Sclerosi multipla: disponibile in Europa il primo farmaco per via orale 22.03.2011
Una tappa importante per la gestione della SLA
Disponibile in Europa il primo farmaco per via orale contro la Sclerosi multipla.
La Commissione Europea ha approvato Fingolimod al dosaggio giornaliero di 0,5 mg come terapia disease-modifying nei pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente ad alta attivita’ di malattia nonostante il trattamento con interferone beta, o in pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente grave a rapida evoluzione.
“La giornata di oggi segna in Europa una tappa importante nella strada per gestire questa malattia cronica ed invalidante – dichiara Hans-Peter Hartung, Professore e Direttore del Dipartimento di Neurologia dell’Universita’ di Heinrich-Heine in Germania – fingolimod e’ il primo trattamento orale approvato per la sclerosi multipla che offre una significativa efficacia e sara’ per molti pazienti una benvenuta alternativa terapeutica”. L’approvazione e’ basata sul piu’ ampio programma di studi clinici ad oggi disponibile per un nuovo farmaco per la sclerosi multipla, i cui risultati dimostrano una significativa efficacia di fingolimod nel ridurre le ricadute, il rischio di progressione della disabilita’ e il numero di lesioni cerebrali, un indicatore dell’attivita’ di malattia, rilevate alla risonanza magnetica (RMN). “L’annuncio di oggi rappresenta un’altra importante approvazione da parte delle Autorita’ Regolatorie e siamo lieti che fingolimod diventi disponibile per i pazienti con sclerosi multipla eleggibili al trattamento con questo farmaco”, ha dichiarato David Epstein, Head of Novartis Pharmaceuticals.
Fingolimod e’ il primo di una nuova classe di farmaci: i modulatori dei recettori della sfingosina-1 fosfato (S1PR). Nella sclerosi multipla, il sistema immunitario danneggia la guaina che protegge le fibre nervose del sistema nervoso centrale (SNC), che comprende il cervello e il midollo spinale. L’innovativo meccanismo d’azione di fingolimod permette di ridurre l’attacco del sistema immunitario al SNC, sequestrando alcuni globuli bianchi (linfociti) nei linfonodi. Cio’ impedisce ai linfociti di raggiungere il SNC, dove potrebbero attaccare le guaine che proteggono le fibre nervose, riducendo cosi’ il danno infiammatorio.
Fonte: AGI Salute
http://www.entrainfarmacia.it/farmacia/sclerosi_multipla_farmaco_via_orale/
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L’internazionalismo del capitale e il localismo del lavoro 23.03.2011
Autore: Bevilacqua, Piero
Una domanda si aggira inquieta per le menti d’Europa che pensano alla politica…
Una domanda si aggira inquieta per le menti d’Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica, avviata negli ’80 in Gran Bretagna e in USA, e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati? Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressocché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima. Alla fine degli anni ’90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l’ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. .Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.
E allora? Com’ è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico? Non siamo così meccanicisti da non comprendere la diversità dei piani messi a confronto e la differente temporalità dei fenomeni che si agitano nelle due diverse sfere sociali. Ma la domanda si pone.
Io credo che una prima risposta sia da ricercare in questo esito paradossale: concludendo il suo ciclo nel tracollo economico-finanziario, il neoliberismo ha potuto far tesoro di due esiti politicivantaggiosi. La crisi ha infatti rese acute due gravi scarsità: la scarsità del lavoro e la scarsità di sicurezza. Quest’ultima in parte connessa alla prima. Tali scarsità pongono la classe operaia e i ceti popolari in una condizione di grave asimmetria di potere e forniscono ai ceti dominanti rapporti di forza e materia di manipolazione ideologica in grado di offuscare le sconfitte subite sul piano economico. Come sempre, bisogno e paura sono diventati due formidabili armi di potere.
Ma questa è una parte della risposta. Alla fine del ‘900 si è consumata una inversione storica per tanti versi stupefacente. Come ha osservato Mario Tronti, sino ad alcuni decenni fa, il movimento operaio aveva una dimensione internazionale a fronte di un confinamento nazionale del capitale. Con tutti i suoi limiti, l’insieme dei paesi comunisti era anche questo: un fronte internazionale. Oggi assistiamo a un capovolgimento completo dello scenario. Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo: una libertà di movimento che è un potere politico inedito contro chi ha perso la sua rappresentanza globale. La capacità di ricatto di Marchionne, che può muoversi liberamente tra USA, Brasile, Polonia, Serbia è, sotto tale profilo, esemplare.
Ma forse il più grande successo politico del neoliberismo- quello che gli consente oggi di avere ancora diritto di parola- è stata la sua presa egemomica sui partiti tradizionali della sinistra e il loro svuotamento come partiti popolari. Vogliamo ricordare quali sono state le parole d’ordine prevalenti – fatte salve le diversità nazionali – dei laburisti britannici, dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, dei comunisti italiani, in tutti questi anni ? Liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato sociale, emarginazione del sindacato, ecc. L’idea che la libertà individuale si dovesse far strada come agente dominante di un nuovo progetto di società, regolato dalle logiche dinamiche e vincenti del mercato, è stato il cuore – tutto di marca neoliberista – che ha sostituito il vecchio patrimonio solidarista e internazionalista. Una resa senza condizioni alle ragioni dell’avversario, che, da un punto di vista culturale, si spiega anche con la tradizione marxista e comunque industrialista della sinistra europea.
L’astrale distanza di queste formazioni storiche dal pensiero ecologico contemporaneo, infatti, ha impedito loro si intravedere un nuovo orizzonte solidale e cosmopolita di fronte alla crisi fiscale dello Stato sociale nei paesi industrializzati e al tracollo dell’URSS. Esaurita la spinta riformatrice dei decenni precedenti, ad essi non è rimasta altra strada, se volevano continuare nella promozione della crescita economica, che quella indicata dall’avversario. Pur tra esorcizzazioni e camuffamenti, il neoliberismo è stato di fatto accettato come la nuova frontiera da seguire. Ma oggi quella nuova religione della crescita, che apparve negli anni ’80 come l ‘avanguardia di una nuova stagione di modernizzazione e di avanzamento del mondo intero, si mostra in tutta la sua paradossale e stupefacente antistoricità. Era una retroguardia ottocentesca ed è stata scambiata per il fiore in boccio di una nuova stagione dell’umanità. L’individualismo economicistico su cui esso si fondavaè apparso ben presto come l’incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile, perché generatore, tra l’altro, della più grave minaccia che l’umanità abbia avuto davanti a sé: l’esaurimento delle risorse, il tracollo degli equilibri ambientali, il riscaldamento climatico. E’ paradossale, ma ricco di significati, il fatto che i partiti popolari non abbiano saputo cogliere il nuovo orizzonte di cooperazione e di solidarietà che i problemi ambientali rimettevano al centro della scena mentre si eclissavano quelli delle vecchie ideologie socialiste e comuniste. Essi non hanno saputo vedere come la scoperta di una “Terra finita” e in pericolo, con il corredo delle scienze ecologiche, offrivano un nuovo progetto di società nel quale il bene comune, l’interesse generale, si ripresentava in rinnovate forme universali e drammaticamente cogenti. Un nuovo collante ideologico per una moltitudine di figure e di ceti sociali e al tempo stesso la premessa di un nuovo e più vasto internazionalismo.
Oggi, esattamente il disancoramento dall’ “internazionalismo del lavoro”, eredità del passato, e l’inettitudine a comprendere il nuovo, proposto dall’ambientalismo, fanno dei partiti storici della sinistra delle barche di carta nella tempesta. Senza una mèta da seguire, senza energie per affrontare il mare. Nell’immediato, tuttavia, è l’assenza di un internazionalismo del lavoro la debolezza più grave e drammatica. La mancanza di una lettura delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo impedisce di comprendere le distruzioni in atto nel mondo del lavoro. Non fornisce lo sguardo prospettico su ciò che il capitale va preparando, a tutto il lavoro sociale, grazie alla sua capacità di movimento su scala mondiale. Impedisce di prefigurare la gigantesca dissoluzione dei legami sociali e di classe a cui esso è sempre più vitalmente interessato. Il capitale, infatti, oggi colpisce duramente non perché c‘è la crisi, ma per il gigantesco potere politico nel frattempo guadagnato sui lavoratori in una fase di aspra competizione intercapitalistica. E allora, che fare?
Io credo che se il capitale è mobile e planetario, altrettanto può esserlo il diritto, la maglia delle regole imposte dalle lotte, dalla politica: anch’essa, del resto, potenzialmente universale. Ma quale soggetto, per esempio in Italia, può muoversi in tale direzione? Dal PD mi sembra assai difficile poterlo pretendere. Dalle catastrofi culturali non si riemerge in breve tempo e per la buona volontà di qualcuno. Dai piccoli partiti di sinistra può venire solo un piccolo contributo. Senza dubbio, la forza che può assumere l’iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL.
Ritengo che oggi non sia più possibile rinviare una discussione spregiudicata e coraggiosa su questa importante forza operaia e popolare, che ha certo svolto una funzione fondamentale di difesa dei lavoratori in tutti questi difficili anni. Ma noi dobbiamo oggi chiederci e chiederlo ai dirigenti, come sia stato possibile che uno dei sindacati più potenti d’Europa – e forse il più ricco sotto il profilo patrimoniale – abbia potuto consentire un così drammatico arretramento dei redditi operai . In un rapporto OCSE 2006-2007 i salari dei lavoratori italiani risultavano al 23° posto dei 30 Paesi dell’Organizzazione. E l ‘Italia, nella graduatoria, non è certo l’ultimo di questi Paesi. La CGIL, dispone di una geniale organizzazione territoriale, mutuata dal sindacalismo francese: la Camera del Lavoro. Essa raggruppa lavoratori delle varie categorie e svolge vari compiti di patronato e assistenza. Ma perché in tutti questi anni in cui il lavoro è stato frantumato, separato spesso dal luogo di lavoro, disperso, le Camere del Lavoro non hanno svolto un ruolo di ricomposizione locale, di riaggregazione sindacale e politica? Perché le Camere del Lavoro non si sono estese, disseminate nei quartieri delle città, nei piccoli centri, come nuovi presidi del lavoro sul territorio ? Non risulta che la CGIL non avesse le risorse per tali iniziative. Risulta invece che essa vive fondamentalmente e anche bene – benché non esclusivamente – con i soldi dei lavoratori e quindi ha obblighi morali più cogenti. E inoltre: come è stata possibile, mentre si realizzava l’Europa dell’ euro e delle varie istituzioni dell’Unione, una così clamorosa assenza di iniziativa volta alla concertazione europea delle varie organizzazioni da parte di uno dei maggiori sindacati del Continente? Sul piano mondiale, infine, l’inerzia politica è ancora più grave e stupefacente, anche se riguarda indistintamente tutti i sindacati. E’ dal 1919 che esiste a Ginevra l ‘Organizzazione internazionale del Lavoro.(OIL) Essa è stata creata ben 25 anni prima del FMI e della Banca Mondiale. L’ OIL, frutto delle ambizioni internazionaliste di quell’epoca, doveva vigilare sulle legislazioni del lavoro nei vari paesi del mondo. Ma nell’ultimo mezzo secolo essa è uscita di scena, mentre ha trionfato l’internazionalismo finanziario delle istituzioni di Bretton Woods. E i sindacati dove erano nel frattempo? Perché non sono stati in grado di seguire l’avanzante internazionalizzazione del capitale? Perché non sono stati capaci di fare di tale organismo, oggi membro dell’ONU, un reale potere mondiale dei lavoratori? Evidentemente, insieme alla forza dell’avversario, è l’inerzia dell’istituzione sindacale che ha giocato un ruolo importante. Per questo, l’insieme di tali fallimenti oggi rende inevitabile rivolgere alla CGIL una serie di richieste pressanti e precise. Essa deve dotarsi di una strategia volta alla creazione di una rete internazionale del movimento sindacale. Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte. Ci sono, in Italia, migliaia di ragazze e ragazzi che a 30 anni hanno girato il mondo, conoscono più lingue, praticano ogni giorno connessioni internazionali su internet. Da essi deve venire una nuova leva di dirigenti sindacali. Per tale ragione la CGIL avrebbe l’obbligo di avviare al proprio interno un censimento che ridefinisca i compiti di dirigenti, funzionari, impiegati, per cambiare in corsa la sua organizzazione e le sue strategie. Le inerzie del passato non sono più comprensibili, né tollerabili. Questo sindacato non può più vivere nella routine mentre sul mondo del lavoro si abbatte la tempesta.
Www.amigi.org. Questo articolo è stato inviato contemporaneamete al manifesto
http://eddyburg.it/article/articleview/16731/1/142/
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Inaugurato il Sapei: finalmente la rete elettrica della Sardegna si connette a quella della Penisola 23.03.2011
In un periodo in cui gli ideali federalisti balzano agli onori della cronaca e l’appuntamento con il 150° anniversario dell’unità di Italia è diventato spesso occasione per rimarcare un po’ di preoccupazione verso chi non sostiene uno Stato unitario, arriva finalmente una notizia positiva che unisce lo stivale più nei fatti che non nelle parole. Nei giorni scorsi infatti, seppur non se ne sia parlato tanto a livello nazionale, è stata inaugurata un’infrastruttura che l’Italia la unisce nel vero senso della parola.
Si tratta del Sapei (sigla di Sardegna-Penisola italiana) ovvero il cavo elettrico lungo 435 chilometri che collega il centro di Borgo Sabotino (Latina) a Fiumesanto (Sassari): finalmente quindi la rete elettrica della Penisola italiana sarà collegata a quella Sardegna. Si tratta del primo collegamento elettrico diretto tra la Sardegna e il continente, che era si attivo da qualche anno, ma soltanto in via sperimentale. Il cavo, che ha una potenza di 1.000 MW e un costo di 750 milioni di euro, è il più importante mai realizzato in Italia per una singola infrastruttura elettrica. Vantaggi? Sicuramente tantissimi e tutti estremamente importanti.
Innanzitutto la questione dell’approvvigionamento energetico della Sardegna: grazie al Sapei infatti l’isola non sarà più energeticamente slegata dalla rete nazionale e di conseguenza potrà contare sull’apporto della produzione nazionale, risparmiando così una marea di costi (si stima circa 70 milioni l’anno) che erano determinati dall’insularità di rete e dai maggiori costi che l’isolamento determinava. Ma c’è di più e quest’aspetto non può che far piacere a tutti i sostenitori delle energie rinnovabili: il surplus di energia prodotto potrà infatti essere esportata alla Penisola e per surplus intendo quella quota di energia generata dalle rinnovabili (in particolar modo dall’eolico e dal fotovoltaico) che in precedenza per problemi appunto di scarsa estensione della rete poteva essere utilizzata soltanto nei momenti di alta domanda energetica.
Si tratta quindi di uno strumento che potenzia la possibilità di far ricorso alle rinnovabili e crea le condizioni affinché la percentuale di energia pulita nel nostro mix energetico possa crescere senza creare problemi di stabilità alla rete. Infine (questo però è un desiderio più che un dato di fatto) si spera che attraverso questo strumento anche i costi delle aziende dell’isola possano subire un ritocco verso il basso, dato che da sempre la Sardegna, oltre all’handicap dei alti oneri di trasporto dei propri prodotti per l’esportazione via mare (condizione ovviamente obbligata), ha anche dovuto da sempre far fronte ad un costo più alto rispetto alla Penisola per la produzione dell’energia elettrica.
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Anche i cartelloni pubblicitari dicono “reclaim money, share knowledge, take freedom” [foto] 23.03.2011
Azione comunicativa verso la Take the Future Parade di sabato 26 marzo’011.
VERSO IL 26 MARZO: TAKE THE FUTURE PARADE!
Oggi i cartelli pubblicitari di Bologna parlano una lingua diversa: gridano “reclaim money, share knowledge, take freedom”, per lanciare la parade che sabato 26 marzo 2011 attraverserà il centro di Bologna. Il Knowledge Liberation Front (KLF), nuova rete che unisce le lotte euromediterranee che negli ultimi anni hanno scosso l’Europa e non solo, si riverserà nello stesso giorno nelle strade e nelle piazze di molte città europee, da Londra a Milano, passando per Parigi. Pratiche diverse ma discorsi comuni: lotta alle politiche di austerità, alla finanziarizzazione dell’economia, alla precarietà lavorativa e di vita.
L’appuntamento è sabato 26 Marzo alle 17 in P.za San Francesco.
KLF – Knowledge Liberation Front
Le foto dell’azione comunicativa:
http://www.flickr.com/photos/zicphoto/sets/72157626334624288/show/
Against Financial Capitalism!
Take the future!
_Giovedì 24 marzo h21 @ Vag61, via Paolo Fabbri 110
Assemblea pubblica
“Austerity europea e welfare municipale: apriamo spazi di conflitto e riappropriazione”
Ne parliamo con Maurizio Bergamaschi e Gigi Roggero
_Sabato 26 marzo h17 @ piazza San Francesco
TAKE THE FUTURE PARADE!
I terreni dell’università e della formazione sono stati in questi mesi attraversati da molteplici conflitti sia in Italia sia nel resto d’Europa. Le rivolte che hanno riempito le strade e le piazze hanno saputo porre, a partire dall’opposizione radicale ai processi di ristrutturazione del sistema universitario, questioni che vanno ben al di là del mondo formazione. Nei documenti che hanno animato il dibattito di questi mesi emerge chiaramente un orizzonte di lotta strettamente intrecciato con le questioni della crisi, del welfare e dei dilaganti processi di finanziarizzazione e precarizzazione. Grazie alla deregolamentazione e alla privatizzazione crescente dei beni pubblici, la finanziarizzazione ha trasformato sempre più valori d’uso in beni (titoli) finanziari soggetti a speculazione. Le politiche di austerity imposte dai governi tanto sull’università quanto sul welfare rappresentano da una parte il tentativo di socializzare i costi di una crisi che diventa sistemica e dall’altra di rilanciare l’accumulazione privatizzando i beni comuni, dal sapere alla salute solo per fare due esempi. Sono i mercati finanziari che ogni giorno di più si sostituiscono agli stati nel ruolo di assicurazione sociale. Fondi pensione, privatizzazione della sanità, copertura dei rischi attraverso le assicurazioni, indebitamento per accedere alla casa e all’istruzione, sono esempi di un diffuso spostamento del rischio sul debito privato. Sono i soggetti che devono assumersi i propri rischi di vita facendoli contemporaneamente diventare fonte di valore per il capitalismo finanziario.
Questi processi ridefiniscono il nocciolo del rapporto tra lavoro, welfare e cittadinanza e di conseguenza incidono sulle modalità di accesso alla proprietà sociale. Il welfare storico si articolava sulla base della definizione e distinzione di alcuni beni pubblici, l’accesso ai quali era da considerarsi come patrimonio di base della cittadinanza. Era la loro natura di beni comuni e non la posizione dei destinatari che ne giustificava l’erogazione. Ora questa logica sembra sempre più venir meno. E’ infatti evidente come l’Unione europea, oltre ad agire sul piano del controllo dei conti pubblici dei singoli stati membri, stia contemporaneamente dispiegando una retorica sul welfare che reintroduce la responsabilità individuale rispetto alla propria condizione, producendo così una moralizzazione del discorso che soggettivizza le problematiche e depoliticizza la questione della povertà così come quella del lavoro.
Anche a Bologna è in atto ormai da anni un processo di progressivo smantellamento del sistema pubblico di garanzie e di protezioni sociali, accompagnato da un micidiale mix fatto di un degradato parapubblico (come le Asp, le Aziende di servizi alle persone che hanno preso il posto delle ex Opere pie), di cattiva imprenditorialità (cooperative e imprese sociali) a cui è stata affidata l’esternalizzazione dei servizi sociali e di fondazioni bancarie nel ruolo di enti filantropici che diventano veri e propri forzieri che condizionano le scelte di governo dei territori. A pagarne le spese sono anche i lavoratori del sociale che vivono una condizione lavorativa fatta di precarietà e assenza di diritti, schiacciati tra la figura di lavoratore e quella di socio delle cooperative.
Precarizzazione da un lato e politiche di workfare dall’altro disegnano uno scenario in cui rischio (di malattia, di povertà) e responsabilità individuale vanno di pari passo. La disoccupazione passa dell’essere un problema macroeconomico per assumere i contorni di una lacuna personale, da affrontare mobilitando e aggiornando il proprio “capitale umano”, in una competizione senza fine che produce nuove, ma come sempre fittizie, gerarchie nella composizione del lavoro.
La lotta dei precari e degli studenti ci parla anche di questo ed è a partire da questo che si può immaginare una ricomposizione delle lotte sul terreno della riappropriazione dei diritti e della ricchezza socialmente prodotta, ma anche di riappropriazione del potere di azione e di scelta.
Dalla tre giorni europea di lotta (24/26 marzo) contro banche e austerità verso lo sciopero del 6 maggio, convocato con tempi tardivi e modalità insufficienti che rendono indispensabile una sua generalizzazione e radicalizzazione.
Against Financial Capitalism!
Take the future!
_Giovedì 24 marzo h21 @ Vag61, via Paolo Fabbri 110
Assemblea pubblica
“Austerity europea e welfare municipale: apriamo spazi di conflitto e riappropriazione”
Ne parliamo con Maurizio Bergamaschi (Università di Bologna)e Gigi Roggero (Università di Bologna e Rete Edufaktory)
_Sabato 26 marzo h17 @ piazza San Francesco
TAKE THE FUTURE PARADE!
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Cyber-attacco alla Commissione Europea 24.03.2011
La Commissione Europea sotto il fuoco dei pirati informatici. I servizi di posta elettronica e diverse pagine del sito internet della Commissione sono rimasti bloccati a causa di un cyber-attacco la cui origine non è stata individuata. Direttamente colpiti anche i servizi della rappresentante della politica estera europea Catherine Ashton.
L’episodio è arrivato alla vigilia del vertice nel quale oggi verranno affrontati dossier cruciali come la nuova governance economica europea, le misure di verifica per le centrali nucleari europee all’indomani della crisi giapponese e la guerra in Libia.
Sabato scorso 2.000 persone circa sono scese in piazza a Bruxelles in segno di solidarietà con il popolo libico e contro la repressione attuata dal regime di Gheddafi.
http://it.euronews.net/2011/03/24/cyber-attacco-alla-commissione-europea/
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Lettera ad un amico tunisino 28.01.2011
di TONI NEGRI
24 gennaio 2011
Caro A.,
davvero – quando, vent’anni fa, eri il mio allievo a Paris 8 – non avremmo potuto immaginare che la rivoluzione tunisina avrebbe avuto caratteri simili ed avrebbe sollevato problemi costituzionali analoghi a quelli di un ribaltamento sociale e politico nel centro Europa. Allora studiavamo insieme l’espulsione della classe operaia dalle miniere di fosfato del sud tunisino, prodromo di grandi ondate di migrazione interna ed esterna ed il lento processo di trasformazione che le delocalizzazioni delle filiere tessili europee determinavano nel tuo paese. Tu faticavi a mostrarmi le potenzialità produttive del tuo paese, al di là, appunto, dell’attività tessile o dell’industria del turismo o dei servizi gasieri e petroliferi (che solo più tardi raggiunsero una certa espansione). Tutto è andato terribilmente in fretta. Vent’anni fa balbettavamo di globalizzazione ed oggi c’è, al punto che la Tunisia è diventata una provincia d’Europa e, con essa, del mondo. Vent’anni fa percepivamo appena la trasformazione del lavoro da industriale ad immateriale/cognitivo ed oggi la Tunisia conosce una sovrabbondanza di quest’ultima figura di forza-lavoro. E ancora, dopo vent’anni, scorgiamo le terrificanti trasformazioni che il neoliberalismo ha imposto sopra ed attraverso quei cambiamenti della figura del mercato e della natura della forza-lavoro: la fine del sistema salariale classico, e con essa una mortifera disoccupazione di massa ed una insostenibile precarizzazione – il 35 % della popolazione giovanile è forza-lavoro cognitiva ma solo il 10 % lavora; in più, in Tunisia, si sono scatenate ed accumulate distruzioni delle primizie del Welfare, disuguaglianze regionali feroci, effetti disastrosi dei processi migratori (sia di quelli riusciti che quelli interrotti), blocco degli investimenti esteri, ecc.. In fine, questi ultimi vent’anni ci hanno regalato l’affermazione di una dittatura mafiosa, una corruzione incontenibile ed un sistema repressivo furbo e crudele (furbo per assecondare e legittimarsi sulle paure occidentali di una minaccia islamista, crudele perché fu puramente e semplicemente dominio di classe, sfruttamento ed oppressione di potentati corrotti contro i lavoratori e la gente onesta).
Cosa si fa, mi chiedi, ora che la conoscenza dello sfruttamento è insorta ed il desiderio di libertà si è ribellato ed ha vinto? L’insurrezione ha creato nuove forze: come utilizzarle, come muoverle contro i vecchi nemici e contro i nuovi che presto appariranno? Caro professore, mi scrivi, ricordi quando ironizzavamo sugli illuministi che concorrevano a premi con progetti sulle nuove Costituzioni di Corsica o di Polonia oppure per la Carolina? Perché dunque non discutiamo (questa volta senza ridere) dei contenuti di una nuova Costituzione della Tunisia – non tanto perché qui non ci sia chi è capace di farlo bene (imbevuto dalle solitarie riflessioni della cospirazione, dalla cultura politica globale che qui comunque circola – certo più che in Italia – e dell’angoscia della sommossa e dalla gioia della vittoria) – ma perché parlare della Tunisia, dei nuovi diritti da costruire, delle garanzie da definire, è oggi anche parlare dell’Europa, semmai qualche sua regione si libererà dagli attuali despoti!
Amico mio, compagno A., non mi hai convinto – quell’ironia che tu giudichi non più necessaria resta per me un abito, sono convinto che non ci si possa sostituire a quello che i protagonisti fanno e propongono. È vero tuttavia che il tuo problema è ormai generale, che una nuova costituzione della libertà non è solo un problema tunisino ma di tutti gli uomini liberi. Ti metto giù dunque qualche riflessione, al fine di aprire una discussione, un forum al quale molti possono partecipare. Per cominciare insisto su qualche punto, che a me sembra più importante di altri, per qualificare che cosa possa essere oggi una vera democrazia – ovvero una “democrazia assoluta” che già allora, vent’anni fa, prediligevamo.
1) Ai vecchi poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) che è necessario epurare e restaurare con vigore sotto un continuo ed accresciuto controllo del potere legislativo, vanno aggiunte almeno altre due agenzie del governo democratico, l’una che agisca nel “settore mediatico” e l’altra che agisca sulle “banche” e sulla “finanza”.
In primo luogo, dunque, non è più possibile immaginare un regime democratico che non abbia la possibilità di obbligare l’informazione, la comunicazione e la costruzione dell’opinione pubblica al rispetto della verità, alla libertà, al vaglio della moltitudine. L’estrema importanza che hanno avuto le iniziative sul net durante l’insurrezione va salvaguardata come una continua possibilità di esercizio. Quelle pratiche vanno tolte all’eccezionalità e tradotte in esercizio di controllo democratico continuo. Ma non basta: i vecchi media vanno anche piegati ad un controllo sociale che ne liberi l’attività dai blocchi che l’esecutivo e le parti politiche potrebbero loro imporre. Ora, c’è un solo modo per affermare questa figura democratica: il diritto di espressione va liberato dal potere del denaro. La pluralità dell’informazione non può rappresentare la strada per la sua capitalizzazione ma va garantita dalla sovranità popolare al fine di moltiplicare la discussione, il confronto di opinioni, le decisioni. Il diritto di espressione non va garantito solo all’individuo ma anche diretto ad un esercizio collettivo, escludendo ogni pretesa capitalistica di sfruttamento ed ogni tentativo di assoggettarlo. Il diritto di espressione va affermato come una potenza costituente, aperta alla legittimazione del comune.
2) Le “banche”, la “finanza”, sono divenute durante lo sviluppo di capitalismo, un potere a parte, controllato dalle élites industriali e politiche. Nel neoliberalismo anche quel controllo è terminato e la finanza si è resa completamente indipendente, fondando sul livello globale la legittimità del suo intervento. In Tunisia, come tu dicevi, nel passaggio alla democrazia si gioca anche una progressione delle forme di controllo capitalistico sulla vita civile. Il capitale finanziario si sta già presentando in maniera più aggressiva e, quanto alla comunicazione, mentre la censura sta definitivamente scomparendo, nuove forme di controllo si stanno presentando.
Il problema è dunque quello di bloccare questo processo, di trasformare le banche in un pubblico servizio, di modo che l’allocazione di fondi finanziari e l’elaborazione delle politiche di investimento siano comunemente decise. Gli strumenti della finanza vanno messi al servizio della moltitudine. È chiaro che questo implica la costruzione di poteri democratici di programmazione finanziaria, coordinati all’attività legislativa ed esecutiva, e quindi poteri monetari strappati a quell’indipendenza posticcia e ipocrita della Banca centrale – che ne faceva uno strumento del capitale globale. Questa è una via difficile da precorrere. Ci si trova contro non solo i banchieri nazionali ma gli interessi globali del capitale. Ma è una via che va percorsa con grande decisione – cautamente ma con decisione. Così, infatti, si posa una prima pietra di un sollevamento globale contro il neoliberalismo ed il capitalismo finanziario, un sollevamento quando mai maturo!
Il New York Times se n’è immediatamente accorto: “one small revolution”, come quella tunisina, può infiammare non solo il Maghreb ma il mondo arabo. Bisogna dunque tenere a mente, nel trattarla, che un autocrate può fare concessioni (al popolo ma soprattutto alle banche ed alle imprese multinazionali) più facilmente di quanto le possa fare un leader democratico ma debole – come quello che alla fine i tunisini eleggeranno. Ecco dunque la previsione americana. Ecco di conseguenza la nostra ipotesi: non è possibile oggi immaginare una rivoluzione democratica che non attui, prima di ogni altra operazione, una nazionalizzazione delle banche, una riappropriazione della rendita, alle quali fare man mano seguire l’istaurazione di figure di diritto comune. Solamente così la potenza della moltitudine può costituirsi. Il fine al quale è rivolta questa agenzia finanziaria, democraticamente gestita, è quello di garantire il Welfare della popolazione tunisina, contro la precarietà, stabilendo un reddito garantito, la possibilità di un’educazione completa e di un’assistenza sanitaria adeguata ad ogni cittadino.
Oggi non c’è libertà che non risieda sul comune. Non a caso la dittatura ha privatizzato tutto quello che in Tunisia poteva esserlo – bisogna dunque riprenderselo. Caro A., solo sul comune e sulla sua comune gestione è ormai basato il futuro della vostra generazione e dei vostri figli. Certo, il disastro che ereditate non si cancella d’un colpo solo – non appena le nebbie che seguono l’insurrezione si diraderanno, vi saranno delle priorità attorno alle quali concentrarsi e decidere. Ma il dispositivo di un governo costituente non può che guardare al comune. Non lasciate la proposta del comune (questa è anche la tua preoccupazione, compagno A.) agli islamici. È su una falsa propaganda del comune che essi già svolgono la loro attività.
3) Il terzo punto riguarda la forma del governo. Come tu dici, la rivolta tunisina è stata sociale, è nata dall’intera società che lavora. Ben Alì aveva ben compreso che non bisognava soprattutto permettere alla rivolta sociale di esprimersi politicamente ed ogni politico sapeva che c’era nella disoccupazione giovanile una bomba a tempo che stava per esplodere. Perché?
La gioventù – forza-lavoro cognitiva – è oggi la vera classe lavoratrice del postindustriale. Poiché è forza-lavoro cognitiva, questa gioventù non è impotente, anzi, essa ha i mezzi per superare quella frustrazione che ha bloccato gli strati più poveri ed anziani della popolazione. La cultura dell’impotenza è stata battuta con forza sulle strade di Tunisi.
Ora, questa gioventù deve tenere aperto il processo rivoluzionario, trasformando l’insurrezione in macchina di governo costituente. Non si può lasciare in mano alle vecchie élites (né socialiste, né democratiche, né islamiste) le trasformazioni della costituzione del paese. D’altra parte, i tunisini hanno meno bisogno oggi di una nuova costituzione di quanto invece abbiano bisogno di un processo costituente allargato al paese tutto intero – ivi comprese le forze armate, la magistratura, le università. Il potere legislativo e la governance necessaria per rimettere in moto il paese devono essere direttamente esercitati dai giovani e dai gruppi rivoluzionari, organizzandosi in tutti i luoghi nei quali farlo sia possibile ed urgente. Ma tutto ciò si può fare se si evita per il maggior tempo possibile (secondo quei progetti illuministi di costituzione democratica dei quali parlavamo, questo tempo non poteva essere inferiore ad un decennio) la fissazione di forme di rappresentanza stabile. L’agilità del potere globale, delle sue banche, dei suoi istituti centrali, è davvero grande: non avrebbero difficoltà, quei signori, a trovar (e pagare) qualche socialista o qualche islamista per determinare equilibri a loro favorevoli! L’insurrezione è stata agile e deve trovare altrettanta agilità nel muoversi contro il potere globale e le sue emanazioni mediterranee, che già stanno concentrandosi contro il pericolo estremo dell’insurrezione tunisina e dell’espansione di questa al Maghreb. Ricordiamoci (non era appunto la tua preoccupazione, compagno A.?): se non costruiamo comitati di azione costituente, saranno gli islamici che, rigoristi o moderati, riporteranno la politica nelle moschee. Mentre invece più ci sarà politica democratica e costituente, più ci sarà laicità…
Ciao, continuiamo a scambiarci informazioni. Si respira aria nuova, da qualche tempo, un po’ dappertutto. Attendendo l’Algeria!
Toni Negri
P.S: Se aprite i giornali economici occidentali, ci sono quelli che, da destra, prima di tutto conversano sulla caduta delle note del debito sovrano tunisino da parte delle agenzie di notazione. Moody’s ha già degradato la nota del debito sovrano tunisino e ha cambiato la prospettiva da stabile a negativa. Sul medesimo argomento, da sinistra, ci si lamenta di questa decisione perché, al contrario, si insiste sul fatto che anche l’insurrezione è… produttiva. La fine dei prelevamenti mafiosi sull’industria tunisina dovrebbe permettere una ripresa della crescita. Ma di quale crescita? Della povertà, della precarietà?
Quanto alla stampa politica, da destra si moltiplicano le minacce. Attenzione, cittadini tunisini, perché se esagerate, l’esercito è già pronto alla repressione. Proprio quell’esercito che vi ha aiutato a liberarvi da Ben Alì – continuano i commentatori di destra. Non incrementate la paura del vuoto. Ma da sinistra, esaurito un breve momento di gioia, che cosa si richiede ormai? Ora che Ben Alì se ne andato, il paese saprà ricostruire il suo apparato di Stato e condurre una transizione pacifica verso la democrazia? Solo questo chiede la sinistra?
In realtà, da un lato e dall’altro, la preoccupazione è tanto alta quanto è stata la sorpresa. Diventerà la transizione della Tunisia verso la democrazia un esempio, un laboratorio, per l’interno mondo musulmano? Ma se è solo questo che si vuole, è davvero poco nuovo, anzi, è davvero vecchio: è semplicemente nuovo colonialismo.
Caro A., non spaventiamoci a pensare una nuova costituzione, un nuovo processo costituente, nuovi strumenti della potenza democratica dei cittadini. Nel Maghreb, in Algeria, in Tunisia e poi anche in Egitto ci sono stati momenti di grande e profondo sviluppo di una democrazia costruita dal basso. Smentiamo la pochezza repressiva dei commentatori americani ed europei.
P.P.S: rileggo questa mia lettera prima di mandartela, siamo il 28 gennaio, l’Egitto brucia.
http://uninomade.org/lettera-ad-un-amico-tunisino/
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Seconda lettera ad un amico tunisino 23.03.2011
di TONI NEGRI
Caro A.,
ci siamo sentiti dopo che l’”alleanza dei volenterosi” ha cominciato a bombardare la Libia, in nome dei “diritti dell’uomo”. Ignobile, assassina mascherata. Tu noti correttamente: la controrivoluzione è cominciata. La Libia è il punto debole, equivoco della rivoluzione araba – ecco dunque dove si poteva prima di tutto attaccare, imputando alle buffonate di un Raìs la causa di una generale restaurazione. Si sono messi tutti d’accordo: ogni mezzo è buono per abbattere un tiranno… Gheddafi è certo un tiranno – tu aggiungi – ma gli altri, i Sark, i Cameron, i Berlusca e – dulcis in fundo – Obama, non sono dei tiranni ma una sola volontà li muove: controllare, cioè disciplinare e/o neutralizzare, la rivoluzione araba. L’intervento contro la Libia costituisce il precedente giuridico, la punta di diamante di un dispositivo che si presenta come “ingerenza morale” e difesa della ribellione della Cirenaica – non è dunque un intervento imperialista, neocoloniale ma democratico e fraterno, attento ai diritti dell’uomo. Abbiamo altre volte chiamato imperiale tale dispositivo. Attaccando un mostro si prendono le misure per costruire per tutti nuove regole di controllo. Sono regole diverse per ciascun paese, una governance di controllo e/o repressione della rivoluzione. Ma questa rivoluzione – tu insisti – non la si può controllare. Quando le moltitudini si ribellano sono esse che decidono che cosa vogliono fare del loro avenire. E se al loro interno riconoscono germi o residui di tirannia, sono esse che se ne liberano. Questo noi credevamo si chiamasse democrazia!
Quanto sono d’accordo con te. Sai, mio caro amico, questo evento libico s’è dato negli stessi giorni delle celebrazioni dei 150mo del Risorgimento italiano. Quante analogie ci sono fra quello che avviene chez vous e quell’episodio – tanto grande quanto esso stesso ambiguo. Non è strano infatti che le potenze centrali vogliano regalarvi qualcosa che assomiglia al Risorgimento – una rivoluzione ben tornita, “gattopardesca”, come quelle europee del XIX° secolo dove, per gestire lo sviluppo e l’accumulazione capitalista, per sconfiggere quello che allora si chiamava “repubblica e socialismo”, funzionavano aristocrazie e mafie imprenditoriali. Quel modello – un po’ biecamente – lo ripete Obama: come fece allora Pio IX° in Italia, ha (un anno fa al Cairo) tirato la pietra del rivolgimento arabo, un “siamo tutti berlinesi” adeguato alla novità geopolitica e, subito dopo, ha nascosto la mano. Ora elabora con le potenze ex-coloniali la governance di controllo.
Ma non siamo più nel XIX°, siamo nel XXI° secolo: qui non comandano più le aristocrazie e gli imprenditori locali ma i finanzieri e il capitale globale cui erano già fermamente legati i vostri tiranni. Lo sviluppo non è più solo barbara accumulazione, sofferta e lavorata da popoli e nazioni separati, ridicolmente indipendenti nella loro miseria, ma è il prodotto di moltitudini messe a lavoro nella cooperazione sociale. Sono la cooperazione sociale e questo comune che vanno liberati. Questa nostra rivoluzione araba – tu dici – non è solo una rivoluzione politica ma è anche e soprattutto una rivoluzione sociale. Noi non vogliamo più tiranni ma neppure padroni. La grande speranza di questa moltitudine di giovani arabi non è di cambiar padrone ma di toglierlo di mezzo.
L’intervento militare delle potenze occidentali serve dunque a bloccare queste speranze, a introdurre insicurezza per tutti, a selezionare nuovi padroni e complici, a schiacciare la potenza democratica e comune dei nostri movimenti. E se ora gli va male, saranno i moderni e laici “imperiali” che richiameranno in servizio vecchi padroni coloniali e, con loro, gli estremisti, i fanatici religiosi ed i tiranni. Le grandi manovre sono iniziate con l’intervento in Libia.
Ma, caro A., la mia impressione è che il tentativo di blocco e la reazione imperiale siano già traballanti, perché in questo periodo di crisi economica insolubile, di sommovimenti tellurici non solo delle piattaforme oceaniche ma dei poteri globali, i padroni delle multinazionali e le potenze dominanti non hanno più progetto, non hanno una direzione certa – si arrabattono, incapaci di esprimere una prospettiva unitaria sulla quale organizzare il controllo della rivoluzione araba. La Turchia e la Germania hanno disorientato la NATO, Israele ha obbligato Obama ad un decisivo ribaltamento di linea, le monarchie (dall’Atlantico al Golfo) si comportano da monarchie ed hanno chiesto alla République un immediata iniziativa repressiva, i militari algerini continuano ad imperversare con metodi che persino Stalin invidierebbe. Ma la rivoluziona araba continua – soffia sotto le ceneri in Marocco e in Algeria, respira in Tunisia, è già in stato ansioso in Egitto (dove i militari e i Fratelli Mussulmani sono alleati per bloccare il movimento), lotta in Giordania e in Siria, è massacrata nel Barhein e in Yemen, corre sul web fra le genti del Golfo… Mentre, nella nuova prospettiva del “policentrismo globale” per la Rivoluzione araba non si è ancora fatto posto. Nella riconfigurazione geopolitica globale determinata dal “declino americano”, l’ultimo venuto è l’America Latina – ma come faranno a starci anche i fornitori arabi di petrolio se alla rendita fissa dei monarchi si sostituiscono le lotte e le pretese di reddito dei proletari? La “variabile indipendente” di una libera riproduzione della moltitudine?
Tu mi dici che questa rivoluzione deve risvegliare l’Europa. Io penso che non possa che farlo. Tu aggiungi che le terre del Mediterraneo del Sud e quelle del Mediterraneo del Nord sono comuni ai giovani arabi quanto ai giovani europei, perché la nuova forza-lavoro, materiale o immateriale, si valorizza e si muove in quello spazio. E aggiungi ancora che questo movimento continuerà perché esso fa parte della rivoluzione araba, tanto quanto di essa fanno parte la lotta contro i tiranni e quella contro gli “imperiali”. Ed io sono d’accordo con te quando ti esalti raccontando di quel formidabile Ponte sullo Stretto che è stato costruito fra Tunisi e la Sicilia e ti auguri che possa esser percorso in un senso e nell’altro, e che traghetti – dal Sud al Nord e viceversa – un sano odio contro i padroni e contro tutti i nazionalismi. Quando ti ho detto che qui da noi i pacifisti si son messi in moto (in grande minoranza questa volta, molto di più di quando si trattò di battersi contro le guerre in Kossovo e in Iraq), tu, amico mio, hai sorriso – per non dire che mi hai riso in faccia – dicendomi che questa volta i pacifisti non servivano davvero perché è impossibile modificare le cose con testimonianze morali. Qui bisogna invece allargare il mercato del lavoro e inventare nuove eque regole della sua riproduzione, qui si tratta ormai di pagare il petrolio con posti di lavoro. Se dunque c’è pacifismo, esso non può esser messo in campo che come sostegno politico e partecipazione materiale alla rivoluzione sociale araba. Qui c’è in gioco il gruzzolo del futuro, l’organizzazione e la divisione del lavoro attraverso il Mediterraneo, l’energia, molto denaro, e forse grosse porzioni del potere mondiale. Altrimenti – se si eviteranno questi problemi – la guerra libica diverrà lunga, fanatica e coinvolgerà le altre popolazioni arabe e vedrà alla fine solo rovine – fra i libici e fra i “volenterosi”, e certo, nessun vincitore “imperiale”.
In queste convulsioni postunilaterali, dentro il declino delle politiche imperiali americane ed europee, dentro l’indebolimento della NATO, la sola via di uscita consiste nell’agitare nuovamente la lotta di classe – quella dei lavoratori arabi accanto ai lavoratori europei. Bisogna rompere i confini. Per farlo, come tu dici, non è solo necessario schiacciare le sinistre riformiste sotto il peso delle loro responsabilità e la vergogna del loro tradimento, non più solamente interni ma internazionali; è anche urgente muoversi attorno a programmi politici che attraversino le frontiere e rivoluzionino forme e misure del modo di produzione, riconoscendo il comune come base della ricchezza.
http://uninomade.org/seconda-lettera-ad-un-amico-tunisino/
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Per una nuova politica economica in Europa 24.03.2011
Sergio Cesaratto, Carlo D’Ippoliti, Sergio Levrero, Riccardo Realfonzo e Antonella Stirati
Da questo documento è stata estratta una dichiarazione favorevole a una nuova politica economica in Europa, sottoscritta dalle seguenti realtà rappresentative del mondo progressista e della sinistra: AltraMente scuola per tutti, Associazione per il rinnovamento della sinistra, Associazione culturale in Movimento, Centro studi Cercare ancora, Fondazione Buozzi, Fondazione Nenni, Lavoro e Libertà, Le nuove ragioni del socialismo, Marx XXI, Network per il socialismo europeo, Socialismo 2000.
Il 24 e il 25 marzo si tiene a Bruxelles una riunione del Consiglio Europeo sulle misure con cui affrontare la crisi dell’Unione Monetaria Europea (UME). Purtroppo, le scelte che sembrano profilarsi continuano ad essere ispirate ad un approccio conservatore e “rigorista”. È necessaria una campagna che susciti consapevolezza, ed una mobilitazione attorno alla necessità di una svolta nella politica economica europea, che consenta la ripresa della domanda aggregata e quindi rimetta in moto lo sviluppo e la crescita occupazionale.
Le politiche sinora attuate in Europa a sostegno dei paesi “periferici” – spesso caratterizzati da un incremento significativo del rapporto tra debito pubblico e Pil – e quelle che verranno avanzate nel prossimo summit, comportano infatti elevati costi sociali senza risolvere la crisi, anzi aggravandola. Ma a differenza di quanto implicito in quelle politiche, tutti i paesi europei sono egualmente responsabili della crisi, sia quelli forti che quelli periferici, sia quelli debitori che quelli creditori. E come poi diremo meglio, per evitare un aggravamento della crisi alcune proposte ci sembrano essenziali:
– stabilizzazione (non riduzione) dei debiti pubblici dei paesi “periferici” e contestuale impegno della BCE nel sostenere il contenimento del costo del debito; europeizzazione parziale dell’emissioni di titoli pubblici; rilancio delle politiche espansive nei paesi che registrano avanzi della bilancia commerciale (sono questi gli elementi principali di una soluzione che coniughi sostenibilità finanziaria e ripresa della crescita);
– pari passu, riforma delle istituzioni economiche europee, in primis della BCE, con l’obiettivo di politiche fiscali e monetarie coordinate e subordinate al controllo democratico dei cittadini;
– sostegno allo stato sociale privilegiando la produzione di beni pubblici, sociali e culturali a basso impatto ambientale; ridefinizione delle politiche del lavoro al fine di ridurre il grado di precarietà nei rapporti di lavoro e tendenzialmente portare ad una crescita della quota dei salari nel reddito nazionale;
– ripresa della competitività a lungo termine, non attraverso le politiche della concorrenza ma consentendo ai paesi di riappropriarsi di strumenti attivi di politica industriale.
I modelli di sviluppo neo-mercantilisti nei paesi centrali dell’Unione confliggono con queste proposte. Ma la forza degli eventi ha già portato l’Unione ad adottare misure precedentemente impensabili, e i rischi di deflagrazione dell’area euro che le politiche attuali comportano possono aprire spazi alle proposte che qui avanziamo.
La crisi dell’euro, costi sociali e insufficienza delle misure proposte
La crisi economica mondiale, la cui principale ragione di fondo va rinvenuta nella caduta nell’ultimo trentennio della capacità di consumo dei lavoratori dei paesi industrializzati, ha avuto un impatto disomogeneo nell’Unione Monetaria Europea, esaltando la divaricazione tra due aree d’Europa, una “centrale” e forte, e l’altra “periferica” e debole. A ben vedere, infatti, la crescita registrata negli scorsi anni in alcuni paesi della periferia si è rivelata effimera, dal momento che si è tradotta in un boom dell’edilizia residenziale più che in un vero rafforzamento industriale. Al tempo stesso, l’incremento del debito pubblico in Spagna e Irlanda ha avuto origine nella necessità di coprire l’indebitamento del settore bancario verso le banche dei paesi forti, e non dunque in irresponsabili politiche di spesa pubblica. Il più forte aumento dei salari nominali (sebbene non di quelli reali) nella periferia, che è seguito alla pur fittizia crescita, ha accentuato la perdita di competitività di quei paesi. In questa vicenda non ci sono paesi buoni e cattivi, né è corretto definire il debito pubblico di alcuni paesi come un “male” o tanto meno come una responsabilità esclusiva di quei paesi; piuttosto, siamo in presenza di scelte di fondo sbagliate riconducibili alla filosofia neo-liberista. Questa ha ispirato sia il neo-mercatilismo dei paesi centrali (che attraverso la moderazione salariale ha condotto a bassi consumi interni ed esportazioni competitive), sia il maldestro tentativo dei paesi periferici di importare attraverso la moneta unica (che per definizione impedisce accomodamenti del conflitto sociale attraverso gli aggiustamenti del cambio) ulteriori dosi di disciplina, flessibilità e precarietà nel mercato del lavoro. In questo contesto, gli aiuti europei a favore dei paesi che sono stati oggetto di attacchi speculativi sono stati resi disponibili a tassi di interesse elevati che, sommandosi all’imposizione di misure di bilancio restrittive, non potranno che aggravarne la crisi, rendendo vani gli enormi prezzi sociali e occupazionali causati da quelle stesse misure. L’intervento della Banca Centrale Europea (BCE) a sostegno dei titoli pubblici di quei paesi, che costituisce una interessante e positiva novità, è stato però del tutto insufficiente.
Purtroppo, le misure in corso di approvazione in questo summit non modificano tale impostazione. Esse si limitano infatti a un marginale rafforzamento del fondo salva-stati già esistente e a definire l’entità di quello che lo sostituirà nel 2013, con un piccolo ritocco all’ingiù dei tassi usurai praticati alla Grecia. Soprattutto, si deliberano piani di riduzione del rapporto debito pubblico/PIL dei paesi ad alto debito, anche attraverso nuove privatizzazioni, ed un meccanismo di sanzioni per i paesi che non vi si attengono. Queste misure confermano il perdurante orientamento conservatore delle politiche europee, indifferente all’aumento della disoccupazione, ai tagli allo stato sociale e all’istruzione, alle prospettive di milioni di cittadini europei, in particolare a quelle delle giovani generazioni.
Contemporaneamente, la BCE sembra volersi sottrarre al proprio dovere di sostegno dei titoli pubblici dei paesi in difficoltà, mentre al contempo si avvia verso un improvvido aumento dei tassi di interesse che nulla può contro l’aumento dei costi dell’energia, dei beni alimentari e delle materie prime. La filosofia che prevale è quella del rigore. Alla deflazione di salari e prezzi interni, la cosiddetta “svalutazione interna”, è assegnato il compito di far riguadagnare a tali paesi la competitività perduta. Si tratta di una logica distruttiva, che nega prospettive al modello sociale europeo e che rischia di mettere in pericolo la tenuta stessa dell’Unione Monetaria, come chiarito nella “Lettera” sottoscritta da oltre 250 economisti italiani e stranieri nello scorso giugno.
Per una nuova politica economica europea
Cosa proponiamo in alternativa? Per evitare la deflagrazione dell’UME non è possibile fare semplicemente affidamento su un sistema di garanzie all’emissione dei titoli dei paesi fortemente indebitati – i cosiddetti Eurobonds, o l’Agenzia Europea per il debito. Queste proposte, di per sé pure interessanti, sono da sole insufficienti, e diventano null’altro che fumo negli occhi, se accompagnate dall’accettazione di nefaste politiche di bilancio restrittive e da una politica monetaria del tutto indifferente allo sviluppo e all’occupazione e preoccupata solo di contenere l’inflazione. Le forze progressiste e il mondo del lavoro, in Europa e in Italia, devono essere consapevoli che occorre una svolta di politica economica per uscire dalla crisi della zona euro e porre le condizioni per uno sviluppo armonico e duraturo.
Sono quattro le misure da mettere in campo immediatamente per intraprendere un percorso che metta fine al rischio di deflagrazione dell’area euro e permetta una ripresa dello sviluppo e della crescita occupazionale nei paesi periferici:
1. occorrerebbe abbandonare le politiche di abbattimento del debito pubblico, chiedendo ai paesi che hanno maggiori livelli del rapporto debito/Pil di stabilizzare nel medio periodo i livelli attuali dei rispettivi rapporti, come proposto per l’Italia dall’Appello degli economisti del 2006. Contemporaneamente, i Paesi con surplus commerciale dovrebbero abbandonare le politiche di moderazione salariale ed effettuare politiche fiscali espansive, tali da riportare in equilibrio la loro bilancia commerciale e contribuendo in questo modo al rilancio delle esportazioni dei paesi indebitati e alla stabilizzazione del debito in quei paesi. Ciò, congiuntamente a un maggior finanziamento del bilancio europeo dovrebbe contribuire a rilanciare immediatamente la domanda aggregata in Europa;
2. la politica monetaria dovrebbe essere orientata a promuovere lo sviluppo, assicurando tassi di interesse sui debiti pubblici sostenibili (sostanzialmente tenere molto bassi i tassi di interesse a lungo termine), tali cioè da stabilizzare il debito senza mortificare spesa sociale, occupazione e crescita;
3. la dinamica della domanda interna e la politica salariale dovrebbero essere orientate al perseguimento, in particolare nei paesi con avanzi con l’estero, di un tasso di inflazione non inferiore a quello di riferimento europeo – da accrescere al 3%. Al tempo stesso, i salari reali dovrebbero aumentare in ciascun paese non meno della produttività del lavoro. Anche per favorire ciò dovranno essere introdotte forme di tutela quali il salario minimo garantito (come scritto in una recente risoluzione del parlamento europeo) e riforme del mercato del lavoro che riducano la precarietà. I paesi che continuassero a praticare politiche deflazionistiche e restrittive, al fine di realizzare obiettivi d’inflazione inferiori a quello europeo, cercando di guadagnare così competitività a spese dei partner, dovrebbero essere soggetti a misure di pressione volte a determinare un mutamento di quelle politiche;
4. occorrerebbe contrastare la speculazione internazionale e i fenomeni di dumping sociale in particolare da parte dei paesi esterni all’Unione Monetaria, con forme di regolamentazione e imposizione fiscale sulle transazioni finanziarie speculative e sul commercio sleale, e di armonizzazione fiscale.
Le proposte ora delineate non possono non richiedere un mutamento profondo delle istituzioni economiche europee, e in particolare:
a) va ufficializzato il ruolo dell’Eurogruppo (il consiglio dei ministri economici) come sede di coordinamento della politica fiscale e monetaria con l’obiettivo prioritario della piena occupazione;
b) lo statuto della BCE va modificato, contemperando l’obiettivo della stabilità dei prezzi a quello della piena occupazione (similmente a quanto avviene per la FED statunitense). Che scelte vitali per milioni di cittadini, quali quelle della politica monetaria, siano nelle mani di una istituzione tecnocratica non vincolata alle scelte popolari espresse dai Parlamenti nazionali ed europeo, dovrebbe risultare intollerabile. Quindi va valorizzato il ruolo di indirizzo delle politiche economiche.
Le vicende che hanno accompagnato la crisi mostrano che dietro la pressione degli eventi sono possibili rapidi passi in avanti, precedentemente quasi impensabili. La mobilitazione della sinistra europea dovrebbe spingere tale processo più in là, anche accrescendo la coscienza di massa su questi temi. In questo quadro sarebbe possibile rilanciare il modello sociale e cooperativo europeo su pilastri quali:
– politiche del lavoro e distributive volte ad assicurare una più equa distribuzione del reddito che, in un quadro non inflazionistico da realizzarsi col consenso dei lavoratori e delle loro organizzazioni, sostenga attraverso una crescita della parte del prodotto sociale che va ai lavoratori la domanda interna nei vari paesi;
– più armonico equilibrio territoriale ed implementazione di un meccanismo di riaggiustamento rispetto agli squilibri territoriali garantito da un consistente finanziamento del bilancio dell’Unione, che possa assecondare l’ulteriore espansione della domanda;
– sostegno ai sistemi di welfare state come strumento di coesione sociale;
– sostenibilità ambientale con lo sviluppo di consumi sociali ed investimenti in conoscenza e tecnologie sostenibili.
Il rilancio delle competitività nazionali, in particolare nella periferia, non potrà mai avvenire in un quadro di caduta dell’occupazione, delle spese sociali, dei livelli di istruzione e delle innovazioni.
Al riguardo, ciascun paese deve riacquistare la sovranità completa nella politica industriale che includa un intervento attivo del settore pubblico, di programmazione e partecipazione diretta, nei settori industriale, energetico e bancario. I sistemi bancari nazionali vanno in particolare riformati nella direzione di farne uno strumento di supporto ad uno sviluppo reale e sostenibile, non drogato da bolle speculative.
L’Europa a un bivio
Le proposte liberiste e rigoriste in discussione nel summit europeo aggraveranno il carattere dualistico dell’economia europea: un “centro” poderoso che persegue politiche neo-mercantiliste di vendere molto agli altri e comprare poco, e una “periferia” destinata al declino economico, sociale, ambientale e all’instabilità politica. Esse sono infatti profondamente sbagliate e non potranno che accentuare la minaccia della deflagrazione monetaria, sociale e politica dell’Europa. È indispensabile una diversa politica economica volta alla crescita concertata ed equilibrata dell’occupazione e dei consumi sociali, nel rispetto dell’ambiente. Su questi temi il mondo progressista italiano ed europeo deve farsi promotore di una campagna che accresca la consapevolezza e la mobilitazione popolare.
http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/per-una-nuova-politica-economica-in-europa/
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Paolo Leon: “La tassa sulle transazione finanziarie, un provvedimento essenziale”
Sergio Ferrari, 24.03.2011
Il Parlamento europeo ha approvato pochi giorni fa, una risoluzione per l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie (TFT). Si tratterebbe di un prelievo dello 0, 05 % a carico delle società finanziaria e i primi calcoli parlano di una entrata di 200-300 miliardi di euro all’anno. Intervista a Paolo Leon, professore di Economia pubblica all’Università “Roma III”
Il Governo italiano aveva sposato la posizione di quelli che sostenevano che una tale tassa dovesse essere approvato solo su scala globale, che è un modo molto evidente per non farne nulla. Ma questo vuol dire anche che le opposizioni non sono finite e che, quindi, sarà necessario una forte attenzione ai passi successivi.
Quale è il tuo parere generale su questo provvedimento?
Il provvedimento è centrale per riorientare le politiche economiche europee e dei singoli paesi membri. In assenza, il settore finanziario continuerà ad esprimere una propria sovranità monetaria, potendo emettere titoli di qualsiasi genere, sostitutivi dei titoli pubblici acquistati dalla banca centrale in cambio di emissione monetaria. Finché la BCE non svolge il suo ruolo di emissione monetaria per l’Unione Europea, la politica finanziaria e quella economica saranno dettate dalla speculazione finanziaria. Si sbaglia chi ritiene che la TFT avrebbe valore solo se applicata da tutti i partner della globalizzazione; la TFT è il primo passo per restituire sovranità all’Europa. Certo, ridurrà ruolo, influenza e ricchezza dal sistema finanziario europeo, ma è proprio questo che è necessario ottenere, se si vuole evitare l’anarchia della speculazione internazionale. Se gli USA non rispondono con un’analoga TFT, non importa: il mercato americano perderà spazio, mentre si creerà un mercato europeo finanziario (non necessariamente a Londra, se l’UK non intende applicare la TFT).
Rispetto al quadro attuale della crisi economica e in particolare a quella di alcuni paesi europei maggiormente esposti, quali effetti potrebbe avere questo intervento del Parlamento Europeo, sia nell’immediato, come “effetto annuncio”, sia nel seguito quando saranno disponibile effettivamente quelle entrate?
Sulla crisi, e su tutte le crisi che seguono la speculazione senza TFT, questa tassa ha effetti positivi, soprattutto perché consente all’Unione di riaffermare la propria sovranità monetaria, finanziando i deficit dei paesi dell’Euro. Con deficit ridotti, la spesa pubblica può crescere e realizzare una politica economica, industriale, del lavoro, del welfare, ecc.
Sembra che questo intervento del Parlamento Europeo segnali finalmente una uscita dal tunnel della mainstream che aveva colpito anche la sinistra. Se cosi fosse, quale intervento ti aspetteresti ora in coerenza con questa prima uscita? E quale provvedimento sarebbe inoltre auspicabile a quel livello istituzionale?
Subito dopo la TFT, il Parlamento dovrebbe affermare la propria sovranità sulla BCE; non potrà cambiare il Trattato di Lisbona, che non è una costituzione, e perciò può essere cambiato solo dai firmatari. Però potrebbe forzare la mano ai governi costringendoli a rivedere almeno le norme riguardanti la BCE, rifiutandosi di approvare i bilanci proposti dal Consiglio Europeo e dalla Commissione. Lo scontro con la Germania è inevitabile, ma è proprio da un conflitto che può nascere una vera Federazione Europea.
Da noi in Italia siamo in tutt’altre faccende affaccendati e l’unico movimento che si nota in maniera evidente è quello del declino generale, sociale, culturale, economico, industriale, etico… Se, tornando all’intervento del Parlamento europeo, dall’Europa dovessero arrivare risorse finanziare per lo sviluppo e in particolare per la ricerca e per gli investimenti infrastrutturali, saremmo in grado di evitare di buttarli, magari con il plauso della Lega, dal ponte di Messina?
Se la TFT funziona, il volume delle transazioni finanziarie si ridurrà; così, non è il gettito della tassa il suo scopo. Naturalmente un gettito ci sarà, e questo dovrebbe essere l’equivalente di un tributo europeo, sul quale indebitare l’Unione perché finanzi progetti nei paesi euro – il piano Delors, insomma. Non si tratterebbe di progetti nazionali, ma di spesa decisa e studiata dal Parlamento europeo, per l’Europa.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=17327
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Italia, nuovo test per la tubercolosi 24.03.2011
Un team di ricerca tra Roma e Sassari ha sviluppato un innovativo test per capire se l’infezione è in corso o è latente. Lo studio su PLoS
di Valentina Arcovio
È una malattia che viene dal passato, ma che ancora miete all’incirca 2 milioni di vittime all’anno. Da qui l’idea di celebrare oggi la Giornata mondiale della tubercolosi, una malattia a cui neanche l’Europa è immune. In Italia, con i suoi 4.500 casi all’anno e in piena emergenza immigrati, da pochi giorni è stato depositato un disegno di legge ad hoc per combatterla. Anche i nostri scienziati però fanno la loro parte. Tant’è che l’ultima arma per smascherare la tubercolosi porta proprio il marchio made in Italy. Si tratta di un nuovo test per la diagnosi in grado di individuare rapidamente se un individuo è affetto da malattia latente (infezione asintomatica) o attiva. Realizzata da un gruppo di ricercatori dell’ università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, dell’ Istituto Nazionale di Malattie Infettive Spallanzani di Roma e dell’ università di Sassari, il nuovo test è stato descritto sulla rivista PLoS One.
Gli studi preliminari sono molto promettenti e dimostrano che con un semplice esame del sangue è possibile distinguere i soggetti effettivamente malati da quelli infettati. Il campione prelevato viene messo a contatto con una proteina del bacillo, chiamata HBHA. Ed è proprio la reazione di questa proteina a svelarci se l’infezione è attiva o latente. Nessuno strumento diagnostico fino ad oggi è stato in grado di rivelare così l’aspetto di questa malattia.
” I risultati ottenuti – spiega Delia Goletti, che ha coordinato la sperimentazione presso lo Spallanzani – dimostrano che la risposta all’HBHA si associa allo stadio di infezione tubercolare latente, permettendoci di distinguere rapidamente coloro che necessitano o meno di una terapia per tubercolosi attiva”. Per sfruttare l’HBHA, la proteina deve avere caratteristiche particolari e per questi motivi è difficile da produrre. ” Ebbene, il nostro gruppo di ricerca – dice Giovanni Delogu, primo autore dell’articolo, che assieme a Giovanni Fadda ha coordinato il gruppo di ricerca presso l’Istituto di Microbiologia dell’università Cattolica di Roma – ha sviluppato un protocollo sperimentale innovativo per ottenere quantità elevate di proteina in tempi rapidi e con costi limitati, aprendo la possibilità all’utilizzo di questo test su larga scala“. La proteina HBHA funge quindi da biomarker di infezione tubercolare latente.
La tubercolosi è un’infezione causata dal Mycobacterium tuberculosis , batterio anche noto come bacillo di Koch, dal nome del suo scopritore (Robert Koch) nel 1882. Dopo l’infezione con il bacillo possiamo distinguere: la malattia attiva, clinicamente evidente e che – se non opportunamente curata – può portare a morte chi lo ha contratto, e l’ infezione cosiddetta latente, che è asintomatica.
Nel mondo si stima che non meno di 2 miliardi di persone abbiano contratto l’infezione nella forma latente e, fortunatamente, solo nel 5-10% di questi casi si può sviluppare la malattia tubercolare vera e propria. Si stima che nel mondo siano 9 milioni e mezzo i nuovi casi ogni anno. Di questi, 440 mila sono forme di tubercolosi resistenti ai farmaci, causa di 150 mila decessi ogni anno. Secondo i dati, resi noti ieri in occasione degli Stati generali della tubercolosi, ancora oggi, un terzo delle persone con tubercolosi non ha garanzia di una diagnosi appropriata e di cure. La comunità internazionale, consapevole della piaga tubercolosi, si propone di realizzare nuovi laboratori diagnostici attrezzati e moderni, espandere le attività di sostegno in aree non ancora raggiunte dagli aiuti, offrire maggiore accesso ai farmaci e mobilitare più risorse. Con l’obiettivo di ridurre del 50% l’incidenza della tubercolosi e i correlati decessi entro il 2015, e di debellare la malattia a livello globale entro il 2050.
Dal canto suo l’Italia, considerata anche l’emergenza immigrati a Lampedusa, ha preparato un disegno di legge ad hoc. I punti principali prevedono di rilasciare un permesso di soggiorno temporaneo per gli immigrati clandestini che sbarcano nel nostro Paese e sono affetti da tubercolosi, mettendo anche il servizio sanitario nazionale a loro disposizione.
Sette le linee d’azione: l’attivazione di percorsi formativi per gli operatori sanitari, l’ottimizzazione dell’ organizzazione dei laboratori per ridurre il ritardo diagnostico, la predisposizione di percorsi facilitati per gli immigrati contagiati e malati, la produzione di farmaci efficaci, promuovere l’arrivo di medicine dall’estero, la diffusione di informazioni all’opinione pubblica sulle forme resistenti, il monitoraggio e la sorveglianza obbligatori, la promozione della collaborazione internazionale. ” Il ddl che ho depositato – dice il senatore del Pd, Ignazio Marino, promotore del disegno di legge – si fonda su esigenze chiare tra cui la necessità di istituire un fondo di cinque milioni di euro, per l’istituzione, fra le altre cose, di un sistema di sorveglianza capillare e di un registro dei malati. Non dobbiamo commettere l’errore di sottovalutare questa malattia, non soltanto per la sicurezza di tutti i cittadini italiani, ma anche per affermare un principio di civiltà e solidarietà: nel nostro Paese, infatti, la metà dei casi di tubercolosi è diagnosticata in persone immigrate e i luoghi in cui la trasmissione è più facile sono i dormitori per i senzatetto, le carceri, gli ospedali“.
http://daily.wired.it/news/scienza/2011/03/24/italia-test-tubercolosi.html
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Sisma in Giappone: sei giorni per riparare una strada 25.03.2011
Sono bastati appena sei giorni per sistemare e rendere nuovamente attiva la Great Kanto Highway, autostrada squassata dal terremoto registrato in Giappone lo scorso 11 marzo. La porzione di strada interessata dai lavori misura 150 metri ed è stata rimessa a nuovo fra il 17 ed il 23 marzo, grazie alla celerità di istituzioni e dell’azienda responsabile dei lavori.
http://www.autoblog.it/post/32407/sisma-in-giappone-bastano-sei-giorni-per-riparare-una-strada
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Fotovoltaico, i dati corretti secondo gli imprenditori 24.03.2011
Sareste disposti a spendere l’equivalente di un caffè al mese in cambio di energia rinnovabile, scalabile e reperibile ovunque? Facciamo un po’ di controinformazione sul fotovoltaico rispetto a quanto passa normalmente in Tv (stamane Peppe mostra un eclatante esempio) e sulla stampa? E facciamola! Dunque, l’attuale contesto è che siamo nel pieno di una battaglia politica a proposito del rientro del nucleare in Italia. Fin qui nulla di male se da parte del Governo non si usassero dati e informazioni per carpire la buona fede degli elettori e se sopratutto non venissero fatte leggi che vanno nella direzione opposta a quella degli interessi dei cittadini.
Quali sono i dati che non tornano? Sono quelli del fotovoltaico, energia rinnovabile messa a dura prova dall’ultimo decreto del governo e energia in grado di competere per costi e resa con il nucleare. Il 12 e 13 giugno prossimi andremo a votare per esprimere in un referendum il nostro parere rispetto alla costruzione di nuove centrali nucleari e rispetto alla privatizzazione dell’acqua (più legittimo impedimento).
Dunque, la campagna elettorale, dopo che l’incidente alla centrale di Fukushima Daiichi a 15 giorni dal terremoto e dallo tsunami è ancora ben lontano dall’essere risolto. Fatto per cui tra gli italiani, ama anche in Europa si stanno vivendo profondi ripensamenti rispetto alla sicurezza nucleare. Legittimi e affatto catastrofisti, sopratutto per il fatto che comunque le persone non sono mai state preparate e abituate a gestire emergenze nucleari. Dopo il salto per punti i dati corretti secondo gli imprenditori del fotovoltaico così come riportati da Putignano Informatissimo. In fondo alcune mistificazioni passate sulla stampa e poi smascherate.
Il fotovoltaico non sottrae terreno all’agricoltura.
Prendiamo come esempio la Provincia di Padova, che si estende su una superficie di 214.259 ettari. I dati presenti sul sito http://atlasole.gse.it mostrano che sono presenti circa 40 MW di impianti di taglia singola superiore a 50 kW; mentre gli impianti inferiori a questa taglia è pressoché certo siano installati su edifici. Anche ipotizzando che questi 40 MW (cosa altamente improbabile) siano tutti ubicati al suolo, se ne deduce un consumo di meno di 100 ettari: ovvero lo 0.04% della superficie disponibile. Secondo Legambiente in Italia si urbanizzano 50.000 ettari ogni anno per la costruzione di nuovi edifici, strade e aree residenziali. Si capisce quindi come la critica legata all’uso del suolo venga strumentalmente utilizzata solo per attaccare il fotovoltaico.
I conti di Aper sui reali costi in bolletta del fotovoltaico.
Considerando una bolletta media di 425 €/anno si può vedere come 31 € siano destinati alle voci A3, A2 e MCT. Dietro queste sigle si nascondono varie spese che nulla hanno a che vedere con le fonti rinnovabili:
5,2 € sono destinati allo smantellamento delle centrali nucleari. Considerato che le 3 centrali italiane sono state “spente” nel lontano 1987, si può facilmente intuire quale sia l’enorme spreco di denaro anno dopo anno per la messa in sicurezza e la gestione (impossibile) del problema scorie;
2,8 € vengono regalati alla grandi imprese energivore, come cementifici e acciaierie, per fornire loro energia a basso prezzo. L’Unione Europea ha già multato varie volte il nostro Paese perché questa è una pratica di concorrenza sleale;
8,4 € vengono destinati alle cosiddette “assimilabili” ovvero all’energia prodotta bruciando i rifiuti (inceneritori) e gli scarti dei processi di raffinazione del petrolio. In 9 anni sono stati spesi 33 Miliardi di € per sovvenzionare questa energia, altamente inquinante e fonte di gravissime patologie.
Rimangono quindi meno di 15 € all’anno, pari a 1.25 €/mese, di fondi realmente spesi per le rinnovabili e solo parte di questi fondi vanno al fotovoltaico.
Certa stampa noi aiuta
Dal Sole24ore del 1 Marzo 2011 pagina 22: il ministro Romani sostiene che gli italiani “in bolletta hanno pagato 20 Miliardi di incentivi tra il 2009 e il 2010”. Falso: i dati del 2010 non sono ancora noti mentre quelli del 2009 sono pari a 2.1 Miliari di euro (fonte: Autorità per l’Energia).
Dal Corriere della Sera del 3 Marzo 2011 pagina 35: il giornalista Sergio Rizzo riporta che sarebbero state richieste autorizzazioni per 130 GW. Un numero fuori da ogni logica se si considera che, come rilevabile in data odierna dalla home page del sito http://www.gse.it siamo giunti a 3.7 GW, ovvero solo il 2% di quanto riportato dall’autore. L’autore presenta poi il dato della Puglia, dicendo che ben 358 ettari sono stati occupati dal fotovoltaico. Purtroppo non basta dare un numero “grande”: l’astronomica cifra equivale infatti allo 0.02% della superficie complessiva. Nel contempo si dimentica che in Puglia è attiva, a Cerano, la centrale a carbone più inquinante d’Europa: “grazie” a questa centrale un salentino su 3 è a rischio cancro. Nell’altra parte dell’articolo l’autore continua a riportare dati non contestualizzati: prima cita il caso di un impianto non completo in Puglia e poi di un sequestro in Sicilia. Fermo restando che è giusto punire gli speculatori e chi non rispetta le procedure, vale la pena ricordare che sul primo caso l’ing. Trezza del GSE si è espresso dicendo che era l’unico palese caso di violazione riscontrato in centinaia e centinaia di controlli, mentre quanto al sequestro si tratta di un impianto che come detto dall’autore non è “ mai entrato in funzione” e, pertanto, in base al criterio del Conto Energia, non riceverà nemmeno un euro di incentivi.
Dal Sole24ore del 4 Marzo 2011 pagina 5: il titolo dell’articolo fa intuire che si siano fermate le speculazioni grazie alla legge del Governo. Niente di più falso. Il decreto all’art. 23 comma 9-ter reintroduce una potenza massima annuale come nella primissima versione del Conto Energia del 2005. Questo sistema fu modificato proprio per evitare che speculatori senza scrupoli, con in mano solo un pezzo di carta, potessero lucrare sulle autorizzazioni a scapito dei veri investitori.
Dichiarazione dell’AD di ENEL, Fulvio Conti il 5 Marzo: secondo Conti il decreto spinge “allo sviluppo dell’efficienza della tecnologia che progredisce”. Si fatica a capire come si possa fare “sviluppo” o “efficienza” senza un quadro legislativo chiaro. Conti poi dice che ENEL sta costruendo a Catania una fabbrica da 750 Milioni di Euro per produrre moduli fotovoltaici: farebbe bene a ricordare che circa il 40% di tale cifra arriva da una sovvenzione statale e regionale a fondo perduto.
Dal Sole24ore del 6 Marzo 2011: il Ministro Romani sostiene che “questo decreto stabilizza il mercato dando un quadro chiaro sugli incentivi”. E’ quasi ridicolo dover commentare questa frase: non esistono incentivi certi dopo il 31 Maggio 2011 e il mercato è in subbuglio totale.
http://www.ecoblog.it/post/12325/fotovoltaico-i-dati-corretti-secondo-gli-imprenditori
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Tre nuovi patti per l’Europa – Senza aiuti Portogallo a secco entro l’estate – S&P taglia il rating 25.03.2011
dal nostro inviato Adriana Cerretelli
Un colpo di sfortuna: proprio non ci voleva l’improvvisa crisi di governo in Portogallo nel giorno in cui l’Europa, soprattutto l’Eurogruppo, si apprestavano a compiacersi, e a ragione, della grande riforma varata a tambur battente, in meno di un anno, per restituire stabilità e credibilità all’euro: nuova governance economica, nuovo patto di competitività, rafforzamento del patto di stabilità, creazione di un fondo di stabilizzazione permanente (Esm) da 500 miliardi.
Invece della festa, il principio di una nuova possibile emergenza. Dopo Grecia e Irlanda, anche il Portogallo sarà costretto a battere cassa ai partner?
«La mia preoccupazione è sempre una sola: difendere il Portogallo, la moneta unica e il progetto europeo», ha dichiarato José Socrates, il premier dimissionario dopo la bocciatura parlamentare del suo pacchetto di austerità, arrivando al vertice dei capi di Stato e di governo dei 27 che stava per aprirsi a Bruxelles. Prima dell’inizio dei lavori, il tete à tete con la tedesca Angela Merkel. Che è tornata a lodare pubblicamente, dopo averlo già fatto al summit dell’11 scorso, «il suo programma molto esigente e ambizioso di riforme» ricordando che «chiunque ha o avrà responsabilità di governo a Lisbona ne dovrebbe condividere gli obiettivi per recuperare la fiducia dei mercati».
Messaggio chiarissimo: dal rigore non si scappa, sia che il paese si risolva a tirar dritto senza chiedere l’euro-prestito sia che il salvataggio si riveli inevitabile. Saranno in gran parte i mercati a deciderlo. Per ora tanto Socrates, quanto il leader dell’opposizione Pedro Passos Coelho, ieri a Bruxelles per il vertice dei leader popolari europei, negano qualsiasi intenzione di chiedere aiuti. E certo l’Eurogruppo preferirebbe che così fosse. Per una ragione evidente ha lasciato intendere il lussemburghese Jean-Claude Juncker: «Spero che se il Portogallo si deciderà a questo passo, la Spagna non diventi subito dopo il bersaglio dei mercati in uno stupido gioco del domino che metta alle strette un paese dopo l’altro». Domino, l’incubo inconfessabile di tutti.
Detto questo, l’Eurogruppo è pronto a intervenire in caso di bisogno e lo dice forte e chiaro. Tanto che, con una sortita inconsueta, ieri il presidente dell’Eurogruppo ha addirittura quantificato l’ammontare ipotetico del prestito in 75 miliardi di euro. Con 250 effettivi, le risorse dell’Efsf, l’attuale fondo salva-Stati, sono più che sufficienti, anche se è stato rimandato a giugno l’aumento a 440 miliardi. «È positivo avere disponibile una capacità di intervento», ha rassicurato il premier svedese Fredrik Reinfeldt. L’olandese Ruud batte sul tasto della condizionalità, del rigore necessario per ottenerlo.
«Il patto per l’euro è antisociale», «no all’austerità, sì alla crescita e al lavoro» gridavano intanto nelle strade di Bruxelles 20-30mila manifestanti arrivati da mezza Europa, anche dalla Germania, per denunciare una politica indigesta, fatta di troppi sacrifici. Dietro l’appello il Ces, la Confederazione dei sindacati europei. Ma il problema è sentito, reale. Insieme al sospetto, che tanto sospetto non è, che oggi in Europa sia molto più facile per i governi salvare le banche a suon di aiuti pubblici quasi illimitati, invece dei posti di lavoro della gente comune.
Banche, l’emergenza semi-occulta che fa tremare almeno quanto la crisi conclamata dei debiti sovrani, che continua a scuotere l’euro. Non a caso ieri il comunicato finale del vertice ha registrato l’impegno dei leader europei a intervenire a sostegno degli istituti di credito più vulnerabili senza aspettare giugno, cioè senza aspettare l’esito degli stress test. Gli interventi potranno consistere in ristrutturazioni, vendite di asset o passare per il ricorso a nuove iniezioni di capitali pubblici.
Non a caso, del resto, ieri Moody’s ha deciso di abbassare il rating di 30 banche spagnole. Non a caso l’Irlanda, alla disperata ricerca di un rinegoziato sulle condizioni del suo prestito europeo (minori tassi di interesse e scadenze più lunghe), prima di tornare alla carica con i partner aspetta l’esito degli stress test sulle sue banche, che saranno noti il 31 marzo. Proprio nel suo euro-prestito, a disposizione specificamente per rifinanziarle, ci sono in tutto nientemeno che 35 miliardi. Dopo i 46 miliardi di aiuti pubblici, pari al 28% del Pil del paese, che il vecchio governo ha già erogato alle banche. Per non parlare degli altri 96 miliardi di prestiti ricevuti dalla Banca centrale europea.
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-03-24/nuovi-patti-leuropa-salvataggio-221130.shtml
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Warren Buffet attacca l’euro per difendere il dollaro 25.03.2011
Un collasso dell’euro non è affatto escluso. Parola di Warren Buffett, che ha parlato nel corso di una intervista rilasciata al canale televisivo Cnbc. “Mi rendo conto che alcune persone pensano che tale scenario sia impensabile…Ma io non penso che lo sia”, ha detto il guru di Omaha.
Io penso che una persona intelligente debba sapere quando ritirarsi,questo è il caso di Buffet,sono ormai 10 anni che il suo Hedge Found sottoperforma i rendimenti degli indici e siccome è un simbolo storico dell’economia americana, viene strumentalizzato.
Ricordo che il caro Buffet, deve la sua fortuna alla crisi di Wall Street del 29′, quando lui e altri suoi amici, sapendo che la discesa era pilotata, compravano a mani basse mentre tutti vendevano e poi ha sempre mantenuto le sue posizioni, ecco perchè sostiene che tenere le azioni nel lungo renda sempre, certo comprandole a quei prezzi.
In realtà con la crisi euro, si vuole nascondere il reale problema del debito,che sono il Giappone e gli Usa.
Molti dicono be, il debito del Giappone è tutto in mano ai giapponesi,verissimo il 92%,ma dopo la crisi del terremoto e le conseguenze future dovute alla radioattività…..ci sarà la necessità da una parte per i giapponesi di intaccare i risparmi,dall’altra parte del Giappone di aumentare il debito,quello futuro e quello in scadenza chi lo comprerà???
Usa,una nazione praticamente fallita,infatti tutti gli stati federali sono praticamente falliti,la disoccupazione è al collasso,l’immobiliare ai minimi storici e la Cina che vuole togliere il dollaro da moneta di riferimento.
Amici, oggi dobbiamo renderci conto che il mondo economico globale è in declino è i debiti aumenteranno per tutti,ma siccome questo fenomeno sarà generalizzato,non farà altro che determinare una situazione peggiorativa per tutti e far godere chi ha disponibilità per investire in titoli di debito,come già detto in passato.
Questo come sempre è il mio pensiero personale,chiunque di voi voglia argomentare la sua teoria e invitato a farlo,con lo scopo di aiutare tutti a capire meglio quello che ci circonda.
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
http://www.lamiaeconomia.com
http://www.lamiaeconomia.com/2011/03/warrent-buffet-attacca-leuro-per.html
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Da “Zag(c)” simyzag@yahoo.it per ListaSinistra@yahoogroups.com
Persa l’italianità della Roma
Una cordata di investitori americani ha deciso di acquistare la Roma As.
Si quella di Totti. L’accordo pare sia stato raggiunto con la famiglia Sensi. Ora si attende ( come per la Parmalat, come per L’Alitalia, come per Bulgari, come per EDISON) che il governo faccia un decreto ad personam cioè ad “societam”. Cioè che consenta la difesa dell’italianità
della società calcistica. D’altronde come negare il marchio di italianità alla squadra di Totti? Ma forse visto i rimbrotti della Marcegaglia, il governo non si muoverà?
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Cds, finanza, speculazione, Tremonti, Ttf di Andrea Baranes
Speculazione, da che parte sta Tremonti? 23.03.2011
Il ministro dice che la speculazione finanziaria è la peste, ma poi sta con gli untori. La lettera a Tremonti della Campagna 0,05 sulla Ttf
Il nostro ministro dell’Economia non potrebbe essere più esplicito: la speculazione finanziaria è la peste del ventunesimo secolo. Tutti d’accordo, ma come contrastare in pratica tale flagello?
Lo scorso 8 marzo il parlamento europeo ha approvato in plenaria una risoluzione che chiede di adottare una tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf) “senza ulteriori ritardi” nella sola Europa, qualora non ci fosse il consenso internazionale. Una proposta in grado di frenare la speculazione senza impatti negativi su investimenti e risparmio e capace di generare un gettito di grandi dimensioni in un momento di difficoltà per i conti pubblici. In calce a questo articolo potete leggere la lettera inviata al ministro Tremonti (*).
Al di là della Ttf, una seconda notizia riguarda proprio misure per bloccare le speculazioni sul debito pubblico, quelle che hanno massacrato Grecia e Irlanda e che potrebbero volgere le loro mire sul nostro paese. Secondo un articolo del Financial Times dello scorso 10 marzo, diversi governi europei hanno chiesto di bloccare la vendita allo scoperto dei Credit Default Swaps o Cds. Anche in questo caso, la posizione ricalca un voto del parlamento europeo che andava nella stessa direzione. Anche in questo caso, l’articolo sostiene che l’Italia è tra i ppaesi che “si oppongono fortemente” a una messa al bando permanente di queste operazioni.
I Cds sono contratti finanziari derivati per alcuni versi analoghi a un’assicurazione contro un fallimento. Compro un Cds e, nel caso di default dell’impresa o del Paese corrispondente, ottengo un rimborso da chi me lo ha venduto. Rispetto alle assicurazioni c’è però una differenza fondamentale. Nella vita reale non posso assicurarmi contro la possibilità che la casa del vicino vada a fuoco. Il motivo è evidente: se qualcuno appiccasse un incendio io avrei tutto da guadagnarci. Nella finanza tale limite non esiste: posso assicurarmi contro il fallimento di un’impresa nella quale non ho nessun interesse. È così che gli speculatori possono scommettere al ribasso. Compro un Cds sul fallimento di una qualunque impresa. Se l’impresa inizia a andare male salgono le probabilità di default, e di conseguenza costa più caro assicurarsi contro un suo fallimento. Ecco che il mio Cds aumenta di valore, permettendomi di rivenderlo e di guadagnare dalle difficoltà altrui. È proprio questa “vendita allo scoperto” dei Cds che il parlamento e molti paesi europei, ma non l’Italia, vogliono oggi proibire.
Solo una dozzina di anni fa i Cds non esistevano, oggi il loro valore è dello stesso ordine di grandezza del Pil del pianeta. Scommesse sul fatto che i mutuatari subprime negli Usa non fossero in grado di rimborsare i loro debiti sono uno delle cause della trasformazione della crisi immobiliare americana nel tracollo finanziario globale. Scommesse sulle difficoltà della Grecia prima e dell’Irlanda poi hanno contribuito in maniera determinante alle enormi difficoltà economiche e finanziarie dei due Paesi. L’Italia, in ragione del suo gigantesco debito pubblico, potrebbe essere la prossima preda di questi speculatori senza scrupoli.
La posizione italiana appare quindi pesantemente incongruente. Avremmo tutto da guadagnare dall’introduzione di regole efficaci per contrastare la speculazione. Alcune di queste misure non solo esistono e sono tecnicamente fattibili, ma sono portate avanti con grande determinazione dal parlamento europeo e da molti governi dell’Ue.
E noi? Non solo il nostro paese non è in prima fila a fare la sua parte, contribuendo a riportare la finanza a essere uno strumento al servizio dell’economia e dell’insieme della società, e non un fine in se stesso per fare soldi dai soldi nel più breve tempo possibile. Al contrario l’Italia sembra oggi remare contro l’introduzione di queste regole. Cosa abbiamo da guadagnare nel lasciare mano libera agli squali della finanza? Se la speculazione è la “peste del secolo”, come primo passo ci aspettiamo che il nostro esecutivo non sia uno degli untori che si aggira per l’Europa.
( *) Lettera al ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti
Egregio Ministro,
al vertice dei leader dei Paesi dell’Unione europea dello scorso 11 marzo, Germania e Francia hanno nuovamente chiesto l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie – Ttf in Europa. Una proposta in grado di frenare la speculazione senza impatti negativi su investimenti e risparmio e capace di generare un gettito di grandi dimensioni in un momento di difficoltà per i conti pubblici.
Lei ha definito diverse volte la speculazione come “la peste del secolo” e dichiarato che occorre muoversi con forza e decisione per contrastare i movimenti speculativi. Gli effetti distorsivi che la speculazione provoca, si stanno drammaticamente verificando anche in relazione all’attuale crisi giapponese. La Ttf è uno degli strumenti di maggiore efficacia e nello stesso tempo di più semplice applicazione in grado di contrastare comportamenti eticamente inaccettabili. A sostenerlo sono una molteplicità di studi, articoli e pareri, compresi quelli di diversi premi Nobel per l’economia. Questi ed altri studi hanno anche chiarito la fattibilità e l’efficacia di una Ttf introdotta in un numero limitato di Paesi, e in particolare nell’UE o nella zona euro. (1)
Lo scorso 8 marzo il Parlamento europeo, in rappresentanza dei cittadini dell’intera Unione europea, ha approvato in plenaria una risoluzione che chiede di approvare la Ttf “senza ulteriori ritardi” anche su scala europea, se non ci fosse il consenso internazionale. (2)
A giugno del 2010 la Commissione Esteri del Parlamento italiano ha approvato tre risoluzioni, a firma tanto di esponenti della maggioranza quanto dell’opposizione, che impegnavano il governo a dare seguito alla Ttf e a lavorare con i Paesi favorevoli nella direzione di una sua introduzione. (3)
Un primo disegno di Legge per introdurre una Ttf è stato depositato alla Camera a settembre 2010, firmato da parlamentari sia della maggioranza sia dell’opposizione. La proposta prevede di introdurre la Ttf in Italia nel momento in cui si dovesse raggiungere un numero sufficiente di Paesi europei che approvano una misura analoga. (4)
I vantaggi della Ttf sarebbero con ogni probabilità ancora più evidenti in Italia rispetto agli altri Paesi europei. Nel nostro Paese l’ossatura del sistema produttivo è fondata sulle piccole e medie imprese. Chi esporta vedrebbe ridotto il rischio di speculazioni sulle valute; la quotazione del petrolio e delle materie prime sarebbe più stabile e prevedibile; diminuirebbero le possibilità di attacchi sui titoli di Stato, a tutela dei piccoli risparmiatori. Parliamo di una maggiore stabilità finanziaria, di minori rischi nell’export, di maggiore facilità nel reperire i capitali sui mercati finanziari, del miglioramento dei conti pubblici, con evidenti vantaggi per il debito pubblico e l’economia nazionale.
Al già menzionato vertice dei leader europei dell’11 marzo, a fronte della proposta avanzata da Germania e Francia, diversi Paesi si sono detti a favore, tra gli altri Austria, Belgio, Grecia, Spagna, Slovacchia, Portogallo. Governi con orientamenti politici diversi tra di loro ma concordi sulla necessità di intervenire subito per chiudere una “finanza casinò” che ha impatti devastanti per i cittadini e l’economia europee. A fronte di questo blocco di Paesi, a quanto ne sappiamo, l’unico governo ancora esplicitamente “scettico” è quello italiano.
Un recente sondaggio commissionato da Oxfam International e condotto in alcuni Paesi dell’Unione Europea dimostra che vi è un ampio sostegno dell’opinione pubblica verso l’introduzione di questa tassa. In Italia il 59% degli intervistati si è dichiarato favorevole e l’85% ritiene che il settore bancario e finanziario debba contribuire a riparare i danni causati dalla crisi economico-finanziaria. (5)
In considerazione di questa molteplicità di evidenze a favore della Ttf e del diffuso sostegno in Italia e in Europa per una sua introduzione in tempi radpidi, Le scriviamo quindi per chiederLe conto di quella che ci sembra una profonda incongruenza. L’Italia è pronta a fare la sua parte per arginare la speculazione? Il nostro governo vuole contribuire a riportare la finanza a essere uno strumento al servizio dell’economia e dell’insieme della società, e non un fine in se stesso per fare soldi dai soldi nel più breve tempo possibile? Alle dichiarazioni è possibile fare seguire decisioni e azioni coerenti contro la “peste del secolo”?
Certi di un Suo interesse e in attesa di una Sua risposta, Le inviamo i nostri migliori saluti,
Andrea Baranes
portavoce della
Campanga ZeroZeroCinque
www.zerozerocinque.it
info@zerozerocinque.it
(1) Per un riassunto dei principali argomenti sulla fattibilità della Ttf su scala europea / zona euro: www.zerozerocinque.it
(2) www.europarl.europa.eu/it/
(3) www.camera.it/
(4) Proposta di Legge presentata il 30 settembre 2010, Atto N. 3740
(5) Sondaggio commissionato da Oxfam International e realizzato a marzo 2011 da YouGov Plc. In Italia il sondaggio ha riguardato un campione di 2.004 intervistati con un’equa ripartizione per genere, età e provenienza geografica.
Acli, ActionAid Italia, Adiconsum, Adiconsum Basilicata, Amref, Arci, Attac, Azione Cattolica, Banca Popolare Etica, Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Cgil, CINI – Coordinamento Italiano Network Internazionali, CISP, Comitato Italiano per la Sovranità Alimentare, Cisl, Cittadinanzattiva, Consorzio Città dell’Altra Economia, Consorzio Sociale Goel, CVX Italia, Daquialà, Economia Alternativa, Equociquà, Fa’ la cosa giusta, Fair, Fiba Cisl, FOCSIV – Volontari nel mondo, Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Gcap – Coalizione Italiana Contro la Povertà, Legambiente, Lega Missionaria Studenti, Libertà e Giustizia, Lunaria, Microdanisma, Mani Tese, Mag Verona, Oxfam Italia, Reorient, Save the Children, Sbilanciamoci, Social Watch Italia, UIL, Un ponte per, Volontari Terzo Mondo – Magis, Wwf Italia
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Speculazione-da-che-parte-sta-Tremonti-8095
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di Manlio Dinucci
Corsa agli armamenti, la Russia suona la carica 24.03.2011
Missili intercontinentali, balistici e da crociera, sottomarini nucleari: s’allunga la lista della spesa di Putin
Quella contro la Libia, che il presidente Napolitano definisce non una guerra ma un’operazione dell’Onu, sta già provocando un pericoloso «effetto collaterale». Il primo ministro russo Vladimir Putin, premesso che quello libico non è un regime democratico e che la situazione è resa complessa dalle relazioni tribali, ha definito due giorni fa la risoluzione del Consiglio di sicurezza una sorta di chiamata medioevale a una crociata per giustificare un’aggressione dall’esterno, col pretesto di difendere i civili. Ha quindi detto che – dopo gli attacchi aerei Usa contro Belgrado, poi contro l’Afghanistan e l’Iraq e ora contro la Libia – questa sta divenendo una «tendenza stabile nella politica statunitense». E ha concluso: «Ciò conferma che la Russia fa bene a rafforzare le sue capacità di difesa». Alle parole sono seguiti subito i fatti. Ieri il ministero russo della difesa ha annunciato che doterà quest’anno le forze strategiche di altri missili intercontinentali, 36 balistici e 20 da crociera, e di altri due sottomarini nucleari. Con uno stanziamento pari a 665 miliardi di dollari per il 2011-2020 saranno acquisiti: 5 veicoli spaziali, 21 sistemi di difesa missilistica, 35 bombardieri, 109 elicotteri da attacco, 3 sottomarini nucleari e una unità di superficie. Nel 2013 gli scienziati russi svilupperanno un nuovo missile balistico intercontinentale con base a terra e la produzione di missili sarà raddoppiata con un investimento pari a 2,6 miliardi di dollari.
Saranno in particolare sviluppati i missili balistici per i sottomarini d’attacco nucleare. Quest’anno verranno effettuati altri test del missile Bulava, che sarà installato sui nuovi sottomarini strategici della classe Borey. Un singolo sottomarino può lanciare 16 missili nucleari, con gittata di 8-10mila km, ciascuno dei quali rilascia fino a 10 testate multiple indipendenti. Ha quindi una capacità distruttiva quasi pari a quella del sottomarino Usa della classe Ohio, armato di 24 missili Trident a testate multiple. Il Bulava, come il missile balistico con base a terra da cui deriva, è progettato per forare lo «scudo anti-missili» che gli Usa stanno sviluppando a scopi offensivi (darebbe loro la capacità di neutralizzare la ritorsione dopo aver colpito per primi): con le navi da guerra contro la Libia hanno schierato nel Mediterraneo le prime unità della componente navale dello «scudo», le lanciamissili Monterey e Stout. Il Bulava può rilasciare false testate per evitare i missili intercettori.
La guerra contro la Libia sta dunque provocando una accelerazione nella corsa agli armamenti nucleari. Soprattutto perché essa viene usata dal Pentagono quale banco di prova per armamenti strategici, come i bombardieri stealth B-2 Spirit da attacco nucleare che, partendo dagli Stati uniti, vanno a colpire gli obiettivi in Libia con armi non-nucleari, esercitandosi così, in una azione bellica reale, a un eventuale impiego in una guerra nucleare. In tal modo il nuovo trattato Start tra Usa e Russia, appena ratificato, viene nei fatti vanificato.
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Libia, rivoluzione telecomandata 25.03.2011
Rivelazioni sul coinvolgimento dei servizi segreti francesi nella pianificazione delle rivolte anti-Gheddafi e sulla presenza in Cirenaica di forze speciali angloamericane fin dalle prime fasi della ribellione, se non da prima
Se non fosse per l’aspro scontro diplomatico in atto tra Italia e Francia sulla Libia, difficilmente saremmo venuti a conoscenza degli imbarazzanti retroscena della ‘rivoluzione libica’ pubblicati ieri dalla stampa berlusconiana, che dimostrano come la rivolta popolare contro Gheddafi sia sta orchestrata da Parigi fin dallo scorso ottobre.
Il quotidiano Libero, citando documenti riservati dell’intelligence francese (ottenuti dai servizi italiani) e basandosi su notizie pubblicate dalla newsletter diplomatica Maghreb Confidential, racconta come l’uomo più fidato del Colonnello, il suo responsabile del protocollo Nouri Masmari (nella foto con Gheddafi), lo abbia tradito rifugiandosi a Parigi lo scorso 21 ottobre.
Lì, nel lussuoso hotel Concorde Lafayette, questo inquietante personaggio ha ripetutamente incontrato i vertici dei servizi francesi, fornendo loro informazioni politiche e militari utili per rovesciare il regime libico e contatti libici fidati per organizzare una rivoluzione.
In base a queste indicazioni, il 18 novembre agenti francesi al seguito di una missione commerciale a Bengasi hanno incontrato il colonnello dell’aeronautica Abdallah Gehani, pronto a disertare. Gheddafi scopre qualcosa e dieci giorni dopo chiede alla Francia di arrestare Mesmari, ma lui chiede asilo politico e continua a tessere le sue trame.
Il 23 dicembre arrivano a Parigi altri tre libici: Faraj Charrant, Fathi Boukhris e Ali Ounes Mansouri, ovvero al futura leadership della rivoluzione libica. Mesmari, sempre sorvegliato/protetto dai servizi francesi, si incontra con loro in un lussuoso ristorante degli Champs Elysèe.
Subito dopo Natale arrivano a Bengasi i primi ”aiuti logisitici e militari” francesi.
A gennaio Mesmari, soprannominato dagli 007 francesi ‘Wikileak’ per tutte le informazioni che rivela, aiuta Parigi a predisporre i piani della rivolta assieme al colonnello Gehani. Ma i servizi segreti libici scoprono le intenzioni di quest’ultimo e lo arrestano il 22 gennaio.
Qui finiscono le rivelazioni di Libero, ma cominciano quelle sull’arrivo di commando di forze speciali britanniche e statunitensi a Bengasi.
Tra il 2 e il 3 febbraio, secondo ”informazioni raccolte in ambienti ben informati” dal blog Corriere della Collera (del massone Antonio De Martini, ex responsabile del movimento repubblicano di destra ‘Nuova Repubblica’), uomini delle Sas e delle Delta Force sarebbero giunti in Cirenaica per inquadrare e addestrare i futuri ribelli.
Il 17 febbraio scoppia la rivolta in Cirenaica.
Secondo fonti di stampa vicine ai servizi segreti israeliani e pachistani, una settimana dopo, nelle notti del 23 e 24 febbraio, sbarcano a Bengasi e a Tobruk centinaia di soldati delle forze speciali britanniche, statunitensi e anche francesi per aiutare i rivoltosi a sostenere la dura reazione militare del regime di Gheddafi: i gruppi ribelli vengono organizzati in unità paramilitari e addestrati all’uso delle armi pesanti catturate dai depositi governativi.
La consistente presenza di forze militari inglesi in Cirenaica fin dalle prime fasi della rivolta anti-Gheddafi (almeno da fine febbraio) verrà successivamente confermata dal giornale britannico Sunday Mirror.
I primi di marzo, secondo il settimanale satirico francese Le Canard enchainé, i servizi segreti francesi della Dgse hanno fornito ai ribelli libici un carico di cannoni da 105 millimetri e batterie antiaeree camuffato come aiuto umanitario e accompagnato da addesratori militari.
I mesi di pianificazione portata avanti dall’intelligence francese e il tempestivo, se non preventivo, sostegno militare anglo-americano-francese sul terreno, gettano nuova luce sulla natura della ‘rivoluzione libica’.
http://it.peacereporter.net/articolo/27597/Libia%2C+rivoluzione+telecomandata
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Infertilità: arrivano gli spermatozoi creati in laboratorio 25.03.2011
Una buona notizia per i giovani a rischio di infertilità a causa delle cure anti-tumorali: per la prima volta, alcuni ricercatori della Yokohama City University e del Bioresource Center, in Giappone, hanno creato in laboratorio spermatozoi perfettamente vitali. Ci sono riusciti, si legge nello studio pubblicato su Nature, replicando in vitro tutti i passaggi del lungo e delicato processo che nei mammiferi porta alla maturazione delle cellule germinali maschili.
Nei testicoli dei mammiferi, la spermatogenesi dura oltre un mese. Si parte dagli spermatogoni (cellule indifferenziate con doppi cromosomi) per arrivare agli spermatidi (cellule sessuali con singoli cromosomi). Dopo aver acquistato alcuni caratteri indispensabili alla fecondazione, come il flagello necessario per muoversi, gli spermatidi diventano finalmente spermatozoi. La complessità del processo, orchestrato da una cascata di segnali ormonali, è tale che nessuno era mai riuscito a replicarlo con successo in laboratorio.
A fare la differenza nell’esperimento giapponese, è stata la tecnica scelta per coltivare le cellule in vitro. Per mantenere integro l’ambiente chimico intorno agli spermatogoni in maturazione, i ricercatori non hanno coltivato le singole cellule, ma frammenti di testicoli prelevati da topi appena nati. Questi campioni di tessuto sono stati messi in agarosio, uno zucchero composto usato come supporto, e bagnati solo in parte da un siero chiamato KSR (knockout serum replacement), efficace nel promuovere la differenziazione degli spermatogoni grazie ai lipidi dell’albumina. Questa tecnica, che ha mantenuto in vita il processo di spermatogenesi per oltre due mesi, si è rivelata ottimale perché bilancia l’apporto di nutrienti dal mezzo di coltura e lo scambio di gas con l’atmosfera.
Una volta ottenuti gli spermatozoi, ne è stata verificata la “buona salute” con un test di fertilità: la progenie nata dalla fecondazione di ovociti con queste cellule germinali era feconda. Anche se occorre chiarire quali siano esattamente i segnali che innescano la maturazione dello sperma, la tecnica è un’ottima soluzione per cercare di porre rimedio ai problemi di infertilità causati dalle chemio e radioterapie nei preadolescenti affetti da tumore.
Riferimenti: Nature doi:10.1038/471453a
http://www.galileonet.it/articles/4d8b3c4872b7ab25d000001a
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Blitz degli studenti alla Borsa di Milano 25.03.2011
Una trentina di studenti universitari e alcuni docenti dell’Accademia delle belle arti di Brera hanno fatto irruzione all’interno del palazzo della Borsa in piazza Affari a Milano. Nella sala delle conferenze, tra striscioni e cartelli Antonio Caronia ha dato inizio a una lezione pubblica. “Per parlare di economia, immaginario e cultura”, ha spiegato. Una lezione subito interrotta dalle forze dell’ordine, che hanno costretto tutti a lasciare l’edificio e trascinato alcuni studenti che si erano seduti a terra in atto dimostrativo. “Questo – ha continuato Caronia all’esterno dell’edificio – è il tempio in cui giornalmente bruciano miliardi di euro, succhiando la vita alla gente per attività che possiamo definire sanguinarie, perché affamano e milioni di persone”. Al fianco degli studenti e del collettivo studentesco ‘Cantiere’, anche Franco Berardi detto Bifo, già leader studentesco durante le proteste del 1977 e oggi docente a Brera. Bifo punta il dito contro il mondo della finanza: “Non ci sarebbe stato bisogno di tagli o di riforme Gelmini – spiega – se le rendite finanziarie fossero tassate in misura equa”. di Franz Baraggino
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/03/25/blitz-degli-studenti-alla-borsa-di-milano/99975/
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Il presidente dell’Uganda Museveni interviene su Gheddafi e la crisi libica 26.03.2011
Ho tradotto dall’inglese (forse già a sua volta una traduzione) un intervento del presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, su Gheddafi e la Libia. Ho trovato affascinante questo punto di vista africano sulla crisi e su un personaggio così controverso come Gheddafi. Un intervento fine e articolato, pieno di intelligenza politica e di esperienza vissuta, quale non siamo più abituati a sentire dai nostri politici occidentali. (Per favore segnalate eventuali errori) [ore 11:38 – ho apportato vari miglioramenti alla traduzione]
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Quando Muammar Gheddafi prese il potere nel 1969, ero studente universitario del terzo anno a Dar-es-Salaam. Accogliemmo la notizia con favore perché si inseriva nella tradizione del colonnello Gamal Abdul Nasser in Egitto, che aveva una posizione nazionalista e pan-arabista.
Ben presto, però, sorsero problemi con il colonnello Gheddafi, per quanto riguarda l’Uganda e l’Africa nera:
1. Idi Amin giunse al potere con il sostegno di Gran Bretagna e Israele, perché pensavano che fosse abbastanza ignorante da poter essere usato da loro. Amin, invece, si rivoltò contro i suoi sponsor, quando si rifiutarono di vendergli armi per combattere la Tanzania. Purtroppo, il colonnello Muammar Gheddafi, senza sufficienti informazioni sull’Uganda, saltò a sostegno di Idi Amin. Questo perché Amin era un ‘musulmano’ e l’Uganda era un ‘paese musulmano’, dove i musulmani venivano ‘oppressi’ dai cristiani. Amin ha ucciso extra-giudizialmente un sacco di persone e Gheddafi è stato associato a questi errori. Nel 1972 e nel 1979, Gheddafi ha inviato truppe libiche a difendere Idi Amin quando lo abbiamo attaccato. Mi ricordo di un bombardiere Tupolev 22 libico che cercava di bombardarci in Mbarara nel 1979. La bomba è finita in Nyarubanga perché i piloti erano spaventati. Essi non potevano avvicinarsi per bombardarci con precisione. Avevamo già abbattuto molti MIG di Amin usando missili terra-aria. I fratelli e le sorelle della Tanzania facevano parte di questa lotta. Molte milizie libiche sono state catturate e rimpatriate in Libia da parte della Tanzania. Questo è stato un grosso errore da parte di Gheddafi e una aggressione diretta contro il popolo dell’Uganda e dell’Africa orientale.
2. Il secondo grosso errore di Gheddafi fu la sua posizione per un Governo Continentale dell’Unione Africana “subito”. E’ dal 1999 che spinge per questo obiettivo. Ora, i neri sono sempre educati. Essi, di norma, non vogliono offendere gli altri. Questo si chiama: “obufura” in Runyankore, “mwolo” in Luo – trattare, soprattutto gli stranieri, con cura e rispetto. Sembra che alcune delle culture non-africane non hanno ‘obufura’. È possibile sentire una persona parlare con una persona matura, come se lui / lei stesse parlando con un bambino dell’asilo. “Dovresti fare questo, dovresti fare quello, ecc”. Abbiamo cercato educatamente di segnalare al colonnello Gheddafi che ciò era difficile nel breve e medio termine. Dovremmo, invece, mirare alla Comunità Economica dell’Africa e, ove possibile, mirare anche a federazioni regionali. Il Col. Gheddafi non voleva cedere. Egli non rispettava le norme dell’Unione Africana (UA). Cose che erano state oggetto di precedenti riunioni venivano riesumate da Gheddafi. Non teneva conto di decisioni prese da tutti gli altri capi di stato africani. Alcuni di noi sono stati costretti a prendere posizione e opporsi alla sua posizione sbagliata e, lavorando con gli altri, abbiamo ripetutamente sconfitto la sua posizione illogica.
3. Il terzo errore è stata la tendenza del Col. Gheddafi ad interferire negli affari interni di molti paesi africani usando i soldi che la Libia possiede in misura maggiore di quei paesi. Un esempio lampante è stato il suo coinvolgimento con i leader culturali dell’Africa Nera – re, capi, ecc. Poiché i leader politici dell’Africa si erano rifiutati di appoggiare il suo progetto di un governo africano, Gheddafi, incredibilmente, pensò che poteva aggirarle e lavorare con questi re per attuare i suoi desideri. Ho avvertito Gheddafi ad Addis Abeba che provvedimenti sarebbero stati presi contro ogni re ugandese che si fosse immischiato in politica perché era contro la nostra Costituzione. Ho promosso una mozione ad Addis Abeba per espungere dagli atti dell’UA tutti i riferimenti a re (leader culturali) che avevano fatto discorsi nel nostro forum, perché erano stati invitati illecitamente dal colonnello Gheddafi.
4. Il quarto grosso errore è stato comune alla maggior parte dei leader arabi, incluso Gheddafi in una certa misura. Questo riguarda la gente del Sud Sudan che soffre da lungo tempo. Molti dei leader arabi appoggiarono o ignorarono le sofferenze del popolo nero in quel paese. Questa ingiustizia ha sempre creato tensione e frizione tra noi e gli arabi, tra cui Gheddafi in una certa misura. Tuttavia, devo rendere merito a S.E. Gheddafi e a S.E. Hosni Mubarak per essersi recati a Khartoum poco prima del referendum in Sudan e consigliare S.E. Bashir di rispettare i risultati del voto.
5. Qualche volta Gheddafi e altri radicali del Medio Oriente non prendono le distanze a sufficienza dal terrorismo anche quando sono in lotta per una giusta causa. Il terrorismo è l’uso indiscriminato della violenza – non fa distinzione tra obiettivi militari e non militari. I radicali del Medio Oriente, a differenza dei rivoluzionari dell’Africa nera, sembrano dire che ogni mezzo è accettabile finché stai combattendo il nemico. È per questo che dirottano gli aerei, usano l’omicidio, mettono bombe nei bar, ecc. Perché bombardare i bar? Le persone che vanno al bar sono normali buontemponi, non persone politicamente impegnate. Siamo stati insieme con gli arabi nella lotta anti-coloniale. I movimenti di liberazione dell’Africa nera, però, si sono sviluppati in modo diverso da quelli arabi. Dove abbiamo usato le armi, abbiamo combattuto i soldati o sabotato le infrastrutture ma mai mirato a non combattenti. Questi metodi indiscriminati tendono a isolare le lotte del Medio Oriente e il mondo arabo. Sarebbe bello se gli estremisti in questi settori potessero razionalizzare i loro metodi di lavoro in questo campo dell’uso della violenza indiscriminata.
Questi cinque punti di cui sopra sono alcuni dei punti negativi in relazione al Col. Gheddafi, per quello che ha riguardato i patrioti dell’Uganda nel corso degli anni. Queste posizioni del Col. Gheddafi sono state spiacevoli e non necessarie.
Tuttavia, Gheddafi ha avuto anche molti punti positivi, obiettivamente parlando. Questi punti positivi sono stati a favore dell’Africa, della Libia e del Terzo Mondo. Mi occuperò di essi punto per punto:
1. Il colonnello Gheddafi ha tenuto una politica estera indipendente e, naturalmente, anche politiche interne indipendenti. Non riesco a capire la posizione dei paesi occidentali che sembrano risentirsi di leader indipendenti e sembrano preferire burattini. I burattini non sono buoni per nessun paese. La maggior parte dei paesi che sono passati da uno status da Terzo Mondo ad uno da Primo Mondo a partire dal 1945 hanno avuto leader indipendenti: Corea del Sud (Park Chung-hee), Singapore (Lee Kuan Yew), Repubblica popolare cinese (Mao Tse Tung, Chou Enlai, Deng Xiaoping, il Maresciallo Shangkun Yang, Li Peng, Jiang Zemin, Hu Jing Tao, etc), Malesia (Dr. Mohamad Mahthir), Brasile (Lula Da Silva), Iran (gli ayatollah), ecc Tra la prima e la seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica è divenuta un paese industriale spinta dal dittatoriale ma indipendente Giuseppe Stalin. In Africa abbiamo beneficiato di un certo numero di leader indipendenti: il colonnello Nasser in Egitto, Mwalimu Nyerere della Tanzania, Samora Machel del Mozambico, ecc Questo è il modo in cui il SudAfrica è stato liberato. È così che ci siamo sbarazzati di Idi Amin. L’arresto del genocidio in Ruanda e il rovesciamento di Mobutu, ecc, sono stati il risultato degli sforzi di leader africani indipendenti. Muammar Gheddafi, qualunque siano i suoi difetti, è un vero nazionalista. Io preferisco i nazionalisti ai pupazzi di interessi stranieri. Dove mai i pupazzi hanno promosso la trasformazione dei paesi? Dovrebbero dircelo, coloro che hanno familiarità con i pupazzi. Pertanto, l’indipendente Gheddafi ha dato qualche contributo positivo alla Libia, io credo, così come all’Africa e al Terzo Mondo. Farò un piccolo esempio. Al tempo in cui stavamo combattendo le dittature criminali qui in Uganda, abbiamo avuto un problema dovuto ad una complicazione derivante dalla nostra incapacità di catturare abbastanza pistole a Kabamba il 6 febbraio 1981. Gheddafi ci ha dato una piccola fornitura di 96 fucili, 100 mine anticarro, ecc, che è stata molto utile. Egli non ha consultato Washington o Mosca prima di farlo. Questo è stato un bene per la Libia, per l’Africa e per il Medio Oriente. Dovremmo anche ricordare, come elemento di quella indipendenza, che ha espulso le basi militari britanniche e americane dalla Libia, ecc.
2. Prima che Gheddafi prendesse il potere nel 1969, un barile di petrolio costava 40 centesimi di dollaro americano. Ha lanciato una campagna per trattenere il petrolio arabo a meno che l’Occidente lo pagasse di più. Mi pare che il prezzo salì a 20 dollari al barile. Quando scoppiò la guerra arabo-israeliana del 1973, il barile di petrolio andò a 40 dollari. Sono, quindi, sorpreso di sentire che molti produttori di petrolio nel mondo, compresi i paesi del Golfo, non apprezzano il ruolo storico svolto da Gheddafi sulla questione. Le enormi ricchezze di cui molti di questi produttori di petrolio stanno godendo sono dovute, almeno in parte, agli sforzi di Gheddafi. I paesi occidentali hanno continuato a svilupparsi a dispetto dell’aumento del prezzo del petrolio. Ciò significa che la situazione del petrolio pre-Gheddafi era caratterizzata da super sfruttamento in favore dei paesi occidentali.
3. Non mi sono mai dedicato allo studio delle condizioni socio-economiche della Libia. Nella mia ultima visita, ho potuto vedere buone strade, anche dal cielo. Dalle immagini televisive, si possono anche vedere i ribelli sfrecciare su e giù in camionette su strade molto buone accompagnati dai giornalisti occidentali. Chi ha costruito queste belle strade? Chi ha costruito le raffinerie di petrolio a Brega e gli altri luoghi dove i combattimenti hanno avuto luogo di recente? Questi impianti furono costruiti durante il periodo del re e dei suoi alleati americani e inglesi, o sono stati costruiti da Gheddafi? In Tunisia e in Egitto, alcuni giovani si sono immolati (bruciati) perché non riuscivano a ottenere posti di lavoro. Anche i libici sono senza lavoro? Se sì, perché, allora, ci sono centinaia di migliaia di lavoratori stranieri? La politica della Libia di fornire così tanti posti di lavoro a lavoratori del Terzo Mondo è negativa? I bambini in Libia vanno tutti a scuola? Ed era questo il caso in passato – prima di Gheddafi? È il conflitto in Libia economico o puramente politico? Forse la Libia avrebbe potuto svilupparsi di più se avesse incoraggiato di più il settore privato. Tuttavia, questo è qualcosa che i libici sono in una posizione migliore per giudicare. Così com’è, la Libia è un paese a medio reddito con il PIL a 89,03 miliardi dollari. Questo è più o meno come il PIL del Sud Africa quando Mandela prese la leadership nel 1994 ed è circa — [*] il PIL della Spagna.
4. Gheddafi è uno dei pochi leader laici nel mondo arabo. Egli non crede nel fondamentalismo islamico ed è per questo che le donne sono state in grado di andare a scuola, arruolarsi nell’esercito, ecc. Questo è un punto positivo sul lato di Gheddafi.
Venendo alla crisi attuale, quindi, abbiamo bisogno di ricordare alcune questioni:
1. La prima questione è distinguere tra dimostrazioni e insurrezioni. Sulle manifestazioni pacifiche non si dovrebbe sparare con proiettili veri. Naturalmente, anche le manifestazioni pacifiche dovrebbe coordinarsi con la polizia per garantire che non interferiscano con i diritti degli altri cittadini. Quando rivoltosi, però, attaccano stazioni di polizia e caserme dell’esercito con l’obiettivo di prendere il potere, allora, non sono più manifestanti, sono degli insorti. Dovranno essere trattati come tali. Un governo responsabile dovrebbe usare una forza ragionevole per neutralizzarli. Naturalmente, il governo responsabile ideale dovrebbe essere anche uno eletto dal popolo a intervalli periodici. Se c’è un dubbio sulla legittimità di un governo e la gente decide di lanciare un’insurrezione, questa dovrebbe essere la decisione di forze interne. Non sta a forze esterne arrogarsi tale ruolo, spesso non hanno conoscenze sufficienti per decidere correttamente. L’eccessivo coinvolgimento esterno porta sempre distorsioni terribili. Perché dovrebbero interferire forze esterne? Questo è un voto di sfiducia nei confronti del popolo stesso. Una legittima insurrezione interna, se questa è la strategia scelta dai dirigenti di quella lotta, può avere successo. Lo Scià di Persia è stato sconfitto da un’insurrezione interna, la Rivoluzione russa del 1917 fu una insurrezione interna, la rivoluzione in Zanzibar nel 1964 è stata una insurrezione interna: i cambiamenti in Ucraina, Georgia, ecc, tutte sono state insurrezioni interne. Spetta ai capi della Resistenza di quel paese di decidere la loro strategia, non agli stranieri sponsorizzare gruppi insurrezionali in paesi sovrani. Io sono totalmente allergico alla partecipazione straniera, politica e militare, in paesi sovrani, in particolare nei paesi africani. Se l’intervento straniero fosse positivo, allora, i paesi africani dovrebbero essere i paesi più prosperi del mondo, perché ne abbiamo avuto le maggiori dosi: tratta degli schiavi, colonialismo, neo-colonialismo, l’imperialismo, ecc. Tutti questi eventi imposti dagli stranieri, invece, sono stati disastrosi. È solo di recente che l’Africa sta cominciando a rimettersi in piedi anche grazie al rifiuto di ingerenze esterne. Le ingerenze esterne e l’acquiescenza da parte degli africani a tali ingerenze sono state responsabili della stagnazione in Africa. La definizione errata di priorità in molti dei paesi africani è, in molti casi, imposta da parte di gruppi esterni. La mancata priorità data alle infrastrutture, per esempio, soprattutto l’energia, è dovuta, in parte, ad alcune di queste pressioni. Invece, viene promosso il consumo. Ho assistito a questa definizione sbagliata di priorità anche qui in Uganda. Interessi esterni si sono collegati, per esempio, con gruppi fasulli interni per opporsi ai progetti energetici per motivi pretestuosi. Come si sviluppa un’economia senza energia? I Quisling e i loro sostenitori esterni non si curano di tutto questo.
2. Se promuovete insurrezioni sostenute dall’esterno in piccoli paesi come la Libia, cosa farete con quelli più grandi come la Cina che ha un sistema diverso dai sistemi occidentali? Avete intenzione di imporre una no-fly-zone sulla Cina in caso di alcune insurrezioni interne come è avvenuto in piazza Tiananmen, in Tibet o in Urumqi?
3. I paesi occidentali usano sempre due pesi e due misure. In Libia, sono molto ansiosi di imporre una no-fly-zone. In Bahrain e altre zone dove ci sono regimi filo-occidentali, chiudono un occhio di fronte a situazioni analoghe o ancora peggiori. Ci siamo appellati alle Nazioni Unite per imporre una no-fly-zone sulla Somalia al fine di ostacolare la libera circolazione dei terroristi, legati ad Al-Qaeda, che ha ucciso americani l’11 settembre, ha ucciso ugandesi il luglio scorso e hanno causato tanti danni ai somali, senza successo. Perché? Non ci sono esseri umani in Somalia simili a quelli di Bengasi? O è perché la Somalia non ha petrolio che non sia completamente controllato dalle compagnie petrolifere occidentali a causa della postura nazionalista di Gheddafi?
4. I paesi occidentali sono sempre molto pronti a commentare ogni problema nel Terzo Mondo – Egitto, Tunisia, Libia, ecc. Tuttavia, alcuni di quei paesi [occidentali] eranoproprio quelli che ostacolavano la crescita in questi paesi. Ci fu un colpo di Stato militare, che lentamente divenne una rivoluzione, nell’Egitto arretrato nel 1952. Il nuovo leader, Nasser, aveva l’ambizione di trasformare l’Egitto. Voleva costruire una diga, non solo per produrre elettricità ma anche per aiutare l’antico sistema di irrigazione egiziano. Gli è stato negato il denaro dall’Occidente perché non credeva che gli egiziani avessero bisogno di energia elettrica. Nasser ha deciso di raccogliere i soldi nazionalizzando il Canale di Suez. E’ stato attaccato da Israele, Francia e Gran Bretagna. Per essere giusti verso gli Stati Uniti, il presidente Eisenhower si oppose a tale aggressione quella volta. Certo, ci fu anche la ferma posizione dell’Unione Sovietica. Quanta elettricità avrebbe dovuto produrre questa diga? Solo 2000 mgws per un paese come l’Egitto! Che diritto morale ha, allora, questa gente di commentare le vicende di questi paesi?
5. Un altro punto negativo sorgerà dalla abitudine ormai dei paesi occidentali di super-utilizzare la loro superiorità tecnologica per imporre la guerra a società meno sviluppate, senza una logica cristallina. Questo innescherà una corsa agli armamenti nel mondo. Le azioni dei paesi occidentali in Iraq e ora la Libia sottolineano che la forza è “diritto”. Sono abbastanza sicuro che molti paesi che possono, intensificheranno la ricerca militare e in pochi decenni potremmo avere un mondo più armato. Questa scienza bellica non è magia. Un piccolo paese come Israele è oggi una superpotenza in termini di tecnologia militare. Eppure 60 anni fa Israele dovette acquistare di seconda mano aerei magister fouga dalla Francia. Ci sono molti paesi che possono diventare piccoli Israele se questa tendenza di un uso eccessivo di mezzi militari da parte dei paesi occidentali continua.
6. Tutto ciò nonostante, il colonnello Gheddafi dovrebbe essere pronto a sedersi con l’opposizione, attraverso la mediazione dell’Unione africana, con l’insieme dei gruppi di opposizione, che ora include persone a noi ben note – Ambasciatore Abdalla, Dr. Zubeda, ecc. So che Gheddafi ha il suo sistema di comitati eletti che culminano in una Conferenza Nazionale del Popolo. In realtà Gheddafi pensa che questo sia superiore al nostro sistema multi-partitico. Naturalmente, non ho mai avuto il tempo di sapere quanto veramente sia competitivo questo sistema. Comunque, anche se è competitivo, c’è ora, a quanto pare, un numero significativo di libici che pensano che ci sia un problema in Libia in termini di governance. Poiché non vi sono state in Libia elezioni con osservatori internazionali, neppure dell’Unione Africana, non possiamo sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Pertanto, un dialogo è la strada corretta da seguire.
7. La missione dell’Unione africana non è potuta entrare in Libia perché i paesi occidentali hanno iniziato a bombardare la Libia il giorno prima dell’arrivo previsto. Tuttavia, la missione continuerà. La mia opinione è che oltre a ciò che la missione dell’Unione africana sta facendo, può essere importante chiamare un vertice straordinario dell’Unione Africana ad Addis Abeba per discutere di questa grave situazione.
8. Per quanto riguarda l’opposizione libica, io mi sentirei in imbarazzo ad essere supportato da aerei da guerra occidentali, perché i Quisling di interessi stranieri non hanno mai aiutato l’Africa. Ne abbiamo avuto un rifornimento abbondante negli ultimi 50 anni – Mobutu, Houphouet Boigny, Kamuzu Banda, ecc. L’Occidente ha fatto un sacco di errori in Africa e in Medio Oriente in passato. Oltre al commercio degli schiavi e il colonialismo, ha partecipato alla uccisione di Lumumba, fino a poco tempo fa l’unico leader eletto del Congo, l’uccisione di Felix Moummie del Camerun, Bartolomeo Boganda della Repubblica Centrafricana, il sostegno all’UNITA in Angola, il sostegno ad Idi Amin all’inizio del suo regime, la contro-rivoluzione in Iran nel 1953, ecc. Recentemente, c’è stato qualche miglioramento negli atteggiamenti arroganti di alcuni di questi paesi occidentali. Certo, con l’Africa nera e, in particolare, l’Uganda, le relazioni sono buone dopo la loro posizione corretta riguardo ai neri del Sud Sudan. Con la democratizzazione del Sud Africa e la libertà dei neri in Sud Sudan, non c’erano più problemi tra i patrioti dell’Uganda e i governi occidentali. Purtroppo, queste azioni affrettate sulla Libia stanno cominciando a sollevare nuovi problemi. Essi dovrebbero essere risolta rapidamente.
Pertanto, se i gruppi dell’opposizione libica sono patrioti, devono combattere la loro guerra da loro stessi e condurre i loro affari da soli. Dopo tutto, hanno facilmente catturato così tanto materiale dall’esercito libico, perchè hanno bisogno di sostegno militare straniero? Avevo solo 27 fucili. Essere burattini non è bene.
9. I membri africani del Consiglio di Sicurezza ha votato a favore della risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Questo era in contrasto con ciò che il Consiglio Africano per la Pace e la Sicurezza aveva deciso ad Addis Abeba di recente. Questo è qualcosa che solo il vertice straordinario è in grado di risolvere.
10. E’ stato un bene che alcuni grandi paesi nel Consiglio di Sicurezza si siano astenuti su questa risoluzione. Questi sono: Russia, Cina, Brasile, India, ecc. Ciò dimostra che vi sono forze equilibrate nel mondo che, attraverso altre consultazioni, contribuiranno ad evolvere posizioni più corrette.
11. Essendo membri delle Nazioni Unite, siamo vincolati dalla risoluzione che è passata, per quanto affrettata la procedura. Tuttavia, vi è un meccanismo per la revisione. I paesi occidentali, che sono più attivi in queste azioni affrettate, dovrebbero guardare a questo percorso. Può essere un modo per districarsi tutti noi da possibili brutte complicazioni. Che succede se i libici fedeli a Gheddafi decidono di combattere? L’utilizzo di carri armati e aerei facilmente bersagliati dagli aerei di Sarkozy non è l’unico modo di combattere. Chi sarà responsabile di una tale guerra protratta? E’ ora che cominciamo a ragionare con più attenzione.
Yoweri Museveni K.
PRESIDENTE
20 marzo 2011
* [qui c’è un vuoto nel testo; dovrebbe essere un cifra tra il 6 e il 10%, secondo le fonti, se qualcuno ha dati precisi me lo faccia sapere]
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IL CONTROLLO DEI FLUSSI MIGRATORI APPALTATO A PAESI ESTERNI ALL’UE
Come l’Unione europea imprigiona i suoi vicini
L’inaugurazione di un secondo centro di detenzione a Mesnil-Amelot, ai margini dell’aeroporto di Roissy, pur rinviata all’ultimo momento, illustra il continuo sviluppo della «macchina delle espulsioni» in Francia. Il controllo dei migranti è sempre più l’oggetto di contrattazione con i paesi vicini dell’Unione europea, per lo spostamento della sorveglianza delle frontiere verso sud e verso est. Con un costo crescente in termini di vite umane.
di ALAIN MORICE e CLAIRE RODIER*
L’Europa ha spostato i suoi muri. Vent’anni fa, a Berlino, i rappresentanti delle nazioni democratiche salutarono unanimemente la caduta del Muro come una vittoria della libertà. «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio»: l’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 si sarebbe potuto finalmente applicare. In una risoluzione del 1991, il Consiglio d’Europa si felicitava del fatto che «alcuni cambiamenti politici permettono oggi di spostarsi liberamente attraverso l’Europa, il che costituisce una condizione essenziale per la solidità e lo sviluppo delle società libere e delle culture fiorenti» (sic).
Libertà di cui non si tarderà a temere le conseguenze. Viene ricordato innanzitutto che «il diritto di spostarsi liberamente, come previsto dalle convenzioni internazionali, non implica la libertà di insediarsi in un altro paese». Ci si preoccuperà inoltre dell’«aumento straordinario di richiedenti asilo in Europa occidentale e in alcuni paesi dell’Europa centrale, i quali tentano di utilizzare la convenzione di Ginevra per aggirare le restrizioni all’immigrazione (1)».
Alla fine della guerra fredda appaiono nuove linee di frontiera, lungo le quali altri bastioni, concreti o virtuali, ma più impermeabili e decisamente letali, spuntano dalla terra e segnano i mari. A est, l’Unione europea riuscirà a negoziare il suo allargamento in cambio dell’impegno dei suoi nuovi membri nel controllo delle loro frontiere.
Ognuno dovrà costruire il proprio muro di Berlino. Quanto al perimetro del Mediterraneo, il summit europeo di Tampere raccomanda dal 1999 una «cooperazione regionale tra gli stati membri e i paesi terzi limitrofi all’Unione in materia di lotta alla criminalità organizzata», il che include la «tratta di esseri umani».
Di volta in volta definiti «clandestini» e «vittime», repressi in quanto «passatori» di portata internazionale nel momento in cui si aiutano reciprocamente (2), i migranti saranno ormai il bersaglio di un discorso teso a giustificare il fatto che li si combatte con il pretesto di meglio proteggerli. Il vertice dei capi di stato a Siviglia (giugno 2002) consacrerà la lotta all’immigrazione illegale come priorità assoluta dell’Unione europea nel quadro dei negoziati con i paesi vicini.
Così, il Vecchio continente, stimandosi incapace di controllare le sue frontiere, inizia metodicamente – a dispetto degli accordi internazionali esistenti – a spostare a monte questo compito, delegandolo ai paesi di provenienza e di transito. Migreurop, una rete di ricercatori (si legga il riquadro a pag. 13), popolarizzerà il concetto di «esternalizzazione», preso in prestito dagli economisti, per definire gli ostacoli previsti dai testi internazionali alla libertà di circolazione.
Le frontiere dello spazio Schengen (si vedano le mappe) beneficiano ormai di una seconda barriera, esterna, che necessita la collaborazione dei paesi terzi. L’esternalizzazione (eufemisticamente ribattezzata «dimensione esterna della politica di immigrazione e di asilo» dal programma dell’Aia del 2004 [3]) porta con sé una serie di scappatoie ideologiche.
Infatti, si tratta di addossare il controllo delle frontiere agli stati non europei, nel quadro di un partenariato tanto equivoco quanto iniquo; ma i dirigenti dei Ventisette devono presentare la questione come una «gestione concertata dei flussi migratori». La «esternalizzazione» consiste nella messa in atto di un dispositivo flessibile, sempre più distante dalle frontiere. Le sue manifestazioni principali sono la delocalizzazione dei controlli e il subappalto della «lotta contro l’immigrazione illegale». I grandi perdenti sono il diritto d’asilo (che tutti i paesi dell’Unione si sono tuttavia impegnati a rispettare ratificando la Convenzione di Ginevra sui rifugiati) e il diritto di lasciare «qualsiasi paese, incluso il proprio» dichiarato da numerosi documenti internazionali. A partire dagli anni ’90, l’Unione ha inviato alcuni consiglieri tecnici, in particolare nei futuri stati membri, per arginare all’origine le partenze dei migranti. Una rete di «ufficiali di collegamento sui flussi» è stata formalmente creata nel 2004, con l’obiettivo di «contribuire alla prevenzione dell’immigrazione illegale e alla lotta contro questo fenomeno, al rimpatrio degli immigrati illegali e alla gestione dell’immigrazione illegale». Così, l’ingresso in un paese europeo viene definito «illegale» ancor prima di avere avuto luogo. Il compito principale di questi ufficiali di collegamento è quello di aiutare le autorità locali a verificare negli aeroporti la validità dei documenti di viaggio, il che, praticamente, può portarli a farsi beffe della sovranità del paese di origine. Nel 2001, una direttiva dell’Unione ha instaurato un sistema di sanzioni finanziarie per i trasportatori colpevoli di condurre persone i cui passaporti o visti non sono validi. Tali ammende, fortemente dissuasive, possono ammontare a 500.000 euro (in quanto il respingimento delle persone intercettate è a carico delle compagnie) e costringono un personale privo di competenze particolari a effettuare, prima dell’imbarco, una selezione dei passeggeri. Questa privatizzazione dei controlli riduce il lavoro di filtraggio all’arrivo.
Ed è gravida di conseguenze, se le partenze sono giustificate da un bisogno di protezione da parte dei richiedenti asilo; perché se, in linea di principio, essi non possono vedersi contestare l’irregolarità della loro situazione né la mancanza di visto una volta arrivati nel paese d’accoglienza, è necessario però che possano raggiungerlo.
È così che, nell’agosto 2007, sette pescatori tunisini furono accusati e imprigionati da un giudice italiano per «aiuto all’immigrazione illegale», e le loro barche confiscate, perché avevano salvato dal naufragio un’imbarcazione e trasportato i suoi passeggeri a Lampedusa (Sicilia), il porto più vicino (come prevedono i regolamenti marittimi) (4).
A partire dal 2005, un’agenzia dell’Unione europea, Frontex, coordina le operazioni di intercettazione marittima nel canale di Sicilia e tra la costa africana e le isole Canarie.
Alla fine del 2009, José Luis Zapatero, il primo ministro spagnolo, si è felicitato della riduzione del 50% degli sbarchi «illegali» in Spagna. Tuttavia, tutto indica che la mortalità dei migranti, in mare o nel deserto, non è diminuita (si vedano le mappe in basso).
Il rafforzamento degli ostacoli non frena le partenze, ma impone il ricorso a rotte migratorie incerte e più pericolose. Nessuno sa in quali condizione ha luogo (o meno), al momento dell’intervento di Frontex, l’identificazione di eventuali richiedenti asilo, un passaggio teoricamente obbligatorio in riferimento alle norme europee di accesso al territorio degli stati membri. Oltre al fatto di svolgersi al riparo da qualunque controllo democratico, tale delocalizzazione, di cui Frontex è divenuta il simbolo, permette ai paesi europei di sottrarsi alle esigenze imposte sui loro territori dagli impegni che essi stessi si sono assunti nell’ambito dei diritti fondamentali.
L’esternalizzazione del controllo delle frontiere costituisce la trama del «partenariato globale con i paesi di provenienza e di transito» consacrato dal patto europeo sull’asilo e l’immigrazione, siglato nel 2008 dai 27 membri dell’Ue. Esso fu il prodotto dell’iniziativa della Francia, che occupava allora la presidenza dell’Unione e aveva fatto della lotta contro la «immigrazione subita» il proprio cavallo di battaglia. In nome della «sinergia tra migrazioni e sviluppo», il testo pone i paesi da cui provengono o attraverso cui transitano i migranti in viaggio verso l’Unione, in una posizione di guarda frontiere obbligati. Essi sono quindi tenuti a proteggere a distanza le frontiere europee in cambio di contropartite di natura finanziaria o politica. Lo «statuto avanzato» ottenuto nel 2008 dal Marocco presso l’Unione ricompensa un paese che non ha risparmiato gli sforzi nello svolgere il ruolo attribuitogli nella gestione delle migrazioni. Nell’autunno 2005, una ventina di persone di origine subsahariana, che cercavano di superare i reticolati che cingono la frontiera ispano-marocchina a Ceuta e Melilla (5), sono morte per caduta, per soffocamento o sotto i proiettili dell’esercito marocchino. Questo massacro e i successivi trasferimenti mortali verso la zona desertica lungo la frontiera algerina, tuttavia chiusa, furono largamente mediatizzati dal governo marocchino, desideroso di dimostrare il suo zelo. Fu meno commentato dalla stampa il dramma avvenuto il 28 aprile 2008 al largo di Al-Hoceima (nord-est del Marocco): una trentina di persone (tra cui quattro bambini) morirono affogate dopo che il loro battello pneumatico venne, secondo testimonianze concordanti, volontariamente forato dalle forze dell’ordine (6). Nessuna inchiesta indipendente ha consentito di fare luce su questo avvenimento.
Gli accordi di «riammissione» siglati con i paesi vicini rappresentano un elemento fondamentale di questo dispositivo. Per poter espellere uno straniero in situazione di irregolarità sul suolo europeo, è necessario che venga riconosciuto dal suo paese d’origine o dall’ultimo paese in cui ha transitato.
Consapevoli del fatto che i paesi terzi non hanno alcun interesse ad accettare il ritorno dei loro cittadini (e ancora meno di coloro che si sono limitati ad attraversare il loro territorio), gli stati europei si sono lanciati in un ciclo infinito di trattative, la cui logica comporta in diverse nazioni (tra cui il Senegal, l’Ucraina e alcuni paesi balcanici) una corruzione dilagante ed un arretramento generalizzato dei diritti fondamentali (7). Il diritto d’asilo è la vittima indiretta di questa guerra condotta dall’Unione e dagli stati membri contro le persone candidate all’esilio. Respinti o detenuti nei «paesi tampone» a cui è assegnato il compito di proteggere la fortezza Europa, coloro i quali potrebbero accedere allo statuto di rifugiati sono privati della possibilità di domandarlo. In nome di una pretesa «condivisione del fardello», l’Unione finge di credere che i richiedenti asilo che essa non vuole accettare vengano accolti adeguatamente presso gli alleati di cui ha saputo monetizzare la collaborazione. L’Europa incoraggia così le ondate xenofobe contro una popolazione mal tollerata e costretta ad una vita precaria in paesi (come, ad esempio, quelli del Maghreb) che non hanno né la capacità logistica né la volontà politica di integrare i rifugiati (8). L’Unione incoraggia inoltre lo sviluppo di una moltitudine di campi di detenzione – che essa finanzia – come in Ucraina a partire dal 2004. E si tratta di un paese firmatario della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Non è invece il caso della Libia, i cui maltrattamenti inflitti ai migranti e ai rifugiati sono ampiamente documentati (9).
Tuttavia, dal maggio 2009, l’Italia respinge le imbarcazioni dei migranti per riconsegnarli nelle mani delle autorità libiche. Facendo ciò, essa viola simultaneamente il diritto marittimo internazionale e il principio di non respingimento, che vieta il rinvio di persone suscettibili di avere bisogno di protezione (10).
Tali violazioni dei principi che impegnano l’Unione nel campo dei diritti fondamentali sono stati commessi da uno stato membro senza suscitare nessuna reazione, eccetto la ricerca di soluzioni per consentirgli di continuare ad agire così. Nel luglio 2009, la Commissione europea ha proposto alla Libia di avviare una «cooperazione per giungere a una gestione congiunta ed equilibrata dei flussi migratori», mentre l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) offriva i suoi buoni uffici per una «gestione umanitaria» dei centri di detenzione.
Oltre alla questione relativa all’attacco ai diritti dei rifugiati, la strumentalizzazione da parte dell’Unione europea del partenariato con i paesi terzi minaccia pericolosamente una libertà fondamentale: quella di spostarsi. Essa colpisce anche i flussi migratori di coloro che non desiderano in particolare recarsi in Europa… Il concetto di «cosviluppo», che può apparire generosamente ispirato all’idea di associare migrazioni e crescita economica, è di fatto posto al servizio di questa regressione. Poiché le questioni relative alla sicurezza delle frontiere, pur essendo ufficialmente solo un elemento parziale, occupano uno spazio preponderante in questo imbroglio: buona parte delle misure elaborate e dei finanziamenti promessi sono relativi alla lotta contro la «immigrazione illegale» – vale a dire, dal punto di vista dei paesi di origine, contro l’emigrazione. Nell’aprile 2010, il presidente del Mali, ascoltando le voci della sua diaspora, ha contestato «le espulsioni sistematiche alla frontiera».
Il concetto di cosviluppo permette di fare accettare le decisioni prese unilateralmente dall’Europa ad altre popolazioni (improvvisamente definite «attrici del proprio sviluppo»), e, simultaneamente, di diffondere l’idea, in Europa ma anche nei luoghi di provenienza, che la crescita dei paesi d’origine arresterà l’immigrazione illegale.
Doppio inganno: il decollo economico di un paese ha infatti l’effetto di favorire la mobilità dei suoi cittadini; quanto all’«aiuto», esso è spesso dirottato dai suoi dirigenti. Ma si tratta di un inganno efficace, poiché, per assicurare la loro funzione di filtraggio, i paesi bloccano le loro frontiere e si trasformano in carcerieri dei propri cittadini. Questi sono i risultati tangibili della cooperazione posta in essere, ad esempio, tra la Spagna e alcuni dei suoi vicini africani: in Algeria e in Marocco, la legge definisce la «emigrazione illegale» un delitto, mentre il Senegal la punisce nei fatti. Le popolazioni non sono ignare di questo blocco rovesciato. Come titolava sobriamente il quotidiano senegalese Le Soleil alla vigilia della conferenza euro-africana di Rabat del 2006: attraverso l’esternalizzazione, «L’Europa chiude le nostre frontiere».
note:
* Rispettivamente antropologo presso il Cnrs (Consiglio nazionale della ricerca scientifica) e giurista del Gisti (Gruppo di informazione e di sostegno agli immigrati), vicepresidente di Migreurop.
(1) Conclusioni della quarta conferenza dei ministri europei responsabili delle questioni relative alle migrazioni, Lussemburgo, 1991.
(2) Cfr. il dossier «Passeurs d’étrangers», Plein Droit, n° 84, Parigi, marzo 2010.
(3) Piano quinquennale che stabilisce le priorità dell’Ue.
(4) Si legga Philippe Rekacewicz, «Migrations, sauvetage en mer et droits humains», Visions cartographiques, 27 settembre 2009, http://blog.mondediplo.net.
(5) Migreurop (opera coordinata da Emmanuel Blanchard e Anne-Sophie Wender), Guerre aux migrants. Le livre noir de Ceuta et Melilla, Syllepse, Parigi, 2007.
(6) Loubna Bernichi, «La Marine royale enfoncée», Maroc Hebdo international, Casablanca, 16 maggio 2008.
(7) Claudia Charles, «Accords de réadmission et respect des droits de l’homme dans les pays tiers», nota informativa del Parlamento europeo, settembre 2007. Cfr. anche http://www.migreurop.org/article1348.html
(8) Per il Marocco, si legga http://www.migreurop.org/ article1395.html.
(9) Cfr. Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), Bologna, http://www.asgi.it
(10) Rapporto sull’Italia del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) del Consiglio d’Europa, 28 aprile 2010.
(Traduzione di A. Ma.)
http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Giugno-2010/pagina.php?cosa=1006lm12.01.html
Prelevato il 28.03.2011
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Il futuro del nucleare sono le centrali al torio? 26.03.2011
Grande disponibilità di materia prima, basso costo, grande energia con scorie molto meno pericolose. Allora dov’è il trucco?
di Emanuele Perugini
Potrebbe essere nel torio la risposta ai problemi di energia del futuro. La tecnologia legata a questo particolare minerale potrebbe infatti rappresentare il giusto compromesso di sicurezza e di rispetto delle problematiche ambientali che riuscirebbe a convincere anche il più acerrimo ambientalista. Usare torio al posto dell’uranio arricchito per far funzionare centrali nucleari è infatti una tecnologia già ampiamente utilizzata, conosciuta, studiata e anche collaudata che presenta una serie di vantaggi economici e anche ambientali. Ma anche di svantaggi.
Nel mondo esistono abbondanti riserve di torio e il costo del combustibile sarebbe davvero molto basso. Inoltre le riserve di questo materiale sono presenti un po’ ovunque e questo metterebbe al riparo da eventuali strozzature di mercato. I reattori alimentati a torio poi produrrebbero una serie di scorie che non solo potrebbero essere riutilizzate per alimentare altri reattori, ma sarebbero anche molto meno pericolose di quelle prodotte da reattori ad uranio dell’ordine di diverse potenze in meno. Eppure nonostante tutti questi apparenti vantaggi solo pochi paesi hanno sviluppato questa speciale filiera nucleare: l’I ndia, ora la Cina e, in un certo senso anche il Canada. ” Il motivo per il quale questo tipo di tecnologia non è stato sviluppato – spiega Ezio Puppin, presidente del Consorzio Interuniversitario scienze fisiche della materia (Cnism) – sono essenzialmente legati alla storia del nucleare, che ai primordi è stato sviluppato per produrre plutonio e altro materiale utile alla fabbricazione di testate nucleari“.
Ma ci sono anche altri motivi, anche se non si tratta di problemi insormontabili. Si tratta di problemi essenzialmente legati ai costi di gestione più elevati del ciclo del combustibile nucleare. “ Se infatti per alimentare un reattore tradizionale – spiega Giuseppe Forasassi, presidente del Consorzio interuniversitario di ingegneria nucleare (Cirten) e docente all’università di Pisa – basta semplicemente raffinare un po’ il minerale estratto dalla miniera, per il torio occorre associare un impianto chimico al reattore per permettere di avere combustibile che sia in grado di sostenere la reazione di fissione”. Il problema infatti è che il torio, non è un elemento fissile. Non è radioattivo e cioè non libera dal suo nucleo neutroni che poi vanno a spaccare nuclei di altri atomi. Detta in maniera più semplice il torio da solo non brucia, e nemmeno si accende. Per la verità neanche l’uranio naturale, l’ uranio 238 si accende, ma nei reattori tradizionali si usano miscele di uranio parzialmente arricchito e cioè che contiene al suo interno un isotopo radioattivo dell’uranio naturale, l’ uranio 235, che invece è radioattivo e permette di sostenere la reazione a catena. Il problema dell’utilizzo delle centrali a torio nasce proprio da questa considerazione.
Che non è del tutto marginale.
Non basta infatti mettere una fiammella sotto una barra di torio per liberare l’energia contenuta all’interno dei suoi atomi. Almeno non una fiammella tradizionale. Ne serve una atomica. Serve cioè bombardare con dei neutroni. Ci sono due metodi per fare questo. Il primo è miscelare il torio con elementi radioattivi, per esempio uranio arricchito o plutonio. Il secondo sistema, e questo è il frutto dell’intuizione di Carlo Rubbia quando era alla guida dell’Enea, consiste nel bombardare il torio con un fascio di neutroni prodotti in un acceleratore di particelle. Ottenendo così la cosiddetta trasmutazione per spallazione. I neutroni colpiscono gli atomi di torio e li trasformano, meglio trasmutano, in un altro elemento, l’ uranio 2333, un isotopo non esistente in natura e fortemente radioattivo. Al punto da riuscire a bruciare in maniera più efficiente anche dell’uranio 235 e del plutonio. Ora questa trasmutaz! ione si attiene anche utilizzando come innesco del torio, uranio arricchito. Ed è proprio quello che avviene negli attuali reattori alimentati a torio. “ Il ciclo torio-uranio233 – spiega Emilio Santoro, direttore del reattore Triga dell’Enea – è talmente efficiente che introducendo in reattore 100 kg di si ottengono 120 kg di materiale fissile”. In pratica di benzina. “ I reattori al torio sono estremamente efficienti – spiega Santoro – come del resto quelli cosiddetti superveloci alimentati a plutonio che sono in pratica la quarta generazione di reattori in fase di sviluppo e che credo possano essere il vero nucleare del futuro”.
Impianti al torio erano stati sviluppati anche in Occidente. Proprio ai primordi dell’epopea nucleare, nel 1957 e sotto gli auspici del presidente Usa Eisenhower venne infatti inaugurata la centrale di Shippingport, un piccolo impianto di appena 60 Megawatt di potenza totalmente alimentata a torio. L’idea era quella di collaudare reattori di taglia utile a far girare le eliche delle grandi portaerei americane. Da allora però la storia cambiò rotto e solo pochi altri impianti, come quello di Elk River (le cui barre di combustibile vennero spedite in Italia e ora sono al centro Enea di Trisaia) sono stati realizzati. Solo in India si è puntato molto su questa tecnologia e sono stati effettuati dei reattori alimentati a torio. Negli ultimi anni pero’ questa particolare tecnologia è tornata di moda, soprattutto in Cina che sta puntando moltissimo sul nucleare sia di terza che di quarta generazione. Anche negli Stati Uniti si torna a parlare dei reattori a torio. Principale sostenitore di questa tecnologia è Alvin Weimberg, direttore dei laboratori di Oak Ridge e fondatore della National Science Foundation, che già nel 1958 pubblica un libro di 978 pagine in cui espone la possibilità di creare reattori al torio con combustibile liquido. Un progetto che ora è stato rispolverato anche in America).
E, per un breve periodo venne studiato anche in Italia.
Nel nostro paese, infatti nella prima metà degli anni 2000, all’Enea si cominciò a sviluppare l’idea proposta da Carlo Rubbia, il cosiddetto Rubbiatron. In pratica si tratta di un reattore al torio che viene acceso non da plutonio, ma da un fascio di neutroni sparati con un acceleratore di particelle. I neutroni colpiscono la barra di torio e innescano la reazione. Con il vantaggio che il fascio di neutroni può essere interrotto in ogni momento proprio come se si trattasse di un vero e proprio interruttore. “ Proprio nell’impianto Triga, alla Casaccia, un piccolo reattore sperimentale, – racconta Santoro – venne iniziata la fase di verifica del progetto che però si arresto’ davanti alla mancanza dei fondi necessari per la realizzazione dell’acceleratore”.
http://daily.wired.it/news/scienza/2011/03/26/centrali-nucleari-torio.html
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Una lacrima per controllare il diabete 27.03.2011
I ricercatori dell’Arizona State University e la Mayo Clinic stanno collaborando per sviluppare un dispositivo che monitori la glicemia attraverso una tecnologia innovativa: addio puntura sul polpastrello con fuoriuscita di sangue, benvenuto controllo oculare.
Il sensore è una semplice barretta sulla quale viene fatta cadere una goccia di liquido lacrimale del paziente affetto da diabete: dei conduttori elettrici analizzano la lacrima, la fanno passare prima attraverso un sistema di tre elettrodi avvolti da uno strato di silicone, e subito dopo attraverso un materiale che assorbe il campione prelevato.
“Questa tecnologia”, afferma Jeffrey LaBelle, ingegnere biomedico a capo della sperimentazione, “potrebbe invogliare i pazienti a misurare il loro livello di zuccheri più di frequente. Il problema degli attuali strumenti di rilevazione del glucosio nel sangue, non è infatti nella validità del sensore, ma nella puntura del dito. Con un semplice tocco dell’occhio, chi controlla la glicemia fino a dieci volte al giorno, ora potrebbe non dover più sottoporsi a pizzichi dolorosi.” Alla scoperta, riportata nel Journal of Diabetes Sciences and Technology dello scorso anno, si è interessata l’organizzazione no-profit BioAccel, che ha finanziato i trial clinici per migliorare l’efficienza, l’accuratezza, la velocità di risposta e, soprattutto, verificare che il campione di lacrima non evapori prima di poter essere letto.
Rossella Monarca
http://daily.wired.it/blog/pazienti/2011/03/27/una-lacrima-per-controllare-il-diabete.html
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La rivolta degli shebab. Dal vivo 27.03.2011
di En Route!
[Sul conflitto in Libia si leggono tante stronzate, soprattutto adesso che il disordinato intervento imperialista, volto alla conquista delle risorse del paese, cerca di inquinarlo. Si parla di lotte tribali, di integralismo islamico, di conflitti locali di potere, di sommosse manovrate dalla Cia. Nessuno pare interessato ad ascoltare ciò che gli insorti dicono di se stessi. Eppure cercano di parlare, quando possono. Il fatto è che i protagonisti assoluti della ribellione sono scomodi, poco inquadrabili politicamente. Si tratta degli shebab, i giovani proletari libici delle periferie urbane. Un blog, aggiornato quando possibile nel fuoco della lotta, cerca di dar loro voce. E’ En route! Ha una versione italiana, ma quella francese è molto più ricca, e copre l’intero Nord Africa.
Ne riportiamo un articolo, ma l’intero blog andrebbe letto da cima a fondo. Ciò permetterebbe di cogliere la sostanza di classe, quanto mai moderna, della insurrezione libica. Paese in cui l’85% della popolazione vive in aree urbane e patisce i contraccolpi del neoliberismo, abbracciato con entusiasmo da Gheddafi.
Che dicono gli shebab dell’ingerenza straniera? Ovviamente ne sono contenti: fa loro comodo (Lenin stesso accettò gli aiuti della Germania). Sono perfettamente consapevoli che c’è chi vuole impadronirsi delle loro materie prima. Ma aggiungono: “Gli Occidentali si prendano il nostro petrolio: la rivoluzione vera la faremo dopo”. Rivendicano insomma la loro autonomia, sale di tutte le rivoluzioni. Grazie a Serge Quadruppani per la preziosa segnalazione.] (V.E.)
PRECISIONI DALLA LIBIA
Capiamo come possa essere complicato, dall’Europa, immaginarsi com’è la situazione qui in Libia. E’ difficile immaginarsi questi giovani inesperti gettarsi, disarmati, all’assalto di una strada bombardata dall’artiglieria. O capire che avere una discussione “politica” possa significare discutere tranquillamente della realtà del “complotto giudeo-massonico” con uno studente istruito e curioso. La rivoluzione libica non è per forza ciò che si crede.
In una settimana di repressione il regime di Gheddafi si è reso insopportabile a un popolo poco abituato alle rivolte (la Libia non è la Grecia né la Cabilia). In questo articolo tenteremo di fare il punto, a un mese dall’inizio della rivolta, su cos’è la Libia “liberata”. Proveremo a condividere meglio ciò che ci vediamo e viviamo.
Rifornimento.
Per quanto riguarda il cibo, l’acqua, l’elettricità e la benzina, la situazione rimane molto stabile. Il cibo si acquisisce di solito come prima della rivolta, nei negozi riforniti dall’Egitto. I salari non sono più pagati però i risparmi personali rilasciati a contagocce dalle banche sono sufficienti. Prevenendo una pauperizzazione crescente e un arresto del sistema mercantile, i paesi del Golfo, Qatar e Emirati Arabi, insieme alla popolazione egiziana, hanno fatto passare dal confine cibo e prodotti per l’igiene, immagazzinati nelle città della Cirenaica. Dal 17 febbraio in poi, prima che la mancanza di cibo fosse divenuta percettibile, hanno avuto luogo tante iniziative per rifornire quelli che ne avevano bisogno; non le conosco tutte e a volte ignoro il loro funzionamento e la loro efficacia. Comunque nei giorni successivi al 17 febbraio, la solidarietà si è manifestata innanzitutto nelle donazioni spontanee di cibo da parte di singoli. Gli uomini che hanno preso le armi per organizzare i check-point hanno suscitato subito un grande slancio di solidarietà. Per esempio i proprietari di supermercati hanno dato le loro merci ai difensori della città.
Il 26 febbraio, la Petrol Engineering Community, associazione fondata spontaneamente dai lavoratori del settore del petrolio, ha iniziato a raccogliere le donazioni dai quadri dell’industria petrolifera (da 2000 a 3000 Dl al giorno) per comprare cibo e vestiti per i soldati. Quando le forze di Gheddafi hanno attaccato Brega il 2 marzo, le donazioni sono aumentate fortemente. Dal 2 marzo fino a poco tempo fa si trattava soprattutto di bottiglie d’acqua, di latte, di succhi, di biscotti e di pastasciutta. Una parte importante di questo afflusso (sovrastimato) è stato distribuito ai viaggiatori che attraversavano i check-point. I profughi provenienti dall’Africa Centrale, dall’Africa Occidentale o dall’Egitto hanno parzialmente approfittato di questo aiuto (che era comunque ancora insufficiente per loro).
Il 6 marzo, degli ex-scout diventati studenti hanno fondato “I giovani del cambiamento”. Questa organizzazione la cui gerarchia è un po’ formale (dopotutto sono scout) comprende una trentina di membri permanenti e più di 370 volontari mobilitabili per compiti vari tra cui il trasporto, la pulizia, l’aiuto negli ospedali o la pubblicazione di articoli. Sul piano del rifornimento, si occupano degli aiuti provenienti dal Golfo. Grazie ai loro agganci e alle loro relazioni sulla costa della Cirenaica, hanno stabilito alcuni depositi a Bengasi e convogliano le derrate alimentari verso la linea del fronte. Organizzano raccolte di armi e incitano coloro che ne hanno ancora a darle ai combattenti, anche se loro stessi non sempre lo fanno. Queste associazioni spontanee hanno legami con altre più vecchie di aiuto sociale e di solidarietà, e a volte con le nuove istituzioni di Bengasi.
Istituzioni.
Ci sono di fatto tre istituzioni ufficiali che per ora non hanno nessun edificio dedicato. Quella più conosciuta è il governo provvisorio o Consiglio Nazionale di Transizione. Solo una minoranza dei suoi membri sono conosciuti, poiché molti di loro sarebbero in incognito nelle zone occupate. Il suo ruolo è quello di stabilire relazioni diplomatiche e contatti con la stampa in vista di offrire alle potenze occidentali un’alternativa credibile al sistema di Gheddafi. La seconda istituzione, poco conosciuta, è il consiglio locale, la cui importanza sembra minore. L’ultima è il consiglio cittadino, a volte chiamato consiglio locale. Comprende 13 membri, tutti personaggi pubblici di Bengasi ognuno dei quali copre un settore dei servizi pubblici: economia, banche, educazione… Non ho approfondito molto questa istituzione, ma salvo ciò che concerne l’esercito di Bengasi, sembra poco attiva. I membri del consiglio cittadino sembrano contare su ciò che già esiste: le associazioni spontanee, le istituzioni che funzionano (compagnie petrolifere, ospedali, etc.). Per quanto riguarda l’energia il responsabile Ahmed Garoushi si interessa solo alla vendita del greggio disponibile a Tobruk (100’000 barili al giorno) e al recupero dei guadagni di questa vendita che dovrebbe avere luogo nelle prossime settimane. Questi soldi sarebbero messi a disposizione del consiglio cittadino e del governo provvisorio.
Per capire meglio come si mettono in moto i meccanismi della controrivoluzione, occorre mettere in luce uno dei fenomeni più significativi di questa guerra rivoluzionaria: la formazione di “avanguardie“ e “retroguardie“ e poi cercare di capire ciò che non sembrava importante per tanti (noi compresi): i discorsi del popolo libico.
La guerra, nei suoi primi giorni, non avrebbe potuto per niente essere compresa come un’opposizione tra “avanguardia“ e “retroguardia“. Innanzitutto, tutte le città liberate uscivano da scontri lunghi, difficili e sanguinosi, che avevano coinvolto tutti (manifestanti, amici, vicini, personale degli ospedali, volontari di ogni tipo). Brega è stata presa dai suoi propri abitanti, e quando quelli di Ras Lanuf hanno ricevuto l’appoggio della gente di Bengasi una città intera si è mobilitata. Ogni abitante andava a combattere con l’arma che aveva trovato o con quella di un amico.
La formazione di un’“avanguardia“…
La truppa di combattenti che poi diventerà “l’armata del popolo” durante le battaglie di Ben Jawad, Ras Lanuf, Brega e Agedabia è nata dopo la festa delle vittorie e la sconfitta di Ben Jawad. Questa truppa, male armata, non addestrata, si è caratterizzata per la sua incapacità di avanzare più di 300-600 metri alla volta, per il suo lungo e difficile apprendimento della necessaria velocità di movimento e discrezione, e per una tempistica d’azione che assomiglia più ad una gita tra amici che ad una guerra. Quando l’ho lasciata, questa truppa non aveva né cannoni senza rinculo, né lanciarazzi, né mortai, né katiuscia, né elmetti, né giubbotti antiproiettile, e pochissime armi leggere.
Un’altra componente del fronte, quasi invisibile, è ciò che rimane dell’esercito, riorganizzato attorno ad alcuni ufficiali. Le uniche truppe veramente fedeli agli ordini sembrano essere le forze speciali. L’uso dei katiuscia, elementi indispensabili di questa guerra, è un po’ particolare. I loro tiri sono regolati dalle forze speciali, così mi hanno detto, però ho anche visto munizioni trasportate dal popolo autorganizzato. L’uso di queste armi è stato decisivo durante le offensive massicce del popolo armato (come a Ben Jawad o a Sidra). E’ quindi probabile che l’esercito ufficiale abbia avuto un ruolo importante in certe vittorie, ma appogiandosi sistematicamente agli assalti popolari e in molti casi esponendosi molto meno di loro.
…e di una “retroguardia“
Questo esercito organizzato ha invece una presenza importante in ciò che si è ormai costituito come “retrovia » del fronte. Solo le forze speciali sembrano presenti permanentemente sul campo. L’esercito invece organizza la formazione di nuove forze in una caserma, gestisce probabilmente grandi quantità d’armi e ha un legame permanente con l’embrione di Stato che sta nascendo. Questo corpo di soldati è caratterizzato dal segreto e dalla diffidenza. Non sono quelli del fronte, ma sono questi ragazzi in divisa che detengono gli equipaggiamenti e che indossano i giubbotti antiproiettile. Le radio a lungo raggio, il materiale ottico potente, le armi di grosso calibro di ultima generazione si trovano nel loro campo di addestramento. Le voci dicono che ci sarebbe un battaglione di 200-300 uomini equipaggiati bene e che impara a marciare al passo. Molti di loro lasciano il campo per raggiungere l’armata del popolo sotto i bombardamenti.
E’ certo che gli ufficiali di domani, quelli che riceveranno le medaglie e le pensioni, non sono quelli che si organizzano al di là di ogni gerarchia. Per questi ultimi esiste una realtà particolare, diversa e confusa. Si preoccupano dell’avanzata delle truppe nemiche, del rifornimento di armi, della sorte dei traditori e dei nemici. E’ importante la contraddizione fra i civili che combattono e gli altri nelle città. Presenti nei momenti di festeggiamento questi ultimi hanno disertato subito una guerra che in realtà non capiscono. A Bengasi, evitano la questione affermando che Gheddafi è finito e ascoltando canti patriottici.
Il criterio di riappropriazione delle armi da parte del popolo è stato quello dell’appropriazione privata e non quello dell’uso collettivo. Ci sono quindi migliaia di Kalashnikov, di Rpg, e anche di 30 mm che giacciono sotto i materassi o nei garage di Bengasi. Nella città, oltre l’esercito ufficiale di cui abbiamo appena parlato, nessuno sa precisamente cosa succeda sul fronte. Tutti sembrano fregarsene, nessuno sembra interessarsi troppo alla questione. Non si sentono coinvolti in questa guerra che non hanno voluto. I discorsi qui sono le frasi ripetute centinaia di volte dalla gente in strada, centinaia di: « Gheddafi monkey », « Gheddafi crazy »; sono le centinaia di caricature di Gheddafi, dei suoi discorsi. Il problema è Gheddafi, Gheddafi e non i suoi figli, Gheddafi e non il suo esercito, Gheddafi e non la sua polizia. Concedono a malapena che degli stranieri, dei mercenari di colore possano essere considerati allo stesso livello di « Gheddafi l’africano ». Qui la concordia nazionale può essere rievocata ad ogni momento. Il popolo e la gioventù si sono riappropriati del lavaggio di cervello.
I morti intralceranno sicuramente ogni tentativo di riconciliazione nazionale, ma sono stati seppelliti secondo il rito religioso. Non sono dei guerrieri, dei vinti, ma dei martiri, non li si deve piangere. I Libici devono rispettare la pace e Dio, prima delle loro amicizie e dei loro desideri. Le cinque preghiere al giorno glielo rammentano sempre, anche sul fronte. La religione è una parte importante dei discorsi, nei cortei si canta che l’unico Dio è Allah e che Allah è grande.
Il motore principale di questa rivolta sembra essere la reazione all’orgoglio smisurato di Gheddafi che si è permesso di voler sterminare un popolo che chiedeva al massimo delle riforme o la presa del potere da parte di Saif al Islam. Tutte le forme di propaganda, di logistica, di combattimento, di organizzazione inventate fino ad ora dalla rivoluzione sono stati ripresi direttamente dal modello di Gheddafi. La rivoluzione si impara forse nei gruppi di combattenti o di giovani volontari, che vivono la lotta insieme e l’organizzazione collettiva, sempre precaria di fronte ai tentativi di formalizzazione qui onnipresenti.
http://www.carmillaonline.com/archives/2011/03/003848.html#003848
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il parere di Lanxade 27.03.2011
Da “Zag(c)” simyzag@yahoo.it per ListaSinistra@yahoogroups.com
l’Ammiraglio Jacques Lanxade, ex capo di Stato maggiore francese ed ex ambasciatore in Tunisia in una intervista la mandata a dire chiaro e tondo di quali erano e sono le intenzioni del governo francese. La divisione dello stato Libico in almeno due stati “spezzatino” La tripolitania in mano a tribù e clan vicine al rais(Warfalla,Qadhafha e Maqariha) , ma dal “volto umano”, e la Cirenaica in mano alle tribù ribelle appoggiate dai stessi generali del rais fuggiti e che conducono i posti militari di potere nel territorio “liberato”. Il quadro e i conti tornano. La Francia e l’Inghilterra( con i loro cugini Usa) otteranno il loro posto al sole e relative riserve petrolifere, Avranno un territorio vasto limitrofe all’Egitto e che possa fare da cuscinetto.
In Tripolitania invece le tribù che hanno consentito anche il patto d’acciaio( na’ sola!) con gli italiani, manterranno il patto e gli affari con gli Itagliani!. Tutto finito quindi a taralluccè e vino? Per il popolo , quello che è sceso in piazza, e quello che soffre in povertà certamente no. Per il resto staremo a vedere!
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Zag(c) <http://vecchia-talpa.blogspot.com/>
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Qatar, nuvole artificiali per la Coppa del Mondo 28.03.2011
Il piccolo emirato arabo si prepara a sfoggiare tecnologie all’avanguardia in tempo per la Coppa del Mondo di calcio del 2022. Gli stadi verranno raffreddati con nuvole artificiali ripiene di elio
Roma – Alla tornata finale della Coppa del Mondo del Qatar mancano ancora 11 anni, ma il piccolo emirato prospiciente il Golfo Persico intende prepararsi in tempo con tanto di tecnologie hi-tech per l’abbattimento delle caldissime temperature tipiche della stagione estiva. I campi per le partite e gli allenamenti verranno ricoperti da vere e proprie “nuvole artificiali”, promettono i ricercatori dell’Università del Qatar.
Le nuvole “robotiche” su cui sono al lavoro il dottor Saud Ghani e colleghi sono composte da parallelepipedi in fibra di carbonio e pannelli solari, ripieni di elio e in grado di tenere traccia della posizione del Sole così da proiettare un’ombra refrigerante laddove opportuno.
Il professor Ghani dice che l’impiego delle nuvole artificiali potrebbe aiutare a raffreddare le alte temperature del Qatar di almeno 10 gradi, e sarebbero altresì utili ai fini della sicurezza degli stadi, per le comunicazioni radio e per fornire una vista mozzafiato agli occhi televisivi che saranno puntati sullo show sportivo.
Ogni nuvola artificiale dovrebbe costare un minimo di 500mila dollari, stima Ghani: la tecnologia ha già superato la fase progettuale, e gli ingegneri del Qatar pianificano la realizzazione di un mini-prototipo di 4 metri per 3 come test ultimo della validità dell’idea.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3118795/PI/News/qatar-nuvole-artificiali-coppa-del-mondo.aspx
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Le 5 idee di Rubbia per l’energia del futuro 28.03.2011
Continua l’emergenza in Giappone e il mondo si chiede se valga la pena fidarsi ancora del nucleare. Ecco le alternative del premio Nobel italiano
di Fabio Deotto
A due settimane dalla prima esplosione a uno dei reattori della centrale nucleare, la situazione nella prefettura di Fukushima non accenna a migliorare. Il livello di radiazioni continua a crescere in modo preoccupante, attorno al reattore 2 si sarebbe raggiunta la terrificante quota di 1000 millisievert l’ora, sufficiente per determinare alterazioni temporanee dell’emoglobina. Stamattina il governo ha ammesso che le radiazioni a Fukushima sono fuori controllo, e mentre la terra continua a tremare (stamattina altro terremoto da 6,5 gradi), sale la proeccupazione per la contaminazione dei bacini idrici.
E mentre il New Scientist sostiene che le concentrazioni di cesio e iodio radioattivi sono paragonabili al peggior disastro nucleare della storia, quello di Chernobyl, in tutto il mondo (Italia compresa) i governi fanno autoanalisi sull’impiego di energia nucleare e sulla sicurezza delle centrali già operanti.
È una dinamica macabra, ma inevitabile: come in una perversa borsa energetica, in occasione di disastri nucleari (o petroliferi, vedi quello Bp), la quotazione delle energie rinnovabili si impenna. Se prima di Fukushima gli scettici levavano i propri megafoni per raccontare che le energie alternative non sarebbero competitive, ora sembra che il mondo non abbia mai avuto tanto bisogno di nuove idee (e di fondi per realizzarle). In realtà, di idee coraggiose e promettenti in campo energetico ne escono di nuove ogni settimana, basti pensare alla ricerca nel solare che sta attualmente esplorando innumerevoli approcci e soluzioni differenti.
Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica e uno dei più preziosi cervelli fuggiti (anche se sarebbe meglio dire cacciato), dopo aver lasciato lo Stivale per andare a costruire le sue centrali solari termodinamiche in Spagna, da poco è coinvolto nell’attività dell’ Institute for Advanced Sustainability Studies (Iass) di Postdam, in qualità di direttore scientifico. Iass è stato recentemente citato nel rapporto The Global “Go-To Think Tanks” 2010, come miglior Think Tank inaugurato negli ultimi 18 mesi. E non a sproposito, oltre ad occuparsi di impatto climatico e sostenibilità, Iass punta il grosso delle energie sul settore Cluster E3 (Earth, Energy and Environment). Cluster E3 opera sotto la diretta responsabilità di Carlo Rubbia e, oltre a proporre la costruzione di centrali nucleari al torio (come racconta sul Corriere della Sera del 28 marzo) sta lavorando a 5 idee per offrire un’alternativa a idrocarburi e nucleare.
Idea 1: Trasporto di energia a lunghe distanze attraverso linee di cavi superconduttori
Uno dei problemi principali delle energie rinnovabili consiste nel fatto che gli impianti di produzione sono spesso situati lontano dai centri abitati o comunque dai conglomerati urbani che potrebbero usufruirne. C’è bisogno di un sistema sicuro per trasportare energia elettrica su lunghe distanze, minimizzando la dispersione energetica lungo il tragitto.
I normali sistemi di trasmissione (a corrente alternata) avrebbero una dispersione troppo alta per essere impiegati in questo settore, di conseguenza la ricerca si è concentrata finora sui sistemi di trasmissione Hvdc (High Voltage Direct Current). L’Iass sta studiando come sviluppare sistemi di trasmissione in corrente continua alternativi agli Hvdc basati sull’impiego di superconduttori. “ I superconduttori,” si legge infatti nella presentazione ufficiale: “ grazie all’assenza di una resistenza Ohmica, sono caratterizzati da perdite elettriche pari esattamente a zero”.
Attualmente il team di ricerca sta testando diversi materiali superconduttori, dai più comuni (leghe di Niobio-Titanio, Boruro di Magnesio) ai superconduttori ad alta temperatura. L’obiettivo è di fabbricare a breve un prototipo della lunghezza di 1.000 km.
Idea 2: Concetti avanzati nel campo dei sistemi solari a concentrazione
A differenza degli impianti fotovoltaici, gli impianti solari a concentrazione producono energia elettrica a partire dall’ energia termica solare. Attraverso un sistema di specchi parabolici, la luce viene concentrata ad altissime temperature su di un tubo ricevitore nel quale è contenuto un fluido termovettore. Questo fluido concentrerà così alte temperature che verranno utilizzate per produrre vapore e conseguentemente energia elettrica. Il lavoro di Iass in questo campo si concentra sulla ricerca di un mezzo tampone che permetta di ottimizzare il trasporto di calore dagli specchi parabolici all’impianto di produzione di energia elettrica. L’obiettivo finale sarebbe quello di favorire l’installazione di questo tipo di impianti anche in zone come quelle desertiche, dove l’acqua scarseggia. Iass non nega che un simile miglioramento potrebbe trovare terreno fertile nell’ambito del monumentale progetto Desertec, che punta a trasformare parte del Sahara in un’enorme centrale solare.
Idea 3: Combustione di metano senza produzione di CO 2
Il metano è un gas naturale abbondante e sufficientemente economico per essere utilizzato in grandi quantità. Lo puoi bruciare come qualsiasi altro combustibile, ottenendo calore e rilascio di CO 2. Oppure, lo puoi sottoporre a temperature elevatissime (1.600 gradi centigradi) e dissociarlo, in parole povere: scindere le sue molecole in atomi di carbonio e idrogeno. Il Think Tank di Rubbia si sta concentrando su quest’ultima possibilità, obiettivo: convertire, senza emettere CO 2, il metano in idrogeno e carbonio e renderli utilizzabili in altri processi. “ Sarà possibile sviluppare elaborate tecniche per convertire i gas naturali in idrogeno sfruttando un appropriato ciclo termodinamico, usando scambiatori di calori, ma con un’emissione di CO 2 risultante pari a zero o poco più”, si legge nel sito: “ Combinando poi l’idrogeno liberato con la CO 2 è possibile produrre combustibili liquidi”.
Anche il carbonio risultante dalla dissociazione potrebbe essere utilizzato, ad esempio, in altri processi industriali come la produzione di pneumatici.
Idea 4: Riciclare CO 2 per la produzione di metanolo
L’idea 3 apre la strada a un’altra possibiltà: riciclare la CO 2 derivante dai processi industriali, e altrimenti rilasciata nell’atmosfera, combinandola con l’idrogeno derivante dalla dissociazione del metano. Da questa combinazione sarebbe infatti possibile ottenere metanolo, un composto utilizzato come solvente, reagente industriale e combustibile. In questo modo sarebbe possibile sequestrare CO 2 e riutilizzarla prima di espellerla di nuovo nell’atmosfera. Qualcuno ha fatto notare che, dal momento che la dissociazione necessità di energie elevate, il suo impiego porterebbe comunque ad emissioni di CO 2. Ma Da Iass arrivano rassicurazioni a questo proposito: l’inquinamento in questa fase del processo verrà minimizzato.
Idea 5: Le proprietà dei clatrati di metano
Si stima che nel mondo le riserve di gas naturale ammontino a quasi 500 gigatonnellate. Ma esistono riserve molto più grandi di gas naturale su questo pianeta, ma anche molto meno accessibili. Parliamo delle molecole di metano attualmente ingabbiate nei clatrati (delle specie di gabbie molecolari fatte d’acqua) e sepolti nei fondali oceanici, lacustri o nel permafrost delle regioni più fredde. Non si sa quanto questo tesoro naturale sia ricco, alcuni parlano di 10mila gigatonnellate, altri si spingono oltre i 70mila. Quello che si sa è che attualmente non esiste un metodo per estrarre efficacemente questa risorsa, ma potrebbero rendersi disponibili con l’aumentare della temperatura terrestre. Iass vuole studiare come sfruttare questa possibile risorsa, accoppiandola magari alle idee 3 e 4.
http://daily.wired.it/news/scienza/2011/03/28/soluzioni-energia-rubbia.html
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Estratto della rassegna di http://caffeeuropa.it/ del 29.03.2011
“…Giustizia
Secondo La Repubblica ci sarebbe uno “stop” del Quirinale sulla responsabilità dei giudici, ovvero sull’emendamento accolto dalla Commissione giustizia della Camera alla legge Comunitaria, che prevede la responsabilità civile dei magistrati anche per manifesta violazione del diritto. Secondo il quotidiano il Colle pensa che si tratti di un emendamento sbagliato nel metodo, nel merito e nei tempi, destinato solo ad alimentare un gratuito scontro con la magistratura, nel senso che – secondo il quotidiano – l’argomento per il Quirinale non si può liquidare nella legge Comunitaria, senza dibattito, tanto più che c’è una riforma costituzionale Alfano che già contiene questo argomento. Il Sole 24 Ore sottolinea che nel 2008 il governo Berlusconi escluse che la legge sulla responsabilità civile in vigore in Italia fosse in contrasto con la decisione della Corte di giustizia, che ci aveva condannato nel 2006: il quotidiano ricostruisce la vicenda, con un articolo dal titolo “governo bifronte sulla modifica”, in cui si ricorda che tutto nacque dalla interrogazione di un deputato radicale, Matteo Mecacci. Ieri il sottosegretario alla giustizia Caliendo non ha escluso la possibilità di mitigare in qualche modo la norma contenuta nell’emendamento contestato….”
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Libia, che fine ha fatto l’acquedotto sotterraneo? 28.03.2011
1984: il governo libico inizia la costruzione di un sistema di tunnel sotterranei per portare acqua nel Sahara e nelle grandi città. Oggi potrebbero nascondere armi e soldati
di Martina Saporiti
Nella guerra contro Gheddafi, in gioco non c’è solo l’ identità politica di una nazione. L’esito del conflitto condizionerà anche il futuro energetico di tutti i paesi che dipendono dalla Libia per le esportazioni di petrolio. Un problema che riguarda molti governi, considerando che dal sottosuolo arrivano circa 1,6 milioni di barili di petrolio al giorno. Quando si parla di oro nero, infatti, la Libia è il terzo produttore africano e vanta le maggiori riserve del continente. Ma di tutto il petrolio prodotto, solo una piccola parte è consumato in casa. L’85 per cento, infatti, è venduto in Europa (circa il 32 per cento all’Italia), mentre circa il 5 per cento viene esportato negli Stati Uniti. E ora i pozzi sembrano in mano ai ribelli.
In questi giorni di guerra, però, il petrolio rischia di mescolarsi con l’acqua, anche se non in senso stretto. La questione è stata sollevata da Peter Neill in un articolo pubblicato sull’ Huffington post. Perché non tutti sanno che nel 1984 il colonnello Gheddafi iniziò la costruzione di un’opera assai particolare: The Great Men Made River.
Negli anni ’50, scavando nel sottosuolo alla ricerca di petrolio, i libici scoprirono che nella parte meridionale del paese c’erano grandi quantità d’ acqua sotterranea. Si tratta del cosiddetto Nubian Sandstone Aquifer System, una riserva accumulatasi in milioni di anni che oggi si estende tra Libia, Egitto, Chad e Sudan per una superficie complessiva di 2 milioni di chilometri quadrati. L’idea di Gheddafi fu quella di costruire una grande rete di canali per portare l’acqua nel Sahara, a Tripoli, Bengasi e nei centri lungo la costa Mediterranea. Il progetto, definito da Gheddafi “o ttava meraviglia del mondo” e costato 25 miliardi di dollari, prevedeva di scavare migliaia di pozzi a 500 metri di profondità e mettere insieme 5mila chilometri di condutture dal diametro di 4 metri, capaci di veicolare sino a 6 milioni di metri cubi d’acqua al giorno.
Ma la faccenda nasconde qualche mistero. Nel 1997, il New York Times pubblicò un articolo che sollevava dubbi circa le reali finalità dell’opera. Il giornalista riportava le perplessità di due ingegneri stranieri coinvolti nei lavori, che giudicavano poco verosimili o incomplete le spiegazioni addotte dal governo libico per giustificare i lavori. Secondo la loro opinione, il progetto non aveva scopi civili, ma militari. I tunnel sotterranei, infatti, sarebbero serviti per nascondere armi, munizioni, provviste, soldati agli occhi dei satelliti americani, oltre a essere una via di comunicazione con Egitto, Sudan e Chad, paese con cui la Libia ha intense relazioni.
L’articolo del Ny Times sollevava anche un’altra questione. La maggior parte dei macchinari usati per realizzare l’opera, infatti, sono made in Usa. Ma è mistero come ci siano arrivati, visto che nel 1986 il presidente Ronald Regan impose un embargo commerciale alla Libia. Forse, dal momento che non aveva alcun tipo di divieto commerciale con il paese africano, fu l’Europa a fare da intermediaria, con o senza il benestare degli Stati Uniti. Sta di fatto che i macchinari sono ancora in Libia e i lavori continuano. Con uno scopo ancora da chiarire.
http://daily.wired.it/news/tech/2011/03/28/libia-acqua-petrolio.html
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Motori diesel e benzina fuorilegge, ma solo nel 2050 29.03.2011
Dovremo aspettare quarant’anni prima che l’Europa metta al bando i motori a benzina e diesel.
Nel 2050, nelle città europee non circoleranno più auto a benzina o a gasolio, ma soltanto mezzi ecologici.
È questa la parte più appariscente del sogno che la Commissione Europea ha messo nero su bianco nel Piano Trasporti 2050, una roadmap stilata per cambiare il modo di spostarsi in tutta Europa.
“Ridurre la mobilità non è un’opzione, né lo è mantenere lo status quo” spiega Siim Kallas, Commissario ai Trasporti. Occorre quindi trovare una terza via, che permetta di alleggerire la dipendenza dal petrolio senza d’altra parte compromettere la mobilità.
Dato, però, che “ci vuole tempo per realizzare le infrastrutture”, “le scelte di oggi determineranno la struttura del sistema dei trasporti nel 2050″.
Entro la metà di questo secolo i trasporti su rotaia e fluviali dovranno essere così sviluppati che chiunque vorrà fare un viaggio superiore ai 300 Km non sceglierà l’auto, e lo stesso avverrà per le merci. In quest’ottica si inserisce lo sviluppo dell’Alta Velocità, la cui rete dovrebbe triplicare entro il 2030.
Un minor numero di auto in circolazione comporterà una minore necessità di petrolio, ma anche gli altri mezzi di trasporto dovranno seguire questa filosofia: a questo scopo gli aerei e le navi nel 2050 dovranno usare carburanti “sostenibili” almeno per il 40%.
È in questo piano generale che s’inserisce la decisione di interdire la circolazione nelle città alle auto a benzina o gasolio, un obiettivo che, per essere raggiunto, richiede investimenti nello sviluppo di motori ecologici per i veicoli personali del 2050.
Tutto ciò porterà inoltre a un calo dell’inquinamento: Bruxelles mira a ridurre le emissioni di gas serra del 60%, scoraggiando l’utilizzo di mezzi inquinanti in base al principio che dice: “chi inquina paga”.
Ciò si accompagna all’altro principio – “chi usa paga” – che servirà a racimolare i fondi necessari per realizzare l’ambizioso piano ideato da Kallas.
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=14486
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In Puglia gli spagnoli sfruttano gli immigrati per costruire parchi fotovoltaici gratis 30.03.2011
Ci sono posti, in Puglia, dove l’energia fotovoltaica è nera. E malamente sfruttata. La vicenda ricorda le coltivazioni di cotone: la Tecnova, azienda spagnola che sta costruendo molti parchi fotovoltaici a terra in Puglia, ha ingaggiato centinaia di immigrati a 55 euro al giorno per 7 ore di lavoro. Salvo poi farli lavorare il doppio e per metà della paga.
Ciliegina sulla torta: non paga un centesimo da tre mesi. Gli immigrati non ce l’hanno fatta più e si sono ribellati: denunce ai sindacati e agli avvocati, manifestazioni davanti la sede brindisina di Tecnova (ma sono tutti spariti, si dice siano tornati in Spagna di gran corsa) e clamore mediatico annesso perché, come riporta Brindisireport lo sfruttamento raggiunge livelli ottocenteschi:
Chi protesta, licenziato. Chi si ammala, licenziato. Chi si assenta, licenziato. Chi perde un occhio, chiede di poter ricevere le giuste cure e presentare il certificato medico, licenziato.
Alla fine la magistratura ha anche aperto un’inchiesta per fare chiarezza su questa modernissima forma di caporalato. A quanto pare, infatti, c’è dietro qualcuno che recluta gli immigrati. Una nuova forma di ecomafia?
Via | Brindisireport.it, Lecce Prima
Foto | Flickr
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L’infrarosso che accende l’udito 30.03.2011
Sentire i suoni con l’aiuto della luce, infrarossa. È quello che in futuro potrebbe accadere alle persone con problemi di udito grazie alle scoperte di un team di ricercatori dell’Università dello Utah, guidati da Richard Rabbitt. Gli scienziati hanno infatti dimostrato che è possibile influenzare il comportamento delle cellule dell’orecchio, e quindi dei segnali che da qui arrivano al cervello, utilizzando la radiazione infrarossa. Con lo stesso principio, si potrebbero sviluppare dispositivi per migliorare l’equilibrio o la vista nelle persone in cui queste capacità sono compromesse. A suggerirlo sono i due studi pubblicati dai ricercatori su The Journal of Physiology.
Le idee per rivoluzionare i sistemi di sostegno all’udito e alla vista sono nate da due esperimenti che gli scienziati hanno condotto rispettivamente su cellule del cuore di ratto e su cellule dell’orecchio interno di pesce rospo (Opsanus tau). In entrambi i casi, esponendo i campioni biologici a luce infrarossa (invisibile agli occhi), i ricercatori hanno scoperto che la radiazione attiva le cellule, inducendo il movimento degli ioni calcio nei mitocondri, le cosiddette centrali energetiche delle cellule. Un meccanismo importante tanto per il funzionamento del muscolo cardiaco quanto per quello del sistema uditivo perché, come ha affermato Rabbitt, è il calcio a innescare la contrazione cellulare o il rilascio di neurotrasmettitori.
Partendo da questi scoperte, i ricercatori suggeriscono che in futuro si possano utilizzare segnali ottici al posto di quelli elettrici in dispositivi come i peacemaker o negli impianti uditivi per i sordi. Soprattutto in questo caso, l’uso dell’infrarosso avrebbe molti vantaggi rispetto ai segnali elettrici impiegati nei dispositivi tradizionali, dove le frequenze captate sono limitate (otto in genere), e lo spettro di suoni che in ultimo viene elaborato dal paziente è piuttosto ristretto. Con un sistema a radiazioni infrarosse invece sarebbe possibile intercettare un numero più alto di frequenze, perché i segnali ottici (specifici per le diverse frequenze di suoni) possono essere focalizzati su cellule differenti all’interno dell’orecchio. Inoltre, ristabilire il funzionamento delle cellule dell’orecchio interno sarebbe importante anche per quelle persone che hanno problemi di equilibrio.
Infine, come spiegano i ricercatori, c’è anche una possibilità che dispositivi che impiegano questo tipo di radiazione possano aiutare le persone con la retina danneggiata – in cui alcune cellule non sono più in grado di rispondere ai normali segnali luminosi – a recuperare parzialmente la visione. In questi casi infatti altre cellule del sistema visivo sarebbero ancora sensibili alla radiazione infrarossa, che potrebbe attivare quei cambiamenti che portano alla creazione delle immagini e quindi alla visione.
Riferimenti: The Journal of Physiology DOI: 10.1113/jphysiol.2010.198804, DOI:10.1113/jphysiol.2010.198333
http://www.galileonet.it/articles/4d92d27f72b7ab1013000002
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La rassegna di http://caffeeuropa.it/ del 31.03.2011
Le aperture
Corriere della Sera: “Rissa alla Camera, monetine in piazza”, “Pdl e Lega accelerano sul processo breve: urla contro La Russa e Santanché”, “Duro scontro tra il ministro della Difesa e Fini. Rinviato il provvedimento, torna l’ipotesi della fiducia”.
A centro pagina: “Morti 11 immigrati in mare, c’è anche un bimbo”, “Berlusconi a Lampedusa: libereremo l’isola. E compra una villla”, “La Tunisia frena sui rimpatri. Si dimette il sottosegretario all’Interno Mantovano”.
La Repubblica: “Prescrizione breve, scoppia la rivolta”, “Blitz per salvare Berlusconi: bagarre in aula, in piazza monetine contro i ministri”, “Corsa del Pdl per far approvare la legge, anche con la fiducia. L’Anm: colpo mortale alla giustizia. La Russa insulta Fini. Bersani: è uno sfregio, fronte comune”.
A centro pagina: “Show del premier: via i profughi da Lampedusa. Affonda gommone, un bimbo tra gli 11 morti”.
Il Giornale: “Riecco Berlusconi”, “Lampedusa liberata”, “Il premier sull’isola, via allo spostamento dei clandestini. Per i cittadini niente tasse per un anno”.
E sullo scontro alla Camera: “Emergenza giustizia, assalto al governo. Pasticcio di La Russa”.
A centro pagina: “A Prodi tre pensioni al mese”, “Il Professore intasca 14mila euro. Tra i miracolati anche Cossutta, Scalfaro e Violante”.
Libero: “Fini perde la testa”, “Rissa a Montecitorio”, “la Russa prende la parola per denunciare i manifestanti che tirano monetine e l’opposizione. L’ex leader di An lo zittisce e poi lo insulta: ‘Si faccia curare’. Non può più presiedere la Camera”.
A centro pagina, con foto: “Silvio spettacolo a Lampedusa”, “‘Isola libera in due giorni'”. E in basso: “Mantovano sbatte la porta, ‘Ci siamo presi troppi immigrati'”, “Il sottosegretario si dimette”.
La Stampa: “Il premier: svuoterò Lampedusa”, “Berlusconi: in due giorni via gli immigrati. saranno distribuiti in tutta Italia. Nella notte affonda un barcone. I superstiti: undici morti tra cui un bambino”. E sotto la testata: “Prescrizione breve. Bagarre in aula, assalto alla Camera”, “La Russa insulta Fini. La replica: curatelo”, “L’opposizione insorge, sputi e monetine fuori da Montecitorio”.
Europa: “Blitz, buffonate, provocazioni. E alla Camera finisce male”, “La pagliacciata di Lampedusa scatena la rabbia a Roma, La Russa sbraca”.
A centro pagina: “Sull’isola sbarca Silvio La Qualunque”.
Il Foglio: “Infuria lo scontro sul diritto dei giudici ad abbattere Berlusconi”, “La maggioranza contro il processo Mills, l’opposizione blocca l’ingresso di Montecitorio e lancia monetine”. E poi: “Ogni volta che Repubblica lo iscrive al proprio partito, Napolitano smentisce pubblicamente. Ecco come e perché”.
Due colonne centrali del quotidiano sono dedicate ad una polemica dell’Elefantino-Ferrara contro Ugo Stille, che contesta la rubrica tenuta dal direttore de Il Foglio in Rai.
Sulla politica internazionale, la Libia: “Quanto è difficile vincere una guerra con i ribelli che si sparano sui piedi”, “Le forze contro Gheddafi sono divise e inesperte, l’addestramento richiede tempo”.
Il Sole 24 Ore: “Basilea 3, crescita a rischio”, “Minori prestiti a imprese e famiglie italiane per 346 miliardi”. Si citano i dati di una ricerca Ambrosetti secondo cui “le nuove norme possono ridurre di circa un quarto le somme erogate dalle banche”.
A centro pagina, la rissa alla Camera: “Giustizia e immgrati. Alta tensione nel Governo”. E l’analisi di Stefano Folli: “Il timore che la rissa si prolunghi fino al 2013”.
Politica
Il Pd si divide – secondo La Repubblica – sulla “ipotesi Aventino”. Ieri, nel corso del duro scontro tra Governo e centrosinistra, il senatore Ignazio Marino invocava la necessità di un “gesto eclatante”, come l’abbandono dell’Aula: “O anche dimetterci tutti, in modo da provocare nuove elezioni”. Racconta il quotidiano che a Montecitorio c’era stato in precedenza un battibecco tra Rosy Bindi, che proponeva di lasciare l’Aula, e D’Alema, che aveva ironizzato: “Cosa vuoi? Che mi tolga gli occhiali e vada a menarli?”. Il segretario Pd Bersani ha invece bocciato l’Aventino: “Abbandonare l’Aula? Si può sempre discutere di questo, ma con i numeri che hanno decidono in un’ora”. Rosy Bindi viene intervistata dal quotidiano e conferma che la non partecipazione ai lavori dell’Aula “può essere più chiara, più diretta, di una partecipazione che non incide e spesso si rivela inutile”. Pierluigi Battista sul Corriere della Sera avverte che “l’orlo del precipizio è vicino” e scrive che dalla “caotica follia” che ha avvilito ieri il Parlamento e la piazza antistante nessuno esce “con un profilo di decoro”. Non la maggioranza di governo, “che non ha esitato a svilire la riforma della giustizia riducendola con un escamotage parlamentare a scudo per le vicende del premier”, non l’opposizione, tentata addirittura da velleità aventiniane, e che sembra succube di una frenesia da megafono, che trasferisce l’opposizione parlamentare nell’incandescenza del comizio.
Stefano Folli sul Sole 24 Ore scrive che il caos che si è scatenato sulla prescrizione breve lascia intendere che non avremo mai (almeno in questa legislatura) “alcuna riforma generale e convincente dell’ordinamento giudiziario”: “fin dall’inizio è apparso chiaro che in Parlamento mancano ormai tutte le condizioni politiche per procedere ad una riforma tanto ambiziosa”. Le opposte tifoserie sono ancor più agguerrite: da una parte “una maggioranza risicata e perciò arroccata attorno al suo leader, dall’altra una opposizione debole e divisa, che in questa battaglia trova la sua identità (peraltro sempre più condizionata da Di Pietro e dal Popolo viola)”.
Proprio ieri, come racconta lo stesso quotidiano, il Presidente Napolitano aveva chiesto sulla riforma della giustizia “iniziative condivise tese a migliorare la funzionalità del sistema”.
Secondo Il Corriere della Sera il premier sarebbe “irritato” perché l’operazione Lampedusa è stata oscurata dalla bagarre a Montecitorio: sarebbe stato rovinato il “piano rilancio”. E parlando di “crepe nel Pdl” il quotidiano scrive che il “vaffa” del ministro della Difesa La Russa ha creato una profonda crepa in An, facendo risaltare la distanza tra gli ex An e gli ex Forzisti. Anche per La Repubblica “l’ira di Berlusconi sul ministro, ‘hai sbagliato, sei caduto nella trappola’”. E le parole dell’ex ministro Scajola a La Russa: “Hai combinato un casino”.
Per Il Giornale: “Scivolone di La Russa, tensione nel Pdl”. Berlusconi furibondo con il titolare della Difesa: il suo “vaffa” contro il Presidente della Camera blocca l’approvazione del processo breve. L’ira di Alfano. Già partita una raccolta di firme interna per farlo dimettere”. Il quotidiano parla anche di un dietrofront, e spiega che il ministro ha dovuto telefonare a Fini per chiedere scusa. Poi, sotto il capitolo “Scajola & Co”, si parla dei “maldipancia” degli ex di Forza Italia. Attorno all’ex titolare dello Sviluppo economico si concentra il malumore contro gli ex di An e lo strapotere dei Responsabili. Secondo Libero sarebbero già 100 le firme raccolte dagli azzurri per chiedere le dimissioni del Ministro della Difesa.
Politica internazionale
Su La Stampa, a proposito delle divisioni in Europa sulle operazioni in Libia, l’inviata a New York racconta la visita del Capo dello Stato negli Usa. Si riassumono così le sue parole: “Non capisco la decisione della Merkel”, “forse pensava alle elezioni”.
Secondo La Repubblica “cresce il fronte dei sì” alla proposta di fornire armi ai ribelli libici. Sembra contrario il Segretario generale della Nato Rasmussen, secondo cui “l’Alleanza è impegnata in Libia per proteggere la popolazione e non per armarla”. I primi a ventilare l’ipotesi di fornire armi al consiglio di transizione sono stati, martedì a Londra, i francesi. Obama ha firmato un ordine esecutivo che autorizza operazioni sotto copertura Cia per aiutare i ribelli, e la Segretaria di Stato Clinton si è spinta a dire che la risoluzione Onu 1973 “potrebbe consentire” di fornire legittimamente armi agli insorti. Anche per il premier britannico Cameron “nulla è escluso”.
“L’ordine segreto dato da Obama agli agenti della Cia” è anche il titolo di una analisi che compare sul Corriere della Sera.
Il Sole 24 Ore ha intervistato Mohamed El Senussi, erede di re Idris, che vive in esilio a Londra. Dice che Gheddafi non lascerà, se ne andrà solo con la forza “per mano di chi oggi lo sostiene”. E rilancia la proposta di fornire armi agli insorti. Intanto, “Gheddafi avanza verso Bengasi”, come scrive una corrispondenza dello stesso quotidiano: dopo aver finto la ritirata, le forze del Colonnello riguadagnano terreno in Cirenaica. Si è ripreso Ras Lanouf e i terminali petroliferi.
Intanto, il ministro degli esteri di Gheddafi, Musa Kussa, è fuggito a Londra, come raccontano tanto La Repubblica che il Corriere della Sera. Su La Stampa la notizia è in grand evidenza: “L’uomo dei segreti abbandona Gheddafi. Il ministro degli esteri ed ex capo degli 007 fugge a Londra”. E anche qui si spiegano le divisioni sulla ipotesi di fornire armi alle forze anti-regime. Sullo stesso quotidiano una pagina sul discorso tenuto ieri dal Presidente siriano Bashar Al Assad davanti ad un Parlamento omaggiante: “Prima la stabilità, poi le riforme”, ha detto Assad, che non ha fatto le attese aperture ed ha denunciato gli stranieri come istigatori degli scontri. Con un reportage da Hamaa, la città del grande massacro del 1982, dove gli islamisti sono ancora forti e aspettano la vendetta, dagli anni della repressione del defunto presidente Hafez Al Assad. Sul Foglio: “Assad parla, il fratello generale che spara sulla folla comanda”. Anche sul Corriere della Sera, il racconto dell’inviato: “I 20 mila spettri di Hamaa che attendono giustizia. Nella città della strage ordinata dal defunto Hafez nel 1982 contro i Fratelli Musulmani. Sul Foglio anche una analisi sul fermento che cresce in Giordania, dove c’è insofferenza verso la corte di Abdullah e dove è stato accusa anche la regina Rania.
E poi
Sulla prima de Il Sole 24 Ore un intervento di quello che viene definito “l’ideologo” del presidente cinese Hu, sotto il titolo “Pechino si apre all’Occidente”.
In prima su Libero un richiamo all’articolo di Roberto De Mattei, vicepresidente del Cnr, criticato per le dichiarazioni rilasciate a Radio Maria, nel corso delle quali ha commentato lo tsunami giapponese “citando la Divina Provvidenza”, come spiega il quotidiano: “Ho parlato di Dio alla radio e volgiono le mie dimissioni”.
Sul Sole 24 Ore, modelli di welfare e l’esempio della Germania: “fabbrica a misura di lavoratore anziano”. La società Borg Warner, nella Renania Palatinato, è diventata ergonomica, si è dotata di sollevatori e tapis roulant per venire incontro alla salute di dipendenti sempre più anziani.
“Neo-ecologismo” è il titolo dell’approfondimento del Diario de La Repubblica dedicato alla “ripresa della sensibilità per i temi verdi”, a partire dalla vittoria dei Verdi in Germania e dalla mobilitazione per i referendum in Italia. Libri consigliati, definizioni, articoli di Stefano Rodotà, Guido Viale e Carlo Petrini.
Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, ha tenuto ha chat con i lettori de L’Espresso, che viene riassunta dai lettori de La Repubblica: “Così Wikileaks ha contato nella rivolta dei popoli arabi”.
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RAGE AGAINST THE MACHINE ? (SECONDA PARTE) 29.03.2011
DI PAOLO BARNARD
paolobarnard.info
Aggiornamento Il Più Grande Crimine 12 Seconda Parte
Bella la storia della rivolta egiziana, eh? La democrazia che nasce in un Paese. Un popolo che riprende in mano il suo destino. Ci può essere qualcosa di negativo in questo? Possiamo non sorridere compiaciuti per una volta?… Sì che possiamo, e anzi, dovremmo preoccuparci, pulitevi quel sorriso dalla faccia. Perché il mondo non è quello che vediamo, il mondo è quello che il Vero Potere non ci fa mai vedere. Infatti mentre il Cairo sperava, e proprio a causa di quella speranza, milioni di altri poveracci prendevano una sberla colossale, in termini di sussistenza, lavoro, reddito. Un egiziano lotta per vivere meglio, e un pakistano ‘a causa sua’ perde il lavoro e va alla disperazione. Questo è il mondo vero, care ‘belle anime’, il mondo dove in una decina di stanze occidentali un centinaio di uomini guarda alla Tv la rivolta a Tahrir Square e le esitazioni di Hosni Mubarak, come voi, solo che questi uomini poi alzano la cornetta del telefono a danno ordini secchi, e così decime di miliardi di dollari spariscono in poche ore dai mercati cosiddetti emergenti, quelli che hanno bisogno di quel denaro come i tuoi polmoni del prossimo respiro.
In un Paese come il Bangladesh si tratta di decine di finanziarie che volano via, assieme al lavoro di qualche decina di migliaia di persone, che hanno famiglia come te, che ieri hanno messo a letto la bimba come hai fatto tu, ma che domani che faranno? Ciò accade perché, come ho mille volte scritto, il mondo vero è governato dal Tribunale Internazionale degli Investitori e Speculatori, e la loro sentenza passata in giudicato il 4 febbraio è stata questa: “C’è un paradosso nei mercati… il successo delle proteste al Cairo potrebbe rendere il resto della regione caotico, se ispira i popoli di altri regimi… ci sono segni di stress nel sistema, perché la protesta egiziana sta incoraggiando i manifestanti in Yemen, Algeria, Bahrain e Iran”… “l’atmosfera sarà anche elettrizzata in Egitto, ma l’umore è decisamente più grigio nella stanze di business in Europa e America” (Financial Times).
Che significa? Significa che gli investitori, coloro cioè che decidono se il tuo Paese avrà i fondi per vivere o no, hanno pensato che era meglio levare di corsa il loro denaro dalle nazioni emergenti, soprattutto quelle con regimi autoritari, perché a rischio di contagio della rivolta araba, e quindi a rischio di instabilità per chi fa business. Hanno preso il colossale malloppo e lo hanno piazzato nei porti sicuri come i titoli di Stato USA, lo Yen giapponese o le materie prime. Questa è miseria che piomba di colpo nella casa di milioni di Bashir o Nawaz, di Ngoro o di Muanna, coi loro figli, i loro debiti, le loro malattie, le loro speranze. Vuoi ancora sorridere? E c’è di peggio. Perché gli stessi investitori, come detto sopra, getteranno i denari sottratti al Bangladesh o all’Indonesia in porti sicuri come le materie prime, cioè grano o mais, e i prezzi di quelle preziose materie schizzerà alle stelle per la solita questione della domanda e offerta. E poco importa se qui da noi la Barilla si gratterà il capo per non aumentare i bucatini di 5 centesimi, il dramma è che in ¾ del mondo quelle variazioni significano letteralmente la fame per orde di esseri umani che contano sulla farina o sul mais per arrivare al giorno dopo. Ecco cosa possono fare i commodities traders, sapevi che esistevano? I nomi? Che so… Bunge, Archer Daniels Midland, ADM, Gavilon, li conoscevi? Spegni la Tv o Facebook, con le belle news dal Cairo. Al massimo un sorrisetto per i fratelli egiziani, poi mettiti a pensare col magone, perché il mondo vero è un’altra cosa.
Ok, “adesso gliela facciamo vedere a quella gente lì”, vero?
In tema di occupazione Michele Santoro cosa fa? Sempre la stessa cosa, prende i soliti lavoratori alla disperazione e li mette davanti a una telecamera dove all’altro capo c’è un politico italiano, spesso oggi Tremonti, che deve spiegare le cause delle loro miserie. Cioè, la grande informazione, anche quella fintamente di sinistra, non fa altro che dirci che i problemi di chi soffre nello stipendio stanno a Roma, magari proprio nel politico ‘odioso designato’ del momento. Mai e poi mai diranno la verità, spesso per malafede, ma di fatto non gliela dicono a quei lavoratori.
Gli hanno per caso mai detto che in molti casi è lo Sweating the Assets da parte degli Equity Funds che ha fottuto il posto di lavoro degli operai di quell’azienda di Sassari, o di Como, o Bologna? Gli dicono mai che sono le politiche macroeconomiche del Fondo Monetario Internazionale ad aver prosciugato la Aggregate Demand nel mondo, che ha ridotto drasticamente anche la richiesta di merci italiane da parte di decine di Paesi emergenti del mondo?
Sweating the Assets: gli speculatori degli Equity Funds individuano un’azienda italiana appetibile, cioè che genera buoni profitti a fronte di un indebitamento limitato. La comprano con un take over azionario, e poi emettono titoli nel nome di quell’azienda che promettono interessi alti a chi li compra. Con i soldi dei compratori pagano i loro debiti per l’acquisto dell’azienda, poi la spremono come un limone vendendo tutto ciò che possiede e che abbia un valore (s’intascano i profitti), tagliano i salari, licenziano una quota di lavoratori con la scusa della crisi economica, e alla fine lasciano uno scheletro di azienda in rovina che fa bancarotta o viene venduta dai filibustieri dell’Equity Fund per pochi soldi (che di nuovo incassano). Gli acquirenti dei titoli rimangono fregati, e i dipendenti versano lacrime e sangue. Altro che Tremonti. L’economista Jan Toporowsky sostiene che questa sia una delle principali cause di fallimento aziendale del mondo. Di nuovo: tu e il tuo destino di padre o madre di famiglia, anche qui, da noi.
Cos’è la crisi dell’Aggregate Demand? Dovete capire che noi Paesi ricchi non siamo sempre autosufficienti, cioè non bastiamo a noi stessi per produrre e venderci tutto ciò che ci serve, cioè per mantenere al lavoro il maggior numero di persone possibile. Da almeno 20 anni una fetta sempre maggiore del nostro reddito dipende da quanto comprano da noi diversi Paesi cosiddetti emergenti. Essi ‘emersero’ negli anni ’80 e promettevano bene, anche nella prospettiva dei loro cittadini, non solo per i soliti ricconi. Ma ovviamente il Vero Potere gli è piombato addosso, per mano del Fondo Monetario Internazionale e delle sue regole di gestione economica tutte volte a spremere la gente e a tutelare gli investitori. Una lunga e incredibile storia che non posso trattare qui. Di fatto, testimoniano fior di economisti fra cui il Nobel Joseph Stiglitz o Jeffrey Sachs con a sostegno l’evidenza dei fatti, le regole del FMI hanno devastato quelle economie emergenti portandole in diversi casi al fallimento (le nazioni cosiddette Tigri asiatiche, Messico, e altri). Il fallimento e quelle stesse regole hanno gettato quei Paesi in debiti a spirale che potevano ripagare solo in dollari, che non possedevano a sufficienza. Per un decennio hanno sudato lacrime e sangue per trovare il bigliettoni verdi necessari, a costi umani inenarrabili. Ma hanno imparato la lezione. Infatti oggi quegli stessi Paesi sono diventati avidi accumulatori di dollari nei loro fondi sovrani, che NON vogliono spendere proprio per non ritrovarsi mai più in quelle condizioni terribili. Ma se non li spendono significa che non comprano da noi, quindi cala la domanda di merci e servizi (la Aggregate Demand) italiani, francesi, olandesi ecc. Significa letteralmente, per fare il solito chiaro esempio, che la ditta di maglieria di Carpi che aveva una fetta grossa di fatturato acquistata da Korea del Sud, India, o Taiwan e Singapore, ora non vende più come prima, e licenzia o precarizza a man bassa. In Italia questo fenomeno ha afflitto una quota di commercio estero enorme, e come sempre sei tu o tua moglie a soffrire. Altro che Tremonti, caro Santoro, poveracci quelli che in buona fede si accalcano davanti alle tue telecamere.
Sweating the Assets, Equity Funds, crisi di Aggregate Demand… milioni di posti di lavoro nel mondo succhiati da quelle idrovore.
Ok, “adesso gliela facciamo vedere a quella cosa lì”, vero?
Banane equosolidali, Gruppi di Acquisto Solidali, l’orto biologico, i pacchi di pasta per Mani Tese… certo, come no. Fra il miliardo di persone che fanno la fame ogni giorno e tutti quelli che invece mangiano come maiali sempre, o mangerebbero come maiali sempre, la differenza non è che non ci sia cibo per sfamare tutti, lo si sa; la differenza si chiama appetito, solo questo, e non sto scherzando. Il fatto è che in realtà di cibo per l’appetito dei secondi non ce n’è veramente a sufficienza. Oggi una lunga lista di Paesi, che vanno da quelli del Golfo a India e Cina fino ai ricchi del G8, fatica a trovare sui mercati tutto ciò che consuma a tavola. Forse non lo avete presente, ma dietro ogni nostro boccone a pranzo o cena c’è una guerra immane e dalle conseguenze oscene per accaparrarsi il cibo, resa ancor più ignobile dalla presenza di lei, The Machine. E’ in corso una gara immensa e a colpi di miliardi di euro per conquistare terreni coltivabili a suon di milioni di ettari dove coltivare o allevare ciò che noi consumiamo. A competere sono soprattutto i Paesi in via di sviluppo ma anche i ricchi dell’Occidente; se per i primi si tratta appunto di trovare sempre più riso o carne, per noi si tratta anche di speculare in finanza su queste nuove produzioni, che promettono talmente bene da garantire già oggi interessi dal 20 al 40% sul capitale investito (metro di misura: un titolo di Stato rende in media, se va bene, un 5%).
Qui l’intersezione fra consumismo e finanza speculativa è anche più oscena e micidiale di ciò che ho descritto ne Il Più Grande Crimine e Aggiornamenti, poiché il Vero Potere infligge a noi disoccupazione, dipendenza e perdita totale di democrazia, ma nel caso della corsa al cibo esso infligge morte fisica e miserie inenarrabili a centinaia di milioni di persone. Perché? Semplice: la combinazione fra l’effettiva grande richiesta di alimenti, la conseguente aspettativa da parte dei mercati che essi si venderanno sempre più, e la montagna di miliardi che per quella precisa ragione vi si investono, ha fatto schizzare il prezzo delle materie prime alimentari alle stelle – la FAO nel 2008 ha stimato un aumento del 52% in pochi mesi – e ciò per chi conta sul mais o sul riso per letteralmente arrivare al giorno dopo, è una condanna a morte. A peggiorare la situazione, sempre nel costo al rialzo di quelle materie, ci sono altre cause, come il fatto che sempre più cereali sono richiesti per sfamare gli animali che noi divoriamo; oppure la produzione del nostro etanolo, che ci dovrebbe alleggerire la dipendenza dal petrolio, ma che risucchia dalle bocche degli affamati altrettanto mais con cui lo si produce; e infine la considerazione che per produrre il cibo occorre come sempre una mare di petrolio, che oggi costa tantissimo e così aumentano i prezzi degli alimenti. Mi soffermo brevemente su questi due ultimi punti: la situazione dell’uso di mais per l’etanolo è divenuta così grave per i poveri del mondo che addirittura ha mosso le proteste del numero uno del colosso alimentare Nestlè, Peter Brabeck-Letmathe, in occasione di un discorso fatto al Council on Foreign Relations a metà marzo. Brabeck-Letmathe, che non è certo un benefattore, ha però ricordato una cosa estremamente importante e destabilizzante per le ‘belle anime’ di sinistra: è la nostra esigenza di ridurre l’inquinamento ambientale che ci ha portato verso l’etanolo, e chi paga il prezzo delle nostre politiche verdi sono però i soliti disgraziati ‘negri’ del Sud, che appunto fanno la fame. E sul secondo argomento, l’uso del petrolio per il nostro cibo, cito alcuni dati essenziali: per produrre ogni singola caloria di cibo (soprattutto grano) occorrono in media da una a dieci calorie di combustibili fossili. I cereali per arrivare sulla nostra tavola richiedono 4 calorie fossili per ogni caloria che ci danno. La carne di manzo ne richiede 35 di calorie fossili per darne una a noi, quella di maiale vuole 68 calorie fossili per ogni caloria alimentare che offre. Ogni innocente verdura che vediamo in vendita è all’apice di uno spreco incredibile di idrocarburi. Ad esempio per lavorare e fertilizzare i campi dello Stato americano dello Iowa occorre ogni anno l’energia equivalente a quella di 4.000 bombe termonucleari, energia fornita interamente dal petrolio. Come già detto, il globo consuma ogni anno 15.000 miliardi di watt, quasi tutti prodotti da combustibili fossili, e il 73% di questa energia va in agricoltura, luce domestica e trasporti. Le guerre, le ribellioni in Medioriente, la speculazione degli investitori, sparano alle stelle il prezzo del greggio e così anche quello del cibo: fame e disperazione dei ‘negri’.
Ma noi vogliamo mangiare sempre e che sia tanto. Ok. Eccovi dunque la corsa per il cibo dove stiamo letteralmente comprando intere fette di Paesi poveri da coltivare con tecnologie spaziali, manodopera ovviamente da fame, e profitti da capogiro per gli investitori. Una corsa spietata, immensa, infermabile visto che miliardi di persone poi pretendono quella roba ogni giorno:
Il Bahrain si è gettato a divorar terreno in India, Pakistan, Filippine, Sudan, Egitto, Iraq, con gruppi come il TRAFCO e il MAP, oltre allo stesso governo. La Cina, è ad arraffare terre in Brasile, Cuba, Birmania, Cameroon, Messico, Kazakhstan, Laos, Mozambico, Filippine, Uganda, Tanzania, Zimbabwe, col governo, con il gigante della telefonia ZTE, e Balckstone che è una degli Equity Funds più grandi al mondo. Gli Stati del Golfo sono arrivati in tutta l’Africa (in Somalia soprattutto), in Brasile e in Asia con Agricapital, che è un fondo di investimento islamico da un miliardo di dollari in cash. L’India si è gettata su Argentina, Brasile, Birmania, Paraguay, Uruguay, Indonesia, con la aziende Ruchi Soya, KS Oil e Godrej. Il Giappone compra in Cina, Brasile, Egitto, Sud America, e Sud Est asiatico, attraverso Mitsui, Itochu, Sumitomo, Asahi, quest’ultima già produce in Cina latte che costa il 50% in più del prodotto locale e viene spinto con un marketing aggressivo che sospinge a sua volta gli altri prezzi in alto. Il Kuwait è sbarcato a fare acquisti di campagne in Birmania, Cambogia, Egitto, Marocco, Yemen, Laos, Uganda, Sudan, con la famiglia Al-Sabah al comando che stringe affari con i ceffi del governo di Khartoum. Il Qatar si è fiondato su Pakistan, Tajikistan, Sudan, Turchia, Vietnam, dove possiede un Investment Fund da 900 milioni di dollari, e infine compra risaie a man bassa in Cambogia, dove il governo spera di esportare a fiume il prezioso chicco a 10 milioni di tonnellate all’anno nonostante nelle sue campagne si faccia ancora la fame, vera. L’Arabia Saudita è in Brasile, Etiopia, Filippine, Senegal, Uganda, Ukraina, Indonesia, Kazakhstan, Pakistan, Sudan, Tailandia, con la famiglia reale, con il Al Rabie Group e… coi Bin Laden, certo, che hanno piazzato una scommessa da 4,3 miliardi di dollari su immensi campi di riso in Indonesia. La Korea del Sud cerca terre in Russia, Argentina, Sudan, Cambogia, Laos, Mongolia, Indonesia, e ha persino invitato il criminale presidente Al-Bashir a una piena cooperazione che prevede centinaia di migliaia di ettari dove coltivare grano, da esportare tutto, fino all’ultimo chicco, in Korea, mentre in Sudan lo sappiamo, crepano di denutrizione. Poi ci sono gli Emirati Arabi Uniti, che valgono una menzione perché oltre a essere anch’essi ovunque a comprare, hanno chiesto al Pakistan l’esenzione dalle leggi nazionali che limitano l’esportazione di alimenti, visto che i pakistani sono alla bancarotta proprio a causa delle speculazioni alimentari. E poi ci siamo noi…
Ma noi occidentali, oltre ad acquistare intere regioni come i sopraccitati, siamo specializzati in speculazione sulle produzioni già in corso e su quelle future. La Svezia con Alpcot Agro e Black Earth farming; la Gran Bretagna con Barklays Capital, con Cru Investment Management che promette interessi del 30-40%!, con Dexion Capital, con Knight Frank e il suo Hedge Fund fatto per l’occasione, con Lonrho, con Landkom, con Bidwells, con Schroders che promette il 15% lungo solo 5-10 anni di investimenti, con T4M. La Danimarca con Trigon Agri. L’Olanda con Louis Dreyfus. Gli Stati Uniti, che piazzano nella corsa il colosso delle speculazioni Goldman Sachs, l’altro gigante Morgan Stanley, BalckRock che ha lanciato un Hedge Fund per questo da 200 milioni di dollari, e RAV Agro Pro in partnership con Israele e la Gran Bretagna. Infine la Germania, la cui Deutsche Bank investe 60 milioni di dollari in Cina, ma che fa la parte del leone con una partnership americana da 450 milioni per acquisire terre in Europa. A fare da ombrello a questa corsa dei pirana agricoli c’è l’International Finance Corporation della Banca Mondiale, che “sta lavorando sodo in Ukraina e in altre nazioni per assicurarsi che le terre coltivabili siano vendute agli investitori stranieri attraverso le riforme di mercato, e ha investito nel solo 2008 1,4 miliardi di dollari per l’agribusiness” (GRAIN, 24/10/08). Segue il codazzo degli Hedge Funds e banche come Agri-Vie Fund, Africa Invest, Emergent, Dutch Rabobank, BNP Paribas, o Credit Agricole.
Dovete immaginare che con promesse fatte agli investitori di profitti nell’ordine del 15 o 40% sul capitale investito, si esclude categoricamente qualsiasi significativa condivisione dei guadagni con le popolazioni locali. Nessuno fa miracoli. Inoltre non va dimenticato che essendo lo scopo di tutto ciò l’accaparramento di forniture a catena per i megamarket a prezzi sempre più bassi, e contando che già i prezzi sono alti per le ragioni dette più sopra, le ‘belle anime’ si possono scordare qualsiasi accenno al biologico e all’equosolidale. Si tenga conto poi dell’impatto ambientale di questi milioni di ettari trasformati in serre high tech, e la devastazione delle catene di piccola produzione di cibo a livello locale, quella che sfama milioni di villaggi. Ma The Machine non ne ha ancora a sufficienza.
Essa specula anche sulle forniture fondamentali per l’agricoltura, come le sementi, i fertilizzanti, il grano, e i macchinari. Da una parte i suoi servi nelle organizzazioni sovranazionali, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio che regola quasi tutto con leggi più potenti di quelle nazionali, stanno lavorando duramente per ottenere che le sementi divengano proprietà brevettate, e non più un bene di tutti da piantare gratis (con il bene placido del buon Bill Gates che da una parte fa la sua carità all’Africa e dall’altra lavora all’OMC per difendere i brevetti di cui sopra). Dall’altra si è organizzata in monopoli giganteschi che posseggono in pratica l’esclusiva di quelle forniture essenziali. Cargill, ADM, e Bunge hanno in mano le sementi e hanno incassato l’anno scorso quasi otto miliardi di dollari fra di loro, tutti profitti. Potash Corp. , Mosaic e Yara controllano i fertilizzanti, con 11 miliardi di profitti. Monsanto, Syngenta, Bayer, Dow, e BASF, trattano sementi e pesticidi e hanno intascato 7,5 miliardi. AGCO, John Deere, New Holland fanno i macchinari sono a 4,9 miliardi. Con un potere del genere e quasi monopolio su ciò che vendono, questi colossi possono strizzare i contadini come stracci, e sappiate che lo fanno anche ai ricchi, infatti negli USA le spese di produzione in agricoltura si mangiano il 77% degli incassi lordi. Immaginate in Sudan. Il risultato è, di nuovo, l’aumento dei prezzi dei prodotti, quindi crisi alimentare, rivolte, instabilità politica, e fame fino alla morte.
Tutto questo, ma veramente, sta dietro alla tua spesa alla COOP, o qualsiasi altro punto vendita di cibarie. Inutile fare gli ipocriti o ventilare soluzioni da favola della Befana – i Gruppi di Acquisto Solidali!… forza biologico!… il fotovoltaico!… – i numeri sono quelli elencati, i miliardi di bocche sono quelle che pretendono volumi immensi di cibo, sempre, e a prezzi da tenere bassi, il che nell’attuale sistema dei mercati è proprio una guerra globale. Una macchina mostruosa che macina capitali mostruosi e che ha alle spalle tutti i Paesi ricchi e quasi tutti quelli emergenti, me le ‘belle anime’… “adesso gliela facciamo vedere a quella cosa lì”, con le loro zampette e le loro antennine.
E poi c’è il resto…
Ne ho già parlato in altri articoli. C’è lo strapotere sovranazionale del Trattato di Lisbona in tutta Europa, cioè la morte delle sovranità dei nostri parlamenti; c’è il Neomercantilismo dei mega conglomerati industriali all’arrembaggio che divora redditi e diritti al lavoro; c’è la morsa Neoliberista (giusta disoccupazione, bassi salari, governi minimi) su tutta l’ideologia economica che conta al mondo; c’è la sopraccitata Organizzazione Mondiale del Commercio che detta legge sovranazionale su tutti i commerci, salute pubblica, diritti del lavoro, per miliardi di esseri umani; ci sono i club delle “Globocrazia” (The Economist) come il World Economic Forum di Davos, la Commissione Trilaterale, il Boao Meeting in Cina o il Council on Foreign Relations, poi il Bilderberg sopra a tutti; c’è l’apparato industriale militare con i suoi mille e cinquecento miliardi di dollari di fatturato, ma che è anche la fonte di gran parte della tecnologia medica moderna, senza la quale anche le ‘belle anime’ vanno al Creatore in caso d’infarto o incidente o gravidanza a rischio ecc. E mi fermo qui, a continuare si rischia l’impietosità.
“… Non vi posso mentire sulle vostre chance”, ma sul futuro abbiamo un dovere.
Noi persone di questa epoca storica sappiamo in quale sistema moriremo, si chiama The Machine, il Vero Potere, pace a noi. Ma sul futuro di chi verrà dopo i figli dei nostri figli, abbiamo un dovere, sempre che esista una categoria morale di questo tipo. Dobbiamo iniziare il lavoro di divulgazione ai cittadini di chi sia il Vero Potere e di come lavora proprio sulle nostre vite di ogni giorno. Trasmettere la non speranza di oggi ma aiutare chi ci ascolta a superare il primo sconforto, che è la morte dell’azione futura a causa proprio di questa infantile ostinazione degli attivisti a voler vedere subito il cambiamento. Poi però usare il pensiero per capire come si pongono i primi mattoni di una rivoluzione del futuro, esattamente come fecero gli Illuministi e i pensatori democratici di oltre 2 secoli fa, i quali certo sapevano che sarebbero morti senza che nulla dei loro ideali fosse neppure vicino alla realizzazione. Dobbiamo essere come loro. Sì, dobbiamo pensare, pensare e pensare, e non farci prendere dall’altrettanto infantile desiderio di emozioni e sprecarci in feste di piazza, gruppetti col personaggio Guru, attivismo di tastiera, e isterismi anti Berlusconi. Stare a casa a pensare, esattamente ciò che hanno fatto i cervelli del Vero Potere quando in 70 anni hanno decretato la fine della Storia di due secoli e mezzo, e ci sono riusciti. E smettete di chiedere a quelli come me le soluzioni. Pensatele voi, ciascuno l’ideologo di se stesso, ma pensate con calma, perché The Machine non è Berlusconi o la Camorra, o la Casta, magari lo fosse. The Machine è immensa e immensamente abile. Richiede strategie alla sua altezza, e soprattutto deve essere prima di tutto capita. Avete capito ora? Divulgate, mettetevi a pensare, con lo sguardo generoso di chi regala se stesso per il futuro di chi ancora non è nato.
fine
Paolo Barnard
Fonte: http://www.paolobarnard.info
Link: http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=214
29.03.2011
LEGGI ANCHE: RAGE AGAINST THE MACHINE ? (PRIMA PARTE)
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8123
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Icarus va a caccia di neutrini 30.03.2011
Avviato al Gran Sasso l’esperimento ideato da Carlo Rubbia. Farà luce sulla “materia oscura”.
Neutrini e materia oscura: sono questi gli argomenti su cui mira a fare luce il progetto Icarus – Imaging Cosmic and Rare Underground Signals – ideato da Carlo Rubbia già nel 1977 e finalmente avviato al laboratorio dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso.
Lì, sotto 1.400 metri di roccia, si osservano i neutrini emessi dal Cern di Ginevra, a più di 700 Km di distanza, sui quali alcune scoperte sono già state compiute.
Per poter raccogliere informazioni su questi elementi ancora in parte sconosciuti sono stati approntati due contenitori che ospitano argon liquido: alcuni – pochi, dei miliardi partiti dal Cern – neutrini si scontrano con gli atomi di argon, permettendo di capire qualcosa di più sulla loro natura.
Grazie a questi esperimenti Icarus spera di rispondere anche ad alcune delle domande sulla materia oscura che dovrebbe costituire circa il 95% dell’Universo ma che finora è rimasta completamente sconosciuta.
Iniziare a svelarne i misteri avrebbe ricadute immense su tutta la fisica e la cosmologia, con un’importanza che Rubbia stesso paragona a quello della rivoluzione copernicana.
Il premio Nobel è orgoglioso di poter fungere da padrino per Icarus non solo perché nato da una sua idea ma perché questo esperimento rappresenta “un’occasione per celebrare vent’anni di originale ricerca e sviluppo attraverso la realizzazione concreta in Italia di uno strumento scientifico di grandi dimensioni, di altissima tecnologia e fino ad ora unico al mondo, e che, peraltro seguendo il nostro esempio, sia americani che giapponesi hanno iniziato a sviluppare e perseguire”.
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=14490
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Il giallo del reattore scomparso (con il suo inventore italiano) 31.03.2011
Una centrale nucleare che si autoalimenta con le proprie scorie, una fabbrica segreta a San Pietroburgo e uno scienziato irrintraciabile. Gli ingredienti della spy story energetica che potrebbe farci dire addio al vecchio atomo
di Emanuele Perugini
Uno scienziato italiano in fuga, una società che da Milano si trasferisce prima a Mosca, poi a Londra e infine a New York, un sito web non aggiornato, una fabbrica militare top secret alle porte di San Pietroburgo e, infine, un reattore nucleare che potrebbe rappresentare la svolta ai fabbisogni energetici delle grandi potenze industriali. A questi ingredienti manca solo una spia cinese, e poi il cocktail del giallo internazionale con accenti fantascientifici è servito. A dirla tutta, la storia del reattore nucleare di quarta generazione sembra più una fiction, a metà strada tra Alias e Simon Templar, dove al posto della fusione fredda c’è un reattore che è capace di autoalimentarsi bruciando i suoi stessi residui radioattivi e al posto della macchina di Rambaldi c’è però la macchina di Cinotti.
Già, perché tutta la storia parte proprio da questo nome: Luciano Cinotti. Non si tratta di un personaggio a metà strada tra Leonardo e il Conte di Cagliostro, ma di un solidissimo ingegnere nucleare che ha sulle spalle anni di ricerche con l’ Ansaldo di Genova e una borsa piena di brevetti in un particolare settore della tecnologia nucleare, quella cioè dei reattori di quarta generazione raffreddati a piombo fuso. Perché la storia del nucleare di quarta generazione non è fiction, ma una solida realtà che siamo in grado di raccontare. Il reattore infatti esisterebbe e avrebbe alle sue spalle almeno un paio di anni di attività e sarebbero in corso le prove di collaudo in Germania. Ma tutto è circondato dal più stretto riserbo e dalla discrezione, alimentando intorno a questo progetto un alone di mistero.
La storia di Luciano Cinotti e quella di Elio Calligarich, fisico dell’ Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, si sono intrecciate qualche anno fa con quella di Domenico Libro, amministratore delegato di una società, la Del Fungo Giera Energia, che aveva già avviato una serie di collaborazioni con il mondo della ricerca nel settore del nucleare. Cinotti a quel tempo era a capo della sezione nucleare di Ansaldo Energia che a sua volta era capofila per lo sviluppo di un progetto di ricerca su un particolare tipo di reattore veloce raffreddato a piombo fuso. Proprio nell’ambito di quelle ricerche, Cinotti ha acquisito una serie di brevetti e di conoscenze che lo hanno fatto diventare, molto probabilmente, il più importante scienziato al mondo su questo particolare tipo di reattore.
Per la verità queste tecnologie non sono del tutto nuove. I reattori veloci raffreddati a piombo sono un vecchio gioiello della marina militare russa. Proprio questi erano i reattori che alimentavano i sommergibili d’assalto della marina russa, quelli che per intenderci davano la caccia in pieno oceano Atlantico al colosso Ottobre Rosso. Navi formidabili che grazie a questi reattori della potenza di 155 Megawatt raggiungevano in immersione anche i 44 nodi di velocità.
Il problema era che si trattava di macchine piccole, che andavano bene per i sommergibili, ma non per le grandi centrali elettriche. I russi però hanno anche continuato a non si sono fermati sullo sviluppo di questa filiera tecnologica e di reattori superveloci, loro li chiamano “ fast breeder reactor”, ne hanno realizzati almeno due: uno sulle rive del Caspio, che oltre a produrre elettricità viene usato per alimentare un potente dissalatore e un altro sugli Urali, a Beloyarsk. Si tratta di impianti con potenza maggiore, ma che ancora devono essere sviluppati per poter concorrere sul mercato internazionale.
Anche in Occidente si conosce già la tecnologia dei reattori superveloci. Solo che invece del piombo fuso, quelli occidentali usavano sodio. Un esempio è il reattore francese Super Phénix.
Che l’industria nucleare russa stia puntando su questa tecnologia non è un mistero. “ I nostri fast breeder reactor – ci aveva raccontato due anni fa a Roma Evgenii Velnichov, uno dei massimi esperti nucleari russi, quello che, per intenderci, al tempo di Chernobyl, coordinò gli interventi di messa in sicurezza della centrale e ora lavora allo sviluppo di Iter, il reattore a fusione nucleare – sono la risposta alle vostre esigenze di sviluppo. Sono sicuri, sono più economici e soprattutto sono puliti”. Perché, invece di produrre scorie, le bruciano e anzi si autoalimentano proprio eliminando quelle scorie che nei normali reattori a fissione rappresentano il principale problema di gestione.
Ai russi però mancava ancora qualcosa per poter definitivamente lanciarsi sul mercato internazionale. Da un lato servivano le conoscenze occidentali in materia di protocolli di sicurezza e dall’altro serviva semplificare il progetto del loro reattore troppo complesso per poter essere esportato chiavi in mano. Ecco che allora sono arrivati Luciano Cinotti e Domenico Libro. Che hanno portato in dote i brevetti tanto cercati dai russi. Proprio nel momento in cui, era il 2008, il governo italiano aveva appena dichiarato di voler tornare al nucleare e di aver stabilito un’alleanza di ferro con la Russia, Cinotti e Libro hanno chiuso un accordo con la russa Nikiet (un’agenzia equivalente al nostro Enea) per la realizzazione del nuovo reattore nucleare di quarta generazione. Per mesi abbiamo cercato Libro e lo stesso Cinotti al telefono e abbiamo anche strappato la promessa all’amministratore delegato di portarci in Russia per vedere e toccare con mano il prototipo del reattore, anche se prima occorreva farsi dare i permessi dalle autorità militari russe.
“ Il reattore funziona – ci disse Libro nel 2009 – e ha più di ottomila ore di attività”. Il cantiere dove sarebbe stato realizzato potrebbe essere quello della grande fabbrica di Izorsky Zavod alle porte di San Pietroburgo, una fabbrica storica della marina militare russa in cui sono stati costruiti i reattori destinati ai sommergibili della Flotta del Nord. Da allora però le tracce dei due si sono perse nel mistero fitto della taiga russa.
Fino a Natale scorso, quando, accidentalmente nel corso di una cena, un giovane ricercatore italiano (ennesimo cervello in fuga) ci racconta la sua storia e ci spiega che ora lavora in Germania, presso un importante centro di ricerca dove le industrie di tutto il mondo portano i loro reat! tori nucleari (o meglio alcune loro parti) per essere collaudate. Così chiacchierando tra un fritto di pesce e un vermentino, ecco che spunta di nuovo fuori il nome di Cinotti e del suo reattore rivoluzionario. ” Posso scrivere un articolo?“, chiedo al giovane ricercatore. “ No assolutamente no, anzi io non ti ho detto niente”, ci racconta, assicurandosi che eventualmente non avremmo mai citato neanche il nome del centro tedesco che fa questo tipo di lavoro. Intanto però il reattore di Cinotti è tornato alla luce dopo oltre due anni di oblio. Sul sito della Del Fungo Giera Energia le notizie sono davvero scarne. E i russi hanno annunciato che il loro nuovo fast breeder reactor sarà pronto nel 2014. Forse per saperne di più dovremo aspettare altri tre anni.
http://daily.wired.it/news/scienza/2011/03/31/mistero-reattore-cinotti.html#content
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Il colorante che allunga la vita 31.03.2011
Si chiama tioflavina t e si usa per individuare le placche associate all’Alzheimer. Ma (almeno nei topi) aumenta anche la vita di oltre il 50%. Uno studio su Nature
di Tiziana Moriconi
Vivere più di 4 settimane, per un verme che normalmente ne vive 2 o 3 al massimo, può essere considerato a ragione un traguardo invidiabile. I fortunati nematodi Caenorhabditis elegans che lo hanno raggiunto sono quelli capitati nel laboratorio di Gordon Lithgow al Buck Institute for Research on Aging di San Francisco. Qui lavorano alcuni ricercatori impegnati da oltre dieci anni nello studio di composti che possano rallentare i processi neurodegenerativi associati all’ invecchiamento. Ora, come riportano sull’ultimo numero di Nature, sembrano averne trovato uno che può aumentare la durata della vita di oltre il 50%.
Non si tratta di una nuova molecola, ma di un reagente chimico già largamente impiegato nei laboratori di neuroscienze di tutto il mondo per evidenziare i danni alle proteine nelle persone malate di Alzheimer (come si vede nell’immagine) . Il suo nome è tioflavina t (ThT) o Basic Yellow 1.
Il composto sembra agire mantenendo la cosiddetta omeostasi delle proteine, ovvero il bilancio tra la loro sintesi e la loro distruzione, che dipende anche dalla capacità dell’organismo di mantenere la loro struttura corretta. Studi precedenti avevano già indicato che questo equilibrio contribuisce notevolmente a determinare la durata della vita, e alcune malattie degenerative sembrano associate proprio a uno sbilanciamento dell’omeostasi delle proteine.
Nello studio di malattie come l’ Alzheimer, la ThT viene sfruttata per la sua capacità di legarsi alle placche di amiloide (aggregati tossici di frammenti di proteine nel cervello), segnalandone la presenza. L’intuizione che questo colorante potesse frenare l’invecchiamento è venuta a Silvestre Alavez, ricercatore presso il laboratorio di Lithgow. Partendo dall’idea che alcune piccole molecole possano influenzare l’aggregazione delle proteine – rallentando di conseguenza la formazione delle placche di amiloide -, Alavez ha cominciato a testare una decina di composti su vermi sani. Ben 5 si sono dimostrati interessanti (tra cui la già nota curcumina) per il loro effetto sulla salute e sulla aspettativa di vita, ma la performance migliore è stata quella dei nematodi che avevano ricevuto ThT.
Al momento sono in corso i controlli sui topi utilizzati come modello del morbo di Alzheimer, per osservare gli effetti del marcatore: “ Abbiamo un nuova strada da percorrere nella ricerca di composti che aumentino la durata della vita e, allo stesso tempo, rallentino le malattie degenerative”, ha commentato Alavez: “ Ogni piccola molecola che contribuisce a mantenere l’omeostasi delle proteine potrebbe rivelarsi di aiuto in queste patologie”.
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Appalti pubblici, corruzione di Anna Donati
Affari pubblici a trattativa privata 31.03.2011
Nel silenzio generale, passa alla camera l’aumento del tetto della trattativa privata negli appalti pubblici: meno gare, niente trasparenza, uguale più corruzione
Il 15 marzo, con un emendamento approvato nel disegno di legge per lo statuto delle imprese, l’aula della camera dei deputati ha triplicato la soglia che consente l’uso della trattativa privata senza pubblicità negli appalti pubblici, innalzata da 500.000 euro a 1.500.000 euro. Emendamento proposto dalla Lega Nord, approvato da una maggioranza bulgara e traversale con 485 voti favorevoli, solo 2 astenuti e nessun contrario, dentro un provvedimento approvato dalla camera e ora avviato per la discussione al senato.
Gli effetti sul mercato sono dirompenti: la sottrazione dalle gare di una quota robusta di lavori pubblici, senza alcuna forma di pubblicità, aiuterà di sicuro la già dilagante corruzione. Il Cresme ha effettuato una stima dell’impatto della norma per Edilizia e Territorio (settimanale del Sole 24 ore) da cui si deduce che prendendo come riferimento l’anno 2010, verrà sottratto al mercato il 76% dei bandi di gara in termini di numero e circa il 16% se si calcola il valore in termini di importo. In pratica su 18.848 bandi emessi nel 2010, ben 14.239 sarebbero stati affidati senza bando e senza pubblicità, direttamente dal responsabile del procedimento. In termini di valore questo equivarrebbe a sottrarre al mercato circa 5,1 miliardi di lavori pubblici su di un totale di 32, 9 miliardi di investimenti pubblici.
In più con altri emendamenti il ddl sullo statuto alle amministrazioni pubbliche, vi è l’esplicito mandato di favorire negli appalti le imprese del territorio, per quelle con meno di 250 dipendenti e con meno di 50 milioni di fatturato. Non è chiaro come questo possa in pratica avvenire dato che tutte le normative europee ed italiane vietano ogni riserva in materia di gare e lavori, ma forse si pensa di rispettare questa indicazione proprio con la trattativa privata dove l’ente locale potrà scegliere in modo discrezionale, senza motivazione e senza pubblicità, a chi affidare i lavori.
Nella stessa norma, la soglia per le amministrazioni locali, da affidare direttamente e senza gara gli incarichi di progettazione, viene innalzata da 100.000 a 193.000. Una norma contro la quale si è già scagliata pesantemente l’Oice (associazione delle società di ingegneria) che ha denunciato la scomparsa del mercato della progettazione e l’incremento quindi dei costi, dato che il 91% dei bandi rientra in questa soglia.
L’argomento invocato per affidare direttamente i lavori è il solito: fare presto, togliere i lacci e lacciuoli come richiesto dalle amministrazioni, venire incontro alle difficoltà dei piccoli comuni impossibilitati a selezionare decine di imprese per ogni gara data la scarsità di risorse e personale, nonché una “sedicente” autonomia territoriale invocata dalla Lega Nord. Problemi reali ai quali però è stata data una risposta completamente sbagliata, mentre si doveva semplificare ed unificare le stazioni appaltanti (per esempio a scala provinciale) dentro un unico soggetto pubblico in modo da fornire professionalità, risorse e trasparenza dei bandi e dei risultati delle gare. È noto che anche la polverizzazione delle gare rende difficile controllo e vigilanza e quindi incrementa comportamenti e pressioni illecite.
Contro l’innalzamento della trattativa privata si è schierata l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici. Il suo presidente Giuseppe Brienza è stato molto netto: con questa norma ben il 96% degli appalti dei comuni è sottratto al mercato, e ha censurato soprattutto la mancanza di obbligo di pubblicità e trasparenza. Ha fatto anche capire che se la norma non verrà corretta dal Senato si renderà necessario un provvedimento dell’Autorità che renda indispensabile la motivazione con cui l’amministrazione intende applicare l’affidamento diretto, quali siano le regole comunque da applicare e quali i criteri di invito alla procedura informale. Solo a queste condizioni minime sarà possibile svolgere un’azione di vigilanza su questi lavori, che sfuggirebbero non solo alla concorrenza ma anche al controllo dell’Autorità.
Del resto la stessa Autorità a gennaio aveva reso pubblici i risultati di una ricognizione sugli affidamenti a trattativa privata dei grandi comuni degli ultimi tre anni (2007-2010), da cui era emerso un quadro desolante: con più di 80.000 contratti per un valore di 61 milioni affidati senza gara. Da quando nel 2008 la soglia era stata innalzata a 500.000 euro per la trattativa privata vi era stato un incremento vertiginoso di lavori senza gara dove un lavoro su due era ormai affidato senza procedura competitiva. Il comune di Roma è stato tra i più solerti ad affidare senza gara con ben 42 bandi e un valore nel triennio di ben 248 milioni di euro. Non solo, in diversi casi i lavori sono stati frazionati artificiosamente proprio per rientrare sotto la soglia fissata per poter applicare la trattativa privata.
Nonostante che questa soglia, questo limite per consentire l’uso della trattativa privata sia stato ritoccato dall’approvazione della legge Merloni nel 1994 ben 5 volte. La norma originaria prevedeva 150.000 ecu di soglia, diventata 300.000 nel 1998. Nel 2002 si consente la trattativa privata fino a 100.000 euro e fino a 300.000 in caso di gara deserta. Nel 2006 si attesta a 100.000 euro per poi balzare nel 2008 a 500.000 e adesso, se la norma verrà confermata anche dal Senato, triplicherà fino ad arrivare a 1.500.000 euro. Quindi si era già tenuto conto delle difficoltà delle amministrazioni locali, nonché delle direttive europee, che contemplano delle soglie molto ampie dato che devono essere il riferimento per tutti i paesi, mentre gli effetti di sottrazione dal mercato sono soprattutto in quei paesi come l’Italia dove vi sono migliaia di istituzioni locali e una miriade di piccole e medie imprese, mentre in altri paesi come la Germania o la Francia il numero di appalti sotto queste soglie è decisamente minore.
Anche l’Ance si è schierata duramente contro l’aumento della trattativa privata e il suo presidente Paolo Buzzetti ha parlato di un mercato che “andrebbe sott’acqua”, proponendo in alternativa l’innalzamento a un massimo di 1 milione di euro con precisi obblighi di trasparenza come la rotazione degli inviti, l’obbligo di pubblicità per ogni fase dell’affidamento.
Mentre l’Aniem, l’associazione delle piccole e medie imprese edili, si è schierata a favore della norma “perché da 15 anni il settore degli appalti pubblici è bloccato con leggi da stato di polizia” e con questo provvedimento si supererebbe questa situazione di controllo. Insomma la logica è sempre quella: dato che i controlli servono a ben poco contro la corruzione meglio eliminarli!
La gravità della norma, a mio giudizio, sta anche nel fatto che si somma a tante procedure specifiche e speciali sottratte al mercato, dove la trattativa privata e la deroga sono diventate la regola, nelle grandi opere, per gli eventi speciali e le ricostruzioni dopo terremoti e alluvioni.
È il caso dell’alta velocità ferroviaria, dove tre tratte per oltre cinque miliardi di lavori sono state restituite a trattativa privata ai vecchi consorzi, dei lavori nel settore autostradale dove la nuova riforma del governo di centrodestra consente alle concessionarie di svolgere in house il 60% dei lavori, per le opere e gli interventi della protezione civile, inclusi gli eventi speciali, che sono affidati direttamente in nome dell’emergenza (e abbiamo visto i risultati con le inchieste della magistratura sulla “cricca”).
Mentre inchieste sono già in corso sulle infiltrazioni per la ricostruzione dell’Aquila e in Abruzzo e sia per il business lanciato dall’Expo di Milano, dove è presente la “ndrangheta”. È la stessa recente relazione annuale antimafia inviata al parlamento a darne conto con un quadro drammatico della strategia e della capacità delle cosche mafiose di infiltrarsi negli appalti e nel ciclo di realizzazione degli interventi, con un mercato parallelo molto ben gestito e organizzato, e anche conveniente per l’imprenditore. Tranne che per lo stato e per la collettività che impegna i soldi per la realizzazione dell’opera pubblica.
Quindi buona parte del mercato ormai, sia per grandi opere e sia per piccoli interventi è ormai sottratto alla concorrenza e alla trasparenza, mentre le inchieste della magistratura registrano gravi fenomeni di corruzione e concussione nell’affidamento di appalti, lavori e servizi.
La Corte dei Conti, presieduta da Luigi Giampaolino, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 nella sua relazione ha censurato questi fenomeni nel settore degli appalti, prodotti da una grave elusione delle regole, con un’aggressione continua alla concorrenza, il massiccio ricorso alla trattativa privata anche in violazione delle norme al quale sovente risultano connesse tangenti per favorire gli affidamenti. Fenomeni che hanno influenzato negativamente l’efficienza della spesa, la qualità di gestione delle amministrazioni e depresso la funzione anticiclica della spesa pubblica.
Non può dunque che creare allarme e preoccupazione l’emendamento che amplia la trattativa privata senza regole e senza pubblicità, approvato all’unanimità dalla camera, perché non tiene conto della situazione opaca e deformata già presente nel mercato a ogni livello. Siamo ancora in tempo per correggere la norma al senato, con una misura che coniughi efficienza e legalità.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Affari-pubblici-a-trattativa-privata-8167
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La Lega Nord a Ileana Argentin: “stai zitta handicappata del cazzo” 01.04.2011
La Lega Nord si è costruita nel tempo la fama di dare pane al pane e dire quello che davvero pensa la gente.
Ed ecco quello che pensa davvero la gente quando deve cedere il passo a una signora in carrozzina o quando questa osa dire la sua. La gente pensa: “stai zitta handicappata del cazzo”, come ha sintetizzato ieri il deputato della Lega Nord Massimo Polledri (nella foto) alla deputata del PD Ileana Argentin.
Permettere al teppista dell’odio Massimo Polledri di uscire impune da questa vicenda, è parte di una società senza più freni inibitori dove la brava gente, padana e non, è libera di pensare e dire “immigrati fuori dalle palle”, “buttiamoli a mare”, “affondiamo le navi”, “bruciamo i rom”, “forza Vesuvio”, non voglio te come insegnante dei miei figli perché sei meridionale, i romeni sono tutti ladri, la cultura non fa mangiare, gli impiegati pubblici possono essere liberamente diffamati, non voglio spendere per insegnanti di sostegno perché tanto i miei figli sono sani, non voglio handicappati in giro perché i bambini s’impressionano, non accettiamo bimbi down in questo albergo perché i clienti s’intristiscono e non spendono e tutto il repertorio davanti ai nostri occhi e che abbiamo più o meno supinamente accettato mugugnando privatamente il nostro schifo.
Se lo dicono i ministri, se rivendicano il diritto di affermare cose che non sono intemperanze verbali ma che rispondono ad una precisa cultura che poi ritroviamo puntualmente riflessa nelle leggi dello Stato, dai tagli agli insegnanti di sostegno al reato di immigrazione clandestina, ai tagli alle cure palliative ai malati terminali (per foraggiare gli allevatori disonesti amici di Polledri) come pretendiamo che la cultura dei peggiori bar di Gallarate non diventi ormai la cultura del paese, la cifra del paese, un paese senza umanità.
E’ questo quello che abbiamo seminato in questi decenni nell’accettare l’imposizione di un’agenda politica di pancia più che di idee, di odio più che di solidarietà, dove il rancore sordido per qualunque interazione con l’altro è diventato l’unica regola riconosciuta. Adesso non sembra esserci più scampo in questa rincorsa infinita alla suburra, ad una palude nella quale la nostra società civile sta affondando.
Eppure non possiamo fermarci. Cominciamo dal gridare l’indegnità di Polledri, ad esigere che sia punito. Cominciamo dal circondare la sua villetta a schiera a Piacenza con i nostri colori fino a quando l’indegno non sia obbligato dai suoi a dimettersi dal parlamento. Cos’altro dovranno fare per capire che non c’è altro di più urgente che fermarli?
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