http://www.movisol.org/ del 3.11.2009
Parlando il 29 ottobre da Berlino, in una conferenza trasmessa su internet (webcast), Helga Zepp LaRouche, presidente del Movisol tedesco (BüSo), ha illustrato le alternative drammatiche che si presentano al mondo: continuare con la globalizzazione e la bolla speculativa, che condurranno ad un “megacrac”, o scegliere un nuovo sistema finanziario per ricostruire l’economia mondiale con lo sviluppo infrastrutturale. Il potenziale in questa direzione è aumentato dopo i recenti accordi tra la Russia e la Cina (cfr. SAS 44/09).
I progetti bilaterali, ha spiegato la signora LaRouche, riguardano investimenti cinesi in sistemi ferroviari ed energetici in Russia, un progetto congiunto nello spazio e centinaia di progetti ad alta tecnologia in Siberia, nel nord-est della Russia e nel nord-est della Cina. Si tratta di investimenti produttivi, che creeranno ricchezza reale trasformando così le enorme riserve di dollari della Cina in beni fisici.
Questo è esattamente il tipo di progetto eurasiatico, ha commentato Helga LaRouche, che suo marito Lyndon LaRouche e lei stessa promuovono da 20 anni a questa parte, a partire dal triangolo produttivo del 1989, ampliato poi nel progetto del Ponte Eurasiatico di Sviluppo. In effetti, lei e il suo movimento politico vengono riconosciuti internazionalmente come gli “ideatori” di tale nuovo ordine economico mondiale più giusto.
In questo contesto, ha detto, “non è una coincidenza che io e mio marito Lyndon LaRouche siamo stati invitati alla settima conferenza sul Dialogo tra le Civiltà, che si è tenuta a Rodi dall’8 al 12 ottobre, dove abbiamo avuto l’occasione di presentare l’accordo tra le quattro potenze proposto da LaRouche, e di discutere queste idee con partecipanti russi, indiani e di altre nazioni” (cfr. SAS 42, 44/09). La signora LaRouche ha quindi ricostruito, con l’ausilio di illustrazioni, le varie iniziative prese negli anni dai coniugi LaRouche a favore del “ponte di sviluppo eurasiatico” e gli incontri diplomatici con ambienti ad alto livello in Cina, Russia ed India.
Solo questi tre paesi, insieme agli Stati Uniti, hanno potenzialmente la forza per sfidare i cartelli finanziari globali della finanza e delle materie prime che ora controllano l’economia mondiale. Sicuramente non ce l’ha l’Europa, le cui nazioni hanno perso il controllo sovrano sulla loro valuta e sul governo. Disgraziatamente gli Stati Uniti per il momento non reagiscono a questi impulsi positivi, perché l’amministrazione Obama resta attaccata alla politica dei salvataggi bancari imponendo un’austerità brutale sulla popolazione. Ma man mano che accelererà la caduta libera dell’economia e si svilupperà il fermento da sciopero di massa nella popolazione, questo potrebbe cambiare rapidamente. Economisti ad alto livello negli USA stanno studiando seriamente la funzione della triplice curva di LaRouche (che illustra la forbice crescente tra bolla speculativa, massa monetaria ed economia reale) ed il suo piano di riorganizzazione fallimentare, e riconoscono che è l’unica soluzione.
Quanto al nuovo governo tedesco, che sostiene che “il peggio è passato”, verrà presto smentito dalla realtà. La sua intenzione di ridurre le tasse e il debito contemporaneamente non funzionerà mai, ha commentato Helga Zepp LaRouche.
Un altro momento saliente della sua videoconferenza (disponibile con la traduzione italiana sul sito www.movisol.org) è stata la denuncia dei due principali cartelli che controllano la distribuzione di derrate alimentari: Cargill e Monsanto. Se non spezzeremo la morsa che questi cartelli hanno sul cibo e l’agricoltura non ci sarà alcuna speranza di sconfiggere gli scenari di riduzione della popolazione mondiale promossi dal Principe Filippo d’Edimburgo e dai suoi alleati.
Geithner chiede poteri illimitati per salvare i suoi amici di Wall Street
Il 29 ottobre il ministro del Tesoro americano Tim Geithner ha proposto una legge che darebbe al governo poteri illimitati per salvare banche d’affari, finanziarie e altre “non-banche”, che LaRouche ha definito “equivalente ad un tradimento”.
Secondo la nuova proposta, gli istituti finanziari non commerciali sarebbero esclusi dalla giurisdizione fallimentare ordinaria, ma sarebbero sottoposti ad un “Consiglio di Sorveglianza dei Servizi Finanziari” dipendente dall’esecutivo. Il deputato democratico Brad Sherman, che già nel 2008 si era opposto al salvataggio targato Paulson-Goldman Sachs, ha definito il piano Geithner un “TARP agli steroidi”, e cioè un mega-schema di salvataggio bancario. Alle audizioni presso la Commissione Finanze della Camera, Sherman ha accusato Geithner di voler appropriarsi di “un’autorità di salvataggio permanente e illimitata”. La legge garantirebbe “1. Poteri senza precedenti all’esecutivo per decidere spese e imposte senza l’approvazione parlamentare; e 2. Di volta in volta dipendente dai desideri del ramo esecutivo, il più grande trasferimento di denaro dal Tesoro a Wall Street nella storia USA”.
Citando il testo del ddl proposto, Sherman ha proseguito: “L’esecutivo può concedere in prestito un ammontare illimitato ad ogni istituto finanziario solvibile se necessario per impedire l’instabilità finanziaria (§1109a), o ad un istituto finanziario in difficoltà la cui insolvenza avrebbe gravi effetti sulla condizione economica degli Stati Uniti (§1603b,2 e §1604c,1). Per quanto riguarda le imprese in difficoltà, il salvataggio può anche prendere la forma dell’acquisto di attivi dall’istituto (§1604c,2) o dell’investimento nello stesso (§1604b,4)”.
Sottraendo le imprese finanziarie dalla giurisdizione fallimentare ordinaria, il ddl nella forma proposta eliminerebbe un pilastro del sistema costituzionale americano, che regola le procedure fallimentari secondo criteri ispirati al bene comune. Finora solo le banche ordinarie (commerciali) sono sottratte alla procedura fallimentare ordinaria perché sottoposte alla giurisdizione della Federal Deposit Insurance Corporation, che assicura e protegge i risparmiatori e i clienti commerciali delle banche. La FDIC fu uno dei due importanti tasselli, assieme alla legge Glass-Steagall, del sistema di protezione governativo in caso di insolvenza, che escludeva le banche d’affari.
“Anche se questa legge non andrà in porto”, ha commentato LaRouche, “deve essere messa alla berlina l’intenzione criminale dietro di essa. Se si permette questa truffa, sarà una ricetta sicura per il crollo totale dell’intero sistema finanziario. Dobbiamo fermarla, perché in ultima analisi causerà il genocidio ai danni del popolo americano”.
Intanto, a dispetto della decantata crescita del 3,5% del PIL americano nel terzo trimestre, che ha fatto parlare di “uscita dalla recessione”, la cosiddetta ripresa USA è drogata. Almeno la metà di quella crescita è attribuita agli incentivi per la rottamazione, che duravano fino ad agosto, e agli incentivi fiscali di 8.000 dollari per l’acquisto della prima casa. In realtà, gli indicatori dell’economia fisica puntano al rosso profondo: in settembre, la spesa dei consumatori è scesa dello 0,5%, il calo massimo negli ultimi cinque mesi, mentre i salari sono scesi dello 0,2%. Il numero delle abitazioni vuote è salito a 18,8 milioni nel terzo trimestre (dai 18,4 del 2008), mentre le vendite di nuove abitazioni è sceso del 3,6% a settembre.
L’economia USA perde occupazione in settori chiave, come quello delle macchine utensili, le cui vendite sono crollate del 68% nei primi otto mesi dell’anno. Le macchine utensili e le tecnologie collegate sono un indicatore cruciale dell’economia fisica. Nessuna meraviglia dunque se le banche falliscono – tranne quelle degli amici di Geithner a Wall Street. Il 29 ottobre la FDIC ha commissariato altre nove banche, portando il totale quest’anno a 115. Due giorni dopo, Geithner ha detto alla trasmissione “Meet the Press” della NBC che il sistema bancario “è drammaticamente più stabile”. Mentre diceva queste sciocchezze avveniva il quinto fallimento più grande degli USA, quello di CIT Group, con un fatturato di 71 miliardi.
Natalia Vitrenko si candida alle presidenziali ucraine
Il congresso straordinario del Partito Socialista Progressista dell’Ucraina ha nominato il 31 ottobre Natalia Vitrenko come candidato alla Presidenza della repubblica. Nel suo discorso, Vitrenko ha promesso di portare l’Ucraina fuori dal FMI e dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) se verrà eletta. Nel passato, la signora Vitrenko ha ripetutamente ammonito degli effetti genocidi della politica del FMI applicata in Ucraina, in termini di impoverimento generale, crollo dei livelli di vita e un netto calo demografico. I suoi moniti sono ora drammaticamente confermati dagli effetti della pandemia influenzale, che in Ucraina sono più gravi che in altri paesi europei. Favorevole al miglioramento dei rapporti con Russia e Bielorussia, la Vitrenko ha annunciato che la propria piattaforma elettorale sarà centrata su “cambiamenti radicali nella politica domestica e estera, come richiesto per salvare la nazione”. La sua piattaforma parla anche di impegno allo sviluppo della scienza e dell’istruzione, dell’energia (compreso il nucleare), dell’agricoltura e dell’industria, non tralasciando il sostegno alla famiglia.
Lo striscione sullo sfondo del congresso ritraeva la Vitrenko mentre indica il diagramma delle tre curve di LaRouche, ripresa durante un seminario tenuto nel corso della sua recente visita ai coniugi LaRouche in Germania (cfr. SAS 44/09). In quel seminario la Vitrenko ha illustrato il declino spaventoso dell’economia ucraina dal 1992, quando entrò nel FMI, e soprattutto dopo la cosiddetta Rivoluzione Arancione del 2004. Come frutto di quel seminario, la Vitrenko e Helga Zepp LaRouche hanno stilato una dichiarazione intitolata “Adottare il piano LaRouche”.
Alla vigilia del congresso PSPU, il parlamento ucraino ha finalmente approvato un aumento del salario minimo e degli ammortizzatori sociali. Si tratta di un aumento di 20 dollari, da 75 a 95 o da 95 a 115 dollari al mese. Benché si tratti di cifre irrisorie, il direttore del FMI Dominique Strauss-Kahn si è detto “preoccupato”, e ha fatto capire che potrebbe cancellare la quarta tranche del prestito di 16,4 miliardi di dollari all’Ucraina, negoziato l’anno scorso.
Muscardini chiede alla Commissione EU un parere sulla proposta delle “quattro potenze”
Il vicepresidente della Commissione Commercio del Parlamento Europeo, Cristiana Muscardini, ha rivolto un’interpellanza alla Commissione EU, chiedendo che si pronunci sulla possibilità che un accordo tra Russia, Cina, India e Stati Uniti possa dare vita ad un nuovo sistema creditizio.
L’interpellanza, presentata il 29 ottobre, recita: “L’economia reale, nonostante le dichiarazioni tranquillizzanti di molti responsabili addetti ai lavori, è ancora in caduta libera e i licenziamenti non s’arrestano, gettando nella disperazione milioni di famiglie in tutto il mondo. Anche i tre vertici G20 di Washington, Londra e Pittsburgh non hanno saputo trovare soluzioni per una nuova o riformata architettura finanziaria, dopo che da molte parti, allo scoppio della crisi, si erano chieste nuove regole per evitare lo sviluppo indiscriminato della bolla speculativa. La riorganizzazione del sistema non è nemmeno iniziata e la crisi sistemica continua. Nemmeno le risposte fornite alle mie interrogazioni in proposito – si parva licet. – hanno individuato le cause che hanno provocato questo sconquasso. Ed è incredibile che non sia stata fatta ancora un’analisi approfondita di queste cause, nonostante i rischi che la crisi si trasformi in una grande sciagura per l’economia di tanti stati e di tantissime famiglie. A ciò s’aggiunge il pericolo che le banche che hanno addebitato i costi dei loro fallimenti ai contribuenti, gravando i bilanci pubblici di debiti astronomici, ricomincino operazioni ad alto rischio e paghino bonus miliardari ai loro manager. Di fronte a questa situazione sistemica ancora negativa,
la Commissione
Come la giudica?
Quale contributo è in grado di fornire per un’analisi approfondita delle cause della crisi?
Come giudica l’ipotesi di un accordo tra le quattro potenze: Usa, Russia, Cina e India, impostato su accordi di credito del tipo di quelli sottoscritti recentemente tra Russia e Cina?
Ritiene che questi accordi possano rappresentare un passo avanti verso un nuovo sistema creditizio?
Non teme che il ritorno al vecchio sistema che ha fallito significhi la causa prima della prossima crisi?”
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“Popieluszko”, tributo al mite eroe della libertà 03.11.2009
Milioni di persone nelle piazze e per le strade di Varsavia. Incuranti della repressione, della polizia pronta a sparare e manganellare, del crollo imminente di quel blocco comunista che si sarebbe sgretolato a partire dalla caduta del Muro di Berlino. Era il 3 novembre 1984 quando la Polonia testimoniò in modo potente contro la tirannia della paura e rese Jerzy Popieluszko l’eroe moderno che ancora non abbastanza persone ricordano come tale. Il giovane religioso dall’aspetto fragile e tormentato, assassinato da mano misteriosa a soli 37 era già stato evocato in un poco riuscito film di Agnieszka Holland datato 1988, intitolato Un prete da uccidere. Ora torna, con maggiore verosimiglianza storica, nel film Popieluszko di Rafal Wieczynski, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in uscita nei cinema italiani il 6 novembre.
Il coraggio oltre il terrore – Figlio di contadini, giovanissimo soldato nell’esercito comunista, Jerzy Popieluszko scoprì la sua vocazione religiosa e fu ordinato prete dal Primate della Polonia Wyszynski che lo destinò ad alcune parrocchie di campagna, in mezzo alla gente umile e agli operai. Sensibile e determinato, Popieluszko imparò presto che in quella Polonia fede, impegno sociale e politica viaggiavano indissolubilmente intrecciati. Non solo gli operai ma anche altre categorie di lavoratori, e progressivamente anche studenti e intellettuali ne fecero una guida non solo spirituale, soprattutto dopo il suo avvicinamento a Solidarnosc, il sindacato guidato da Lech Walesa e sostenuto da Papa Woytjla. Un prete scomodo, che agiva come grancassa della coscienza di una nazione che cercava la sua rinascita e voleva liberarsi dalle pastoie del comunismo. Lo uccisero il 19 ottobre 1984, il corpo fu trovato in un lago, la testa sfondata, il volto mutilato, un sasso legato ai piedi. Nessuno è mai riuscito a identificare gli assassini del cappellano di Solidarnosc, ma più indizi rinconducevano alla pista che via Kgb porta al Cremlino.
Ricostruzione senza precedenti – Nel Popieluszko diretto da Wieczynski l’attore Adam Woronowicz ridà voce e corpo alla battaglia del prete polacco. Il regista ha mescolato immagini d’archivio, documentari e finzione con una completezza e complessità inedite. Grandi scene di massa sono state girate ricorrendo a settemila comparse, in uno degli sforzi economici più importanti del cinema dell’Est europeo. Per riscoprire l’uomo che, pur potendosi mettere in salvo e venendo incoraggiato dal Vaticano, decise di restare a fianco agli oppressi, diventando, prima che un santo, un simbolo di libertà.
Redazione Tiscali
http://spettacoli.tiscali.it/articoli/cinema/09/11/03/popieluszko-film-12345.html
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Europa: La Repubblica Ceca dice ok al Trattato di Lisbona 03.11.2009
Il presidente ceco, Vaclav Klaus, ha firmato il Trattato di Lisbona. Il Trattato, ha detto il presidente della Commissione Europea, Josè Manuel Barroso, potrebbe entrare in vigore a dicembre o gennaio.
La firma arriva dopo che la Corte Costituzionale ceca stamane ha stabilito che il Trattato di Lisbona è conforme alla Costituzione della Repubblica, rimuovendo l’ostacolo finale alla ratifica del trattato che riforma le istituzioni europee da parte dell’ultimo dei 27 paesi dell’Unione. Secondo quanto annunciato da Pavel Rychetsky, il presidente della Corte costituzionale, riunita oggi a Brno, il Trattato di Lisbona è quindi conforme alla Costituzione ceca. La corte era stata chiamata a pronunciarsi per la seconda volta sul documento europeo a seguito di un secondo ricorso presentato da un gruppo di senatori cechi. L’alta corte ha esaminato il trattato nel suo insieme e ha respinto il ricorso aprendo le porte alla ratifica definitiva dopo un lungo e accidentato cammino.
Il presidente euroscettico Vaclav Klaus aveva detto di voler attendere la pronuncia della Corte di Brno per firmare il trattato, dopo aver ottenuto una deroga alla Carta dei diritti fondamentali che consente a Praga di non affrontare nuovi ricorsi per l’indennizzo di tre milioni di tedeschi espulsi dai Sudeti dopo al Seconda Guerra Mondiale.
In merito:
da http://www.movisol.org del 6.10.2009
qui: https://adrianaemaurizio.wordpress.com/mediattivismo/mediattivismo-024/ e su altre pagina del blog
“…Dopo il referendum irlandese: avanti con la strategia delle quattro potenze!
Mentre non si possono escludere brogli nel referendum irlandese, il voto massiccio a favore del Trattato di Lisbona (67,1% contro il 32,9%) può essere paragonato al plebiscito che nel 1938 ratificò l’Anschluss dell’Austria. La differenza è che i soldi e i ricatti dell’UE hanno sostituito i carri armati nazisti. Perché il Trattato entri in vigore occorre l’ultima ratifica, quella della Repubblica Ceca (visto che il Presidente polacco ha annunciato la propria firma dopo il “Sì” irlandese).
L’affluenza alle urne insolitamente alta, le circostanze caotiche del trasferimento delle schede all’ufficio centrale per il conteggio a Dublino, casi documentati di certificati elettorali inviati a non cittadini e le intimidazioni agli osservatori di seggio sollevano sospetti di brogli.
Certamente però, la massiccia partecipazione dell’UE nella campagna referendaria a favore del “Sì”, i mezzi finanziari messi in campo e l’intimidazione politica esercitata sulla classe politica e sulla popolazione hanno chiaramente avuto effetto. La mossa più spettacolare è stata la decisione della BCE di operare il salvataggio dell’intero debito tossico delle banche irlandesi, promuovendo la creazione di una Bad Bank chiamata NAMA, che acquisterà quasi 60 miliardi di titoli tossici contro cui la BCE emetterà liquidità a favore delle banche. Il fronte del No non ha denunciato con abbastanza forza questo schema, che serve più che altro a salvare la BCE e la bolla immobiliare europea che ha prodotto quel debito.
Commentando il risultato del referendum, il presidente del Movimento Solidarietà tedesco (BueSo) Helga Zepp LaRouche ha affermato che si tratta di un passo verso la “morte dell’Europa”. Il Trattato di Lisbona è la costituzione di un sub-impero Europeo come parte dell’Impero Globale, ma è come attaccare una barca al Titanic che affonda. Le nazioni europee devono sfondare questa prigione muovendosi indipendentemente a favore della strategia delle “Quattro Potenze” tratteggiata da Lyndon LaRouche: una coalizione di stati nazionali sovrani sufficientemente forte da poter instaurare un sistema economico mondiale anti-oligarchico.
Come ha ammonito recentemente il costituzionalista italiano Giuseppe Guarino, l’eliminazione della sovranità statale sugli affari economici e la sua sostituzione con gli automatismi della banca centrale, i cosiddetti parametri di Maastricht, è l’aspetto centrale del declino europeo che il Trattato di Lisbona renderà inamovibile. I membri dell’UE sono “Stati-non Stato. Le loro ali sono state tarpate. Né i singoli Stati membri, né l’Europa nel suo insieme potrebbero mai raggiungere i traguardi che le grandi entità continentali, USA, Cina ed India, si propongono e realizzano”, ha dichiarato Guarino in un intervento ad una conferenza dell’Astrid il 21 settembre a Roma. L’ex ministro italiano ha reiterato il concetto in un’intervista con Euronews trasmessa il 28 e 29 settembre. Incredibilmente, la versione in lingua tedesca dell’intervista ha trasformato le affermazioni di Guarino in una dichiarazione a favore di Maastricht, a riprova che nel sistema UE già si applica una censura degna di Goebbels….”
E
Perché no al trattato di Lisbona
“E’ la forma più assoluta di totalitarismo”
di Ida Magli – tratto da “Il Giornale”, 7 Giugno 2008
In questi giorni, con la ratifica da parte del Parlamento italiano del cosiddetto Trattato di Lisbona, si porrà fine definitivamente all’esistenza delle Nazione Italia. E mano a mano si porrà fine all’esistenza di quasi tutte le altre nazioni in Europa. Non bisogna sorprendersi del silenzio che accompagna l’atto più importante che sia mai stato compiuto dal 1870 con il Regno d’Italia. È un silenzio che non è dovuto soltanto al volere dei governanti, ben sicuri fin dall’inizio dell’operazione “Unione europea“ che bisognava tenerne all’oscuro il più possibile i cittadini, ma anche alla obiettiva difficoltà per i giornalisti di fornire informazioni e tanto meno spiegazioni di un progetto che esula da qualsiasi concetto di «politica“.
Il Trattato di Lisbona è infatti una «visione del mondo» universale, una teologia dogmatica con le sue applicazioni pratiche, la forma più assoluta di totalitarismo che sia mai stata messa in atto. Come potrebbero i giornalisti istruire con poche parole milioni di persone sulla metafisica di Kant? Eppure c’è quasi tutto Kant, inclusa la sua proposta per la Pace Perpetua , nel progetto dell’Unione europea. Ma c’è anche molto Rousseau, molto Voltaire, molto Marx, con in più quello che Tremonti definisce «mercatismo»: l’assolutizzazione del mercato.
La falsificazione dei significati linguistici accompagna fin dall’inizio l’operazione europea: quello che viene firmato non è affatto un Trattato e non è neanche una «Costituzione», come era stato chiamato prima che i referendum popolari lo bocciassero. È la proclamazione di una religione universale, accompagnata in tutti i dettagli dagli strumenti coercitivi verso i popoli e verso le singole persone per realizzarla. È il passo fondamentale, dopo averlo costituito in Europa, per giungere alla meta prefissata: il governo mondiale.
Posso indicare in questo breve spazio soltanto alcuni degli strumenti preordinati:
A) Il sincretismo fra le varie religioni e fra i vari costumi culturali. Un sincretismo che verrà raggiunto con lo spostamento di milioni di persone e smussando tutte le differenze attraverso il «dialogo». Discendono da questa precisa volontà dei governanti le ondate immigratorie che stanno soffocando l’Europa d’occidente. Si tratta di decisioni di forza, prese a tavolino: se nasceranno reazioni o conflitti, come di fatto sono già nati, provvederanno le schedature biometriche, la polizia e il tribunale europeo a eliminarli.
B) Il governo concentrato in poche persone, quasi sconosciute ai cittadini, mentre diventano sempre più pleonastici i parlamenti nazionali. Il parlamento europeo, infatti, tanto perché nessuno possa obiettare in seguito che non aveva capito, è stato istituito fin dall’inizio privo di potere legislativo. Pura finzione al fine di gettare polvere negli occhi ai cittadini e tenere buoni con ricche poltrone i residui pretendenti al potere nell’impero fittizio.
C) Nella sua qualità di fase di passaggio verso il governo mondiale, l’Europa deve essere debolissima, come infatti sta diventando. Per ora qualcuno lo nota a proposito dell’economia e della ricerca (ricerca significa intelligenza), ma presto sarà chiaro a tutti l’impoverimento intellettuale e affettivo di popoli costretti a perdere la propria identità, la propria «forma» in ogni settore della vita. In Italia la perdita è più grave per il semplice motivo che gli italiani sono i più ricchi di creatività. Di fronte al vuoto di qualsiasi ideale e di qualsiasi futuro, i giovani si battono per quelli vecchi inesistenti, oppure «si annoiano». Vi si aggiungono con uguale impoverimento i milioni di immigrati, anch’essi sradicati dalla loro identità e gettati nel crogiolo della non-forma.
Si tratta di conseguenze ovvie, perseguite con ostinazione durante il passare degli anni sia dai fanatici credenti nella religione universale che da coloro che se ne servono per assolutizzare il proprio potere. Ci troviamo di fronte a quello che i poeti tedeschi individuavano chiaramente durante il nazismo come «il generale naufragio dello spirito». Seppellire le nazioni per paura del nazionalismo significa provocare di nuovo il generale naufragio dello spirito. Significa che alla fine Hitler ha vinto.
Ida Magli
Roma, 24 Maggio 2008
n. 135 del 2008-06-07 pagina 15
http://www.disinformazione.it/trattato_lisbona2.htm
anche riccamente discusso:
Trattato di Lisbona & Nuovo Ordine Internazionale
Marcello Pamio – 4 giugno 2008
http://www.disinformazione.it/trattato_lisbona.htm
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La farsa afghana
Stefano Rizzo, 03.11. 2009
“Nel più alto interesse del popolo afgano” il secondo turno delle elezioni presidenziali in Afghanistan non si terrà. Così ha stabilito la Commissione elettorale indipendente (in realtà nominata dal governo presieduto da uno dei candidati, all’attuale presidente Hamid Karzai)
La settimana scorsa si era ritirato l’altro candidato per il ballottaggio, l’ex ministro degli esteri Abdullah Abdullah, denunciando l’inutilità di un secondo voto che sarebbe stato viziato da brogli, come e peggio del primo. Ricordiamocela questa frase: “Nel più alto interesse del popolo afgano” perché è la prima volta che si afferma, senza vergogna, che tenere un’elezione non è nell’interesse del popolo.
E così, con la simultanea proclamazione dell’ex e nuovo presidente Hamid Karzai da parte della commissione elettorale indipendente, si conclude l’ultimo atto della farsa afgana. Dicesi farsa un genere teatrale in cui personaggi e situazioni drammatiche vengono messi in scena in modo caricaturale così da fare ridere il pubblico, spesso di un riso amaro. Sono otto anni che l’Afghanistan è stato “liberato” dai cattivissimi talebani e dai terroristi di al-Qaeda e sono otto anni che la farsa va in scena: la libertà delle donne, il progresso economico, la ricostruzione, la pace, la democrazia, erano tutte dietro l’angolo, anzi avanzavano tra il tripudio dei media occidentali. Tutto falso. Una montatura propagandistica. I burka non sono mai stati riposti negli armadi, le donne non sono libere né di lavorare né di studiare né tanto meno di sposare chi vogliono. Il diritto vigente è una versione particolarmente feroce e retriva della legge islamica. La ricostruzione e lo sviluppo non sono mai partiti e gli immensi finanziamenti sono finiti nelle tasche di funzionari corrotti e di imprese occidentali corruttrici. I talebani stanno sempre lì, cioè dappertutto, nelle campagne e nelle città e di fatto governano più della metà del paese. E infine le elezioni. Quattro anni fa strombazzate come grande prova di democrazia, in un periodo in cui i media non guardavano troppo per il sottile perché la parola d’ordine era salutare la neonata libertà dell’Afghanistan, e oggi clamorosamente finite in farsa.
Questa volta non si può dire che tutto ciò sia avvenuto perché l’Occidente abbia abbandonato il paese “liberato”, perché, dopo la rapida incursione dei marines e i fulminei bombardamenti “intelligenti”, americani ed europei se ne siano andati per occuparsi di altre guerre di liberazione. Oggi in Afghanistan ci sono circa 100.000 soldati occidentali, migliaia di funzionari delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali (Unione Europea compresa), decine di migliaia di “contractors” militari e civili, migliaia di rappresentanti delle aziende che fanno affari nel paese, consulenti, esperti, tecnici a profusione, un fiume in piena di dollari.
Ci sono stati, e ci sono quotidianamente, anche i morti – 1500 tra i soldati occidentali con decine di migliaia di feriti – molti di più naturalmente tra gli afgani. Ma nonostante i morti e i soldi, siamo ancora all’anno zero. In Afghanistan non c’è nulla che non ci fosse già prima: terroristi, tagliagole, signori della guerra, corruzione, povertà estrema (per quel che valgono le statistiche, l’Afghanistan è al penultimo posto tra i paesi più poveri del mondo). Di nuovo c’è la produzione e il traffico della droga che prima, sotto i talebani, non c’era e che rifornisce i mercati occidentali. Da oggi c’è anche un nuovo presidente, che è lo stesso di prima, con il suo imperturbabile sorriso, la sua raffinata eleganza, i suoi brogli elettorali, la sua inefficienza, il suo coinvolgimento con il commercio dell’oppio e le sue alleanze con i signori della guerra.
Ma tant’è. E’ il loro paese. Facciano quello che vogliono. Noi possiamo solo domandarci cosa ancora – quanti altri morti e sperpero di risorse – aspettano le cancellerie occidentali per far calare il sipario e porre fine a questa farsa che non fa ridere più nessuno, anzi fa piangere.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13356
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Crisi, è sempre più urgente cambiare
Sergio Ferrari, 03.11.2009
La Germania con la riduzione mediamente di un terzo dell’orario di lavoro, sussidiando il salario per mantenerlo al livello precedente, ha salvato 500 mila posti di lavoro. La revisione dell’organizzazione e della distribuzione interna del lavoro è una strada che andrebbe approfondita: Prima si affronta la questione e prima si evita di scaricare i costi sui “soli noti
Sarà bene incominciare a sollecitare i vari consessi politici internazionali, incominciando da quelli europei, affinché diano un seguito credibile a tutte quelle, pressoché unanime, denunce della libertà di operare concessa al sistema finanziario ma che, senza nemmeno un corrispettivo di responsabilità, ha consentito sperperi, indebiti arricchimenti, giochi di prestigio sulla pelle del prossimo e in generale, comportamenti che dovrebbero essere considerati come reati. Certo all’istante è prevalsa la constatazione che il fallimento delle istituzioni finanziarie sarebbe stata una rovina generale per tutti. Ma confondere le istituzioni finanziare con i finanzieri è un’altra e diversa questione. Se poi quei finanzieri non hanno soluzioni diverse da quelle di riscoprire lo Stato nella veste di “pantalon”, allora quelle azioni di pulizia finanziaria alla quale si è accennato all’inizio andrebbero valutate anche come forma alternativa all’accusa di connivenza.
Tanto più che, se finalmente oltre al salvataggio della finanza la politica si occupasse anche del salvataggio della così detta economia reale e quindi del lavoro, sarebbe bene evitare l’esistenza di attori economici quali quelli che hanno operato nel settore della finanza internazionale.
Nell’economia reale ai danni non si rimedia con altrettanta facilità, anche per questo gli interventi dovrebbero anticipare i punti di crisi, il riequilibrio distributivo dovrebbe essere evidente, il rafforzamento del capitale pubblico, incominciando dai trasporti, dalla scuola, dalla ricerca, dovrebbe costituire il riferimento per gli investimenti, anche in quanto meno sensibili ai deficit commerciali, e ai fenomeni speculativi ed eventuali difficoltà dovrebbero essere affrontate con maggiore fantasia. In questo quadro anche il Mezzogiorno potrebbe ritrovare la strada di uno sviluppo maggiormente qualificato anche sul piano culturale e sociale.
A questo proposito vale la pena di evidenziare – anche in considerazione del silenzio stampa generale – il provvedimento, del quale appare notizia solo sul Manifesto del 1 novembre con un articolo di Antonio Lettieri, in base al quale la Germania con la “riduzione mediamente di un terzo dell’orario di lavoro, sussidiando il salario per mantenerlo al livello precedente, ha salvato 500 mila posti di lavoro”.
Questa della riduzione dell’orario di lavoro per compensare situazioni congiunturali di eccesso di capacità produttive, non è una novità in assoluto ma adottata in una situazione di crisi economica internazionale e con tempi di recupero non brevi e comunque incerti, indica una strada che andrà approfondita perche a fronte di una crescita costante della produttività del lavoro – al di là, appunto, della congiuntura – la revisione dell’organizzazione e della distribuzione interna del lavoro e della specializzazione produttiva che guida la distribuzione internazionale del lavoro, non sembra avere molte alternative. Prima si affronta la questione e prima si evita di scaricare i costi sui “soli noti”.
Che il nostro Governo sia in tutt’altre faccende affaccendato è difficilmente contestabile, che i suoi interessi si fermino a quelli personali o a quelli elettorali di breve periodo, è altrettanto evidente. Se si vuole cambiare occorre almeno avere un progetto. Anche perché quello di questo governo assomiglia sempre di più ad un cero acceso alla Madonna; quello di Confindustria è quello di sempre: dateci i soldi.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13370
Commento: Franco Bianco – serve un piano generale per lavoro e ammortizzatori 04.11.2008
Gli interventi devono consistere in una costellazione di misure, altrimenti non affrontano il problema del lavoro nei suoi generali e diversi aspetti. Questa misura di cui parla Ferrari è certamente molto positiva (ed anzi, io credo che andrebbe affrontato con serietà un discorso avente a tema la riduzione degli orari di lavoro, tanto più in periodi di crisi), e tuttavia la misura adottata in Germania riguarda soltanto gli occupati (è infatti un provvedimento volto ad evitare riduzioni di personale), ma non arreca sollievo ai disoccupati (né a quelli che lavorano in nero, che non so quanti siano in Germania ma in Italia sono sicuramente moltissimi). Quello che occorre, in definitiva, è un piano generale per il lavoro e per gli ammortizzatori sociali: cosa lontanissima dalle preoccupazioni del Governo Berlusconi, che va perciò incalzato e sfidato sui temi specifici, senza invece fare discorsi da libro dei sogni (mutamenti di sistema et similia), poiché i problemi delle persone vanno affrontati qui ed ora.
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Nessuna legge lo prevede 4.11.2009
MICHELE AINIS
Doveva arrivare un giudice d’Oltralpe per liberarci da un equivoco che ci portiamo addosso da settant’anni e passa. In una decisione che s’articola lungo 70 punti (non proprio uno scarabocchio scritto in fretta e furia) ieri la Corte di Strasburgo ha messo nero su bianco un elenco di ovvietà.
Primo: il crocifisso è un simbolo religioso, non politico o sportivo. Secondo: questo simbolo identifica una precisa religione, una soltanto. Terzo: dunque la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede, o altrimenti a chi non ne ha nessuna. Quarto: la supremazia di una confessione religiosa sulle altre offende a propria volta la libertà di religione, nonché il principio di laicità delle istituzioni pubbliche che ne rappresenta il più immediato corollario.
Significa che fin qui ci siamo messi sotto i tacchi una libertà fondamentale, quella conservata per l’appunto nell’art. 9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo? Non sarebbe, purtroppo, il primo caso. Ma si può subito osservare che nessuna legge della Repubblica italiana impone il crocifisso nelle scuole.
Né, d’altronde, nei tribunali, negli ospedali, nei seggi elettorali, nei vari uffici pubblici. Quest’obbligo si conserva viceversa in regolamenti e circolari risalenti agli Anni Venti, quando l’Italia vestiva la camicia nera. Fu introdotto insomma dal Regime, ed è sopravvissuto al crollo del Regime. Non è, neppure questo, un caso solitario: basta pensare ai reati di vilipendio, agli ordini professionali, alle molte scorie normative del fascismo che impreziosiscono tutt’oggi il nostro ordinamento. Ma quantomeno in relazione al crocifisso, la scelta normativa del Regime deve considerarsi in sintonia con la Costituzione all’epoca vigente. E infatti lo Statuto albertino, fin dal suo primo articolo, dichiarava che «la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Da qui figli e figliastri, come sempre succede quando lo Stato indossa una tonaca in luogo degli abiti civili.
Ma adesso no, non è più questa la nostra divisa collettiva. L’art. 8 della Carta stabilisce l’eguale libertà delle confessioni religiose, e stabilisce dunque la laicità del nostro Stato. Curioso che debba ricordarcelo un giudice straniero. Domanda: ma l’art. 7 non cita a sua volta il Concordato? Certo, e infatti la Chiesa ha diritto a un’intesa normativa con lo Stato italiano, a differenza di altre religioni (come quella musulmana) che ancora ne risultano sprovviste. Però senza privilegi, neanche in nome del seguito maggioritario del cattolicesimo. D’altronde il principio di maggioranza vale in politica, non negli affari religiosi. E d’altronde la stessa Chiesa venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli. Se una religione è forte, se ha fede nella sua capacità di suscitare fede, non ha bisogno di speciali protezioni.
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Crisi/ Consumatore diventa competente: 79,7% spende meno e meglio
Roma, 4 nov. (Apcom) – La crisi cambia il consumo e gli italiani fanno di necessità virtù. Guariti dalla smania dell’acquisto i cittadini hanno imparato a comprare meno, meglio e ottenere più soddisfazione dalla spesa “competente”. E, dall’equazione “più consumi = più felicità” si è passati alla formula “meno consumo più vivo meglio” (79,7%). Il ritratto del nuovo consumatore è stato dipinto dall’Osservatorio sui consumi degli italiani, indagine annuale di Consumers’ Forum, l’associazione che riunisce le maggiori associazioni dei consumatori e grandi aziende italiane, curata da Giampaolo Fabris e Ipsos e presentata stamane in occasione del decennale. “I consumatori sono diventati più esperti, chiedono alle aziende più qualità e alle associazioni che li rappresentano più presenza”, afferma Sergio Veroli, presidente di Consumers’ Forum che stamane ha inaugurato il convegno per celebrare i 10 anni dell’associazione. “Il nuovo consumatore è per necessità più attento a non sprecare, al rapporto prezzo-qualità e più responsabile verso l’ambiente. In altri termini, si può definire un consumatore virtuoso”. Condotta su un campione rappresentativo di 1000 casi, l’indagine Ipsos-Episteme conferma che la congiuntura inizia a regalare qualche schiarita: c’è più fiducia nel futuro e voglia di tornare a spendere con meno preoccupazione (preoccupato si dice il 53% degli italiani rispetto al 67% all’indagine 2008). Ancora molto attento al prezzo (47%) il consumatore è si però vaccinato agli sconti e dalle promozioni e chiede alle aziende di tornare a investire in innovazione e qualità, aspetti trascurati a fronte della guerra dei prezzi. Dunque, a differenza del passato, oggi è il “buon senso” a guidare gli acquisti, il portafoglio diventa uno strumento per esprimere consenso verso quelle aziende guidate dall’etica e prediligere le marche rispettose dell’ambiente (63% contro il 58% del 2008). Insomma nasce un genere di consumatore più consapevole e responsabile, che invoca il rallentamento del consumo, ritiene che le confezioni dei prodotti debbano essere ridotte perché inquinano (73%), che occorrano etichette con più informazioni utili (70,4%), che si debba protestare per ottenere il rispetto dei diritti (64,3%) e chiede alle associazioni dei consumatori di essere più presenti ed incisive (56,5%). Grande protagonista in termini di incremento del consenso è la difesa del territorio. Dicono no agli Ogm il 75,6% degli intervistati e dicono sì ai prodotti che non implicano un rapporto “predatorio” con la terra il 92,4% ed è in aumento il consumo di prodotti biologici (+10% rispetto al 2008) e la richiesta di prodotti duraturi. Il nuovo consumatore ritiene che etica e responsabilità sociale siano parte integrante del concetto di qualità e che le aziende dovrebbero comportarsi eticamente lungo tutta la filiera. L’84,8% del campione ritiene che sia un dovere non acquistare un prodotto o una marca non etica e il 90% ritiene che si vivrebbe meglio se tutti fossero informati sulle marche che acquistano. “Determinante per la nascita di questa nuova generazione di consumatori è stata la rete Internet”, spiega Giampaolo Fabris. “Oggi possiamo, in tempo reale, confrontare prodotti, prezzi, qualità e le opinioni degli altri consumatori nei confronti di un bene o di un servizio sul mercato. Questo significa che oggi il consumatore cercando di spendere meno si può imbattere in prodotti di qualità a prezzo medio-basso: una bella sorpresa. Le aziende – aggiunge l’esperto – non potranno ignorare questo cambiamento per cogliere nuove opportunità”.
http://www.apcom.net/news/rss/20091104_095501_3605d8b_75211.html
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Obama snobba l’Europa
Angela Merkel che parla al Congresso e il vertice Usa-Ue: questa settimana l’Europa è in primo piano a Washington. Ma la stampa europea non si fa illusioni, il presidente Obama ha dimostrato più che altro indifferenza per il vecchio continente.“A ricevere il presidente della Commissione europea e il suo seguito in occasione del pranzo alla Casa Bianca sarà il vicepresidente Joe Biden”, scrive Simon Tisdall sul Guardian: “Un atto di scortesia, senza alcun dubbio”. La mancanza di interesse, se non il disprezzo, dimostrata da Barack Obama nei confronti degli alleati europei è fonte di preoccupazione nel vecchio continente, constata il quotidiano inglese. Ma secondo l’European council on foreign relations la colpa sarebbe da addebitare alla stessa Europa. In un’analisi pubblicata il 2 novembre, l’istituto britannico sostiene che l’Europa deve smettere di considerare le relazioni transatlantiche come un feticcio celebrando l’avvento dell’era post-americana e sbarazzandosi di vecchi miti.Contrariamente agli Stati Uniti che hanno abbandonato la dottrina della guerra fredda, “gli stati europei continuano a credere nell’egemonia americana e si pongono in modo eccessivamente servile nei confronti di Washington”, constata lo Spiegel-Online. Risultato: “la loro sollecitudine a compiacere gli americani li spinge a compiere imprese che non servono gli interessi europei, come la guerra in Afghanistan”. Agli americani questo comportamento ricorda dei “bambini che cercano di attirare l’attenzione”, aggiunge la versione online del settimanale tedesco.
Pretendenti delusi
Le dimostrazioni del disinteresse di Barack Obama non mancano: Gordon Brown si è visto rifiutare un incontro privato. Anche il presidente francese Nicolas Sarkozy è rimasto frustrato. “Invece di un’alleanza e della reciproca ammirazione, ha dovuto discutere di questioni imbarazzanti riguardanti il numero di soldati in Afghanistan, la ‘turcofobia’ e l’arsenale nucleare francese”, fa notare Simon Tisdall. In Europa dell’est non hanno ancora dimenticato la telefonata con cui Barack Obama ha annunciato l’abbandono dello scudo antimissile. Su temi come l’Afghanistan, il Medio oriente e la Russia, l’Europa investe molte risorse e impiega il personale migliore, ma spesso finisce per essere “ignorata, marginalizzata e intenzionalmente discriminata” da parte degli Stati Uniti, nota Spiegel-Online.
E la reazione degli europei? “Davanti a rifiuti simili gli europei reagiscono corteggiando il presidente in modo ancora più determinato”, si indigna lo Spiegel-Online. Invece di elaborare posizioni comuni “gli europei fanno a gara tra loro per mettersi in mostra con Washington”. Senza una politica comune l’Europa continuerà a non ottenere nulla e, come osserva il Guardian, ad assomigliare a “un secchione asociale e brufoloso che si è preso la cotta per la reginetta della scuola”.
http://www.presseurop.eu/it/content/article/130251-obama-snobba-leuropa
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Lévi-Strauss, addio al maestro del pensiero selvaggio
di Francesca Pierantozzi
PARIGI (4 novembre) – Fino a un anno fa rispondeva personalmente al telefono e faceva sempre un certo effetto sentire la voce di Claude Lévi-Strauss, la voce posata, austera e un po’ roca di un gigante del secolo che continuava a rilasciare interviste a cent’anni. Ne avrebbe compiuti 101 il 28 novembre. La notizia della morte ha cominciato a circolare quasi sottovoce ieri pomeriggio in Francia: un riga secca dall’Académie de France, dove sedeva sulla 29esima poltrona dal 1973, e poi un annuncio laconico dalla sua casa editrice, Plon, la stessa che nel 1954 gli aveva chiesto di scrivere un racconto dei suoi viaggi in Brasile per lanciare una collezione etnografica. E lui aveva scritto Tristi Tropici.
Il più grande, il primo degli antropologi, è morto venerdì sera nella sua proprietà a Lignerolles, un borgo minuscolo tra le foreste dell’Auvergne, nel cuore della Francia. Le esequie si sono svolte subito, nella massima discrezione, prima ancora dell’annuncio della morte. «Claude Lévi-Strauss è stato già sepolto a Lignerolles, dove abitava» ha detto il professore Philippe Descola, suo successore alla guida del laboratorio di antropologia sociale al Collège de France, suo allievo, suo amico. «Due anni fa – ha aggiunto Descola – si era rotto il femore, da allora era molto stanco.».
Un anno fa, il suo centesimo compleanno si era trasformato in una sorta di giubileo nazionale, con grandi celebrazioni organizzate soprattutto al Quai Branly, il museo parigino delle Arti primitive inaugurato nel 2006 da Jacques Chirac e di cui Lévi-Strauss era – ed è – il nume tutelare. Ma il professore non aveva partecipato alle feste. Aveva preferito restare a casa: «Troppo stanco» avevano detto i famigliari. Il presidente Nicolas Sarkozy aveva voluto fargli visita, «per rendergli omaggio – aveva detto – e dirgli il riconoscimento di tutta la Nazione».
Ieri Sarkozy ha di nuovo reso omaggio a «uno dei più grandi etnologi di tutti i tempi», al «creatore dell’antropologia moderna», all’«instancabile umanista». «Di recente – ha aggiunto il presidente – Lévi-Strauss si era dichiarato preoccupato della scomparsa di numerose specie viventi, vegetali e animali, e si interrogava sull’evoluzione del mondo e l’impatto delle attività dell’uomo sul pianeta».
Da un anno Lévi-Strauss aveva smesso di rispondere al telefono. Non aveva più rilasciato interviste, né era comparso in pubblico. Poco prima di scomparire, aveva detto della sua vecchiaia: «Esiste oggi per me un io reale, che non è più che un quarto o la metà di un uomo, e un io virtuale, che conserva ancora una viva idea del tutto. L’io virtuale immagina ancora il progetto di un libro, comincia a organizzare i capitoli, e poi dice all’io reale “ora tocca a te continuare”. Ma l’io reale, che non ha più la forza, risponde all’io virtuale: “è un problema tuo. Tu solo hai una visione del tutto”. E’ in questo strano dialogo che ormai scorre la mia vita».
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=79160&sez=HOME_SPETTACOLO&ssez=VETRINA
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Sordità, screening neonatale per tutti 4-17.11.2009
L’udito è il primo dei cinque sensi a svilupparsi nel feto e a permettere il contatto con il mondo. Un adulto su 7 non ha un udito normale e il 75% della popolazione è esposto a livelli di rumore superiori ai limiti previsti per legge. Sono alcuni dei dati segnalati dall’Associazione italiana ricerca sordità (Airs) Onlus, in occasione della recente Giornata nazionale contro la sordità.
“L’apparato uditivo è estremamente importante”, spiega Ferdinando Grandori, direttore dell’Istituto di ingegneria biomedica (Isib) del Cnr di Milano e presidente dell’Associazione per la ricerca sulla sordità infantile (Arsi). “Proprio in relazione alla sua rilevanza e al fatto che due-tre bambini su mille presentano sordità alla nascita, lo screening neonatale è stato inserito nei livelli essenziali di assistenza (Lea). La diagnosi di sordità congenita va fatta molto precocemente, perché soltanto entro i primi mesi di vita le possibilità di recupero sono ottimali mediante interventi quali la protesi acustica, la preparazione a un eventuale intervento di impianto cocleare e la successiva abilitazione logopedica”. Invece, la diagnosi avviene quasi sempre intorno ai due-tre anni, quando gli effetti prodotti dalla perdita uditiva si manifestano in modo evidente quanto tardivo.
Il bambino parla imitando le voci e solo se sente correttamente la propria voce e quelle dei familiari può imparare a parlare. La deprivazione uditiva causa perciò gravissimi disturbi allo sviluppo del linguaggio e delle capacità di comunicare, apprendere e socializzare.
Per valutare le capacità uditive, anche in un neonato di pochi giorni di vita, sono sufficienti appena dieci secondi grazie alle tecnologie sviluppate e realizzate dall’Isib-Cnr. “L’orecchio interno non solo traduce il suono in impulsi elettrici che si propagano lungo le fibre nervose, ma genera a sua volta segnali acustici, chiamati otoemissioni che gli strumenti a disposizione consentono di registrare anche nei neonati”.
L’Isib-Cnr di Milano cura la raccolta dati sullo stato dell’arte dei programmi integrati di screening uditivo e intervento precoce di un grande numero di paesi, in collaborazione con il Centers for disease control and prevention Usa (Cdc). “Attualmente, nell’ambito del progetto europeo Ahead III (Assessment of hearing in the elderly: Aging and degeneration – Integration through immediate intervention), la nostra ricerca è rivolta all’udito dell’adulto, con particolare attenzione agli effetti della sordità”, conclude Grandori, “guardando non solo alla diagnosi d’organo e delle funzioni, ma alla capacità di comunicare, di comprendere la voce in presenza di rumore”.
Rosanna Dassisti
Fonte: Ferdinando Grandori, Istituto di ingegneria biomedica del Cnr, Milano, tel. 02/23993345, e-mail: isibcnr@polimi.it
Per saperne di più: www.ahead.polimi.it/index.html; www.ahs2010.polimi.it
http://www.almanacco.cnr.it/articoli.asp?ID_rubrica=1&nome_file=03_17_2009
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Toccare per conoscere 4-17.11.2009
Esplorare virtualmente castelli, paesaggi e opere d’arte attraverso il tatto. E’ l’ultimo traguardo raggiunto dai ricercatori dell’Istituto di studi sui sistemi intelligenti per l’automazione (Issia) del Cnr di Bari, che hanno realizzato ‘Omero’: una raffinata tecnologia in grado di far ammirare anche ai non vedenti le bellezze artistiche e naturali del nostro Paese.
“Omero si propone come un potente strumento di conoscenza per ipovedenti e non vedenti, ma è una valida opportunità anche per i normovedenti: si tratta, infatti, di un sistema per l’interazione multimodale (tattile, uditiva e visiva) con modelli digitali tridimensionali e può essere applicato al patrimonio culturale e paesaggistico”, spiega Giovanni Attolico, responsabile del progetto. “Il polpastrello dell’utente viene proiettato in uno spazio virtuale nel quale può interagire con i modelli degli oggetti. Un’interfaccia aptica, ossia tattile, restituisce, poi, sulla mano dell’utente le stesse forze che avvertirebbe se l’interazione avvenisse nella realtà, permettendo così di ‘toccare’ gli oggetti virtuali. Il tutto viene integrato da messaggi vocali, suoni e vibrazioni che, coinvolgendo l’udito, rendono più semplice per un non vedente la percezione della scena”.
L’innovativo sistema, dopo essere stato adottato con successo per il Castello Svevo di Bari, è stato usato anche per la realizzazione del modello di Castel del Monte, ad Andria (nella foto). I non vedenti, grazie all’interazione multimodale, intraprendono un percorso conoscitivo dell’edificio che li conduce in maniera graduale ad acquisire tutti gli elementi necessari alla fruizione del bene artistico. “Il sistema che abbiamo sviluppato”, prosegue il ricercatore dell’Issia-Cnr, “è in grado di fornire informazioni sulle geometrie, sulla disposizione degli ambienti e sulla loro funzione originaria ed attuale. Inoltre, offre indicazioni sui diversi materiali impiegati per la costruzione, sugli oggetti contenuti nelle varie stanze, sulla storia del castello e le sue curiosità”.
Grazie agli ultimi sviluppi di questa tecnologia, i visitatori hanno l’opportunità di esplorare il sito in maniera ancora più interattiva e consapevole. “Abbiamo messo a punto delle nuove modalità di interazione”, precisa il ricercatore, “che permettono agli utenti, ad esempio, di ingrandire o ridurre il modello virtuale per poter apprezzare meglio alcuni dettagli o cogliere informazioni sulla sua interezza. Gli utenti possono inoltre spostare il modello all’interno dello spazio di lavoro per interagire con le parti che altrimenti rimarrebbero nascoste”.
Ma i vantaggi di ‘Omero’ non si limitano ai beni culturali. Da poco può essere utilizzato anche per la didattica. “Abbiamo applicato l’esperienza multimodale alla geometria piana”, conclude Attolico. “L’utente viene aiutato a distinguere le diverse caratteristiche delle figure mediante opportuni effetti di attrazione, viscosità, attrito e vibrazione. Inoltre, messaggi vocali associati ai vari modelli forniscono le formule per il calcolo del perimetro o dell’area della figura oggetto dell’esplorazione”.
Cecilia Migali
Fonte: Giovanni Attolico, Istituto di studi sui sistemi intelligenti per l’automazione del Cnr, Bari, tel. 080/5929441, e mail: attolico@ba.issia.cnr.it
http://www.almanacco.cnr.it/articoli.asp?ID_rubrica=1&nome_file=04_17_2009
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I confini del segreto 5.11.2009
CARLO FEDERICO GROSSO
Gli agenti Cia sono stati condannati a pene pesanti per il sequestro di Abu Omar. Pollari, Mancini e tre altri funzionari del Sismi sono stati, invece, dichiarati non giudicabili a causa del segreto di Stato che copre la documentazione relativa all’eventuale ruolo esercitato nella vicenda.
La ragione giuridica di questa decisione è individuabile nell’art. 202 codice di procedura penale, che stabilisce che «qualora per la definizione del processo risulti essenziale quanto è coperto dal segreto di Stato, il giudice dichiara non doversi procedere per l’esistenza del segreto». Più in generale si può rilevare che, nel nostro sistema giuridico, l’opposizione del segreto di Stato, confermata con atto motivato dal presidente del Consiglio, inibisce all’autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte dal segreto; non è in ogni caso precluso all’autorità giudiziaria di procedere in base ad elementi autonomi e indipendenti dagli atti coperti dal segreto.
Ciò che è avvenuto nel processo a carico degli agenti Cia e dei responsabili dei servizi segreti italiani è, a questo punto, chiaro. Su determinati atti è stato opposto, e confermato dalla Presidenza del Consiglio, il segreto di Stato (come si ricorderà, il segreto era stato confermato da ben due Presidenti, ed era stato ulteriormente avallato dalla Corte Costituzionale, chiamata a decidere su di un conflitto di attribuzioni con il governo sollevato dalla Procura di Milano). Cionondimeno, la Procura ha ritenuto di potere comunque insistere nella prospettiva accusatoria, confidando nelle prove desumibili da elementi diversi dai documenti secretati. Il giudice ha ritenuto che per la definizione del processo tali documenti fossero invece essenziali.
Non conoscendo gli atti del processo, non sono in grado di dire se ha ragione il giudice o la Procura. Al di là delle valutazioni di merito, è comunque utile cogliere il significato della decisione assunta ieri a Milano ragionando sulle sue implicazioni. Al riguardo sono significative le reazioni alla sentenza manifestate dal principale imputato italiano e quelle dei suoi accusatori milanesi.
Pollari ha dichiarato di essere rammaricato dalla circostanza che, se il segreto fosse stato svelato, la sua innocenza sarebbe emersa con evidenza. La Procura ha commentato a sua volta che la sentenza dimostra che l’azione penale è stata esercitata legittimamente: non soltanto perché gli americani e gli agenti italiani processati per favoreggiamento sono stati condannati, ma anche perché Pollari e Mancini sono stati considerati non giudicabili a causa dell’essenzialità delle notizie coperte dal segreto, e non, invece, in ragione della loro estraneità ai fatti.
Ciò significa che, in ogni caso, conoscere e utilizzare gli atti coperti dal segreto di Stato sarebbe stato importante per risolvere in modo convincente il caso giudiziario in questione: nell’interesse degli imputati «non giudicati», nei cui confronti rimane comunque aperto il sospetto di avere partecipato all’azione illegale; nell’interesse della Procura, che avrebbe avuto diritto a una risposta giudiziale alle accuse formulate; soprattutto, nell’interesse della giustizia, perché l’oscurità mantenuta su di una vicenda di tanto rilievo umano e politico non può comunque soddisfare.
La questione relativa al caso Abu Omar ripropone d’altronde il tema generale dei confini del segreto di Stato in una società democratica, nella quale chiarezza e trasparenza dovrebbero essere considerati beni di importanza primaria. E’ vero che la ragion di Stato può imporre limiti e paletti a tutela della sicurezza nazionale. In quale misura, tuttavia, è consentito nascondere ai cittadini comportamenti e azioni di governo? Quanti e quali misteri d’Italia potrebbero essere finalmente svelati, da Ustica a Bologna, da Brescia alle altre stragi impunite, se il segreto sugli atti secretati fosse finalmente rimosso?
I Procuratori di Milano, nella loro requisitoria, non hanno esitato a proporre con forza il problema, affermando che la democrazia si fonda sulla salvaguardia dei principi irrinunciabili di civiltà anche nei momenti di emergenza e sostenendo che non possono essere consentiti accordi internazionali che concernano la commissione di reati. La sentenza che ha chiuso, in primo grado, il caso giudiziario, applicando il diritto vigente, su questo tema non ha potuto dare una risposta che, al di là del profilo strettamente giuridico, possa soddisfare.
In ogni caso ha risolto, questa volta in modo soddisfacente, una ulteriore questione: fino a che punto l’Italia sia disposta a tollerare azioni illegali condotte da agenti stranieri sul suo territorio. La condanna degli agenti americani costituisce, almeno su questo piano, una risposta che, finalmente, convince.
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Esultano i sindacati Gb. E Marchionne svela il piano Chrysler
Gm non cede Opel, l’ira di Mosca e Berlino
«Inaccettabile la decisione di Detroit» 4.11.2009
La Germania e la Russia bocciano la mancata vendita a Magna. Da giovedì lavoratori tedeschi in sciopero
Berlino ha espresso rammarico, Mosca si è detta «sorpresa», i sindacati tedeschi sono sul piede di guerra. La Casa Bianca si è detta assolutamente «estranea». Ha creato non poco scompiglio la mossa di General Motors di rinunciare alla vendita della controllata tedesca alla cordata capitanata da Magna, cui aderisce la banca russa Sberbank. Una portavoce del sindacato dei metalmeccanici tedeschi Ig Metall ha annunciato che da giovedì inizieranno scioperi di avvertimento nei quattro impianti tedeschi di Opel che danno lavoro a 25mila persone. Da venerdì e fino a lunedì prossimi gli scioperi si estenderanno a tutti gli impianti europei di Opel/Vauxhall. Il gruppo Opel ha 50mila dipendenti in tutta Europa di cui 25mila in Germania nei siti di Ruesselsheim, Bochum, Eisenach e Kaiserslautern (2.400).
L’IRA DI BERLINO E LA SORPRESA DI MOSCA – La scelta di Gm non convince poi i governi tedesco e russo. Da una parte Berlino definisce «inaccettabile» la decisione della casa di Detroit e chiede che la casa automobilistica americana rimborsi gli 1,5 miliardi di dollari di prestito ricevuti per concludere l’operazione con Magna. Il governo tedesco aveva spinto affinchè Gm raggiungesse un accordo con Magna, il suo candidato preferito. E ora che la casa americana ha deciso invece di mantenerne il controllo chiede a Detroit di «rafforzare Opel» e di limitare «al minimo indispensabile» i cambiamenti. Berlino fa sapere anche che considera «definitiva» la decisione di Gm, aggiungendo che la casa di Detroit ha chiarito che l’insolvenza «non è un’opzione» per Opel. Sempre secondo il portavoce, è «verosimile» che nei prossimi giorni il cancelliere tedesco, Angela Merkel e il presidente Usa, Barak Obama, si sentano per discutere della questione. Gm, ha detto ancora il portavoce, ha promesso di presentare velocemente un nuovo piano per Opel. Da Detroit fanno sapere di essere pronti a rimborsare alla scadenza a fine novembre il prestito-ponte ricevuto dal governo tedesco. Al rammarico di Berlino si aggiunge la sorpresa del premier russo Vladimir Putin. «Secondo informazioni in nostro possesso il consorzio Magna-Sberbank intende in tempi rapidi consultarsi ed effettuare una approfondita analisi giuridica della situazione» ha spiegato il portavoce Dmitri Peskov . «Il governo russo non partecipa a tutto questo», ha aggiunto.
ESULTANO I SINDACATI INGLESI – D’altra parte c’è da dire che la decisione di General Motors di non cedere Opel al consorzio guidato da Magna è invece giudicato «ottima» dal segretario generale del sindacato inglese United, Tony Woodley , secondo il quale la scelta della casa americana potrebbe comportare una riduzione dei tagli occupazionali agli stabilimenti inglesi Vauxhall dove attualmente lavorano cinquemila persone. «Sono assolutamente soddisfatto di questa notizia – commenta Woodley in una nota – è un’ottima decisione per il Regno Unito ed è giusto che Gm non scorpori la propria famiglia e mantenga il controllo di Vauxhall».
L’UE – La Commissione europea dal suo canto prende atto della decisione della casa automobilistica americana limitandosi ad auspicare che il piano di Gm abbia «basi economiche solide» al fine di «assicurare la sostenibilità a lungo termine di Opel e dei posti di lavoro durevoli per i lavoratori di Opel», ha dichiarato l’esecutivo comunitario in un comunicato letto dal portavoce per la Concorrenza, Jonathan Todd. La Commissione «verificherà che il sostegno finanziario dei governi degli Stati membri nei confronti del nuovo piano di ristrutturazione di Gm sia interamente compatibile con le regole europee sugli aiuti di Stato e con le regole del Mercato interno», ha aggiunto il portavoce.
IL PIANO CHRYLSER – A Detroit intanto, dove ha presentato il piano industriale e finanziario della Chrysler, anche Sergio Marchionne (Marchionne presenta il piano Chrysler «Ventuno modelli entro il 2014» Il rilancio affidato alla 500, all’Alfa MiTo e alla Jeep. La protesta con striscione in volo: «Salvataggio pirata»), ha commentato la decisione di Gm. «È una scelta totalmente razionale perché considerando quello che è successo era l’unica soluzione». Per Marchionne Gm «ha fatto bene ed è una cosa buona per l’Europa perché fanno le cose che dovranno fare: dovranno razionalizzare le infrastrutture in Europa che sono troppo grosse e complesse. Questo è un business complicato: le scelte razionali e industriali vanno fatte in una maniera molto precisa».
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Biocarburanti dagli scarti del latte, Pavia sbanca il Mit 4.11.2009
Il siero di latte non è solo uno scarto della produzione di formaggi, ma una prelibata materia prima per produrre biocarburanti. Il segreto è racchiuso in un batterio chiamato “E.coli” in grado di dare luogo alla trasformazione. L’intuizione di un gruppo di studenti dell’università di Pavia guidati da Paolo Magni, professore di Bioingeneria, ha permesso all’Ateneo di conquistarsi la medaglia d’oro e «best food or energy project» durante iGEM 2009 (International Genetically Engineered Machine), la student competition sulla biologia sintetica dell’Mit di Boston. Al concorso hanno partecipato due università italiane, Bologna e Pavia, ospiti dell’«Mit’s stata center» insieme ad altre 111 Università, come la Johns Hopkins, Harvard, Mit, Imperial College, Cambridge, Heidelberg e Berkeley.
Il progetto di Pavia riguarda la progettazione e ingegnerizzazione di un «E.coli», un batterio capace di produrre etanolo (un biocarburante) a partire dal siero del latte, derivante dalla produzione dei prodotti caseari. Il siero del latte è uno scarto derivato dalla produzione di formaggi e altri prodotti di caseificio classificato come “rifiuto speciale” a causa della sua elevata domanda chimica e biochimica di ossigeno. La soluzione proposta dal professor Magni per valorizzarlo è quella di unire la capacità di metabolizzare il lattosio, digerendolo in glucosio, tipica di alcuni batteri e funghi, con la capacità di fermentare il glucosio in etanolo ad alta efficienza. L’etanolo può essere utilizzato, puro o miscelato alla benzina, per la produzione di bio-carburanti.
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Le regioni montane italiane temono sanzioni della Svizzera. Al governo a Roma è scattato l’allarme
Articolo di Politica estera, pubblicato lunedì 2 novembre 2009 in Svizzera.
[Neue Zürcher Zeitung]
Le regioni montane italiane temono ritorsioni da parte della Svizzera. Se la Svizzera chiudesse i rubinetti del denaro, molti comuni non potrebbero più finanziare le loro scuole o strutture sociali. Perciò hanno fatto scattare l’allarme presso il governo a Roma.
«Non possiamo permetterci che le tensioni tra Svizzera e Italia compromettano servizi fondamentali», ha detto lunedì Enrico Borghi, presidente dell’Unione delle Comunità Montane (Uncem) davanti all’agenzia di notizie Ansa.
Dell’associazione fanno parte comuni della regione Lombardia, Piemonte e Val d’Aosta, che confinano tutti con la Svizzera. Essi ricevono annualmente circa 36 milioni di euro dell’imposta sul reddito sui frontalieri, che la Svizzera versa all’Italia.
Nel Ticino il CVP (Partito Popolare Democratico, N. d. T.) ha calcolato che il cantone del sud abbia versato, tra il 1974 e il 2007, oltre 888 milioni di franchi di imposta sul reddito sui frontalieri. Questo corrisponde a circa il 40 per cento del totale dei proventi.
Poichè la Svizzera nel 2006 ha stipulato un accordo con l’Austria, in base al quale questo vicino riceve solo il 12,5 per cento dei proventi, il CVP, l’SVP (Partito Popolare Svizzero, N. d. T.) e la Lega pensano che sia ora di nuovi negoziati con Roma.
Con tali misure questi partiti vorrebbero controbattere all’attacco del ministro delle finanze italiano Tremonti alla piazza finanziaria svizzera il cui obiettivo dichiarato è chiudere l’oasi bancaria di Lugano.
Se la Svizzera chiudesse di fatto il rubinetto del denaro si creerebbe una grossa falla nell’amministrazione di molti comuni italiani. Questi ultimi chiedono, pertanto, che il loro governo a Roma garantisca contributi anche in futuro e, come ha detto Borghi, indipendentemente dall’esito dei negoziati con la Svizzera.
[Articolo originale “Italiens Bergregionen haben Angst vor Schweizer Sanktionen “]
http://italiadallestero.info/archives/8264
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Un giudice italiano scopre il gene dell’omicidio
Articolo di Giustizia, pubblicato mercoledì 28 ottobre 2009 in Francia.
[Libération]
Un tribunale di Trieste ha evocato una «vulnerabilità genetica» che predispone alla violenza per concedere una riduzione di pena di un anno ad un omicida di origine algerina.
Esiste il gene dell’omicidio? Una Corte d’Assise d’appello italiana ha concesso una riduzione di pena ad un assassino di origine algerina, invocando una «vulnerabilità genetica» che lo predisporrebbe ad un comportamento aggressivo. Una novità in Italia.
Condannato a 9 anni e due mesi di prigione per aver accoltellato un colombiano di 32 anni, a Udine, nel marzo 2007, Abdelmalek Bayout ha visto la sua pena ridotta di un anno dopo essersi sottoposto ad un’”innovativa” analisi del DNA. «È stata scoperta nel soggetto una serie di geni che lo predisporrebbero a dar prova di aggressività qualora fosse provocato o escluso socialmente», riassume il sito del quotidiano Il Giornale.
Una predisposizione sociale e genetica all’omicidio
Il retaggio sociale, ma soprattutto, per la prima volta in Italia, il patrimonio genetico, sono stati riconosciuti come circostanze attenuanti dalla Corte d’Assise d’Appello di Trieste. La sera dell’omicidio, la vittima ha aggredito il suo assassino, in particolare dandogli del «frocio». Insulti che, per i giudici, spiegano in parte la reazione sproporzionata di quest’uomo d’origine algerina e musulmano praticante. Riferendosi ad uno studio britannico del Nuffield Council on Bioethics, «Genetica e comportamento umano: il contesto etico» (2002), la Corte ha considerato che Abdelmalek Bayout presentava una predisposizione sociale, ma anche genetica, all’omicidio.
Secondo un’applicazione totalmente inedita dell’articolo 62 del codice penale italiano, che definisce le circostanze attenuanti, i giudici hanno considerato che la reazione violenta dell’accusato è stata «scatenata dallo sradicamento causato dalla necessità di conciliare il rispetto della propria fede islamica integralista con il modo di vivere occidentale». Ma, soprattutto, è stata esacerbata da alcuni elementi del suo patrimonio genetico «che, secondo numerose ricerche internazionali, aumentano in modo significativo il rischio di sviluppare un comportamento aggressivo impulsivo», scrive il giudice Pier Valerio Reinotti nelle sue conclusioni. Un’eredità «socio-biologica» che giustifica quindi, per la corte, una riduzione di pena di un anno.
«Un non senso scientifico»
«È un non senso scientifico» esclama Catherine Vidal, neurologa e direttrice della ricerca all’istituto Pasteur, rifiutando qualunque consenso nella comunità scientifica all’esistenza di geni della criminalità o dell’aggressività. Secondo lei, esistono effettivamente studi che mostrano correlazioni tra alcuni geni e alcuni comportamenti, ma senza tuttavia provare una vera relazione di causa effetto. «In ogni modo, questi studi sono realizzati su grande scala, su basi statistiche. Non possono in nessun caso predire un comportamento violento in un individuo particolare che compare davanti ad un tribunale», avverte.
Coautrice de I nostri figli sotto stretta sorveglianza (Albin-Michel 2009), è preoccupata per una «deriva pericolosa» che tende ad appellarsi alla scienza in campi in cui questa non ha alcuna vocazione ad esserlo. Dal canto suo, Eve Mongin, avvocato francese in Italia, non è sorpresa da questa presa di posizione della Corte d’Assise di appello di Trieste. «In Italia, paese d’immigrazione recente, c’è ancora poca integrazione dei magrebini che sono spesso stigmatizzati», spiega. In un’Italia del nord governata dal partito della Lega Nord «partito secessionista e considerato razzista», accoglie questo giudizio con scetticismo: «Aspettiamo il ricorso davanti alla Corte di Cassazione per sapere se questo giudizio potrà fare giurisprudenza.»
[Articolo originale “Un juge italien découvre le gène du meurtre” di Mael Inizan]
http://italiadallestero.info/archives/8263
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Desertec, l’elettricità solare in Europa già dal 2015? 3.11.2009
Il progetto Desertec ha fatto la scorsa settimana un passo avanti con la costituzione ufficiale della società Desertec Industrial Initiative. Un piano ambizioso che prevede di soddisfare con il solare a concentrazione del Sahara il 15% del fabbisogno elettrico europeo. Uno sguardo alle opzioni tecnologiche possibili per le centrali da realizzare nel progetto.
L’elettricità dal solare a concentrazione dei deserti del Nord-Africa potrebbe arrivare in Europa già nel 2015. L’annuncio è arrivato venerdì 30 ottobre quando Desertec – il progetto multimiliardario che mira a raccogliere l’energia del sole dal Sahara per poi trasportarla nel vecchio continente – ha fatto un passo avanti con la formazione ufficiale della società Desertec Industrial Initiative. Il consorzio di 12 compagnie per la maggior parte tedesche – tra le quali il gigante mondiale delle assicurazioni Munich Re, Deutsche Bank e altri grandi dell’energia, come E.ON e Siemens – ha dunque confermato la determinazione nel rendere il progetto realtà. Si punta a far arrivare la prima elettricità solare già dal 2015.
Scopo finale della Desertec Industrial Initiative – che raccoglierà un investimento attorno ai 400 miliardi di dollari – è soddisfare entro il 2050 il 15% del fabbisogno elettrico europeo, raccogliendo con grandi centrali solari a concentrazione l’energia del Sahara e facendola giungere in Europa tramite dei condotti che dovrebbero attraversare il mediterraneo. Alla base del progetto il solare a concentrazione, tecnologia molto promettente tra le rinnovabili e che non è certo una sconosciuta ai nostri lettori ( vedi “Solare a concentrazione, video e documenti”): in estrema sintesi la tecnologia consiste nel concentrare con un sistema di specchi la radiazione solare diretta in un tubo o in una caldaia dove scorre un fluido (acqua, olio o sali fusi) che ad elevate temperature fa girare delle turbine che producono l’elettricità.
Il piano attuale di Desertec è di costruire un sistema di centrali con una potenza complessiva di picco pari a 100 GW, cioè simili a circa un centinaio di centrali a carbone. L’elettricità raggiungerebbe l’Europa tramite 20 elettrodotti ad alta capacità con perdite inferiori al 10%: linee che collegherebbero il Marocco alla Spagna, l’Algeria alla Francia attraverso le Baleari, la Tunisia alla Sicilia, la Libia alla Grecia e l’Egitto alla Turchia via Cipro e che sarebbero parte di una grande rete continentale che dovrebbe trasportare anche l’elettricità da eolico prodotta nel nord Europa (anche quella offshore) o da geotermico prodotta in Islanda.
Le centrali del progetto Desertec, che dovrebbero essere costruite nei prossimi 5 anni, arriveranno ciascuna a potenze da 1 GW, ma ancora non si è deciso sulla tipologia tecnologica che verrà adottata per il solare a concentrazione: una galleria fotografica pubblicata su New Scientist mostra i 4 modelli di centrale possibili spiegando i pro e i contro di ciascuno.
L’impianto americano del National Solar Thermal Test Facility di Albuquerque, in New Mexico, costituito da specchi a parabola che riflettono i raggi solari verso un braccio che sporge al centro del disco ha il vantaggio di richiedere poca acqua per il raffreddamento, ma non consente di accumulare calore e quindi di fornire energia in assenza del sole (immagine). La centrale di Sanlucar la Mayor vicino Siviglia, in Spagna (immagine) è costituita invece da una gigantesca torre che raccoglie i raggi riflessi da 624 specchi ruotanti: può operare ad alte temperature e accumulare energia, ma richiede un’enorme quantità di acqua e raggiunge buone prestazioni economiche solo per impianti molto grandi.
La centrale di Bakersfield, in California (immagine) realizzata da Ausra utilizza invece concentratori piani (detti riflettori Fresnel) che scaldano tubi ricevitori in cui scorre l’acqua che, con il vapore, muove turbine per una potenza fino a 5 MW. Relativamente economico, questo impianto può essere adattato per accumulare l’energia. Tra gli svantaggi una minore efficienza dell’impianto, la mancanza di sviluppo commerciale e l’alta richiesta di acqua. Il Nevada Solar One, infine (immagine), centrale da 64 MW costruita dalla spagnola Acciona, utilizza specchi parabolici per portare a 361°C l’olio diatermico che a sua volta fa bollire l’acqua che muove le turbine; può immagazzinare il calore e, dunque, funzionare anche di notte, (anche con la possibilità di integrarla con un generatore a gas), ma richiede molta acqua.
Seguiremo nei prossimi mesi le opzioni che la società Desertec Industrial Initiative sceglierà per il più grande e costoso, e per alcuni aspetti, controverso, progetto di energia solare e di fonti rinnovabili, mai concepito finora al mondo.
GM
http://www.qualenergia.it/view.php?id=1152&contenuto=Articolo
Su Physorg Desertec, energia solare dal Sahara all’Europa
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Di Bruno Accarino
LA MENTE ARTIFICIALE DI UNA FORMA DI VITA 3.11.2009
La forza DELLO SCIAME
Una presa di distanza da alcune parole chiave del lessico politico moderno, come massa e folla, che apre la strada alla rappresentazione dei fenomeni sociali attraverso un termine mutuato dalla zoologia e arricchito con contributi della cibernetica e della biologia.
Ai cinefili non occorre rammentare la scena, i più giovani e gli avventizi della sala cinematografica hanno bisogno invece di un piccolo supporto. Una donna siede in attesa davanti a un edificio scolastico in una piccola località della costa californiana. Dietro di essa si vede una voliera. Un corvo atterra sui pali della voliera. Poi una ripresa ravvicinata: si vede l’attrice, Tippi Hedren, fumare una sigaretta, mentre sullo sfondo, anche per segnare il passaggio temporale, risuona il coro dei bambini della scuola. Poi l’attenzione torna visivamente, non più acusticamente, sullo sfondo: sulla voliera ci sono quattro corvi, ne atterra un quinto. La protagonista segue rapita con lo sguardo un singolo uccello, e quando si vede dove esso atterra lo spettatore è sincronizzato con lei: tutta la voliera è strapiena di uccelli. Poco dopo scatta l’attacco ai bambini.
La carriera cinematografica dello sciame comincia lì, ne Gli uccelli di Alfred Hitchkock (1963), già instradata da qualche anticipazione della science fiction dei primi anni della guerra fredda ma destinata a inanellare parecchie tappe, al confine filmografico tra l’apocalittico e l’horror. La carriera filosofica e sociologica è invece un po’ più antica. Lo sciamare – è quel che ha còlto il grande regista – è un puro apparire, un momento di conversione da una mera moltitudine ad un intero multiplo, una pluralità al tempo stesso compatta e sparsa, di cui non è chiaro da dove sia venuta né sono identificabili la causa scatenante, il fondamento e il fine. Un conto sono alcuni uccelli anche molto vicini nello spazio, tutt’altro conto è uno sciame: l’emersione improvvisa di un intero complesso ed enigmatico, che è anche il modo in cui gli sciami si propongono all’immaginario collettivo.
La prevedibile complessità
Fatto salvo il primato di insetti o uccelli, ad incarnare nelle fictions la quintessenza dell’ostilità, della minaccia o della catastrofe sono anche aggregazioni non chiare di particelle o di organismi unicellulari. Non è in gioco solo l’aggressività, perché già in Hitchcock il turbinio dei volatili rappresenta non solo un attacco agli uomini, ma anche un disturbo dello sguardo e della visibilità. Lo sciame è informe, non vuole saperne di diventare Gestalt, forse viola tutte le consuetudini geometriche a cui è abituato l’occhio: è una forma di vita senza vita, la cui esistenza puramente relazionale evoca interrogativi sull’organizzazione di questa stessa vita.
Stando così le cose, almeno in certe aree culturali la science ha dignità pari alla fiction e chiede di non essere più omessa, come per inerzia si è indotti a fare quando si parla di fantascienza: attorno agli esperimenti mentali sullo sciame si affollano discipline sofisticatissime come biologia, etologia, scienza computeristica, nanotecnologia, cibernetica e scienza militare. Si punta anzitutto al fenomeno emergente, inteso come un che di irriducibilmente nuovo, le cui proprietà e capacità non sono ricavabili da quelle dei singoli individui o fattori.
Questo carattere indeducibile dello sciame è anche quello che presiede alla imprevedibilità e incalcolabilità delle strutture complesse, e forse non se ne sarebbe mai parlato se esso non fosse un fenomeno privo di un causa, in un mondo in cui anche di grandi tragedie come le guerre è difficile ricostruire una filiera di cause univoche e sarebbe lecito pensare, se non fosse offensivo nei confronti delle vittime, che siano completamente gratuite, cioè immotivate. Già, la guerra: poteva farsi sfuggire un boccone così estroso e prelibato? La belligeranza simulata vede nello sciame la capacità di avvolgere il nemico come in un involucro, di attaccare da tutti i lati, di ritirarsi e di attaccare in un altro punto, e sempre con una stupefacente coordinazione. La tattica è quella del pulsing o della vibrazione, presto ribattezzata swarming. A dispetto di tutti i neologismi, però, quando si tratta di ammazzare e di sterminare si ripescano spesso modelli antichi e non si lamenta un deficit di precedenti: nella fattispecie, si risale alle opzioni strategiche di Alessandro Magno o alle tecniche belliche dei mongoli.
Evoluzioni tecnologiche
Gli sciami appartengono a pieno titolo al teatro delle operazioni belliche quando c’è da combattere un nemico più potente ma meno mobile, quando cioè sussiste una forte asimmetria tra le parti in guerra: dove però anche la guerra partigiana appartiene ad un repertorio del passato. Sotto questo profilo, la tecnologia degli sciami è il tentativo di pensare l’impensato della tecnica bellica della guerra fredda. Basta gigantismi ancora emuli del carro armato, basta macchine potenti, alti costi finanziari ed energetici, rigide strutture gerarchiche: al loro posto, armi piccole e semplici, dispersione invece di colpi concentrati, auto-organizzazione invece che struttura centrale di comando. Networks che diventano netwars e viceversa, la prospettiva non è incoraggiante.
Si passa così alla fase della micro-miniaturizzazione accelerata all’insegna della non-intelligenza artificiale. Perché? Perché la simulazione computerizzata del cervello umano dovrebbe ormai cedere il passo a quella sugli sciami intelligenti e sulla vita artificiale, che non procede più antropomorficamente, cioè simulando il pensiero umano, ma permette di accedere ad un istinto artificiale, simulabile e programmabile proprio perché, come tutti gli istinti, collaudato nel corso di miliardi di anni. Di qui l’interesse della neurologia e della neuroanatomia per gli insetti completamente privi di cervello, ma ormai a grande distanza dalla vecchissima invidia umana per le spettacolari prestazioni organizzative, sociali e cooperative delle api (peraltro sempre sospette di simpatie monarchiche, per via dell’ape regina), delle formiche (sicuramente repubblicane) o dei castori, già intercettati dal fiuto filosofico di Rousseau. Questa volta si tratta non tanto di simulare, quanto di assumere una neuroanatomia votata ad un learning by doing senza controllo, senza pre-programmazione e senza centralizzazione.
Lo scenario, diciamo la verità, è abbastanza spettrale, e lo diventa ancor di più quando, per rispondere alla domanda sull’origine dello sciame, si ricorre all’evoluzione non – darwinianamente – degli animali e degli uomini, ma delle macchine: dotate di capacità di apprendimento e di auto-riproduzione, come aveva già visto nel 1961 Norbert Wiener, uno dei co-fondatori della cibernetica. È a questo punto che, se le macchine escono dai gangheri e si autonomizzano o impazziscono, scatta la serie di allarmi letterariamente inaugurata dal Frankenstein di Mary Shelley (1818).
Un disordinato materialismo
Per invecchiato che sia, il materialismo storico di Marx aveva dato una risposta forte al mistero non religioso della cooperazione sociale, forse commettendo l’errore di ritenere che esso potesse smaltire fino in fondo la sua intrasparenza. Gli sciami, però, arrivano alla socialità direttamente dalla vita: in quanto relazionalità dai cui elementi singoli non si può dedurre il «gioco di squadra» dell’insieme, lo sciame raffigura la connettività irriducibile del vivente, e come movimento costante la dinamica di un’evoluzione che è puro processo e puro apparire. Nell’effetto ipnotico che ha sull’occhio umano (come nel caso di Tippi Hedren), e nell’imperscrutabilità del loro operare ad un tempo caotico e coordinato, gli sciami sono la macro-rappresentazione di ciò che costituisce la vita stessa al suo livello molecolare. Aprono le porte ad una tecnologia bellica superiore come all’emersione di un comportamento minaccioso e inatteso, in ogni caso ad un’intelligenza costitutivamente superiore a quella dell’uomo.
Già gravida di componenti biosociali, anche se immaginativamente povera e alle prime armi, era quella forma di «collettivo senza centro» attorno alla quale nacque la psicologia di massa di fine Ottocento. Prima che Gustave Le Bon consegnasse ai futuri fascisti (in realtà a tutto il conservatorismo europeo) la versione popolare della demolizione del concetto di classe ad opera di quello di massa, l’attenzione si era posata sul venir meno di modelli contrattuali di ordine: la de-individualizzazione tipica della massa mette capo ad una tabula rasa priva di punti di ancoraggio in un ordine sociale superiore.
La più piccola unità della massa non è data da individui o da decisioni individuali, ma da imitazioni consapevoli o inconsapevoli che formano catene imitative. La tecnologia di controllo, dovendo confrontarsi non con entità chiuse individuali ma con flussi imitativi, abbandona ogni illusione di riforma sociale e con essa ogni pretesa di educazione e di coltivazione migliorativa.
Contrariamente a quanto si tenda a ritenere, la figura del capo non viene sopravvalutata, ma ridimensionata: non uno che sopravviene dall’esterno, ma uno degli elementi della massa. E necessariamente, così Le Bon, uno che non ha uno sguardo acuto e che perciò non è appesantito da dubbi e da indecisione operativa: sia detto senza allusioni all’Italia di oggi, deve trattarsi di uno nervoso, eccitabile, mezzo pazzo o almeno squilibrato, in ogni caso non al di sopra della massa, ma al massimo sua figura proiettiva. Ma l’idea di fondo è che la massa sia acefala e che la sua dinamica trainante sia quella dell’auto-referenzialità, fino al capovolgimento della forza distruttiva in una tensione erotica rivolta a se stessa: la foule attire et admire la foule, come scriveva Gabriel Tarde, affascinato da una socialità senza interessi di piccolo cabotaggio, gratuitamente votata al plaisir de se rassembler pour se rassembler. Lì si sceglieva esplicitamente la strada della «suggestione» come tessuto connettivo di una collettività quasi in trance, ma quella stagione di pensiero ha ancora qualcosa da insegnare.
In cerca dell’autogoverno
La situazione è in fermento, difficile dire dove arriveremo, e la mobilitazione di tanti saperi inaccessibili ai profani è tale da intimidire chi voglia azzardare un pronostico. In qualche caso le cosiddette «menti-alveare» (hive minds) sembrano solo rivitalizzare il canovaccio della «mano invisibile», con l’aggravante di una assoluta mancanza di fede nella versione terrena della provvidenza divina. Più che l’ennesimo episodio di anti-statalismo liberale – che di questi tempi, però, non è innocuo – si legge una domanda sulla possibilità di autogoverno. L’intelligenza degli sciami ama presentarsi come politicamente incolore: a sinistra la si potrà incontrare chiedendosi non se la moltudine sia governabile, ma se sia in grado di autogovernarsi, a destra potrà contribuire ad accarezzare l’idea di una ottimizzazione delle risorse umane, al servizio di un’efficienza aziendale e produttiva non diretta dall’alto, ma orizzontale. Quand’anche tutto quadrasse, rimarrebbe inevasa una domanda: come può l’essenza umana, troppo umana dei desideri, delle intenzioni e delle azioni sintonizzarsi con il modello decisamente non umano degli sciami? E a ruota, più maliziosamente: come mai, in controtendenza rispetto a tutta questa tensione alla de-centralizzazione, continuano ad operare, o magari si ripropongono incattiviti, moduli gerarchici di gestione del potere? Vedremo come andrà a finire.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20091103/pagina/11/pezzo/263824/
Per rimanere in tema si legga anche Lo sciame DELLA COMUNICAZIONE – LA POLITICA INSORGENTE NELLE MAGLIE DELLA RETE- del 16.10.2009 di Benedetto Vecchi alla pagina https://adrianaemaurizio.wordpress.com/mediattivismo/mediattivismo-027/
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di Benedetta Verrini
ARMI. Sì Onu a uno storico Trattato 2.11.2009
Realtà entro il 2012. Control Arms: «Basta commercio incontrollato». Firmano anche gli Usa
Il 30 ottobre scorso, dopo anni di discussioni e dibattiti, le Nazioni Unite hanno concordato un calendario definitivo per scrivere e adottare un “forte e robusto” Trattato Internazionale sui Trasferimenti di Armi.
Si tratta di una grande vittoria della Campagna internazionale Control Arms di cui fa parte anche l’italiana Rete Disarmo. Secondo un comunicato della piattaforma, dunque, il Trattato (conosciuto in sigla come ATT) dovrà avere “i più alti standard diffusi” per poter controllare il commercio ed il trasporto delle armi convenzionali in giro per il mondo. È un successo importantissimo ottenuto grazie al voto favorevole di 153 governi (tra cui Italia, Stati Uniti e tutti i più grandi stati protagonisti del commercio di armi come Gran Bretagna, Francia e Germania), all’astensione di 19 (tra cui Russia, Cina, India, Egitto, Cuba, Iran, Libia) e ad un solo voto contrario: quello dello Zimbabwe. Va notato il deciso cambio di rotta degli Stati Uniti (il paese che è maggior produttore, venditore e commerciante di armi) che, diversamente da tutti i precedenti passi del percorso del Trattato alle Nazioni Unite, hanno votato in favore della risoluzione adottata, che porterà come risultato la finalizzazione del Trattato entro il Luglio del 2012.
Attualmente nel mondo non esiste una regolazione comune del commercio di armi, ma ci si affida direttamente alle legislazioni nazionali che sono disomogenee e spesso incomplete. “E’ un risultato grandissimo” ha commentato Rebecca Peters, direttore della coalizione mondiale IANSA (International Action Network on Small Arms), “perché per troppo tempo il mondo è stato compiacente riguardo all’effetto devastante di un flusso non regolato di armi. Tutte le nazioni partecipano al commercio di armi convenzionali e devono quindi anche condividere i danni e le conseguenze: morte diffusa, grandi quantità di feriti, violazione dei diritti umani”.
“Si tratta davvero di una buonissima notizia” fa eco Francesco Vignarca, coordinatore delle attività nazionali della Rete Italiana per il Disarmo (composta da circa 30 organismi attivi su questi temi) “anche e soprattutto per noi che abbiamo lavorato da alcuni anni a questa parte alla campagna Control Arms.
Una campagna innovativa – la prima vera campagna di opinione politica a livello mondiale – che anche in Italia ha ottenuto un buon successo con oltre 40.000 volti raccolti per la Petizione da un Milione di volti. Era questo lo strumento scelto per premere sui Governi e renderli consapevoli che il commercio indiscriminato di armi è una stortura che crea solo problemi. Sembra ieri che si raccoglievano le immagini delle persone agli incontri, ai banchetti, alla Marcia Perugia-Assisi… bene ora possiamo dire a tutte quelle persone che il loro ‘metterci la faccia’ è servito davvero a qualcosa”. “Il fatto che finalmente i Governi abbiano scelto di negoziare dei controlli legali su questo commercio mortale non deve però bloccare la spinta della società civile, che deve continuare a lavorare affinché un trattato forte sia adottato nel 2012”, si legge nel comunicato.
La risoluzione appena votata indica che il Trattato dovrà essere negoziato in una serie di incontri culminanti in una conferenza dell’ONU nel luglio 2012. L’accordo finale dovrebbe imporre agli Stati di regolare strettamente il commercio internazionale di armi facendo riferimento a principi legislativi che devono avere come obiettivo la riduzione dei costi umani associati alla proliferazione delle armi convenzionali. La risoluzione riconosce inoltre che i trasferimenti di armi contribuiscono ai conflitti armati, all’esodo forzato delle popolazioni, supportano il crimine organizzato e terrorismo e come conseguenza indeboliscono la pace, la sicurezza e lo sviluppo sostenibile.
Il Trattato internazionale ha inoltre “bisogno di una regola d’oro che possa fermare qualsiasi proposta di vendita di armi che possieda un rischio sostanziale di essere usata per serie violazioni dei diritti umani o crimini di guerra” – afferma Brian Wood, responsabile del controllo armamenti per Amnesty International – “una regola che potrebbe salvare davvero la vita di centinaia di migliaia di persone e proteggere la sicurezza di molti milioni”.
La campagna Control Arms (formata da centinaia di ONG in oltre 100 paesi) nell’accogliere con soddisfazione il voto in sede ONU sollecita i Governi a mantenere l’inerzia di questa storica decisione per garantire davvero che il Trattato abbia solidi standard capaci di entrare compiutamente nel complesso mondo del commercio delle armi. Qualche riserva infatti è stata espressa sulla procedura pianificata per la Conferenza ONU finale sul Trattato, che potrebbe dare un sostanziale diritto di veto a ciascuno Stato sulle decisioni definitive prese in quella sede. La Campagna chiede di impedire che un piccolo numero di Stati scettici possa dirottare il percorso verso un Trattato forte quando è ormai chiaro che il mondo vuole una legislazione forte. “E’ vitale che ora i Governi, specialmente quelli che hanno votato a favore come l’Italia, mantengano alta la pressione per un Trattato forte, ed anche noi come Rete Italiana per il Disarmo e Campagna Control Arms in Italia continueremo a fare la nostra parte per raggiungere questo storico risultato. Non dimentichiamoci poi che il nostro paese è uno dei maggiori attori della produzione e del commercio di armi, e deve quindi assumersi la propria responsabilità per regolare una situazione che, quando come ora è incontrollata, provoca disastri e impatti molto negativi in gran parte del mondo” conclude Francesco Vignarca.
Info: www.disarmo.org www.controlarms.org
http://beta.vita.it/news/view/97105/
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