’illuminismo e le grandi rivoluzioni “borghesi” ne costituiscono la radice più lontana. Poiché si fa un gran parlare di inserire nella Costituzione dell’Europa un richiamo alle sue radici culturali e storiche, non sarebbe il caso di pretendere il richiamo a queste radici, i lumi e la Resistenza?
Saramago – Ci sono troppi compromessi, troppi giochi sporchi nell’alta come nella bassa politica perché qualcuno trovi il coraggio di proporlo. Credo anzi che in Europa il fascismo attaccherà in forze nei prossimi anni e che dobbiamo prepararci ad affrontare l’odio e la sete di vendetta chei fascisti stanno alimentando. Sia chiaro, si presenteranno con maschere pseudo-democratiche, alcune delle quali circolano già tra noi. Non dobbiamo lasciarci ingannare. Mi raccomando.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
(14 ottobre 2009)
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“Pratiche salutari”: i medici contro il reato di immigrazione clandestina 18.10.2009
Qui non verrai denunciato: anche se non hai documenti mi prenderò cura di te
L’affermazione di una disobbedienza più che mai civile, la proposta di un altro modello di società possibile, nata dall’opposizione ad una legge che di fatto impedisce, tra le altre cose, persino l’esercizio del diritto fondamentale alla salute.
Così potremmo definire l’iniziativa dell’associazione Libero laboratorio, che ha immediatamente trovato l’appoggio di Medicina democratica e dell’Isde.
Un appello semplice, che si trova all’indirizzo internet www.clandestinodoc.org, dove vengono esposte, senza ideologia e retorica, le ragioni per le quali la legge 15 luglio del 2009 n. 94, che fa parte del famigerato “Pacchetto Sicurezza”, è senza mezzi termini illegittima.
L’introduzione del reato di clandestinità, infatti, produce conseguenze irrazionali e ingiustificabili, tra le quali una delle più evidenti è proprio scoraggiare, neanche troppo implicitamente, le persone prive di un regolare permesso di soggiorno a recarsi, se malate, presso le strutture ospedaliere del territorio per farsi curare. Non ci dovrebbe volere un esagerato sforzo intellettuale per comprendere, anche da un punto di vista prettamente egoistico, cosa ciò possa significare per la salute di tutti.
La sopraccitata legge obbliga i pubblici funzionari alla denuncia, istiga chiunque alla delazione, terrorizza e tende a rendere ancora più inermi le persone irregolarmente presenti in Italia, equiparando il fatto di non possedere un documento valido alla commissione di un crimine di rilevanza penale.
Un passo da gigante verso il baratro dell’inciviltà e dell’imbarbarimento di una società in crisi, che trova nei politici che la governano solo irresponsabili tentativi di nascondere la loro mancanza di risposte concrete a problemi concreti dietro la creazione di categorie sempre più vaste di “nemici” e “pericoli pubblici”, da strumentalizzare per indebolire le libertà di tutti, per giustificare l’abbattimento delle garanzie lavorative di migranti e autoctoni, per modificare i volti di città ormai ridotte a zone da presidiare, in cui uccidere la socialità, la mescolanza, la vita.
Questa autodenuncia e messa a disposizione di tanti operatori della salute rappresenta una difesa dell’uguaglianza e dei valori giuridici della Costituzione italiana costruita “dal basso”, esponendosi in prima persona, vincendo la paura, alimentata quotidianamente dai media e dalle retoriche politiche, diventata come non mai strumento di governance e dispositivo di potere nelle mani di chi non ha valori positivi da opporre a questo momento di oggettiva difficoltà.
Speriamo che tantissimi medici, infermieri e personale ospedaliero aderiscano a questa lettera, ne colgano la profondità e il valore.
Speriamo che tante persone senza documenti possano riacquistare, a partire da gesti come questo, un po’ di fiducia nella gente di questo paese, sentirsi un po’ meno sole e discriminate, proprio nei territori di quell’Europa che dice di fondare la propria identità sul rispetto dei diritti fondamentali e universali e sulla pace.
Speriamo che tanti altri soggetti, per esempio i presidi e gli insegnanti delle scuole, possano prendere questa esperienza come modello e sviluppare un progetto simile, creando una rete variegata e coordinata di percorsi di civiltà contro la barbarie.
“Io sono qui per prendermi cura di te”, si legge in questo appello, e immediatamente sotto si può cliccare sulla “Mappa clandestina” per trovare un medico vicino che “non obbedisce a una legge razzista” e che, restituendo una parte della libertà sottratta a qualcun altro, certamente, al contempo si sta riappropriando con coraggio della propria.
Alessandra Sciurba
http://www.meltingpot.org/articolo14910.html
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L’eterno duello con l’America 19.10.2009
IGOR MAN
L’attentato contro i Guardiani della Rivoluzione nella capitale del Beluchistan ha fatto quarantanove morti. I pasdaran, una sorta di duplicato dell’esercito regolare, perdono uomini d’alto rango militare, perdono la presunzione dell’incolumità ritualmente esaltata dalla stampa di regime.
I pasdaran (trecentomila uomini, unità antisommossa, navi ed aerei) furono legalizzati da Khomeini. Negli anni sono diventati i moschettieri, prima di Khomeini e dopo dell’ayatollah Khamenei, il successore dell’imam.
Torna qui facile rifarsi all’Italia di Mussolini che, per mettere la mordacchia ai dissidenti, creò la Milizia volontaria della sicurezza nazionale: il 25 di luglio si dissolse spontaneamente. Va detto che la notizia dell’attentato ha turbato la gente, da qui le dichiarazioni bombastiche dei gerarchi col turbante: Ali Larijani, presidente del Parlamento, ha accusato gli Stati Uniti, immediatamente: «Gli ultimi attentati vengono da Washington. Il presidente Barack Obama aveva detto di tendere la mano all’Iran, ma con questa strage la sua mano l’ha bruciata».
E ancora: «L’arroganza globale ha sollecitato i mercenari che hanno compiuto l’attacco», dice una successiva «nota». Nel linguaggio cifrato dei gerarchi iraniani «arroganza globale» indica gli Stati Uniti e in genere le potenze occidentali. Esperti del complicatissimo Iran sottolineano un intrigante accadimento: oggi a Vienna si incontrano (tranne disdetta dell’ultima ora) delegati occidentali e iraniani per affrontare il dossier atomica. Questo per dare un segnale di buona volontà nell’imminenza di un inverno precoce che, si teme, possa essere la prova generale di una dura lezione di Israele a «obiettivi militari» dell’Iran.
Dopo le accuse con relative smentite, e cioè che dietro il disastroso attentato nel Beluchistan ci siano Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e il confinante Pakistan, crescono le scommesse, a Vienna, dove oggi si incontrano al «5+1» Usa, Russia, Cina, Regno Unito, Francia più la Germania. Assai diffuso è il timore che «si tagli acqua», che tutto finisca nel paniere della formalità, nel torrente della rissa diplomatica. Non per esser sospettosi, ma intriga la coincidenza attentato-conferenza. (Incrociamo le dita).
Lascia perplessi quello che chiameremo il «caso Khamenei». E’ sparito da oltre una settimana, le sue foto sembrano truccate. Teheran gronda sospetto e formula minacce: «vendetta», dice il premier alla tv dove ricorda le «asperità colonialiste» che il «generoso popolo» ha affrontato e superato nel corso della sua Storia.
Una Storia invero granguignolesca, zuppa di speranze e di sangue, ma anche zuccherata dai settimanali in rotocalco.
Chi scrive ricorda l’avventurosa vicenda di Reza Khan che volle farsi chiamare Imperatore e dopo la guerra barattò il suo petrolio con il riconoscimento nel Gotha dei «Paesi ricchi», a dispetto d’un lumpenproletariat che muore di fame. Letteralmente. Opportunista nel senso totale della parola, il rozzo ma dinamico Reza padre finita la Grande Guerra manda a casa inglesi e americani: «Noi siamo una libera nazione, non un palliativo», mandò a dire ai suoi «alleati-amici-dispotici». Ma la sua pietra del destino è il Nazionalismo, cioè il petrolio. Le grandi holding lo costringono a infuocare la partita, ma invano. E’ costretto all’esilio – e non è da credere che non ci scappasse periodicamente il morto, guarda caso un personaggio del suo regno. Lo segue il figlio.
Ha perso la partita ma con l’interessato aiuto degli Stati Uniti riesce (un capolavoro diplomatico) a riavere il trono, quel Trono del Pavone ch’era un mix di regalità da filodrammatici e di grasso business.
«Lo ha perduto il successo», mi disse la sua malinconica ex moglie, l’amatissima Soraya, incontrata a Roma, nella casa sul Gianicolo di Antonella di Bugnano. Certamente lo Scià si illuse di guadagnarsi il consenso dei giovani che preferirono la fame agli stipendi d’oro che l’Imperatore gli offriva «per fare dell’Iran un pilastro di benessere». Ma i giovani iraniani erano già ammaliati dai «video» che il vecchio Khomeini con velocità invero giovanile diffondeva dall’esilio in Iraq e poi dalla «fatale Parigi» da dove spiccò il volo della vittoria per sbarcare a Teheran come un santone. Ma colui che doveva diventare la Guida d’un Paese bello e potenzialmente straricco, da santone divenne spietato regista d’una saga senza misericordia. Fu crudele, specie con coloro che lo servirono gratis et amore dei. Fucilò innocenti giusto «per dare l’esempio»; se potesse, camminerebbe su chilometri di scheletri che furono uomini, sovente a lui devoti.
Il ferreo imam tuttavia conobbe l’amarezza della sconfitta. Se la (vergognosa) presa degli ostaggi americani scalfì il suo essere personaggio-sapiente, la Guida giustappunto, la pretesa di fare di cinquanta milioni di brava gente intelligente e dedicata al lavoro un esercito felice e docile, fu il cappio ideologico che strangolò il religioso e l’ignorante, un po’ tutti i persiani.
Un giorno i morti verranno finalmente contati e una volta ancora scopriremo che la violenza è come l’acido muriatico: brucia ma non uccide, sfigura.
Arrogante e pio. Testardo e vendicativo. Sanguinario. Profeta di sciagura. Privo di humour. Spietato. Ascetico. Affamato di potere. Un po’ rozzo, un po’ genio. L’uomo che ha cambiato la Storia. Ecco qualcuna delle definizioni dedicate a Khomeini. Lo hanno anche definito un fanatico, ma mi sembra più propria la definizione di Popper: «Khomeini fu un essenzialista», un uomo cioè convinto di essere sempre nel giusto.
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Energia senza crisi 19.10.2009
La Società per azioni italiana “ENEL OGK-5”, che possiede in Russia quasi il 56% delle azioni della Società di generazione elettrica russa – in forma abbreviata “Ogk-5”, ha dichiarato di passare una della quattro centrali elettriche – GRES Reftin sugli Urali – all’uso parziale del carbone del Bacino carbonifero di Kuznetsk, nel sud della Siberia, al posto del carbone del Kazahstan che viene usato attualmente. Alcuni particolari al riguardo sono trattati in una rassegna preparata da Valerij Prostakov.
A prima vista la notizia di cui sopra ha un carattere nettamente tecnico e non è di interesse per un vasto pubblico in Italia. Ma i particolari dell’annuncio che ha fatto la divisione russa dell’ENEL, rivela che si tratta di uno sfruttamento razionale, da parte dei nostri partner italiani, delle possibilità di attività produttiva nell’industria elettroenergetica della Russia.
Il valore energetico del carbone del Bacino calorifico di Kuznetsk raggiunge 6700 chilocalorie per chilogrammo.Contro 4000 kcal. del carbone del Kazahstan. La quota del cenere contenuta nel carbone di Kuznetsk è pari al 6 %- 10 % contro il 40 % nel carbone del Kazahstan. Nella combustione del carbonio di Kuznetsk si produce del 40 % in più di energia termica, si producono meno rifiuti nocivi, si riduce del 66 % l’emissione di polvere nell’aria, aumentano l’affidabilità e la sicurezza dell’approvvigionamento termico della centrale elettrica, si rende più stabile il suo funzionamento nel periodo autunno-inverno, più rigido per condizioni climatiche negli Urali rispetto alla zona europea della Russia. Il comunicato che hanno diffuso i vertici dell’Enel-OGK-5 dice altresì che il passaggio di GRES Reftin all’utilizzo del carbone di nuovo tipo che presenta le caratteristiche fisiche del tutto diverse è un progetto pilota.
Come è noto, una condizione dell’acquisto delle attività messe in asta in Russia era l’attuazione di un programma d’investimento che prevedeva, in particolare; la costruzione di nuovi impianti energetici di un determinato tipo, e la loro messa in funzione entro un determinato termine.
L’Enel è diventata la prima società straniera ad avere accettato tali condizioni e ad avere comprato il pacchetto di controllo di azioni di OGK-5. L’Enel provvede ad assolvere completamente i suoi impegni in Russia. Ogni anno la società italiana investe nell’elettroenergetica russa fino a 15 miliardi di rubli. Nei termini stabiliti – entro il Dicembre 2010, alla GRES Reftin sarà messo in funzione un impianto di una potenza di 410 megawatt del costo di circa 400 milioni di Euro. Un analogo progetto è stato elaborato per un’altra GRES facente parte di OGK-5 – quella di Nevinnomyssk nel Sud della Russia. L’Enel ha concesso alla sua Società figlia in Russia un credito di 50 milioni di Euro per non fermare il finanziamento del suo programma d’investimento nelle condizioni della carenza di fondi liquidi. Il Direttore dell’ENI per i progetti internazionali, Carlo Tamburi, ha dichiarato che la Società intende realizzare in Russia progetti d’investimento anche in futuro nonostante la crisi finanziaria internazionale.
Sulla base degli assetti del gas della Jukos fallita, l’Enel, congiuntamente con l’ENI le cui quote di partecipazione sono in rapporto del 40 % al 60 %, ha costituito la Società “Sever-Energhia” (Nord-Energia). Ora l’Enel sta provvedendo a costituire in Russia, sulla base di questa nuova società, un’impresa verticalmente integrata che si occuperà della produzione di gas e della distribuzione dell’energia elettrica.
In cambio dell’accesso alle risorse russe i partner italiani includono la Gazprom nei loro progetti, in Italia e in paesi terzi.
In particolare, un progetto congiunto è direttamente legato all’ingresso della Gazprom, in volume fino al 33 %, in un’impresa che sotto il controllo dell’ENI partecipa allo sfruttamento del giacimento di petrolio “Elephant” in Libia.
L’Enel, da parte sua, propone al partner russo, di acquistare, a scelta, quote di partecipazione in alcune centrali elettriche in Italia.
La cooperazione russo-italiana nel campo dell’energia prosegue nonostante la crisi finanziaria internazionale.
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
www.lamiaeconomia.blogspot.com
http://lamiaeconomia.blogspot.com/2009/10/energia-senza-crisi.html
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Non tutto dipende dal mercato 20.10.2009
GIUSEPPE BERTA
La variabilità del posto di lavoro, l’incertezza, la mutabilità per alcuni sono un valore in sé, per me onestamente no». Con questa affermazione recisa, pronunciata al termine di un convegno della Banca Popolare di Milano, ieri il ministro dell’Economia ha aggiunto un nuovo, importante tassello alla filosofia economica che va proponendo un giorno dopo l’altro, nei suoi commenti a margine della crisi globale. Per Giulio Tremonti la crisi ha rappresentato l’occasione per mettere ancora meglio a fuoco una visione del processo economico fondata sulla necessità di ripristinare un ordine che era andato smarrito nel periodo più intenso della globalizzazione, quello compreso tra la fine del Novecento e i primi anni del nuovo secolo.
La critica del «mercatismo» – che Tremonti ha imputato spesso anche alla sinistra italiana, vittima di una sorta di condiscendenza passiva al dogma dell’assoluta libertà economica – era per lui soltanto l’introduzione a un discorso centrato sull’urgenza di restituire un principio di senso all’economia, precipitata dal liberismo in uno stato caotico. Conoscevamo fin qui il Tremonti censore dell’abbattimento rapido e incondizionato delle frontiere economiche, di una globalizzazione finanziaria spinta all’estremo, delle banche accusate di sordità nei confronti delle esigenze dell’economia reale; nelle ultime settimane abbiamo imparato a conoscere anche il difensore dei piccoli produttori che si sentono soverchiati dalla mancanza di credito e oggi l’interprete della convinzione di quanti sono persuasi che il posto fisso «sia la base su cui organizzare il progetto di vita» delle persone e delle loro famiglie. Un punto di vista che si contrappone a quello dei tanti che avevano teorizzato, nell’ante-crisi, la fine dell’impiego a vita, indicando nella flessibilità e nello spostamento rapido da un’occupazione all’altra il paradigma del modo di lavorare dei nostri tempi.
A Tremonti preme soprattutto ricordare come sia plausibile e desiderabile un sistema economico in cui il mercato non costituisce né il centro né il metro di misura esclusivo di tutte le relazioni e le attività. Quando mette in opposizione il lavoro stabile e – perché no? – l’impiego a vita, magari all’interno di una piccola organizzazione, a una flessibilità illimitata, destinata a scadere inevitabilmente nella precarietà, sa di evocare un contrasto radicato nel senso comune delle persone, specie in una fase di crisi come quella che stiamo ancora attraversando. In realtà, chi sta pagando di più i costi della crisi sono i lavoratori non garantiti rintracciabili soprattutto dentro il mondo composito ed eterogeneo del terziario, assai meno nell’industria, dove le garanzie occupazionali permangono forti. Forse si potrebbe anche chiedere al ministro dell’Economia se non si poteva trovare qualche elemento di tutela per coloro che si sono trovati a essere investiti dall’onda della crisi senza riparo. Ma l’impressione è che l’intento di Tremonti, con l’uscita di ieri, fosse di portare argomenti ulteriori a favore di una politica che sappia reintrodurre un principio di ordine e di gerarchia nella vita economica.
In questa luce va letta l’esortazione del ministro a tornare allo spirito originario della Costituzione, un invito che suona sicuramente singolare nel momento in cui, dal governo, giunge semmai una sollecitazione un po’ ruvida a trasformarla e ad aggiornarla. Tremonti arriva invece a sostenere che dal confronto sviluppatosi dopo la guerra fra le culture politiche dei cattolici, dei comunisti e dei liberali è uscito un compromesso felice, codificato in princìpi sanciti dai costituenti, ma poi disapplicati. Per esempio, là dove si dice che la Repubblica tutela e regola il risparmio e identifica nel «credito una realtà che favorisce l’accesso alla proprietà, all’azionariato popolare».
Insomma, la lezione dei padri della Costituzione sarebbe stata tradita perché l’impulso verso la partecipazione e l’azionariato popolare nell’industria è rimasto sulla carta. Al suo posto, si è creato un sistema che «ha sfavorito i titoli di proprietà e favorito quelli del debito». Così sono state le banche a essere agevolate, col risultato che hanno finito per controllare l’industria, mentre ai tempi della Costituente le si sarebbe volute ancelle della produzione e dell’economia reale.
A leggerlo bene, il discorso di Tremonti punta ancora una volta in direzione delle grandi banche, che vorrebbe ricondurre sotto l’autorità politica, per impedire che si accaparrino un ruolo troppo vasto e incontrollato. Di qui una riscoperta delle peculiarità della storia d’Italia che riporta alla Costituente e, chissà forse, prima ancora, agli Anni Trenta e alla ben ordinata dislocazione delle funzioni economiche decisa da Alberto Beneduce quando fondò l’Iri.
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Il papà assiste al parto? A rischio mamma e figlio 19.10.2009
La presenza del padre durante il parto è certamente di aiuto durante questa esperienza, ma potrebbe essere pericolosa per la salute della madre e del figlio.
E’ il parere di Michael Odent, ostetrico del Primal Health Research a Londra.
‘La presenza del marito o del compagno durante il parto aumenta le probabilità di incisione cesarea, di successivi divorzi e anche di malattie mentali nei bambini. Inoltre, rende il travaglio più lungo e doloroso, perchè la madre è distratta dall’ansia del padre” ha detto Odent, che presenterà i suoi risultati controversi al Royal College of Midwives Meeting a Manchester.
‘Il bilanciamento ormonale della madre è scompensato in presenza di uomini, anche se sono medici. La presenza maschile porta infatti le madri a produrre adrenalina, e a ridurre la produzione di ossitocina“.
Questo ormone è fondamentale nel parto, e la sua carenza renderebbe il travaglio più lungo.
“Senza ossitocina non ci sono neanche le contrazioni necessarie, e tutto diventa più difficile” sostiene Odent.
“La mascolinizzazione del parto ha aumentato il numero di parti cesarei. L’attrazione sessuale tra le coppie spesso sparisce. In più di 50 anni di esperienza in Francia, Inghilterra ed Africa, ho capito che il parto migliore è quello in cui la donna è da sola, assistita solo da un’ostetrica esperta. La presenza maschile va eliminata“.
Per approfondire:
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Ricevuto via mail da Claudio Tullii claudio.tullii@alice.it per la lista Geopolitica di Yahoo il 19.10.2009
John Pilger: LA MINACCIA NUCLEARE DELL’ IRAN E’ UNA MENZOGNA 1.10.2009
Il regolamento di conti di Obama con l’Iran ha un altro programma.
Ai media è stato assegnato il compito di preparare la gente alla guerra senza fine.
Nel 2001, il settimanale inglese The Observer pubblicò una serie di articoli che dichiaravano ci fosse una “connessione irakena” ad al-Qaeda, arrivando a descrivere persino la base in Iraq dove si addestravano i terroristi e una struttura dove si fabbricava l’antrace come arma di distruzione di massa. Era tutto falso. Strane storie fatte circolare dall’intelligence statunitense e da esuli irakeni sui media britannici e americani aiutarono George Bush e Tony Blair a lanciare un’invasione illegittima che, secondo dati recenti, ha finora causato circa 1.3 milioni di vittime.
Sta succedendo qualcosa di simile riguardo all’Iran: le stesse “rivelazioni” sincronizzate da parte dei media e governo, la stessa finta percezione di crisi. “Si profila una resa di conti con l’Iran per le centrali nucleari segrete”, ha dichiarato il 26 settembre scorso The Guardian. “Regolamento di conti” è la parola chiave. Mezzogiorno di fuoco. Il tempo che scorre. Il bene verso il male. Aggiungici un tranquillo nuovo presidente americano che si è “lasciato alle spalle gli anni di Bush”. Un’eco immediata è stato il tristemente famoso titolo in prima pagina del Guardian del 22 maggio 2007: “I piani segreti dell’Iran per un’offensiva che forzerà gli Stati Uniti ad abbandonare l’Iraq quest’estate”. Basandosi su infondate rivelazioni del Pentagono, lo scrittore Simon Tisdall presentò come reale un “piano” dell’Iran di dichiarare guerra, vincendola, alle truppe statunitensi in Iraq entro il settembre di quell’anno — una falsità facilmente dimostrabile, che peraltro non è stata ritirata.
Il gergo ufficiale per questo genere di propaganda è “psy-ops”, termine militare per indicare operazioni psicologiche. Al Pentagono e a Whitehall sono diventate una componente cruciale di campagne diplomatiche e militari per bloccare, isolare e indebolire l’Iran esagerandone la “minaccia nucleare”, una frase ora usata assiduamente da Barack Obama e Gordon Brown e ripetuta dalla BBC e altre emittenti come verità assoluta. Ma del tutto falsa.
La minaccia è a senso unico
Il 16 settembre scorso Newsweek rivelò che le principali agenzie d’intelligence americane avevano comunicato alla Casa Bianca che la situazione nucleare dell’Iran non era cambiata dal novembre del 2007, quando era stata valutata dalla National Intelligence che informò con “alta attendibilità” che l’Iran aveva cessato nel 2003 il suo presunto programma nucleare, cosa che l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica aveva sostenuto più volte.
L’attuale falsa informazione deriva dalla comunicazione che Obama pronunciò riguardo allo smantellamento dei missili situati sulle frontiere della Russia. Ciò serviva a coprire il fatto che il numero di missili statunitensi sta effettivamente aumentando in Europa e che le testate in esubero sono riposizionate su navi. Il gioco è quello di ammorbidire la Russia per far sì che si unisca, o che perlomeno non ostacoli, la campagna degli USA contro l’Iran. “Il presidente Bush aveva ragione” ha dichiarato Obama, “nel dire che il programma missilistico dell’Iran rappresenta una minaccia reale [all’Europa e agli Stati Uniti]”. Che l’Iran possa contemplare un attacco suicida agli Stati Uniti è inconcepibile. La minaccia, come sempre, è a senso unico, con la superpotenza mondiale praticamente appollaiata ai suoi confini.
Il crimine dell’Iran è la propria indipendenza. Essendosi sbarazzato del tiranno beniamino degli Stati Uniti, Shah Reza Pahlavi, l’Iran è rimasto il solo stato musulmano ricco di risorse fuori dal controllo degli Stati Uniti. E siccome soltanto Israele ha “il diritto di esistere” in Medio Oriente, il fine ultimo degli USA è di neutralizzare la Repubblica Islamica. Questo permetterà a Israele di dividere e dominare il Medio Oriente per conto di Washington, incurante di un vicino che sa il fatto suo. Se c’è un paese al mondo cui sia stata data una buona ragione per sviluppare un “deterrente” nucleare, quello è l’Iran.
Come uno dei primi firmatari del Trattato per la Non Proliferazione Nucleare, l’Iran ha costantemente promosso l’idea di una zona denuclearizzata in Medio Oriente. Al contrario, Israele non si è mai assoggettata ad alcuna ispezione dell’IAEA, e il suo arsenale nucleare a Dimona non è un segreto per nessuno. Con tanto di 200 testate nucleari attive, Israele “deplora” la risoluzione delle Nazioni Unite che le chiedono di firmare il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, come ha recentemente deplorato la denuncia fattale dalla UN di crimini contro l’umanità commessi a Gaza, così come detiene il record mondiale per violazione di leggi internazionali. La fa franca perché un grande potere le garantisce l’immunità.
Apprestarsi alla guerra infinita
Il regolamento di conti di Obama con l’Iran ha un altro programma. Ai due lati dell’Atlantico ai media è stato affidato il compito di preparare la gente alla guerra senza fine. A detta della NBC, il Generale Stanley McChrystal, comandante dell’esercito USA/Nato ha affermato che in Afghanistan ci sarà bisogno di 500.000 soldati nei prossimi cinque anni. Lo scopo è quello di controllare il “premio strategico” del gas e dei pozzi petroliferi del Mar Caspio in Asia centrale, del Golfo e dell’Iran — in parole povere, di dominare l’Eurasia. Ma il 69% della popolazione britannica e il 57% di quella americana si oppongono alla guerra, così come quasi tutti gli altri esseri umani. Convincere “noi” che l’Iran è il nuovo demonio non sarà facile. L’infondata dichiarazione di McChrystal che l’Iran “si dice stia addestrando guerrieri per qualche gruppo talebano” suona disperata quanto le patetiche parole di Brown “una linea nella sabbia”, come a dire “non si va oltre”.
A detta del grande informatore Daniel Ellsberg, durante l’amministrazione Bush, negli USA c’è stato un golpe militare ed ora il Pentagono la fa da padrone in ogni settore che riguarda la politica estera. Si può misurarne il controllo contando il numero di guerre di aggressione dichiarate simultaneamente e la scelta del metodo di “colpire per primi” che ha abbassato la soglia del possibile uso di armi nucleari, contribuendo a confondere la distinzione tra armi nucleari e armi convenzionali.
Tutto ciò si fa beffe della retorica di Obama riguardo a “un mondo senza armi nucleari”. Infatti lui è l’acquisto più importante del Pentagono. La sua accondiscendenza alla richiesta di tenersi come segretario alla “difesa” lo stesso di Bush, cioè il guerrafondaio Robert Gates, è unica nella storia degli Stati Uniti. Gates ha subito provato la sua abilità con un incremento delle guerre, dal sud est asiatico al Corno d’Africa. Come l’America di Bush, quella di Obama è gestita da personaggi molto pericolosi. Noi abbiamo il diritto di essere avvisati. Quando cominceranno a fare il loro lavoro quelli pagati per dire le cose come stanno ?
John Pilger
Fonte: www.newstatesman.com
http://www.newstatesman.com/international-politics/2009/10/iran-nuclear-pilger-obama
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Nostalgia canaglia? (2) 21.10.2009
L’articolo che qui di sèguito vi proponiamo è tratto dal web. Nostro è il titolo, ma non la traduzione. Buona lettura ai (tanti) nostalgici
La Red-azione
Attendiamo che tra qualche settimana i media occidentali accendano le loro macchine di propaganda per commemorare il 20° anniversario del crollo del muro di Berlino, avvenuto il 9 novembre 1989. Tutti i cliché della Guerra Fredda che narrano del “Mondo Libero contro la Tirannia Comunista” verranno rispolverati e si ripeterà la favoletta della creazione del muro: nel 1961 i comunisti di Berlino Est costruirono un muro per impedire ai loro oppressi cittadini di fuggire verso Berlino Ovest e verso la libertà. Perché? Perché ai comunisti non piace che la gente sia libera, che apprenda la “verità”. Quale altra ragione avrebbe potuto esserci?
Innanzitutto, prima che il muro venisse costruito, migliaia di tedeschi dell’est facevano i pendolari per lavorare in occidente e tornavano all’est la sera. E’ quindi evidente che non venivano trattenuti all’est contro la loro volontà. Il muro fu costruito essenzialmente per due ragioni:
L’Occidente stava mettendo a soqquadro la Germania Orientale con una poderosa campagna di reclutamento di professionisti e lavoratori specializzati dell’est, che erano stati formati a spese del governo comunista. Ciò finì per generare una grave crisi del lavoro e della produzione nella Germania Est. A testimonianza di questo, il New York Times riportava nel 1963: “La costruzione del muro ha provocato danni economici a Berlino Ovest a causa della perdita di 60.000 lavoratori specializzati che ogni giorno facevano i pendolari dalla loro residenza in Berlino Est ai luoghi di lavoro in Berlino Ovest”. (New York Times, 27 giugno 1963, p. 12).
Nel corso degli anni ’50 gli artefici americani della Guerra Fredda che operavano nella Germania Occidentale misero in atto una feroce campagna di sabotaggio e sovversione contro la Germania dell’Est, finalizzata a mettere fuori uso l’apparato amministrativo ed economico del paese. La CIA ed altri servizi dell’intelligence e dell’esercito americani iniziarono a reclutare, equipaggiare, addestrare e finanziare individui e gruppi dell’attivismo tedesco, sia orientale che occidentale, allo scopo di condurre azioni che spaziavano dal terrorismo alla delinquenza giovanile; il tutto allo scopo di rendere difficile la vita dei cittadini dell’est tedesco e indebolire il loro sostegno verso il governo; qualunque cosa pur di far apparire cattivi i comunisti.
Fu un’attività rimarchevole. Gli Stati Uniti e i loro agenti utilizzarono esplosivi, incendi dolosi, cortocircuiti ed altri metodi per danneggiare le centrali elettriche, i cantieri navali, i canali, i porti, gli edifici pubblici, le stazioni di rifornimento, i trasporti pubblici, i ponti, ecc.; fecero deragliare i treni merci, ferendo gravemente molti lavoratori; diedero fuoco a 12 vagoni di un treno merci e distrussero i sistemi ad aria compressa di molti altri; si servirono di acidi per danneggiare macchinari di vitale importanza nelle fabbriche; misero della sabbia nelle turbine di una fabbrica, costringendola a sospendere l’attività; incendiarono una fabbrica di laterizi; fecero propaganda a favore di un rallentamento del lavoro nelle fabbriche; uccisero, avvelenandole, 7000 mucche di una cooperativa casearia; aggiunsero scaglie di sapone al latte in polvere destinato alle scuole della Germania Est; alcuni di essi, quando vennero arrestati, furono trovati in possesso di notevoli quantità di cantharidin, con cui progettavano di fabbricare sigarette velenose per uccidere figure dirigenziali della Germania Est; fecero esplodere bombe a gas per disperdere i partecipanti alle riunioni politiche; tentarono di far fallire il Festival Mondiale della Gioventù di Berlino Est inviando inviti fasulli, false promesse di pensione gratuita, falsi avvisi di cancellazione, ecc; perpetrarono aggressioni contro i partecipanti con esplosivi, bombe incendiarie e attrezzi per forare le gomme delle automobili; stamparono e distribuirono enormi quantità di tessere alimentari per generare confusione, penuria e risentimento; inviarono false notifiche fiscali e altre direttive e documenti pseudo-governativi per alimentare la disorganizzazione e l’inefficienza all’interno delle fabbriche e dei sindacati… tutto questo e molto altro.
Vedere Killing Hope (http://www.amazon.com/exec/obidos/ASIN/1567512526/counterpunchmaga), p. 400, nota 8, per la lista delle fonti e l’elenco dettagliato delle attività di sovversione e sabotaggio).
Per tutti gli anni ’50 i tedeschi dell’est e l’Unione Sovietica presentarono ripetute lamentele agli ex alleati occidentali e alle Nazioni Unite riguardo specifiche attività di spionaggio e sabotaggio e domandarono la chiusura delle agenzie della Germania Occidentale che ritenevano responsabili di questi atti, delle quali fornirono nomi e indirizzi. Ma le loro rimostranze caddero nel vuoto. Inevitabilmente, i tedeschi dell’est iniziarono a limitare gli ingressi nel paese ai cittadini occidentali.
Non dimentichiamo che la Germania Est divenne comunista perché Hitler, con l’approvazione dell’Occidente, la utilizzò come corridoio per raggiungere l’Unione Sovietica e tentare di cancellare per sempre il bolscevismo. Dopo la guerra, i sovietici erano assai determinati a chiudere quel corridoio.
Nel 1999 USA Today riportava: “Quando crollò il muro di Berlino, i tedeschi dell’est immaginavano una vita di libertà in cui vi fosse abbondanza di beni di consumo e un termine ai sacrifici. Dieci anni dopo, un significativo 51% afferma che si era più felici all’epoca del comunismo”. (USA Today, 11 ottobre 1999, p. 1).
Più o meno nello stesso periodo nasceva un nuovo proverbio russo: “Tutto ciò che i comunisti dicevano del comunismo era una menzogna, ma tutto ciò che dicevano del capitalismo si è rivelato essere la verità”.
Versione originale:
William Blum
Fonte: www.counterpunch.org
http://www.ilbuio.org/index.php?articolo=9_131.txt
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Attesa per domani la firma del primo accordo sul nucleare iraniano 22.10.2009
Si attende l’approvazione da parte dei governi. Sarebbe un segnale positivo, che dovrebbe fa diminuire la tensione tra Teheran e comunità internazionale. Che resta alta all’interno de Paese: annunciati “arresti” per l’attentato di domenica scorsa, mentre un centinaio di deputati chiede di incriminare Moussavi.
Beirut (AsiaNews) – E’ attesa per domani la firma dell’accordo che dovrebbe avviare a soluzione la questione del nucleare iraniano, dopo nel corso dei colloqui tra Iran, Stati Uniti, Francia e Agenzia internazionale per l’energia atomica è stata definita a Vienna una bozza sull’arricchimento all’estero di uranio iraniano. Il documento deve ora essere approvato dai governi.
Secondo quanto riferito dal segretario generale dell’ Aiea, Mohammed ElBaradei (nella foto), si prevede che l’Iran ceda gran parte del suo uranio leggermente arricchito (fino al 5%) a Paesi terzi (Russia e Francia) i quali poi lo riconsegnerebbero arricchito al 20% per uso esclusivamente civile in un reattore di ricerca medica controllato dall’Aiea. “Ho molta speranza – ha dichiarato ElBaradei dopo la firma della bozza di accordo – che la gente possa vedere il grande quadro, che l’accordo può essere la strada per una completa normalizzazine dei rapporti tra l’Iran e la comunità internazionale”.
Se approvato, dunque, l’accordo dovrebbe abbassare la tensione internazionale, almeno sul fronte iraniano. A Teheran, però, non mancano i soliti segnali contraddittori, a partire dall’oscura affermazione fatta dall’ufficiosa Press Tv che “l’Iran preferisce comprare piuttosto che scambiare il combustibile atomico”.
Oggi, poi, l’ufficiale IRNA dà notizia di “numerosi arresti” compiuti nell’inchiesta per l’attentato che, domenica scorsa, ha provocato 42 morti, tra i quali uno dei massimi responsabili dei pasdaran, Nour Ali Shoushtari. Il capo della polizia iraniana, Esmail Ahmadi-Moghaddam, che ha reso noti gli arresti, senza dare ulteriori informazioni, ha aggiunto che sono in corso dei negoziati con il Pakistan, a proposito di “arresti dei principali elementi responsabili dell’attentato terroristico”.
Malgrado le affermazioni di Teheran contro Stati Uniti, Israele e Pakistan come responsabili dell’attentato, non sono pochi i dubbi che restano sull’accaduto, che qualcuo vede piuttosto legato alle tensioni interne al Paese, che coinvlgerebbero anche i pasdaran, non tutti favorevoli alla repressione dura di coloro che contestano il regime.
Per la repressione è invece sicuramente il centinaio di parlamentari che a Teheran ha chiesto di processare Mir Hossein Moussavi. Secondo i suoi accusatori, il leader riformista ha commesso un “crimine contro la nazione” mettendo in discussione i risultati delle elezioni presidenziali del giugno scorso. La lettera dei deputati, secondo l’IRNA, è stata consegnata al procuratore capo Gholam Hossein Mohsen Ejeie.
Se incriminato, Moussavi si unirebbe all’altro ex candidato riformista Mehdi Karrubi, recentemente incriminato per avere denunciato stupri su alcuni degli arrestati nelle manifestazioni di piazza dell’estate scorsa. (PD)
http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=16659&size=A
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Berlusconi incontra Putin a Mosca 22.10.2009
Il premier italiano Silvio Berlusconi è a Mosca. Il capo del governo è stato accolto all’aeroporto di San Pietroburgo da Vladimir Putin e dalla governatrice della città Valentina Matvienko.
Berlusconi discuterà con il primo ministro Putin anche della collaborazione di imprese russe con Finmeccanica e Fiat. Lo ha detto lo stesso Putin precisando che la questione della nostra cooperazione» riguarda la «collaborazione con Finmeccanica e con Fiat».
Secondo Putin all’esame sarà inoltre «la possibilità di produrre auto e macchinari agricoli».
Soltanto due settimane fa Fiat ha firmato alla presenza di Putin a Mosca un accordo con Sollers per la produzione di macchinari agricoli sul territorio russo attraverso la controllata del Lingotto Cnh. In quell’occasione l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne ha espresso il desiderio di produrre anche jeep nella Federazione russa.
Successivamente Sollers ha reso nota la possibilità di assemblare le jeep nei propri impianti.
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Ricevuto via mail da Rossana rossana@comodinoposta.org per la lista neurogreen@liste.rekombinant.org il 22.10.2009
Genova, le lucciole in ronda anti-degrado
E’ appena uscito il libro Fiere di essere puttane di D/A : “Siamo puttane e ne siamo fiere». Così recita il «manifesto» dell’orgoglio delle prostitute da poco pubblicato in Francia. Un libro che sfata i luoghi comuni che di volta in volta indicano nella prostituzione una forma di asservimento, una piaga sociale, un’emergenza da gestire come ordine pubblico. Un libro scritto da due prostitute, protagoniste di un movimento che chiede rispetto e diritti per quelle e quelli che hanno scelto di esercitare la professione più antica del mondo”.
Un libro scritto da due prostitute francesi. Spostiamoci in Italia e precisamente a Genova. Cosa fanno le prostitute? Le ronde anti-degrado.
21 – 10 – 2009
Genova, le lucciole in ronda anti-degradoAccordo tra le prostitute del centro storico e il Comune: un ufficiale dei vigili urbani raccoglierà le segnalazioni delle ragazzemercoledì 21 ottobre 2009)
GENOVA – Le «alcove» del centro storico genovese sono un centinaio, strette tra i vicoli dell’angiporto ed affittate a prostitute straniere che attendono clienti sulla soglia. I piccoli appartamenti sono rigorosamente divisi per etnìe: da una parte quelli occupati dalle sudamericane, dall’altra le ragazze dell’Est, quindi le africane e poi le arabe. Alcuni di questi “bassi” si affacciano su Palazzo Tursi, sede del Comune, e distano non più di cinquanta metri dall’ufficio del sindaco Marta Vincenzi. Il clima di tradizionale e tollerata promiscuità – diventato un’attrazione turistica – è stato rafforzato da un originale accordo stretto tra l’amministrazione comunale e un comitato di “lucciole”: a partire dai prossimi giorni, un ufficiale dei vigili urbani avrà l’incarico formale di prendere nota delle segnalazioni di Bocca di Rosa e colleghe.
Le ragazze racconteranno alla polizia municipale cosa va e cosa non funziona, chi è che sporca e chi disturba, cosa si potrebbe fare per rendere la zona più vivibile ed accogliente. I vigili faranno tesoro delle osservazioni, e cercheranno di rimediare ai problemi. L’assessore Francesco Scidone conferma: le prostitute, che si sono impegnate a tenere un «comportamento decoroso», evitando «atteggiamenti sguaiati e schiamazzi» ed esercitando «discretamente» la professione, contribuiranno alla riqualificazione del territorio. «Sono state loro, riunite nel comitato per i diritti civili “Le Graziose”, ad averci contattato chiedendo di collaborare. Naturalmente non saranno delle confidenti in ordine ai reati. Noi ci occupiamo di decoro e vivibilità». Il cosiddetto ufficiale di collegamento è già stato individuato: si tratta di Alfredo Rucher, responsabile del distretto Centro.
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Ricevuto via mail da Rossana rossana@comodinoposta.org per la lista neurogreen@liste.rekombinant.org il 22.10.2009
Per chi vuole conoscere di più il pensiero di Karl Marx sulla crisi è uscito un nuovo libro: Karl Marx. Il capitalismo e la crisi: Scritti sceltia cura di Vladimiro Giacché. D/A edizioni 2009
Karl Marx ha predetto il crollo del dollaro US nel 1857
Fonte: Pravda.Ru
URL: http://english.pravda.ru/world/americas/109936-marx_dollar-0
La grande caduta di ottobre del dollaro US si sta trasformandosi in una valanga. Entro sei mesi (aprile con settembre) il dollaro ha perso oltre 10 per cento nel commercio del cambio sull’estero del mondo, che ha contrassegnato il declino più tagliente dal 1991.
Alcuni esperti credono che la valuta americana sia vicina al crollo e che può condurre ad una nuova crisi finanziaria. La tendenza della svalutazione del dollaro US è stata osservata per alcuni anni, ma il tasso corrente di declino è senza precedenti.
Alcuni jokesters hanno riletto le lettere di Karl Marx a Friedrich Engels scritte durante il panico finanziario degli Stati Uniti di 1857.
Ma è un crollo inevitabile? Dal punto di vista degli indicatori macroeconomici, la situazione degli Stati Uniti è effettivamente spaventosa: un disavanzo di bilancio record di $1.4 trilioni, debito record che ora supera $11.9 trilioni, alta disoccupazione e valuta debole. Le affluenze di capitalenell’economia di cui Obama è ancora fiero non hanno indicato i risultati. Ma da un lato la valuta debole può essere buona cosa per gli Stati Uniti. “L’economia è sostenuta dagli ordini industriali basati sul dollaro debole corrente e sui prezzi più elevati in avvenire.
Se il debito si sta sviluppando significa che gli Stati Uniti continuano ad ottenere i prestiti. “I partecipanti del mercato preferiscono prendere in prestito i soldi in dollari ed i prestiti in dollaro sono relativamente acquistabili.
Ma molti esperti pensano che non appena gli Stati Uniti annunceranno l’aumento dei tassi di interesse, la valuta americana smetterà di cadere e perfino di crescere.
Cosa sta accadendo Ben Bernanke, il presidente della riserva federale degli Stati Uniti elude la risposta. Martedì gli investitori hanno discusso le informazioni ottenute dalle fonti ufficiali degli Stati Uniti, la riserva federale comincerà sollevare i tassi di interesse non più presto della seconda metà dell’anno prossimo.
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Dal 2010 sarà obbligatorio indicare nella bolletta il mix energetico 20.10.2009
Di Mario Delfino
Gazzetta Ufficiale n. 196 del 25 agosto 2009.
Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico 31 luglio 2009 Criteri e modalità per la fornitura ai clienti finali delle informazioni sulla composizione del mix energetico utilizzato per la produzione dell’energia elettrica fornita, nonchè sull’impatto ambientale della produzione.
E’ il decreto che stabilisce, per l’appunto, le modalità con le quali le imprese, che vendono energia elettrica, dovranno comunicare ai loro clienti, mediante i loro siti internet e, con frequenza almeno quadrimestrale, in bolletta, entro il 31 maggio di ogni anno, a partire dal 2010, le informazioni relative al mix energetico dell’energia elettrica venduta.
Tali informazioni saranno relative ai 2 anni precedenti.
Le imprese dovranno, cioè, indicare la composizione del mix medio nazionale utilizzato per la produzione dell’energia elettrica immessa nel sistema elettrico nel 2009 e nel 2008.
Le imprese specificheranno, in termini di percentuali, il ricorso alle fonti primarie utilizzate tra le seguenti:
– fonti rinnovabili
– carbone
– gas naturale
– prodotti petroliferi
– nucleare
– altre fonti.
L’anno successivo, cioè, a partire dal 2011, le imprese dovranno adempiere ad un ulteriore obbligo, consistente nella comunicazione, mediante le stesse modalità precedentemente indicate, della composizione del mix energetico utilizzato per la produzione dell’energia elettrica venduta dall’impresa stessa negli anni precedenti.
A decorrere, infine, dal 2012, le imprese dovranno riportare anche la quota di energia elettrica venduta nell’anno precedente derivante da produzione di energia elettrica da cogenerazione ad alto rendimento.
Ciao
A presto.
Si ringrazia:
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Polimeri dagli anacardi 19.10.2009
Vernici, resine, schiume. Prodotte senza petrolio, a basso costo e minimo impatto ambientale. Succede al CimtecLab, un laboratorio-azienda tutto italiano nell’Area Science Park di Trieste
di Tiziana Morioni
Immaginare un mondo senza petrolio è forse ancora un’utopia, ma qualche passo nella giusta direzione si comincia a fare. Anche nel campo dell’industria chimica. Vernici, adesivi, resine, materiali isolanti, laminati, schiume, materassi e imbottiture possono infatti essere realizzati senza ricorrere all’oro nero, a minor costo, a un più basso impatto ambientale e senza sottrarre risorse ad altri mercati. Basta saper come trattare gli scarti delle industrie alimentari.
La chimica che lo permette è nota dai primi del Novecento, abbandonata proprio a causa del boom del petrolio e dei polimeri sintetici. Serviva solo qualcuno che la riscoprisse. A farlo sono stati i ricercatori del CimtecLab, un laboratorio-azienda tutto italiano presso Area Science Park di Trieste. La storia è cominciata un paio di anni fa, quando un gruppo di ricercatori ha sviluppato la tecnologia necessaria per ottenere materiali polimerici biocompatibili dal Cnsl (Casew Nut Shell Liquid), un derivato tossico del trattamento del guscio degli anacardi. Questa sostanza è attualmente prodotta in grandi quantità in India e Vietnam, ma anche in Africa, Nigeria e Brasile, per un totale di circa un milione di tonnellate all’anno.
Distillando il Cnsl, i ricercatori sono riusciti a ottenere un’altra sostanza dalle caratteristiche molto interessanti, chiamata cardanolo. La tecnica di distillazione utilizzata non solo è ecologica, ma permette un alto recupero e un’elevata purezza del prodotto finale (95%). Partendo dalla struttura molecolare di base, i chimici sono stati in grado di ottenere nuove molecole attraverso passaggi di sintesi semplici ed economici. E di mettere a punto protocolli, di cui ora hanno il brevetto a livello mondiale, per creare una serie vastissima di nuove sostanze. Gli ultimi test sono terminati lo scorso 9 ottobre e molti dei derivati hanno già avuto l’approvazione dell’Unione Europea, mentre altri sono in corso di registrazione. I prodotti, che dovrebbero essere sul mercato dall’inizio del 2010, avranno il marchio Exaphen e comprendono schiume da impiegare a partire dalla fabbricazione di frigoriferi fino ad arrivare alle imbottiture, vernici per l’industria nautica e per i mobilifici, pannelli edili, sigillanti, isolanti termici. Tutti con proprietà ritardanti di fiamma (con ridotta infiammabilità), antibatteriche, anti-idrolisi (resistenti all’aggressione dell’acqua) e anti-invecchiamento.
Quelli del CimtecLab non sono certo i primi prodotti naturali che cercano di sostituire il petrolio. Ci si è già provato con derivati di soia e mais. Ma, rispetto a questi, i nuovi polimeri hanno caratteristiche fisiche migliori e sono più economici, senza contare il fatto che per la loro realizzazione non si attinge a potenziali risorse alimentari, ma si sfrutta un prodotto di scarto tossico. In più, lo scarto dello scarto, legnoso e secco, viene usato come rinforzo di materiali compositi. Restano alcuni punti critici: “Il prodotto finale non è biodegradabile e i reagenti intermedi derivano ancora dal petrolio”, spiega Pietro Campaner, ricercatore della New Materials Division di CimtecLab”, ma ci stiamo lavorando e stiamo anche pensando a come utilizzare gli scarti dell’industria del pesce e l’olio di sansa”.
Ma davvero le imprese hanno un’anima tanto ecologista da cambiare la loro filiera? “Negli Usa l’aspetto etico influisce molto sulle scelte delle aziende”, risponde Campaner, “mentre qui da noi la leva è ancora il prezzo: il costo di produzione di alcuni di questi nuovi composti è un terzo di quelli derivati dal petrolio”.
Non esiste una lista dei materiali che è possibile ottenere con questo metodo e qui sta forse l’aspetto più interessante della storia: non si vende solo il prodotto finito, ma le idee per inventarne di nuovi man mano che qualche industria ne sente il bisogno. Insomma, di necessità virtù.
http://www.galileonet.it/primo-piano/11953/polimeri-dagli-anacardi
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Perimeter: l’arma finale della Russia 20.10.2009
Di Riccardo Meggiato
E se l’arma finale, quella del giorno del giudizio, esistesse davvero e non fosse solo l’invenzione di qualche scrittore di fantapolitica? A muovere quella che è ben più di un’ipotesi è Wired, con un articolo che raccoglie la testimonianza di Valery Yarynich, ex-colonnello dell’esercito sovietico. E dato che Yarynich ha 72 anni, è chiaro che ha vissuto in toto gli anni della Guerra Fredda.
L’arma finale a disposizione dei sovietici, dal nome Perimeter, doveva garantire un pronto contrattacco agli USA nel caso di un loro attacco nucleare. Non importa se questo avesse raso al suolo tutta la Russia, Cremlino compreso: una serie di sensori terrestri avrebbero rilevato un’imponente esplosione e attivato Perimeter.
L’arma, anche conosciuta come Mertvaya Ruka o Dead Hand, è stata costruita 25 anni fa, rimanendo top-secret ai più fino al giorno d’oggi. La caduta del comunismo e della vecchia Russia, però, hanno reso meno segreti i segreti di stato. Fornendo a Yarynich spunti per fargli raccontare, fin dal 1993, in una lunga serie di articoli e libri, tutto ciò che sa di Perimeter. Tuttavia, chiedendo spiegazioni sia all’attuale governo russo, sia alla casa Bianca, il discorso viene puntualmente sviato, mostrando un’innaturale incredulità di fronte alla notizia, quasi non ne avessero mai sentito parlare.
Insomma, Dead Hand è esistita oppure no? Stando all’ex-colonnello, non solo è esistita, ma esiste tutt’ora, e i russi tentano di nascondere meglio che possono il segreto. Non si sa se in questa copertura rientri o meno la morte, avvenuta in circostanze misteriose (“accidentale” caduta per le scale) di un ufficiale sovietico che aveva parlato del progetto agli americani. In questo scenario da spy-story, rimane chiaro un punto: Yarynich ha seguito da vicino il progetto, che stando al suo racconto risale al 1985. Pochi anni prima, una serie di eventi convinsero la Russia che gli Stati Uniti non solo erano dotati di tutto il necessario per sferrare un attacco nucleare, ma erano pure intenzionati a metterlo in atto. E a questa situazione non giovò di sicuro l’annuncio del famoso “scudo spaziale” di Reagan. Così ecco la nascita di Perimeter, che più che un’arma del tutto nuova era un sofisticato sistema missilistico.
La prima fase del suo funzionamento consisteva nell’attivazione, basata su alcune condizioni da verificare. Prima di tutto, il sistema valutava se c’era stato un attacco atomico, sulla base dei rilievi di alcuni sensori. In caso affermativo, Dead Hand verificava che il Comando Generale fosse vivo. In caso affermativo, Perimeter si bloccava, mentre in caso negativo passava il proprio controllo a dei nuclei operativi nascosti in bunker segreti e indistruttibili. Saltando a piè pari la normale procedura burocratico-militare e mettendo nelle mani di chiunque ricevesse il segnale la possibilità di dare inizio al contrattacco. In questo infausto caso, si sarebbero attivati degli appositi missili, nascosti e protetti in enormi silos sotterranei. Una volta lanciati, avrebbero dato ordine, tramite segnali radio a tutte le armi sopravvissute all’attacco nucleare, di colpire gli Stati Uniti. La cosa buffa, si fa per dire, è che gli stessi Stati Uniti progettarono queste tecnologie, ma non ebbero mai l’idea di riunirle in un unico sistema.
Stando a Yarynich, e all’ufficiale spaziale Alexander Zheleznyakow, Perimeter non è stato mai dismesso e la segretezza dell’intero progetto è stata mantenuta non solo per evitare che gli Stati Uniti capissero come disattivare il sistema, ma anche per frenare eventuali “teste calde” che si fossero impossessate del comando sovietico. Perché, stando a Zheleznyakow, il fatto di sapere che esisteva un sistema potente quale Perimeter, in grado di distruggere l’avversario in un solo colpo, avrebbe moderato qualsivoglia proposito d’attacco. La Russia, insomma, avrebbe vinto comunque, quindi non c’era da avere fretta.
Perimeter, dunque, esiste ancora ed è lo stesso Yarynich a promuoverne il suo annuncio pubblico e ufficiale. Perché Dead Hand potrebbe rivelarsi un ottimo deterrente durante situazioni critiche come il conflitto georgiano, che vide contrapporsi Bush e Putin. E se qualcosa andasse storto? Se qualche virus o qualche malfunzionamento portassero all’attivazione del sistema? Yarynich è molto tranquillo, perché sostiene che, comunque, l’ultimo comando dovrà essere dato da un essere umano. Il che, aggiungo io, non è sempre sinonimo di affidabilità…
http://www.wired.it/news/archivio/2009-10/20/perimeter-l’arma-finale-della-russia.aspx
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