Da http://www.caffeeuropa.it/ del 09.11.2010
Estratto
“Su La Repubblica, pagine R2, la storia che si racconta è quella di un esperimento effettuato nella città di Christcurch, in Nuova Zelanda: l’anno scorso, insieme alla realizzazione di una vasta area pedonale, le autorità municipali hanno deciso di installare altoparlanti che diffondevano la musica di Mozart. Risultato: drastica diminuzione della microcriminalità, scomparsa degli incidenti legati al consumo di alcool e droghe, diminuzione dei casi di clienti rissosi nei negozi. Racconta il compositore italiano Marco Tutino: “E’ ormai noto che la musica influisce sulla psiche, e quella di Mozart è un tale miracolo di perfezione, simmetria ed equilibrio, che predispone alla tranquillità”.”
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Produrre sangue dalle staminali della pelle, dal Canada la scoperta 09.11.2010
Di Marco Mancin
L’utilizzo delle cellule staminali ha da sempre rinfocolato il dibattito non tanto sull’utilità o l’efficacia di questa tecnica, ma sulle questioni morali. Una nuova scoperta effettuata presso l’Istituto McMaster di ricerca sulle cellule staminali e sul cancro della Scuola di Medicina Michael G. DeGroote a Hamilton, nell’Ontario (Canada), potrebbe risolvere questo problema.
Mick Bhatia, capo ricercatore del team che ha effettuato lo studio, ha spiegato sulla rivista Nature che è possibile produrre sangue umano direttamente dalle cellule della pelle. Una scoperta rivoluzionaria che può essere utile per curare tantissime patologie, come ad esempio il cancro, o alleviare i disagi di quei pazienti che hanno bisogno di continue trasfusioni. Il tutto senza mai avere problemi etici.
Il dibattito finora si era concentrato sull’opportunità o meno di utilizzare cellule staminali embrionali, ma gli scienziati canadesi sono riusciti a produrre delle cellule progenitrici del sangue e cellule mature direttamente dalla pelle del paziente. In questo modo il corpo non corre il rischio di rigetto, in quanto la firma genetica è la stessa del sangue del paziente, la produzione è molto più veloce e sicura perché salta una fase, rispetto alla procedura precedente, ed evita che si possano sviluppare cellule tumorali.
Le finalità sono molteplici. Una ad esempio potrebbe essere l’utilizzo in chemioterapia, quando il paziente è costretto a prendersi delle “pause” di diversi mesi per permettere al suo corpo di recuperare. Con questa tecnica le cellule si riprodurrebbero molto velocemente, senza rendere necessario interrompere la terapia. Le trasfusioni di sangue non dovrebbero essere più un grosso problema, dato che se le banche del sangue non sono fornite, la produzione potrebbe avvenire direttamente dal paziente stesso, e gli altri vantaggi sono davvero incalcolabili.
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Pompei, Bondi alla Camera: il Pd presenta la mozione di sfiducia al ministro 10.11.2010
A pezzi la Domus dei Gladiatori. Possibili altri crolli. Napolitano: “Vergogna”.
Il Pd è pronto a presentare una mozione di sfiducia al ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, per il crollo di Pompei. (Allo stato attuale è presentata)
Lo annuncia il capogruppo del Pd alla Camera, Dario Franceschini, nel suo intervento in Aula.
Il Fli, probabilmente, non appogerà l’opposizione. “Non le chiediamo di dimettersi ma di assumersi le sue pesantissime responsabilità politiche”, il deputato finiano e membro della commissione Cultura della Camera, Fabio Granata.
Il ministro si difende: “Il crollo di un edificio non può cancellare i risultati del lavoro fatto in due anni”, dice Bondi.
E poi sottolinea come, a giudizio della soprintendenza, “niente faceva presagire l’allarme”.
Un sopralluogo qualche giorno prima, aggiunge, “non aveva segnalato pericoli visibili”.
Per la Schola, spiega, “è collassata la copertura di cemento provocando il crollo. Verosimilmente il crollo ha interessato le murature verticali ricostruite e la copertura. Si sarebbe conservata la parte bassa, quella con le decorazioni che potranno essere restaurate. Si esclude che il danno della copertura sia dovuto a infiltrazioni nel solaio. Dai primi accertamenti il disastro sarebbe dovuto alla pressione delle murature perimetrali dal terrapieno a ridosso della costruzione imbevuto dalle piogge di questi giorni”.
Possibili altri crolli
Poi il ministro ha ribadito che “non si possono escludere altri crolli”. Secondo Bondi Pompei non ha problemi di risorse, ma “il ministero ha un problema gravissimo di carenza di personale. Dovremmo poter assumere almeno, e dico almeno, 50 architetti e 80 archeologi per fare fronte all’emergenza” che riguarda, ha precisato, tutto il Paese.
La rovina
Sabato mattina l’intera Domus dei Gladiatori – il nome classico è Schola Armaturarum Juventis Pompeiani – è crollata.
Secondo la Sovrintendenza, vi erano anche dipinti nella parte sottostante il perimetro della sala.
L’edificio, che si apre su via dell’Abbondanza, la strada principale della città sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d. C., era visitabile solamente dall’esterno ed era protetto da un alto cancello in legno.
Altre domus a rischio
Dopo il crollo della Schola Armaturarum ci sono anche altri preziosi edifici a rischio lungo la via dell’Abbondanza, nella zona più centrale del sito archeologico di Pompei, a partire dalla celebberrima Domus dei Casti Amanti dove qualche giorno fa sono caduti lapilli e terriccio. Lo denuncia la Uil dei beni culturali.
In pratica, spiega il segretario generale Gianfranco Cerasoli, alcune domus che affacciano sulla via, guardando a sinistra verso Porta Nola, come quella di Giulio Polibio e di Trebio Valente sono a rischio perchè – come era per la Schola Armaturarum – sono addossate ad un area di terreno ancora non scavata, un terrapieno che spinge contro di loro per effetto delle infiltrazioni d’acqua.
Le stesse scale della Casina delle aquile, sottolinea il sindacalista, sono sottoposte e spinta da parte di un altro terrapieno, si tratta, fa notare il sindacalista, di domus che sono state oggetto dell’intervento del commissario straordinario.
Napolitano: “Una vergogna per l’Italia”
In serata è arrivata la dura presa di posizione del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha definito “una vergogna per l’Italia” quanto è accaduto. Napolitano ha poi detto che “esige “spiegazioni immediate e senza ipocrisie”.
Indignazione anche su Facebook
Stop Killing Pompei Ruins: oltre 500 contatti nelle ultime 24 ore e commenti da tutto il mondo.
Il crollo avvenuto all’interno degli Scavi di Pompei ha fatto il giro del mondo, e uno dei veicoli principali per diffondere la notizia è stato Facebook come spiegano i promotori del gruppo “Stop Killing Pompeii Ruins”.
La rabbia arriva dall’Italia e dagli amanti dell’archeologia di tutto il mondo. Così si possono leggere nelle ultime ore tantissimi commenti, anche in inglese. “This is horrific!” (è orribile), scrive la Biblical Archaeology in commento a una delle foto pubblicate dal gruppo di protesta nato a fine maggio su idea del settimanale Il Gazzettino Vesuviano, diretto da Gennaro Cirillo, per richiamare l’attenzione sui lavori troppo invasivi fatti all’interno del Teatro Grande degli Scavi.
Bondi polemizza con Tremonti: “Servono risorse”
Il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, sotto accusa assieme a quello dell’Economia, Giulio Tremonti per i tagli, oggi sarà a Pompei, dove ha convocato un vertice con i responsabili della tutela di un patrimonio archeologico unico al mondo.
Bondi cerca di spostare le accuse sul titolare dell’Economia, Giulio Tremonti.
“Quanto è accaduto – dice il ministro dei Beni culturali – ripropone la necessità di disporre di risorse adeguate per provvedere a quella manutenzione ordinaria che è necessaria per la tutela e la conservazione dell’immenso patrimonio storico artistico di cui disponiamo”.
“Il crollo – conferma il ministro Bondi – ha interessato le murature verticali Schola Armaturarum che erano state ricostruite negli anni Cinquanta, mentre parrebbe essersi conservata la parte più bassa, la parte cioè che ospita le decorazioni affrescate, che quindi si ritiene che potrebbero essere recuperate.
Il sindaco di Pompei: “Disastro annunciato”
La Domus dei Gladiatori di Pompei da anni era in attesa di essere ristrutturata. Secondo il sindaco di Pompei, Claudio D’Alessio, il cedimento dell’edificio è un crollo annunciato: “Succede quando non c’è la dovuta attenzione e cura” per un patrimonio secolare che andrebbe “preservato da ogni tipo di sollecitazione, anche atmosferica”.
“C’è il dispiacere tipico di una comunità – ha sottolineato il primo cittadino all’Adnkronos – di un territorio su cui vi è il museo all’aperto più grande del mondo e che purtroppo viene trascurato”.
Il crollo intorno alle ore 6
Secondo primi accertamenti, il crollo è avvenuto, ieri mattina, intorno alle 6. Ad accorgesene per primi i custodi, arrivati al lavoro verso le ore 7.30.
L’area è stata transennata.
Le prime notizie: tra le cause forse le infiltrazioni d’acqua
“Questa mattina presto – spiegano i custodi – è crollato prima il muro della Domus, e poi, data la pesantezza del soffitto che è in cemento armato, è crollata l’intera Domus dei Gladiatori”.
“Sembra – riferiscono – che siano state le infiltrazioni d’acqua a causare il danno”.
Anche secondo quanto si apprende dalla Sovrintendenza, le cause del crollo possono essere attribuite o alle piogge che hanno creato delle infiltrazioni all’interno di un terrapieno esistente al lato della Schola, oppure al peso del tetto della palestra stessa.
La casa, infatti, fu bombardata durante la Seconda guerra mondiale e la copertura è stata rifatta tra gli anni ’40 e gli anni ’50. “È probabile – fanno sapere dalla Sovrintendenza – che le mura antiche, dopo anni, non abbiano più retto al peso del tetto”.
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redazione
La scomparsa di Aldo Natoli 10.11.2010
E’ morto lunedì sera a Roma Aldo Natoli, uno dei “padri fondatori”, nel 1969, del gruppo politico del “Manifesto” e poi dell’omonimo quotidiano. Aveva 97 anni, essendo nato a Messina nel settembre 1913. Laureato in medicina e chirurgia, aveva lavorato all’Istituto italiano dei tumori presso l’ospedale romano Regina Elena e poi all’omologo istituto parigino: da comunista, sfruttò il suo lavoro per tenere i collegamenti tra il Pc francese e quello clandestino in Italia; arrestato nel 1939 per attività antifascista e condannato dal Tribunale speciale, trascorse tre anni in carcere a Civitavecchia. Uscito dal carcere, partecipò alle attività clandestine del Comitato di Liberazione nazionale e fondò la redazione clandestina de l’Unità; dopo il 1944 e la liberazione di Roma divenne segretario del Pci romano poi dirigente nazionale del partito. Eletto deputato per ben cinque legislature consecutive, fu anche per quindici anni consigliere comunale a Roma, quasi sempre con la carica di capogruppo comunista, che lo vide combattere aspre battaglie politiche contro le politiche urbanistiche delle amministrazioni democristiane e centriste negli anni ’50 e ’60, quelli della grande speculazione immobiliare.
Nel 1969, dopo le vicende internazionali che videro l’intervento armato sovietico in Cecoslovacchia per sopprimere il tentativo di costruzione di un socialismo democratico in quel paese, in polemica con l’acquiescenza mostrata dal gruppo dirigente del Pci verso la politica di Mosca, insieme a Rossana Rossanda e Luigi Pintor (come lui membri del Comitato centrale del partito) fondò la rivista il Manifesto dando vita intorno ad essa a un gruppo politico autonomo. Due anni dopo sarebbe nato il quotidiano (che oggi lotta per la sopravvivenza) e poco più tardi il gruppo avrebbe anche tentato senza molta fortuna la trasformazione in partito, attraverso fusioni con altri gruppi della sinistra, e la partecipazione diretta alle elezioni politiche.
Gradualmente già dagli anni ’70 Aldo Natoli si andò staccando dall’attività politica diretta, dedicandosi piuttosto alla scrittura e alla storiografia, con importanti opere su Gramsci. Negli ultimi anni, per via dell’età e dello stato di salute, conduceva vita ritirata.
Una cerimonia di commemorazione funebre di Aldo Natoli si terrà giovedì 11 novembre, alle 10, presso il Tempietto egizio del Cimitero monumentale del Verano (lato Portonaccio), a Roma. Insieme ai figli, ai nipoti e agli amici terranno orazioni funebri Enzo Collotti, Pietro Ingrao, Valentino Parlato, Giuseppe Vacca. Domani sul giornale in edicola ci saranno due pagine dedicate al ricordo di Aldo Natoli.
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/11/articolo/3651/
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L’esproprio dei beni comuni tra governance e monetizzazione 08.11.2010
di Riccardo Petrella
Proponiamo un estratto da “La società dei beni comuni” edito da Carta/Ediesse, in edicola fino al 13 novembre e acquistabile anche on line qui. Il libro raccoglie diciannove saggi che da diverse visuali disciplinari (storiche, giuridiche, filosofiche, antropologiche, ambientaliste) si confrontano con il tema dei beni comuni.
Mi propongo di concentrare questo contributo su due «questioni di frontiera» che, a mio parere, sono (o dovrebbero essere) al centro del dibattito teorico e politico sui beni comuni nei paesi occidentali. Penso alla tendenza impostasi negli ultimi quindici anni consistente nel parlare di governance anziché di «governo» dei beni comuni. Penso altresì all’adozione quasi generale da parte dei dirigenti occidentali del principio di monetizzazione dei beni comuni al posto del principio di gratuità.
«Governance» vs. governo
L’uso del concetto di governance risale alla seconda metà degli anni ’70 allorché l’economia occidentale si trovava alle prese con la rincollatura dei cocci del sistema finanziario andato in frantumi nel periodo 1971-73. Il sistema nato nel 1945 essendo ridotto a macerie (fine della convertibilità del dollaro in oro e dei tassi di cambio fissi, fine dei controlli sui movimenti di capitale, esplosione del mercato delle divise, liberalizzazione dei mercati, deregolamentazione e privatizzazione del settore…), gli operatori finanziari, in primis gli istituti di credito e le società di notazione (rating), si confrontavano col problema di determinare i nuovi criteri quantificabili sulla base dei quali valutare le opportunità d’investimento, e soprattutto le operazioni di vendita/acquisto di pacchetti azionari (le famose OPA, fusioni di imprese, prese di partecipazione…). In effetti, la crisi finanziaria provocò dei grossi processi di ristrutturazione delle banche e delle assicurazioni a livello locale, nazionale ed internazionale.
La soluzione, per i gruppi dominanti, fu trovata nel principio «to increase the shareholder’s value». Un’operazione finanziaria era giudicata buona in funzione del suo contributo alla ottimizzazione della crescita di ricchezza per gli azionisti. Si cominciò quindi a sostenere che i processi di ristrutturazione e di sviluppo del nuovo sistema finanziario procedevano in un buon contesto di governance ai vari livelli settoriali e territoriali, nella misura in cui il risultato globale era l’ottimizzazione del valore del capitale azionario. Non per nulla, successivamente, negli anni ’90, si cominciò a misurare l’importanza delle imprese e a stabilirne la graduatoria mondiale in funzione della loro capitalizzazione e non più del numero di occupati e/o del fatturato.
Dalla valutazione delle operazioni finanziarie, il criterio in esame fu rapidamente applicato alla valutazione della gestione generale di qualsiasi impresa (e non solo di quelle quotate in Borsa) e poi esteso alla gestione di un settore industriale od economico, servizi pubblici compresi. Così, verso la fine degli anni ’80, il principio «to increase the shareholder’s value» fu utilizzato, in concomitanza con il principio di competitività, per valutare ogni scelta economica, ivi comprese le scelte economiche e sociali di un governo, per finire nel corso degli anni ’90 col valutare l’intera società (onde la valenza generale del concetto di governance acquisita negli ultimi anni).
A partire dal momento in cui i dirigenti hanno deciso che il valore di una cosa, di un’impresa, di una strategia di sviluppo, dipende dal suo contributo alla creazione di valore per il capitale e per i suoi detentori, è logico che essi siano passati da un uso del principio limitato alla gestione di operazioni finanziarie a quello applicato alla gestione di un’impresa, poi alla gestione dell’economia in generale.
Il che spiega anche la relativa facilità con la quale gli stessi responsabili politici, considerati tradizionalmente rappresentare le correnti di sinistra e progressiste, hanno aderito alla liberalizzazione delle istituzioni e dei servizi finanziari (inclusa la gestione dei fondi pensione e fondi malattia) e poi dell’insieme dei servizi pubblici detti locali, di prossimità, così come alla loro deregolamentazione e privatizzazione.
Questi passaggi sono stati resi possibili proprio per l’egemonia ideologica e culturale assunta dal concetto di governance nella teoria (e nella pratica) dello Stato e della società, come testimonia, già negli anni ’94-95, la comunicazione della Commissione europea, allora presieduta dal socialdemocratico/socialista francese Jacques Delors, sul tema della governance, nella quale la Commissione si schierava a favore dell’adozione del principio di governance.
Fra le ragioni invocate, v’erano due postulati intrinsecamente mistificatori. Da un lato, quello della complessificazione crescente delle società che, nell’avviso della Commissione, implicava l’abbandono dello Stato e della statualità quale luogo naturale e principale dei processi politici ed il loro allargamento a tutti i possibili «centri» di decisione politica definiti gli stakeholders, cioè i portatori d’interesse. Dall’altro lato, il postulato della mondializzazione che, secondo i suoi sostenitori, implicava per la democrazia lo spostamento della decisione politica dagli stati nazionali alla governance vuoi internazionale vuoi mondiale1.
Fondandosi sui due postulati, la governance è stata definita come il nuovo sistema di organizzazione delle decisioni politiche a livello nazionale, internazionale e mondiale basata sull’incontro/dialogo/discussione tra tutti i portatori d’interesse rappresentativi delle varie componenti della società quali gli Stati, le imprese, i sindacati, i cittadini, le collettività locali, le «chiese»… Secondo questa visione, la decisione politica è e deve essere il risultato di accordi e di partenariato tra i vari stakeholders in un contesto di libertà, di cooperazione/competizione, di autoregolazione e di responsabilità «sociale» autoassunta.
Il motore del nuovo sistema di organizzazione politica sta nell’ottimizzazione dell’utilità particolare di ogni stakeholder in termini monetari/finanziari in funzione dell’equazione costi/benefici ai prezzi di mercato. Un’equazione non fissata in maniera generale e per tutti, ma flessibile, variabile a seconda dei luoghi, degli stakeholders in azione, dei tempi, dei settori. La governance non è orientata da un interesse generale, da una utilità collettiva, in funzione dei principi di giustizia, uguaglianza e solidarietà e della concretizzazione dei diritti umani e sociali. Il valore di un bene risulta dalle equazioni provvisorie e parziali che consentono di ottimizzare le utilità degli stakeholders.
In questo contesto, non v’è più spazio né funzione per i beni comuni pubblici. In breve, il governo dell’impresa è stato assunto a modello da seguire per il governo dello Stato e della comunità mondiale.
Il risultato finale di questi spostamenti «tettonici» di natura teorica, ideologica, politica e sociale è stato molto dirompente: – destatalizzazione del potere politico e della politica (lo Stato è ridotto ad uno fra i vari portatori d’interesse, il che fa saltare qualsiasi legittimità generale alla rappresentanza politica espressa dai parlamenti. Questi ultimi non hanno più granché da dire; – privatizzazione del potere politico e sua contrattualizzazione «commerciale» tra soggetti portatori d’interessi particolari; – la responsabilità scade a livello dell’autoregolazione e dell’autocontrollo per cui, per esempio, il politico inter-nazionale non è altro che un processo di negoziato permanente tra soggetti autoregolanti e autocertificanti: vedi il caso macroscopico e ridicolo della famosa «responsabilità sociale delle imprese» e della loro «responsabilità ambientale» o, per quanto riguarda gli Stati, della limitazione spontanea delle emissioni di CO2 o della riduzione, altrettanto spontanea, degli armamenti.
La governance dell’educazione, la governance dei beni naturali, la governance del sistema della salute… sono una pirateria strutturale, un esproprio legalizzato dei beni comuni, della giustizia e della democrazia. È necessario ed urgente che coloro che difendono i beni comuni si battano per l’abbandono dell’uso del concetto di governance. Non farlo, in maniera chiara e determinata, significa diventare complici dei processi recenti di mercificazione dei beni comuni e della loro privatizzazione.
Gratuità vs. monetizzazione
Quanto sopra è stato possibile perché si è imposto di pari passo, in una relazione di reciproco posizionamento di causa-effetto, nell’ambito del crescente predominio della visione capitalista liberale della società e del mondo, il principio cosiddetto della «verità del prezzo» (di mercato).
Fino a non molto tempo fa, il valore dei beni «naturali» indisponibili al mercato (le foreste primarie, la pioggia, le spiagge del mare…) facenti parte intrinsecamente dei beni demaniali dello Stato (o dei Comuni, delle Province), così come i servizi non-mercantili (quali l’educazione, la protezione civile, la salute, la difesa militare, le fognature, i musei…) era un valore di utilità sociale ed umana collettiva, per tutti.
I costi sostenuti dalla collettività per la loro preservazione, produzione, manutenzione ed uso erano presi in carico dalla stessa collettività attraverso la spesa pubblica, finanziata dalla fiscalità generale e specifica. In alcuni casi, la collettività chiedeva ai singoli cittadini o a gruppi di cittadini il versamento di un contributo alla copertura dei costi chiamato tariffa, canone, «biglietto» (tariffa dei francobolli, biglietto dell’autobus o dei treni, canone per il raccordo alla rete elettrica, al gas urbano, alla radio…). Il contributo non aveva la finalità di coprire i costi. Questi restavano principalmente assicurati dalle finanze pubbliche.
Il principio di gratuità dei beni comuni non significa assenza di costi («nessuno paga»!). Significa invece che i costi, molte volte particolarmente elevati (caso della difesa militare) sono presi in carico dalla collettività. La grande conquista sociale rappresentata dall’introduzione nei paesi europei della fiscalità generale redistributiva e progressiva sta proprio nel principio della gratuità dell’accesso e dell’uso dei beni essenziali ed insostituibili per la vita grazie alla copertura comune dei loro costi secondo di principi di giustizia, solidarietà e responsabilità.
Il principio di gratuità, in effetti, è strettamente legato a quelli di responsabilità e di partecipazione (fino ad alcuni anni fa sotto forma indiretta, quella della rappresentazione democratica, via le elezioni dei «deputati» a suffragio universale diretto). È questo principio che ha fatto della Danimarca (ed anche della Norvegia e della Svezia) la «buona società» occidentale del XX secolo, modello per tutte le altre. Il sistema fiscale in Danimarca, piuttosto unico ed originale, fu addirittura dissociato dal sistema del lavoro retribuito.
Il diritto alla vita decente e sociale era garantito a tutti, occupato o no. Da alcuni anni, la Danimarca non è più la società che è stata. Quel che ha reso e rende tuttora il principio di gratuità inaccettabile ai detentori di capitale (ai gruppi dominanti sul piano economico e sociale) è, per l’appunto, il fatto che essi debbano condividere una parte della loro ricchezza «prodotta» per «pagare – gridano – l’accesso all’acqua, alla salute, all’educazione… degli altri, di quelli che non vogliono lavorare, degli immigrati, degli illegali… ecc. ecc.».
Il rigetto della copertura dei costi attraverso la fiscalità e le tariffe pubbliche nel caso dei servizi idrici, dell’accesso alla salute, dei trasporti collettivi… mentre, invece, si accetta il ricorso alla fiscalità per la copertura della difesa militare, si spiega assai facilmente. Mentre la difesa militare si traduce in produzione di beni e servizi che generano fonti importanti di reddito per i detentori di capitali (l’industria militare rende ricchi i privati nazionali ed internazionali), ciò non accade per la produzione di beni e servizi, per esempio, nel campo dell’educazione. Un insegnante elementare, o del secondario, è vissuto – per il capitale privato che paga le tasse – come un costo in assoluto. L’«industria scolastica» non rende ricchi i privati.
Per questo l’economia capitalista parla dell’insegnamento elementare e secondario come di attività lavorative non produttive (il discorso è cambiato recentemente per quanto riguarda le università private specializzate e, più in generale, l’economia della conoscenza ad alto valore aggiunto). Lo stesso vale per la categoria dei burocrati pubblici (a differenza dei burocrati privati che «rendono» finanziariamente). I discorsi e dibattiti sul «costo dei politici» o i «costi della politica» (cui hanno aderito attivamente anche i rappresentanti della sinistra e delle forze dette progressiste) è sintomatico, corrisponde in pieno all’ideologia della governance. Discreditare la funzione del politico ed il ruolo della politica pubblica ha funzionato in maniera efficace in questi ultimi trent’anni.
La monetizzazione dei servizi un tempo pubblici in funzione dell’obiettivo della «verità dei prezzi» si fonda sull’applicazione mistificatrice della teoria dei costi. Il caso della monetizzazione dell’acqua e dei servizi idrici costituisce un esempio illuminante di una serie di mistificazioni legate alla teoria dei costi. L’acqua dei fiumi, delle falde, della pioggia, dicono i dominanti, è un bene comune e resta un bene comune, ma per garantire l’accesso all’acqua potabile c’è bisogno di tubi, di serbatoi, di stazioni di potabilizzazione, di laboratori di controllo della qualità, cioè ci sono dei costi.
A chi spetta coprire i costi? I dominanti affermmano: al consumatore, a colui che ricava un’utilità particolare e personale dal consumo dell’acqua potabile in funzione dei suoi bisogni. Il consumatore, quindi, deve pagare un «prezzo dell’acqua» tale da consentire di recuperare tutti i costi di produzione, compresi i costi d’investimento a lungo termine, più un livello di profitto sufficiente per la remunerazione del «rischio» assunto dal capitale investito.
Si tratta dell’applicazione del «full cost recovery principle», un principio chiave dell’economia capitalista di mercato, fatto suo anche dall’Unione Europea con la Direttiva quadro sull’acqua del 2000. È uno dei principi teorici alla base della governance. Visto che il servizio idrico integrato è «naturalmente» e dappertutto gestito in situazione di monopolio e che, inoltre, ci sarà sempre la necessità vitale di utilizzo dell’acqua potabile, parlare di «rischio capitalista» in questo campo è pura mistificazione.
Inoltre, i dominanti difendono la monetizzazione dei servizi idrici sostenendo che il prezzo di mercato è necessario per garantire l’autonomia finanziaria degli operatori del settore e sganciarli così dal finanziamento pubblico riducendo la spesa pubblica e quindi la pressione fiscale sul capitale privato, il che rappresenterebbe, secondo loro, un buon indicatore di una governance riuscita. Anche qui, la mistificazione è particolarmente grave. Non solo si estrae l’accesso ad un bene/servizio essenziale per la vita (in questo caso, l’acqua) dal campo dei diritti, ma si afferma che i diritti umani e sociali hanno un prezzo di mercato e che essi si vendono e si comprano! La mercificazione della vita non poteva essere più esplicita.
Inoltre, ci si fa burla del cittadino. Non solo lo sganciamento del servizio idrico dal finanziamento pubblico alleggerisce la responsabilità del contribuente ricco, ma addirittura lo scarico sul consumatore del finanziamento stesso si traduce nell’affidare al cittadino ridotto a consumatore il compito di finanziare la creazione di ricchezza per i detentori privati di capitale. Il che è assurdo, oltreché ridicolo: per avere accesso ad un bene/servizio che non sceglie, perché ne ha la necessità vitale, e che ad ogni modo la società/la comunità deve garantire, il «cittadino» di oggi deve contribuire all’aumento della ricchezza del capitale privato.
Infine, i dominanti sostengono che quel che il consumatore paga versando il prezzo dell’acqua non è l’acqua ma i servizi resi. Quindi, non vi sarebbe alcuna privatizzazione e mercificazione dell’acqua. Tutt’al più, dicono, v’è mercificazione e privatizzazione dei servizi idrici. Se ciò fosse vero, il che non è, perché HERA pagherebbe per l’acquisto dell’acqua da Romagna Acque che gliela vende al prezzo dell’acqua grezza? E di cosa si deve parlare se non di mercificazione e di privatizzazione dell’acqua allorché l’Acquedotto pugliese compra l’acqua da Lucania Acque e da Campania Acque pagando dei prezzi dell’acqua grezza differenti a seconda della regione di vendita?
Il caso della monetizzazione dell’aria e delle foreste rappresenta altre varietà di mistificazione. I gruppi dominanti hanno accettato nel 1992 che si parlasse di un «protocollo di lotta contro il cambio climatico» a condizione che i costi connessi alla riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra (GES) fossero coperti attraverso i meccanismi di mercato, in funzione della quantità consumata da ciascun paese, da ciascun settore e da ciascuna impresa rispetto alla quantità massima autorizzata. Così è nato il Protocollo di Kyoto (1997) basato sul «mercato delle emissioni»: c’è chi compra la quantità di GES di cui ha «bisogno» e che supera quella autorizzata e chi vende la quantità di GES non emessa inferiore a quella autorizzata.
Il «mercato dell’aria» è nato. I suoi fautori continuano a difenderlo solo per interesse ideologico ed economico (tutto deve essere mercato) anche se oramai è evidente che il meccanismo del prezzo delle emissioni produce effetti perversi che non gli hanno permesso di contribuire alla soluzione del problema. Come il prezzo mondiale del petrolio non ha risolto alcun problema energetico ed economico – il contrario è vero –, così il prezzo mondiale della tonnellata di CO2 non permetterà di risolvere il problema della lotta al riscaldamento dell’atmosfera terrestre. Pretenderlo è mistificazione da menzogna.
Lo stesso vale per la decisione presa nel 2002 a Johannesburg di monetizzare le foreste primarie. Queste non saranno salvate dalla traduzione in dollari o in euro o in yuan del loro valore, misurato in questo caso in termini del loro contributo alla riduzione dei costi connessi alla lotta contro le emissioni di GES. A parte il fatto che le foreste primarie hanno un valore perché esistono e fanno parte del ciclo integrale della vita sul pianeta, non sarà per il fatto che le azioni dei loro proprietari figureranno istantaneamente sui principali indici borsistici mondiali che esse saranno valorizzate, protette e conservate nell’interesse della vita del pianeta.
Ha forse il prezzo borsistico del grano, del frumento, del riso contribuito ad un migliore governo di questi beni essenziali all’alimentazione della popolazione mondiale? Certamente no. Così dicasi dei medicinali non generici prodotti a partire dall’appropriazione privata da parte delle grandi compagnie chimiche e farmaceutiche multinazionali del capitale biotico esistente nelle foreste primarie. Nel caso del trattamento contro l’AIDS, la monetizzazione del capitale biotico ha soprattutto agevolato un prezzo elevatissimo della triterapia impedendo così a milioni di esseri umani affetti dall’AIDS di essere curati.
La «verità del prezzo» di mercato applicata ai beni comuni pubblici è semplicemente un furto. È tempo, quindi, di abbandonare la monetizzazione dei beni comuni pubblici e di reinventare sistemi basati sul principio di gratuità partendo da forme organizzate a livello locale (da qui l’importanza dell’economia di prossimità, dei circuiti corti) fino al livello mondiale (attraverso forme di transnazionalità e di transterritorialità che restano da immaginare, definire ed implementare). Di nuovo, il principio di partecipazione dei cittadini e quello di responsabilità collettiva condivisa assumono un ruolo centrale determinante.
1. Vedasi la maturazione di queste concezioni in “La governance europea. Un libro bianco”, Commissione europea, Bruxelles, pubblicato nel 2001 sotto la presidenza di Romano Prodi.
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La vergogna dell’America 07.11.2010
Centro Studi Sereno Regis
Duro intervento di Robert Fisk dopo le rivelazioni di WikiLeaks che mettono a nudo in dettaglio la brutalità della guerra in Iraq – e l’inganno sbalorditivo e scandaloso degli USA.
Come al solito, gli arabi sapevano. Sapevano tutto delle torture di massa, della fucilazione promiscua di civili, dell’uso scandaloso di forze aeree contro abitazioni familiari, dei mercenari carogna americani e britannici, dei cimiteri degli innocenti. Tutto l’Iraq sapeva. Perché erano loro le vittime.
Solo noi potevamo fingere di non sapere. Solo noi in Occidente potevamo opporci a ogni asserzione, ogni accusa contro gli americani o i britannici con qualche degno generale – vengono in mente lo spettrale portavoce militare USA Mark Kimmitt e l’abominevole presidente dei Capi di Stato Maggiore, Peter Pace – per recintarci di bugie. Trovavate un uomo che era stato torturato e vi veniva detto che era propaganda terrorista; o una casa gremita di bambini uccisi da un’incursione aerea americana e anche quella sarebbe stata propaganda terrorista, o “danno collaterale”, o una semplice espressione: “Non ci risulta.”
Ovviamente, noi tutti sapevamo che essi erano al corrente. E la marea di memorandum militari di ieri lo prova una volta di più. Al-Jazeera ha fatto di tutto per rintracciare le effettive famiglie irakene i cui membri risultano uccisi ai posti di controllo USA – io ne ho identificata una perché ne riferii nel 2004: l’auto crivellata dai colpi, i due giornalisti morti, addirittura il nome del capitano USA del posto – ed è stato l’Independent di domenica ad allertare per primo il mondo sulle orde di indisciplinati gorilla armati spediti a Baghdad per proteggere diplomatici e generali. Questi mercenari, che impazzavano uccidendo per le città dell’Iraq, mi malmenarono quando dissi loro che stavo scrivendo su di essi già nel 2003.
Si ha sempre la tentazione di evitare un articolo dicendo “nulla di nuovo”. L’idea della “solita storia” viene usata dai governi per smorzare l’interesse giornalistico, come può essere usata da noi a copertura della pigrizia giornalistica. Ed è vero che i reporter hanno già visto un po’ di questa roba. La “prova” del coinvolgimento iraniano nella fabbricazione di bombe nell’Iraq meridionale fu servita a Michael Gordon del The New York Times dal Pentagono nel febbraio 2007. Il materiale grezzo che possiamo adesso vedere è molto più dubbio che la versione mendicata dal Pentagono. In Iraq c’era in giro ancora parecchio materiale militare iraniano risalente alla guerra irako-iraniana del 1980-88 e la gran parte degli attacchi agli americani a quel punto era portata da insorti sunniti. A proposito, erano corrette le notizie che la Siria permetteva agli insorti di passare per il proprio territorio. Ho parlato con le famiglie di attentatori suicidi palestinesi i cui figli giunsero in Iraq dal Libano passando dal villaggio libanese di Majdal Aanjar e poi per la città siriana di Aleppo per aggredire gli americani.
Ma, pur scritta in squallido militarese, ecco la prova della vergogna dell’America, roba che può essere usata dagli avvocati in tribunale. Se 66,081 – quanto mi piace quell’ “81? – è la cifra USA più alta disponibile per i morti civili, la cifra reale è allora infinitamente superiore dato che quella registra solo i civili di cui sapevano gli americani. Alcuni di essi vennero portati all’obitorio di Baghdad in mia presenza, e fu l’ufficiale più alto in grado lì presente che mi disse che il ministero della sanità irakeno aveva vietato ai medici qualunque accertamento post-mortem sui cadaveri dei civili portati da soldati USA. E perché mai? Perché alcuni erano stati torturati a morte da irakeni che lavoravano per gli americani? Questo combinava con i 1.300 rapporti USA indipendenti sulla tortura nelle stazioni di polizia irakene?
Gli americani non avevano fatto di meglio la volta precedente. In Kuwait, militari USA sentivano dei palestinesi venir torturati dai kuwaitiani nelle stazioni di polizia dopo la liberazione della città dalle legioni di Saddam Hussein nel 1991. Un membro della famiglia reale del Kuwait era coinvolto nella tortura. Le forze USA non intervennero; si lagnarono semplicemente con la famiglia reale. Ai soldati viene sempre detto di non intervenire. Dopo tutto, che dissero al ten. Avi Grabovsky dell’esercito israeliano quando riferì al suo ufficiale nel settembre 1982 che i falangisti alleati d’Israele avevano appena ucciso alcune donne e bambini? “Lo sappiamo, non ci fa piacere, ma non interferire” gli disse il suo comandante di battaglione. Fu durante il massacro dei profughi di Sabra e Chatila.
La citazione è del rapporto del 1983 della commissione israeliana Kahan – sa il cielo che cosa leggeremmo se WikiLeaks mettesse le mani sugli innumerevoli archivi del ministero della difesa israeliano (o siriano, per quello). Ma ovviamente allora sapevamo come usare il computer, figuriamoci come scriverci su. Che è naturamente una delle lezioni importanti del fenomeno WikiLeaks.
Nella prima guerra mondiale, o nella seconda, o in quella del VietNam, si scrivevano i propri reportage su carta, magari in triplice copia, ma si poteva comunque numerarle, rintracciare qualunque spione e prevenirne uscite incontrollate. Le Carte del Pentagono erano effettivamente scritte su carta. Per ottenerli si doveva trovare una talpa. ma la carta poteva sempre essere distrutta – anche in tutte le copie, espurgata, cestinata, Alla fine della guerra 1914-18, per esempio, un sottotenente britannico sparò a un cinese che l’aveva minacciato con un coltello dopo che operai cinesi avevano saccheggiato su un treno francese. Ma durante gli anni ’30 la pratica relativa fu “espurgata” tre volte sicché non rimane traccia dell’incidente, salvo un suo esile spettro in un diario di reggimento che registra un coinvolgimento cinese nel saccheggio di “treni di provviste francesi”. L’unico motivo perché io sappia dell’uccisione del cinese è che mio padre era quel tenente e me lo raccontò prima di morire. Niente WikiLeaks al tempo.
Ma sospetto, eccome, che questa massa imponente di materiale sulla guerra in Iraq abbia serie implicazioni per i giornalisti nonché per gli eserciti. Qual è il futuro dei Seymour Hersh e del giornalismo investigativo vecchio stile che The Sunday Times soleva praticare? Qual è lo scopo di mandare squadre di reporter a esaminare crimini di guerra e incontrare “gole profonde” militari, se quasi mezzo milione di documenti militari segreti vi galleggeranno su uno schermo davanti al naso?
Non siamo ancora arrivati al fondo di questa storia WikiLeaks, e sospetto piuttosto che ci sia più che soltanto qualche soldato USA implicato in quest’ultima rivelazione. Chissà se non ci si avvicina alle alte gerarchie? Per esempio, al-Jazeera nele sue indagini ha scoperto un estratto di una conferenza stampa di routine del Pentagono del novembre 2005. Peter Pace, l’antipatico presidente dei Capi di Stato Maggiore, vi riferisce ai giornalisti come dovrebbero reagire i soldati al trattamento crudele dei prigionieri proclamando con orgoglio che è dovere di un soldato USA intervenire allorché veda prove di tortura. Poi la telecamera si sposta sulla ben più sinistra figura del ministro della Difesa Donald Rumsfeld, che interrompe bruscamente quasi con un borbottio il costernato Pace: “Non credo che intenda che (i soldati americani) abbiano l’obbligo di fermarla fisicamente, ma di riferirne a chi di dovere.”
L’importanza di questo commento – cripticamente sadico a modo suo – è ovviamente andata persa per i giornalisti. Ma il memorandum segreto Frago 242 adesso conferisce ben più senso alla conferenza stampa. Presumibilmente inviato dal gen. Ricardo Sanchez, contiene la seguente istruzione ai soldati: “Purché il rapporto iniziale confermi che forze USA non fossero implicate nell’abuso di detenuti, non si condurranno ulteriori indagini se non dirette da HHQ [Higher Headquarters, Quartieri Gererali Superiori].” Abu Ghraib ebbe luogo durante il periodo di sorveglianza di Sanchez in Iraq. Fu sempre Sanchez, a proposito, che non seppe spiegarmi a una conferenza stampa perché le sue truppe avessero ucciso i figli di Saddam in uno scontro a fuoco a Mosul anziché catturarli.
Sicché il messaggio di Sanchez, pare, deve aver avuto l’imprimatur di Rumsfeld. E così il gen. David Petraeus – benamato dagli organi di stampa USA – fu presumibilmente responsabile del netto aumento d’incursioni aeree USA nel giro di due anni; 229 bombardamenti in Iraq nel 2006, ma 1.447 nel 2007. Abbastanza interessante è che i raid aerei USA in Afghanistan siano aumentati del 172% dacché Petraeus vi ha assunto il comando. Il che rende tanto più sbalorditivo che il Pentagono stia ora frignando che WikiLeaks può aver le mani sporche di sangue; proprio il Pentagono, coperto di sangue dallo sgancio della bomba atomica su Hiroshima nel 1945, e come istituzione che ordinò l’invasione illegale dell’Iraq nel 2003 – con quel corollario di oltre 66.000 morti civili secondo i propri conti, rispetto al totale di 109.000 registrati? Asserire che WikiLeaks sia colpevole d’omicidio è grottesco.
La verità, naturalmente, è che se tutto quello scrigno di rapporti segreti avesse provato che il numero dei morti era molto minore di quello strombazzato sulla stampa, che i soldati USA non tollerarono mai la tortura della polizia irakena, hanno sparato di rado ai civili ai posti di controllo e hanno sempre chiamato a render conto i killer mercenari, i generali USA distribuirebbero questi rapporti gratis ai giornalisti sui gradini del Pentagono. Sono furiosi non perché è stato infranto il segreto, o perché può conseguirne un versamento di sangue, ma perché sono stati colti a dire bugie che peraltro abbiamo sempre saputo che dicevano.
I documenti ufficiali USA precisano una scala straordinaria di azioni sbagliate
WikiLeaks ha rilasciato ieri sul suo sito ben 391.832 messaggi militari USA che documentano azioni e rapporti in Iraq nel periodo 2004-2009. Ecco i punti principali:
Prigionieri abusati, stuprati e assassinati
Centinaia di casi di abuso e tortura di prigionieri da parte dei servizi di sicurezza irakeni, ivi inclusi stupro e assassinio. Poiché essi sono individuati nei rapporti USA, le autorità USA ora fronteggiano accuse di mancata indagine. Leader ONU e attivisti in campagna richiedono un’indagine ufficiale.
Copertura del numero di morti civili
I leader della coalizione hanno sempre detto “non riscuotiamo pedaggi di morte”, ma i documenti rivelano la registrazione di molte morti. L’autorevole associazione britannica Iraq Body Count dice che dopo esame preliminare di un campione dei documenti si possono stimare altri 15.000 morti civili, per un totale che sale a 122.000.
Abbattimento di uomini che cercano di arrendersi
Nel febbraio 2007, un elicottero Apache uccise due irakeni sospettati di azionare mortai, mentre cercavano di arrendersi. Un avvocato militare è citato per aver detto: “Non possono arrendersi a un velivolo e sono quindi bersagli validi.”
Abusi di aziende di sicurezza private
L’Ufficio britannico di Giornalismo Investigativo dice di aver trovato documenti che precisano nuovi casi di presunte uccisioni improprie di civili che coinvolgono Blackwater, frattanto rinominata Xe Services. Ciononostante, Xe mantiene ampi contratti USA in Afghanistan.
Uso di bambini e “handicappati mentali”da parte di Al-Qa’ida per attacchi con bombe
Un adolescente con sindrome di Down che ha causato 6 morti e 34 feriti in un attacco suicida a Diyala sarebbe un esempio di prassi regolare di reclutamento da parte di al-Qa’ida verso chi ha difficoltà di apprendimento. Un medico è accusato di aver venduto un elenco di tali pazienti femminili agli insorti.
Centinaia di civili uccisi ai posti di blocco
Delle 832 morti registrate ai posti di blocco in Iraq fra il 2004 e il 2009, secondo l’analisi dell’Ufficio britannico di Giornalismo Investigativo, 681 erano civili. Fra le vittime, 50 famiglie e 30 bambini uccisi. Per incidenti ai posti di blocco sono stati uccisi solo 120 insorti.
Influenza iraniana
I rapporti precisano le preoccupazioni USA che agenti iraniani abbiano addestrato, armato e diretto militanti in Iraq. In un tale documento, i militari USA ammoniscono che un comandante della milizia che si pensa sia responsabile della morte di soldati USA e del rapimento di ufficiali irakeni fosse addestrato dalla Guardia Rivoluzionaria Islamica iraniana.
The Independent
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale: The Shaming of America
http://www.transcend.org/tms/2010/11/the-shaming-of-america/
http://serenoregis.org/2010/11/la-vergogna-dell%E2%80%99america-robert-fisk/
http://rete-eco.it/it/approfondimenti/europa-usa-etc/17145-la-vergogna-dellamerica.html
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Cambiare dal basso 07.11.2010
Autore: Viale, Guido
Una proposta politica ragionevole e coerente per uscire dalla crisi dell’economia, della democrazia e dell’ambiente. Il manifesto, 7 novembre 2010
Per chi guarda alla crisi in corso dal punto di vista di un mondo diverso alcune questioni già ampiamente dibattute in altre sedi possono essere date per scontate. Innanzitutto, se c’è o ci sarà una “ripresa” dalla crisi – il che è ancora da vedere – non sarà granché; dei tre principali indicatori con cui si misura l’andamento economico (Pil, profitti e occupazione), la ripresa potrà riguardare il Pil di alcuni paesi, i profitti di una parte, e una parte soltanto, delle imprese; ma sicuramente non riguarderà l’occupazione e i redditi da lavoro. Meno che mai possiamo pensare di andare incontro a una nuova fase di espansione economica, come quella dei cosiddetti “Trenta gloriosi” (1945-1975); per lo meno nella parte del mondo che ci riguarda. Investimenti e profitti sono ormai irreversibilmente disgiunti da occupazione e migliori condizioni di lavoro.
Il pianeta Terra è sull’orlo di un baratro dovuto all’eccessivo consumo di ambiente, sia dal lato del prelievo delle risorse che da quello dell’emissione di scarti, residui e rifiuti. Crisi economica e crisi ambientale sono indissolubilmente legate. Per questo, per garantire reddito e condizioni di vita e di lavoro dignitose a tutti è necessario un profondo cambiamento sia dei nostri modelli di consumo che dell’apparato produttivo che li sostiene. Consumi e struttura produttiva sono indissolubilmente legati: fonti energetiche rinnovabili, efficienza energetica, risparmio e riciclo di suolo e di risorse, mobilità sostenibile e agricoltura biologica, multiculturale, multifunzionale e a km0 sono i capisaldi del cambiamento necessario. Questo cambiamento impone una radicale inversione di paradigma nei processi economici, per sostituire alle economie di scala fondate su grandi impianti e grandi reti di controllo economico e finanziario (come il ciclo degli idrocarburi, dalla culla alla tomba) i principi del decentramento, della diffusione, della differenziazione territoriale, dell’integrazione attraverso un rapporto diretto, anche personale, tra produzione di beni o erogazione di servizi e consumo. L’esigenza di rilocalizzare e “territorializzare” produzioni e consumi riguarda ovviamente le risorse e i beni fisici (gli atomi) e non l’informazione e i saperi (i bit); ma questo corrisponde perfettamente al criterio guida di pensare globalmente e agire localmente.
Le attuali classi dirigenti, sia politiche (di maggioranza e di opposizione) che manageriali o imprenditoriali non sono attrezzate né sostanzialmente interessate a un cambiamento del genere. La crisi potrebbe sviluppare processi sia di compattazione autoritaria che di disgregazione del tessuto connettivo dell’economia e della società. In entrambi i casi, pericolosi per tutti. C’è pertanto bisogno di una diversa forza trainante, non solo per essere realizzare, ma anche solo per concepire e progettare nelle loro articolazioni qualsiasi trasformazione sostanziale.
Una forza del genere oggi non c’è, ma nel tessuto sociale di un pianeta globalizzato si sono andate sviluppando nel corso degli ultimi due decenni pratiche, esperienze, saperi e consapevolezze nuove, anche se prive di una “voce” commisurata alla loro consistenza o di collegamenti adeguati; sia per mancanza di risorse e di accesso ai media, sia, soprattutto, per le loro caratteristiche ancora in gran parte locali o settoriali. Ma per una riconversione di vasta portata non bastano la difesa, la rivendicazione e il conflitto; servono anche progettualità, valorizzazione dei saperi e delle competenze mobilitabili, aggregazione non solo dell’associazionismo, ma anche di imprenditorialità e di presenze istituzionali. Una aggregazione del genere delinea un perimetro variabile, ma essenziale, di una democrazia partecipativa – compatibile e per molto tempo destinata a convivere con le rappresentanze istituzionali tradizionali – le cui forme non potranno necessariamente essere simili dappertutto.
Ho evitato finora di nominare termini come decrescita, democrazia a Km0, conversione ecologica, socialismo, lotta di classe, partito e simili: parole che possono dividere. Cercando di porre l’accento su quello che unisce o può unire uno schieramento di idee, di pratiche e di organizzazioni più ampio possibile. Qui di seguito, invece, prendo posizione su questioni che possono non trovare più tutti d’accordo.
Innanzitutto ritengo che lo Stato e gli Stati siano la controparte e non gli agenti di una trasformazione come quella delineata, che non può essere governata o gestita, ma nemmeno progettata, dall’alto e in forma centralizzata. Tanto meno possono svolgere un ruolo del genere la finanza internazionale o gli organismi che la rappresentano a livello planetario o quelli in cui si articola il loro potere.
In secondo luogo, ritengo sacrosanta e irrinunciabile la difesa dell’occupazione e del reddito sui luoghi di lavoro, ma se si svolge senza mettere in discussione logica e tipologia dei beni e dei servizi prodotti, al di fuori di una prospettiva di riconversione della struttura produttiva e dei modelli di consumo vigenti, è una lotta perdente. Per esempio non porta a nulla chiedere che la Fiat produca più auto, che ne produca di più in Italia, che produca modelli a più alto valore aggiunto, cioè di lusso, che produca “auto ecologiche” (peraltro un ossimoro). Per questo ritengo fulcro della riconversione il passaggio dall’accesso individuale ai beni e ai servizi a forme sempre più spinte di consumo condiviso. Non si tratta di “collettivizzare” i consumi, ma di associarsi per migliorarne l’efficacia e ridurne i costi. Gli esempi a portata di mano sono i Gas (gruppi di acquisto solidale) che nel corso degli ultimi due anni si sono diffusi in modo esponenziale; quelli più promettenti sono l’associazionismo per gestire il risparmio energetico, installare impianti di energia rinnovabile o promuovere la mobilità flessibile. È un modello che può investire tutti i servizi pubblici locali: trasporti, energia, rifiuti, acque, manutenzione del territorio, welfare municipale. E poi cultura, spettacolo, istruzione, formazione professionale e permanente; ma anche riuso di beni dismessi o da dismettere, attraverso la promozione di una cultura e di una pratica della manutenzione.
Certamente c’è bisogno di un quadro programmatico generale, non solo di livello nazionale, ma anche internazionale. Ma in mancanza di soggetti e agenti in grado o disponibili a farsene carico – e comunque impossibilitati a realizzarlo nelle sue articolazioni territoriali – è a livello locale che si gioca la partita; oggi un disegno programmatico generale può nascere solo dal concorso di iniziative a carattere locale, ancorché concepite con un approccio e un pensiero globali. Per questo la salvaguardia o la riconquista di un ruolo fondamentale per i poteri locali – municipalità e i loro bracci operativi – assume una valenza strategica generale: cosa che la campagna contro la privatizzazione dell’acqua ha messo in evidenza.
Niente a che fare con il “federalismo” sbandierato dalla Lega. Non c’è mai stato tanto accentramento e tanta espropriazione dei poteri locali – dall’Ici alle decisioni sulla localizzazione degli impianti nucleari; dal sequestro dei fondi Fas al taglio dei trasferimenti e all’accentramento degli interventi straordinari nelle mani della Protezione civile, cioè della Presidenza del consiglio, cioè della “cricca” – come da quando la Lega è al governo. Ma la minaccia e l’ostacolo maggiori per qualsiasi prospettiva di cambiamento radicale dello stato di cose presente sono rappresentati dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali, promossa e portata avanti sotto le false sembianze della loro “liberalizzazione”. Non solo perché essa sostituisce il profitto alla valenza e alle finalità sociali dei “beni comuni”. Ma soprattutto perché il divieto o la limitazione dell’ in house providing, lungi dal promuovere l’efficienza dei servizi, innescano processi di aggregazione e finanziarizzazione delle gestioni; e con esse un progressivo e violento allontanamento dei poteri decisionali dal territorio di riferimento in attività che sono essenzialmente “servizi di prossimità”, la cui efficacia dipende dal grado di controllo e di condizionamento – ma anche di partecipazione e di coinvolgimento – che l’utenza riesce a esercitare su di essi. La vicenda dei rifiuti urbani della Campania, la cui gestione era stata affidata nella sua interezza a una multinazionale estranea al territorio, dopo essere stata sottratta, con l’istituto del Commissario straordinario e con la militarizzazione del territorio, al già debole controllo delle rappresentanze istituzionali e della contestazione dal basso, è un caso da manuale. Come lo è la vicenda del sequestro del servizio idrico privatizzato in provincia di Latina.
Per questo la promozione di forme nuove di consumo condiviso – che vuol dire controllo o condizionamento sulle condizioni in cui il bene o il servizio vengono prodotti, distribuiti o erogati – è al tempo stesso via e risultato di una democrazia partecipata che coinvolga la cittadinanza attiva e la faccia crescere in numero e capacità di autogoverno: protagonisti ne dovrebbero diventare, secondo le modalità specifiche proprie di ciascun attore, i lavoratori e le loro organizzazioni, il volontariato e l’associazionismo di base, le amministrazioni locali o qualche loro segmento, le imprese sociali e quelle, anche private, soprattutto se a base locale, disponibili al cambiamento. La progettazione e la realizzazione di questo passaggio richiede comunque un confronto aperto tra tutti gli interlocutori potenziali; un confronto che nella maggior parte dei casi andrà imposto con la lotta; ma che in altri potrà essere favorito dal precipitare della crisi.
Le proposte maturate e già sperimentate in anni di riflessione e di pratiche in seno ai movimenti sono vincenti. In un confronto aperto e trasparente non possono che prevalere. Il che non significa che si impongano anche le soluzioni proposte: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
http://eddyburg.it/article/view/16150/
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Hamas: “Gli ebrei saranno espulsi dalla Palestina come dall’Europa” 07.11.2010
Di Emanuel Baroz
Hamas: “Gli ebrei saranno espulsi dalla Palestina come dall’Europa”
Lo ha affermato un dirigente di Hamas, Mahmud a-Zahar
GAZA, 7 nov – Gli ebrei saranno espulsi dalla Palestina così come nel corso dei secoli lo furono «dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dal Belgio, dalla Russia e dalla Germania»: lo ha affermato uno dei dirigenti di Hamas a Gaza, Mahmud a-Zahar, in un discorso pronunciato a Khan Yunes (Gaza) nella notte fra venerdì e sabato.
Il suo intervento, che ha subito scatenato aspre reazioni sui siti web israeliani, è stato riferito dal Jerusalem Post e dal sito ebraico Walla. La presenza israeliana «sulle rovine dei villaggi palestinesi non durerà a lungo grazie alla determinazione della resistenza armata», ha previsto a-Zahar. «Sionisti, non avete un posto fra di noi e nemmeno fra le Nazioni. State per scomparire dalla faccia della terra». Secondo a-Zahar, in passato gli ebrei furono espulsi da diversi Paesi europei «perchè tradirono, rubarono, perchè li corruppero… perchè avevano intessuto trame ed inganni». Ad accoglierli, ha proseguito il dirigente di Hamas, fu la Nazione islamica «che li protesse e assecondò le loro necessità ».
«Ma adesso essi non hanno più un posto fra di noi – ha concluso il dirigente di Hamas – per via dei loro crimini. Presto saranno espulsi e pregheremo nella Moschea al-Aqsa» di Gerusalemme».
(Fonte: Diretta News.it, 7 novembre 2010)
Per ulteriori dettagli cliccare qui
http://www.focusonisrael.org/2010/11/07/hamas-antisemitismo-ebrei/
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Non lasciamo soli gli onesti 09.11.2010
di Marco Travaglio
Siamo venuti a conoscenza dal servizio della trasmissione Report e da Annozero che ha ripreso il fatto,della vicenda di Raphael Rossi, il giovane ex vicepresidente dell’Amiat che, grazie alle proprie competenzetecniche, ed avvalendosi del suo ruolo direttivo nella società, ha bloccato l’acquisto di un macchinarioinutile del costo di 4 milioni di euro e che ha respinto un reiterato tentativo di corruzione collaborando con lamagistratura per smascherare ogni manovra. Dopo il suo esposto in Procura e dopo una lunga indagine, sonostati arrestati i protagonisti della vicenda ed il prossimo 13 dicembre si celebrerà l’udienza preliminare del processo.
Abbiamo appreso dei diversi segnali che Raphael Rossi ha ricevuto dalle istituzioni torinesi, ciascuno dei quali discutibile ma che tutti insieme appaiono come un tentativo di isolamento:
1. E’ stato l’unico membro del passato CDA a non essere confermato nella carica.
2. Nel comunicato stampa con cui, dopo la trasmissione di Report, il Comune ha annunciato che Amiat si sarebbe costituita parte civile contro l’ex Presidente Giordano, erano curiosamente minimizzati i reati, dimenticando la corruzione e citando solo la turbativa d’asta. Fra i rinviati a giudizio (sette in totale) c’è l’attuale direttore agli acquisti di Amiat, e proprio Amiat dovrebbe costituirsi parte civile contro tutti coloro i quali saranno riconosciuti colpevoli.
3. E’grave il fatto che il comune di Torino non intenda costituirsi direttamente parte civile al processo, e non è sufficiente la tardiva e parziale dichiarazione dell’Amiat a marcare la distanza tra il comune di Torino e la pratica della corruzione.
4. Il fatto più grave infine è che Raphael Rossi, per denunciare le persone potenti che hanno provato a corromperlo abbia dovuto avvalersi di un legale che ora lo assisterà nel processo in cui egli è parte lesa. Tocca a Rossi anticipare le spese di tale supporto legale.
I firmatari della presente sono preoccupati della recrudescenza della corruzione che vede l’Italia regredire al 67° posto nelle statistiche1, collocata peggio del Ruanda, e più che mai preoccupati di quanto afferma il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Beppe Pisanu “… (ho riscontrato) … una certa disinvoltura nella formazione delle liste. Gremite di persone che non sono certo degne di rappresentare nessuno”.
I sottoscritti cittadini preoccupati vogliono manifestare la propria vicinanza a Raphael Rossi chiedendo al Comune di Torino:
– di costituirsi parte civile al processo,
– di sostenere le spese legali che Rossi deve anticipare,
– di ringraziarlo pubblicamente per il suo operato.
Segue raccolta firme e commenti
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/09/non-lasciamo-soli-gli-onesti/75838/
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Italia-Libia: Fli con opposizione su revisione trattato
Red, 09.11.2010
Governo battuto 3 volte alla Camera. Futuro e Libertà fa il primo sgambetto all’esecutivo, dopo la rottura sancita da Gianfranco Fini a Bastia umbra, votando con l’opposizione su un emendamento alla mozione che impegna l’esecutivo a rivedere il trattato di “amicizia” con la Libia
La linea futurista comincia a trovare traduzioni in atti parlamentari.
Per ora, si tratta solo di una sorta di “prova di forza dimostrativa”. Ma è chiaro il messaggio indirizzato al governo e al premier, con lo sganciamento formale di Futuro e Libertà dalla maggioranza di Governo alla Camera, che fa registrare per tre volte il voto decisivo dei finiani insieme alle opposizioni, con l’effetto di modificare la mozione del centrodestra sul trattato di amicizia Italia-Libia che porta la firma di Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi.
A poco più di 48 ore dopo l’annuncio di Gianfranco Fini sul possibile ritiro della delegazione Fli al Governo in assenza di dimissioni del Premier, e a poco meno di 48 ore dall’incontro fra Gianfranco Fini e Umberto Bossi, investito da Pdl e Lega di un mandato pieno per verificare le effettive chance che questa maggioranza superi la crisi politica in atto, i finiani lanciano il preciso segnale di voler dare seguito alla convention di Bastia Umbria, garantendo solo e soltanto l’approvazione parlamentare – come di fatto avviene nell’incontro odierno di maggioranza con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti – della legge di stabilità, accogliendo il richiamo esplicito a tutela della finanziaria venuto dal Presidente della Repubblica Fabrizio Cicchitto.
“Ora la crisi – commenta il leader Pd Pierluigi Bersani- è conclamata anche in Parlamento. E non può esserci un Berlusconi bis: dovrà nascere in governo di transizione. In ogni modo il crollo della maggioranza in Parlamento è anche merito nostro. L’opposizione in Parlamento sta svolgendo al meglio la propria funzione”.
L’arma che Fli imbraccia contro il Governo Berlusconi- assente Fini dalla presidenza d’aula perché tutto il giorno in visita in Romania, mettendosi così al riparo da un possibile fuoco Pdl sul ruolo della presidenza – è l’emendamento del Radicale eletto nel Pd Matteo Mecacci che, in nome del rispetto delle Convenzioni Onu sui diritti degli uomini e dei migranti, chiede che il Trattato di amicizia con Gheddafi impegni Roma a far rispettare a Tripoli quei diritti per i clandestini che l’Italia respinge sulle coste libiche, e quindi “sollecita con forza le autorità di Tripoli affinché ratifichino la convenzione dell’Onu sui rifugiati e riaprano l’ufficio Unhcr a Tripoli, quale premessa per continuare le politiche dei respingimenti dei migranti in Libia”.
In realtà un emendamento che si basa sul buonsenso e su un minimo di rispetto dei diritti fondamentali. Niente di rivoluzionario o eversivo. Ma tant’è che il governo, oramai di fatto a guida leghista, non può permettersi neppure un accenno di cedimento nello spot anti immigrati preteso da Bossi e sorvegliato a vista da Maroni. Tanto più che proprio a Bossi sono affidate le sorti (francamente deboli) della mediazione diplomatica con il plotone finiano.
Insomma, meglio la conta a “perdere” in Aula che una probabile irritazione delle camicie verdi. Ma i futuristi non ci stanno. Tanto basta a Fli per dire sì a Mecacci insieme a Pd, Udc, Api, Mpa e alla fine anche Idv (di per sè contraria invece tout court al trattato). E tanto basta al Pdl per disconoscere la propria mozione modificata, ottenendo su questo il conforto del Governo per bocca del ministro Frattini che si precipita in aula alla Camera: “politica estera ed immigrazione – tuona in aula il capogruppo Cicchitto- qua non c’entrano niente. Stiamo assistendo a un gioco delle 3 carte di politica interna”.
“Così -rincara Frattini, nonostante assicuri essere suo auspicio quello di ricomporre la maggioranza- si riaprono le porte ai clandestini”. Ma il richiamo alla Bossi-Fini non modificano la posizione dei futuristi. Che insieme al Pd fa propria la mozione disconosciuta da maggioranza e governo. E insieme alle opposizioni la vota. Così come vota – e fa passare- la mozione del gruppo Udc.
“Dal Parlamento arriva un segnale importante in difesa dei diritti dei rifugiati politici: Fli esprime soddisfazione”. Così Fabio Granata, deputato finiano. “La Libia dovrà essere costretta a rispettare i trattati Onu – osserva Granata – e l’Italia deve essere sempre all’altezza della sua tradizione di civiltà e accoglienza”. Che i finiani non riconoscano più alcun vincolo di maggioranza in Parlamento se non sul programma concordato a inizio legislatura da oggi è agli atti parlamentari.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16193
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Cassandra Crossing/ La Logica dell’Impero 09.11.2010
di M. Calamari – Tira una brutta aria in Italia, e non solo. E non è la classica buriana autunnale. Il ritorno di Cassandra non può non riguardare quanto di preoccupante sta accadendo in Rete e fuori
Roma – Immerso nel mio stesso silenzio, mentre da dipendente assumevo la mia dose mattutina di notizie, ho avuto quello che si potrebbe definire un episodio di serendipità. Infatti, mentre ricercavo per piacere personale notiziole interessanti nella e sulla Rete, ho trovato quello che non cercavo più e che mi mancava da tempo: uno spunto di attualità non banale su cui spendere il prezioso tempo necessario per scrivere (e per voi leggere) qualcosa di utile. Ma andiamo con ordine.
I più attenti di voi avranno certo notato la solita cassandresca citazione heinleiniana di un romanzo di fantascienza del 1941 che mantiene aspetti di incredibile attualità. Il tema di fondo del racconto é che quando, come durante una colonizzazione, le risorse economiche diventano scarse, il sistema stesso reagisce naturalmente riducendo gli spazi di libertà individuale e ripristinando certi aspetti della schiavitù.
Questa tesi permette di mettere in fila e spiegare quattro notiziole italiane, alcune delle quali nelle ultime due settimane sono state oggetto di commento da parte di penne ben più profonde di questa, impugnate dagli ottimi Guido Scorza e Massimo Mantellini.
La prima notizia é quella della “morte annunciata” e largamente esagerata del decreto Pisanu con annesso slogan di “WiFi libero per tutti” gridato da voci solitamente meglio informate. È angosciante vedere con quanta superficialità vengano letti annunci che, pur provenendo dalle labbra di politici come il ministro dell’Interno Roberto Maroni, sono perfettamente chiari e ricche dei necessari dettagli.
Nessun WiFi libero, solo la sostituzione di una costosa, antiquata e sostanzialmente inutile registrazione alla Questura, che un barista deve fare se vuole permettere l’uso della sua WiFi ai clienti, con il ben noto sistema di autenticare un aspirante navigatore costringendolo a richiedere una password che arriva via SMS sul suo cellulare. Per l’aspirante gestore di WiFi un nuovo balzello, che vedi caso é anche un nuovo business per i soliti noti; il servizio di autenticazione dovrà essere acquistato da qualcuno, e questa necessità continuerà comunque a scoraggiare la maggior parte dei possibili baristi interessati.
Una facile profezia: niente WiFi libero, ma solo nuovi adempimenti e balzelli al posto di quelli vecchi, ed una autenticazione informatica forte con le stesse possibilità di tracciamento dei dati di cella GSM. In sintesi, tecnologia invece di tonnellate di inutili fotocopie di carte di identità. Nessuna libertà in più, al contrario un tecnocontrollo un po’ più forte.
La seconda notizia é un commento del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso alla prima notizia. Le agenzie hanno riportato queste due citazioni:
“(…) per segnalare il venir meno del decreto Pisanu che stabiliva le regole precise per l’identificazione di coloro che usano le reti internet. Oggi c’è già un disegno di legge, approvato da un ramo del Parlamento, che vorrebbe liberalizzare tutte le postazioni WiFi e quindi gli Internet point, che significherebbe ridurre moltissimo la possibilità di individuare tutti coloro che commettono reati attraverso questo nuovo strumento tecnologico che è Internet. (…) Credo che ci si debba rendere conto che dietro questi Internet point e queste reti WiFi ci si possa nascondere benissimo nella massa degli utenti non più identificabili. Si possono trovare anche terroristi, pedofili e mafiosi”.
I fattori a comune con la prima notizia sono l’assenza di qualunque considerazione in ordine al diritto dei cittadini di non vivere in case di vetro ma di mattoni, anche se questo agevola evidentemente la commissione di reati, e il linguaggio fuori tempo e fuori contesto con cui si parla della Rete e delle sue tecnologie come di “nuovi strumenti” e non piuttosto di un nuovo mondo.
L’unico piccolo aspetto positivo (ma bisogna cercarlo con il lanternino, anzi il microscopio) é la sostituzione di un reato vero e preoccupante, quello di mafia, ad uno decisamente meno rilevante nell’elenco, anzi nel mantra, dei cattivi della Rete; questo però rende superato il neologismo caro a Cassandra di “pedoterrosatanisti”.
La terza notizia é stato il temporaneo sequestro in Norvegia, e della relativa clonazione degli hard disk, di un server del collettivo Autistici/Inventati, che forniva e fornisce servizi di comunicazione a migliaia di utenti.
Questo fatto, che ha portato al sequestro di una enorme quantità di informazioni personali, quasi certamente non necessarie ad un indagine per un singolo reato, é pure passato quasi sotto silenzio, pur avendo precedenti noti in quello analogo avvenuto per un server di Indymedia, e per altri fatti, come quelli accaduti ad altri server di comunicazione italiani, mai chiariti anche se oggetto di (inascoltate) interrogazioni parlamentari.
La quarta notizia é la presentazione delle due componenti dell’ennesimo “pacchetto sicurezza” un decreto ed un disegno di legge per ora non disponibili per pubblica consultazione. Per i soli aspetti legati alla Rete ed ai diritti digitali merita notare queste due citazioni sempre del ministro Maroni:
“Abbiamo posto fine alla sperimentazione della carta d’identità elettronica e che andava avanti da 10 anni e che ha comportato una spesa di 300 milioni di euro. Apriamo un capitolo nuovo e cioè l’introduzione della carta d’identità come documento di sicurezza per tutti a costo zero a partire da quando si è neonati. (…) Attraverso la registrazione delle impronte digitali nei Comuni – ha continuato il ministro – speriamo di arrivare anche prima della fine della legislatura all’utilizzo completo di questo nuovo strumento. Il nostro obiettivo resta quello di poter utilizzare questo documento per il voto elettronico”.
Ora, in attesa che qualcuno spieghi al ministro che i neonati non hanno impronte digitali utilizzabili e che bisogna attendere alcuni anni per il loro prelievo, questo significa che tutti i cittadini italiani verranno biometricamente schedati in massa. È finalmente caduta la maschera di una carta di identità elettronica rispettosa dei diritti dei cittadini, come era quella originale della sperimentazione.
Finalmente é chiaro che il Viminale vuole dotarsi di una database completo di impronte digitali di tutti i cittadini italiani. C’é nessuno che si chiede perché nemmeno negli Stati Uniti abbiano una tale mostruosità? E infine, chi mai in Italia può pensare di fidarsi di un sistema di voto elettronico non più materialmente verificabile? Non fa pensare il fatto che dove é stato sperimentato, in paesi ben più tecnologicamente assestati dell’Italia, sia stato un fallimento completo e dimostrato da “buchi” informatici che hanno fatto quasi fallire le ditte produttrici di sistemi per il voto elettronico?
L’unico posto in cui carta, timbri, spaghi e procedure manuali devono restare é proprio nel voto. Ben venga semmai un sistema elettronico di raccolta dei risultati, come quello sperimentato, seppur in maniere costosa e parzialmente fallimentare, in una delle ultime elezioni italiane.
Queste quattro notizie sono riunite da un file comune: l’evidentissima logica di un Impero illiberale ed autoritario che sta colonizzando la Rete e per far questo può e deve ridurre gli spazi di libertà sostituendoli con aree di controllo. La logica di un Impero preoccupato dalla necessità di gestire un mondo in cui i nuovi poveri si sommeranno ai vecchi, in cui la ricchezza si ridurrà e si concentrerà nelle mani di sempre meno individui.
Un mondo avviato in questa direzione dovrebbe preoccupare più i giovani rispetto ai quasi pensionati, dovrebbe preoccupare di più gli addetti ai lavori della Rete e chi si batte per i diritti civili rispetto agli utenti di Facebook. Ma sembra che, quello che era perfettamente chiaro ad un autore di fantascienza nel 1941, sia assai oscuro a tutti coloro che dovrebbero per primi parlare per denunciare le derive autoritarie che avvengono sotto la scintillante superficie della Rete delle veline e dei calciatori.
Marco Calamari
Lo Slog (Static Blog) di Marco Calamari
Tutte le release di Cassandra Crossing sono disponibili a questo indirizzo
TAG: internet, italia, tecnocontrollo, privacy, wifi, autistici inventati, voto elettronico, rubrica cassandra crossing
http://punto-informatico.it/3032163/PI/Commenti/cassandra-crossing-logica-dell-impero.aspx
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Mantello invisibile, qualcosa si vede 08.11.2010
Nuovo passo avanti nell’utilizzo dei metamateriali per la manipolazione della luce: ricercatori scozzesi annunciano di avere realizzato un metamateriale in grado di adattarsi a una superficie flessibile
Roma – Stando a quanto sostengono i ricercatori della St. Andrews University in Scozia non dovrebbe mancare poi molto alla produzione del fantomatico mantello dell’invisibilità a base di metamateriali: gli studiosi hanno messo a punto un nuovo materiale in grado di manipolare la luce a piacimento, con in più il vantaggio di potersi adattare a una superficie flessibile.
Metaflex, questo il nome del nuovo metamateriale, può piegare e deviare le onde luminose come i materiali precedenti. Applicando diverse membrane di Metaflex una sull’altra, inoltre, è possibile applicare il composto anche a superfici flessibili. In tal modo la realizzazione di un vero e proprio mantello invisibile, da mettere addosso a cose o persone, dovrebbe risultare molto più fattibile che in passato.
“Una delle applicazioni più entusiasmanti di Metaflex è la fabbricazione di metamateriali (MM) tridimensionali flessibili entro lo spettro ottico – dicono i ricercatori – Tali risultati confermano che è possibile realizzare i metamateriali al di sopra di substrati flessibili operanti nello spettro visibile, fatto che noi crediamo sia un elemento fondamentale per le future generazioni di MM flessibili tridimensionali operanti a lunghezze d’onda visibili”.
Gli autori della ricerca indicano varie possibilità di utilizzo per Metaflex, non necessariamente limitate al mantello invisibile: il metamateriale flessibile si presta anche alla realizzazione di lenti ottiche per le foto-videocamere di nuova generazione. Altamente prevedibile l’interesse primario dei militari nei confronti del ritrovato: un soldato “invisibile” è certamente un bersaglio difficile da inquadrare per qualsiasi esercito nemico.
Alfonso Maruccia
TAG: tecnologia, ricerca, mantello dell’invisibilità, metamateriali, metaflex, regno unito
http://punto-informatico.it/3029322/PI/News/mantello-invisibile-qualcosa-si-vede.aspx
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Le staminali del futuro 10.11.2010
Quando si parla di staminali la nuova frontiera è rappresentata dalla terapia rigenerativa. “Finora le uniche terapie efficaci per leucemie, ustioni, danni alla cornea, malattie ossee sono state realizzate con le cellule adulte”. Così Angelo Vescovi, direttore scientifico dell’Istituto di genetica Mendel di Roma e dell’Istituto Casa sollievo della sofferenza di San Giovanni Rotondo, ha aperto la seconda giornata del XXIII Congresso internazionale dell’ordine dei biologi.
“Le staminali adulte”, spiega l’esperto, “vengono dette multipotenti perché hanno già avviato il processo di differenziazione, ossia la capacità di specializzarsi in un determinato tessuto. Servono a rinnovare e riparare le cellule del sangue, del muscolo e di tutti gli organi che hanno esaurito il loro ciclo vitale”. Vescovi – direttore scientifico della Biobanca di Terni, autorizzata il 26 luglio dall’Aifa per la produzione delle staminali – ha ricordato i diversi filoni su cui il suo gruppo sta lavorando, a partire dalla prossima sperimentazione, che prevede nel 2011 su pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica, il trapianto delle staminali cerebrali nel midollo spinale.
Nel laboratorio ternano si utilizzano, con successo, le nanotecnologie per la ricostruzione delle fibre neuronali. “Le nanofibre costituiscono microcanali di materiale riassorbibile che servono come supporto per la crescita delle staminali”, conclude Vescovi. “In una lesione complessa è impossibile che una sola molecola possa riparare tutto, bisogna necessariamente creare protesi composte, perché ogni parte svolge una funzione diversa, meccanica e anche biologica, che permette alla cellula di sopravvivere e contemporaneamente di ricostruire le strutture danneggiate”.
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Estratto dalla rassegna http://www.caffeeuropa.it/ dell’11.11.2010
“G20
Inizia oggi a Seul il G20 e il presidente Obama ha inviato ai leader dei Paesi che partecipano al summit una lettera in cui scrive che la cosa migliore che possiamo offrire oggi al mondo è una economia americana di nuovo in crescita e capace di ridurre i suoi squilibri. A questo – sottolinea Obama – servono le misure monetarie adottate dalla Fed, ovvero immettere liquidità per 700 miliardi per comprare titolo dal Tesoro Usa. “La forza del dollaro dipende dalla forza dell’economia Usa”, ha detto Obama. E i Paesi emergenti devono rendersi conto che “la loro nuova forza comporta anche nuove responsabilità”. Sotto attacco per interventi Fed, soprattutto da parte di Cina e Germania, i due Paesi esportatori con il maggiore surplus commerciale, Obama ha usato toni pacati, ma anche ribadito che la rotta Usa non cambia, poiché la crisi è stata grave per gli Usa e per tutto l’Occidente, ha cambiato i rapporti di forza con le economie emergenti, che però vengono invitate a maggiore responsabilità. Ne parla Il Corriere della Sera.
La Fed, spiega Il Sole 24 ore, è stata oggetto di critiche cinesi e tedesche per l’intervento sul mercato con 600 miliardi di dollari, che potrebbe avere un impatto espansivo e che quasi sicuramente contribuirà ad un indebolimento della valuta americana e a un rilancio dell’export Usa. Per la Germania si tratta di una manipolazione dei cambi non diversa da quella cinese, che tiene lo yuan artificialmente debole. Proprio di fianco, un altro articolo racconta che il surplus commerciale cinese ha registrato un nuovo boom ad ottobre: le esportazioni hanno registrato un aumento del 23 per cento su base annua, mentre l’import è salito del 25 per cento.
E ancora sul Sole si spiega come l’Europa resti un “anello debole tra due fuochi”: l’Ue si sente vulnerabile di fronte a dollaro e yuan deboli e a barriere protezioniste erette dagli emergenti.”
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“Il silenzio di Barack,una ferita per il Kashmir”
Da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org l’11.11.2010
Una donna fantastica.
“Dichiaro me stessa una repubblica indipendente e mobile. Sono cittadina del mondo, senza territorio né bandiera. La mia politica è semplice. Sono disposta a firmare ogni trattato di non proliferazione nucleare.
Gli immigrati sono benvenuti”. (Arundhati Roy)
La scrittrice paladina dell’autodeterminazione del territorio conteso. Una generazione intera è cresciuta in guerra: non ha più né pazienza né paura
di ARUNDHATI ROY
“Il silenzio di Barack una ferita per il Kashmir” Arundhati Roy
Prima di vincere le elezioni, nel 2008, il presidente Obama disse che risolvere la disputa sulla lotta per l’autodeterminazione in Kashmir (che ha innescato tre guerre fra India e Pakistan dal 1947 a oggi)
sarebbe stato uno dei suoi “compiti fondamentali”. Da allora non si è più pronunciato al riguardo. Ma lunedì in India, con immenso piacere dei suoi ospiti, ha detto che l’America non si intrometterà nel Kashmir,
annunciando l’appoggio all’India per un seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ha parlato di terrorismo, ma non un parola sulla violazione dei diritti umani nel Kashmir. Però, né il silenzio di Obama né un suo intervento indurranno il popolo del Kashmir a mollare le pietre che serrano in pugno.
http://www.repubblica.it/esteri/2010/11/10/news/obama_roy-8940518/
Arundhati Roy rischia l’arresto
La scrittrice indiana rischia di finire in carcere per sedizione a causa delle sue affermazioni sul Kashmir. Roy ha sostenuto che le rivendicazioni territoriali di New Delhi sulla regione non sono del tutto legittime.
Arundhati Roy faces arrest over Kashmir remark
http://www.guardian.co.uk/world/2010/oct/26/arundhati-roy-kashmir-india
Intimidazione contro Arundhati Roy
Un centinaio di persone sono andate sotto casa della scrittrice indiana gridando slogan ostili. Sono riusciti a entrare e hanno devastato la proprietà. Il tutto davanti alle telecamere delle principali reti televisive. La testimonianza su Outlook. www.outlookindia.com
La scrittrice indiana parla dell’India. Il tramonto della democrazia. Le contraddizioni di un enorme paese
di Arundhaty Roy
Settecento milioni di indiani eleggono il nuovo parlamento. È un voto che fa comodo alle multinazionali, ai mercanti di armi e agli estremisti politici e religiosi. Ma che non serve al paese e alla democrazia, scrive Arundhati Roy
Poiché ci chiediamo ancora se ci sia vita dopo la morte, possiamo farci anche un’altra domanda: c’è vita dopo la democrazia? E che vita sarà?Con “democrazia” non intendo un regime astratto e ideale a cui aspirare. Mi riferisco al modello più diffuso: la democrazia liberale occidentale con le sue varianti, prese così come sono. E allora, c’è vita dopo la democrazia?
Quando cerchiamo di rispondere a questa domanda, spesso paragoniamo i diversi sistemi di governo per concludere con una difesa piccata e anche un po’ aggressiva della democrazia. Ha i suoi difetti, diciamo di solito. Non è perfetta, ma è meglio degli altri sistemi a disposizione.Inevitabilmente, qualcuno chiederà: “Afghanistan, Pakistan, Arabia Saudita, Somalia… Preferireste questi sistemi?”.
Se la democrazia sia un ideale a cui devono tendere tutte le società “in via di sviluppo” è un’altra questione (io penso di sì, e la fase iniziale, ancora piena di ideali, può essere davvero inebriante). La domanda sulla vita dopo la democrazia va rivolta a chi di noi vive già in una democrazia, o in paesi che fingono di essere democratici. Non voglio suggerire un ritorno a modelli passati e ormai screditati di governo totalitario o autoritario. Ma penso che sia il nostro ideale di democrazia, e non la nostra economia, ad avere bisogno di un po’ di adeguamenti strutturali.
Il punto è capire cosa abbiamo fatto della democrazia. In cosa l’abbiamo trasformata?
Che succede una volta che è stata svuotata e privata di senso? Cosa
succede quando ognuna delle sue istituzioni è diventata metastasi fino a trasformarsi in un’entità maligna e pericolosa?
Cosa succede ora che democrazia e capitalismo si sono fusi in un unico organismo predatorio, dall’immaginazione limitata e incentrata quasi esclusivamentesull’idea della massimizzazione dei profitti?
È possibile invertire questo processo?
Quello che serve oggi, per salvare il pianeta, è un progetto a lungo
termine.
Lo possono offrire i governi democratici, che sopravvivono solo grazie allo sfruttamento delle risorse? È possibile che la democrazia si riveli un boomerang per il genere umano? Se la democrazia ha tanto successo probabilmente è perché condivide con l’umanità il suo più grosso
difetto: la miopia.
La nostra incapacità di vivere nel presente e al tempo stesso di guardare in avanti, ci rende strani esseri “di mezzo”, né bestie né profeti. La nostra intelligenza sembra averci privato dell’istinto di
sopravvivenza.
Saccheggiamo la Terra sperando di accumulare surplus materiali che compensino tutto quello che di profondo e indicibile abbiamo perso.Sarebbe presuntuoso dire di avere le risposte anche a una sola di queste domande.
Ma è possibile dimostrare, in modo piuttosto dettagliato, che la luce del faro sta diventando sempre più debole e che forse non possiamo più contare sulla democrazia perché ci garantisca giustizia e stabilità.
Basta osservare come funziona la democrazia più grande del mondo.
Come scrittrice mi chiedo spesso se lo sforzo di essere sempre precisa, di fornire dati corretti, non sminuisca in qualche modo la portata storica dei fatti. E magari finisca per mascherare una verità più ampia.
Temo di cadere in una prosaica descrizione della realtà, mentre servirebbero un urlo selvaggio e ferino o la forza trasformatrice e l’esattezza autentica della poesia.
C’è qualcosa di astuto, braminico, contorto, burocratico, classificatorio, nel rapporto tra potere e sottomissione in India, qualcosa che si riassume nell’obbligo di “inoltrare richieste attraverso gli appositi canali”. E questo ci rende tutti guardinghi come impiegatucci. A mia discolpa posso dire che servono strumenti bizzarri per farsi largo nel labirinto di sotterfugi e ipocrisia dietro cui si nasconde l’inimmaginabile insensibilità e brutalità della nuova superpotenza più amata del mondo. La repressione “attraverso gli
appositi canali” crea una resistenza che passa “attraverso gli appositi canali”.
Come resistenza non basta, lo so. Ma per ora non ho altro. Forse un giorno ne usciranno la poesia e l’urlo ferino.
Sulle montagne afghane
Ho scritto Ascoltare le cavallette (Internazionale758) in occasione di una conferenza che ho tenuto a Istanbul nel gennaio del 2008, per il primo anniversario dell’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink. Il mio intervento era dedicato alla storia del genocidio armeno e alla sua negazione, oltre che alla relazione storica, quasi organica, tra “progresso” e genocidio. Mi ha sempre colpito il fatto che il partito politico turcoresponsabile del genocidio degli armeni si chiamasse Comitato per l’unione e il progresso. Molti miei articoli parlano proprio del rapporto tra unione e progresso, cioè, per usare un linguaggio più attuale, tra nazionalismo e sviluppo: le inattaccabili torri gemelle della moderna democrazia del libero mercato.
Anche se molti di questi articoli li ho scritti tra il 2002 e il 2008, il loro punto di partenza risale al 1989, quando sulle aspre montagne dell’Afghanistan il capitalismo vinse la sua lunga jihad contro il comunismo sovietico (da allora, la ruota ha ricominciato a girare, e sembra proprio che quelle stesse montagne stiano per diventare la tomba del capitalismo).
Pochi mesi dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del muro di Berlino, il governo indiano, che era stato uno dei più fieri sostenitori del movimento dei paesi non allineati, si schierò senza remore con gli Stati Uniti, guida indiscussa del nuovo mondo unipolare.
Le regole del gioco furono improvvisamente stravolte. Milioni di persone, che non avevano mai sentito parlare né di Berlino né dell’Unione Sovietica, non potevano immaginare come sarebbero cambiate le loro vite. In India la confisca delle terre di migliaia di famiglie era cominciata nei primi anni cinquanta, quando il governo aveva scelto il modello di sviluppo sovietico: le enormi acciaierie (a Bhilai, a Bokaro) e migliaia di grandi dighe sarebbero state le “punte di lancia” dell’economia.
Con le privatizzazioni e gli adeguamenti strutturali, il processo ha subìto un’accelerazione travolgente. Oggi “progresso” e “sviluppo” sono diventati sinonimo di “riforme” economiche, deregulation e privatizzazione. Due decenni di “progresso” di questo tipo hanno creato una nutrita classe media in preda a una sbronza da ricchezza improvvisa, e un sottoproletariato molto, molto più numeroso e disperato.
Decine di milioni di persone sono state private della loro terra e costrette ad andarsene a causa di enormi progetti infrastrutturali: dighe, miniere, zone economiche speciali, create nel nome della povera gente ma in realtà destinate a soddisfare le crescenti pretese della nuova aristocrazia.
Oggi la lotta per la terra e l’accesso alle risorse è al centro del dibattito sullo “sviluppo”.
Nel 2008 il ministro delle finanze Palaniappan Chidambaram ha dichiarato che il suo obiettivo è urbanizzare l’85 per cento della popolazione indiana.
Centrifuga sociale
Un cambiamento del genere richiederebbe un processo di ingegneria sociale di proporzioni immani, che dovrebbe spingere o costringere circa 500 milioni di persone a emigrare dalle campagne in città. E questo permetterebbe alle multinazionali di saccheggiare enormi porzioni di territorio insieme alle loro risorse naturali. Già oggi foreste, montagne e sistemi idrici sono devastati dalle razzie delle
multinazionali, spalleggiate da uno stato alla deriva e sul punto di commettere un “ecocidio”. Interi ecosistemi vengono distrutti dalle miniere di bauxite e minerale ferroso che stanno desertificando l’est dell’India. Sull’Himalaya sono in progetto centinaia di dighe di grandivdimensioni, che avranno conseguenze catastrofiche. Nelle pianure, i iumi canalizzati per contrastare le inondazioni hanno causato l’innalzamento dei letti fluviali e inondazioni ancora maggiori, hanno saturato i terreni e hanno provocato la salinizzazione dei campi coltivati, distruggendo i mezzi di sostentamento di milioni di persone.Il passaggio da un’agricoltura sostenibile e rivolta all’autosufficienza alimentare a una intensiva e speculativa ha indebitato fino al collo i piccoli coltivatori.
Secondo i dati più aggiornati, in India si sono suicidati oltre 180mila contadini. Fame e denutrizione, che ormai hanno raggiunto i livelli dell’Africa subsahariana, si diffondono a macchia d’olio. È come se una società che marciva sotto il peso del feudalesimo e del sistema delle caste fosse stata gettata in un’enorme centrifuga. Il macchinario ha strappato la rete delle vecchie diseguaglianze, ne ha lasciate alcune,
ma ha finito per rafforzarne la maggior parte. Adesso la società è stata scremata: è rimasto un sottile strato di panna densa sopra un mucchio d’acqua. La panna è quel “mercato” indiano di milioni di consumatori (di auto, cellulari, computer, biglietti d’auguri per san Valentino) che fa gola agli imprenditori di tutto il mondo.
L’acqua conta poco. Può essere sprecata, conservata in bacini artificiali o prosciugata.
Almeno così pensano gli uomini in giacca e cravatta, che non si aspettavano la guerra civile scoppiata nel cuore dell’India: in Orissa, in Chhattisgarh, in Jharkhand e in Bengala Occidentale.
Quasi a dimostrare lo stretto rapporto tra unione e progresso, nel giugno del 1986, durante il governo del primo ministro Rajiv Gandhi, il tribunale di Faizabad ordinò di togliere i sigilli alla moschea Babri nella città di Ayodhya, in Uttar Pradesh. L’anonimo edificio era stato costruito nel cinquecento, e secondo gli induisti sorgeva sulle rovine di un tempio indù. Il Bharatiya janata party (Bjp), partito di destra che all’epoca sedeva all’opposizione, lanciò immediatamente una violenta campagna in favore del nazionalismo indù. Nel 1990 il suo leader L.K. Advani viaggiò in lungo e in largo per alimentare l’odio antislamico, chiedendo la demolizione della moschea di Babri per costruire al suo posto un tempio dedicato a Rama.
Nel dicembredel 1992 centinaia di indù, incitati da Advani, demolirono l’edificio. All’inizio del 1993 si scatenarono per le vie di Mumbai, assalendo i musulmani e uccidendo un migliaio di persone. Come rappresaglia, una serie di attentati dinamitardi in città causò circa duecentocinquanta morti. Sfruttando il clima di tensione, il Bjp (che nel 1984 aveva solo due seggi in parlamento) nel 1998 sconfisse il partito del Congress e arrivò al governo.
A quel punto, il progetto “progressista” di privatizzazioni e liberalizzazioni era cominciato da otto anni. Il Bjp si era già schierato in favore di grandi multinazionali come la Enron.
Una volta al comando, per prima cosa autorizzò una serie di test nucleari. Quando nella storia di un paese accadono certi eventi, chiunque può immaginare quale sarà il futuro. Gli esperimenti nucleari del 1998 sono
stati uno di questi eventi. Non ci voleva un genio per capire che direzione avesse preso l’India.
Nel 2002, solo tre anni dopo i test nucleari, il governo del Gujarat guidato dal Bjp e dal governatore Narendra Modi ha orchestrato con cura un pogrom contro i musulmani di quello stato. L’islamofobia alimentata
dall’amministrazione Bush dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ha dato maggiore impulso ai nazionalisti indù. Il governo dello stato del Gujarat è rimasto in disparte mentre più di mille persone venivano massacrate. Le donne sono state vittime di stupri collettivi e poi sono state bruciate vive. Circa 150mila persone sono state cacciate dalle loro case.
Dopo il pogrom, Narendra Modi ha vinto altre due elezioni in Gujarat.
Ora è al suo terzo mandato come governatore. Nel 1984 centinaia di persone guidate dai leader del partito del Congress hanno massacrato migliaia di sikh per le strade di Delhi. Nel gennaio del 1999 alcuni delinquenti del Bajrang dal, una milizia indù, hanno aggredito il missionario australiano Graham Staines e i suoi due bambini, bruciandoli vivi.
Nel dicembre del 2007 le aggressioni contro i cristiani da parte delle milizie indù non potevano più essere considerate incidenti casuali. In diversi stati governati dal Bjp – Gujarat, Karnataka, Orissa – si sono moltiplicate le aggressioni contro i cristiani e i saccheggi delle chiese.A Kandhamal, in Orissa, almeno sedici dalit e adivasi (intoccabili e tribali) cristiani sono stati uccisi da dalit e adivasi “indù” (“l’induizzazione” di dalit e adivasi serve a mettere gli uni contro gli altri, oltre che contro i musulmani e i maoisti, e al momento è forse il principale progetto delle milizie indù). Oggi decine di migliaia di cristiani vivono nei campi profughi o si nascondono nelle foreste, temendo perfino di andare a coltivare i campi.
Nel dicembre del 2008 decine di vigilantes indù a Bangalore e a Mangalore hanno cominciato ad aggredire le donne che indossano jeans e abiti occidentali.
Quando ci sono le elezioni, i partiti sfruttano questi massacri. Ne approfittano, in maniera subdola, o si accusano a vicenda di essere i responsabili degli eccidi.
Ma nessun partito ha mai commesso “l’errore” di garantire che i colpevoli siano puniti. Anzi, nonostante gli scambi di accuse, si danno manforte per evitare ripercussioni concrete. Il risultato è una continua messinscena. Le stragi sono assorbite dal labirintico sistema giudiziario indiano, e lasciate lì a fermentare prima di essere rispolverate come materiale di propaganda per le elezioni seguenti. Si potrebbe dire che sono diventate parteintegrante del tessuto della democrazia indiana.
Un mostruoso debuttante
Nel gennaio del 2009 il rapporto organico tra unione e progresso – o, se si preferisce, tra fascismo e libero mercato – è stato sancito con un bacio durante una cerimonia pubblica. Gli amministratori delegati di due delle principali multinazionali indiane – Ratan Tata, del gruppo carrozza c’è scritto: “Gli elettori indiani rimetteranno in moto il mondo?”.
In questo modo spudorato l’elettorato è stato trasformato in mercato, gli elettori sono diventati consumatori e la democrazia è stata legata a ilo doppio al libero mercato.
I mezzi d’informazione si sono lanciati soprattutto su due argomenti. Il primo è la “macchina del popolo”, la Tata Nano da centomila rupie (1.500 euro), prodotta nel Gujarat di Modi (le agevolazioni e i favori concessi alla Tata spiegano buona parte del sostegno dell’azienda a Modi).
Il secondo è il discorso carico d’odio pronunciato dal mostruoso debuttante del Bjp, Varun Gandhi (nipote di Indira Gandhi), che fa sembrare Narendra Modi un moderato.
Varun Gandhi ha chiesto la sterilizzazione dei musulmani. “Questa terra sarà conosciuta come bastione degli indù, e nessun musulmano oserà alzare la cresta qui da noi”, ha dichiarato, usando un insulto rivolto a chi è circonciso. “Dai musulmani non voglio neppure un voto”.Qui sta il nodo della questione. Varun Gandhi è un politico moderno, che opera nel sistema democratico, e fa tutto quello che è in suo potere per creare una maggioranza e consolidare il suo bacino di Tata, e Mukesh Ambani, della Reliance Industries – nel discorso di accettazione del premio Gujarat garima (Orgoglio del Gujarat) hanno elogiato la politica di sviluppo di Narendra Modi, l’artefice del genocidio del Gujarat.Naturalmente Modi, come candidato alla carica di primo ministro, poteva contare sul loro appoggio.
La campagna elettorale di quest’anno è costata quasi cento miliardi di rupie (due miliardi di dollari. Da dove spunta una somma del genere?).
Tra i partiti c’è un evidente consenso trasversale sulle “riforme” economiche. Non stupisce quindi che tra i sostenitori più entusiasti di queste elezioni ci siano le principali multinazionali. Probabilmente hanno capito che la democrazia può legittimare il loro istinto predatorio meglio di qualsiasialtro sistema.
Diverse multinazionali hanno lanciato campagne televisive, in alcuni casi coinvolgendo star di Bollywood, per invitare giovani e vecchi, ricchi e poveri, ad andare a votare. La democrazia va di moda.
La Bbc ha prenotato una carrozza ferroviaria, l’India election special, che condurrà giornalisti di tutto il mondo in un tour guidato, perché descrivano le meraviglie delle elezioni indiane. Sulla carrozza c’è scritto: “Gli elettori indiani rimetteranno in moto il mondo?”.
In questo modo spudorato l’elettorato è stato trasformato in mercato, gli elettori sono diventati consumatori e la democrazia è stata legata a ilo doppio al libero mercato.
I mezzi d’informazione si sono lanciati soprattutto su due argomenti. Il primo è la “macchina del popolo”, la Tata Nano da centomila rupie (1.500 euro), prodotta nel Gujarat di Modi (le agevolazioni e i favori concessi alla Tata spiegano buona parte del sostegno dell’azienda a Modi).
Il secondo è il discorso carico d’odio pronunciato dal mostruoso debuttante del Bjp, Varun Gandhi (nipote di Indira Gandhi), che fa sembrare Narendra Modi un moderato. Varun Gandhi ha chiesto la sterilizzazione dei musulmani.
“Questa terra sarà conosciuta come bastione degli indù, e nessun musulmano oserà alzare la cresta qui da noi”, ha dichiarato, usando un insulto rivolto a chi è circonciso.
“Dai musulmani non voglio neppure un voto”.
Qui sta il nodo della questione. Varun Gandhi è un politico moderno, che opera nel sistema democratico, e fa tutto quello che è in suo potere per creare una maggioranza e consolidare il suo bacino di voti. Un politico ha bisogno di un bacino di voti, come una multinazionale di un mercato di massa. Al giorno d’oggi, entrambi chiedono aiuto ai mezzi d’informazione.
Le multinazionali quell’aiuto lo comprano (circa il 90 per cento degli introiti dei canali televisivi, così come della carta stampata, viene dalla pubblicità).
I politici se lo devono guadagnare attirando l’attenzione. Varun Gandhi può benissimo sopportare qualche critica, o un breve soggiorno in galera, se il suo discorso carico d’odio, pronunciato di fronte a una folla in delirio nel suo isolato collegio elettorale, è trasmesso e ritrasmesso dalle televisioni negli orari di punta. Ha ottenuto la visibilità che voleva.
Chi è un mostro per qualcuno, per altri può essere un messia. Il separatismo e la politica identitaria, che seguono i binari di casta, tribù, religione ed etnia – il tutto sotto l’ombrello sempre più ampio
dell’Hindutva – sono diventati il motore della democrazia indiana.
Purtroppo non si tratta solo di separatismo, ma di separatismo degenerativo. Ed è difficile notarlo dal finestrino di un treno.
La politica dei mercati di massa e dei bacini di voti rafforza l’idea che la maggioranza ha il diritto di dominare, una soldati in servizio effettivo in Iraq al culmine dell’occupazione). Adesso l’esercito
indiano sostiene di avere stroncato in gran parte la resistenza dei militanti islamici del Kashmir. Forse è vero. Ma il dominio militare signiica vittoria? Per decenni, dopo la partizione tra India e Pakistan del 1947, i kashmiri hanno ostinatamente rifiutato di “integrarsi” e di accettare quello che la maggior parte considerava (e considera tuttora) la dominazione indiana. Tutto questo ha alimentato le tensioni tra India e Pakistan sfociate due volte in guerra aperta. Il continuo aumento della presenza dell’esercito indiano in Kashmir e la prospettiva sempre più lontana di un referendum sotto l’egida delle Nazioni Unite hanno trasformato la rabbia popolare in un movimento di resistenza.
Preoccupato dalla crescente influenza dei leader antindiani, nel 1987 il governo centrale manipolò apertamente le elezioni del parlamento dello stato kashmiro. Le manifestazioni di protesta furono soffocate brutalmente dalle unità di sicurezza indiane. Ispirandosi in parte all’intifada palestinese, la popolazione del Kashmir scese per le strade. La rabbia diventò lotta armata. Migliaia di sorta di via indiana al fascismo. Le istituzioni democratiche – tribunali, polizia, “libera” stampa ed elezioni – invece di funzionare come un sistema equilibrato basato sul controllo reciproco, spesso fanno il contrario. Si coprono le spalle a vicenda per favorire gli interessi superiori di “unione” e “progresso”. In questo modo creano una tale confusione, una tale cacofonia, che le voci che si alzano per avvertire l’opinione pubblica finiscono soffocate dal frastuono. E questo non fa che confermare l’immagine di una democrazia amichevole, rumorosa, pittoresca e a volte un po’ caotica.
L’occupante indiano
Poi, ovviamente, c’è il conflitto in Kashmir, che secondo alcuni analisti politici rischia di far precipitare il mondo in una guerra nucleare. La guerra nella valle del Kashmir dura ormai da quasi
vent’anni e ha fatto più di 70mila morti.
Più di centomila uomini sono stati torturati, diverse migliaia sono “scomparsi”, mentre le donne sono state vittime di stupri e decine di migliaia sono rimaste vedove. Più di 500mila soldati indiani pattugliano la valle del Kashmir, che di fatto è la zona più militarizzata del mondo (gli Stati Uniti avevano circa 165mila soldati in servizio effettivo in Iraq al culmine dell’occupazione). Adesso l’esercito indiano sostiene di avere stroncato in gran parte la resistenza dei militanti islamici del Kashmir. Forse è vero.
Ma il dominio militare signiica vittoria? Per decenni, dopo la partizione tra India e Pakistan del 1947, i kashmiri hanno ostinatamente rifiutato di “integrarsi” e di accettare quello che la maggior parte considerava (e considera tuttora) la dominazione indiana. Tutto questo ha alimentato le tensioni tra India e Pakistan sfociate due volte in guerra aperta. Il continuo aumento della presenza dell’esercito indiano in Kashmir e la prospettiva sempre più lontana di un referendum sotto l’egida delle Nazioni Unite hanno trasformato la rabbia popolare in un movimento di resistenza.
Preoccupato dalla crescente influenza dei leader antindiani, nel 1987 il governo centrale manipolò apertamente le elezioni del parlamento dello stato kashmiro. Le manifestazioni di protesta furono soffocate brutalmente dalle unità di sicurezza indiane. Ispirandosi in parte all’intifada palestinese, la popolazione del Kashmir scese per le strade. La rabbia diventò lotta armata. Migliaia di giovani kashmiri varcarono le montagne per andare in Pakistan ad addestrarsi e armarsi per combattere l’esercito indiano, uno dei più grandi e potenti del mondo.
Furono addestrati dagli stessi uomini che in Afghanistan avevano guidato la vittoriosa jihad americana contro l’Unione Sovietica, dopo aver formato migliaia di mujahiddin islamici reclutati in tutto il mondo musulmano. I giovani kashmiri tornarono ben addestrati, equipaggiati con armi moderne e animati dal sogno della libertà.
Erano accompagnati da guerriglieri “stranieri”, pachistani, afgani o provenienti da luoghi lontani come il Sudan. Molti di loro erano veterani di molte battaglie che sognavano la nazione panislamica.
Introdussero una lettura più severa e puritana dell’islam, più interessata alla punizione che alla fede (alcuni lo definiscono “islam americano”), sconosciuta nella valle del Kashmir.
I servizi segreti indiani e pachistani si accorsero rapidamente di questa differenza di posizioni e la alimentarono, creando spaccature fratricide tra la popolazione e dando un tono apertamente religioso a quella che era cominciata come una lotta per la libertà e l’autodeterminazione. Questa combinazione di islamizzazione, nazionalismo kashmiro militante e manipolazione da parte delle istituzioni indiane e pachistane causò una specie di esodo della minuscola minoranza indù del Kashmir. Fu questo che permise al governo indiano, e ai mezzi d’informazione “collaborazionisti”, di demonizzare la lotta per la libertà del Kashmir, presentandola come una rivolta religiosa lanciata dai fondamentalisti islamici contro una democrazia laica. Di conseguenza, per quanto possa sembrare strano, alcuni elementi dell’islam radicale, che non rappresentano in alcun modo l’opinione della maggioranza dei kashmiri, sono gli alleati più utili del governo indiano nella sua propaganda di guerra.
Come può, un governo che si professa democratico, giustificare un’occupazione militare? Grazie alle elezioni, ovviamente. Dopo ogni elezione, infatti, il governo indiano dichiara di aver ottenuto dal popolo del Kashmir il mandato per continuare la sua azione.
Nell’estate del 2008 una disputa su un terreno concesso ai pellegrini indù accanto a un luogo sacro islamico, ad Amarnath, ha causato una protesta di massa non violenta. Giorno dopo giorno, centinaia di migliaia di persone hanno sfidato soldati e polizia – che hanno sparato contro la folla uccidendo molti manifestanti – e hanno invaso le strade.
Dall’alba a notte fonda nelle vie di Srinagar rimbombavano le parole di “Azadi! Azadi!” (libertà). I fruttivendoli ripetevano “Azadi! Azadi!” mentre pesavano la merce. Commercianti, medici, proprietari di case galleggianti, guide turistiche, tessitori, venditori di tappeti: tutti erano per strada con un cartello in mano e tuttigridavano “Azadi! Azadi!”. Le proteste sono andate avanti per giorni.
Alla fine lo stato indiano, indeciso su come affrontare una simile disobbedienza civile, ha ordinato il giro di vite. Ha imposto il coprifuoco più severo degli ultimi anni, dando ordine di sparare a vista. Ha messo agli arresti domiciliari i principali leader della protesta, incarcerandone diversi altri. Ha ordinato perquisizioni casa per casa che sono culminate con l’arresto di centinaia di persone. La moschea Jama di Srinagar è stata chiusa, impedendo la preghiera del venerdì per sette settimane di seguito, fatto senza precedenti.
Una volta domata la rivolta, il governo ha fatto una cosa incredibile: ha indetto le elezioni. Era un grosso rischio. I leader indipendentisti (tutti in carcere o agli arresti domiciliari) hanno invitato al
boicottaggio. Erano quasi tutti convinti che le elezioni avrebbero coperto di ridicolo il governo indiano. Invece la scommessa è stata vincente. La popolazione si è presentata in massa alle urne. C’è stata la maggior affluenza dall’inizio della lotta armata. Ancora una volta,
il governo e i mezzi d’informazione hanno presentato il risultato come una sorta di referendum a favore dell’India.
Nessuno degli analisti, dei giornalisti e dei politologi indiani si è chiesto perché un popolo che solo qualche settimana prima aveva rischiato tutto, sfidando un esercito che aveva l’ordine di sparare a
vista, avesse cambiato idea così all’improvviso. Nessuno degli illustri studiosi del grande festival della democrazia ha detto cosa significano le elezioni in presenza di uno spiegamento di truppe così imponente e diffuso (un militare armato ogni venti civili). Nessuno ha parlato del coprifuoco, delle retate e degli arresti, della blindatura dei collegi elettorali.
Pochi hanno accennato al fatto che, durante la campagna elettorale, i politici hanno cercato in ogni modo di separare il voto dalla questione dell’“Azadi” e del Kashmir conteso, sostenendo che le elezioni riguardavano solo questioni di banale amministrazione: manutenzione delle strade, fornitura idrica ed elettrica.
Nessuno ha spiegato perché persone che vivono da decenni sotto un’occupazione militare – per cui i soldati possono irrompere nelle case e portare via le persone a qualsiasi ora del giorno e della notte –
debbano aver bisogno di qualcuno che le ascolti, che sostenga la loro causa, che li rappresenti.
Il silenzio non è possibile
Dopo le elezioni, le istituzioni e la stampa hanno proclamato la nuova vittoria (dell’India). E tutto è tornato come prima. Le manifestazioni e le richieste di libertà sono ricominciate, così come le esecuzioni sommarie da parte delle forze di sicurezza. Secondo i giornali, le ile dei militanti si stanno ingrossando. C’è davvero da chiedersi se sia rimasto qualche legame tra elezioni e democrazia.Il problema è che il Kashmir si trova sul crinale di una regione piena di armi che sta scivolando nel caos. La lotta di liberazione del Kashmir, dalle aspirazioni cristalline ma dai contorni sfocati, è presa in un vortice di ideologie pericolose e in contrasto tra loro: il nazionalismo indiano, quello pachistano, l’imperialismo degli Stati Uniti, la resistenza islamica e “medievale” dei taliban all’occupazione statunitense dell’Afghanistan. Ognuna è capace di mostrare una spietatezza che può sfociare nel genocidio o nella guerra nucleare.
Aggiungete le ambizioni imperialiste cinesi, il ritorno di una Russia
aggressiva e qualche testata nucleare a piede libero: ecco pronta la ricetta per la nuova guerra fredda.
Il Kashmir, dunque, è condannato a diventare l’anello di congiunzione tra il caos afgano e pachistano e l’India, dove questo caos potrà fare presa sulla rabbia dei più giovani tra i centocinquanta milioni di musulmani maltrattati, umiliati ed emarginati. A sentire la polizia indiana, gli attacchi terroristici del 2008 a Delhi, Jaipur e Ahmedabad, così come i più recenti attentati a Mumbai del 26 novembre, sarebbero un primo segnale di questa tendenza.
Sicuramente la questione kashmira, insieme a quella palestinese, è tra le dispute più antiche e complesse del mondo. Ma non significa che sia insolubile. Vuol dire solo che la soluzione non soddisferà pienamente
nessuna parte, nessun paese e nessuna ideologia. I negoziatori dovranno essere pronti ad allontanarsi dalla “linea ufficiale”. Certo il governo indiano per ora non è neanche disposto ad ammettere che esista un problema, figuriamoci a trattare per trovare una soluzione. I suoi rimedi temporanei e brutali alle rivolte inKashmir non hanno fatto altro che peggiorare la situazione.
Insomma, George W. Bush è stato una specie di superprofeta. A differenza di quasi tutti i profeti, infatti, aveva il potere di influenzare il futuro perché rispettasse le sue profezie. Dopo l’11 settembre, quando il presidente statunitense disse “Chi non sta con noi sta con i terroristi”, molti di noi l’hanno preso in giro, rifiutando di fare una simile scelta. Non volevamo scegliere tra George e Osama, tra l’occupazione statunitense dell’Afghanistan e il folle medioevo taliban, tra l’occupazione statunitense dell’Iraq e le feroci milizie islamiche che la combattono. La “guerra al terrore” ha creato un clima che ha permesso ai governi di tutto il mondo di approvare nuove leggi antiterrorismo per la sicurezza nazionale. Leggi in cui la definizione di “terrorista” è così vaga e ampia da poter essere applicata
praticamente a chiunque. In vari paesi, nascoste dietro il linguaggio della “guerra al terrore”, sono state ripresentate con rinnovato entusiasmo vecchie divisioni manichee.
In Palestina la popolazione deve scegliere tra Hamas e l’occupazione israeliana. In India, tra il nazionalismo indù e il terrorismo islamico, tra le razzie delle multinazionali e la guerriglia maoista. In Kashmir, tra l’occupazione militare e le cellule militanti islamiche. Nello Sri Lanka, tra uno spietato stato singalese e le sentenze di morte delle Tigri tamil.
I popoli non dovrebbero essere costretti a compiere nessuna di queste scelte. Eppure sono sempre meno le persone che possono dire: “Non stiamo né con voi né con i ‘terroristi”. Chi ha ancora questo privilegio e lo esercita, rischia di perdersi in un esercizio di pura compassione o nelle pallide banalità dei discorsi sui diritti umani, che con l’equidistanza morale tolgono urgenza politica e concretezza a queste battaglie che sono politiche, urgenti e molto concrete. Anche chi rifiuta la violenza sa bene che non si possono mettere sullo stesso piano la brutalità di un esercito d’occupazione e quella di chi gli oppone resistenza, oppure la violenza dei diseredati e quella degli approfittatori, la violenza del capitalismo delle multinazionali e quella delle comunità che lo combattono.
Anche se la propaganda sulla “guerra al terrore” vorrebbe spingerci a fare di ogni erba un fascio, è ovvio che non tutte le lotte armate sono uguali. Alcune sono di massa e, almeno di nome, rivoluzionarie. Altre no. Alcune sono apertamente sessiste e decisamente retrograde.
Nel complesso, però, non esiste qualcosa che si possa definire una lotta armata “gentile” o compassionevole. Ci sono sempre spargimenti di sangue. C’è sempre una gran puzza. È così se si combatte.
Quando, sentendoci a disagio di fronte ai massacri, diciamo: “Non stiamo
né con voi, né con i ‘terroristi’”, corriamo il rischio di sostenere lo status quo. D’altra parte, se rinunciamo a quella posizione, rischiamo di diventare sostenitori acritici della sottomissione delle donne, delle decapitazioni pubbliche e degli attentatori suicidi, o di chi promuove una visione del mondo ristretta, da incubo.
È più importante che mai criticare quelli di cui sosteniamo le battaglie, di cui capiamo la rabbia, ma di cui rifiutiamo i metodi e le idee. Al tempo stesso, dobbiamo sempre tenere presente che in una zona di guerra ogni paragrafo, ogni frase che pronunciamo verrà saccheggiata e sfruttata per la propaganda delle due fazioni rivali. Con conseguenze che possono rivelarsi spiacevoli. Il silenzio, però, non è una scelta possibile.
La forza della poesia
Forse la storia del ghiacciaio di Siachen, il campo di battaglia più alto del mondo, è la metafora migliore della follia dei nostri tempi.
Qui sono stati schierati migliaia di soldati indiani e pachistani, costretti a sopportare il vento gelido e temperature che arrivano a meno quaranta. In quest’area sono morti centinaia di soldati, uccisi dal
freddo, fiaccati dai geloni e dalle ustioni solari.
Il ghiacciaio ormai è diventato una discarica ingombra di relitti: migliaia di bossoli d’artiglieria, bidoni di carburante vuoti, piccozze, vecchi scarponi, tende e ogni altro genere di residuato bellico prodotto da migliaia di esseri umani.
Questi rifiuti restano lì, conservati dalle temperature bassissime, monumento alla follia dell’uomo. Mentre il governo indiano e quello pachistano spendono miliardi di dollari in armi e nella logistica per la guerra d’alta quota, il campo di battaglia ha cominciato a sciogliersi.
Oggi le sue dimensioni si sono già ridotte della metà. Lo scioglimento non ha a che fare con i combattimenti. È dovuto soprattutto alle persone che vivono dall’altra parte del mondo e conducono una vita lussuosa.
Brave persone, che credono nella pace, nella libertà di parola e nei diritti umani. Persone che vivono in ricche democrazie, i cui governi hanno un seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, con un’economia molto dipendente dalle esportazioni belliche e dalla vendita di armi a paesi come India e Pakistan (e Ruanda, Sudan, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Iraq… l’elenco è lungo).
Lo scioglimento dei ghiacci provocherà gravi inondazioni nel subcontinente, seguite da una siccità che sconvolgerà la vita di milioni di persone. Tutto questo fornirà altre ragioni per combattere. Serviranno altre armi. Chissà, forse la fedeltà del consumatore al fornitore è proprio quello che serve al mondo per superare la recessione degli ultimi mesi. E così tutti gli abitanti delle ricche democrazie vivranno ancora meglio e i ghiacciai si scioglieranno ancora più in fretta.
Mentre parlavo al pubblico concentrato e teso che riempiva l’auditorium
di un’università di Istanbul (teso perché parole come “unità”, “progresso”, “genocidio” e “armeni” tendono a far infuriare le autorità turche quando sono pronunciate una vicino all’altra), vedevo in prima fila Rakel Dink, la vedova di Hrant, che piangeva ininterrottamente. Alla fine mi ha abbracciato e ha detto: “Noi continuiamo a sperare. Ma perché continuiamo a sperare?”. “Noi”, ha detto. Non “voi”. Mi sono venuti in mente i versi di Faiz Ahmed Faiz, cantati dalla bella voce di Abida Parveen: nahin nigah main manzil to justaju hi sahi/nahin wisaal mayassar to arzu hi sahi.
Ho cercato di tradurli (alla meglio) a Rakel: se i sogni sono ostacolati, allora il desiderio deve prenderne il posto/se il ricongiungersi è impossibile, allora la brama deve prenderne il posto.
Capite cosa intendo quando parlo di poesia?
* Arundhaty Roy è una scrittrice indiana. Nel 1997 ha vinto il Booker prize con Il dio delle piccole cose (Guanda). Questo articolo è tratto dall’introduzione di Quando arrivano le cavallette, una raccolta di suoi articoli che sarà pubblicata l’11 giugno 2009 da Guanda.
Da sapere
Le elezioni per la quindicesima legislatura indiana si svolgono in cinque giornate. Sono cominciate il 16 aprile 2009. L’ultima giornata di voto sarà il 13 maggio. I risultati saranno resi noti il 16 maggio 2009.
Gli elettori registrati sono 714 milioni, il 48 per cento sono donne, il 25 per cento ha meno di 35 anni.
Si sono presentati 1.055 partiti.
I due principali candidati premier sono l’attuale primo ministro
Manmohan Singh, del Congress, e Lal Krishna Advani, leader del partito nazionalista di destra Bharatiya janata party.
Una terza candidata è Mayawati, la governatrice dalit (intoccabile) dell’Uttar Pradesh e leader del Bahujan samaj party, di ispirazione socialista.
Nella camera bassa del parlamento (Lok sabha) saranno eletti 543 deputati.I partiti minori e regionali potrebbero conquistare il 50 per cento dei seggi.
In caso di vittoria il premier Singh potrebbe allearsi con la sinistra, come nel 2004.
Le parole
Adivasi (tribale). Indica gli abitanti originari dell’India.
Babri masjid. Il 6 dicembre 1992 centinaia di fondamentalisti indù hanno
distrutto la moschea Babri ad Ayodhya. Al suo posto dovrebbe sorgere un tempio indù (Ram mandir).
Bajrang dal. Organizzazione armata di fondamentalisti indù che prende il nome del dio Hanuman. Alleata del Bharatiya janata party, ha partecipato alla distruzione di Babri masjid.
Bharatiya janata party (Bjp). Partito del popolo indiano, nazionalista di destra. Il suo braccio ideologico è il Rashtriya swayamsevak sangh, associazione culturale induista, antimusulmana, sostenitrice dell’hindutva.
Dalit (gli intoccabili). Indica quelli che una volta erano definiti intoccabili.
Hindutva. Ideologia che punta al rafforzamento della “identità indù” e alla creazione di uno stato induista. Tra i suoi principali promotori c’è il Vishwa hindu parishad, Consiglio mondiale indù, a cui aderiscono leader della comunità indù e parte del Sangh parivar.
Sangh parivar. L’insieme delle maggiori organizzazioni induiste di destra.
Articolo pubblicato su Internazionale 794, 8 maggio 2009
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L’incubo della politica in stallo 11.11.2010
MICHELE AINIS
Proviamo a figurarci un’esperienza surreale, come quelle che talvolta capita d’attraversare in sogno, specie dopo una cattiva digestione. Proviamo a immaginare un mondo immobile: nessun aereo in volo, i treni fermi alle stazioni, un lungo corteo d’autovetture inchiodate sull’asfalto. Proviamo infine a declinare questa stessa condizione nei palazzi del potere. Lì c’è un partito al contempo dentro e fuori la maggioranza di governo: vota regolarmente la fiducia verso l’esecutivo, però non vota i suoi provvedimenti. Sicché zero leggi, zero decisioni, zero riforme economiche e sociali.
A propria volta il premier inarca un sopracciglio, ma tira dritto come se nulla fosse. Allora quel partito ritira i suoi ministri dal governo, con l’intenzione di farlo cascare giù per terra. Invece il premier si rialza, rimpiazza i dimissionari con qualche faccia nuova, inarca il secondo sopracciglio, ma infine resta incollato alla poltrona. L’opposizione avrebbe l’opportunità di tirargli uno sgambetto, presentando una mozione di sfiducia in Parlamento.
Opportunità sulla quale tuttavia esita per mesi, un po’ perché i suoi leader sono altrettanti cacadubbi, un po’ perché temono che alla prova del nove il partito bicefalo si schiererà dall’altra parte. Sotto sotto sperano che li cavi dall’impaccio il capo dello Stato, ma lui è a sua volta ostaggio di questa situazione: mica può dimettere d’autorità il governo, non ha i poteri di Carlo Alberto di Savoia. Nel frattempo il governo c’è ma non si vede, la maggioranza si vede ma non c’è, l’opposizione non c’è e non si vede, e così via per tutti i secoli a venire.
Per tirarci fuori da quest’incubo, proviamo allora a chiamare in soccorso codici e pandette, dovrà pur esserci una regola per gli sregolati. Articolo 94 della Costituzione, primo comma: «Il governo deve avere la fiducia delle Camere». Ma quella ce l’ha, nessuno gliel’ha tolta. Quantomeno in apparenza, poi di fatto il partito bicefalo ha più fiducia in Vanna Marchi. Quarto comma: «Il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del governo non importa obbligo di dimissioni». Giusto, altrimenti il minimo incidente parlamentare scatenerebbe una crisi di governo. Ma se i voti contrari sono tre, com’è successo l’altro ieri? E se ogni giorno si moltiplicano per tre? Nessuna norma detta la risposta. C’è soltanto il secondo comma, che reclama una formale mozione di sfiducia per far chiudere bottega al premier con tutti i suoi ministri.
Succede tuttavia (nella realtà e nell’incubo, ormai non fa troppa differenza) che un soprassalto di coraggio spinga il maggior partito dell’opposizione a raccogliere le firme in calce a un documento di benservito. Finalmente un’occasione di chiarezza? Non è detto. In primo luogo il partito bicefalo potrebbe ripetere la scelta con cui il 3 agosto scorso ha impedito la sfiducia su Caliendo, o con cui il 29 settembre s’è opposto alla sfiducia a Berlusconi. In secondo luogo perché mai dovrebbe marciare a traino? Se avesse già deciso di staccare la spina, la mozione di sfiducia l’avrebbe presentata in prima persona: più redditizio, più altisonante dinanzi agli elettori. In terzo luogo votare la sfiducia senza una soluzione di ricambio comporta il rischio d’anticipare le elezioni anticipate, e magari le truppe non sono ancora pronte. Ma c’è un accordo fra questi carissimi nemici sulla legge elettorale? Se esiste, è il segreto meglio conservato della nostra vita pubblica. Se non esiste, difficilmente il capo dello Stato aprirà ad altri la cassaforte del governo.
Sicché all’orizzonte si profila la perpetuazione dello stallo, un’aria ferma come quella che precede un temporale. Ecco, il temporale. Se i macchinisti che dovrebbero guidare il nostro treno collettivo restano immobili come statue di sale (per dirla in chiaro: se Berlusconi non va a dimettersi con le proprie gambe, se Fli gli rinnova la fiducia contrastandone però l’azione in Parlamento, se l’opposizione non trova l’intesa per giustificare un altro esecutivo), allora meglio un diluvio d’acqua, che tolga via lo sporco e sciolga pure il sale di cui sono fatti lorsignori. Significa che a quel punto Napolitano potrà ben sciogliere le Camere, anche in assenza d’una crisi formale. Dopotutto il suo mestiere – come ha scritto una volta Gaetano Silvestri – è d’operare “ut scandala eveniant”, di tirar fuori la polvere da sotto i tappeti.
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180: La scorciatoia del controllo sociale va respinta
Fabio Della Pietra, 09.11.2010
Tagliati 10 milioni di euro per la salute mentale. La denuncia di Sergio Della Valle, presidente della Cooperativa sociale L’Agorà di Pordenone: “La psichiatria non sia braccio della magistratura o della polizia”
La proposta Ciccioli vuole “non solo eliminare la legge 180 ma anche svuotare di significato concetti basilari quali quelli di salute mentale e di centralità della persona sofferente come cittadino titolare di diritti”. Lo afferma Sergio Della Valle, presidente della Cooperativa sociale L’Agorà di Pordenone, che evidenzia nel tentativo di contro riforma della legge Basaglia attuato con il testo unificato Ciccioli “una concezione paternalistica, emergenziale e tecnicistica di una psichiatria spinta ad assumere un ruolo di controllo sociale”.
Lo stesso scardinamento della figura del sindaco, contenuto nella pdl Ciccioli, è pericoloso in quanto va a riproporre “quel modello coercitivo della cura che fa leva sui concetti di sicurezza ed allarme sociale cavalcati oltremodo dalla più parte dei mass media”. Col rischio concreto di “abdicare alla funzione di cura in favore di una visione della psichiatria come braccio della magistratura o della polizia”. Intanto, sempre in tema di diritto alla salute, anche mentale, un decreto legge del maggio 2010 finirà per togliere nei prossimi due anni ben 10 milioni di euro ai Servizi di Salute mentale e ai Servizi sociali.
Una presa di posizione forte quella del numero uno della Coop sociale friulana, che arriva dalla terra in cui Franco Basaglia dimostrò con i fatti, prima a Gorizia e poi a Trieste, la valenza di un nuovo modello che sarebbe poi stato utilizzato come fonte di ispirazione nei decenni successivi in tutto il mondo, una legge che l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Unione Europea indicano, appunto, come esempio da seguire. “Spiegare i motivi per cui ritengo la legge 180 importante assume un valore particolare oggi, dopo che il testo Disposizioni in materia di assistenza psichiatrica elaborato dal relatore, l’on. Ciccioli, è giunto alla discussione presso il Comitato ristretto della XII Commissione Affari Sociali della Camera, riassumendo e rafforzando un’impostazione comune alle precedenti proposte di revisione ed abrogazione. Quella di voler eliminare la legge 180, recepita, e non è un caso, nella successiva Legge 23 dicembre 1978 numero 833, che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale”.
La 180/78 è “un buon punto di partenza. Gli articoli 1 e 2 spiegano che gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari e regolamentano i casi in cui questi possono essere obbligatori. Sono articoli necessari, semplici e rivoluzionari, importanti – sottolinea Della Valle – non solo in relazione al passato, perché spingono a superare la cultura “custodialistica e segregatrice” del manicomio, ma anche in una visione prospettica perché propongono una cultura della cura nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione”.
La Basaglia è una legge “moderna, che fa propri presupposti quali, in primis, la dignità della persona, il diritto di scelta rispetto alla cura. Una legge che ripristina anche i diritti civili per le persone che prima erano definite come ‘alienati'”.
Di importanza fondamentale il richiamo al ruolo del sindaco che, in qualità di autorità sanitaria locale, convalida la proposta del medico di un eventuale trattamento obbligatorio. Un aspetto che merita qualche riflessione in più, secondo Della Valle, perché “ha più importanza di quel che forse può sembrare”.
Si dice “che l’autorità massima non è quella tecnica del medico ma quella civile di chi rappresenta i cittadini. Anche il cittadino per il quale, in un dato momento della sua vita, viene chiesto un trattamento sanitario obbligatorio”. La figura del sindaco, in buona sostanza, in qualità di primo cittadino di una comunità, “è una garanzia per tutti, non solo una formalità burocratica. Invece le varie proposte di modifica o abrogazione della 180 tentano di scardinare proprio questa impostazione, riproponendo un modello obbligatorio di cura e facendo leva sui concetti mediatici di sicurezza ed allarme sociale”. Seguendo tale prospettiva contro riformatrice, evidenzia Della Valle, si “perde di vista uno dei meriti maggiori della legge Basaglia, ovvero quello della promozione al rapporto di fiducia fra chi sta male, fra chi vive una situazione di sofferenza e chi gli sta attorno, il nucleo familiare, l’equipe multi professionale del servizio territoriale e la rete sociale di sostegno ed inclusione”.
Il lavoro quotidiano nella salute mentale non è esente da errori e, sicuramente, diversi sono gli aspetti che possono essere modificati e migliorati. “È anche vero che ancora oggi l’applicazione della legge 180 non è uniforme. In troppe parti d’Italia si riscontrano problemi nel garantire la qualità delle relazioni, dei servizi e dei trattamenti, così come il rispetto dei diritti di cittadinanza. Ciò deve spingere a riflettere – pone l’accento il presidente de L’Agorà – almeno in due direzioni. Da un lato occorre una seria valutazione sull’assegnazione e sulla gestione di risorse per la salute mentale, dall’altro diviene sempre più necessaria una azione formativa per gli operatori che a vario titolo interagiscono con le persone che soffrono. Ciò se e solo se vogliamo davvero che queste ultime non smettano per questo di essere cittadini titolari di diritti, fra cui il diritto alla salute”.
Per fare questo non serve cambiare la legge 180. Serve, casomai, applicarla. “Non solo là dove non è arrivata, dove la contenzione e la segregazione sono ancora realtà. Bisogna sempre tenere conto dei cambiamenti della società, dei mutamenti stessi delle forme di sofferenza mentale. Evitando la riproposizione di vecchi schemi mascherati da parole d’ordine quali ‘sicurezza’ e ‘pericolosità sociale’. Orientamenti ritenuti preoccupanti dallo stesso Luigi Benevelli – psichiatra e componente del Forum salute mentale -, dal momento che rischiano di indurre una deriva dei servizi di salute mentale in direzione di una ‘psichiatria difensiva’, rispetto ai rischi della relazione con chi sta male e fa fatica a vivere, che porta ad abdicare alla funzione di cura in favore di una visione della psichiatria come braccio della magistratura o della polizia”.
Nel lavoro quotidiano oggi non è raro incontrare la sofferenza mentale nei percorsi e nei progetti di inclusione lavorativa. “Aiutare la persona ad avere fiducia nelle proprie capacità, prendere consapevolezza dei diritti sociali, uscire da isolamento e autoesclusione per far emergere le proprie abilità e competenze sociali e lavorative, è un lavoro che trova necessaria motivazione proprio negli stessi presupposti caratterizzanti la 180”.
Spesso le critiche denunciano, in realtà, inefficienze derivate da una cattiva o nulla applicazione della legge. “Gli atteggiamenti non corretti denunciati dall’Associazione Vittime della 180 mostrano il punto di vista di chi non vede riconosciuta, ascoltata la propria angoscia, la propria paura. Sono domande – afferma Della Valle – che non vanno sottovalutate ma comprese. Occorre una riflessione sincera su esperienze e rapporto con le famiglie. Non può esserci alleanza con il malato se non c’è alleanza con le famiglie, e non ci può essere successo e guarigione se non si crea un’alleanza tra famiglie, persone e struttura che si occupa della salute mentale”.
Infatti, la più volte denunciata incompleta applicazione della legge 180 “lascia sole molte persone, molte famiglie e contribuisce, insieme all’atteggiamento irresponsabile e sensazionalistico di alcuni media, a creare un senso di paura, insicurezza e rabbia. Gli strumenti che servono per evitarlo sono certamente culturali”.
Una riforma che abbia come fulcro l’aspetto del controllo sociale rappresenta invece una scorciatoia solo apparentemente facile, che rispetto alla sofferenza mentale può avere come effetto unicamente quello di nascondere la polvere sotto il tappeto.
“Resta da capire – conclude Della Valle – che tipo di impostazione rispetto ai diritti e al diritto alla salute in particolare prefiguri il decreto legge n. 78 del 31-5-2010 “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” (Gazzetta Ufficiale n. 125 del 31-5-2010 – Supplemento Ordinario n. 114) che, tra l’altro, nel diminuire i trasferimenti alle Regioni per 10 miliardi di euro nei prossimi 24 mesi, andrà a togliere 10 milioni di euro ai Servizi di Salute Mentale e ai servizi sociali”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16191
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Londra: studenti in piazza contro il governo 11.11.2010
Assaltato il quartiere generale dei conservatori. (video)
Londra. Circa 50.000 studenti hanno manifestato ieri contro il raddoppio delle rette universitarie deciso dal governo presieduto dal conservatore David Cameron. Fino ad ora, le spese di iscrizione per gli studenti nelle università britanniche non potevano superare le 3.290 sterline (3.777 euro) per studente e all’anno, ma Cameron intende concedere l’autorizzazione agli atenei per fissarle a 6mila sterline e in “circostanze eccezionali” a 9mila. Da qui le proteste che sono culminate nella manifestazione di ieri che, in gran parte pacifica, è sfociata in scontri con la polizia intorno alle 16 di ieri quando alcune decine di manifestanti sono penetrati con la forza nell’edificio che ospita la sede del partito conservatore, spaccando le vetrate d’ingresso e accendendo falò. A questo punto sono arrivati i reparti antisommossa per sgombrare l’edificio e sono scoppiati gli scontri che hanno provocato alcuni contusi e 32 arresti.
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