Simulare il volo spaziale, viaggiare e guardare la Terra dall’astronave NASA
1 agosto 2009 Scritto da: Claudio Pomhey
Articolo dedicato agli appassionati di viaggi nello spazio con delle segnalazioni molto serie perchè sono delle simulazioni di volo spaziale vero che si può fare virtualmente dal proprio pc.
In un altro post avevamo gia visto come esplorare lo spazio e le costellazioni delle stelle tramite Google Earth, Windows live earth o altri telescopi online.
In questo caso invece siamo molto più vicini a Star Trek e vediamo come simulare un vero e proprio viaggio nello spazio dentro uno shuttle reale o in una stazione spaziale da cui si può guardare la Terra.
Prima di tutto, Orbiter, un simulatore di volo spaziale del tutto free e gratuito da scaricare e installare sul pc, in cui si può realmente toccare con mano l’emozione o la sensazione visiva di un viaggio in una astronave.
La spettacolarità è data dalla fisica che controlla Orbiter vera e molto accurata.
Il gioco che però ha più i tratti di un esperimento di ingegneria aerospaziale, replica fedelmente le dinamiche del volo spaziale e, ad esempio, anche i consumi di carburante a seconda delle direzioni e dei cambi d’orbita presi, corrispondono fedelmente alla realtà.
Pregio e difetto di tanto realismo è la durata del gioco in cui, se una missione spaziale avesse la durata reale di tre giorni, anche in Orbiter, la stessa, costringerà a tenere il pc acceso per tre giorni fino al termine del viaggio.
Beh per fortuna, essendo una simulazione virtuale, c’è la possibilità di accellerare il tempo fino a 100.000 volte quindi la missione può essere completata anche in un paio d’ore.
Su ORBITER c’è anche un po’ di fantasia, altrimenti sarebbe molto noioso e si possono utilizzare astronavi avveneristiche, non esistenti davvero, molto più potenti di quelle attuali che riescono ad affrontare viaggi verso pianeti lontani che per ora sono impossibili anche per la NASA.
Lo Space Shuttle è però reale e riprodotto fedelmente, inoltre vi è la disponibilità di guardare e di volare con altre astronavi storiche, comprese quelle del progetto Gemini e del progetto Apollo.
Il simulatore è piuttosto complicato, come lo sono quelli di volo aereo ma c’è ua comunità di utenti e giocatori appassionati che dovrebbero aiutare a capire tutti i funzionamenti nel forum Orbiter Italia.
Per chi vuole qualcosa di meno impegnativo, senza guidare una astronave ma osservando soltanto come si vedrebbe la Terra dallo spazio, potrebbe provare a salire virtualmente sulla Stazione Spaziale Internazionale che è stata ricostruita con un tour in 3D per esplorarla e studiarla negli interni e nella struttura.
Questa Stazione è in orbita intorno alla Terra dal 2 novembre 2000 e da allora c’è sempre stato qualche astronauta all’interno.
La ricostruzione è ad opera della NASA nell’ambito del progetto chiamato ISS che studia la vita e le condizioni di lavoro dell’uomo nello spazio per un lungo periodo di tempo in modo da avere le basi scientifiche per costruire astronavi che possano viaggiare più lontano nello spazio per esplorare la galassia.
Per salire a bordo di questa stazione si può fare il Tour virtuale a 360 gradi oppure andare alla NASA realmente e guardare tutti i dettagli delle cose cha hanno fatto, in modo interattivo stando dentro l’edificio dove ci sono gli astronauti e gli extraterrestri.
Per vedere invece come si muove la stazione e vedere la Terra dal punto di vista dell’astronauta, si può entrare nel sito Windows On Earth che consente di guardare il percorso della Stazione spaziale internazionale.
Praticamente si vede la Terra durante il passaggio e si vedono mari e città a seconda dell’orario.
Non è una ripresa dal vivo ma il frutto di un lavoro di fotografia molto dettagliato e preciso.
Sul menu “configure” si può aggiungere una musica e settare piccole modifiche alla grafica ed alla visualizzazione che comunque procede inesorabile.
Per concludere le segnalazioni spaziali, sul sito della Nasa sull’Apollo 11 e anche su WeChooseTheMoon si può rivivere e rivedere, con una animazione in flash, l’atterraggio sulla Luna degli atronauti dell’Apollo 11 di cui, quest’anno è stato celebrato l’anniversario.
http://www.navigaweb.net/2009/08/simulare-il-volo-spaziale-viaggiare-e.html
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Agosto 2009
Rai Sat Extra, il servizio pubblico si immola per far godere il puttaniere
Per quei pochi che non avessero capito lo ridiciamo maniera chiara perché è una roba da matti e la tipica notizia alla quale uno tende a non dare importanza quando invece ne ha moltissima:
1) il padrone di Sky, nonché capo del complotto comunista Rupert Murdoch (come Ugo Tognazzi era capo delle BR), offriva alla RAI 50 milioni di Euro l’anno in gettoni d’oro, come a Rischiatutto, per 7 anni (totale 350 milioni, 700 miliardi del vecchio conio, una manovrina) per trasmettere Rai Sat Extra, Rai Sat Premium eccetera, nonché RaiUno, Due e Tre (che saranno da ora in parte criptati) nei suoi pacchetti.
2) La Rai, in cambio di nulla, ha deciso di dire “no” a quest’offerta. Insomma a deciso di tagliarsele per far dispetto a Murdoch e impedirgli di poter dire ai suoi quattro milioni e dispari di utenti di avere un’offerta completa. Considerate che con quei 50 milioni di Euro il servizio pubblico ripianava la metà del suo passivo, che è pari a 120 milioni l’anno, e che non c’è nessun altro soggetto sul mercato disposto a pagare né di più né di meno della cifra offerta da SKY. Insomma dire “no” a Murdoch è una perdita secca e quei canali, sui quali pure qualche doblone era stato investito nell’ultimo lustro, per un bel pezzo diverranno clandestini e non li vedrà più nessuno. Che ci guadagna la RAI a rinunciare ai soldi di Murdoch? Nessuno è riuscito a spiegarlo.
3) Murdoch pagava (troppo poco?) per offrire agli abbonati della parabola un servizio aggiuntivo. Così tutti erano contenti, Murdoch che vendeva, la RAI che incassava e gli spettatori che guardavano. Situazione intollerabile per il fido scudiero Mauro Masi (nella foto), che a Berlusconi deve tutto, da aprile direttore generale della RAI. Detto fatto: adesso Murdoch non offre più il servizio, gli spettatori hanno bisogno di un altro decoder (e se vogliono vedere tutto spenderanno fino a 120 Euro al mese) e la RAI perde 50 milioni l’anno. Un affarone! In cambio il servizio pubblico sale col suo principale concorrente, che incidentalmente è il capo del governo, sul carro di Tivusat (la piattaforma satellitare di Mediaset+RAI) della quale nessuno al mondo sentiva l’esigenza e dalla quale non guadagna una lira. Non solo: obbliga gli spettatori a comprare un altro decoder, il terzo, oppure a rinunciare a SKY e magari comprare i pacchetti Calcio su “Mediaset premium” che stranamente sembra molto più avanti della RAI nel monetizzare la digitalizzazione. In pratica sono (quasi) tutti scontenti: Sky, la RAI, che ha ai suoi vertici uomini imposti dalla concorrenza e i telespettatori.
4) E’ evidente che Murdoch aveva beneficiato finora di una Mammì satellitare diventando monopolista delle parabole così come la Mammì di Craxi (quello celebrato da Veltroni) aveva consegnato l’Italia nelle mani di Silvio Berlusconi. Chissà, qualcosa di diverso si poteva fare, magari democratizzando l’accesso al mercato televisivo e non semplicemente redistribuendo risorse tra tre soli soggetti per avvantaggiare Mediaset. Siamo troppo visionari se pensiamo che l’IPTV, l’investire nell’aumento di banda disponibile, abbasserebbe l’assicella della concentrazione necessaria all’accesso al mercato televisivo permettendo a molti soggetti di stare sul mercato mentre invece le “piattaforme satellitari” cristallizzano l’esistente intorno ai soliti 2-3 soggetti?
5) Dovrebbe essere chiarito innanzitutto agli spettatori/elettori di Raiset che da quello che bolle o è bollito in pentola sul mercato televisivo hanno solo da perdere. La Gasparri, con l’invenzione del digitale terrestre, obbliga a buttar via (e smaltire!) milioni di vecchie ma funzionanti televisioni analogiche, magari in seconde case usate dieci giorni l’anno, in cambio di servizi a pagamento che potevano essere offerti altrimenti. Quest’ultima decisione della rinuncia della RAI ai soldi di Murdoch obbliga inoltre gli spettatori a comprare un ulteriore decoder per vedere quello che avevano già incluso nel pacchetto SKY fino a ieri. L’unico che ci guadagna è sempre lui, Silvio Berlusconi.
Insomma che ci scandalizziamo per l’illusionismo sulla sorte dei terremotati dell’Aquila o per le prestazioni della prostituta Patrizia D’Addario, tutto è solo fumo perché quando guardi al flusso del denaro e del potere torni sempre lì, alla scatola magica con la quale fa e disfa carriere, compra e vende come al mercato e soprattutto manipola l’opinione pubblica, la tivù, il vero, unico cuore del potere berlusconiano.
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Tutto molto interessante il numero di Galileo del 2 Agosto, quindi riporto solo i link per semplicità:
GALILEO – GIORNALE DI SCIENZA E PROBLEMI GLOBALI
http://www.galileonet.it/default
Questa settimana su Galileo
– MULTIMEDIA –
CITTA’ SOSTENIBILI
Case-libellula per la Grande Mela
Ecco il progetto di un maxi-condominio con funzioni ibride di fattoria, ufficio e abitazione. Per ridurre drasticamente l’impatto ambientale delle megalopoli
http://www.galileonet.it/multimedia/11754/case-libellula-per-la-grande-mela
– PRIMO PIANO –
BIOMIMETICA
Natural design
Dal micro-mosaico del coleottero ai cristalli dei virus, ecco come la biologia ispira la tecnologia
http://www.galileonet.it/primo-piano/11768/natural-design
– NEWS –
BATTERI
La molecola che oscura le Lux
È possibile agire sul quorum sensing per bloccare il processo di infezione, senza rischiare di far sviluppare ceppi resistenti agli antibiotici
http://www.galileonet.it/news/11771/la-molecola-che-oscura-le-lux
MATERIA SOFFICE
Quante caramelle nel barattolo?
Uno studio su Nature mostra come determinare le unità presenti in un volume e trovare il modo per farne entrare il numero maggiore possibile
http://www.galileonet.it/news/11770/quante-caramelle-nel-barattolo
ECOSISTEMI
Anche i più piccoli smuovono le acque
Il movimento degli animali, anche minuscoli, contribuisce fortemente al rimescolamento dell’oceano. Lo dimostrano le meduse
http://www.galileonet.it/news/11769/anche-i-piu-piccoli-smuovono-le-acque
OBESITÀ
Gli interruttori del grasso buono
Trovati due geni che regolano la formazione del grasso bruno: il tessuto creato in laboratorio è stato trapiantato nei topi con successo. Lo studio su Nature
http://www.galileonet.it/news/11765/gli-interruttori-del-grasso-buono
NUOVE FRONTIERE
Alluminio invisibile ai raggi X
Il metallo colpito con un potentissimo laser assume un nuovo stato di materia, simile a quello che si trova al centro dei pianeti giganti
http://www.galileonet.it/news/11761/alluminio-invisibile-ai-raggi-x
CLASSIFICAZIONI
Codici a barre vegetali
Un gruppo di ricerca internazionale ha identificato le sequenze genetiche che permetteranno di catalogare tutte le specie di piante conosciute
http://www.galileonet.it/news/11757/codici-a-barre-vegetali
RINNOVABILI
Investire nonostante la crisi
Il rapporto dell’Enea fotografa l’impatto della crisi economica sul settore. La diminuzione dei consumi rischia di far calare gli investimenti nelle rinnovabili
http://www.galileonet.it/news/11756/investire-nonostante-la-crisi
STRESS
Se mi lasci mi ammalo
Una nuova ricerca approfondisce l’effetto di divorzio sulla salute: tra vedovi e divorziati la percentuale di cardiopatie, diabete e cancro è più alta del 20 per cento
http://www.galileonet.it/news/11753/se-mi-lasci-mi-ammalo
COMPETIZIONI
Aerei di ricino
Un gruppo di studenti dell’Università del Queensland ha vinto il primo premio del concorso Fly Your Ideas di Airbus grazie a un bio-materiale per le cabine dei passeggeri
http://www.galileonet.it/news/11751/aerei-di-ricino
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3/8/2009 – LA GLOBALIZZAZIONE AGRICOLA
Wall Street a caccia dei campi africani
“Il cibo, l’oro del futuro”
I fondi d’investimento cercano appezzamenti a prezzi ridicoli.
Tra i compratori anche molti Paesi con poca terra coltivabile
HORAND KNAUP, JULIANE VON MITTELSTAEDT
Ogni crisi ha i suoi vincitori. Alcuni di loro sono seduti nella sala Stuyvesant dell’Hotel Marriott a New York. Gli uomini sono agricoltori di mais, proprietari terrieri, manager di fondi provenienti dall’Iowa, da San Paolo, da Sydney. Ognuno di loro ha pagato 1995 dollari per partecipare alla prima conferenza sul commercio mondiale di terreni coltivabili: la Global AgInvesting 2009. Il primo a intervenire è un rappresentante dell’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico. Sui suoi grafici in Powerpoint ci sono delle curve che schizzano su e giù. Alcune si piegano tanto più verso il basso quanto più si avvicinano all’anno 2050: si tratta dei terreni agricoli che andranno persi a causa dei cambiamenti climatici, del degrado del suolo, dell’urbanizzazione e della carenza d’acqua. Le altre linee, invece, puntano decisamente verso l’alto: rappresentano la domanda di carne e biocarburanti, il prezzo del cibo e l’incremento demografico. Tra le curve si apre un divario che diventa sempre più grande. Quel divario è la fame.
La fame è il nostro business
Ma per gli uomini e le poche donne raccolti nella sala Stuyvesant si tratta di buone notizie, l’atmosfera è allegra. La combinazione «più uomini-meno terra» rende il cibo un investimento sicuro, con rendite annuali del 20 o 30%. Susan Payne, una inglese dai capelli rossi, è direttrice del più grande fondo terriero dell’Africa meridionale, che si estende per 150.000 ettari, principalmente in Sud Africa, Zambia e Mozambico. Payne, che vuole raccogliere dagli investitori mezzo miliardo di euro, parla di lotta alla fame, ma le slide della sua presentazione in Powerpoint, abbellite da foto di campi di soia al tramonto, hanno dei titoli come «Africa – the last frontier for finding alpha». Alpha è un investimento il cui ritorno supera i rischi. L’Africa è la terra-Alpha: su quel continente impoverito la terra costa poco. Il fondo della Payne paga tra 350 e 500 dollari per ettaro nello Zambia; in Argentina o negli Usa per la stessa superficie dovrebbe sborsare dieci volte tanto.
Si tratta di condizioni perfette per chi investe. La società d’investimento statunitense Blackrock ha creato un fondo agricolo da 200 milioni di dollari. La russa Investor Renaissance Capital ha acquistato oltre 100.000 ettari in Ucraina. Deutsche Bank e la banca statunitense Goldman Sachs hanno investito in aziende che allevano suini e pollame in Cina. Il cibo sta diventando il nuovo petrolio. La novità di questo colonialismo sta nel fatto che i Paesi si lasciano conquistare volentieri. Il premier etiope ha affermato che il suo governo «arde» dalla voglia di mettere a disposizione centinaia di migliaia di ettari di terreni coltivabili. Il tutto è legato a due speranze: la speranza degli Stati poveri di poter sviluppare e modernizzare la loro agricoltura a pezzi e la speranza del resto del mondo che gli investitori stranieri possano produrre in Asia e Africa cibo sufficiente per i 9,1 miliardi di persone che popoleranno presto la Terra; che possano portare con loro tutto quello che adesso manca: tecnologie, capitali, conoscenze, sementi moderne e fertilizzanti.
Ma l’accaparramento moderno delle terre, il cosiddetto «land grabbing», è una questione politicamente delicata. Nessuno sa di preciso quanta terra in tutto sia in gioco. L’Istituto internazionale di ricerca sulle politiche alimentari parla di 30 milioni di ettari. Klaus Deininger, un economista della Banca mondiale specializzato in politiche agricole, stima che simili trattative di accaparramento della terra potrebbero riguardare dal 10 al 30% dei terreni coltivabili disponibili.
Governi in prima linea
Gli affari più spettacolari però non li fanno i privati, bensì i governi. Il governo sudanese ha ceduto per 99 anni agli Stati del Golfo Persico, all’Egitto e alla Corea del Sud 1,5 milioni di ettari di terra coltivabile della migliore qualità. Il paradosso: il Sudan è il Paese che riceve i maggiori aiuti al mondo e la sopravvivenza di 5,6 milioni di sudanesi dipende dagli aiuti alimentari. Il Kuwait ha preso in affitto 130.000 ettari di risaie in Cambogia. L’Egitto vuole coltivare grano e mais su una superficie di 840.000 ettari in Uganda. Il presidente della Repubblica democratica del Congo ha offerto in affitto 10 milioni di ettari al Sud Africa. Il Pakistan vuole mettere a disposizione degli Stati del Golfo Persico un milione di ettari di terreni coltivabili, le Filippine attirano gli investitori con oltre 1,2 milioni di ettari.
L’Arabia Saudita è uno dei più grandi e aggressivi tra i Paesi che fanno incetta di terra. In primavera il re ha partecipato alle celebrazioni per l’arrivo del primo raccolto di riso estero, coltivato per il regno saudita in Etiopia, un Paese tormentato dalla fame. Gli Stati ricchi scambiano soldi, petrolio e infrastrutture con cibo, acqua e foraggio. Tuttavia molti degli Stati in cui si verifica l’accaparramento dei terreni soffrono di scarsità d’acqua, come ad esempio il Kazakistan o il Pakistan. L’Africa subsahariana ha riserve idriche naturali a sufficienza, eppure soltanto il Sud Africa riesce a realizzare un surplus alimentare.
Olivier De Schutter, il relatore speciale dell’Onu per il diritto al cibo, avverte: «Siccome in Africa gli Stati sono in concorrenza tra loro per accaparrarsi gli investitori, si superano l’un l’altro offrendo prezzi più bassi». Alcuni contratti sono lunghi appena tre pagine. Alcuni promettono di costruire delle scuole o di asfaltare delle strade, ma, anche quando gli investitori rispettano queste promesse, i vantaggi per lo Stato e i contadini locali sono spesso di breve durata. Questo perché i grossi proprietari terrieri stranieri praticano l’agricoltura su scala industriale, altrimenti sarebbe impossibile aumentare i raccolti in modo da raggiungere rendite annuali del 20% e anche più. E se dopo un paio d’anni la terra è ormai impoverita, gli investitori si trasferiscono semplicemente altrove.
Guerra tra poveri
«Quando il cibo scarseggia – spiega l’imprenditore americano Philippe Heilberg – gli investitori hanno bisogno di uno Stato debole che non imponga loro nessuna regola». Uno Stato che, nonostante la carestia all’interno dei propri confini, consente l’esportazione di cereali, perché è piegato dalla corruzione o è iperindebitato. Heilberg ha trovato uno Stato così: il Sud del Sudan. Un pre-Stato, autonomo, ma non indipendente. Il quarantaquattrenne americano, figlio di un commerciante di caffè e fondatore della società d’investimenti Jarch Capital, è il più grande affittuario di terra nel Sud del Sudan, con 400.000 ettari. Nella parte occidentale del Kenya l’appropriazione dei terreni è più avanzata. Lì vive il trentatreenne Erastas Dildo, il tipo di persona che gli investitori di New York definirebbero un «fattore di rischio»: Erastas è un piccolo agricoltore che possiede tre ettari di terra. Terra fertile, su cui il mais cresce, verdissimo, fino a due metri d’altezza, in cui i bovini sono grassi come ippopotami e le piante di pomodori si piegano sotto il loro stesso peso. Erastas raccoglie il mais due volte l’anno. Un ettaro gli frutta 3.600 euro all’anno, molto, per gli standard kenioti.
Multinazionali contro contadini
Ora però alla porta di Erastas ha bussato la Dominion Farms, un’azienda agricola statunitense che ha costruito lungo il delta dello Yala una propria colonia, affittando per 45 anni 3600 ettari di terra per un prezzo irrisorio: 12.000 euro all’anno. Sui terreni dovrebbero crescere riso, verdure e mais. E Dominion vorrebbe volentieri anche i tre ettari di Erastas Dildo. Gli inviati della Dominion gli hanno offerto un indennizzo di circa dieci centesimi al metro quadro. Erastas ha rifiutato e ora quelli di Dominion gli rendono la vita difficile. La loro arma più potente è lo sbarramento idrico che hanno costruito. Quando lo scorso anno Erastas ha provato a raccogliere il suo mais l’ha ritrovato inondato. «E se questo non basta – racconta – mandano bulldozer, squadre di picchiatori». Dominion aveva promesso per contratto il risanamento di «almeno una scuola e un ospedale» in ognuno dei due distretti locali. «Invece hanno cacciato 400 famiglie», afferma Gondi Olima dell’associazione «Amici della palude dello Yala». Dominion Farms respinge le accuse e fa notare che ha fatto costruire otto classi, concesso borse di studio a 16 bambini e dotato una struttura ospedaliera di letti ed elettricità.
In Africa, stima la Banca mondiale, esistono diritti formali di possesso o affitto soltanto per una percentuale di terra compresa tra il 2 e il 10%, e ciò riguarda per lo più le città. Una famiglia può anche vivere da decenni su un pezzo di terra o possederlo, ma spesso non può dimostrarlo. Inutilizzata, comunque, la terra non lo è quasi mai. Soprattutto i più poveri vivono grazie a essa, raccogliendo frutta, erbe o legna da ardere o facendovi pascolare il bestiame. Così l’acquisto di grossi terreni può anche trasformarsi in un disastro, visto che oltre il 50% degli africani sono piccoli contadini.
La Banca mondiale e altre organizzazioni stanno ora preparando un codice di condotta per gli investitori. Al vertice del G8 dell’Aquila di luglio era prevista la firma di una dichiarazione di intenti, ma i capi di Stato non sono riusciti a trovare un’intesa su standard vincolanti. E così la caccia prosegue. E nella sala Stuyvesant a New York uno degli oratori chiarisce il ritmo di crescita del genere umano: 154 persone al minuto, 9240 all’ora, 221.760 al giorno. E tutte vogliono mangiare.
Copyright Der Spiegel
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/africa/200908articoli/46079girata.asp
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«Musulmani e senza leader, così l’Occidente li ha ignorati»
Michael Dillon intervistato da Giada Franchini
“Il processo di erosione dell’identità uigura riguarda tanto la letteratura quanto la religione. E un forte razzismo anti-uiguro contribuisce ad escludere la minoranza etnica dallo sviluppo economico cinese. Se Pechino non cesserà di impiegare i suoi metodi autoritari contro la popolazione islamica dello Xinjiang, il rischio che gli uiguri tornino ad abbracciare il terrorismo diventerà una realtà”. Michael Dillon, esperto di Cina islamica e autore del libro Xinjiang: China’s Muslim Far Northwest (Routledge, 2009), commenta per Resetdoc le peggiori violenze cinesi dai tempi di Piazza Tienammen e spiega perché la questione uigura e quella tibetana non sono poi così simili.
C’erano stati dei segnali che lasciavano presagire che la situazione nella provincia dello Xinjiang sarebbe esplosa?
Dei segnali c’erano, ma non era prevedibile che la situazione sarebbe degenerata proprio ora. In passato ci sono stati episodi di violenza in varie parti nello Xinjiang, ma erano dieci anni che le dimostrazioni non raggiungevano un livello tale di violenza. Credo che molte persone in Cina pensassero che il problema degli uiguri fosse risolto. Invece era stato semplicemente nascosto e all’improvviso è esploso.
Concretamente, quali sono le politiche più allarmanti adottate da Pechino per assicurarsi il controllo sugli uiguri nella regione? Le autorità cinesi stanno davvero cancellando la cultura uigura, come la minoranza etnica sostiene?
L’aspetto più evidente è che nella maggior parte dello Xinjiang c’è una massiccia presenza militare. Per quanto riguarda l’erosione della cultura, la lingua parlata è salva: molte persone continuano a parlare uiguro, non cinese. Tuttavia, esiste un problema per lo uiguro scritto, la letteratura uigura: da decenni non può più fiorire liberamente. I libri pubblicati in uiguro sono sottoposti ad una rigida censura. Ogni autore che suggerisce l’idea di un East Turkestan indipendente viene incarcerato. C’è una seria soppressione della cultura uigura e la religione musulmana è parte di questo processo, benché le moschee nella regione siano poco attive.
Il controllo cinese nella regione autonoma passa anche attraverso le politiche d’immigrazione: gli uiguri si sentono degli assediati in casa. Com’è cambiata la demografia da quando lo Xinjiang è stato dichiarato parte della Cina?
La regione fa parte della Cina da oltre un secolo, è diventata una provincia cinese nel 1884, per cui il problema dell’immigrazione non è recente. Negli anni ’50 e ’60 la migrazione è stata piuttosto lenta. Quando, negli anni ’80, Pechino ha iniziato il programma di riforme economiche, la migrazione è incrementata, le persone si spostavano nella convizione di trovare lavoro facilmente. Negli anni ’50 e ’60 gli uiguri rappresentavano il ’70 per cento della popolazione dello Xinjiang, oggi non arrivano al 50 per cento.
Gli uiguri sono esclusi dallo sviluppo che sta investendo la Cina? Esiste un apartheid economico?
Sì, in parte perché il loro livello di istruzione spesso non è abbastanza elevato. Se non parlano e leggono in modo adeguato il cinese, non riescono a trovare lavoro. Ma esiste anche un’esclusione fondata su motivazioni etniche. I cinesi di etnia Han preferiscono lavorare con altri Han. Semplicemente, nella provincia esiste un forte razzismo anti-uiguro.
Le situazione nello Xinjiang è stata paragonata a quella nel Tibet, perché alla base di entrambe ci sono questioni etniche e religiose. Tuttavia la condizione degli uiguri è stata molto più ignorata dai paesi occidentali rispetto a quella tibetana. E’ per via di un pregiudizio anti-islamico sembra più diffuso da noi? Quali sono le diversità tra le due situazioni?
Una differenza sta certamente nel fatto che gli uiguri sono musulmani e i musulmani non godono di grandi simpatie al momento in Occidente. Tuttavia, la più grande differenza è che il Tibet ha un governo alternativo in esilio sotto il Dalai Lama. Per cui da sempre le autorità cinesi hanno puntato il dito contro il Dalai Lama, accusandolo di indebolire il loro controllo sul Tibet. E sappiamo bene che il Dalai Lama gode del supporto di molti tibetani. Nel caso dello Xinjiang non esiste qualcosa di simile. Gli uiguri guardano agli stati dell’Asia centrale, Kirghizistan, Uzbekistan e Kazakistan, come ad una terra-madre, ma nel loro caso non esiste alcun governo alternativo.
Tuttavia Pechino accusa gli uiguri della diaspora di aver orchestrato le recenti dimostrazioni. Sono accuse senza fondamento?
A me non sembrano credibili. Gli uiguri della diaspora non sono nella posizione di poter creare dimostrazioni di quella portata perché lo Xinjiang è una regione molto isolata e le comunicazioni non sono buone. La mia opinione è che quelle manifestazioni sono, se non spontanee, organizzate internamente. E’ vero che esistono organizzazioni nella diaspora uigura che supportano l’idea di uno Xinjiang indipendente e magari forniscono agli uiguri in Cina il necessario supporto morale, ma non credo che sosterrebbero atti del genere.
La maggior parte degli uiguri dello Xinjiang vorrebbe l’indipendenza da Pechino o si accontenerebbe di una minore oppressione e di un maggior rispetto dei propri diritti.
Certamente vogliono più rispetto, avere la possibilità di praticare la loro religione liberamente e un accesso più agevole al mondo del lavoro. Non desiderano più essere cittadini di seconda classe. Ma è difficile dire con certezza se la maggioranza è a favore dell’indipendenza. Quando si tenta di affrontare l’argomento, sono elusivi perché sono circondati da spie. Possiamo immaginare tuttavia che, come nel caso del Tibet, se fosssero messi di fronte alla possibilità di scelta gli uiguri preferirebbero essere governati da rappresentati della loro etnia che dai cinesi.
Il Tibet è ricco di uranio, lo Xinjiang lo è di petrolio e gas. Da un punto di vista geostrategico cosa rappresenta lo Xinjiang per Pechino?
Non c’è dubbio che il gas naturale dello Xinjiang sia molto importante per Pechino. Inoltre la Cina ha bisogno di controllare quella regione non solo perché confina con gli stati dell’Asia centrale, ma anche perché esiste un progetto di una Via della Seta moderna, una via commerciale eurasiatico-cinese, che dovrebbe attraversare proprio lo Xinjiang.
In passato ci sono stati attacchi terroristici nello Xinjiang. Pechino accusa gli uiguri di essere dei terroristi e di avere dei legami con Al Qaeda. Cosa ne pensa di questa presunta connessione?
Esistono numerose accuse che sostengono che gli uiguri abbiano dei contatti con Al Qaeda. Personalmente, però, non ho trovato prove di questi presunti contatti. Appaiono abbastanza improbabili anche perché stiamo parlando di musulmani diversi. La maggioranza degli uiguri segue il sufismo, mentre Al Qaeda è ispirata dal wahabismo saudita.
Il risentimento che ribolle tra gli uiguri sembra aver raggiunto però un livello preoccuppante. Crede che lo spettro della “minaccia terroristica”, che oggi Pechino agita con toni che a molti sembrano esagerati, potrebbe diventare presto una realtà? In altre parole, i metodi coercitivi delle autorità cinesi potrebbero diventare un’arma a doppio taglio per Pechino?
Temo che sia possible. Se il terrorismo tornerà a meterializzarsi nello Xinjiang sarà in parte colpa delle politiche del governo. Il problema è che l’unica tattica che Pechino conosce è quella della soppressione, della forza militare, delle incarcerazioni. Non è capace di negoziare, anche perché tutte le organizzazioni uigure sono illegali. Non esistono partiti politici legali o organizzazioni religiose che possano rappresentare gli uiguri presso il governo.
Il supporto accordato dagli Han dello Xinjiang alle autorità cinesi dimostra ancora una volta che l’autoritario sistema politico cinese funziona?
Sì, gradualmente la popolazione Han ha preso a sostenere il sistema politico perché vede che ne trae benefici sul piano economico. Ci sono persone critiche verso il potere, ma quando si arriva alla situazione nello Xinjiang le sole informazioni che i cinesi Han ricevono sono quelle governative, per cui non hanno un’opinione indipendente.
Crede che in qualche modo la diffusione di internet possa cambiare la situazione?
Sì, ma non è detto che sarà un cambiamento positivo. Basta guardare a quello che è successo recentemente. La scintilla che ha fatto scoppiare i disordini sembra, infatti, che sia stata una voce non confermata e partita dal web, che riguardava il presunto stupro di donne Han da parte di alcuni uiguri.
17 Jul 2009
http://www.resetdoc.org/IT/Dillon-uiguri.php
Ulteriormente, non da meno
La questione della lingua e il ruolo della Turchia (http://www.resetdoc.org/IT/Uiguri-turchia.php)
Emanuela Scridel
La mancata integrazione (http://www.resetdoc.org/IT/Cina-uiguri-integrazione.php)
Maria Elena Viggiano
Cinquantanni di incomprensioni (http://www.resetdoc.org/IT/Uiguri-scheda.php)
Tommaso Nelli
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Un confine mobile
Articolo di Economia salute e ambiente, pubblicato giovedì 16 aprile 2009 in Gran Bretagna.
[The Economist]
Italia e Svizzera. Come il riscaldamento globale può ridurre i ghiacciai e alterare i confini.
Una volta le frontiere venivano modificate dagli eserciti. Adesso questo compito viene svolto dal riscaldamento globale. L’Italia e la Svizzera si preparano per fare, o piuttosto per riconoscere, delle modifiche al confine che attraversa il massiccio alpino del Monte Rosa. Malgrado quello che la gente romantica del posto sostiene, il nome del massiccio non ha nulla a che vedere con il colorito rosa che le sue vette assumono al tramonto. Infatti viene da una parola dialettale che significa “ghiacciaio”.
Il massiccio ha nove ghiacciai. In diverse zone la linea di confine tra i due Paesi è posizionata sullo spartiacque. A causa del riscaldamento globale, i ghiacciai si sono rimpiccioliti, dunque lo spartiacque si è spostato “in alcuni posti persino di 10 metri”, dice il generale Carlo Colella dell’Istituto Militare Geografico di Firenze. A gennaio, dopo quattro anni di lavoro da parte del generale e dei suoi impiegati, il Consiglio dei Ministri di Berlusconi ha approvato la modifica della frontiera.
Il confine fu segnato per la prima volta nel 1861 e ufficializzato in una convenzione 80 anni dopo. Il più grande cambiamento da allora è avvenuto negli anni ‘70, quando un corso d’acqua che demarcava il confine fu deviato per permettere la costruzione dell’autostrada Lugano-Como. I due Paesi si erano accordati per uno scambio di territorio come risarcimento. Il prossimo accordo fra Italia e Svizzera sarà il secondo di tre accordi resi necessari dalla riduzione dei ghiacciai alpini. L’Italia ha già concluso un accordo con l’Austria e ne farà un altro con la Francia.
Riconoscendo che il riscaldamento globale renderà temporanea qualunque linea di confine basata sullo spartiacque di un ghiacciaio, il patto con l’Austria ha per la prima volta introdotto il concetto di confine mobile. Gli esperti da entrambe le parti avranno il potere di alterarlo ad intervalli regolari. Probabilmente fino a quando i ghiacciai scompariranno del tutto.
[Articolo originale “A movable border”]
http://italiadallestero.info/archives/5047
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6 Agosto 2009
di Giorgio Salvetti
Decrescita per tutti
Intervista all economista francese Serge Latouche: segnali positivi dalla green economy di Obama
«La decrescita non è una teoria. Per essere corretti si dovrebbe dire a-crescita. È uno slogan che vuole contrapporsi a un altro slogan, quello di sviluppo sostenibile: un ossimoro. Per la prima volta nella storia siamo di fronte alla prospettiva imminente di una catastrofe globale. Era già stata anticipata dal Club di Roma nel 1972, ora ci siamo. Non si tratta di chiedersi se la decrescita è possibile, ma di comprendere che è necessaria. E ovviamente non si tratta di ritornare all’età della pietra. In questo senso non siamo né modernisti né antimodernisti, siamo atei: guardiamo alla realtà. Ogni italiano, per esempio, consuma 4,5 ettari di terra contro una media sostenibile di 1,8. Significa che se tutti vivessero come voi ci vorrebbero tre pianeti». Ora che il mondo sta rallentando di brutto, vale la pena fare quattro chiacchiere con il teorico della «decrescita», l’economista francese Serge Latouche.
Di chi è la colpa di tutto ciò?
Siamo tutti tossicodipendenti di consumo e lavoro. Si può dire che i trafficanti sono le multinazionali, il capitale, ma non va dimenticata la nostra responsabilità di tossici. La responsabilità e la libertà individuale sono l’unica possibilità per uscire dalla dittatura del pensiero unico.
Come? Un altro mondo è davvero possibile?
Cominciamo ad analizzare la parola «mondo». Il nostro mondo, questo mondo, è il mondo della crescita globale, il mondo occidentalizzato. Se preferite, il mondo del capitalismo e della società di mercato in cui la crescita all’infinito è di per sé un fine al di là dei bisogni reali. È dai tempi di Adam Smith che l’Occidente sogna e progetta questo tipo di mondo. Con la rivoluzione industriale si cominciò a distruggere piccoli contadini e artigiani e a puntare sull’industria meccanizzata. La povertà si trasformò in miseria. I poveri persero anche la possibilità di arrangiarsi, di ritagliarsi uno spazio al margine dei sistemi di potere, di produzione e di consumo di massa. Ma il vero balzo in avanti, la realizzazione del sogno, avvenne con l’enorme disponibilità di energia fornita dal petrolio. Ora pensiamo alla parola «uno». Non bisogna immaginare un altro mondo possibile ma tanti altri mondi possibili. La decrescita non rappresenta un’alternativa unica ma vuole essere una matrice di tante diverse alternative. Il mercato globale, la verità assoluta, un mondo unico anche se diverso, se dominato da un pensiero unico, è soggiogato da una forma di totalitarismo soft. Bisogna invece avere il coraggio di liberare e di diversificare tante culture, tante verità relative, funzionali, pragmatiche, etiche, piuttosto che dogmi teorici tipici, non solo delle forme di potere e produzione, ma anche della filosofia occidentale. Ci vuole biodiversità sia per le culture che per le colture. Sia su piccola che su grande scala. Pensiamo soltanto alle culture amerinde che stanno cambiando l’America del Sud, il culto della pachamama ha portato per la prima volta al riconoscimento della terra come soggetto di diritto.
Di quale teoria assoluta parla?
La società di marketing, verità unica e globale. È basata su tre cardini nel tentativo impossibile di mascherare continue crisi di sovrapproduzione e sottoconsumo inevitabili in un mondo globale e in un mercato unico e finito. Dunque incompatibile con una crescita infinita. La pubblicità droga la domanda rendendoci drogati del consumo e convincendoci ad acquistare in modo compulsivo ciò di cui non abbiamo bisogno. L’obsolescenza programmata, ovvero il sistema «usa e getta», per cui un prodotto è subito vecchio, fuori moda o rotto, droga l’offerta, depaupera le risorse del pianeta, produce rifiuti e guerre. Il terzo espediente è il credito infinito, altro modo per drogare la domanda: consumare diventa un dovere civico, anche a costo di indebitarsi. Da qui ha origine la crisi che stiamo vivendo, partita dai subprime americani e dagli istituti finanziari. Il guaio è che questo potere è sempre più impersonale, non basta fare la rivoluzione e decapitare il re come abbiamo fatto noi francesi. Non illudetevi che questa crisi possa finire. La crisi è un fattore strutturale del mondo della crescita. La pagano tutti. Il presidente del Senegal ha detto di avere compassione per i banchieri bianchi, ma che in Africa sono in crisi da sempre e non possono neanche aiutare i banchieri perché non ne hanno.
Se non basta decapitare il re, concretamente come si cambia?
La questione del potere e della rappresentanza è un tema cruciale. Qualche segnale positivo c’è. Oltre alle culture amerinde, pensiamo alla green economy di Obama o ai verdi di Cohn Bendit e Bové che in Francia sono al 16%. Ma di fatto assistiamo a un paradosso: quanto più è necessario un cambiamento radicale globale, tanto più sono scomparse le forze politiche e i pensieri politici che possono agire questo cambiamento. La morte del comunismo ha lasciato come pensiero assoluto il liberismo. Manca una terza via. La sinistra è caduta nella trappola produttivista del mito della torta sempre più grande. Ha pensato possibile un accordo con il capitale per produrre sempre di più e spartirsi le fette della torta gigante, che ingrossandosi si avvelena e ci rende tutti tossicodipendenti. Si tratta di una forma di servitù volontaria al potere del consumo e del lavoro.
La sinistra è produttivista anche perché figlia del movimento operaio, che fa del lavoro e della fabbrica un archetipo. Anche i movimenti degli anni ’60 hanno lottato contro l’ingiustizia economica del sistema, ma forse è mancata la coscienza della imminente catastrofe biologica del pianeta. Eppure l’ambientalismo è nato a sinistra, e fa parte della storia del movimento operaio la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro. Come si esce da questa dicotomia?
La spartizione della torta ovviamente non è solo una questione economica ma anche di potere politico. La decrescita è anche un modo di non prestarsi al gioco della spartizione del potere. La democrazia è la forma politica del liberismo: c’è un legame stretto tra crescita infinita in economia e democrazia in politica. In questo senso la sinistra in occidente è caduta nel miraggio del potere: propone sempre più spesso solo un’alternanza di dirigenza al governo, ma non di sistema. Per questo non basta votare, delegare, bisogna essere attori, scegliere e inventare in prima persona la propria via alla decrescita.
Non mi dirà che spera in una regressione a forme di autarchia individuale.
L’uomo ha una dimensione collettiva, dunque politica. Ma la politica politicante e rappresentativa è incoerente e ipocrita. Ci vuole pratica ed etica politica, non dimenticate l’importanza della responsabilità individuale dei tossici del consumo e del lavoro.
Sì, ma c’è un altro paradosso. Stati e individui poveri vogliono diventare ricchi, non decrescere. Per molti la sua è una teoria snob: decresce chi se lo può permettere, roba da ricchi, insomma… È vero, i paesi del sud del mondo vogliono diventare ricchi e occidentali, ma questa scelta li sta distruggendo. La scelta di muoversi in direzioni diverse è l’unica che li può e ci può salvare. E tutti la possiamo fare.
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Maturità, ecco i ragazzi più bravi Il Sud vince la gara dei 100 e lode
Corriere della Sera, 5 luglio 2009
Pieni voti a 3.529 studenti. In Puglia più del doppio della Lombardia
MILANO — L’Italia dei cento e lode, l’eccellenza della nostra popolazione studentesca, esce leggermente ridimensionata dall’ultimo esame di maturità. Quest’anno i quadri affissi all’esterno delle scuole hanno certificato la promozione a pieni voti di 3.529 studenti, premiati non solo con il 100 ma anche con la lode che dà diritto all’ormai consueto premio ministeriale. L’anno scorso le lodi erano state 4.008, ma il numero complessivo dei maturandi era un po’ più alto. Quest’anno il totale di candidati esaminati è stato di 383.167 unità: la media percentuale dei premiati con il massimo dei voti è rimasta inalterata, intorno allo 0,9% del totale.
In ogni caso su questi dati esercita un certo peso anche il clima di maggior severità imposto dal ministro Mariastella Gelmini, che ha avuto il suo primo riflesso immediato sul numero dei respinti, cresciuto dal 2,5% dell’anno scorso al 3,1 di quest’anno. Sono invece diminuiti drasticamente i cento senza lode. Sono 19.078, nel 2008 erano quasi il doppio, così come sono calati in proporzione sensibile anche i voti più alti, tra 81 e 99.
La nuova valutazione in centesimi è stata introdotta nel 2007 dall’allora ministro di centrosinistra Giuseppe Fioroni. Come prescrive la legge, per ottenere cento gli studenti devono portare in dote un credito di 25 punti riferito al curriculum e alle esperienze extrascolastiche dell’ultimo triennio, ottenere il massimo nelle tre prove scritte (ciascuna delle quali vale 15 punti), e poi tutto si gioca all’esame orale che da solo vale 30 punti. Infine i commissari, che da quest’anno hanno dovuto tener presente anche il voto in condotta, si riservano 5 punti di bonus.
Degli oltre 3.500 cento e lode, buona parte provengono da scuole meridionali. Per la precisione si tratta di 1.704 su complessivi 156.159 diplomati. Sono invece 764 gli studenti modello usciti da istituti del centro su 83.592 maturandi, e 1.061 da scuole settentrionali su 143.273 candidati al diploma. Anche se confrontiamo i dati relativi a chi ha preso soltanto 100, l’impressione di uno squilibrio a Sud nelle valutazioni viene confermato dai numeri. Le sole Campania, Puglia, Sicilia e Calabria ne mettono insieme 8.024, oltre il 40%, molti di più di tutti i migliori studenti del Nord, dove i maturati con 100 sono stati 6.121. In media solo il 5% degli esaminati ottiene il punteggio più alto, in Sicilia si viaggia sul 5,6%, in Puglia si arriva al 6,5, in Calabria addirittura al 7,9. Naturalmente è il settentrione a tenere bassa la media. Il Piemonte è appena sotto l’asticella, con il 4,8%, il Veneto si mantiene a quota 4,2, la Lombardia tocca il fondo con il 3,2.
La regione delle lodi è la Puglia, che detiene il record di promossi a pieni voti: 523, quasi 15% del totale nazionale, molto più della laboriosa Lombardia, dove gli esiti degli esami pubblicati qualche giorno fa hanno incoronato solo 210 studenti modello. E il dato risulta anche più impressionante se si considera che nel tacco d’Italia i diplomati non superano quota 31 mila, mentre nelle scuole lombarde sono stati quasi il doppio, 51.315.
I dati delle altre regioni confortano questa tesi, visto che anche in Campania si registra un cospicuo numero di promozioni con il voto massimo, ben 388, o in Calabria e Basilicata, che insieme ne vantano 341, pur totalizzando 22.429 esaminati contro i 29.919 del Veneto, dove invece i 100 con lode sono stati 219. Anche peggio è andata nelle scuole piemontesi, dove a fronte di 23.598 candidati i promossi a pieni voti sono 190, mentre in Sicilia se ne contano 369 su 39.770.
«Mi piacerebbe sostenere che gli studenti pugliesi siano i migliori di Italia — afferma la direttrice dell’ufficio scolastico della Puglia, Lucrezia Stellacci — e in effetti i nostri ragazzi riescono a ottenere risultati eccellenti grazie alle loro straordinarie doti. Tuttavia, avendo lavorato anche in altre regioni, non posso nascondere che certi risultati non sono dovuti solo alla bravura dei discenti, ma anche ai diversi metri di valutazione». Secondo il dirigente scolastico manca una disciplina unica: «I docenti sono costretti a regolarsi ciascuno a modo suo, e del resto difficilmente potrebbe essere altrimenti dal momento che non è stato ancora approvato il regolamento per l’attribuzione dei voti di maturità».
http://www.dirittiglobali.it/articolo.php?id_news=14157
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La Turchia si sta preparando a fare la pace con i kurdi?
di Simon Tisdall
The Guardian, 28 luglio 2009
Recep Tayyip Erdogan potrebbe essere sul punto di assestare il colpo più pesante di sempre alla già logora eredità ultranazionalista del padre fondatore della Turchia e suo primo presidente, Mustafa Kemal Ataturk. Ironicamente, date le recenti controversie, l’anticipata manovra diplomatica del primo ministro non riguarda però la promozione della sua presunta agenda islamica, ma i diritti dei 12 milioni di persone della minoranza entica kurda di Turchia, che Ataturk fece il possibile per sopprimere.
La conferma della scorsa settimana da parte di Erdogan che il suo governo sta lavorando a un “piano kurdo” per risolvere finalmente un conflitto che ha causato oltre 40 mila vittime a partire dal 1984 ha scatenato accese congetture su cosa vi sia realmente in ballo. Qualcosa di analogo è successo all’inizio dell’anno in seguito ai commenti di un alleato di Erdogan, il presidente Abdullah Gul, che parlò di una “opportunità storica”, e da parte del capo delle forze armate Ilker Basbug, che definì il problema kurdo come un test della modernità della Turchia.
Le notizie riportate da Hurriyet e altre testate turche fanno pensare che il piano possa includere un’amnistia generale per i combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), un ampliamento dei diritti politici, economici, linguistici e all’istruzione, e il ripristino dei nomi kurdi messi al bando delle città del sudest dell’Anatolia. Si dice che anche l’articolo 5 della legge anti-terrorismo, che è stato utilizzato per imprigionare bambini che lanciavano pietre, possa essere rivisto.
Erdogan non ha detto quando dovrebbe svelare la sua nuova strategia. Ma è probabile che ciò avvenga prima del 15 agosto, la data in cui il leader in carcere del Pkk, Abdullah Ocalan, ha promesso di lanciare la sua propria “road map” per la pace. Il Pkk ha rinunciato alla sua vecchia aspirazione di uno Stato kurdo indipendente e di recente ha esteso la sua tregua unilaterale fino a settembre. Ci si attende che Ocalan, tenuto in isolamento nei passati dieci anni nell’isola di Imrali nel mare di Marmara, fornisca proposte sul disarmo, la reintegrazione politica dei membri del Pkk, un’accresciuta autonomia di governo a livello locale e la creazione di un “periodo di dialogo” nazionale.
La road map di Ocalan potrebbe rappresentare “una solida soluzione”, ha detto a Hurriyet Hasip Kaplan del Partito kurdo della società democratica (Dtp). “Il periodo di dialogo – ha dichiarato – dovrebbe essere avviato… Il Dtp è pronto a contribuire a contribuire alla risoluzione di questo problema”. Da parte sua, Erdogan ha un curriculum discontinuo nei confronti della questione kurda. Sebbene sembri realmente impegnato sul problema, resta poco chiaro quanto a fondo sia pronto a spingersi.
L’esitazione di Erdogan è senza dubbio dovuta in parte alla fiera resistenza proveniente dagli stessi oppositori conservatori, laici, civili e militari, che accusano lui e il suo islamico moderato Partito di giustizia e sviluppo (Akp) di portare avanti un’agenda religiosa. “Il primo ministro è diventato un rischio molto serio per la Turchia… in quanto si prepara a dividere la Turchia sotto la guida del macellaio di Imrali [Ocalan]”, ha detto Devlet Bahceli dell’ultranazionalista Partito di azione nazionale (Mhp). Deniz Baykal del Partito repubblicano del popolo (Chp) ha detto che Erdogan si sta piegando alla pressione di Unione europea e Stati Uniti preoccupate per la questione dei diritti umani e la stabilità del nord dell’Iraq.
Queste persistenti tensioni interne – illustrate dal processo di questo mese a due generali dell’esercito che si suppone legati al golpe “Ergenekon” e dalle agitazioni dello scorso anno in merito alla rimozione del divieto di indossare il velo nelle università – sono in grado di far deragliare il piano kurdo di Erdogan. Allo stesso modo, se un processo di pace dovesse prendere piede, in alcuni ambiti verrà visto come una minaccia all’ideale di Ataturk di un solo popolo con una sola lingua sotto una sola bandiera.
Ma i tempi stanno cambiando e anche il duraturo concetto turco di Stato potrebbe essere costretto a cambiare. Come fa notare lo storico Andrew Mango in un nuovo volume pubblicato da Haus Publishing, From the Sultan to Ataturk, Ataturk era un estremista autoritario, sposato a un concetto contemporaneo di Stato nazionale, e determinato ad affermare la sua visione di una Turchia moderna e laica a partire dalle rovine dell’Impero ottomano. “Il suo obiettivo era forgiare, dai disparati gruppi musulmani che abitavano il Paese, una Nazione turca unita… fino ad unirsi al filone della sola civiltà umana esistente, che casualmente aveva il suo centro in Occidente”. Ataturk non aveva tempo per la religione, ha detto Mango, né per i separatisti e le minoranze sotto qualunque forma o sembianza. Nel 1925, una ribellione kurda venne brutalmente repressa e la rivoluzione culturale di Ataturk subì un’accelerazione.
A 86 anni di distanza dal Trattato di Losanna, che ha posto in essere la Turchia, cresce inesorabilmente la pressione per liberarsi della camicia di forza di Ataturk. “Non vi è dubbio che le politiche identitarie adottate nel periodo della fondazione della Repubblica di Turchia riflettano una nozione di modernità che ha causato molti conflitti e sofferenze, e oggi è completamente estranea allo spirito dei tempi”, ha detto Sahin Alpay, in un articolo sul Today’s Zaman. “E’ giunto il tempo che la Turchia adatti le sue politiche identitarie all’epoca dei diritti umani, della democrazia e del rispetto delle diversità”.
(Traduzione di Carlo M. Miele per Osservatorio Iraq)
L’articolo in lingua originale
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=8042
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11.08.2009
Brunetta: “No alle gabbie salariali,
sì al federalismo contrattuale”
Il ministro: incentivi agli accordi locali
ma per i fondi bisogna aspettare il 2011
ROBERTO GIOVANNINI
ROMA
Nessuno vuole introdurre le gabbie salariali, anche perché le gabbie salariali significano rigidità. E al mercato del lavoro italiano, al Mezzogiorno come al Nord, serve flessibilità». Renato Brunetta, economista del lavoro e ministro del governo Berlusconi, boccia un impossibile ritorno al passato, e «traduce» le proposte di Berlusconi in un «federalismo contrattuale» che dovrebbe essere alimentato da incentivi fiscali. Incentivi che, però, arriveranno soltanto «una volta finita la crisi».
Andiamo con ordine. Perché serve flessibilità salariale?
«Abbiamo retribuzioni con minimi troppo alti per il Sud e troppo bassi per il Nord. Al Sud si reagisce cercando scappatoie per pagare di meno, al nero; al Nord scappatoie per pagare di più, sempre al nero. Sull’altare di una contrattazione nazionale fintamente egualitaria e unificante, il paese si spacca».
Bene. Ma il salario è materia riservata di imprese e sindacati. Che hanno (Cgil esclusa) appena firmato un accordo per un nuovo modello contrattuale.
«Benissimo: qui serve federalismo contrattuale, ovvero dare quanto più possibile spazio alla contrattazione decentrata. La sola che può essere sensibile alla produttività e in subordine al costo della vita, che peraltro non è un buon parametro per misurare le differenziazioni. Quello giusto è la produttività. Il vero problema è come favorire la contrattazione decentrata, in un paese dove ci sono poche grandi imprese dove si può fare la contrattazione aziendale e tante medie e piccole dove è più difficile. Bisogna far emergere la dimensione del territorio. Può essere la Regione, la Provincia, il bacino di manodopera, il distretto. Se la flessibilità è un bene pubblico, il governo può incentivarla riducendo il prelievo sul salario contrattato a livello territoriale».
Ma anche con le nuove regole il contratto nazionale ha un ruolo determinante.
«Il nuovo modello contrattuale permette di ridurre lo spazio del salario nazionale. Dove c’è più alta produttività, al Nord, ci saranno salari più alti e più occupazione, evitando di fare straordinari in nero. Al Mezzogiorno magari i salari saranno più bassi, ma ci sarà più occupazione perché si ridurrà la convenienza del nero. Pietro Garibaldi sulla «Stampa» propone una soluzione seria, quella del salario minimo, che però è al di fuori della nostra tradizione».
E Cisl e Uil chiederanno aumenti minori a livello nazionale?
«Sì, per poter chiedere più soldi a livello decentrato. Salario incentivato, in un approccio di federalismo fiscale e articolato territorialmente».
Ma Confindustria e Cisl-Uil ripetono che il livello decentrato che interessa loro è quello aziendale. Non quello territoriale.
«Decidano le parti: io metto in palio un’agevolazione. Chi la vuole se la prende, chi non vuole la lascia lì. E poi c’è il Piano per il Sud…»
Ovvero?
«Il Piano per il Sud, per l’occupazione, non può certo basarsi su un keynesismo impossibile; la via è la flessibilizzazione inecentivata di lavoro e dei salari».
Dare sgravi solo al Sud? Lega Nord e Bruxelles vi sbraneranno…
«Una defiscalizzazione differenziata tra Nord e Sud è stata già accettata dall’Europa. Il punto è rendersi conto che al Sud la flessibilizzazione salariale porta l’emersione dell’occupazione “nascosta” da minimi contrattuali troppo alti, l’aumento del gettito fiscale, vantaggi per chi assume senza penalizzare chi lavora».
Va bene. Ma quante risorse pensate di investire, per questi incentivi per la contrattazione decentrata territoriale?
«Per adesso stiamo ragionando. Bisognerà ovviamente mettere risorse, che peraltro si ripagheranno grazie all’effetto sull’economia; prevedo due milioni di posti di lavoro equivalenti emersi».
Insomma è soltanto un’idea. Ma quando potrebbero arrivare i soldi per queste agevolazioni?
«Il gioco comincia quando ritorna la crescita. Che si debba fare, è evidente. Ma oggi come oggi è difficile dire quanto serve e quanto si potrebbe mettere. Ora non si può mettere niente. Ma questa strana crisi finirà. E penso che già dal 2010 si potrà ragionare per far partire il piano dal 2011».
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/200908articoli/46277girata.asp
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11.08.2009
Una situazione rivoluzionaria negli Stati Uniti
Il 7 agosto il Presidente Barack Obama ha annullato improvvisamente un discorso all’Henderson Hall di Arlington, in Virginia, in cui doveva presentare alla cittadinanza la sua “riforma” sanitaria. Ha tenuto invece una conferenza stampa di tre minuti nel Rose Garden della Casa Bianca, leggendo dal gobbo un breve discorso preparato, e non accettando alcuna domanda dai giornalisti. Il giorno dopo l’ufficio del Presidente ha annunciato che Obama avrebbe annullato numerose apparizioni in pubblico in tutto il paese e che sarebbe andato in vacanza a Martha’s Vineyard. Invece di girare il paese per promuovere la sua cosiddetta riforma sanitaria, come era previsto, il Presidente ha deciso di darsela a gambe, portando la famiglia nel Grand Canyon e rifugiandosi nell’insenatura di Cape Cod, nel Massachusetts.
Lo stesso vale per quasi tutti i membri del Congresso. Se la sono data a gambe tutti, per non affrontare una ribellione di massa tra la popolazione americana contro quello che gli americani giustamente considerano un tradimento da parte di coloro che hanno eletto, a partire dal Presidente. Nella mente della maggioranza degli elettori, il Presidente sta proseguendo e perfino peggiorando la politica dell’amministrazione Bush di salvataggio di Wall Street e delle banche che hanno provocato la crisi – a suon di oltre 23 trilioni di dollari, mentre l’americano medio continua a perdere il posto di lavoro, la casa e l’assistenza sanitaria a ritmi più veloci che durante la Grande Depressione.
Il Presidente è stato ripetutamente colto in flagrante a difendere tagli draconiani alla spesa sanitaria e perfino l’eutanasia nel nome della cosiddetta “riforma” e di “salvare il sistema”. Si ingrossano le fila degli americani che cominciano a rendersi conto del fatto che la politica sanitaria del Presidente assomiglia sempre di più a quella di eutanasia di Hitler. Gli Stati Uniti entrano dunque in un periodo di rivolta simile a quella che procedette la Rivoluzione Francese nelle strade di Parigi nel 1789.
I congressisti rischiano il linciaggio
Come ha previsto Lyndon LaRouche nella sua webcast del 1 agosto (cfr. Alert n. 32), i parlamentari che tornano alle loro sedi rischiano il linciaggio. La notizia della settimana è che nei tradizionali dibattiti con gli elettori al ritorno nelle loro sedi i congressisti sono stati accolti da fischi e schiamazzi da cittadini infuriati che protestano contro la politica del governo, a partire dalla sanità.
A Romulus, nel Michigan, dove il tasso ufficiale di disoccupazione è del 17% (ma quello reale è quasi il doppio), 1.000 cittadini si sono presentati ad una riunione con l’on. John Dingell, parlamentare dal 1955 e finora molto popolare, in una sala che contiene normalmente solo 150-200 persone. Quando alcuni attivisti del LaRouche PAC (il comitato politico che fa capo a LaRouche) hanno innalzato un cartello che dipingeva Obama coi baffetti alla Hitler e le parole “sono cambiato”, il pubblico ha reagito con un coro di approvazione, scattando foto e girando dei video, bloccando la polizia che ha tentato di scortare i larouchiani fuori dalla sala. (il video della scena è disponibile sul sito di LaRouche, sotto http://www.larouchepac.com/lpactv?nid=11307 .)
Quando un uomo che spingeva un giovane su una sedia a rotelle ha provato ad interrompere l’on. Dingell, accusandolo di sostenere una politica che ucciderà suo figlio, che soffre di paralisi cerebrale, la polizia l’ha trascinato fuori dalla sala. Anche questo incidente è stato filmato e messo su internet, dove l’hanno visto in milioni. Le principali reti televisive americane, dalla CNN alla NBC, ed il Wall Street Journal hanno ripreso nei titoli di testa sulla rivolta contro la riforma sanitaria il cartello che dipinge Obama coi baffetti alla Hitler.
Il 6 agosto 1.500 persone si sono presentate ad una riunione con la cittadinanza in un sobborgo di Tampa, in Florida, in cui l’on. Kathy Castor, anche lei democratica, si accingeva a difendere la riforma sanitaria di Obama. L’incontro era organizzato da Organizing for America, gestito dalla Casa Bianca e dal sindacato dei dipendenti dei servizi (SEIU). La maggioranza dei presenti era lì per protestare contro la politica di tagli alla spesa sanitaria promossa da Obama e dal Congresso. Quando, ad un certo punto, alcuni picchiatori del servizio d’ordine hanno assalito dei partecipanti, è quasi scoppiata una rivolta, anche questa catturata da un video.
Ovunque nel paese accade lo stesso. Perfino i congressisti repubblicani che si oppongono agli schemi di eutanasia di Obama non sono sfuggiti alle contestazioni dei loro elettori. Il 7 agosto l’on. Tom Petri (Repubblicano del Wisconsin) è stato fronteggiato da una folla accanita durante un incontro pubblico, e l’on. Bob Inglis è sfuggito a una folla inferocita di 350 elettori. Gli elettori repubblicani non si accontentano della promessa di votare contro la riforma sanitaria di Obama, ma esigono un’opposizione molto più decisa da parte dei loro parlamentari eletti.
La dinamica da “sciopero di massa” negli USA
In una discussione con lo staff dell’EIR a Washington, Lyndon LaRouche ha paragonato il processo politico-sociale in corso negli Stati Uniti agli avvenimenti del giugno-luglio 1789 in Francia. “Non si è mai visto qualcosa di paragonabile negli USA o nel Nordamerica dagli anni Trenta”, ha detto LaRouche. Spinti dalla combinazione del collasso economico e del risentimento popolare contro il ruolo del Presidente e della maggioranza del Congresso USA, la grande maggioranza dei cittadini sono in rivolta contro i rappresentanti del governo eletti.
“Così, sia il Presidente che il Congresso sono andati a nascondersi, questo weekend, a nascondersi da tutta la popolazione, non da un numero limitato di cittadini arrabbiati. Si tratta di una condizione tranquillamente paragonabile alla Francia nei mesi di giugno e luglio 1789, nel momento in cui il Re e la Regina erano andati a nascondersi da una popolazione francese in preda all’ira per motivi come la decisione del Re di chiamare le truppe straniere del fratello della Regina, l’Imperatore (austriaco) Giuseppe II, o come lo scandalo orchestrato attorno all’affare della “collana della Regina”.
“Sono due i motivi della rivolta contro il Presidente e i parlamentari da parte della grande maggioranza della popolazione USA. Il primo è la politica sanitaria di Obama, importata dai padroni della monarchia britannica, e il secondo è la truffa del salvataggio bancario da oltre 20 trilioni di dollari iniziata, con la complicità del Congresso, dalla presidenza Bush e proseguita dalla presidenza Obama. Il Presidente e il Congresso se la sono data a gambe non solo perché hanno perso la fiducia del popolo, ma anche perché hanno perso la fiducia in se stessi”.
“A meno che l’intera politica dei salvataggi e la politica sanitaria non vengano ripudiate ora, la situazione si fa virtualmente ingovernabile
“L’esistenza della continuità di governo costituzionale negli USA ora risiede, in questo istante, nelle mani di coloro che, nelle istituzioni della Presidenza e del Congresso, sono pronti a cancellare i salvataggi, riavviare l’economia USA con una procedura di riorganizzazione della finanza in bancarotta, e gettare il piano sanitario di Obama nel cestino, ora e per sempre. E’ ora che i giusti rappresentanti del governo costituzionale mettano il Presidente Obama dietro la lavagna, come fu fatto con Nixon. Niente di meno funzionerà”.
“Nel caso della Rivoluzione Francese, i capi repubblicani, come il Marchese di Lafayette, mancarono di agire nei momenti critici, e persero il controllo sull’intero processo. Ciò permise all’intelligence britannico di gestire la distruzione della Francia e un decennio di nuove guerre sul continente europeo”.
LaRouche ha sottolineato che niente calmerà la rabbia popolare e la sua esigenza di un cambiamento genuino nella leadership e nella direzione politica. Ciò che impedirà che la rivolta di massa sfugga al controllo come nella Rivoluzione Francese è un chiaro piano per un cambiamento rivoluzionario nella politica. Questo è ciò che vuole il popolo americano.
LaRouche: riorganizzazione fallimentare subito
Nella teleconferenza internazionale (webcast) da Washington il 1 agosto, l’economista e leader politico americano Lyndon LaRouche ha nuovamente posto con urgenza il tema della riorganizzazione fallimentare del sistema finanziario. LaRouche ha anche chiesto di mettere il Presidente Barack Obama in una «gabbia politica» e di estromettere la squadra di consiglieri «comportamentisti» che dettano la politica della Casa Bianca.
«Il periodo di crisi a cui far riferimento per l’attuale situazione USA e mondiale è quello che va dal 2 al 10-12 ottobre di quest’anno», ha esordito LaRouche. «Per quella data, gli Stati Uniti – che sono già in bancarotta senza speranza – saranno collassati politicamente e si troveranno in un processo di disintegrazione. Questo, se il processo non sarà cominciato prima – e potrebbe cominciare in agosto».
LaRouche ha posto l’attenzione sul fatto che «il trenta per cento della forza lavoro americana è disoccupato, e solo un terzo circa di questo gruppo riceve un’indennità di disoccupazione. Questa gente sta facendo la fame perché non ha più reddito», e sta aumentando di numero. I bilanci degli stati stanno collassando, «gli stati non riescono ad esercitare le proprie funzioni, le forze di polizia vengono licenziate, altri vengono licenziati perché le amministrazioni pubbliche sono in bancarotta. Questo processo è attualmente in corso», ha detto LaRouche.
«Se avessimo fatto quanto io proposi nel periodo tra la fine di luglio e il settembre 2007, ora saremmo usciti dal pantano.» Ma invece, «che hanno fatto? Hanno creato trilioni di dollari di debito! Oltre 20 trilioni di dollari di debito, che grava sulle spalle degli Stati Uniti, interamente artificiale!»
«Chi diavolo ha avuto quest’idea, di far indebitare gli Stati Uniti per obblighi che non avevamo? Per operare il salvataggio di Londra, del sistema monetario internazionale, alle spese degli Stati Uniti? Saccheggiare gli Stati Uniti e il loro Tesoro, a beneficio di un cartello monetario internazionale? Quale salvataggio! Chi abbiamo salvato? Abbiamo salvato le nostre industrie? Abbiamo salvato l’industria automobilistica, magari riconvertendola in altre produzioni? Abbiamo salvato gli agricoltori? Le infrastrutture delle città americane e degli stati? Chi abbiamo salvato?»
«Abbiamo salvato i banchieri di Londra e le loro estensioni di New York. Non siamo loro debitori di niente: c’è solo bisogno di un governo che lo dica».
«Dobbiamo fare solo una cosa, ora, a causa di ciò che è stato fatto al sistema finanziario. Questo sistema è irrimediabilmente fallito: non saremo mai in grado di pagare, in un modo o in un altro, venti trilioni di dollari di debito che abbiamo assunto come risultato di George W. Bush e di questo Obama. Non li pagheremo mai! Non possiamo! Non potremmo! Non sarà mai fattibile».
«E perciò, siamo giunti al punto che dobbiamo dichiarare bancarotta nazionale. Ma la bancarotta nazionale non è qualcosa di cui vergognarsi».
Una riorganizzazione fallimentare «è una cosa molto semplice da fare», ha spiegato LaRouche. «Prendiamo tutte queste rivendicazioni finanziarie nei confronti degli Stati Uniti, le mettiamo sul tavolo. Poi, prendiamo il modello Glass-Steagall e diciamo: ‘qui c’è una banca commerciale, o soleva esserlo nel passato. Guardiamo che c’è dentro. E’ questo titolo valido secondo questi standard? Si? Bene, va qui. Non lo è? Bene, lo mettiamo nel cestino della spazzatura’. E passiamo al vaglio tutto caso per caso, nello stesso modo in cui Roosevelt, nel mezzo di un problema ben più mite, fece con la Banking Holiday», la vacanza forzata delle banche.
Vogliamo salvare i risparmi delle famiglie, ha detto LaRouche, il credito alle imprese, i mutui e tutte le funzioni da banca commerciale che sono essenziali per la vita delle comunità. «Poi prendiamo tutta la spazzatura, queste rivendicazioni basate su derivati finanziari e altri schemi simili: ‘sorry, amico! Hai fatto una scommessa. Questi sono debiti da scommessa – hai perso la scommessa.’»
Una volta che abbiamo ripulito il sistema dal «bad debt», possiamo creare debito per lo sviluppo. Gli Stati Uniti dovranno stipulare un «accordo pilota» con la Russia, la Cina e l’India, per stabilire «un nuovo sistema creditizio mondiale, che sostituisca interamente il sistema monetario esistente, irrimediabilmente in bancarotta». «Quindi genereremo prestiti a lungo termine, al tasso dell’1,5%-2%, tra le nazioni, basati su sistemi creditizi. Questi prestiti saranno in gran parte diretti a [finanziare] un volano di progresso tecnologico nelle infrastrutture economiche di base».
Il Senato italiano approva la mozione di Peterlini
Il 28 luglio, il Senato ha approvato la mozione n. 171 presentata dal sen. Oskar Peterlini e sette altri (Pinzger, Thaler Ausserhofer, D’Alia, Fosson, Cintola, Cuffaro e Giai) che chiede di «raggiungere un cambiamento fondamentale del sistema finanziario e monetario internazionale, basato sui principi della nuova Bretton Woods». La mozione, di cui abbiamo già parlato nello scorso numero, è stata approvata senza cambiamenti da una larga maggioranza bipartisan, nel contesto del dibattito sui risultati del G8. La mozione di Peterlini è una delle poche, presentate nel dibattito, non dominata dal gioco delle parti dello scontro politico nazionale. Essa chiede di espandere il cosiddetto «Lecce Framework», e cioè il documento stilato al vertice dei ministri finanziari del G8 il 13 giugno a Lecce. Il documento, adottato al G8 dell’Aquila, è inteso come base di discussione per nuove, stringenti regole per il sistema economico e finanziario internazionale, ma attualmente esso non va oltre il tipo di misure proposte al G20 di Londra, come ad esempio maggiore trasparenza, e soprattutto non scalfisce la concentrazione del potere nelle mani delle stesse istituzioni che hanno promosso la politica di globalizzazione alla base della crisi attuale.
Nella mozione approvata dal Senato, Peterlini sostiene la battaglia ingaggiata dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che ha portato alla stesura del Lecce Framework, ma ammonisce che le regole forse ci metteranno in grado di sapere di più sul cattivo stato del sistema, ma non lo cambieranno. Invece, la mozione chiede di sostituire il sistema con uno nuovo, e descrive gli elementi di un nuovo sistema creditizio di Bretton Woods, così come proposto da Lyndon LaRouche. Nel dispositivo della mozione, si «impegna il governo ad espandere il Lecce Framework» proprio per realizzare un vero, nuovo sistema di Bretton Woods.
La bisca finanziaria globale continua mentre la fame nel mondo dilaga
In una dichiarazione pubblicata il 31 luglio Helga Zepp LaRouche, candidata alla carica di Cancelliere tedesco alle elezioni del 27 settembre prossimo, ha stigmatizzato lo scandaloso rifiuto dei principali governi di porre fine alla speculazione ad alto rischio, in un momento in cui scemano le forniture di cibo alla popolazione mondiale.
Per dimostrare «quanto la situazione sia clinicamente folle e moralmente ripugnante», ella ha menzionato due dati. Dei 175 miliardi di dollari ricevuti dalle nove maggiori banche USA dai contribuenti nello scorso anno nella forma di «fondi di salvataggio », quasi il 20% è stato ricevuto in extra compensi dai top managers, mentre meno del 6% della somma dei compensi è stato dato al Programma Alimentare delle Nazioni Unite (WFP) per alleviare le condizioni di oltre un miliardo di affamati. Dei 3,7 miliardi promessi, il WFP ne ha ricevuti solo 1,8.
«In altre parole, poche centinaia di managers hanno ricevuto boni per un ammontare 18 volte superiore a quanto la comunità mondiale sia riuscita a raccogliere per gli affamati!». Zepp LaRouche cita il direttore del WFP, Josette Sheeran, che giustamente ha detto che quando la gente non ha cibo, «si ribella, emigra o muore di fame».
Forse è il polso della situazione che ha spinto l’ex procuratore di New York Elliot Spitzer ad accusare la Federal Riserve di aver gestito per decenni una catena di Sant’Antonio, e a chiedere un intervento del Congresso. Helga Zepp LaRouche aveva chiesto la stessa cosa in una dichiarazione pubblicata il 7 gennaio.
Ella ha anche commentato positivamente l’inchiesta del Senato USA sulle pratiche corrotte di diverse grandi banche, che ha portato a diversi mandati di comparizione. Va investigato in particolare il ruolo di Goldman Sachs, che è improvvisamente mutata da banca d’affari in banca «regolare» per ottenere i fondi di salvataggio della Federal Riserve.
Gli USA sono sull’orlo di un’esplosione che si diffonderebbe rapidamente nel resto del mondo. L’unica via d’uscita, ha concluso Zepp LaRouche, è il nuovo sistema di Bretton Woods e una ristrutturazione bancaria globale, così come invocata da una risoluzione approvata dal Senato italiano il 28 luglio.
Il quotidiano cinese China Youth Daily intervista LaRouche
Tre giorni prima dell’apertura a Washington del Dialogo Strategico e del Dialogo Strategico Economico USA-Cina il 27 luglio, il China Youth Daily, il secondo quotidiano in Cina con 10 milioni di lettori, ha aperto la sua pagina esteri con un articolo sull’economista LaRouche e la sua soluzione alla crisi economica mondiale, basato su un’intervista concessa dall’economista americano al giornalista Bright Ju. L’articolo, intitolato «L’attuale sistema finanziario internazionale non può essere salvato», è una presentazione molto competente di LaRouche, del suo operato e delle sue idee. Inizia dalla sua biografia, le sue nove previsioni economiche, il suo ruolo nell’Iniziative di Difesa Strategica, la persecuzione giudiziaria che condusse alla sua incarcerazione e le sue varie campagne presidenziali come candidato democratico.
L’autore descrive inoltre come LaRouche, oltre ad essere un’importante personalità politica, coltivi ampi interessi nella scienza, nella cultura e nella musica, e desideri dar vita ad un nuovo Rinascimento, facendo rivivere la cultura occidentale, da Platone a Riemann, che gettò le basi per il rapido sviluppo economico degli ultimi secoli, e rilanciando le scoperte nelle scienze naturali sulla base di studi nell’economia fisica.
Bright Ju cita quindi la previsione di LaRouche del luglio 2007 sulla fine del sistema finanziario, ed i suoi moniti purtroppo rimasti inascoltati da quasi tutti gli economisti e politici, ma dimostratisi veri. «Mentre quasi tutti gli economisti sono indaffarati a studiare i loro dati economici, LaRouche esamina le tendenze a lungo termine, concentrandosi sugli sviluppi nell’accumulazione del capitale fisico reale, e le decisioni sui fattori materiali e culturali che determineranno l’economia a lungo termine» scrive Ju, notando in particolare i commenti di LaRouche sul declino culturale degli Stati Uniti, da un’economia di «produttori» ad un’economia di «cercatori di profitto».
Particolare attenzione viene data alla proposta di LaRouche di un accordo-pilota tra quattro nazioni (USA, Russia, Cina e India) per dar vita ad un nuovo sistema creditizio, invece di un sistema monetario. Si fa riferimento all’appello di LaRouche per sottoporre il sistema finanziario ad una procedura di riorganizzazione fallimentare ricorrendo ai poteri conferiti dalla Costituzione americana per dar vita ad un sistema creditizio basato sul dollaro favorendo una ripresa dell’economia americana che, sulla base di trattati internazionali, si estenda alle altre nazioni del mondo.
Viene dato ampio spazio alla critica di LaRouche verso il modo in cui è stata condotta l’”apertura” dell’economia cinese, fondata sull’idea che la Cina diventasse una fonte di beni importati a basso costo per l’Europa e gli Stati Uniti, e dunque un “imbroglio” per la stessa economia cinese. Quest’era di 30 anni è giunta alla fine, e la Cina dovrà promuovere la domanda interna come fonte di crescita. Ciò, naturalmente, richiederebbe un flusso di credito che sarebbe possibile solo con un nuovo sistema creditizio internazionale.
L’intervista di LaRouche circola ampiamente, ed è stata ripresa da numerose agenzie cinesi, soprattutto finanziarie. E’ stata letta anche da molti dei rappresentanti cinesi all’incontro sul Dialogo Strategico tra USA e Cina che si è tenuto a Washington il 27-28 luglio.
L’intervista ha suscitato grande interesse anche tra i partecipanti al ricevimento tenutosi all’Ambasciata cinese di Washington il 31 luglio, in occasione dell’82mo anniversario dell’Esercito di Liberazione Popolare, dove LaRouche è stato assediato dalle domande di giornalisti e altri ospiti presenti.
Berlino: lanciata la candidatura di Helga Zepp LaRouche in Germania
Il presidente del Movimento Solidarietà tedesco (BüSo), Helga Zepp LaRouche, ha tenuto la sua prima conferenza internazionale online il 21 luglio da Berlino, inaugurando la sua campagna per le elezioni politiche del 27 settembre. La candidata ha risposto a domande pervenute dal pubblico presente in sala ma anche dalla Turchia, dall’Italia e da altre nazioni (l’intero video della conferenza, in tedesco, può essere seguito su www.bueso.de).
Helga Zepp LaRouche è senz’altro l’unica candidata alla Cancelleria della Germania che affronti la vera natura della crisi mondiale, e cioè come il collasso finale del sistema monetaristico-imperiale ha finora dominato (e rovinato) gli affari mondiali dal centro bancario di Londra. Ella è anche l’unico leader politico tedesco che chiede una riorganizzazione profonda del sistema bancario, la creazione di un sistema di credito sovrano e lo sviluppo dell’energia nucleare, come pure di nuovi sistemi di trasporto di massa basati sulla tecnologia della levitazione magnetica.
Ma ancora più importante è il fatto che la candidata del BüSo chiede agli elettori di assicurare che il nuovo Bundestag sia composto da veri patrioti, gente disposta ad assumersi la responsabilità della propria nazione. Troppi dei rappresentanti del popolo finora eletti si sono resi complici delle politiche disastrose del passato, come il voto di ratifica del sistema dittatoriale del Trattato di Lisbona. La nazione necessita ora di nuovi leaders che si impegnino a perseguire politiche che mettano fine al vecchio sistema e aiutino a ricostruire l’economia e la società.
Tra i vari temi toccati durante la conferenza, numerosi sono stati quelli riguardanti il Trattato di Lisbona e il futuro dell’Europa. Molti sostengono che un’Europa sovrannazionale sotto il Trattato di Lisbona sia necessaria per garantire la pace ed evitare le guerre, ma questa è una falsa rappresentazione, ha detto Helga Zepp LaRouche, perché le guerre sono sempre state causate dagli imperi, come quello in cui l’oligarchia vorrebbe si trasformasse l’UE. Basta guardare all’esempio di Tony Blair, che viene candidato alla Presidenza permanente dell’UE. In un discorso a Chicago nel 1999, Blair dichiarò che era finita l’era del Trattato di Westfalia, un trattato che ha stabilito la base del diritto internazionale e del rispetto reciproco per la sovranità nazionale. Una volta cancellato, la via è sgombra per interventi militari ovunque. E se non bastasse, Blair è anche l’autore della guerra contro l’Iraq, l’uomo che diffuse la disinformazione sulle armi di distruzione di massa irachene presumibilmente in grado di colpire grandi città entro 45 minuti.
Zepp LaRouche ha affermato che un’Europa forte e pacifica, composta da repubbliche sovrane “che cooperino per gli scopi comuni dell’umanità” è possibile, ad esempio per sviluppare l’Africa. L’Europa può essere forte se fatta di stati nazionali sovrani che cooperano assieme, senza una burocrazia sovrannazionale. “Ho in mente un’immagine”, ha detto: “Se non riusciremo a cambiare noi stessi come nazione, e i valori dominanti… penso all’impero dei Khmer, che tramontò attorno all’anno mille. Oggi ci sono ancora rovine coperte di rampicanti. Tra qualche decennio, potrebbe essere la Porta di Brandeburgo ad apparire così. Non lo desidero certamente, ma non siamo così arroganti da pensare che l’Europa non possa affondare”.
LaRouche dichiara Obama passibile di Impeachment
In una conferenza stampa nazionale il 22 luglio il Presidente americano Obama ha lanciato ripetuti appelli affinché si dia vita ad una “commissione indipendente di medici ed esperti sanitari” che prenda decisioni sui tagli alla spesa che il Congresso non è pronto a decidere. Ha parlato allarmato di “spese alle stelle” per Medicaid e Medicare (ovvero l’assistenza sanitaria fornita dallo stato agli indigenti ed agli anziani) dando a loro la colpa dei problemi di bilancio dell’America, ma evitando di menzionare i profitti e gli sprechi delle compagnie private di assicurazione sanitaria (HMO). Ha continuato ad inveire contro le procedure mediche “non necessarie”, in particolare per gli anziani.
In una dichiarazione rilasciata subito dopo la conferenza stampa, l’economista e leader democratico Lyndon LaRouche, che dall’11 aprile aveva messo in guardia contro il “complesso neroniano” di Obama, ha dichiarato: “Il Presidente Obama a questo punto è suscettibile di impeachment perché ha proposto, di fatto, un disegno di legge che è l’esatta copia della legge per cui il regime di Hitler fu condannato al processo di Norimberga (quella sull’eutanasia). Si tratta di un reato soggetto a impeachment; proporre qualcosa del genere ai nostri tempi è un reato soggetto a impeachment”.
In effetti, il Presidente Obama ha dichiarato espressamente la propria intenzione di violare la clausola della Costituzione americana che sancisce il General Welfare (il bene comune). Il suo direttore di Bilancio, Peter Orszag, ha già stilato un disegno di legge in questo senso per dar vita a quello che chiama IMAC (Independent Medicare Advisory Council), un Consiglio Indipendente sull’Assistenza Medica, che avrebbe il compito di stabilire (leggi: ridurre) i costi dei trattamenti medici. In un editoriale del 23 luglio sul Washington Post Barack Obama stesso ha chiamato la proposta “MedPAC a regime di steroidi”, un riferimento al fatto che lui e i suoi consiglieri non pensano che l’attuale commissione di Medicare addetta ai costi abbia sufficiente mordente. Il nuovo Consiglio Indipendente sarà modellato sul sistema britannico NICE, che si è già dimostrato micidiale nel Regno Unito, e che viene proposto anche in altri paesi europei.
Non c’è alcun dubbio che una politica sanitaria che nega cure vitali a certe categorie della popolazione sia una politica di eutanasia, come quella di Hitler, destinata ad eliminare le cosiddette “bocche inutili da sfamare”. Eppure essa viene ampiamente pubblicizzata dagli economisti comportamentali all’interno della Casa Bianca. Per dare un esempio, uno dei principali consiglieri di Peter Orszag, il Dott. Ezekiel Emanuel, ha scritto nel 1996 che i servizi sanitari non dovrebbero essere garantiti a persone “che sono irriversibilmente impediti dall’essere o diventare cittadini partecipanti. Un esempio ovvio è non fornire servizi sanitari ai pazienti affetti da demenza senile”. Inoltre, nascosta nel piano di stimolo della Casa Bianca c’è una disposizione che obbliga le persone a cui è stata diagnostica una malattia terminale, come il cancro, ad incontrare il loro consulente sanitario, un dipendente dell’IMAC, per ricevere consigli su come rifiutare trattamenti che prolungherebbero la loro vita, sugli ospizi, il suicidio assistito e via dicendo.
Un numero crescente di americani, grazie al lavoro di informazione svolto da LPAC, il comitato politico che fa capo a LaRouche, si stanno rendendo conto del pericolo, inclusi molti congressisti che si vedono zittiti da tecnocrati “indipendenti” (e non eletti) e molti medici le cui decisioni mediche verranno dettate loro dalla stessa Commissione Indipendente (vedi nota seguente sulla rivolta al Congresso). LaRouche ha sottolineato che la priorità per la popolazione a questo punto è sconfiggere questo disegno di legge stile Hitler, che aprirebbe le porte al fascismo.
Benché Obama parli in termini populistici dell’esigenza di garantire l’assistenza sanitaria a tutti gli americani, è impossibile ridurre la spesa sanitaria del 30%, come pretende, estendendo al contempo l’assistenza medica a milioni di americani e continuando a fornire cure mediche di qualità. Soprattutto in tempi di grave crisi, quando la disoccupazione arriva alle stelle e l’economia reale continua a disintegrarsi.
Mentre crolla il credito, gli hedge funds investono nell’iperinflazione
I dati rilasciati dalla Banca Centrale Europea e da altre banche centrali nazionali il 22 luglio mostrano che il sistema finanziario è in fase di decomposizione, dopo aver vegetato in coma per due anni. Il volume dei crediti nell’Eurozona è sceso in media del 3,3% dal febbraio al maggio 2009, dopo essere cresciuto nominalmente per tutto il 2008 e nel gennaio 2009. Nei grandi paesi membri dell’EU, come la Germania, l’Italia e la Francia, il volume dei crediti alle imprese è caduto oltre la media: -5% per la Germania, -4,6% per l’Italia e -4,4% per la Francia. Nel caso dell’Irlanda, il crollo nominale del credito è stato dell’11,9%.
In cifre assolute, il volume dei crediti alle imprese si è ridotto di 16,3 miliardi di euro. Su base annuale, la tendenza è -5% per tutta l’Eurozona. Però le cifre reali sono ben peggiori, perché nei bilanci delle banche figurano agli attivi le cartolarizzazioni che prima erano tenuti fuori bilancio. Per cui, anche se si fanno meno cartolarizzazioni, averle ascritte a bilancio compensa il crollo reale del credito elargito.
A soffrire del crollo del credito sono principalmente le piccole e medie imprese. Ad una riunione della Confapi il 24 luglio a Roma sono state registrate grandi preoccupazioni per settembre, quando si teme che molte imprese non riapriranno. Inoltre, a settembre ci saranno le prime scadenze della cassa integrazione, per rinnovare la quale non ci sono i fondi. Infine, molti imprendiori hanno denunciato l’aumento costante degli spread bancari negli ultimi mesi, fino a raggiungere il 5,9%. Ci si è chiesti se il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, di cui si riconosce la competenza, riuscirà a andare oltre l’ottimismo di facciata adottato come linea propagandistica dal governo italiano.
Mentre le banche tagliano il credito all’economia, molti hedge funds fanno registrare la migliore performance trimestrale da un decennio. La clientela è tornata a investire negli hedge funds, facendo salire i titoli gestiti di oltre 142 miliardi di dollari nel secondo trimestre del 2009. Che vuol dire? Che le stesse banche che ricevono liquidità dalle banche centrali in cambio dei loro titoli tossici invendibili e tagliano il credito alle imprese, creano ulteriore “monnezza” investendo quei soldi negli hedge funds, che continuano a svolgere le stesse attività speculative di sempre, creando debito con meccanismi intrinsecamente iperinflazionistici.
Iperinflazione. Alcuni hedge funds ci investono perfino: in una discussione privata col nostro corrispondente, un trader che lavora nell’ufficio centrale del ramo speculativo di Societé Générale ha rivelato che “ogni singolo giorno noi discutiamo dell’iperinflazione”. Concordando pienamente con la previsione, fatta da LaRouche, di un periodo di deflazione seguito da una fiammata iperinflazionistica a livello planetario, simile alla Germania del 1923, la fonte ha affermato: “Per noi, il dibattito non è più sul se, ma sul quando. Secondo le mie stime, il casino attuale può durare un altro anno, massimo due, e poi bang: esplode l’iperinflazione”.
Tant’è vero che la cosiddetta “industria finanziaria” sta già investendo nell’iperinflazione! “Negli ultimi quattro mesi”, ha confidato la fonte, “abbiamo elaborato una strategia con molti hedge funds per realizzare profitti dall’imminente iperinflazione. Io sto lavorando a questo. Sono contrario alla speculazione sul petrolio o sul cibo, che veramente danneggia la popolazione. Ma la speculazione sull’iperinflazione? Grandiosa”.
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16.07.09
Sostenibilità, un “Cubotto” salverà l’edilizia
Come sarà la casa del futuro? Ce lo chiediamo tutti. Alcuni la descrivono, altri la progettano. Qualcuno infine ne realizza un prototipo, a beneficio di quanti vorranno toccare il futuro che è già qui
Si chiama Cubotto ed è il primo prototipo italiano di edificio sostenibile e antisismico, energeticamente efficiente realizzato con tecnologia stratificata a secco.
Il prototipo della “casa del futuro” è frutto della collaborazione tra Dipartimento di Ingegneria Civile del Territorio, dell’Ambiente e Architettura dell’Università degli Studi di Parma, il Consorzio ESI, Saint-Gobain PPC Italia e Celenit.
Chi andrà ad abitare il Cubotto?
Per adesso nessuno, ma servirà a raccogliere dati per potenziare in seguito l’efficacia dei modelli e dei pannelli che impiegano la tecnologia stratificata a secco.
Di cui si vogliono valutare in maniera più approfondita prestazioni statiche, tecnologiche, ambientali, di risparmio energetico ed economico.
Si tratta di un edificio in scala 1:1 posto all’interno del Campus Universitario di Parma, che presenta due locali a piano terra e un altro al secondo piano e dispone di una parete esterna ventilata di sei metri di altezza.
Trattandosi di un prototipo, quindi sperimentale, la costruzione è dotata di numerosi sensori per la ricerca.
Si potranno così effettuare indagini termografiche e verifiche igrometriche, di trasmittanza, smorzamento e sfasamento,.
Rilevazioni che, come appunto si conviene a un prototipo che si rispetti, consentiranno di integrare le verifiche di calcolo con quelle sperimentali.
Si vuole cioè “sovvertire” l’ordine di costruzione, facendo l’esatto contrario di quanto avviene oggi in edilizia. Trasformare cioè il processo che normalmente prevede i passaggi progetto-cantiere-produzione invertendoli con quelli propri della sperimentazione e della ricerca, vale a dire dal cantiere, alla produzione, al progetto.
L’ipotesi di lavoro che supporta la ricerca di Cubotto è comunque quella che la tecnologia stratificata a secco sia caratterizzata da vantaggi in termini di:
– Sostenibilità economica
– Sostenibilità ambientale
– Risparmio energetico
– Riduzione tempi di cantiere
– Flessibilità di progettazione e assemblaggio
– Leggerezza
– Comfort abitativo
Ma poi, se si dovesse adottare la soluzione Cubotto su larga scala che succederebbe?
“La resistenza – lamentano i ricercatori – nell’adozione su larga scala di questa tecnica di costruzione, deriva dalla convinzione errata di molti, che l’abitazione costruita con assemblaggio a secco possa avere una durata minore nel tempo: si tratta di una falsa percezione perché la durata dell’immobile è la medesima, anzi, le eventuali opere di manutenzione negli anni risultano facilitate.”
http://www.quotidianocasa.it/2009/07/16/7225/sostenibilita-un-cubotto-salvera-ledilizia.html
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11.08.2009
Cecenia: Trovati Morti i Due Attivisti Ong Rapiti Ieri
(ASCA-AFP) – Grozny, 11 ago – La responsabile di un’Ong di difesa dei diritti umani, Zarema Sadulaeva, e suo marito, rapiti ieri a Grozny, sono stati trovati morti nella capitale cecena, meno di un mese dopo un omicidio simile. Lo ha annunciato un membro di un’altra Ong, Memorial.
”Stamane, nel cantone di Tchernoretchie a Grozny, sono stati scoperti i corpi di Zarema Sadulaeva e suo marito.
Erano stati rapiti ieri alle 14 (le 12 in Italia – ndr) nel loro ufficio”, ha dichiarato il responsabile di Memorial.
Sadulaeva guidava l’Ong russa ”Salviamo la generazione”.
La scomparsa della coppia era stata segnalata ieri sera dal membro di Memorial e da un responsabile di un’altra Ong.
Secondo l’agenzia Intrfax, la scoperta dei corpi e’ stata confermata dalle autorita’ locali. ”Abbiamo trovato i militanti per i diritti umani nel bagagliaio della loro auto nei pressi del villaggio di Tchernoretchie con ferite da colpi di arma da fuoco”, ha dichiarato un rappresentante del ministero dell’Interno ceceno.
L’Ong ”Salviamo la generazione” si dedica in particolare ad aiutare i giovani che vivono in Cecenia a inserirsi nella societa’ per evitare che si uniscano a gruppi armati in questa repubblica in preda a una ribellione.
Il duplice omicidio avviene meno di un mese dopo il rapimento e l’assassinio della militante per i diritti umani Natalia Estemirova, 50 anni, che lavorava per Memorial.
Quest’ultima era stata rapita, sempre a Grozny, il 15 luglio, e trovata uccisa a colpi di arma da fuoco poco dopo nella vicina Inguscezia. Un responsabile dell’Ong aveva accusato il presidente ceceno, Ramzan Kadyrov, di essere dietro l’omicidio.
mlp/mcc/bra
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11.08.2009
Myanmar: Boniver, protestare per Suu Kyi in ogni sede internazionale
(ASCA) – Roma, 11 ago – ”La prevedibile condanna al premio Nobel Aung San Suu Kyi, non deve esimerci da alzare la piu’ viva protesta in ogni sede internazionale per chiedere l’immediata liberazione dell’esponenete politica di opposizione al regime e di tutti i prigionieri politici”. Lo afferma il deputato del Pdl e presidente del Comitato Schengen Margherita Boniver, la quale aggiunge: ”La giunta militare birmana continua, forte della sua impunita’, ad affamare il popolo ed a prendersi gioco di ogni norma internazionale sui diritti umani. Dobbiamo continuare – dice l’ex sottosegretario agli Esteri – a protestare fino a quando Aung San Suu Kyi non otterra’ la completa liberazione”.
com-lpe/sam/ss
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