Dalla newsletter di http://www.caffeeuropa.it/ del 22.09.2010
Le aperture
Il Sole 24 Ore: “Il consiglio Unicredit sfiducia Profumo. Contrasti nlel Cda. Lucrezia Reichlin contraria. Tremonti: no a cambi ‘maldestri’ al vertice. Tosi: bloccare la scalata dei libici. Titolo in calo (-2,1 per cento). Il ceo: ‘Non lascio, voglio trasparenza’. Lungo braccio di ferro, alla fine le dimissioni”. L’editoriale: “Chi ha paura di una banca autonoma?”.
A centro pagina il quotidiano parla di Obama, che “perde anche Summers”, suo consigliere economico, in contrasto con la Casa Bianca. Sembra essere il capro espiatorio degli scarsi risultati delle politiche di stimolo adottate da Obama.
Il Corriere della Sera: “Profumo sfiduciato, l’ira di Tremonti. Dopo le ultime tensioni sull’ingresso non concordato dei libici le deleghe affidate al presidente Rampl. Drammatico consiglio di Unicredit, i timori del ministro dell’Economia”. L’editoriale del quotidiano, firmato dall’economica Francesco Giavazzi, è duramente critico con chi governa la banca: “Un errore grave”. Perché “non è il disaccordo sulla presenza dei libici” che ha indotto le fondazioni italiane e gli azionisti tedeschi a sfiduciare Profumo. E’ piuttosto il tentativo di Profumo di trasformare Unicredit in una “banca unica” da “una somma di feudi locali”, come sono le grandi banche internazionali, a partire da HSBC. E i piccoli feudi, non solo italiani, si sono ribellati.
A centro pagina il quotidiano milanese dà conto delle indagini a carico dei vertici dello IOR: “Indagati i vertici dello Ior. Il Vaticano: perplessità. L’accusa a Gotti Tedeschi: violate le norme antiriciclaggio”.
La Repubblica: “Unicredit, Profumo si dimette. Resa dei conti nel consiglio, che ritira le deleghe al ‘ceo’; un solo voto contrario. Bankitalia: soluzione rapida. Sfiduciato nella notte dopo un cda fiume, i poteri a Rampl”. Il commento è di Massimo Giannini: “La vittoria dell’asse Berlusconi-Geronzi”. Di spalla: “Riciclaggio, indagati i vertici dello Ior. Il Vaticano: perplessità sui pm”. A centro pagina la notizia che oggi arriva in aula alla Camera il voto sull’autorizzazione alle intercettazioni che riguardano il coordinatore campano del Pdl, Nicola Cosentino. Il deputato è accusato di aver concorso ad attività criminali con la camorrra. “Voto su Cosentino, finiani divisi”, spiega il quotidiano. Alcuni vorrebbero votare contro.
La Stampa: “Unicredit, la resa di Profumo. Nella notte il manager firma l’addio. Buoniscita record da 40 milioni. Sul caso oggi un vertice con Tremonti e Draghi. Alta tensione in un cda fiume: l’ad, sfiduciato, costretto a lasciare. Deleghe a Rampl”. A centro pagina l’indagine Ior: “Riciclaggio, Ior nella bufera. Il Vaticano; perplessi sui pm. Nell’inchiesta il presidente e il dg della banca”.
Il Foglio: “Profumo si fa sfiduciare da Unicredit con un processo a porte chiuse. Dimissioni col botto. Il giallo della lettera del’ad il ruolo di Tremonti. Lo scontro in cda e la soluzione istituzionale con Rampl”. Un lungo articolo firmato da Stefano Cingolani, in prima pagina, si sofferma sulla vicenda (“Il banchiere e il colonnello”), e analizza la “lunga stagione del manager più liberal che c’è”. “Governo neutrale, tedeschi al comando”. Di spalla la giornata parlamentare: “I duri finiani soffrono sul dialogo sul lodo Alfano e si sfogano su Cosentino. La bandiera della legalità svetta ancora ma sul voto contro l’ex sottosegretrio si fa sentire il gruppo dei garantisti. Granata tentato dall’Idv”.
Il Fatto quotidiano: “Profumo di caos. Una guerra la cacciata del numero uno di Unicredit, tra dimissioni date e smentite. La Lega esulta. Il banchiere sarà il ‘papa straniero’ del Pd evocato da Veltroni?”.
Il Riformista: “Senza Profumo. Battaglia notturna (con giallo) nel cda della banca. Scontro duro in Unicredit. I manager prima consegna una lettera di dimissioni, poi decide di andare alla conta degli azionisti. Tentativo di extremis del Tesoro di fermare la resa dei conti”. Di spalla: “A voto segreto Cosentino fa tremare il Pdl”.
Libero: “La casa è del cognato. Risolto il giallo di Montecarlo. Il governo del paradiso fiscale di Santa Lucia: ‘Il proprietario della società off shore è Tulliani’. Caro Fini, ora ridiamo noi”. A centro pagina Profumo: “Non è un martire ma un manager che si credeva re”, scrive Maurizio Belpietro. “Anche i banchieri pagano”, scrive il quotidiano, che offre anche un retroscena firmato da Fosca Bincher: “Fino all’ultimo Giulio ha provato a salvarlo”.
Il Giornale: “Ecco la prova. Fini non ha detto la verità. Una lettera del ministro della giustizia di Santa Lucia certifica: la società offshore che ha acquistato la casa di Montecarlo è di proprietà del cognato del presidente della Camera. E adesso vediamo chi ride. Si dimette il raccio destro dell’ex leader di An: obbedì all’ordine di vendere l’immobile”. A centro pagina: “Cacciato il banchiere della sinistra. Giallo sulle dimissioni di Profumo, poi la sfiducia del Consiglio di Amministrazione”.
Su tutte le prime pagine la notizia della morte di Sandra Mondaini.
Gotti Tedeschi parla anche con Il Giornale e spiega che i famosi 20 milioni di Euro diretti a Jp Morgan erano un “giroconto Ior su Ior: semplicemente abbiamo trasferito del denaro per investirlo in bond tedeschi”.
Profumo
Per Massimo Giannini, che ne scrive su La Repubblica, vince l’asse tra Berlusconi e Geronzi e si fa più vicina la fusione Generali Mediobanca. Si risale all’otto luglio, cena a casa di Vespa, dove Berlusconi, seduto a fianco di Cesare Geronzi, avrebbe imposto al governatore della Banca d’Italia Draghi uno scambio: io ti sostengo nella corsa alla Bce, tu non ti opponi al ribaltone in Unicredit. Un’ipotesi che Giannini stesso dice essere ardita, non mancando però di sottolineare che il ministro del Tesoro Tremonti non fosse presente alla cena e non avesse gradito. Tanto che, da quel momento, dopo aver bastonato per due anni le banche e i banchieri, ha curiosamente cominciato a difendere Profumo. E Profumo stesso, che sapeva il suo destino segnato, prima dell’estate si è mosso con i libici, per cercare una sponda contro gli azionisti all’attacco (dalle fondazioni delle Casse del Nord ai tedeschi dell’Alliance guidati dal presidente Unicredit Rampl). Per questo, all’inizio di agosto, Profumo è andato in missione ad Arcore, per spiegare a Berlusconi il senso dell’ingresso dei libici nel capitale Unicredit, ricevendone un via libera.
La Stampa intervista l’ambasciatore libico a Roma, Hafed Gaddur, che dice: “Quando Unicredit era in difficoltà, ci è stato chiesto sia dalla maggioranza che sostiene il governo sia dall’opposizione un nostro intervento”. Gaddur dice anche che non è vero che il Presidente di Unicredit Rampl fosse all’oscuro: “Era stato informato da Tripoli. Credo, dunque, che i motivi di questa resa dei conti siano altri”. Ricorda quanto accadde anche con la Fiat ai tempi di Agnelli: “Servivano capitali, liquidità. E noi non ci tirammo indietro. Anche oggi, ripeto, è stato sollecitato il nostro intervento. Ma oggi, a differenza di quello che accadde negli anni 70, il nostro investimento in Italia avviene in un contesto di rapporti di amicizia tra i nostri due popoli, cementato da un trattato votato dal vostro Parlamento a maggioranza assoluta.
Il Corriere della Sera parla del “pressing di Tremonti” sulle Fondazioni e riassume così il suo pensiero: “Un errore cambiare, la banca sia stabile”. Anche per Libero è stato importante “il tentativo di salvare mr Arrogance” (appellativo affibbiato a Profumo): spiega il quotidiano che Tremonti e Letta hanno tentato di fare scudo al numero uno di Unicredit. Ma anche che “con il suo addio riprende piede l’ipotesi di fusione con Mediobanca”. Scrive il quotidiano che “per salvare Profumo è intervenuto colui che è ritenuto il suo nemico pubblico numero uno, Cesare Geronzi. Segno anche del timore che con l’uscita di scena di Profumo possano essere terremotati tutti gli equilibri finanziari e del credito italiani.
Il Sole intervista Bill Emmott, già direttore dell’Economist, che di Profumo dice: “Visto dall’estero il suo grande merito è di esser stato il primo Ceo capace di creare in Italia una grande banca internazionale”.
Nerio Nesi, già presidente Bnl, ricorda come le fondazioni abbiano dapprima aiutato Profumo, poi gli si sono rivoltate contro: “Probabilmente non erano d’accordo con la sua politica di investimenti all’estero. Vede, l’idea di espansione esterna che aveva Profumo, non poteva essere coerente con gli interessi locali delle Fondazioni”.
Come appendice di tutta la vicenda Profumo, va segnalata l’immediato gossip politico che ne è nato, chiedendosi se non sarà lui il “papa nero” del Pd. In prima del Riformista: “E Repubblica già lo incorona papa straniero”, “prima che Profumo si dimettesse il quotidiano di Scalfari gli aveva già spianato un’altra strada”. E su La Repubblica: “E il banchiere finisce già in politica, ‘può essere il papa straniero del Pd’, il partito ne misurerà la popolarità con un sondaggio”. Nei prossimi giorni pare che il Pd farà monitorare attraverso i sondaggi il grado di popolarità di Profumo, che ha votato per ben due volte alle primarie (nel 2005 e nel 2007). La moglie Sabina Ratti si candidò con Rosi Bindi per entrare nella assemblea nazionale del Pd.
Ior
Al presidente Ior Ettore Gotti Tedeschi e al direttore generale Paolo Cipriani si contesta la violazione delle norme antiriciclaggio. Da quando, nel 2003, la Cassazione ha attribuito all’Italia la competenza a indagare sulla Santa Sede, è la prima volta, ricorda il Corriere, che la Procura interviene con i sigilli. La somma di 23 milioni di Euro bloccata dal nucleo valutario era su un conto a Roma del Credito Artigiano: la banca che ha dato l’input all’inchiesta con una segnalazione all’Ufficio italiano cambi. Su 28 milioni, 20 dovevano essere trasferiti alla Jp Morgan a Francoforte, e 3 alla Banca del fucino di Roma. Ma nei bonifici non erano indicati né i beneficiari né le causali. Allo Ior, infatti, i clienti vengono identificati solo con un numero codificato, ma il decreto 231 del 2007 ha reso obbligatorie le informazioni sui destinatari e sugli scopi delle transazioni. Raggiunto telefonicamente da La Stampa, il Presidente Gotti Tedeschi, professore di etica della finanza, presidente dello Ior dal 2009, ed ispiratore della enciclica Caritas in veritate di Ratzinger, dice: “Non capisco da chi viene tutta questa ansia di attaccare l’istituto proprio ora che stiamo concludendo il nostro lungo e accurato lavoro di intesa con la segreteria di stato vaticana e con la Banca d’Italia, per sistemare le situazioni che andavano normalizzate”.
Lo stesso quotidiano sottolinea che “il pasticciaccio si poteva evitare: sarebbe bastato ascoltare gli avvertimenti che il Credito artigiano aveva a più riprese indirizzato alllo Ior. La nuova normativa antiriciclaggio considera l’Istituto una banca extracomunitaria, ma l’Ior non ottempera alle nuove regole.
E poi
Su La Stampa un reportage dall’Egitto, dove si va verso la successione al “Faraone” Hosni Mubarak, a cui con ogni probabilità succederà il figlio Gamal. Proteste contro quest’ultimo, ma pare che le élites siano con lui.
La Repubblica parla dello “schiaffo a Obama” inferto dal Senato al presidente Usa, con la bocciatura della riforma della regola in vigore nell’esercito americano “Don’t ask, don’t tell”, che impone una clandestinità obbligatoria ai gay nell’esercito. I democratici avevano tentato, surrettiziamente, di inserire questa riforma nelle pieghe del budget annuo del Pentagono. Ma i Repubblicani non hanno esitato a bocciare l’intero ddl, ritardando così tutti i finanziamenti alla difesa. I repubblicani hanno votato compattamente contro, il partito di maggioranza si è perso per strada due moderati. Sono così mancati i 60 voti necessari a superare l’ostruzionismo repubblicano. La batosta è stata aggravata dal fatto che nello stesso disegno di legge i progressisti avevano aggiunto un provvedimento in favore dei giovani immigrati illegali: è il cosiddetto dream act, che avrebbe realizzato il sogno di molti giovani clandestini, istituendo una corsìa preferenziale per ottenere la cittadinanza americana a chi si arruola nell’esercito.
Restiamo sullo stesso quotidiano per segnalare il titolo sulle dimissioni del consigliere economico di Obama Larry Summers: “Obama congeda Summers e svolta a sinistra. Addio al consigliere economico liberista”. Il Sole 24 Ore scrive che Summers è il capro espiatorio degli scarsi risultati delle politiche di stimolo adottate dalla Casa Bianca.
Su Il Foglio si racconta che anche Lady Gaga si è trasformata in paladina dei soldati gay, presentandosi, nel Maine, ad una platea di attivisti per prendere posizione contro i repubblicani che si oppongono al progetto di revisione della norma Don’t ask, don’t tell. Non paga del comizio, ha registrato un video con un appello in favore della libertà di scelta, parlando ai senatori repubblicani.
Per tornare al Sole 24 Ore, si riferisce della “marcia dei comici” prevista al Lincoln Memorial il 30 ottobre e promossa da una campagna anti-Tea Party: si chiama “marcia per restaurare la ragionevolezza”, si terrà tre giorni prima delle elezioni di midterm, e – a giudicare dalle prenotazioni negli alberghi della capitale e dal numero di adesioni su Facebook – saranno migliaia gli americani presenti. La sponsorizzano i due comici televisivi John Stewart e Stephen Colbert, che rappresentano oggi una delle poche speranze per il Partito democratico di mobilitare i giovani, a dire dal loro pubblico televisivo. Alcune statistiche mostrano addirittura che i due sono la fonte primaria di informazione televisiva per i giovani.
Sul Corriere della Sera si parla dello storico negazionista David Irving, che è intenzionato a portare un gruppo di “turisti” di vari Paesi nei lager nazisti europei, spiegando anche loro la sua versione dei fatti. Una visita guidata per cui si pagano 2650 Euro a testa. Tappa anche ad Auschwitz. Non mancano le proteste, potrebbe scattare una incriminazione immediata in Polonia. Tenteranno di bloccarlo sicuramente all’ingresso di Treblinka. Racconta lo stesso Irving al Corriere che le richieste di iscrizione sono state tantissime, da tutta Europa ma anche dagli Usa e dal Sudafrica. Il viaggio dovrebbe concludersi nei luoghi della resistenza polacca a Varsavia. Sullo stesso quotidiano se ne occupa Pierlugi Battisti: “Non è intolleranza fermare Irving e il suo macabro turismo dell’orrore”, scrive.
—
Lo scalpo di Profumo 21.09.2010
L’addio di Profumo è una semplice questione di soldi. L’amministratore di una banca rimane in sella per due motivi, o può essere funzionale al sistema come Passera di IntesaSanPaolo (remember Alitalia?), e in qualche caso E’ addirittura lui il Sistema, come Geronzi, o produce profitti, distribuisce dividendi, arricchisce gli azionisti. Profumo appartiene a questa ultima categoria di banchieri.
Unicredit da tempo non è una fonte di reddito per i suoi azionisti, lo scorso anno i dividendi sono stati distribuiti sotto forma di azioni. Le azioni hanno però diminuito costantemente il loro valore. Un’azione nel 2009 valeva 2,64 euro dai valori massimi pre crisi di 6,50, e ieri solo 1,94 euro, oggi sarà peggio, ci sarà una pioggia di vendite. L’utile 2009 è sceso a 1,7 miliardi, un risultato più che accettabile con l’attuale congiuntura, ma molto al di sotto degli oltre 6 miliardi del 2007. Gli azionisti hanno finanziato nell’ultimo biennio la banca con aumenti di capitale miliardari senza ricevere in cambio nulla. I loro soldi evidentemente non sono stati sufficienti se è stato necessario imbarcare il cavaliere bruno Gheddafi che è ora, salvo sorprese, l’azionista di riferimento del primo istituto italiano di credito con il 7,5%.
Profumo ha sempre pagato la sua parziale indipendenza dando agli azionisti la loro libbra di carne, ma Unicredit non è la sua banca, non è di sua proprietà, lui è un impiegato, il primo e il più importante, ma di fatto un impiegato. Dietro la sua cacciata dopo 15 anni, salvo ultimi ripensamenti del Sistema, ci sono anche tutti coloro che sono stati tenuti fuori dalla porta da Profumo, dalla Lega di Boss(ol)i, quella del fallimento di Credieuronord, che vuole le banche, alle Fondazioni comandate dai partiti e dai loro tirapiedi, a Geronzi, l’ultrasettantenne presidente delle Generali, che allo scalpo di Arpe aggiunge quello di Profumo, alle lobby legate alla Banca di Roma e al Banco di Sicilia inglobate in Unicredit. La lista dei nemici di Profumo è lunga come lo Stivale, il suo scudo fino a oggi sono stati i risultati e la protezione di Allianz, azionista tedesco che ne promosse 15 anni fa la candidatura.
Profumo è un banchiere, non un santo, ma era uno dei pochi stimati in Europa, come Matteo Arpe espulso a suo tempo dal Sistema. Dietro di loro è rimasto il nulla, i partiti. Le banche da oggi sono ancor più Cosa Loro.
http://www.beppegrillo.it//2010/09/labbandono_di_p/index.html?s=n2010-09-21
—
22/09/2010 – FISICA
“Primo sguardo sulla materia del Big Bang”
Al Cern di Ginevra gli indizi sullo stato primordiale dell’Universo. Osservati “strani” gruppi di particelle: è il plasma di quark e gluoni?
BARBARA GALLAVOTTI
I grandi esperimenti legati all’acceleratore LHC al Cern di Ginevra – il Large Hadron Collider – si scaldano i muscoli, e lo fanno da giganti, inanellando un risultato dopo l’altro. L’ultimo annuncio è arrivato ieri, da parte dei ricercatori impegnati nell’esperimento CMS, uno dei quattro costruiti per studiare i risultati degli urti fra le particelle che si scontrano nel grande anello sotterraneo. Se confermato, il risultato potrebbe portarci indietro nel tempo fino ai primissimi istanti di vita dell’Universo, quando ancora non esistevano i nuclei degli atomi.
CMS è un colosso di 14 mila tonnellate, distribuite in un oggetto dal diametro di 15 metri e dalla lunghezza di 29. Per costruirlo ci sono voluti 16 anni e gli sforzi di una delle più grandi collaborazioni scientifiche mai create: vi lavorano 3100 scienziati, provenienti da 169 istituti di ricerca, distribuiti in 39 Paesi, e tra loro ci sono molti ricercatori italiani, a cominciare dal portavoce Guido Tonelli, che ha spiegato: «Ci possiamo solo attenere ai fatti e si tratta di qualcosa che non abbiamo mai visto prima». Come gli altri esperimenti connessi a LHC, anche CMS è stato costruito per rispondere a interrogativi di larghissimo respiro sulle origini e sulla natura dell’Universo e, in particolare, è dedicato a studiare gli scontri fra protoni accelerati ad altissima energia.
In questi urti i protoni generano una cascata di altre particelle, il cui numero è molto variabile: in genere si tratta di una ventina, ma possono essere anche molte decine. Concentrandosi su urti il cui risultato finale è pari a 100 o più particelle, i ricercatori hanno osservato che in questi casi alcune di esse tendono a distribuirsi in gruppi, dimostrano cioè di essere in qualche modo correlate. Una correlazione del genere era già stata osservata in passato in esperimenti svolti presso i laboratori di Brookhaven, negli Stati Uniti, dove però a scontrarsi non erano protoni ma nuclei di atomi di oro e, quindi, oggetti dotati di massa molto maggiore.
«Il fatto che il medesimo effetto osservato in scontri fra nuclei di oro si ritrovi anche in scontri fra protoni è di per sé interessante e si presta a molte diverse interpretazioni», spiega Sergio Bertolucci, direttore di ricerca del Cern. Ad esempio potrebbe essere un fenomeno dovuto alla natura dei quark, le particelle elementari che formano i protoni e tutti i nuclei atomici. Esistono però anche spiegazioni più ardite, nonostante i fisici esprimano la massima cautela.
Una di queste butta una sguardo addirittura ai primissimi istanti dopo il Big Bang.
A quell’epoca, secondo alcune teorie, per brevissimo tempo sarebbe esistito quello che i fisici chiamano un plasma di quark e gluoni. Oggi i quark non esistono allo stato libero, ma soltanto uniti tra loro a formare particelle più complesse. A fare da collante è la cosiddetta «forza forte», una forza fondamentale che può essere descritta come l’effetto di un incessante scambio fra i quark di altre particelle, chiamate appunto gluoni. Nella notte dei tempi sia i quark sia i gluoni avrebbero goduto di un’effimera libertà e per una frazione di secondo si sarebbero comportati come una goccia di liquido che esplode, espandendosi a incredibile velocità.
Un impercettibile lasso di tempo dopo, i quark si sarebbero trovati incatenati dai gluoni: una condizione che ha reso possibile il formarsi dei nuclei atomici e, nel corso di miliardi di anni, anche della materia che costituisce i nostri corpi. «Dal punto di vista sperimentale l’esistenza del plasma di quark e gluoni subito dopo il Big Bang non è mai stata completamente provata. I risultati dell’esperimento di Brookhaven, però, secondo alcune interpretazioni darebbero indicazioni in questo senso e, se così fosse, l’annuncio di CMS costituirebbe una ulteriore prova», spiega Antonello Polosa, fisico teorico all’Università di Roma La Sapienza.
È ancora presto per capire se il risultato di CMS apra davvero una finestra inedita sulle origini del cosmo. Ma è soltanto questione di tempo per avere nuovi indizi. Un altro dei grandi esperimenti connessi con LHC, «Alice», è stato infatti pensato proprio per studiare il plasma di quark e gluoni, e fra non molto sapremo che cosa ha da dire al proposito. E nel frattempo CMS continuerà a indagare, come pure l’esperimento «Atlas» che dei quattro connessi a LHC è il suo più diretto concorrente.
http://www3.lastampa.it/scienza/sezioni/news/articolo/lstp/333552/
—
La carta di credito diventa 2.0 16.09.2010
La carta di credito si rinnova e lo fa entrando a pieno titolo nell’era del 2.0, grazie ad un sistema di pagamento di nuova generazione brevettato da Dynamics.
La carta di credito 2.0 integra diversi chip che alimentano la banda elettronica integrata e nonostante implementi una nuova tipologia di tecnologia è l’unica al mondo ad essere pienamente compatibile con gli attuali lettori di carte e dunque immediatamente utilizzabile, senza stravolgimenti tecnici, sui circuiti internazionali.
La card è completamente programmabile e questo consentirà in futuro di implementare differenti applicazioni: due esempi applicativi sono stati scelti dalla Dynamics per la presentazione della carta di credito evoluta al DEMOFall 2010.
Gli spettatori sono rimasti strabiliati! Per scoprire quali sono state le due carte presentate, fate clic e superate il salto…
Continua qui: http://www.ictblog.it/index.php?/archives/5109-La-carta-di-credito-diventa-2.0.html#extended
—
Le luci artificiali alterano il comportamento riproduttivo degli uccelli 21.09.2010
L’inquinamento luminoso è sempre stato considerato di ordine secondario rispetto a quelli di tipo acustico e atmosferico. In realtà, esso avrebbe effetti preoccupanti sull’avifauna alterandone i comportamenti riproduttivi, non solo – quindi – modificando bioritmi e abitudini, come è facile osservare di notte sugli alberi delle nostre città… Ad affermarlo, è un recente studio del professore Bart Kempenaers del Max Planck Institute for Ornithology.
Più in dettaglio, i ricercatori hanno analizzato gli effetti dell’illuminazione artificiale su alcune specie di uccelli che, pur vivendo in aree boschive, si trovano in prossimità di strade molto illuminate. Hanno così potuto appurare che tutti i maschi che posizionati a distanze sufficientemente limitate da una intensa fonte luminosa, tendono a cantare molto prima di quelli che si trovano più lontani dalla stessa. E le femmine, di conseguenza, stimolate da questi canti “affabulatori”, arrivavano in numero maggiore rispetto a quanto normalmente accade nelle parti più buie di foresta e, spesso, indipendentemente dalla reale “possenza e dalla qualità riproduttiva” dei maschi interessati. Si metterebbe, di conseguneza, a dura prova il principio della selezione naturale avvantaggiando, spesso, proprio i soggetti più deboli. E, questo, sottolinea Kempenaers,non è affatto un vantaggio. Inoltre,
i maschi dormono meno e sono più a rischio di predazione se iniziano a cantare con molto anticipo rispetto all’alba.
Ma l’intensa illuminazione artificiale arrecherebbe problemi anche agli uccelli migratori che sarebbero disorientati dalle forti intensità luminose e facendo perdere colpi anche al loro complesso sistema di “navigazione”. A tal proposito, il gruppo ambientalista della Grande Mela, Nyc Audubon, ha dichiarato che ogni anno, durante la stagione migratoria, oltre 80.000 uccelli si schianterebbero contro i grattacieli della City perché attirati dalle luci.
Ed infatti, in questi giorni, proprio nella metropoli statunitense, si sta portando avanti il progetto “lights out” che propone lo spegnimento delle lampade più disturbanti ai piani più alti degli edifici durante ore notturne.. Intanto, altrove – in particolare in Germania e Olanda -, alcune aziende sono già all’opera per arginare il problema tentando di mettere a punto luci che abbiano un impatto ambientale ridotto…
Via | science codex, max planck institute
Foto | Flickr
—
Una società di spioni 22.09.2010
Allo sfacelo storico – ed alla degenerazione – di una “società civile” che sprofonda giorno dopo giorno nelle sabbie mobili di un capitalismo in (ormai permanente) stato comatoso, sembra non esserci limite.
La tappa attuale, di questa corsa verso la barbarie, è scandita dagli esiti di una delle tante inchieste condotte nei mesi scorsi.
Un’indagine della DEMOS-UNIPOLIS condotta per l’Osservatorio su Sicurezza, percezione e informazione ha stabilito che circa nove italiani su dieci sono favorevoli ad “aumentare la sorveglianza con telecamere in strada e nei luoghi pubblici”.
Circa uno su due a “consentire al Governo di monitorare le transazioni bancarie”.
Infine, uno su tre a “rendere più facile per le Autorità leggere la posta, le e-mail o intercettare le telefonate senza consenso delle persone”.
Insomma, spioni e spiati “d’amore e d’accordo”, d’accordo sulla necessità di spiare tutti, soprattutto quelli che non sono e non vogliono diventare spioni.
Qualcuno ha osservato che è “il clima del tempo”, un tempo “di farabutti”, per dirla con il titolo di un’opera della compagna dell’immenso Dash Hammett, uno che di spie, di spioni e, soprattutto, di farabutti, s’intendeva molto più della pensionata cattolica che, dimenticandosi della protezione dell’angelo custode e dell’intercessione dei santi, teme di essere derubata della pensione, neanche fosse il Superviagra Nazionale o una della famiglia-Agnelli.
Prendete il successo de Il Grande Fratello, la trasmissione televisiva per decerebrati da entrambi i lati dello schermo. Archetipo di tutti i reality show, il GF, dove i concorrenti stanno rinchiusi in una casa, ciascuno da solo contro tutti gli altri. Mentre il mondo fuori li spia, a (tele)comando.
Una società allo specchio, fatta di spettatori che apprendono l’arte di arrangiarsi, di guardare gli altri e di essere guardati.
Di guardarsi: dagli altri.
Non a caso sette italiani su dieci dicono che occorre cautela nel rapporto con gli altri: che ti potrebbero fregare (sondaggio DEMOS, novembre 2009).
Di conseguenza, ciascuno per proprio conto. Sottoposto ad un “controllo continuo”.
D’altra parte, le nuove tecnologie della comunicazione rendono possibile ogni intrusione nel “privato”, immediatamente, senza alcuna mediazione. E lo rendono anzi di pubblico dominio.
Ogni cellulare è dotato di videocamera e di apparecchio fotografico, per cui chiunque può riprendere chiunque, in ogni momento ed in ogni luogo. E riversare le immagini in rete in tempo reale.
Tutti possono essere spiati ed ascoltati ovunque, da soggetti “pubblici” ma anche da soggetti privati.
Per motivi di sicurezza – dove la sicurezza va intesa come, per usare una definizione brechtiana, “la porta blindata degli imbecilli contro l’ingresso dell’intelligenza” -; ma anche per motivi di interesse, visto che le informazioni private e personali hanno un valore di mercato crescente.
Commenti, in conclusione?
Uno solo.
Paradossalmente (ma non tanto), il crollo delle cosiddette “società autoritarie dell’Est” ed il “trionfo della democrazia” ha condotto ad uno stato di cose che non ha proprio nulla da invidiare alle pagine del capolavoro di Orwell, in cui comunque il Grande Fratello non è (ancora) un format televisivo.
E, come ben sanno quelli che, come noi de IL BUIO, si pongono in tutto e per tutto sul terreno del marxismo rivoluzionario, non poteva essere diversamente.
Lo scopo del capitalismo, infatti, non è la liberazione dell’individuo, ma il suo totale asservimento alle ragioni dello sfruttamento.
Cosa che, la pensionata tutta rosari a padre Pio e paura dei ladri extracomunitari che potrebbero toglierle, oltre ai soldi, anche una virtù a suo tempo sacrificata al parroco ed al padrone della fabbrica, ignora ed ignorerà sempre…
Eugenio Colombo
—
Solidarietà ai Reykjavík9! Lotta contro la repressione di stato in Islanda! 16.09.2010
Da gennaio 2010 è in corso il primo processo post-collasso in Islanda. Gli accusati sono individualità anarchiche e della sinistra radicale che hanno preso parte alle rivolte durante l’inverno 2008-2009. Sono accusati di aver attaccato il parlamento e rischiano da 1 a 16 anni di carcere.
Solidarietà ai Reykjavík9! Lotta contro la repressione di stato in Islanda!
Da gennaio 2010 è in corso il primo processo post-collasso in Islanda. Gli accusati sono individualità anarchiche e della sinistra radicale che hanno preso parte alle rivolte durante l’inverno 2008-2009. Sono accusati di aver attaccato il parlamento e rischiano da 1 a 16 anni di carcere.
L’8 dicembre 2008 un gruppo di 30 persone aveva pianificato di entrare nella galleria parlamentare ma si è trovato bloccato da una violenta risposta da parte delle guardie nonostante secondo la costituzione islandese chiunque ha il diritto di entrare ed assistere alle sessioni parlamentari. Solo due persone su 30 riuscirono a raggirare le guardie e ad entrare, prima di venire buttate fuori a forza uno di loro urla ai parlamentari di uscire dall’edificio. Tutti i manifestanti vennero tenuti ostaggi da parte della polizia e delle guardie, alcuni vennero arrestati e portati alla centrale. Un anno più tardi 9 di loro si sono visti arrivare le denunce.
Da 1 a 16 anni di prigione, i Reykjavík9 (Rvk9) sono accusati di aver violato le autorità del governo, disturbato l’ordine pubblico, minacciato e commesso violenza verso le guardie parlamentari, commesso un attacco organizzato, violazione di domicilio, disturbato un’assemblea legislativa e minacciato il libero arbitrio del governo. L’ultimo di questa serie di articoli fu usato solamente una volta nella storia dello stato islandese, quando nel 1949 polizia e estremisti di destra a malmenato i manifestanti che protestavano davanti al parlamento contro l’entrata dell’Islanda nella NATO. Ovviamente ad essere condannati sono stati i manifestanti…
Dall’inizio ufficiale di questo processo ci sono state numerose udienze preliminari. Uno degli avvocati difensori ha sistematicamente la natura di questo processo, una caccia alle streghe così come il favoritismo da parte di giudice e polizia. Anche se dovrebbe essere palese per chiunque abbia una mente critica, per chi ancora dubitasse della parzialità del giudice e della polizia, sia l’avvocato che gli oppositori ai Rvk9 hanno esposto molto bene la falsa neutralità delle istituzioni statali.
Un cospicuo numero di agenti era presente ad ogni udienza, sotto specifica richiesta del giudice e del capo del tribunale, fatto unico nella storia processuale islandese che mostra la presupposizione del giudice riguardo alla minaccia causata dalle-gli accusate-i e dal loro supporto. Ha già preso posizione. All’inizio la polizia stava dietro le quinte, ma come l’interesse pubblico per il processo è aumentato il giudice ha passato l’autorità del processo in mano alla polizia. La quale dapprima si è limitata a controllare la sala del tribunale, facendo entrare tante persone quanti erano i posti a sedere. Successivamente si è spostata all’entrata del tribunale chiudendo le porte a quello che dovrebbe essere un processo pubblico a porte aperte, rendendo problematico entrare persino per le-gli accusate-i. In un occasione a due di loro non è stato permesso partecipare alla propria udienza. Il comportamento della polizia non ha fatto altro che buttare benzina sul fuoco, accendendo ancora di più la rabbia contro questo processo che si è manifestata con scontri davanti al tribunale e ha portato a ulteriori arresti.
I media stanno ignorando il caso cercando di farlo passare sotto silenzio, ma il loro tentativo e quello delle autorità di silenziare la resistenza e mettere il cattiva luce gli accusati non ha fatto preso sull’opinione pubblica. Solidarietà e supporto sono arrivati da diverse parti della società nonostante le radicali critiche al sistema e a questa società espresse dai Rvk9, e anche se ancora un po’ debole sta iniziando a farsi sentire anche il supporto internazionale.
A fine agosto uno degli avvocati difensori ha fatto richiesta che il giudice venisse destituito in quanto non competente. Due giorni dopo il giudice si è auto qualificato in grado di attendere il processo. Decisione confermata anche dalla corte suprema. L’8 settembre la stessa richiesta è stata fatta al procuratore, ma anch’egli è stato trovato competente per seguire il caso. Il processo dovrebbe riprendere a fine novembre, non è ancora stata decisa la data esatta.
I Rvk9 hanno bisogno di supporto internazionale, che sia con scritti o traduzione, spargere la voce, farsi sentire, e mostrare opposizione alla repressione di stato in Islanda. Una lista di ambasciate islandesi può essere trovata nel sito Iceland’s Ministry for Foreign Affairs.
Per più informazioni sul caso, si possono trovare in inglese su www.savingiceland.org e www.rvk9.org
Contro la repressione di Stato!
Libere-i i Rvk9!Libere tutti!
Per l’anarchia!
http://calabria.indymedia.org/article/4741
—
Gelmini: studenti “soldato” nei licei, impareranno a sparare. Il declino inarrestabile della scuola italiana. 21.09.2010
di Emanuele Ameruso
Mai la scuola italiana aveva raggiunto, nel corso degli ultimi decenni, un livello così basso. Per molti quasi un punto di non ritorno. Lo confermano i dati statistici, lo stato degli atenei italiani, le difficoltà della didattica, gli scarsi risultati degli studenti (rispetto ai coetanei europei). La scuola italiana è al collasso, si sa, nonostante le tante riforme (pseudo-riforme) di questi ultimi anni. Un numero considerevole di tentativi che, invano, hanno cercato di dare un po’ di respiro al settore, senza riuscirci. Anzi, quello che abbiamo davanti è un quadro sempre più cupo, senza prospettive. E così, assistiamo, ad una serie di scandali, di decisioni eclatanti, spesso non conformi neanche alla stessa legge italiana. Lo sa il Ministro dell’Istruzione Gelmini, lo sanno gli operatori della scuola, lo sanno gli studenti. E dalla scuola di Adro al nuovo protocollo firmato fra il Ministro dell’Istruzione Gelmini e il Ministro della Difesa La Russa, il passo è davvero breve. Forse l’ultimo colpo di coda di un’estate “drammatica” per la scuola, che preannuncia un autunno davvero caldo, anzi, incandescente.
Lo chiamano “allenati per la vita” ed è un corso valido come credito formativo rivolto agli studenti dei licei. In realtà sembra un vero e proprio corso “paramilitare”. Non è uno scherzo. E’ un protocollo già firmato fra la Gelmini e La Russa. Ma cosa prevederà? Con grande pace della Gelmini, gli studenti dei licei impareranno a sparare con pistola (ad aria compressa), a tirare con l’arco, ad arrampicarsi, a eseguire perfettamente “percorsi ginnico-militari”. E quale sarebbe l’assurda spiegazione (motivazione) di questa nuova trovata “geniale” del Ministro Gelmini? Ecco la laconica ed “ipocrita” risposta: “Le attività in argomento permettono di avvicinare, in modo innovativo e coinvolgente, il mondo della scuola alla forze armate, alla protezione civile, alla croce rossa e ai gruppi volontari del soccorso”. Si tratta, in buona sostanza, di veicolare la pratica del mondo militare in quello della scuola: roba da altri tempi, tempi bui e, speriamo, non riproponibili.
Ma la speranza “muore” leggendo, di fatto, in cosa consisterà la prova finale per il nuovo corso “allenati per la vita” (leggi corso “paramilitare”, ndr): “una gara pratica tra pattuglie di studenti”. No, non è un errore di battitura. La circolare parla proprio di “pattuglie” di studenti. A dir poco equivocabile e senza ritegno il termine utilizzato. Fosse solo il termine! E’ un progetto “innovativo” passato nel silenzio assoluto delle opposizioni. Ma anche questa, purtroppo, non è una novità.
E con la nuova proposta Gelmini – La Russa , si allunga, di fatto, l’elenco degli incomprensibili provvedimenti del Ministro dell’Istruzione. I tagli alle elementari hanno eliminato qualsiasi potenzialità di realizzare il vero tempo pieno e ridotto gli spazi per progetti, uscite didattiche e laboratori. Non c’è un insegnante di sostegno ogni due studenti disabili, come prevede la legge, a tal punto che alcuni alunni vengono seguiti solo per cinque ore settimanali. Il provvedimento che prevede il numero maggiore di studenti per classe, da 27 a 35, viola apertamente il testo sulla sicurezza scolastica: Il D.M. Interno del 26/8/1992, recante “Norme di prevenzione incendi per l’edilizia scolastica”, al punto 5.0 (“Affollamento”) stabilisce che, al fine dell’evacuazione delle aule, il massimo affollamento ipotizzabile è fissato in 26 persone/aula ed al punto 5.6 (“Numero delle uscite”) che le porte devono avere larghezza di almeno m 1,20 ed aprirsi nel senso dell’esodo quando il numero massimo di persone presenti nell’aula sia superiore a 25 (quante scuole, in tutto il territorio nazionale, non sono in regola? La maggioranza). E la riduzione del tempo scuola nei licei artistici (11%) , nei licei linguistici (17%), negli istituti tecnici e professionali (diminuzione del 30% delle ore di laboratorio) a quale esigenza didattica di rinnovamento rispondono? Forse servono a far posto a pseudo-corsi di natura “paramilitare” come quello messo in campo dal duo Gelmini – La Russa? Tante sono le domande, poche le risposte e le certezze. Quello che appare chiaro, tuttavia, è che non basteranno anni di riforme e provvedimenti ad hoc per far risalire la china alla scuola italiana. E la trovata degli studenti soldato nei licei, a dir poco bizzarra, non va in quella direzione. Siamo al punto più basso della scuola italiana? Peggio di così non può andare? Seppur infinitamente poco consolatoria, dateci almeno questa, di certezza.
Fonte:Famiglia Cristiana
(http://www.famigliacristiana.it/Informazione/News/articolo/la-scuola-militare.aspx )
Emanuele Ameruso
—
di Sandro Mezzadra 21.09.2010
L’INGANNO GIURIDICO DELLA «RULE OF LAW»
La legge È DEI FORTI
Il gioco di specchi tra pubblico e privato è la forma in cui la proprietà privata è eletta a principio universale del capitalismo globale. Un sentiero di lettura a partire da un libro di Ugo Mattei edito dalla manifestolibri
Quello di Ugo Mattei è ormai un nome familiare alle lettrici e ai lettori del manifesto. Firma autorevole del giornale, Mattei è intervenuto negli ultimi anni sulle questioni dirimenti del dibattito politico, segnalandosi tra l’altro per la straordinaria generosità con cui ha contribuito a costruire la battaglia referendaria sull’acqua, ed è stato una presenza fissa nelle pagine culturali di questo quotidiano. Giurista (civilista e comparatista per formazione) di grande finezza teorica e di prestigio internazionale, ha svolto soprattutto in quest’ultima veste un ruolo fondamentale nel proporre, dall’interno del diritto, una critica rigorosa degli sviluppi giuridici globali degli ultimi decenni. Soffermandosi su questioni solo apparentemente tecniche – dalla class action alla soft law, dalle trasformazioni dell’arbitrato alla differenza tra standard e regole – Mattei ha tracciato con pazienza e maestria un quadro davvero convincente di quell’interpenetrazione tra processi giuridici e dinamiche globali che costituisce uno dei tratti salienti del capitalismo contemporaneo. Ed è davvero riuscito a «fare uscire il diritto dalla sua torre d’avorio», anche grazie a una scrittura tanto chiara quanto efficace negli esempi portati a sostegno delle tesi più teoriche.
La plasticità della norma
La raccolta in un volume edito dalla manifestolibri degli articoli da lui scritti negli ultimi anni per il manifesto (La legge del più forte, pp. 143, euro 22) rappresenta dunque un’ottima occasione per prendere visione del «quadro» nel suo insieme. E ripropone con forza i problemi politici di fondo che ne hanno guidato la composizione.
Al centro del lavoro di Mattei, in questo volume così come in quello da lui scritto con Laura Nader (Il saccheggio, Bruno Mondadori; ne ha parlato su queste pagine Toni Negri il 4 maggio di quest’anno), è la rule of law, variamente tradotta in italiano come «principio di legalità», «Stato di diritto», «regime di legalità». Tradizione veneranda, quella della rule of law, le cui radici sono indicate da molti nientemeno che nella Magna Charta! Ma al tempo stesso «”nozione plastica”, in cui ciascuno vede i valori in cui crede». Ecco, qui sta il punto: Mattei mostra come nel corso degli ultimi decenni gli sviluppi normativi e quelli della dottrina giuridica abbiano interpretato selettivamente la «plasticità» della rule of law, riorganizzandone significati e funzioni attorno alla protezione univoca della proprietà privata. E questo vale tanto all’interno dei paesi «occidentali» quanto – e soprattutto – nella proiezione giuridica all’interno dei Paesi «periferici» dell’operato delle grandi agenzie internazionali (dal Wto alla Banca mondiale e all’Unione Europea): quando cioè la rule of law è posta come condizione per l’accesso al credito o a programmi di cooperazione. O quando – per riprendere l’esempio fatto da Mattei nelle ultime pagine del libro – vengono rescissi i contratti stipulati dai precedenti governi afgani per le forniture energetiche in quanto «non si fondavano su basi giuridiche civili». E la Unocal, gigante energetico californiano per cui ha a lungo lavorato Amid Karzai, l’attuale presidente dell’Afghanistan, può finalmente rientrare nel grande affare dell’oleodotto del Mar Caspio.
Si diceva che una delle traduzioni italiane di rule of law è «principio di legalità». Domanda: non sarà che le trasformazioni indicate da Mattei si sono infiltrate anche in quella «legalità» che costituisce l’ossessivo riferimento, una sorta di totem, della sinistra nostrana in tutte le sue variegate e litigiose componenti? Mi pare una domanda che varrebbe almeno la pena di porre – e che tuttavia nessuno pone. Non mancano certo le voci dei giuristi – anche di grandi giuristi – nel dibattito pubblico italiano attorno ai temi della «legalità». E tuttavia a me pare che problemi come quelli discussi da Mattei restino in larga parte estranei a questo dibattito, dominato – per riprendere l’espressione del grande giurista sovietico Evgenij Pasukanis – da un vero e proprio «feticismo giuridico», dall’idea che il diritto non possa che avere funzioni «positive» di tutela e garanzia (in primo luogo degli interessi dei più deboli). È da questo punto di vista che la critica del diritto praticata da Mattei si rivela davvero preziosa.
Il feticismo giuridico
Due precisazioni sono a questo riguardo necessarie. La prima è che la critica del diritto, pur non potendo che essere al contempo critica del «feticismo giuridico», non è certo cieca di fronte alle funzioni «positive» del diritto stesso. Guarda tuttavia a quest’ultimo dal punto di vista dei rapporti sociali che regola – o, ancora più radicalmente e ancora con Pasukanis, intendendo «il diritto come rapporto sociale». E coglie nella sua materialità un insieme complesso di funzioni, tra cui rientrano senz’altro – ecco il vero rimosso del dibattito contemporaneo – l’organizzazione e l’articolazione giuridica di rapporti di dominio. La seconda precisazione necessaria è che la critica del diritto non è necessariamente patrimonio dei rivoluzionari. Basti pensare, in questo senso al celebre saggio di Franz L. Neumann, Mutamenti della funzione della legge nella società borghese (1937), in cui si mostrava – in uno spirito analogo a quello di Mattei – come nella Germania di Weimar il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge fosse stato trasformato in un vero e proprio baluardo eretto a difesa della proprietà privata contro ogni estensione «sociale» della democrazia. A introdurre l’edizione italiana della raccolta di scritti di Neumann in cui quel saggio è stato pubblicato (Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Il Mulino, 1973), e a celebrarne la «”realistica” utopia democratica», fu un maestro del liberalismo nostrano, Nicola Matteucci.
Ciò detto, è giusto riconoscere che la critica del diritto praticata e proposta da Mattei è radicale, non teme anzi di tornare a nominare la rivoluzione come proprio complessivo orizzonte. È un’opzione meramente ideologica, o retorica, quella di Mattei? Non pare. Il fatto è che quell’opzione è imposta al suo ragionamento dal procedere stesso dell’analisi, dal rigore con cui quest’ultima viene concentrandosi sulle trasformazioni dell’istituto in cui viene riconosciuta la filigrana della rule of law: ovvero della proprietà privata. La sintesi di Mattei è senz’appello: nella proprietà privata si deve identificare «l’istituto giuridico maggiormente responsabile del privativo, della disuguaglianza e della dominazione tipici del modello di sviluppo dominante». Sotto il profilo analitico, tuttavia, il giudizio è ben altrimenti articolato. Cerco di darne conto in poche righe: nata con un preciso riferimento «soggettivo» – l’individuo – e «oggettivo» – i beni «materiali», in primo luogo la terra – la proprietà privata moderna si trasforma radicalmente via via che la grande corporation si sostituisce all’individuo come soggetto proprietario e i beni appropriabili vengono «smaterializzandosi» (cosicché «immagini, informazione, strumenti finanziari complessi, idee innovative» si sostituiscono alla terra come paradigma su cui il diritto proprietario si ridefinisce). Non sono, né l’uno né l’altro, sviluppi recentissimi. Ma è indubbio che nel contesto della globalizzazione capitalistica si sia varcata anche da questo punto di vista una soglia qualitativamente decisiva: e oltre quella soglia, aggiunge Mattei, la proprietà privata torna paradossalmente a presentarsi, come alle origini della modernità, strutturalmente avvinta alle dinamiche dell’appropriazione – ovvero dello spossessamento di enormi moltitudini di donne e uomini attraverso l’uso di vecchie e nuove «recinzioni» (tanto «materiali» quanto «immateriali»).
Ma c’è di più. Seguendo analiticamente questo «processo apparentemente inarrestabile di espansione dell’appropriabilità privata», Mattei mostra come la proprietà privata sia giunta a rompere l’equilibrio con il pubblico, con quello Stato che storicamente ne ha garantito l’organizzazione e la vigenza mantenendo tuttavia una propria autonomia: il pubblico appare ora interamente «colonizzato» dalle logiche della proprietà privata, ne subisce la temporalità breve (il «fare cassa» che si presenta come la traduzione istituzionale del tempo breve dei bilanci trimestrali delle grandi società per azioni) e riorganizza i propri «servizi» in base a principi economici di mera efficienza e profittabilità (uno degli esempi paradigmatici su cui Mattei si sofferma è l’università).
Oltre la miseria del presente
Rotto l’equilibrio tra pubblico e privato, quali alternative si aprono per una prassi politica che sappia ricominciare a tessere la trama di una critica efficace dell’esistente? Non mancano nel volume di Mattei riferimenti alla possibilità di «invertire la rotta» (per riprendere il titolo di un importante volume da lui curato nel 2007 per i tipi del Mulino insieme a Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà), di ripensare la proprietà pubblica in modo tale da restaurare l’equilibrio perduto tra privato e pubblico, nella prospettiva di un rinnovato «controllo democratico dell’economia». Molti sono in questo senso i rimandi a esperienze del passato (in Italia e altrove) che si potrebbero riprendere e adattare alle mutate circostanze. A me pare, tuttavia, che la logica stessa del ragionamento di Mattei lo conduca verso quella «rivoluzione copernicana» a cui fa pure più di un cenno, a investire cioè sulla spinta di nuovi movimenti sociali e politici che conducano «a rendere possibile ciò che oggi appare impossibile»: ovvero la produzione e la conquista di un comune sottratto alla specularità di pubblico e privato, inteso come base materiale di un’esistenza associata finalmente libera dallo sfruttamento. Si apre qui uno straordinario terreno di ricerca teorica e di sperimentazione pratica, in cui il lavoro del giurista può essere fondamentale. Non solo sotto il profilo critico, ma anche nei termini «positivi» dell’invenzione di un nuovo «diritto del comune»: e nel «mondo post-occidentale» in cui stiamo cominciando a vivere, potrà essere preziosa la ricostruzione – a cui Mattei dà alcuni contributi in La legge del più forte – degli «archivi giuridici» non occidentali. A questi ultimi si dovrà guardare non tanto per rinvenirvi «modelli» pre-confezionati, quanto esperienze e suggestioni da lasciare «risuonare» nel nostro presente globale.
È una posizione «rivoluzionaria», quella a cui si è fatto or ora riferimento? Certamente sì. Mi si permetta tuttavia di avanzare il dubbio che, finché non si comincerà a lavorare seriamente alla definizione di un orizzonte radicalmente alternativo alle miserie del presente (e dunque di un orizzonte rivoluzionario), anche le prospettive del «riformismo» rimarranno povera cosa. Non era Lenin del resto, era il vecchio e saggio Max Weber a ricordare che «il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile». Chissà, forse anche Enrico Letta e il suo «pensatoio» potranno trovare utile la lettura del libro di Mattei. Anzi no, loro sicuramente no.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20100921/pagina/11/pezzo/287303/
—
Esce anche in Italia Commonwealth di Negri e Hardt 22.09.2010
Nella distruzione del concetto di “pubblico” – e dell’idea di Stato -, la reazione mette la maschera della rivoluzione [SGA].
Antonio Negri/Michael Hardt, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010
Dopo il comunismo e il capitalismo, oltre Karl Marx e Adam Smith c’è la vera alternativa: il “comune”, ovvero il bene comune. Insieme di conoscenze, linguaggi, affetti, energie, mobilità e natura, questo patrimonio generale è ciò a cui deve tendere la moltitudine se vuole modifi care davvero, dalle radici, l’impero economico odierno. Non attraverso l’insurrezione armata o la violenza sovversiva. Ma con una serie di pratiche che mira a restituire alle masse quello che appartiene loro di diritto, da sempre: la sovranità. In questo ultimo capitolo della trilogia inaugurata da Impero e proseguita con Moltitudine, Michael Hardt e Antonio Negri delineano un modo rivoluzionario di pensare la nostra epoca, completando un’opera destinata a essere per il XXI secolo ciò che il Capitale è stato per il XX. Dalla critica alle teorie del fascismo globale alla marginalizzazione umiliante delle classi produttive, dalle contraddizioni del sistema mondiale alla fi ne progressiva della funzione del capitale, dal fallimento dell’unilateralismo alla crisi che fa ormai da sfondo alla nostra vita, gli autori ci guidano in un percorso in cui modernità e tradizione, passato e futuro convivono. E propongono una serie di azioni politiche indispensabili per opporsi a quei poteri che lavorano non solo per sfruttare in privato ciò che è risorsa naturalmente data alla moltitudine, ma per bloccare la potenza straordinaria di quest’ultima, per arrestare la vitalità di un pensiero e di comportamenti capaci di essere autenticamente collettivi. Un’opera senza pari nel pensiero contemporaneo, un libro ricco e polifonico che cerca di “afferrare la scintilla che manderà a fuoco la prateria”. Per rivoluzionare il mondo ripartendo dalla povertà, dall’amore, dall’uomo.
Toni, tu vuo’ fa l’americano
Andrea Romano, Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2010
Continua qui: http://materialismostorico.blogspot.com/2010/09/esce-anche-in-italia-commonwealth-di.html
—
Il femminicidio di Teresa Buonocore, la nostra Sakineh che preferiamo rimuovere 23.09.2010
Teresa Buonocore, vittima di femminicidio, assassinata perché da madre aveva creduto nello Stato per ottenere giustizia per la figlia stuprata da un criminale pedofilo.
E’ ben più facile affiggere gigantografie ed indignarci per Sakineh Ashtiani o per Teresa Lewis (che sarà uccisa tra 12 ore in Virginia). Ben più difficile è provare scandalo per Teresa Buonocore perché ciò non comporta solo una raccolta di firme o una sterile costernazione per un cattivo lontano.
Teresa Buonocore invece comporterebbe schierarsi, scendere in piazza, affrontare la criminalità che oramai contamina tutto in zone sempre più ampie del paese, la barbarie con la quale conviviamo se Enrico Perillo, lo stupratore della figlia di Teresa, è il condomino che incontri sul pianerottolo.
Teresa lo aveva denunciato e fatto condannare. Teresa aveva paura, l’abbiamo lasciata sola ed è stata uccisa.
Ma se non ci indigniamo per Teresa Buonocore, cosa più può smuoverci?
Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it
—
Catturare l’anidride carbonica con una spugna di tecno-cristalli? 22.09.2010
Dal blog di Sorgenia, azienda che produce energia elettrica da fonte rinnovabile e non, apprendo la curiosa notizia di un recente studio sul Carbon Capture and Storage (CCS), cioè sulle tecnologie in grado di estrarre l’anidride carbonica dai camini delle centrali termoelettriche alimentate da carbone o altri combustibili fossili.
Si tratta di una sorta di spugna fatta di cristalli creati in laboratorio che avrebbero la capacità di catturare una serie di gas, CO2 compresa. Tali gas, in seguito, possono essere rilasciati (si sciacqua la spugna?) e riutilizzati in altri processi industriali. A guidare questo esperimento è stata Deanna D’alessandro, ricercatrice all’università di Sydney, che così descrive il processo:
I cristalli sono composti da fasci di atomi metallici carichi legati tra loro da gruppi di base carbonica. Le strutture molecolari sono simili a quelle delle conchiglie e di microscopiche piante marine dette diatomee. Per questo il nuovo materiale può sostenere l’ambiente umido e caldissimo dei condotti di emissione di una centrale a carbone. Ciò significa che potrebbe essere usato per catturare in maniera reversibile, e poi liberare, la CO2.
Per questa idea la D’Alessandro ha già vinto un premio: i 20.000 dollari del L’Oréal Australia For Women in Science Fellowship che, come dice il nome stesso, è un concorso per donne scienziato sponsorizzato da L’Oreal, la famosa azienda di cosmetici.
In attesa di avere ulteriori riscontri da eminenti chimici e fisici che certamente potranno confermare o smentire le ipotesi della ricercatrice, per precauzione (come sempre accade quando si parla di CCS, concetto nel quale credo assai poco), inserirei la notizia della spugna anti CO2 nella categoria greenwashing.
Via | Efficienza e Sostenibilità
Video | YouTube
—
Veronesi e il pressappochismo nucleare
Pierluigi Adami*, 22.09.2010
“Le scorie non sono un problema. L’uranio, quando è impoverito, non è pericoloso a meno che non lo si prenda in mano. Già a cinquanta centimetri di distanza le radiazioni «alfa» che emette non sono più nocive”… Il desiderio di ricoprire il ruolo di presidente dell’Agenzia per la Sicurezza nucleare ha spinto il professor Veronesi a sostenere tesi avventate che neppure l’AD di Enel sostiene
Sabato 18 il professor Veronesi, oncologo, papabile presidente dell’Agenzia per la sicurezza atomica ha rilasciato un’intervista alla Nuova Sardegna, nella quale risultano affermazioni a dir poco sconcertanti. Rispondendo ad una domanda sulla pericolosità delle scorie radioattive, Veronesi sostiene: “Le scorie non sono un problema. L’uranio, quando è impoverito, non è pericoloso a meno che non lo si prenda in mano. Già a cinquanta centimetri di distanza le radiazioni «alfa» che emette non sono più nocive“.
Un’affermazione del genere sostenuta da chi potrebbe dover presiedere la sicurezza nazionale sull’energia atomica, è davvero inquietante.
Leggendo quell’affermazione, sono sobbalzato dalla sedia. Se l’unica scoria fosse un metallo neanche troppo radioattivo come l’uranio impoverito, ci si chiede allora come mai per decenni tutte le potenze atomiche cercano inutilmente un sito di stoccaggio, spendendo decine di miliardi di euro, come sta avvenendo in Francia, o com’è avvenuto negli USA per il sito della Yucca Mountain, divenuto celebre perché dopo una spesa immensa di miliardi di dollari – pagati dai contribuenti statunitensi – il governo USA lo ritiene ora rischioso e inadeguato.
La verità è che le centrali nucleari producono scorie formate da vari elementi altamente radioattivi, tra cui il bario 141, ma soprattutto il famigerato plutonio 239, che – è bene che tutti lo sappiano – dimezza la sua radioattività in alcune decine di migliaia di anni.
Qui non stiamo parlando di oggetti tranquilli, che quasi si potrebbero maneggiare, come sostiene il professore, ma di metalli radioattivi altamente pericolosi, per cui anche piccole quantità possono inquinare in modo irreversibile un territorio.
E non si raccontino favole su ipotetici nucleari di “quarta generazione” che non esistono. Forse esisteranno tra qualche decennio, e produrranno meno scorie, ma le centrali di oggi, di terza generazione, anche quelle in costruzione, non hanno affatto risolto il problema e restano dunque inquinanti e pericolose.
È bene che i lettori e i cittadini sappiano la verità, ossia che una centrale nucleare produce ogni anno alcune tonnellate di scorie radioattive che non si sa dove mettere e vengono stoccate in modo provvisorio nei pressi della centrale. Conosciuta la verità, ognuno può valutare se il nucleare conviene oppure no.
È bene che si sappia inoltre che ogni centrale “divora” ogni anno trenta tonnellate di uranio arricchito, materiale pericoloso, radioattivo e prodotto all’estero, e dunque da importare eventualmente ad Oristano, magari dopo un bel viaggio lungo la “sicurissima” statale 131.
Quando poi Veronesi fa riferimento al solo incidente di Chernobyl, dimentica di citare le decine di migliaia di incidenti, certo meno eclatanti, che hanno contraddistinto la storia del nucleare e che hanno prodotto la contaminazione di molti territori intorno alle centrali; di questo parlerà stasera la trasmissione di Riccardo Iacona, e invito i lettori a seguirla per avere un’idea.
Visto che il tema nucleare è di estrema delicatezza e complessità, bisogna mantenere ben salda la linea della massima correttezza nell’informazione ai lettori e ai cittadini, al di là di ideologie e di propaganda. Tanto più se a parlare è chi potrebbe dover presiedere la nostra sicurezza. Chi sostiene che le scorie radioattive non esistono non può presiedere l’ente preposto a tutelare la sicurezza atomica.
Veronesi propone poi di costruire centrali nucleari in Sardegna, come hanno già fatto anche il professor Enzo Boschi e la professoressa Margherita Hack; ciò dimostra anche la non conoscenza della capacità del sistema elettrico – solo tra qualche anno sarà pronto il nuovo collegamento con la penisola, costato miliardi, e inadeguato comunque a sostenere la produzione di un impianto nucleare – ma è soprattutto offensiva verso i sardi, che da sempre hanno dimostrato la loro profonda ostilità ad ospitare impianti nucleari o di stoccaggio delle scorie sul loro territorio.
La Sardegna ha già pagato e sta pagando, anche in termini di salute dei cittadini, la scelta sbagliata di installare impianti altamente inquinanti sul proprio territorio.
Comunque non è solo in Sardegna, ma in tutta Italia il nucleare non serve.
Veronesi commette un’altra inesattezza: sono tanti i paesi europei che non hanno il nucleare, e chi ce l’ha ne vuole uscire, o prima o poi. La Germania ha solo prolungato la vita delle centrali esistenti, tra le proteste di migliaia di cittadini che proprio oggi si stanno scatenando; nessun paese europeo appare intenzionato seriamente a costruirne di nuove, a maggior ragione dopo il disastro economico e tecnico delle due centrali citate da Veronesi, a Olkiluoto e a Flamanville. Il motivo è semplice: costano troppo e il costo al kilowattora è più alto di tutte le altre fonti energetiche. Altro che convenienza per i cittadini.
Evidentemente il desiderio di ricoprire il ruolo di presidente dell’Agenzia per la Sicurezza nucleare ha spinto il professor Veronesi a sostenere tesi avventate che neppure l’AD di Enel sostiene. Proprio per questo, ritengo assolutamente incompatibile la sua candidatura ad un incarico così delicato.
* blog: http://www.pierluigiadami.it/blogalexlanger/2010/09/dichiarazioni-avventate-di-ver.html
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15807
—
Chi pensa con la propria testa è un malato mentale? 20.09.2010
Sembrerebbe di sì a giudicare dal Manuale Diagnostico Psichiatrico della American Psychiatric Association (APA), di cui è in corso la quinta edizione (DSM V). In questa revisione, gli psichiatri sperano di potere aggiungere dozzine di nuovi “disordini mentali”. Sfortunatamente, molte di queste così chiamate “malattie” hanno nel mirino persone che semplicemente pensano o si comportano in maniera diversa dalla maggioranza della popolazione.
Scrive Mark Nestmann (sovereignsociety.com): “Metti in questione l’autorità?”. Oppure perdi la pazienza quando senti un politico o una politica fare una promessa che sai non potranno mantenere? Bene, allora potresti rientrare nello Oppositional Defiant Disorder (ODD), che il DSM definisce come “un modello continuativo di comportamento disobbediente, ostile e di sfida verso le figure di autorità”. I sintomi includono:arrabbiarsi, “contrariare le persone” , essere suscettibile. E ci sono altri disordini che hanno fra i sintomi il comportamento antisociale, l’arroganza, il cinismo e il narcisismo. “Molti dei miei lettori sono proprio così”, conclude Nestmann.
Lo ODD focalizza sui bambini, così come lo Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD), categoria diagnostica già oggi ampiamente applicata con relativo uso di psicofarmaci d’elezione (vedi Giannichedda M.G., “Come trattare il bambino terribile”, in Fuoriluogo, novembre 2004). Se il piccolo Mozart cercasse di comporre musica ai giorni nostri, sarebbe forse diagnosticato come affetto da ADHD e trattato con farmaci per riportarlo ad una sterile normalità?- commenta il Washington Post.
Peraltro lo ODD può evolvere nel Conduct Disorder (CD), che per il DSM entra in campo “laddove siano violati i diritti degli altri e le norme sociali. “Violare le norme sociali” diventerà una malattia mentale?
La conversione delle differenze di personalità in disordini psichiatrici è una tendenza pericolosa. Il passo per estendere questi “disordini” agli adulti è breve. Così, gli adulti con un “modello di comportamento negativo, di sfida, disobbediente e ostile verso chi rappresenta l’autorità” potrebbero diventare malati mentali.
Commenta il sociologo Peter Cohen: “E’ un fenomeno che va ben oltre la iper-medicalizzazione. Si tratta piuttosto del trasferimento del potere di definire la normalità ad un corpo centralizzato. Una volta c’erano più “normalità”, definite da diverse entità culturali umane, senza un’ autorità centrale. Così invece, la psichiatria assume le caratteristiche formali di un clero monolitico che diventa l’autorità centrale per definire “il Bene e il Male” secondo un tipo particolare di dominio culturale. E’ una questione di potere, non di scienza.” (g.z.)
http://www.fuoriluogo.it/blog/2010/09/20/chi-pensa-con-la-propria-testa-e-un-malato-mentale/
—
Siria, spiragli nella libertà di informazione
di Pierpaolo Ciancio*
Nuove radio private spezzano il monopolio informativo di Stato, toccando alcune tematiche tabù e proponendo dibattiti che coinvolgono ascoltatori e politici, allentando le soffocanti maglie che opprimono la libertà di parola.
Una conseguenza, questa, dell’entrata in vigore della legge sull’informazione via etere, emanata nel 2005, che permette la nascita e l’attività di stazioni radio slegate dai palazzi di Damasco.
In cinque anni 15 radio commerciali hanno avviato le trasmissioni.
“Trattiamo diversi argomenti, dall’educazione sessuale alla violenza sui minori”, afferma con soddisfazione Honey al-Sayyed, presentatrice del programma mattutino su al-Madina FM. “Possiamo parlare di qualsiasi argomento, eccetto politica e religione”.
Questioni inerenti i governi locali vengono comunque affrontate: il quotidiano talkshow Hwar al-Youm, in onda su Sham FM affronta questioni di competenza delle amministrazioni locali, raccogliendo i contributi degli ascoltatori e ascoltando le argomentazioni dei politici intervistati via telefono.
Poter porre domande in diretta agli amministratori locali all’interno di programmi che non contemplano scalette preconcordate, è una novità inedita in Siria che segna un taglio netto rispetto alle tradizionali trasmissioni delle frequenze di stato.
I passi avanti in materia di libertà d’informazione restano ad ogni modo scarsi.
Forti limitazioni alla libertà di espressione continuano a gettare cupe ombre sul rispetto dei diritti umani nel paese. Numerosi giornalisti sono stati incarcerati nell’arco dell’ultimo lustro, accusati di diffondere false informazioni sul governo. La società civile da tempo chiede la riforma della legge sulla stampa, incontrando l’indifferenza del governo.
“Il fatto stesso che i media siriani dispongano di tutte le libertà necessarie per criticare apertamente il governo rappresenta un enorme progresso della società siriana”, risponde il vice primo ministro Abdullah Dardari, alludendo all’apertura del governo alla carta stampata privata, che ha permesso la nascita – al fianco delle tre testate di governo – di due nuovi quotidiani. Proprietari: due uomini d’affari molto vicini al governo.
“C’è un limite a quanto puoi dire, e questo limite non esiste solo in Siria ma in tutto il mondo”, sostiene Ziad Haidar, editore di al-Watan uno dei due nuovi quotidiani nati nel paese. “Parlo dei regolamenti e delle leggi sull’editoria che non si possono violare. Ci sono inoltre regole sociali che vanno rispettate”.
A questo proposito è bene sottolineare come, al contrario della carta stampata, alle trasmissioni via etere sia concessa solo una licenze di intrattenimento, non di dibattito politico.
“La maggior parte di loro [dei proprietari delle emittenti radiofoniche private, ndr] sono imprenditori. Non hanno interesse ad esporsi e per questo si muovono con leggerezza, con programmi commerciali che non creano problemi”, spiega Ibrahim Yakhour, analista dei mezzi d’informazione.
* per Osservatorio Iraq
[9 settembre 2010]
(fonte: Bbc News)
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=9692
—
Ahmadinejad – Larry King: 4-0 23.09.2010
E’ appena andata in onda sulla CNN l’intervista di Mahmoud Ahmadinejad realizzata da Larry King, in occasione della visita annuale alle Nazioni Unite del presidente iraniano. Contrariamente a quanto avvenuto l’anno scorso, quando King aveva intervistato Ahmadinejad cercando di restare super partes, in questa occasione il conduttore della CNN ha scelto di indossare chiaramente i panni dell’americano, attaccando il presidente iraniano in modo diretto e univoco, su tutte le questioni più importanti attualmente in discusione. In questo modo ha permesso ad Ahmadinejd di ribattere colpo su colpo, finendo per non concedere a King nemmeno un punto in tutta la partita.
Quando King ha chiesto di trattare in modo compassionevole i “turisti” americani che erano sconfinati per sbaglio in Iran un anno fa, Ahmadinejad ha risposto che la sicurezza nazionale viene prima di ogni altra cosa, e che gli Stati Uniti non si sarebbero certo comportati in modo diverso dal loro, in un caso simile.
Quando King ha chiesto notizie su un agente dell’FBI scomparso tre anni fa in Iran, Ahmadinejad ha risposto con tagliente ironia che “dovrebbe essere l’FBI a fare più attenzione a dove vanno a finire i suoi uomini.”
Quando King ha detto che “il mondo è preoccupato per la possibilitò che l’Iran venga in possesso di armi atomiche”, …
… Ahmadinejad gli ha chiesto “che cosa intende esattamente, per ‘il mondo’?” E poi ha aggiunto, con il solito sorriso sornione: “A me risulta che il mondo sia molto grande, e che ci siano moltissimi paesi che non solo non si preoccupano affatto di questa eventualità, ma che vedono addirittura con favore lo sviluppo pacifico dell’energia atomica in Iran”.
Costretto a ridurre la sua definizione di “mondo” a Stati Uniti ed Israele, King si è sentito rispondere “E perchè mai noi dovremmo farci carico di tranquillizzare questo signor Netaniahu? Chi è costui, per meritare così tanta attenzione da parte nostra?” E poi ha aggiunto: “Anzi, a quel che ne so io Netaniahu è un criminale professionista, che ha uccisio decine di migliaia di civili innocenti, e che andrebbe processato davanti ad un tribunale internazionale. Invece voi siete qui a chiederci di farlo dormire tranquillo di notte”.
E quando King ha provato ad insistere sulla faccenda del rischio atomico, si è sentito rispondere che “la bomba atomica è l’arma più orribile di questo mondo. Non solo l’Iran non ce l’ha e non intende costruirla, ma bisognerebbe piuttosto disarmare al più presto chi la possiede, ovvero gli Stati Uniti e Israele. Sono loro a mettere per primi a repentaglio la sicurezza mondiale, mentre accusano gli altri di farlo.”
King a quel punto si è salvato in angolo, chiamando la pubblicità.
Nel segmento successivo King ha deciso di attaccare Ahmadinejad sul fronte dei diritti umani, accusandolo di non permettere le libere proteste in Iran. Per tutta risposta Ahmadinejad gli ha ricordato che poco tempo fa, a Pittsburgh, la polizia ha selvaggiamente caricato i dimostranti che protestavano contro il G8. “E lei mi vorrebbe dire – ha chiesto Ahmadinejad alla fine – che in America invece c’è la libertà di protestare?”
“Ma noi non li mettiamo in prigione!” ha provato a replicare King. “Ah no? – lo ha deriso Ahmadinejad – mi vuole forse dire che gli oltre 2 milioni e mezzo di cittadini attualmente in prigione in America sono tutti assassini, criminali o spacciatori di droga?”
A quel punto King ha pensato bene di ripiegare su quello che riteneva il suo asso nella manica, ovvero la famosa donna iraniana condannata alla lapidazione, ma anche in questo caso gli è andata male. Ahmadinejad gli ha risposto serafico che “prima di tutto la condana definitiva non è ancora stata emessa. In secondo luogo, quella della lapidazione è una storia falsa, inventata di sana pianta da un giornalista tedesco, e ripresa subito da tutti i media occidentali.”
Che fosse vero o no, King non ha saputo replicare, e anche in questo caso ha invocato la pubblicità.
Il terzo round è stato dedicato da Larry King ai rapporti con gli USA e alle sanzioni internazionali. Alla frase di King “Hillary Clinton ha detto che l’Iran sta soffrendo pesantemente per le sanzioni internazionali”, Ahmadinejad non ha saputo trattenere una mezza risata, e ha risposto che loro sono talmente abituati alle sanzioni, che incombono sull’Iran da circa 30 anni, che ormai non ci fanno più caso. “Anzi – ha aggiunto Ahmadinejad – tutte queste sanzioni hanno finito per stimolare la nostra fantasia, portandoci a trovare soluzioni sempre più nuove e produttive per la nostra economia. Piuttosto – ha aggiunto, diventando improvvisamente serio – mi spiega perchè gli Stati Uniti si permettono di applicare all’Iran sanzioni molto più gravi di quelle autorizzate ufficialmente dalle Nazioni Unite? Tutto questo non è illegale forse?”
Pubblicità.
L’ultimo round non poteva che essere dedicato ad Israele, e King è partito all’attacco, dicendo ad Ahmadinejad che “Fidel Castro di recente l’ha criticata per non saper riconoscer il giusto ruolo dell’antisemitismo nel mondo”.
“Guardi – ha replicato Ahmadinejad serafico – proprio ieri ho ricevuto un messaggio da Fidel Castro, il quale mi diceva che di non aver mai pronunciato quella frase. Le sue dichiarazioni sono state completamente distorte, come al solito, dalla stampa occidentale”. Mentre King barcollava, Ahmadinejad ne ha approfittato per contrattaccare: “Piuttosto, mi dica lei, perchè gli Stati Uniti continuano a proteggere e ad aiutare in modo così plateale lo stato di Israele?”
Fingendo ovvietà, King ha risposto: “Perchè sei, sette milioni di loro sono stati uccisi durante l’olocausto, noi siamo un paese umanitario, e li vogliamo aiutare”.
“Ah sì? – ha replicato Ahmadinejad con sarcasmo – davvero quello è il motivo? Allora lei vuole dire che, poichè è appena stato ucciso un milione di iracheni, i sopravvissuti hanno diritto di venire ad esempio in America, e costruire qui la loro nazione?”
King non sapeva più dove aggrapparsi, ma Ahmadinejad non gli ha dato tregua, aggiungendo: “Durante la guerra, se è solo per quello, sono morti 80 milioni di persone. Questo vuol dire che dobbiamo dare una terra a tutti i sopravvissuti di tutte quelle nazioni?”
Insomma, non c’è stato modo per l’esperto giornalista di portare a casa un solo punto per la sua “nazione”. Anzi, talmente esperto è Larry King, e talmente brutta è stata la figura che ha fatto con Ahmadinejad, che viene quasi il dubbio che l’anziano “Mr. Bretella” abbia deciso di immolarsi volontariamente, pur di permettere ad Ahmadinejad di dire cose che nessun altro al mondo ha il coraggio di dire. Lui compreso, probabilmente.
Massimo Mazzucco
http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=3615
—
I4P, cosa è successo a New York 22.09.2010
Di Riccardo Luna
DISCLAIMER: L’articolo di Riccardo Luna – con il titolo “La cosa giusta” è stato inizialmente pubblicato da Il Post.
Pensieri in corsa, per fermare i ricordi prima che scappino via. L’abbraccio con Shirin Ebadi al suo arrivo, Nicholas Negroponte in posa con la maglietta “I am a Nobel Peace Prize Candidate“, il video incredibile che ci era giunto nella notte da Pisa: la bandiera di Internet for Peace che sventola in cima alla Torre più famosa del mondo. Tanto, troppo per non commuoversi.
Dunque era martedì, poche ore fa, ma un altro giorno, un altro tempo ormai. Io sono arrivato al Paley Center for Media alle nove, ma ero sveglio dalle sei. Se dicessi che non ero emozionato direi una bugia. Ma anche se dicessi ero emozionato in fondo direi una bugia. La verità è che ero pietrificato dall’emozione. Se mi aveste visto a mezz’ora dal via, mi avreste visto mentre saltavo a piedi uniti sul palco come se dovessi partire per una maratona. E in fondo lo era. Solo che ero alla fine. Stavo per chiudere dieci mesi di campagna per il Nobel a Internet, a New York, nella giornata mondiale della Pace. Era un sogno? E soprattutto, l’evento avrebbe “funzionato“? Un conto è fare una cosa in Italia, dove più o meno sappiamo come muoverci, un altro negli Usa. Non avevamo fatto neanche una prova tecnica ed io avevo predisposto una scaletta “lunare“, piena di cambi di ritmo, video, sorprese. Per questo sono arrivato al teatro alle 9: per incontrare i ragazzi che avevamo preso per la produzione (la società di chiama eventquest, ve li raccomando): Laurence, il capo, ed una sua assistente con l’auricolare che mi ha dato subito un’idea di grande efficienza. Abbiamo messo in fila tutto, e alcune cose le ho viste lì per la prima volta.
Intanto, il teatro. Bello, davvero, con il pubblico che ti sale davanti, duecento posti, e un grande schermo alle spalle del podio. La sera prima di noi qui c’era Bill Gates che lanciava una iniziativa per la Fondazione di Mandela. Quando siamo arrivati alla fine della scaletta, ovvero al video che ha vinto il contest lanciato su YouTube – parla delle lacrime di un calciatore coreano – ho sentito un groppo in gola: altro che coreano, qui vedranno le mie di lacrime se non mi controllo.
Tranquilli. Mi sono controllato.
Alle 11 è arrivata Shirin, sorridente, semplice, tostissima. L’avevo incontrata il giorno prima nel suo hotel e mi aveva detto: “Quanto tempo ho per il mio discorso? Un’ora?“. No Shirin, un’ora è tutto il tempo che abbiamo a disposizione. La considero ormai una amica, e le sono infinitamente grato per aver guidato la campagna per il Nobel dal primo giorno, lei che ogni giorno della sua vita si batte per difendere i diritti umani dei più deboli.
L’arrivo di Nicholas Negroponte mi ha illuminato: non lo sentivo da un po’ e anche se via mail aveva confermato la presenza, vederlo lì, carismatico al massimo, è stato bello. L’ho presentato alla Ebadi: “Lui è Nicholas! Ti ricordi che volevi conoscerlo per mandare i computer di OLPC ai bambini iraniani?“. “Sì, ma la situazione politica si è molto complicata“, ha sorriso lei. “Appunto, Shirin, è il momento giusto per mettere dei laptop in mano ai bambini” è intervenuto Negroponte suadente. Poi sono rimasti a parlare fitto fitto (Shirin con la sua inteprete per l’inglese) e credo che nascerà qualcosa di buono. Alle 11.30, l’ora prevista per iniziare, la sala non era piena, peccato, e qualcuno mi ha detto: aspettiamo un quarto d’ora, in Italia si fa così. Non a New York: Laurence è comparso dalla regia e mi ha intimato: Two minutes! Ok, respiro.
Per non iniziare “a secco” avevo deciso di far partire subito il video-manifesto che Paolo Iabichino aveva realizzato all’inizio di questa avventura. “Abbiamo finalmente capito…“. Erano quelle parole il motore di tutto, era giusto così. Quando le luci si sono riaccese, nel silenzio più assoluto ho iniziato così: “So…“. L’inglese mi usciva meccanico, come se le frasi facessero una fatica immensa per passare attraverso i cunicoli dell’emozione prima di vedere la luce. Ma uscivano. Ed erano quelle giuste.
A New York finiva – per ora -un lungo viaggio. Esattamente dieci mesi prima, il 21 novembre, in un altro teatro, a Milano, avevamo per la prima volta detto che Internet è un’arma di costruzione di massa. Quel manifesto era diventato una candidatura al Nobel. Quella candidatura una discussione infinita. Questo celebravamo a New York: il fatto che per trecento giorni filati, ogni giorno, quasi ogni ora, qualcuno, da qualche parte del mondo avesse scritto un post, girato un video, aggiunto un commento, mandato un tweet per parlarne. C’erano i favorevoli, naturalmente, e i contrari, ma poi c’erano quelli che dicevano: “Strana idea ma mi piace, comincerò a considerare Internet anche da questo punto di vista, comincerò a usarlo per costruire un mondo migliore“. Ecco, quelli erano i più importanti.
Ho preso fiato. In scaletta avevo messo subito un video molto bello, che mi serviva a recuperare lucidità e calma, ed a scaldare l’atmosfera. Avevo fatto montare in un’unica clip tutti i messaggi giunti sul canale YouTube: tutti in un unico discorso, uomini e donne, di tutto il mondo che provavano a convincere chi li stava guardano che sì Internet merita il Nobel. Il più bello purtroppo lo avevo dovuto tagliare: veniva dal Peru, un papà e il figlio che da un paesino sulle Ande parlano di quanto per loro sia importante “essere connessi“. Le parole erano formidabili ma le immagini troppo sgranate. Il primo, lungo applauso della mattina mi ha riaccolto sul palco.
Era il momento di Shirin, del suo keynote speech. Per spiegare perché avevamo scelto lei quale first ambassador del progetto ho usato una immagine bellissima, di una ragazza iraniana con scritto sulla parte interna delle labbra “Blog On” (grazie a Gabriella Morelli e a Good Design per avermela mandata al volo). Shirin è stata momumentale: ha ricordato i fatti iraniani, il ruolo della Rete, ha citato Amadinejad senza citarlo, lo ha chiamato “il presidente”: “Dice che l’Iran è il paese più libero del mondo ma grazie alle rete sappiamo che non è vero“. L’ho trovata ancora più convinta del ruolo positivo di Internet rispetto a quanto la campagna iniziò. Si è sbilanciata: “Internet merita il Nobel, quest’anno non ci sono altri che lo meritano di più“. Poi ha raccontato che il presidente del comitato di Oslo le ha detto che nessuna candidatura nella storia del Nobel ha avuto tanti consensi come questa. Io l’ho abbracciata di nuovo mentre il pubblico applaudiva “un vero premio Nobel per la Pace“, e io promettevo solennemente di aiutarla nelle prossime campagne che sta per lanciare.
Toccava a Negroponte. Mi aveva chiesto di avere in background una foto di due ragazze che a Gaza usano i laptop verdi di OLPC. Nicholas è stato funambolico, come sempre. Domina la scena. Ci ha raccontato di quando, qualche anno fa, ad una riunione con quelli che si occupavano di Internet (“all’epoca ci conoscevamo tutti per nome“), si fece una previsione su quante persone nel mondo avrebbero usato Internet nel 2010. “Diecimila? Centomila? Io dissi un miliardo e tutti scoppiarono a ridere“. Sono tornato sul palco e ho dato a Nicholas la maglietta ufficiale “I’m a Nobel Peace Prize Candidate“, un auspicio, magari sarà lui a ritirare il premio ad Oslo. Assieme abbiamo chiamato Maria Emma Mejìa: un’altra donna da ricordare, è stata ministro in Colombia ed ora è executive president della Fondazione di Shakira “Piez Descalzos“, che porta i computer ai bambini colombiani. “Credo che così potremo costruire la pace nel mio paese“. Nicholas le ha dato un laptop, lei un quaderno con le foto dei bambini. Applausi.
Poi un altro video, a sorpresa anche per me. Arrivava da Parigi dove venerdì c’era stato il concertone diPeace Now! Jude Law spiegava perché anche lui, anche loro, sostengono il Nobel per la Pace a Internet. Io non lo conosco Jude Law, perché lo faceva? Mi ha colpito la sua determinazione, e mi ha fatto piacere.
A quel punto in scaletta sarebbe stato il momento di Yoani Sanchez. Ma come sapete Castro le ha negato il permesso di venire. Allora ho mostrato una la lettera che aveva mandato a Wired a febbraio, e visto che alla platea avevo già inflitto il mio inglese, ho chiesto ad una amica latino americana che era fra il pubblico, di leggerla in spagnolo. E’ stato bello.
Ho quindi aperto la pagina dedicata al ruolo dell’Italia, citando i 160 parlamentari che hanno sostenuto la candidatura e ho dato la parola al professor Riccardo Viale, neo direttore dell’Istituto italiano di Cultura a New York. “Anche io sono con voi“, ha concluso e assieme abbiamo guardato il video più incredibile che possiate immaginare. La Torre di Pisa circondata da bambini con la nostra maglietta e il sindaco che fa un discorso dalla cima mentre sventola la bandiera I4P: “Questa città è la culla dell’informatica italiana e sostiene il Nobel a Internet“. Eravamo stupefatti. E io ormai tranquillo, il più era andato.
Finale con Google, il loro direttore Public Policy a Washington Alan Davidson, reduce dall’Internet Governance Forum di Vilnius. Il suo discorso, pratico e realista, mi ha consentito di aggiungere, che va bene il Nobel, va bene il dibattito, ma adesso dobbiamo impegnarci per i due obiettivi che contano davvero: la banda larga a tutti e la libertà sulla Rete. Abbiamo chiamato sul palco Sean Kim, il vincitore del contest di YouTube: è coreano, vive in North Carolina e si occupa di social network. Se vi capita, il video guardatelo: è clamorosa la produzione che ha messo su in quattro continenti. Il sapore è molto “we are the world” della Rete, ma è efficace. Impressionante. Mi spiace per i secondi classificati, italiani, con la musica dei Tre Allegri Ragazzi Morti: bello anche il loro lavoro ma i coreani non si battevano.
Saluti, ringraziamenti, dediche, ve li risparmio. Due piccole note. Nel pomeriggio New York pullulava di eventi politici per il Millennium Development Goal delle Nazioni Unite. Si parlava di cose grosse insomma. Mi ha intristito vedere un nostro ministro passare un tempo interminabile in un negozio downtown, Uniqlò, ed uscirne con una ventina di buste aiutata da due uomini dei servizi segreti a caricarle su un Suv. Non sono un moralista, credetemi, ma mi piacerebbe che un ministro che è a New York per lavoro, si occupasse delle sorti del mondo. Almeno provasse a dare un contributo. Per lo shopping c’è tempo e momenti più opportuni. Seconda nota: ho caricato su Facebook una mia foto “dopo“, sfatto ma felice. Forse più sfatto che felice. Qualcuno guardandola ha commentato preoccupato: “Sei invecchiato 10 anni“. Forse sì, ma non importa: sto bene, mi porto nel cuore la sensazione impagabile di aver avuto la fortuna di poter fare la cosa giusta.
http://www.wired.it/i4p/archivio/2010-09/22/i4p,-cosa-e-successo-a-new-york.aspx
—
Colombia: morto capo militare delle Farc 23.09.2010
In conflitto a fuoco con l’esercito nei pressi di La Macarena
(ANSA) – BOGOTA, 23 SET – Victor Julio Suarez Rojas, il capo militare delle Farc, la guerriglia marxista colombiana, e’ morto in un conflitto a fuoco con l’esercito.
La morte del comandante, ‘Jorge Briceno’ o ‘Mono Jojoy’, e’ stata confermata dal Pg della Colombia, Guillermo Mendoza.’Dalle informazioni che ho ricevuto dalla direzione investigativa -dice Mendoza-, posso confermare che l’operazione e’ stata nei pressi di La Macarena. Tra i cadaveri dei guerriglieri uccisi e’ stato identificato quello di ‘Mono Jojoy”.
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2010/09/23/visualizza_new.html_1760328620.html
—
Da Portici alla Virginia alla Colombia: giustizia (mediatica) è fatta 24.09.2010
Teresa Lewis è stata giustiziata stanotte. La stampa mondiale non se n’è data cura. Quella italiana è giustificata, troppo impegnata con la cucina monegasca perfino per parlare del femminicidio di Teresa Buonocore.
Invece ha fatto breccia la morte di Jorge Briceño, il Mono Jojoy, uno dei capi militari storici delle FARC colombiane, ucciso in un’azione di guerra smisurata, 32 aerei, 27 elicotteri, centinaia di uomini, un bombardamento massiccio e indiscriminato del quale ci racconta Guido Piccoli.
L’ottimo Simone Bruno, ai microfoni di SkyTg24, ha ben descritto come si sia messa per l’ennesima volta in scena una “demonizzazione del nemico” perfettamente orchestrata e inoculata dai media. Simbolo di ciò è sempre più El País di Madrid (immagine) che definisce direttamente il corpo di Briceño come il corpo “del narco” (narcotrafficante) e parla di lui e degli altri guerriglieri come dei “narcos abbattuti”.
Diventa a questo punto superfluo perfino lo storico dibattito sull’uso antitetico di termini quale “guerriglia” e “terrorismo”. Perfino terrorista è poco per Briceño e per quella ventina di ragazzi che sono morti con lui. L’odio, va da sé, non serve a spiegare, ma solo a schierare e a rafforzare la negazione dei motivi di 40 anni di guerra civile colombiana nella costruzione di un presente edulcorato fatto di buoni, il governo, e cattivi, i narcoterroristicomunisti.
Come abbiamo già scritto in queste pagine, stiamo assistendo ad un rafforzamento dei monopoli dell’informazione e dell’imposizione del pensiero unico. E’ un rafforzamento che sembra un indurimento ed una rinnovata capacità di posizionamento rispetto al ruolo svolto da Internet e dal giornalismo partecipativo. Fino a qualche anno fa esecuzioni particolarmente repellenti come quelle di Teresa Lewis bucavano lo schermo ed erano rintuzzate solo in quanto “antiamericanismo”. Oggi Teresa può morire nel sostanziale silenzio. La sola valvola di sfogo di Internet non basta a commemorarne la vita disgraziata e la morte sempre ingiusta. Quindi lo spot “United States”, l’odio antiamericano, non serve più a fare pubblicità, nonostante Pierluigi Battista sul Corriere abbia riciclato per la trentesima volta lo stesso articolo scritto vent’anni fa e rispolverato ogni volta cambiando solo i nomi.
Al contrario è divenuto facile solidarizzare con una Sakineh scelta non a caso tra le mille Sakineh di questo triste tropico planetario. L’uso delle gigantografie al quale i nostri comuni si prestano docilmente è una catarsi che ci fa sentire molto “we are the world”. A pensar male si fa peccato (e ribadisco la solidarietà a Sakineh) ma se Sakineh avesse avuto i lineamenti grossolani di Teresa Lewis, se non avesse avuto quel volto dolce, avrebbe avuto la stessa solidarietà? Se invece che iraniana fosse stata saudita?
Non smettono nello stesso contesto di essere scandalosi, in un continente dove i prigionieri politici restano migliaia, i milioni di parole dedicate a una ventina di presunti prigionieri politici cubani che, stando ad Amnistia Internazionale, che pure ne stigmatizza a buon diritto la carcerazione, non rischiano né tortura né morte e sicuramente non prefigurano quel “gulag tropicale” dal quale Yoani Sánchez è libera da anni di raccontarci minuziosamente. Conosciamo perfino la pressione arteriosa del dissidente cubano Guillermo Fariñas in sciopero della fame e abbiamo letto ovunque della morte di Franklin Brito in Venezuela, ma non una riga passa, in una virtuale orwelliana censura mondiale, delle centinaia di prigionieri politici mapuche in Cile processati e condannati ancora secondo le leggi dettate da Augusto Pinochet.
L’agenda setting mondiale per l’America latina ricorda molto quello di un paese incartato come l’Italia, impegnato da mesi a parlare del cognatissimo di Fini, della sua Ferrari e della sua casa di Montecarlo, una pagliuzza in confronto ai mille travi che si occultano, la fedina penale di mezzo parlamento, la fine della Repubblica fondata sul lavoro, il femminicidio di Teresa Buonocore, mentre cade il velo e la farsa della monnezza nascosta sotto il tappeto riemerge.
C’è qualcosa di vertiginosamente, intollerabilmente scandaloso in questo agenda setting imposto con grande malizia che stravolge completamente dimensioni e gravità delle cose. Torniamo alla Colombia, paese importante del quale si parla solo in limitatissimi casi. Ogni tanto passano numeri che al grande pubblico non possono non risultare incomprensibili. Com’è possibile spiegare con la presenza di 20 o 30.000 guerriglieri (comunisti, terroristi, narco, sanguinari…) il fatto che in Colombia ci siano 3 o 4 milioni di “desplazados”, profughi, e che altrettante persone si sono nel frattempo stabilite in Venezuela, aggravando di molto i problemi di quel paese? A leggere i giornali le FARC esistono perché sono narcoterroristi e perché il negraccio dell’Orinoco, Hugo Chávez, li “foraggia”. Ammettiamo per un attimo che sia vero e che sia tutta la spiegazione, anche se ciò vorrebbe dire che le FARC siano dei marziani piovuti dal pianeta Candanga senza alcun radicamento nella storia colombiana.
Ma non avranno ragione studiosi come il nostro Guido Piccoli quando sostengono in maniera documentata che non più del 3% della violenza, dei profughi e del narcotraffico siano attribuibili alla guerriglia e che il resto vada attribuito all’esercito, ai paramilitari, ai narco veri che fanno affari con la parapolitica, all’agroindustria esportatrice che ha sottratto in questi anni milioni di ettari ai contadini che perciò hanno ingrossato le file dei profughi? Se Piccoli ha ragione, e ha ragione, non si vergognano i grandi media a presentare una realtà virtuale nella quale la guerriglia è descritta come “il problema”?
E’ una realtà virtuale, altro che realismo magico, per la quale Álvaro Uribe e perfino Felipe Calderón sono degli angeli. Hugo Chávez e perfino Pepe Mujica invece sono dei demoni. Angeli e demoni. Malizia e ignoranza. Ieri “La Stampa” di Torino presentava come l’ennesima stravaganza di Chávez il divieto di vendita di alcolici nel giorno delle elezioni. Personalmente faccio fatica (se esiste) a trovare un solo paese latinoamericano dove sia permesso vendere alcolici il giorno delle elezioni. La verità è che non solo anche nelle precedenti elezioni venezuelane era vietato vendere alcolici, ma che è vietato vendere alcolici in tutte le elezioni di tutto il continente.
Ma che ne sa “La Stampa” e, soprattutto, cosa importa. Il buon giornalismo non è verificare, raccontare e contestualizzare quello che accade. Il buon giornalismo, quello che paga gli stipendi, è quello che a tavolino decidono di rappresentare secondo interessi terzi. Il fatto che non si peritino mai di verificare e considerino da anni El País di Madrid come la velina unica per raccontare l’America latina, facendolo passare come un osservatore neutrale e perfino progressista della realtà latinoamericana, è esemplificativo di questo mix di malafede e ignoranza.
Chi scrive è stato probabilmente l’unico in Italia a denunciare, qui e ai microfoni di Radio3 Rai, il caso delle povere donne del Guanajuato, indigene, contadine, analfabete, condannate da una mostruosità giuridica anche a 30 anni di carcere per avere abortito. Al mondo ci sono mille casi come quello delle povere donne di Guanajuato ma, guarda caso, difficilmente giunge agli onori della cronaca quanto è considerato scomodo per governi amici come quello messicano, colombiano, egiziano, saudita. Per non parlare del libico da noi.
Come per Teresa Lewis giustiziata stanotte (e della quale si è parlato solo per la strumentalizzazione di Ahmedinejad) e come per il femminicidio di Teresa Buonocore a Portici, era difficile che le povere donne di Guanajuato bucassero il monoscopio. La loro era solo una drammatica, scomoda notizia e, come diceva in “Fortapásc” il collega anziano e accomodante di Giancarlo Siani, il giovane cronista ammazzato dalla camorra giusto 25 anni fa: “Gianca’, ’e notizie so’ rotture ‘e cazzo”. Molto meglio le veline.
Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it
—
Le 10 Strategie di Manipolazione Mediatica 22.09.2010
Il linguista Noam Chomsky ha elaborato la lista delle “10 Strategie della Manipolazione” attraverso i mass media.
1-La strategia della distrazione
L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti.
La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica. “Mantenere l’Attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza. Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).
2- Creare problemi e poi offrire le soluzioni.
Questo metodo è anche chiamato “problema- reazione- soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia chi richiede le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3- La strategia della gradualità.
Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni 80 e 90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta.
4- La strategia del differire.
Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, nel momento, per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato. Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.
5- Rivolgersi al pubblico come ai bambini.
La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Quando più si cerca di ingannare lo spettatore più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedere “Armi silenziosi per guerre tranquille”).
6- Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione.
Sfruttate l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, infine, il senso critico dell’individuo. Inoltre, l’uso del registro emotivo permette aprire la porta d’accesso all’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti….
7- Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità.
Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.
* “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori”.
8- Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità.
Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti …
9- Rafforzare l’auto-colpevolezza.
Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è rivoluzione!
10- Conoscere agli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano.
Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia nella sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.
Fonte: http://www.visionesalternativas.com.
Traduzione per Voci Dalla Strada a cura di VANESA: http://www.vocidallastrada.com/2010/09/le-10-strategie-di-manipolazione.html.
—
“Grazie Terra Madre Sai battere la fame” 24.09.2010
L’economista cileno Max-Neef ospite dell’edizione 2010. «E’ un esempio da seguire per migliaia di progetti nel mondo»
ROBERTO GIOVANNINI
Ci sono centinaia di gruppi che fanno una piccola cosa qui, una piccola cosa là. Li potremmo definire quasi un sistema immunitario del pianeta. Quando sei malato, senti di star male, ma non vedi il tuo sistema immunitario che lavora freneticamente per farti tornare alla piena salute. È quello che succede oggi nel mondo: ci sono migliaia di gruppi che fanno tante piccole cose importanti». Manfred Max-Neef, 78 anni, è un economista e ambientalista cileno. Impegnato sui temi dello sviluppo e della povertà, ideatore della teoria dei «bisogni umani fondamentali», Max-Neef parteciperà all’edizione 2010 di Terra Madre a Torino. «Non vado per insegnare – spiega – ma per imparare. Ho incontrato Carlo Petrini, e ho trovato il suo lavoro tremendamente creativo e soprattutto utile. Terra Madre è un’iniziativa che ha tutte le caratteristiche di intelligenza, sensibilità, estetica tanto necessarie in questo brutto mondo».
Perché il mondo non va come dovrebbe andare? Perché si produce più cibo di quel che servirebbe a sfamare tutti, eppure quasi un miliardo di persone hanno fame?
«Per colpa del modello economico dominante neoliberale, secondo cui l’economia è più importante degli esseri umani. Qualcuno deve soffrire perché i profitti aumentino? Non è un problema. Per questo c’è la fame, per questo ci sono tanti ammalati: molti Paesi poveri, in Africa soprattutto, potrebbero produrre medicine sulla base delle formule originali, ma devono comprarle dalle multinazionali del farmaco a prezzi insostenibili. Le cose sono organizzate perché chi è ricco diventi sempre più ricco».
Tuttavia il sistema capitalistico ha avuto un successo eccezionale, moltiplicando ad esempio la capacità produttiva di prodotti e cibo. Sulla carta è più che mai alla portata la possibilità di distruggere la fame nel mondo.
«La possibilità c’è. Ma non succede. Fame e povertà sono strettamente collegate, ed è evidente che per il modello dominante la povertà è un fattore indispensabile. Se un’azienda non è più competitiva negli Usa si sposta in Indonesia: lì trova ragazzine di 15 anni che fanno scarpe che costano 6 dollari per farle e che vengono vendute a 135 dollari. Per questo, a mio giudizio, quando le istituzioni finanziarie mondiali parlano di lotta alla povertà in realtà sono solo parole ipocrite. Si fanno piccoli interventi, piccoli progressi, ma una radicale eliminazione della fame e della povertà non è sull’agenda. Si vuole una prova? Dall’ottobre 2008, con l’esplosione della crisi finanziaria, sono stati impegnati 13 milioni di miliardi di dollari. Ci dicono che per sconfiggere fame e povertà non ci sono risorse sufficienti. Invece si sono trovati 13 triliardi per salvare gli speculatori. Sapete a quanto equivalgono? A 800 anni di un mondo senza fame. Vedete bene che l’ipocrisia tocca livelli astronomici».
Eppure il capitalismo appare imbattibile. Per la trasformazione radicale che lei auspica, da dove si deve cominciare?
«A livello locale, di base. Non ci si deve aspettare soluzioni macro calate dall’alto. Non accadrà. Eppure, proprio in questo momento ci sono migliaia e migliaia di piccole e grandi iniziative che nascono localmente. Parlando di cibo, ad esempio, questo vuol dire spostare la produzione vicino al consumo. Non si può andare avanti con assurdità come importare burro da migliaia di chilometri di distanza in un luogo che già produce burro. È un’assoluta follia, anche per l’impatto ecologico che genera. Occorre un’intensa opera di rinnovamento che parte dal basso, un processo già in atto, ma che sembra non toccare i governi. I governi non sono interessati, non agiscono. La speranza è una risposta della società civile: alle soluzioni politiche non ci credo».
Il cambiamento dal basso, però, è un percorso lento, che chiede tempo…
«Certo che richiede tempo, ma è l’unica strada percorribile. Perché cercare soluzioni politiche serve solo a perdere molto più tempo. Pensiamo al vertice sul clima di Copenhagen: un altro fallimento, quanti anni ancora si dovrà aspettare? Non possiamo più fidarci dei governi, tocca alla società civile fare le cose. Ovviamente, la speranza è che un giorno la società civile possa insegnare ai politici a governare bene: ma è solo una speranza».
Aveva parlato della recessione. Si è parlato della crisi finanziaria come uno shock che avrebbe cambiato tutto, e invece…
«…invece ben poco è cambiato. La ragione è una sola: la stupidità. Pare quasi che quando una persona si mette a fare il politico, nel suo cervello avvenga una strana trasformazione chimica. Si smette di capire, di comprendere, di vedere la realtà».
http://www3.lastampa.it/costume/sezioni/articolo/lstp/335602/
—
ENERGIA. Nucleare bye bye? 23.09.2010
Agenzia ferma, mappa dello stoccaggio in “frigo”. E la scadenza del 2013 che si avvicina…
L’ultimo atto formale è di questi giorni. Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, in qualità di ministro ad interim dello Sviluppo Economico, ha scritto alla Sogin (società interamente partecipata dal Tesoro) chiedendo di posporre la divulgazione della lista dei siti adatti allo stoccaggio delle scorie per il futuro. Motivo: non si è ancora insediata l’Agenzia per la sicurezza nucleare.
Di quest’ultima si sa solo, per ora, che c’è un autorevole candidato alla sua presidenza, Umberto Veronesi, che in più occasioni durante l’estate, ha dichiarato la sua disponibilità (e i motivi per cui, al contrario della maggioranza del suo partito, è favorevole al nucleare).
Per il resto, tutto fermo. Anche perché, e non è secondario, a mancare è anche il ministro dello Sviluppo economico. il programma nucleare era stato fortemente voluto e avviato da Claudio Scajola. La vacatio sicuramente ha sicuramente messo un freno alla corsa del treno atomico.
In realtà il piano della Sogin è pronto e sui suoi contenuti, nonostante il tentativo di tenerli in cassaforte, sono trapelati parecchi dettagli. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, la Sogin , avrebbe individuato 52 aree adatte ad ospitare il deposito per le scorie radioattive, scarti del processo di fissione nucleare. Le zone, dalle dimensioni di circa 300 ettari, sono sparse sull’intero territorio italiano “con particolare riferimento al Viterbese, alla Maremma, all’area di confine tra la Puglia e la Basilicata, le colline emiliane, alcune zone del Piacentino e del Monferrato“.
Ma senza Agenzia restano solo ipotesi su carta. L’Agenzia per la sicurezza è l’autorità di controllo sul settore ed è elemento cardine di tutti gli iter per la realizzazione di una centrale. La nomina del presidente dell’Agenzia spetta al presidente del Consiglio, mentre due membri sono designati dal ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare e due dal ministro dello Sviluppo economico (che appunto, per ora, non c’è): l’iter prevede l’emanazione di un Dpcm dopo il parere favorevole delle commissioni parlamentari.
Per il funzionamento dell’Agenzia le nomine non saranno sufficienti: sarà infatti necessario varare il regolamento, perché l’organismo possa iniziare a operare. Non solo: il ritorno all’atomo potrà avvenire soltanto dopo l’approvazione della Strategia nucleare italiana. Si tratta di una sorta di documento programmatico, che delinea gli obiettivi strategici in materia nucleare, tra i quali la protezione dalle radiazioni ionizzanti e la sicurezza. Il documento, dato in arrivo per ottobre dal sottosegretario Stefano Saglia, viene emanato sotto forma di decreto del Consiglio dei Ministri su proposta del ministero dello Sviluppo, che si avvarrà dell’Agenzia, di concerto con il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, con il ministro dell’Ambiente e con quello dell’Istruzione, dell’università e della ricerca.
Per quanto riguarda infine la realizzazione vera e propria di una centrale saranno necessarie delibere Cipe sia sulle tipologie tecniche che per l’individuazione dei criteri per la costruzione di consorzi per la costruzione e l’esercizio degli impianti.
Insomma la strada è ancora lunga. La posa della prima pietra per i nuovi impianti era stata stabilita per il 2013. C’è già chi parla esplicitamente, ora, del 2014. il nuovo ministro non c’è ancora. E sulla durata della legislatura (e della maggioranza) sono in molti a non scommettere. Atomo bye bye?
http://www.vita.it/news/view/107311
—
Biodiesel: brevettato il carburante liquido ricavato dall’energia solare 22.09.2010
di Piergiorgio Pescarolo
Immaginiamo un carburante per auto che venga prodotto con una delle fonti più rinnovabili che esistano, il Sole. Un procedimento di bio catalizzazione che con la combinazione dell’energia solare, dell’anidride carbonica e dell’acqua sia in grado di sviluppare un carburante efficace per l’alimentazione dei motori Diesel.
E’ il risultato al quale è arrivata la Joule Unlimited, un’azienda di Cambrige, nel Massachusetts, che dopo tre anni di ricerche in questi giorni ha ottenuto negli USA un brevetto che può costituire una pietra miliare nella ricerca verso la mobilità sostenibile.
Liquid Fuel from the Sun, questo il nome del progetto (e del marchio che è stato brevettato) consiste in un procedimento di conversione delle radiazioni solari e dell’anidride carbonica in idrocarburi che possono essere impiegati in sostituzione del convenzionale gasolio.
La differenza più evidente rispetto ad altri tipi di biocarburanti, che richiedono l’impiego di materie vegetali che necessitano di un certo costo (zuccheri e alghe soprattutto), consiste nel fatto che per il “bio carburante” prodotto dalla sintesi della Joule non c’è l’utilizzo di materie prime.
Il progetto brevettato riguarda l’uso di microorganismi fotosintetici, impiegati come biocatalizzatori che possono usare solo la luce solare, l’anidride carbonica presente nell’atmosfera e acque di scarto per arrivare al prodotto finale: un idrocarburo dalle stesse proprietà detonanti del gasolio, ma ben distino dai biodiesel. E che, secondo gli ingegneri della Joule Unlimited, non richiede modifiche ai motori.
Per maggiori dettagli su questo nuovo metodo di utilizzo dell’energia solare rimandiamo al comunicato dell’azienda
—
banche, crisi, finanza di Andrea Baranes
Basilea III. Ovvero: continuiamo così 23.09.2010
Le nuove regole per le banche a regime nel 2019: tempi biblici, per una finanza che si muove invece velocissima. Mentre nessun passo in avanti si fa sulla separazione tra banche e speculazione, e su una nuova concezione del “rischio”
A settembre del 2007 le immagini dei clienti della Northern Rock che facevano la fila, muniti di tende e sacchi a pelo, davanti alle filiali della banca inglese fecero il giro del mondo. Giusto un anno dopo la Lehman Brothers depositava istanza di fallimento, quello che è probabilmente stato il momento più critico della crisi finanziaria.
Ci sono voluti altri due anni per arrivare, pochi giorni fa, all’accordo raggiunto dal Comitato di Basilea su quelle che dovranno essere le nuove regole per il settore bancario. Parliamo dell’accordo di Basilea III, che dovrà sostituire quello di Basilea II e definire, in parole semplici, quanto rischio possono assumersi le banche e quanto capitale proprio devono tenere da parte per i loro prestiti e le loro operazioni.
L’intesa raggiunta prevede che le nuove richieste sul capitale proprio delle banche dovranno entrare a regime nel 2019. Nove anni da oggi. Dodici dallo scoppio della crisi. Una data da fantascienza, considerando la velocità con cui si muove la finanza e il rischio di nuove crisi. Dodici anni fa, molti degli strumenti più speculativi e oggi criticati per il loro ruolo nella crisi – dai Credit Default Swaps alle Collateralized Debt Obligations (Cds e Cdo, per le traduzioni si veda il glossario della crisi) non erano ancora nati, o nel migliore dei casi il loro ruolo era del tutto marginale. Quale sarà il volto e gli strumenti a disposizione della finanza tra nove anni? Quale validità potranno avere le regole approvate oggi?
Se i tempi di questa riforma destano forti critiche, i contenuti sembrano altrettanto poveri. Il cuore dell’accordo di Basilea è la definizione di capitale proprio, quello che le banche devono tenere da parte per ogni operazione finanziaria, in modo da non mettere a rischio la loro stabilità e i soldi dei clienti. In termini non rigorosi, il capitale ammesso è di due tipi: il primo (Tier 1) è quello più direttamente a disposizione della banca, quale il capitale sociale e gli utili non distribuiti, il secondo (Tier 2), comprende altre forme di capitale che la banca può utilizzare per coprire con risorse proprie i prestiti che dovessero andare male.
Durante la crisi, il valore delle azioni di molte banche è crollato, così come i profitti. Questo significa una netta diminuzione del capitale proprio, nel momento in cui le banche ne avrebbero avuto maggiore bisogno. Basilea III avrebbe dovuto risolvere tali problemi, sia migliorando la qualità dei capitali Tier1 e Tier2, sia chiedendo alle banche di creare dei buffer anti-ciclici, ovvero dei cuscinetti di capitale da costituire nei momenti di prosperità per averli a disposizione in quelli di crisi.
Se tale cuscinetto è stato effettivamente previsto da Basilea III, colpisce come la definizione di capitale, e del Tier1 in particolare, quello che dovrebbe essere di “migliore qualità”, permetta di ricomprendere alcune partite contabili come le partecipazioni di minoranza in imprese controllate e alcune poste di natura fiscale. Il rischio è che, da qui al 2019, le banche e il sistema finanziario abbiano tutto il tempo per trovare le contromisure per aggiustare i propri conti e aggirare eventuali maggiori oneri.
Questo è vero in primo luogo per le banche di maggiori dimensioni, che tramite le cartolarizzazioni e altre operazioni finanziarie sofisticate quanto poco trasparenti sono in grado di portare fuori bilancio gran parte delle loro operazioni, di “giostrare” con i coefficienti di capitale e di applicare un proprio modello per calcolare il rischio che devono affrontare. Tra l’altro il nuovo accordo non affronta in nessun modo il problema della separazione tra banche commerciali e banche di investimento, né la dimensione eccessiva di alcuni istituti – quelli “too big to fail”, ovvero troppo grandi per essere lasciati fallire senza il rischio di un crollo generalizzato dell’intero sistema.
All’estremo opposto, da tempo il mondo della finanza etica denuncia come le attuali regole penalizzino pesantemente le banche che operano nell’economia reale, e quelle eticamente orientate in particolare. Per fare un esempio, tutte le imprese, dalle cooperative sociali in poi, che operano nel mondo del non profit sono invariabilmente considerate a rischio massimo. Questo significa mettere dei paletti e dei vincoli molto severi all’economia sociale, mentre strumenti estremamente speculativi e rischiosi sono sottoposti a una regolamentazione blanda o nulla.
Alcune proposte potrebbero essere avanzate. Una tra tutte. Perché non tenere conto, nella definizione del rischio di ogni prestito, anche della categoria merceologica e della finalità del prestito? Minori vincoli, in termini di capitali propri delle banche, per finanziare le energie rinnovabili, maggiori per petrolio e carbone, ancora più alti per le banche che insistono nel sostenere la speculazione. Il disastro della BP nel Golfo del Messico dimostra come il tenere in considerazione il rischio ambientale potrebbe rivelarsi fondamentale anche da un punto di vista economico.
Oltre a una più attenta valutazione del rischio bancario, si tratterebbe di uno strumento concreto per instradare l’economia su un percorso di maggiore sostenibilità e rilanciare in maniera concreta la tanto sbandierata “green economy“. Il tutto a costo zero per le casse pubbliche.
Il G20 di Seoul a novembre è chiamato ad approvare l’accordo raggiunto dal Comitato di Basilea. Toccherà poi alle istituzioni nazionali e all’Unione Europea tradurre le raccomandazioni del Comitato in norme vincolanti per le banche. Lo spazio politico per agire c’è ancora, ma occorre muoversi subito per evitare che l’accordo di Basilea III rappresenti l’ennesima occasione persa e per indirizzare l’economia e la finanza su una direzione radicalmente diversa da quella che ha portato al disastro degli ultimi anni.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Basilea-III.-Ovvero-continuiamo-cosi-6420
—
Le grandi imprese/9 di Vincenzo Comito
Una banca per il sovrano 23.09.2010
E’ il primo gruppo bancario in Italia, il secondo in Germania. Ricacciato in poco tempo dalle stelle della finanza globale alle stalle dei feudi partitici. Ecco come, dopo le dimissioni di Profumo, procede una mostruosa concentrazione di potere politico-economico-finanziario. Prossima tappa: Mediobanca-Generali
Il contesto – cenni storici
Il sistema finanziario italiano si presenta sin dalle origini come eminentemente bancocentrico, con uno scarsissimo sviluppo, invece, dei mercati finanziari e della borsa. La storia delle banche italiane dopo la seconda guerra mondiale può essere approssimativamente suddivisa in due grandi periodi. Anche se non si possono separare troppo nettamente le due fasi da un punto di vista temporale, dal momento che alcuni processi di cambiamento appaiono molto graduali e procedono a velocità molto diverse da un segmento all’altro del sistema, si può comunque individuare un primo periodo che va, grosso modo, dalla fine della seconda guerra mondiale sino a tutti gli anni settanta e un secondo dai primi anni ottanta sino ad oggi.
Nella prima fase il sistema bancario si presentava come molto frammentato, con la prevalenza di istituti di piccola e media dimensione fortemente radicati in un ambito territoriale ristretto e relativamente pochi istituti di maggiori dimensioni con una base territoriale più ampia. Si trattava inoltre di un sistema sostanzialmente chiuso, con scarsi livelli di concorrenza, poco aperto alla dimensione internazionale, poco incline all’innovazione, sonnolento, poco efficiente, con la presenza di un semiufficiale cartello bancario; il settore era inoltre rigidamente regolamentato dalla legge bancaria del 1936, dalla presenza molto pervasiva della Banca d’Italia, nonché, più indirettamente, dalle norme valutarie restrittive allora vigenti. Esso era anche, per una parte molto importante, legato alla politica e in particolare al partito democristiano, anche se erano peraltro presenti alcune grandi banche che, sotto l’egida di Mediobanca, mostravano invece una visione più autonoma e laica dell’attività finanziaria.
Il settore cresceva e risultava mediamente redditivo per impulso, in particolare, di un livello elevato e crescente di risparmi presente nel nostro paese, che si traduceva per la gran parte in depositi bancari da parte della clientela; questa presentava una scarsa sofisticazione delle proprie esigenze, nonché poca attenzione al costo e alla remunerazione delle varie operazioni. Infine, si trattava di un sistema in cui le scelte di affidamento alla clientela erano poco basate su metodologie moderne di analisi del merito creditizio; esse erano lasciate in larga parte all’improvvisazione, alla rete di relazioni, all’influenza politica.
Poi, a poco a poco, sotto l’impulso in particolare delle innovazioni indotte dalla Comunità Europea, della collegata spinta ai processi di internazionalizzazione sia da parte degli stessi istituti che della loro clientela, nonché della maggiore sofisticazione delle esigenze del mercato, dall’indebolimento progressivo dell’influenza di una politica in crisi, la situazione tende a cambiare in maniera sostanziale. Le trasformazioni riguardano in particolare e in modo relativamente rapido una parte degli operatori del settore, mentre altri arrancano tra le difficoltà dei mutamenti o si fanno travolgere dalle novità. In particolare, salterà gran parte del sistema creditizio meridionale.
Si assiste così ad una apertura delle frontiere finanziarie, ad una crescente internazionalizzazione, anzi globalizzazione dei mercati stessi, con la tendenza ad una rilevante mobilità dei capitali. L’apertura delle frontiere si accompagna anche ad una deregolamentazione del settore bancario; aumenta il livello della concorrenza, grazie, tra l’altro, allo smantellamento del cartello bancario, all’allargamento sostanziale delle maglie per l’apertura di nuovi sportelli, alla progressiva caduta delle norme che obbligavano ad una rigida separazione tra istituti di credito a breve termine, istituti di credito speciale, istituti che esercitavano altre attività finanziarie; si assiste anche all’ingresso nel settore di nuovi operatori – ricordiamo, in particolare, i fondi comuni di investimento e i fondi pensione- e ad un aumento considerevole del numero e della qualità degli strumenti finanziari disponibili. Si avvia un processo molto rilevante di fusioni ed acquisizioni tra le imprese del settore; aumenta così la dimensione media dei singoli istituti, mentre migliora, anche se in maniera disuguale tra i vari segmenti del mercato, l’efficienza e la sofisticazione gestionale delle stesse imprese, con un certo rinnovamento anche dei gruppi dirigenti della maggior parte degli istituti. Vengono, tra l’altro, immesse forze fresche da altri settori di attività, mentre si allenta, anche per la crisi dei partiti, il legame con la politica.
Nascita e sviluppo societario dell’Unicredit
E’ in tale quadro di mutamento che si sono formati progressivamente nel nostro paese in particolare due grandi gruppi bancari, Unicredit e IntesaSanpaolo. Si tratta di due istituti che oggi sono tra i più importanti come dimensioni a livello europeo e che incorporano, in particolare la prima, anche una rilevante dimensione internazionale.
Per quanto riguarda Unicredit, l’istituto nasce nel 1998, con il nome di Unicredito italiano –il nome attuale verrà adottato nel 2008- dalla fusione tra il gruppo Credito Italiano –che a sua volta aveva aggregato negli anni precedenti diverse banche- e quello Unicredito, nato dal raggruppamento precedente di diverse casse di risparmio; nel 1999 entrano nel raggruppamento altre banche.
Nel 2000 viene acquisita, negli Stati uniti, la Pioneer Investment, operante nel settore dell’ asset management. Nel 2005, poi, i processi di internazionalizzazione del gruppo fanno un passo decisivo: Unicredit avvia un’Opa sulla tedesca Hypovereinsbank AG, operazione che porta alla conquista a valle anche di Bank Austria Creditanstalt e BPH, ciò che comporta anche l’ingresso o il consolidamento delle posizioni del gruppo in diversi paesi dell’Europa Centro-Orientale e, più in generale, in quelli dell’ex blocco sovietico.
E’ del 2007 la fusione per incorporazione di Capitalia, che era a sua volta nata nel 2002 inglobando la Banca di Roma, il Banco di Sicilia, la Bibop-Carire, il Mediocredito Centrale.
Così, soltanto tra il 2004 e il 2007, sotto la spinta dell’amministratore delegato, Alessandro Profumo, la banca investe circa 60 miliardi di euro nei processi di acquisizione in Italia e all’estero, una somma veramente enorme. Oggi l’istituto è il primo gruppo bancario in Italia, il secondo in Germania, ancora il primo in Austria in Croazia e in Bulgaria, mentre è in posizione significativa in diversi altri paesi.
Azionariato e sistema di potere
Dopo il recente ingresso nell’azionariato di Aabar Investments di Abu Dhabi e il potenziamento della presenza dei soci libici e di uno statunitense, la stessa Aabar possiede oggi il 4,99% del capitale dell’istituto, mentre la Central Bank of Lybia ne controlla il 4,98% e la Lybian Investment Authority intorno al 2,5%; la tedesca Allianz è presente con il 2,0%, Munich Re con l’1,5% e BlackRock Investment, statunitense, con il 4,0%. I grandi investitori esteri possiedono così circa il 20% del capitale e costituiscono il principale blocco di azionisti; più in generale gli azionisti stranieri controllano oggi tra il 50 e il 60% del capitale della banca, più o meno come succede oggi a moltissime grandi imprese europee, ma pochissimo a quelle italiane.
Sembrava che l’ingresso di Abu Dhabi e il potenziamento della presenza libica e di quella statunitense almeno sulla carta potessero servire a ridimensionare il precedente forte potere di condizionamento delle fondazioni bancarie nazionali: la Fondazione Cariverona possiede in effetti il 4,98% del capitale, la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino il 3,3%, la Carimonte Holding il 3,1%; insieme le fondazioni controllano ora circa il 12% del capitale totale. Va anche registrata la presenza di Mediobanca con il 6,8% del totale, ma le sue azioni hanno diritti di voto ridotti; ricordiamo poi un rilevante numero di azionisti “minori”.
Ma alla fine le fondazioni bancarie italiane, appoggiate dagli azionisti tedeschi– che forse non hanno mai digerito il fatto che una banca italiana si sia a suo tempo impadronita di un grande istituto tedesco- e dallo stesso presidente della banca, D. Rampl, in presenza contemporaneamente di una posizione di neutralità da parte di quelli degli altri paesi, solo alcuni dei quali rappresentati in consiglio, hanno costretto Profumo alle dimissioni.
Il peso delle fondazioni bancarie nazionali, mal sopportato dall’amministratore delegato dell’istituto, si è manifestato in particolare di recente nel momento in cui il management della banca ha presentato un piano di accorpamento dell’organizzazione del gruppo, il cui obiettivo dichiarato era quello di tagliare i costi, aumentare l’efficienza delle operazioni, migliorare il servizio alla clientela. Esso prevede la semplificazione dell’organizzazione attraverso la fusione delle cinque banche sino a quel momento controllate dalla holding, con l’unificazione di settori e di servizi e il conseguente taglio di strutture all’interno della banca. Tale progetto ha suscitato l’opposizione delle fondazioni, legate alle coalizioni di potere politico e affaristico locali. Tale opposizione è stata poi superata, tra l’altro, con la ragionevolezza stessa del progetto, con una precedente minaccia di dimissioni di Profumo e con qualche concessione minore fatta alle fondazioni stesse.
La più forte presenza del capitale estero sembrava, come già accennato, contribuire anche a rendere meno minaccioso un altro pericolo che si profilava all’orizzonte, quello rappresentato dall’ingresso della Lega nel governo delle regioni Veneto e Piemonte, regioni che hanno il diritto indiretto di nominare un certo numero di rappresentanti nel consiglio di amministrazione della banca attraverso il condizionamento delle decisioni delle fondazioni bancarie locali.
Ma sono state proprio queste due mosse recenti del management della banca, insieme alla riduzione dei dividendi negli ultimi anni, in relazione all’andamento poco brillante della redditività dell’istituto –redditività condizionata in generale dalla crisi finanziaria ma anche del fatto che la situazione nei paesi dell’est Europa si è andata per alcuni versi degradando-, che hanno fornito l’occasione per un drammatico rovesciamento delle posizioni all’interno dell’istituto.
Ricordiamo incidentalmente che la banca possiede a sua volta circa il 9,0% del capitale di Mediobanca, di cui costituisce l’azionista di gran lunga più rilevante, mentre è uscita di recente dall’azionariato di Generali.
Le grandi banche e la crisi
La crisi non sembra avere colpito Unicredit, così come Intesa Sanpaolo, in maniera troppo marcata, rispetto in particolare a quello che è successo nei paesi anglosassoni o anche ad alcuni istituti tedeschi, ma essa ha nondimeno avuto conseguenze importanti, anche se in nessun anno recente le due banche hanno presentato delle perdite. Molte preoccupazioni si sono concentrate per un certo tempo in particolare su Unicredit e in misura minore su Intesa Sanpaolo, a ragione dei loro investimenti nei paesi dell’Europa centro-orientale, paesi toccati ad un certo punto da difficoltà consistenti. Non mancano anche i timori sulla situazione del sistema economico nazionale: gli stanziamenti per perdite su crediti su tale fronte sono parecchio aumentate nell’ultimo periodo.
I due gruppi hanno comunque cercato di reagire alla crisi in vari modi. Intanto sul piano patrimoniale essi stanno rafforzando la loro struttura; Intesa Sanpaolo soprattutto attraverso una strategia di dismissione di una serie di attività non strategiche, strategia ancora lungi dall’essere conclusa, Unicredit invece soprattutto con il varo di due aumenti di capitale, uno nel 2008 per 6,5 miliardi di euro, l’altro nel 2010 per 4 miliardi, nonché anch’essa con qualche dismissione in atto (Marchesoni, Novellini, 2010).
I due istituti stanno, tra l’altro, cedendo le loro attività nel settore dell’asset management, compreso, per quanto riguarda Unicredit, il gruppo Pioneer investment.
Inoltre, le due banche tendono, peraltro, ad accrescere ulteriormente le loro dimensioni nel core business, il San Paolo in particolare cercando di crescere sul fronte nazionale, Unicredit su quello estero, in particolare verso la Germania (Marchesoni, Novellini, 2010).
Per di più, le due banche stanno portando avanti una energica politica di riduzione dei costi, al cui centro si pone, tra l’altro, una rilevante riduzione degli organici. Per quanto riguarda in specifico Unicredit, dal 2007 a metà 2010 l’istituto ha ridotto l’organico di 10.000 dipendenti, oltre a quelli ceduti con la vendita di un certo numero di sportelli. Ora nell’agosto del 2010 la banca annuncia ai sindacati l’intenzione di ridurre il numero degli occupati di altre 4700 unità in un arco temporale di alcuni anni.
L’operazione sembra da collegare al progetto di “banca unica” varato da poco ed anche, se non soprattutto, alla volontà di ridimensionare il costo delle filiali. In effetti, il 60% dei costi delle banche italiane fa capo alle filiali (Bon, 2010). Il fatto è che, grazie anche all’evoluzione tecnologica che permette, tra l’altro, ai clienti di svolgere molte operazioni direttamente al proprio domicilio, l’attività agli sportelli si è molto ridotta nel tempo, mentre paradossalmente il numero degli stessi è aumentato, tra il 2004 e il 2010, da 30.000 a 33.000 unità. Ora le banche stanno pensando di ridurne il numero e i costi collegati, quindi anche il numero degli addetti.
Per quanto riguarda specificamente i conti, Unicredit, nel 2001 gli utili netti erano pari a 1,8 miliardi; essi erano saliti a 2,5 miliardi nel 2005; gli anni 2006 e 2007 presentavano un risultato netto ancora in forte crescita, rispettivamente a 6,1 e 7,3 miliardi di euro. Poi comincia il declino: nel 2008 si registra una caduta dei profitti a 4,8 miliardi e nel 2009 ancora sino a 2,3 miliardi; questo, in particolare, in relazione al ridimensionamento dei ricavi soprattutto dalle attività non tradizionali e all’aumento delle rettifiche su crediti. I risultati per il primo semestre del 2010 vedono un utile ancora in riduzione di circa il 28% rispetto allo stesso periodo del 2009. La banca annuncia peraltro che si incominciano a intravede dei buoni segnali per il futuro prossimo. Peggio ancora è andata per i dividendi: si passa dai 10 centesimi per azione del 2000 ai 26 centesimi del 2007, sino al loro annullamento nel 2008 e agli a 0,03 euro del 2009.
Da segnalare infine, con la crisi, la caduta netta dei corsi di borsa per entrambi gli istituti, ma in particolare misura per Unicredit, in parallelo, da una parte, all’analogo ridimensionamento dei valori degli altri titoli bancari dei paesi sviluppati, accentuata nel caso di Unicredit dai citati timori per la situazione dei paesi dell’est, ma, dall’altra, forse anche dalla volontà di cercare di mettere in difficoltà un istituto non molto allineato con il potere politico.
I rapporti con la finanza e con la politica
La recente strategia della banca sembrava mirare, tra l’altro, a ridurre al massimo il coinvolgimento dell’istituto con la politica e in particolare con l’asse di potere Berlusconi-Tremonti-Geronzi, che tende ad essere la forza prevalente del mondo finanziario italiano, tanto che l’altro grande gruppo bancario, Intesa Sanpaolo, pur all’origine piuttosto riservato rispetto a tale blocco di potere, si è fatto coinvolgere nel gioco in misura piuttosto rilevante in diverse occasioni, anche se ha dato un segnale di autonomia quando insieme a Unicredit ha rifiutato qualche tempo fa di farsi finanziare attraverso l’emissione dei cosiddetti “Tremonti bond”.
Ma tale politica di autonomia presentava dei limiti oggettivi e metteva l’istituto in una posizione difficile; bisogna ricordare che Unicredit è a tutt’oggi il principale azionista di Mediobanca, che a sua volta detiene una partecipazione di grande peso in Generali, mentre le due strutture appena citate rappresentano il nucleo di base su cui la destra punta per governare il sistema finanziario italiano. Comunque, Unicredit sembrava sostenere il management interno delle due strutture, che tende anch’esso ad una strategia, per quanto possibile, di autonomia dalla politica.
In ogni caso, nell’azionariato e nel consiglio di Unicredit sono presenti in forze persone e interessi che fanno parte del sistema di potere sopra citato, da Ligresti alle fondazioni bancarie ricordate e che si sono ora fatte sentire pesantemente. I rapporti tra la banca e qualcuno dei personaggi legati all’asse della politica erano comunque lontani dall’essere trasparenti: si veda, ad esempio, la prontezza con cui Unicredit, insieme ad altri istituti, è intervenuta di recente per contribuire a salvare le sorti dello stesso Ligresti, che appariva in grosse difficoltà finanziarie. Per altro verso, il recente ingresso nell’azionariato della banca di capitali libici e di Abu Dhabi, forse favorito dal management di Unicredit, difficilmente si è svolto senza alcun coinvolgimento nel gioco del governo italiano.
Ora è scattata la trappola e, complice la questione libica, il sistema di potere berlusconiano, assistito probabilmente sul terreno finanziario dalle attività sotterranee di Letta, Tremonti e Geronzi, è riuscito a liberarsi da quello che appariva il più importante ostacolo alla conquista piena del sistema finanziario italiano (Giannini, 2010).
Tendenze di sviluppo in atto
Unicredit è oggi tra le più importanti banche europee ed è considerata dagli analisti internazionali come una delle più affidabili. Ma non mancavano certo i problemi legati alle sue strategie di sviluppo già prima della caduta di Profumo. Tali problemi, con il caos gestionale che dovrebbe ora seguire, almeno per qualche tempo, non potranno che aggravarsi.
Per quanto riguarda le possibili politiche relative al portafoglio prodotti, ricordiamo che, con la già ricordata cessione in corso delle attività di asset management da parte di Unicredit e IntesaSanpaolo, l’Italia tende a perdere un altro segmento importante delle attività finanziarie; le nostre banche sono già poco presenti nel settore dell’investment banking, l’area più prestigiosa e forse più redditività del business, nonché in quello della finanza corporate, anche in relazione, in quest’ultimo caso, al fatto che di grandi imprese, le maggiori clienti del settore, in Italia ce ne sono poche. Il sistema resta così quasi confinato all’attività più matura, quella di banca di dettaglio. Non sono, d’altro canto, plausibili previsioni rilevanti di crescita di tale attività sul mercato italiano, ormai pienamente maturo. Per Unicredit si aprono invece rilevanti possibilità di sviluppo in Germania, dove peraltro la redditività delle operazioni appare, almeno al momento, poco esaltante, nonché in alcuni dei paesi dell’Europa centro-orientale.
La maturità del mercato italiano e la spinta, almeno nel caso dell’Unicredit, a concentrare le speranze di crescita verso l’estero, pone peraltro delle rilevanti preoccupazioni per lo sviluppo e per la stessa tenuta nel settore del quadro occupazionale e degli investimenti almeno per quanto riguarda il nostro paese.
Non è prevista al momento, per la banca, un’espansione in forze al di fuori del quadro europeo, salvo, in relazione anche alla rilevante presenza dei libici nel capitale, l’annunciata apertura di una filiale in Libia, che potrebbe avere come conseguenza opportunità di sviluppo future in direzione del mondo arabo, direzione che la banca starebbe in qualche modo esplorando.
In termini generali Unicredit, come del resto la gran parte del sistema bancario italiano, si trova oggi stretta tra esigenze e spinte tra loro difficili da conciliare. Appare intanto evidente la necessità di una maggiore capitalizzazione; senza un maggiore livello di mezzi propri è impossibile per le banche assumersi rischi maggiori e finanziarie quindi adeguatamente un’economia reale come quella italiana, chiaramente in difficoltà.
Il progetto di Basilea3 imporrebbe agli istituti regole più impegnative sul fronte dei livelli di mezzi propri, anche se in misura moderata, ma i banchieri sono restii ad accettarle per la possibile riduzione di redditività che esse comporterebbero. Ma tale riduzione sembra inevitabile per avere un sistema finanziario più solido. Inoltre, va avanti un progetto di regolamentazione a livello europeo sui derivati, i credit default swap e la vendite allo scoperto. Verrà poi la luce una regolamentazione più stringente sulle banche più grandi. Tutte queste iniziative, ed altre ancora soltanto annunciate, porranno delle questioni impegnative anche per il nostro sistema bancario. Sul fronte finanziario si preannuncia comunque un periodo di ridotta redditività e di taglio dei dividendi.
Parallelamente, tornando al presente, non va trascurata la constatazione di crescenti e in qualche modo preoccupanti perdite su crediti indotte dagli effetti della crisi. Così, ad esempio, per quanto riguarda Unicredit, il rapporto crediti deteriorati netti/ crediti verso la clientela è passato dal 2008 al 2009 dal 3,2% al 5,5% e i primi mesi del 2010 sembrano segnare un ulteriore, anche se modesto, peggioramento della situazione.
Infine bisogna ricordare come un persistente problema della scena finanziaria italiana, tuttora non risolto neanche con la crescita delle dimensioni e dei livelli di efficienza del nostro sistema bancario, è rappresentato dalla difficoltà di ottenere credito da parte delle imprese di minori dimensioni.
Conclusioni
Con la cacciata di Profumo, si pongono ora le premesse per la creazione di una mostruosa concentrazione di potere economico-finanziario nel nostro paese, concentrazione che potrà comprendere gran parte del sistema finanziario nazionale e una parte consistente del sistema delle grandi imprese. Il prossimo passo di questo progetto sarà quasi ovviamente quello della fusione tra Mediobanca e Assicurazioni Generali, sotto la guida del presidente di Generali, Cesare Geronzi (Giannini, 2010), progetto osteggiato sino a ieri dallo stesso Profumo e sostanzialmente anche dal management di Mediobanca e forse delle stesse Generali. Con tale fusione, tra l’altro, quella che era sino a ieri la società controllata, la stessa Generali, diventerà la controllante. La possibile opposizione al progetto che potrà venire eventualmente dal management delle due società sarebbe facilmente tolta di mezzo. A questo punto si registrerà una situazione che non ha riscontro in nessun paese occidentale e che ricorda invece abbastanza da vicino, tra l’altro, la situazione dei paesi dell’allora blocco sovietico. Ci troveremo con delle solide fondamenta economico-finanziarie per un regime di stampo autoritario.
Testi citati nell’articolo
-Bon A., Banche, come vincere il mal di sportello, www.repubblica.it, 12 luglio 2010
-Giannini M., La vittoria dell’asse Berlusconi-Geronzi, la Repubblica, 22 settembre 2010
-Marchesoni M. A., Unicredit e IntesaSanpaolo allineati nel 2009 anche se con strategie diverse, www.ilsole24ore.com, 22 marzo 2010
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Una-banca-per-il-sovrano-6407
Commento:
unicredit di chi è
mauro tosi verona
Giovedì, 23 Settembre 2010 18:13:47
M l’Unicredit di chi è.
Ma la questione di Unicredit è la questione del conflitto fra Geronzi e Profumo, è la conquista da parte di Berlusconi della più grande banca italiana , è la Lega che vuole mettere le mani sulle fondazioni delle Casse di Risparmio ?
Sicuramente tutto questo, sicuramente ci troviamo di fronte a un’operazione di ulteriore assunzione del sistema bancario al dominio della politica, alla riproposizione del modello democristiano per quanto riguarda la gestione dei meccanismi del potere reale, è sicuramente da basso impero , ma avevamo dei dubbi, l’operazione con cui la Lega punta alla gestione del patrimonio delle fondazioni , ma , di fronte alla simpatia che i nostri commentatori manifestano per il “capitalista puro” Profumo, pensiamo che ci sia una differenza di valore sociale, etico, di interesse collettivo fra la gestione Profumo e l’ipotesi che si affaccia, la “banca di affari” della destra berlusconiana , o meglio di Berlusconi stesso?
L’operazione Profumo è stata quella di cambiare la natura, annullandone la storia il prestigio e il peso economico delle Casse di Risparmio, in una grande banca internazionale , spalmata su tre continenti , la cui finalità è sempre stata di accrescere il peso aziendale aumentando se non i dividendi per i soci il potere dei gruppi manageriali. L’Unicredit è banca italiana che più ha operato per accrescere il potere della finanza , per assecondare le spinte alla globalizzazione, per scaricare su dipendenti, correntisti e i piccoli clienti i costi del suo accresciuto potere, è recente l’annuncio da parte del settore italiano della banca di 5200 esuberi fra il personale.
Forse vale la pena ricordare come sono nate le “ casse di risparmio “ a Verona , come a Treviso, come a Torino , costruite sotto la spinta di cambiamento del sistema bancario tradizionale, sottoposto agli interessi delle classi padronali e strumento del potere borghese.
A Verona la Cassa nasce, all’inizio del secolo scorso, sotto la spinta del Sindaco socialista, come alternativa alla Banca Popolare , emanazione delle categorie padronali, nasce con uno statuto fondativo dove i richiami alla funzione sociale si esprimono nei limiti della partecipazione azionaria, nella adeguata remunerazione dei correntisti, nell’impegno a sostenere i piccoli commercianti, gli artigiani , nell’indicazione di prestiti non onerosi per i settori più deboli. Per questo il consiglio di amministrazione era di nomina di comune e provincia e il bilancio stesso era sottoposto al controllo degli enti locali.
Certo alla fine per la nostra regione questo significò controllo democristiano ma almeno trasparenza , uso sociale delle risorse, controllo e conflitto sulle deviazioni clientelari.
La madre di tutte le privatizzazione è stata la Legge Amato che ha di fatto sciolto le casse di risparmio e ne ha permesso l’ utilizzazione del patrimonio, dell’articolazione territoriale , del cespite del risparmio per un’operazione di concentrazione e internazionalizzazione finanziaria che non ha precedenti.
Quale vantaggio per le comunità locali per la crescita dell’economia e delle condizioni della gente comune non ci è dato si capire.
Meglio ha fatto il sindaco della città di Siena che ha legittimamente rivendicato contro la legge Amato il diritto del suo comune di governare e gestire le risorse e il patrimonio che la sua comunità ha nei secoli accumulato richiedendo di ripubblicisare il Monte dei Paschi.
Verona 23 set. 10 mauro tosi
—
E’ ora di finirla! 24.09.2010
Per 54 secondi la realtà ha fatto irruzione ad Anno Zero. Un operaio che sta per perdere il posto di lavoro ha fotografato il Paese. Un’istantanea di disperazione. “E’ ora di finirla. State mangiando con i nostri soldi da quarant’anni. Qui si perde il posto di lavoro. Noi si perde il posto di lavoro e voi passate il tempo a discutere della casa di Montecarlo… ma quale cazzo di casa… i miei figli hanno i vostri miliardi di debiti…”. Cazzullo del Corriere della Serva, Bocchino, servitore fedele di Berlusconi per 15 anni, e Castelli di Roma Ladrona, hanno preso atto e continuato amabilmente a parlare della casa di Montecarlo di Tulliani, il cognato di Fini. “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur“, mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata. La frattura tra il Paese reale e la politica si è ormai consumata.
La prima banca del Paese, Unicredit, è senza guida, milioni di disoccupati, il debito pubblico cresce di 100 miliardi di euro all’anno, la cassa integrazione sta per finire per centinaia di migliaia di persone, le aziende in fuga (delocalizzano…) dalla Fiat, alla Bialetti alla Omsa. Il crollo della produzione industriale, la più alta percentuale di giovani senza lavoro, le tasse più alte d’Europa e gli stipendi più bassi e i servizi peggiori. Le mamme si devono portare la carta igienica da casa quando accompagnano i loro bambini a scuola. Il Paese è fuori controllo, ma il pilota sta sorseggiando una tazza di tè con la hostess.
Il Club dei Politici è sempre lo stesso, sempre uguale, si entra solo per cooptazione e anche le scissioni interne servono a rafforzare la stabilità del Club. Chi fa parte del Club ha la pensione dopo due anni e mezzo, un ricco stipendio, visibilità, finanziamenti pubblici. Si sta bene nel Club. La realtà fuori potrebbe entrare all’improvviso, da un momento all’altro, travolgere il Sistema, chissà se, almeno allora, se ne renderanno conto. Quando l’operaio incazzato entrerà in salotto.
http://www.beppegrillo.it/2010/09/e_ora_di_finirla/index.html?s=n2010-09-24
—
La crisi è da domanda, il Fondo Monetario Internazionale ci ripensa
Carlo Devillanova* – 24.09.2010
Il 13 settembre 2010 si è tenuta ad Oslo una conferenza congiunta del Fondo Monetario Internazionale (IMF) e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), dal titolo “The Challenges of Growth, Employment and Social Cohesion”. Merita attenzione il documento preparatorio dei lavori, a firma congiunta IMF ed ILO. Lo scritto è strutturato in due capitoli: il primo, sui costi umani della recessione, a cura dell’IMF; il secondo, dell’ILO, sulle basi per una crescita bilanciata e sostenibile. Congiuntamente, l’analisi dell’attuale crisi e le concrete prescrizioni di policy contenute nel documento segnano una svolta importante da parte del Fondo. Data la gravità del momento, per molti economisti un cambio di sensibilità interpretativa da parte dei principali attori di politica economica era semplicemente inevitabile. Eppure, come scrive Paul Krugman sul New York Times del 14 settembre 2010, “vista la maniera in cui così tante istituzioni internazionali sono state catturate dalla follia delle opinioni convenzionali, il nuovo documento dell’IMF, ragionevole sebbene troppo cauto, è certamente una gradita sorpresa”.
Provo qui a riassumere, schematicamente e senza pretesa di esaustività, alcuni passaggi del documento.
Il punto di partenza è la constatazione che la disoccupazione ha oramai raggiunto proporzioni gravissime. Si stima che nel mondo più di 210 milioni di persone siano attualmente disoccupate, con un aumento di oltre 30 milioni dal 2007 (pag. 4). Sebbene la recessione economica abbia interessato tutti i paesi, l’aumento della disoccupazione è stato particolarmente marcato nelle economie più sviluppate (sulle quali il documento si focalizza) ed in particolare negli Stati Uniti ed in Spagna. Ben tre quarti dell’aumento del numero di disoccupati mondiali è, infatti, avvenuto nelle economie avanzate.
Nell’individuare le cause di una crescita così spettacolare della disoccupazione in alcuni paesi rispetto ad altri, il documento mette al primo posto il ruolo della domanda aggregata. Questo è un aspetto di estremo rilievo teorico, per chi ha seguito la condotta dell’IMF negli ultimi lustri.
L’analisi sviluppata nel secondo capitolo individua nella dinamica della disuguaglianza, all’interno di specifici paesi e fra paesi, uno dei fattori che ha maggiormente inciso sugli squilibri di domanda aggregata. Si sostiene che l’aumento della disuguaglianza in alcuni paesi abbia causato una compressione del consumo aggregato, manifestando le proprie conseguenze in una crescita modesta o in un aumento dell’indebitamento privato. Nell’introduzione al documento (a pag. 8 ) si legge anche che “in alcuni paesi, ed in particolare negli Stati Uniti, la crescente disuguaglianza potrebbe aver aumentato l’indebitamento delle famiglie, costituendo così un fattore importante nello spiegare la crisi dei subprime”. Inoltre, viene esplicitamente riconosciuto il ruolo della globalizzazione dei processi produttivi nell’influenzare la disuguaglianza, soprattutto attraverso un indebolimento delle istituzioni del mercato del lavoro a protezione del potere contrattuale dei lavoratori e la spinta al ricorso a contratti di lavoro flessibile.
Anche gli squilibri commerciali fra paesi vengono attentamente discussi. Incidentalmente, per le economie aperte agli scambi con l’estero le esportazioni possono sostituire la domanda interna. Tuttavia, si nota come una tale soluzione ponga ben noti problemi nel lungo periodo; inoltre, a livello internazionale le esportazioni nette sommano necessariamente a zero. A questo proposito, è interessante notare che il documento si apre con una lunga citazione di Strauss-Kahn, Managing Director dell’IMF, il quale paventa chiaramente i pericoli di politiche non coordinate di uscita dalla crisi: “noi (l’IMF) fummo creati dalle ceneri di un mondo distrutto, colmi della determinazione dei nostri fondatori di non compiere mai più gli errori del passato – errori che portarono al nazionalismo economico e alla guerra. (…) Il nostro ruolo inizia con la stabilità economica, ma termina con il fine di tutte le istituzioni multilaterali – un mondo stabile e pacifico”.
Il documento evidenzia anche gli effetti, in termini di occupazione, di specifiche politiche ed istituzioni del mercato del lavoro. In particolare, quei paesi che hanno adottato riforme strutturali del lavoro tese ad introdurre maggiore flessibilità per alcune tipologie contrattuali (specificatamente i lavori a tempo determinato), pagano adesso un prezzo maggiore in termini di aumento della disoccupazione. Al tempo stesso, viene espresso un cauto scetticismo sulla presunta capacità di tali riforme strutturali di generare occupazione a crisi conclusa: “in principio, il mercato del lavoro duale dovrebbe portare benefici durante la ripresa, poiché le imprese dovrebbero essere più prone a reimpiegare i lavoratori con contratti temporanei, piuttosto che permanenti. Se ciò si verificherà è ancora da vedere” (pag. 36).
Infine, la trattazione, a cura dell’IMF, dei costi umani della recessione evidenzia gli effetti di lungo periodo della disoccupazione, specialmente giovanile, e la concreta possibilità che il tasso di disoccupazione naturale si porti a livelli permanentemente più elevati, a seguito dell’attuale crisi.
Il documento IMF-ILO non si limita all’analisi delle cause e delle conseguenze della recessione, ma cerca anche di delineare alcuni concreti suggerimenti di policy. Le principali indicazioni di politica economica hanno il dichiarato obiettivo di stimolare la domanda interna e far sì che questa generi la creazione di posti di lavoro.
In primo luogo, si suggerisce estrema cautela nel procedere con politiche di consolidamento fiscale. Data la precarietà dell’attuale fase ciclica, l’adozione generalizzata di politiche fiscali restrittive rischierebbe di compromettere la ripresa. Ad esempio, si legge (a pag. 38) che “una ripresa della domanda aggregata è la singola migliore cura contro la disoccupazione. Quindi, come strategia generale, le economie più avanzate non dovrebbero rendere restrittive le politiche fiscali prima del 2011, perché una stretta prima di tale data potrebbe minare la ripresa”. Sia chiaro, il documento opera importanti distinguo fra paesi, dovuti alle diverse situazioni di finanza pubblica all’inizio della recessione. Tuttavia, risulta evidente la differenza di toni rispetto alle indicazioni provenienti da altre prestigiose istituzioni internazionali (si veda, ad esempio, l’ultimo bollettino mensile della Banca Centrale Europea, settembre 2010, in particolare il Box 7).
In secondo luogo, l’introduzione ed il secondo capitolo si soffermano diffusamente sull’importanza di un’equilibrata distribuzione del reddito al fine di stimolare la domanda interna. In tal senso, la salvaguardia del potere d’acquisto dei salariati diventa un obiettivo per alimentare la ripresa. Un passaggio degno di nota riguarda il riferimento al fatto che un’equilibrata distribuzione del reddito non sia un puro fatto salariale, ma richiami anche l’importanza di istituzioni e politiche di protezione sociale. Così si legge che “una crescita sostenibile (…) potrà essere generata solo con valide politiche macroeconomiche integrate a valide politiche occupazionali e sociali” e che una delle priorità per la crescita è “il rafforzamento delle istituzioni del mercato del lavoro (…) per migliorare le condizioni di vita ed il potere d’acquisto delle famiglie dei lavoratori” (pag. 9).
Legato al punto precedente è l’invito a non abbandonare, nel breve periodo, le politiche attive nel mercato del lavoro, alla quali è riconosciuto un ruolo positivo nella creazione di occupazione, anche durante la recessione. Da un punto di vista teorico, gli effetti distorsivi delle politiche e delle istituzioni del mercato del lavoro non vengono assolutamente taciuti. Tuttavia, in questo specifico periodo storico, i costi in termini di efficienza connaturati a questi effetti vengono ritenuti trascurabili rispetto ai loro potenziali benefici.
In conclusione, il documento congiunto IMF-ILO contiene un’analisi interessante dell’attuale crisi economica ed alcune indicazioni di policy a mio parere condivisibili. Credo che la sua diffusione possa arricchire il dibattito, internazionale ed italiano, ed aiutare ad individuare risposte adeguate di politica economica.
Vorrei però terminare evidenziando un aspetto probabilmente secondario, di natura genericamente teorica. L’estate appena conclusasi è stata animata da una disputa fra economisti italiani, interpretata da qualcuno con toni inutilmente aspri, sulle cause dell’attuale recessione economica e sulle politiche più adeguate a fronteggiarla. A livello internazionale il dibattito è stato altrettanto vivo, ma più garbato e maggiormente aperto al confronto. Il documento dell’ILO e del IMF dimostra che, di fronte alla gravità della crisi, il senso di responsabilità deve rendere possibile e necessario un dialogo costruttivo anche fra soggetti assai diversi per “approcci ed analisi” (pag. 2), previo ripensamento, evidentemente, di quelle posizioni teoriche fatalmente contraddette dai fatti. Inoltre, a mio parere esso indica chiaramente che, nella chimera di una teoria economica esatta, un uso pragmatico, sapiente e storicamente determinato delle indicazioni provenienti dalle diverse posizioni teoriche sia una strada proficua da percorrere.
*Professore di economia politica nell’Università “Bocconi” di Milano.
—
Russia-Armenia: il nuovo protocollo difensivo 22.09.2010
Alesso Bini
Introduzione
La presenza russa nel Caucaso meridionale è tornata ad essere, dopo un breve intermezzo di debolezza politica e militare, un dato di fatto di cui tutti gli attori geopolitici, interni o esterni alla regione, hanno dovuto prendere atto. Ci sembra che gli avvenimenti degli ultimi anni, alcuni dei quali drammatici, dimostrino in modo inequivocabile il rinnovato protagonismo della Russia in quella parte del mondo.
Mosca ha impiegato anni per riprendersi dallo shock provocato dal crollo dell’Unione Sovietica alla fine del 1991. Dai tempi della guerra fredda molte cose sono inevitabilmente mutate ed il Caucaso meridionale, con l’aumento del numero degli Stati indipendenti presenti (e dei conflitti tra e all’interno di essi), ne è uno degli esempio più lampanti.
A ventanni circa da quell’avvenimento epocale la Russia dimostra di essere riuscita a reinserirsi nel gioco delle grandi potenze reclamando per sè un ruolo di primo piano negli affari internazionali in generale e nel suo near abroad in particolare mostrando una rinnovata capacità di proiezione verso l’esterno al fine di conseguire i propri obiettivi geopolitici, primo fra tutti quello di porsi come attore centrale nella grande scacchiera eurasiatica.
Per i policy – makers russi il Caucaso meridionale ha giocato un ruolo centrale fin dal principio, vale a dire fin da quando Mosca, all’alba del 1992, cercava disperatamente (e spesso in modo confuso e contraddittorio) di dare un senso ad uno spazio geopolitico in preda al caos più totale e agli appetiti di certi attori, statali e non, volonterosi di accappararsi il più possibile delle spoglie (a cominciare dalle immense risorse energetiche) dell’ex Stato sovietico.
Nel corso del tempo Mosca ha cercato di adattarsi (con risultati alterni a seconda dei diversi Paesi che compongono la regione) al mutato contesto geopolitico dell’area e ha lavorato per creare legami politici, economici ed istituzionali con i vari Stati, in particolare con quelli post – sovietici (Georgia, Armenia ed Azerbaijan) trovandosi spesso ad operare in una situazione di elevata conflittualità intra- ed inter-statale dove la legittimità dell’ordine regionale era prossima allo zero e l’equilibrio si basava solo sui crudi rapporti di forza. Per una serie di motivi che presto prenderemo in esame, Russia ed Armenia hanno costruito dei legami molto forti al punto che molti analisti sono concordi nell’affermare che, senza alcun’ombra di dubbio, Yerevan è il miglior alleato di Mosca nella regione. Dunque, gli accordi siglati a fine agosto in Armenia tra i Presidenti dei due Paesi, tra i quali uno nel campo della sicurezza che a breve prenderemo in considerazione, non sono un evento che giunge inaspettato bensì rappresentano il proseguimento e l’approfondimento di relazioni politiche alquanto solide tra due Paesi che pur disponendo di una diseguale capacità di proiezione dei loro interessi geopolitici traggono, dalle loro relazioni bilaterali, una serie di benefici.
Chiaramente la Russia è consapevole del fatto che l’Armenia non sia nè l’unico Stato del Caucaso nè, tantomeno, il più importante. Di conseguenza, Mosca muove le sue pedine nella regione con grande parsimonia cercando di bilanciare le proprie azioni ed evitando di creare repentini mutamenti del fragilissimo equilibrio esistente che potrebbero favorire i concorrenti e complicare la realizzazione di uno dei suoi grandi obiettivi geopolitici, vale a dire il consolidamento e l’ampliamento della propria posizione (politica, economica e militare) nella regione del Caucaso e del Mar Caspio, obiettivo che se conseguito avrebbe delle ripercussioni geopolitiche che andrebberò ben al di là dei confini della regione caucasica e permetterebbero alla Russia di compiere un importantissimo passo in avanti verso il proprio progetto di ricomposizione dello spazio post sovietico. E’ chiaro quindi, e nella nostra analisi ne discuteremo, che tutto ciò impone alla dirigenza moscovita un atteggiamento prudente soprattutto nei confronti di tutti gli altri attori regionali a cominciare dall’Azerbaijan, un Paese le cui relazioni con Yerevan sono tutt’altro che idilliache e vengono pesantemente modellate dalla presenza del frozen conflict nel Nagorno-Karabakh.
La partita nel Caucaso meridionale è ancora in corso e la Russia ha tutte le carte in regola per realizzare i propri obiettivi, tuttavia è doveroso che i policy – makers russi ricordino che oltre all’onore di giocare un ruolo cardine in una regione strategocamente importante per le sorti energetiche del mondo, il Caucaso imporrà loro anche l’onere di gestire e risolvere molti dei conflitti che ancora oggi lo tormentano.
Geopolitica delle relazioni russo – armene
La prima grande sfida che l’Armenia indipendente si trovò ad affrontare fu la guerra contro l’Azerbaijan per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh, regione facente parte dello Stato azero ma abitata da una maggioranza etnicamente armena.
Il conflitto divampò nel 1988, durante la fase finale della storia sovietica e si concluse solo dopo 6 anni di scontri con la tregua del 1994 e con la perdita, da parte di Baku, del controllo sul Nagorno-Karabakh (che equivale a circa il 14% dell’intero territorio azero) in cui già dal gennaio del 1992 era stata proclamata, senza che nessuno l’abbia mai riconosciuta, una Repubblica la cui vicinanza politica ad Yerevan con relativa dipendenza militare è innegabile. Quella guerra provocò 30,000 morti, feriti, rifugiati ed una serie infinita di atrocità commesse da ambo le parti. Inoltre, la guerra non ha risolto in modo definitivo la questione visto e considerato che quello del Nagorno-Karabakh è un tipico esempio di frozen conflict a cui la comunità internazionale, in particolare l’OSCE, attraverso il gruppo di Minsk, non è ancora riuscita a venire a capo, complice anche le differenti visioni della questione da parte di Armenia ed Azerbaijan.
Vista la particolare collocazione geografica e politica di Yerevan, al centro del Caucaso meridionale, senza sbocchi sul mare, con una frontiera in comune con due Stati per nulla definibili come alleati e collocati su 2 lati opposti, vale a dire l’Azerbaijan e la Turchia (alleata e grande sostenitrice delle rivendicazioni di Baku) la Russia ha rappresentato e rappresenta tutt’ora una vera e propria ancora di salvataggio a cui aggrapparsi e su cui fare leva per garantire la propria sicurezza, lo sviluppo economico del Paese e una posizione relativamente più forte nei segoziati sulla risoluzione del conflitto sul Nagorno-Karabakh. Queste necessità armene si sono incontrate fin dal principio con la volontà russa di non scivolare in una posizione marginale nel Caucaso e da ciò ne è scaturito un matrimonio di interessi che ha dato molti frutti di cui vogliamo elencare i più importanti:
fin dal principio l’Armenia ha supportato e partecipato attivamente ai frameworks istituzioni di matrice economica e politica voluti dalla Russia: infatti, a ben vedere, Yerevan è parte integrante della Confederazione degli Stati Indipendenti, dell’ EurAsEC e della Collective Security Treaty Organization. Molto attiva è la presenza armena nel campo della sicurezza. Per citare alcuni esempi significativi vogliamo ricordare che la Russia apprezza molto l’impegno armeno, serio e costante, in seno alla CSTO e al centro anti – terrorismo della CSI. Inoltre, a partire dal 2001, le unità militari di difesa aerea russe e armene sono mantenute in stato di joint combat duty. Esse sono un elemento importante del sistema difensivo aereo unificato della CSI voluto da Mosca e creato nel 1995. Questi esempi ci permettono di capire l’impegno armeno a coltivare le relazioni con la Russia non solo a parole ma soprattutto con i fatti. Inutile dire che ciò ha contribuito indubbiamente a legittimare i progetti russi;
Mosca è il più grande investitore nell’economia armena. Dal 1991 la Russia ha investito 2.4 miliardi di dollari nell’economia di Yerevan, una cifra consistente che ammonta a circa il 60% di tutti gli investimenti diretti esteri nel Paese. Gli investimenti russi si sono concentrati nel settore energetico (Gazprom rimane il principale fornitore di gas dell’Armenia. In proposito ci preme sottolineare come attualmente si stiano tenendo degli incontri tra le due parti poichè Gazprom è intenzionata ad aumentare i prezzi dell’energia al fine di realizzare una transizione ai prezzi di mercato. Questa è una politica che Mosca stà perseguendo verso tutti i Paesi importatori che ancora si avvalgono di prezzi relativamente più bassi di quelli di mercato. Tuttavia, grazie alle ottime relazioni tra i due Paesi, tale progetto non ha suscitato le stesse lacerazioni che si sono verificate nelle discussioni con la Bielorussia. Altrettanto importante è la collaborazione e gli investimenti russi nel settore nucleare civile armeno, in particolare Mosca aiuterà Yerevan a realizzare due nuovi impianti nucleari per uso civile il cui prezzo si aggira attorno ai 5 miliardi di dollari e la cui messa in funzione è prevista per il 2017), bancario, delle telecomunicazioni, metallurgico, delle costruzioni e dei trasporti;
i due Paesi coordinano, attraverso una serie di meeting durante il corso dell’anno, le loro politiche estere in base ad un accordo diglato nel 1992. Mosca ed Yerevan coordinano le loro azioni in tutti i format istituzionali di cui sono parte, dalla CSI, alla CSTO, passando per l’OSCE e l’ONU;
per quanto concerne la dimensione militare, tema su cui ritorneremo meglio nel prossimo paragrafo, qui ci basterà ricordare che la Russia ha, in un certo senso, contribuito alla sforzo militare armeno contro l’Azerbaijan. Infatti nel corso del tempo l’esercito di Yerevan ha ricevuto una grande quantità di armi russe a prezzi stracciati e persino in regalo;
Tutto questo dimostra in modo inequivocabile che lo stato delle relazioni russo – armene è più che soddisfacente e la nuova serie di accordi da poco sottoscritti ne sono una prova più che convincente. Tuttavia, assieme al ‘all’incontro d’interessi’ di cui abbiamo appena elencato i risultati principali non dobbiamo dimenticare che esiste una grande differenza, nei mezzi e nei fini, tra i due Paesi, differenza che non può essere sottaciuta: come abbiamo precedentemente enunciato, gli obiettivi geopolitici di Mosca nella regione sono ambiziosi e chiaramente molto più ampi rispetto a quelli di Yerevan. Dati tali obiettivi la Russia è perfettamente consapevole del fatto che l’alleanza con l’Armenia è si uno strumento utile al perseguimento dei propri fini ma non è certamente l’unico che deve essere messo in campo. Puntare solo sull’alleanza con Yerevan, dimenticando gli altri attori presenti, i loro timori ed obiettivi, metterebbe a repentaglio la possibilità di collocarsi al centro di questa regione così geopoliticamente importante. Di questo Mosca sembra essere perfettamente consapevole anche se non sempre agisce di conseguenza operando le scelte più opportune nei confronti dei singoli Stati che occupano la regione caucasica. Ci occuperemo meglio di tale questione quando focalizzeremo la nostra attenzione sulle relazioni russo – azere. Adesso però è giunto il momento di concentrarci sul nuovo accordo russo – armeno.
Uno sguardo critico sul contenuti del nuovo protocollo
Tra i cinque accordi sottoscritti dal presidente russo Dmitry Medvedev e dal suo omologo armeno Serge Sarkisian il 20 agosto scorso ad Yerevan uno riguarda il tema della sicurezza. Per la precisione i due capi di Stato hanno firmato un protocollo che emenda un precedente trattato stipulato da Russia ed Armenia nel 1995 che prevedeva il dislocamento di una base militare russa nella città armena di Gyumri (alcune truppe sono state dislocate anche nella stessa Yerevan) per un periodo di 25 anni. La base, che si trova a pochi Kilometri dal confine turco, fu voluta come parte integrante del sistema aereo unificato della CSI che abbiamo già citato ed è posta sotto il comando del distretto militare del Caucaso del nord. Il personale della base è di circa 3,500 uomini. Sono presenti 3 regimenti di fanteria motorizzati, un regimento d’artiglieria ed un battaglione di carri armati. Nella base sono presenti circa 74 carri, 17 veicoli da combattimento per la fanteria, 18 mezzi blindati per il trasporto truppe e 84 sistemi d’artiglieria. I reparti aerei hanno in dotazione circa 30 MiG-29 ed un numero imprecisato di S-300 ed S-200. Uno dei compiti principali delle truppe russe in Armenia è stato quello di pattugliare la frontiera con la Turchia. Con il nuovo protocollo il periodo di permanenza è stato innalzato a 49 anni a partire dal 1995. Ciò significa che la base rimarrà al suo posto almeno fino al 2044. Inoltre, nel protocollo sono presenti alcune novità molto apprezzate dagli armeni e che cui i russi tendono, per motivi facilmente intuibili, a minimizzare: la base militare russa, oltre a servire l’interesse della Federazione Russa (come prevedeva l’accordo del 1995), fornirà supporto alle forze armate armene per garantire la sicurezza dell’Armenia. A tal propsito molti esperti si interrogano su una questione spinosa, vale a dire: fermo restando che la Russia non riconosce la Repubblica del Nagorno-Karabakh, in caso di attacco azero a questa regione al fine di riguadagnarne il controllo, come si comporterà Mosca? Quale atteggiamento l’Armenia si attende dalla Russia nel caso che un tale scenario dovesse concretizzarsi? Inoltre, l’accordo impegna Mosca anche a garantire armi e equipaggiamenti militari moderni ad Yerevan. Chiaramente 2 punti che difficilmente sono sfuggiti alle elite politiche di Baku ed Ankara.
Come già affermato in precedenza, il nuovo accordo non giunge inaspettato bensì si colloca nel trend positivo che caratterizza le relazioni russo – armene. Sarebbe tuttavia errato non tenere in considerazione, soprattutto dal lato armeno, tutta una serie di fattori contingenti che hanno portato Yerevan ad investire molto, sotto il profilo politico, in una conclusione positiva dell’accordo. In particolare i pesanti investimenti di Baku nel settore della difesa, le reiterate minacce azere di risolvere la questione con le armi in caso di fallimento dei negoziati, gli scontri al confine degli ultimi mesi che hanno provocato morti e feriti tra le forze armate dei due Paesi innalzando pericolosamente il livello della tensione e le difficoltà incontrate nella normalizzazione delle relazioni con la Turchia hanno, diciamo così, giocato un ruolo non secondario nella volontà armena di stipulare il protocollo con la Russia.
La presenza militare russa è ritenuta così necessaria alla sicurezza nazionale che i policy – makers armeni non solo non chiedono il pagamento dell’affitto alla Russia per la base di Gyumri ma si accollano perfino i costi e le spese operative della medesima. Questa scelta, che molti potrebbero ritenere illogica e soprattutto anti – economica in realtà è perfettamente comprensibile in quanto di dimostra essere in linea con gli obiettivi geopolitici di Yerevan, in primis con la sua volontà di rafforzare la propria posizione vis-à-vis con l’Azerbaijan sulla questione del Nagorno-Karabakh. Per quanto riguarda Mosca la questione è un pò più complessa: chiaramente la firma del protocollo non giunge sgradita alle elite politiche russe in quanto rafforzano la cooperazione con uno dei più fedeli alleati di Mosca. Tuttavia, come abbiamo fatto notare alla fine del precedente paragrafo, la Russia, perseguendo un obiettivo geopolitico molto ampio ed ambizioso, deve, in un certo senso, fornire rassicurazioni gli altri attori regionali spiegando loro il significato ed il contenuto del nuovo protocollo, questo vale soprattutto nei confronti dell’Azerbaijan.
La posizione azera
Sebbene le relazioni russo – azere siano cordiali ed in molti ambiti anche mutualmente vantaggiose, al momento non possono proprio essere paragonate a quelle che Mosca intrattiene con Yerevan. La Russia è perfettamente consapevole di tale fatto e sembra voler fare tutto il possibile per avvicinarsi a Baku ed evitare che nel Caucaso le relazioni preferenziali esistenti, vale a dire quelle turco – azere e quelle russo – armene, si irrigidiscano al punto da configurarsi come alleanze contrapposte che limitino la libertà di manovra di Mosca e la possibilità di presentarsi ed essere riconosciuta come un attore centrale e necessario alla stabilità dell’ordine regionale. Nonostante sia fuori discussione il fatto che l’annuncio della stipulazione del protocollo tra la Russia e l’Armenia non abbia di certo fatto piacere ai policy – makers azeri, la reazione di Baku è stata alquanto pacata se paragonata ai timori, esplicitati in passato, verso la cooperazione militare tra Mosca ed Yerevan. Da parte sua, la Russia ha avuto la lungimiranza di organizzare subito un incontro al vertice tra i 2 Paesi in cui discutere e sottoscrivere qualche accordo. Durante i colloqui tenuti nei 2 giorni di visita ufficiale del presidente Medvedev a Baku ai primi di settembre, il capo di stato russo ed il ministro per gli affari esteri, Sergei Lavrov, hanno definito l’Azerbaijan un partner strategico nel Caucaso del sud e nel Caspio ed hanno cercato di rassicurare i colleghi azeri sul fatto che il nuovo protocollo russo – armeno non muta assolutamente gli equilibri delle forze nella regione in quanto si è trattato, a detta dei russi, di un semplice prollungamento della permanenza di truppe in Armenia senza alcun mutamento quantitativo nel numero degli effettivi nè tanto meno qualitativo nelle armi in loro dotazione. Dai comunicati ufficiali non sembra si sia discusso nè delle garanzie alla sicurezza armena nè dell’impegno di Mosca a fornire armi e equipaggiamenti militari moderni ad Yerevan….
Oltre alle questioni relative alla sicurezza, i 2 Paesi hanno discusso di un accordo sull’uso razionale delle acque del fiume Samur ed hanno sottoscritto sia un accordo per la delimitazione della frontiera comune (390 Km circa), sia un accordo volto a raddoppiare le forniture di gas azero alla Russia a partire dal 2011. Chiaramente le relazioni economiche tra i 2 Paesi non si limitano al settore energetico, il quale comunque gioca un ruolo chiave, ma si spingono oltre: tanto per citare qualche sempio, recentemente, è stata diffusa la notizia che una compagnia russa che produce elicotteri venderà 4 Kamov Ka-32 per uso civile all’Azerbaijan. I rapporti non si limitano certo al solo ambito civile poichè, ad esempio, lo scorso giugno Mosca rifiutò di commentare la notizia secondo cui erano in corso discussioni riservate per la fornitura, per un totale di 300 milioni di dollari, di 2 batterie di sofisticatissimi S-300. Ancora oggi non vi sono notizie certe in merito ma anche se la vendita non dovesse avere luogo è comunque significativo che i 2 Paesi discutano di una vendita dal così elevato contenuto politico.
Sebbene la questione irrisolta del Nagorno-Karabakh rappresenta l’incognita più grande e pericolosa per tutti i soggetti geopolitici della regione, quanto detto finora mostra chiaramente che le relazioni politiche ed economiche tra i 2 Paesi sono relativamente soddisfacenti (diciamo che in un’ipotetica scala ai cui estremi piazziamo l’Armenia e la Georgia, l’Azerbaijan si colloca a metà strada) ed esistono anche gli spazi per un loro sostanziale miglioramento. Riteniamo che questa sia la vera sfida che attende Mosca, almeno nei confronti di Baku si intende. Molto probabilmente un approfondimento delle relazioni russo – azere potrebbe contribuire proprio a depotenziare il conflitto azero – armeno.
Conclusioni
Dal Caucaso transitano le tubature che trasportano gas e petrolio proveniente dal Caspio e dall’Asia centrale all’Europa. Come più volte sottolineato, l’obiettivo della Russia è quello di collocarsi il più possibile al centro di questa regione, strategica e turbolenta, al tempo stesso al fine di ricavarne vantaggi politici ed economici. Tutto questo però ha anche dei costi, sia politici che economici, e la Russia deve esserne consapevole. Come abbiamo dimostrato l’alleanza con l’Armenia è sicuramente utile, in quanto rafforza le relazioni con uno Stato situato nel cuore del Caucaso e lo rende più sicuro e meno nervoso, ma non sufficiente al raggiungimento degli obiettivi di Mosca, serve una politica strutturata verso tutti gli altri membri della regione, Azerbaijan in primis, che crei i presupposti per la risoluzione dei conflitti, la stabilizzazione del Caucaso ed il suo sviluppo. In tale scenario la Russia occuperà certamente un ruolo centrale assieme alle altre potenze regionali.
* Alessio Bini, dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna), collabora con “Eurasia”
http://www.eurasia-rivista.org/6056/russia-armenia-il-nuovo-protocollo-difensivo
—
Un superammasso nello sguardo di Planck 23.09.2010
L’attento occhio di Planck ha mirato bene anche questa volta e ha individuato uno degli oggetti celesti più grandi dell’Universo: un superammasso di galassie, ovvero un insieme di centinaia di galassie. Una volta comprese le sue dimensioni, gli astrofisici dell’Agenzia Spaziale Europea, tra cui i ricercatori dell’Università Sapienza di Roma, lo hanno infatti classificato come un “super ammasso”. Il satellite dell’Esa lo ha scoperto grazie ai suoi sensori a microonde che hanno captato una radiazione cosmica più forte delle circostanti. Si chiama effetto Sunyaev-Zeldovich (SZ), dai nomi dei fisici astronomi russi che lo hanno studiato la prima volta negli anni Settanta. Secondo i due scienziati, la radiazione cosmica proveniente dall’Universo primordiale, quando ancora le galassie non si erano formate, aumenta la sua energia quando attraversa la nube di gas incandescente che avvolge i superammassi.
Captata questa radiazione particolare grazie a Planck, i ricercatori dell’Esa hanno puntato nella direzione indicata un altro satellite – Newton XMM – che ha individuato l’emissione a raggi X proveniente dal gas da A2319, come è stato definito il nuovo superammasso. “Osservando il segnale in ben nove lunghezze d’ onda diverse, misurate simultaneamente da Planck, è stato possibile separarlo in modo inequivocabile da altri segnali”, ha spiegato Francesco Piacenti del gruppo di cosmologia osservativa G31 del dipartimento di Fisica della Sapienza che, oltre ad aver contribuito a costruire alcuni degli strumenti ospitati da Planck, collabora all’analisi dei dati raccolti dal satellite.
Il gruppo romano è concentrato sullo studio del fenomeno SZ convinto che possa fornire importanti informazioni sulla composizione dell’Universo. I superammassi identificati grazie a questo sistema, infatti, oltre ad essere formati di galassie, sembrano avere un’elevata percentuale di materia oscura. “Il nostro gruppo ha sviluppato l’osservatorio MITO, a 3480 metri di quota presso la stazione di ricerca della Testa Grigia dell’IFSI-INAF (vicino a Cervinia, in Val D’ Aosta) proprio per osservare ammassi e superammassi di galassie usando la tecnica dell’effetto SZ”, ha confermato Marco De Petris, che coordina il progetto: “Recentemente abbiamo osservato proprio tramite MITO l’effetto SZ nel superammasso di Corona Borealis, mostrando come sia possibile rivelare materia ancora non osservata, né nel visibile, né nei raggi X”.
“Proprio per sfruttare queste potenzialità di misura di ammassi di galassie, abbiamo sviluppato OLIMPO, un grande telescopio da pallone stratosferico. Sarà lanciato l’anno prossimo dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e ci fornirà immagini degli ammassi di galassie SZ ancora più nitide di quelle prodotte da Planck, dandoci l’opportunità di studiarne i dettagli morfologici e la composizione”, ha concluso Silvia Masi, responsabile dell’esperimento.
Riferimenti: Agenzia Spaziale Europea
http://www.galileonet.it/articles/4c9b0c4f72b7ab071d000058
—
Unicredit: il silenzio della sinistra, il brusio dei salotti
Michele Mezza, 25.09.2010
La frenesia delle dichiarazioni che ha accompagnato la direzione del PD, rende stridente il silenzio con il quale la sinistra ha assistito alla vicenda Unicredit. Mi pare francamente difficile rivendicare, in presenza di uno scempio dell’attuale maggioranza, il diritto a succedere alla testa del paese all’attuale governo, quando in un passaggio sostanziale del riassetto dei poteri reali ci si imbarazza, rinchiudendosi in giudizi personalistici
Quanto avvenuto al vertice della principale banca italiana vale un cambio di regime , uno strappo non dissimile ad una tornata di elezioni politiche. Spietata la procedura, clamoroso l’esito della decisione dei samurai finanziari, ancora più clamoroso il silenzio che si è levato a sinistra, a parte qualche borbottio di salotti editoriali. Un silenzio che non si può dire che sia stato rotto dai timidi apprezzamenti caratteriali che sono stati espressi per la scintillante immagine dell’amministratore delegato defenestrato.
Dico subito che non è facile decifrare lo scenario. Ne misurare gli interessi e le conseguenze di questo passaggio.
Proprio per questo sarebbe stata preziosissima una bussola politica per capire che siano i buoni e chi i cattivi. Preziosissima sarebbe stata una bussola di orientamento, per acquisire titolo e merito agli occhi di una componente sostanziale del paese, quale il tessuto socio economico che vive di Unicredit, ma anche doverosa per dare alla politica la dignità che rivendichiamo in mille convegni.
L’estromissione di Profumo, lo spiegava per tutti Giavazzi sul Corriere della Sera nel giorno del cosiddetto golpe, colpisce, e affonda, la strategia di un manager che voleva internazionalizzare la sua banca, pensando che fosse, appunto, sua. Un manager efficiente, sicuramente preparato, e indubitabilmente autonomo dai poteri visibili. Un nome di successo. Per il quale ho personalmente pieno rispetto, e grande simpatia umana, tanto più che condivide la missione culturale che è la militanza interista, che considero un’aristocrazia spirituale in questo paese tardo bizantino.
L’unico dettaglio che non tornava era che la banca non era sua.
Ma non è questo il punto. Un partito politico, ancora meglio una cultura e un sapere politico che si propone di ricostruire una propria presenza, se non proprio egemonia, nel nostro paese, non può esprimersi in base a sussulti emotivi legati al richiamo di una persona, o ancora peggio, dei suoi indotti salottieri. La politica si muove su analisi generali degli interessi in campo, a promuovendo procedure e valori che devono valore oggettivamente. E’ forse un cedimento vetero comunista. Ma tale mi sembra in questo momento la necessità che abbiamo.
Per questo, e arrivo al punto, mi è parso davvero eccentrico l’orientamento, lasciato filtrare, dalle scuole di pensiero di sinistra, verso l’opinione pubblica sulle dimissioni di Profumo. Un orientamento che si è sintetizzato in un’indulgenza per il protagonismo solitario del manager di Unicredit, perché ” lui è bravo”.Qualcuno ha aggiunto anche, ” e poi è almeno uno per bene”. Un giudizio davvero eccentrico dopo mesi di urla e condanne sul turbo capitalismo e sul potere solitario di bonzi e satrapi che al vertice di banche e finanziarie, si ergono a decisori dei destini del mondo.
Lehman Brother, Morgan Stanley, le società di certificazione dei bilanci, i negoziatori dei derivati, gli imbelletta tori di bilanci, pubblici e privati, ma soprattutto i drenatori di gigantesche masse di denaro che vengono risucchiate dai territori del mondo per essere bruciati nelle fornaci della speculazione globale. Tutti questi mostri che hanno precipitato il mercato mondiale nel burrone dell’ultima crisi, hanno come elemento distintivo – Obama ben lo sa, ed è sulla necessità di rompere questo cerchio di gesso che si sta consumando la sua leadership – la separazione del potere decisionale da ogni vincoli, di confronto con gli altri interlocutori sociali, di verifica degli effetti territoriali di queste manovre, persino di mandato nei confronti dei proprietari.
La solitudine dei manager dei gruppi finanziari multinazionali è il meccanismo che ha prodotto, produce e produrrà, il disaccoppiamento fra finanza e sviluppo. Stock option, royalties, bonus, appannaggi, sono tutte conseguenze di questa distorsione dei poteri decisionali. Su questo pareva esserci un senso comune a sinistra. Persino la le banche centrali, lo stesso Fondo Monetario, sembravano avallare questa critica.
Se questa era la linea sul disinquinamento dei mercati finanziari, allora perché Profumo deve essere il Cigno nero, l’eccezione, il cavaliere bianco che vendica la sinistra partendo da destra?
Unicredit, nel bene e nel male, è una conglomerata. Una banca costruita federando, e assorbendo, istituti territoriali, e banche interregionali. Giavazzi spiega che Profumo voleva farne una banca unitaria, ossia una banca verticalmente soggetta ad una sola volontà. In realtà Unicredit è una federazione di banche che a loro volta, come gli istituti locali che le compongono, sono forme associative di più soggetti che hanno come unico rilievo comune il radicamento su uno stesso territorio.
Giusto o sbagliato, discuteremo. Il dato è questo. Un dato che ci riporta sulla strategia finanziaria globale. Infatti se come sinistra dobbiamo immaginare di riequilibrare il sistema dei poteri, democratizzando le strategie finanziarie, finalizzando l’uso dei capitali ad indici reali di sviluppo concreto, allora dobbiamo convenire che l’unico soggetto, l’unico meccanismo che possiamo mettere in campo – Gosplan a parte – sono proprio le comunità territoriali.
Il territorio è l’unico soggetto che, al momento, ha titolo per entrare nel mercato, temperando, in maniera non dirigista ma socialmente equa, gli istinti speculativi di gestori finanziari proiettati solo a realizzare performance numeriche. Il territorio è il soggetto che nella forma di poteri locali, enti amministrativi, comunità, centri multi utility può, con trasparenza e dinamismo, legare la potenza finanziaria ad un investimento sociale produttivo.
Una banalità questa che affermo, che era senso comune a sinistra: dall’inizio del secolo scorso, con le casse rurali, fino alle casse di Risparmio, per arrivare alle banche del Monte o a istituti come il Monte dei Paschi, la sinistra sapeva bene come interferire, positivamente, con il mercato rilanciando la sfida sul dinamismo e non sui laccioli locali.
A fare impazzire la maionese è il fatto che dietro alla maggioranza dei territori interessati, e di conseguenza dietro alle rappresentanze nel consiglio di amministrazione di Unicredit oggi si intravede il profilo di Bossi. La Lega, come forza egemone, si è identificata con l’autonomia anche economica dei territori e usa, cinicamente, questa sua caratteristica per orientare in senso paraclientelare le sue propaggini finanziarie. Ma questa è la conseguenza di una partita perduta politicamente non di un’usurpazione militare.
Si colgono qui due corni del problema: uno strategico e uno tattico.
Quello strategico è il fatto che in un mercato frenetico ed automatizzato, convulsamente teso ad operazione di guadagno immediato, l’unico soggetto potenzialmente forte, che può introdurre una logica sociale e produttivistica nell’uso delle risorse finanziarie è appunto la comunità locale.
Questo vale negli USA di Obama, come in Italia. L’unica opzione di democratizzazione dei mercati è proprio la dialettica fra poteri locali e risorse finanziarie. In questo snodo si intravvede l’unico spazio di negoziazione con quelle potenze economiche che ormai sfuggono ad ogni controllo e relazione, come appunto i capitali transnazionali.
Lungo questa strada dovrebbe re-incamminarsi una sinistra di governo. Dico re-incamminarsi perché , come accennavo prima, questa fu la strada della cultura delle autonomie locali e del welfare comunale che negli anni ’60 portò la sinistra al centro della scena italiana. Questo era il senso di quel filone che iniziò con il famoso discorso di Togliatti. Ceti medi ed Emilia Rossa. Un percorso che abbiamo abbandonato quando, con un cesura culturale e una sequenza logica non spiegata con trasparenza, dall’oggi al domani diventammo feroci avversari delle fondazioni bancarie, invece di esserne i reali riformatori che le potevano rimettere con i piedi per terra, invece di spiantarle completamente con le soluzioni Amato-Bassanini. Da quel momento abbiamo preferito inciuciare con i banchieri invece di governare i meccanismi finanziari.
Poi venne Prodi a spiegare che i partiti si costruivano con la benevolenza dei gruppi bancari, e infine, qualcuno fece finta di capire e avviò la stagione della benedizione dei capitani coraggiosi.
Ovviamente ad oscurare il quadro della dialettica dei poteri locali oggi c’è un dato specifico, ed è questa la componente tattica del nostro ragionamento. Come abbiamo detto la dialettica dei poteri locali viene stravolta dal ruolo della Lega. Un ruolo al momento tutto strumentale, proteso all’accaparrarsi potere e spazi di interferenza economica. Ma questa è la patologia da curare, senza uccidere il malato. Come facemmo nei decenni passati quando pure il credito locale era infeudato dalla DC, eppure non cambiammo linea dicendo che i poteri locali dovevano essere interdetti.
Ma c’è un’altra questione che fa capolino dietro alla vicenda UniCredit. Si tratta di quello che, a mio parere , sarà il vero conflitto politico costitutivo della terza repubblica: lo scontro fra la lega, diciamo la sua componente più localista, con il sistema Tremonti.
Non sarà sfuggito a nessun che sul tema Unicredit i due gemelli della politica nazionale -Bossi e Tremonti – si siano trovati su sponde opposte. E proprio questa contrapposizione ha fatto abbassare i toni ad entrambi, che capiscono come non sia ancora venuto il momento per uscire allo scoperto, che bisogna ancora giocare ai due compari per sgombrare il campo dagli outsider. Ma è proprio in questo gorgo che si sta disegnando la nuova Italia.
Tremonti, ereditando anche parte degli apparati prodiani, sta ricostruendo un’armata tecnocratica dirigista, che mira a ripristinare gerarchie e poteri verticali, attorno a nuove famiglie dell’economia nazionale. Diciamo che Tremonti mira a proporsi come novello Cuccia che decide e distribuisce gli ambiti di mercato fra i challenger nazionali. D’altra parte si contrappongono componenti sostanziali della pancia pedemontana della Lega, che non vogliono rimanere ingabbiati in una camicia stretta, in un potere verticale, e mirano a rompere gli equilibri centralistici. Nel silenzio generale della sinistra.
In questa logica. matura anche una singolare intesa fra Nord e Sud, fra Lega e potentati romani e siciliani che il voto nel consiglio di Unicredit ha sancito con la convergenza di fondazioni del Nord e rappresentanti dell’ex Capitalia e dell’ex banco di Sicilia. Che sta accadendo? Chi sono i buoni e chi i cattivi? Il nuovo governo Lombardo in Sicilia è cosa diversa da questa vicenda? E il nuovo partito berlusconiano del Popolo Siciliano fondato da Miccichè parla ad altri o no?
Insomma grande confusione sotto jl cielo e la situazione è davvero terribile.
Vorrei aggiungere un’altra annotazione: Profumo non solo promuove l’entrata di un socio straniero, come i libici, senza spiegare ai proprietari conseguenze ed obbiettivi, ma è anche l’uomo che stronca il modello di riforma della banca che aveva studiato l’ex direttore generale del S. Paolo di Torino Modiano, basato proprio su un decentramento locale dei centri di decisione della banca. Anche in quell’occasione la sinistra tacque e Profumo procedette ad un verticalizzazione del suo potere personale.
Di tutto questo non ho rintracciato eco nel dibattito in direzione PD. Sarà forse segno anche dell’autonomia della politica rispetto all’economia, a me sembra più segno dell’irrilevanza della prima rispetto alla seconda.
Se si ritiene, chiederei all’area della sinistra del PD una riflessione specifica sul tema, partendo magari da alcuni quesiti:
1) che pensate di quanto accaduto in Unicredit?
2) a parte il fatto che Profumo sia bravo e simpatico e le Fondazioni bancarie siano antipatiche e oscure, qual’è il criterio per riformare i mercati finanziari se non introdurre un vincolo sociale sulle strategie delle banche?
3) Il gioco dei tedeschi nell’operazione non rischia di spossessare questo paese anche dell’unico soggetto finanziario globale e quali sono le alternative?
4) Se in Unicredit Profumo deve aver la possibilità di gestire la sua strategia senza interferenza, questo principio vale anche per la Fiat di Marchionne?
5) Nell’eventualità di un conflitto fra poteri verticali vicini a Tremonti e poteri orizzontali vicino alla Lega, la sinistra con chi sta?
Domande complesse, lo so, e anche contraddittorie, ma come diceva il presidente Mao la rivoluzione non è un pranzo di gala. E nemmeno le riforme.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15831
—
USA, web intercettato? 27.09.2010
A riportarlo è il New York Times: le autorità statunitensi vorrebbero regolamentare tutti i servizi di comunicazione a mezzo Internet, come Facebook e Skype. Una legge permetterà le intercettazioni contro il terrorismo?
Roma – La notizia è apparsa in esclusiva tra le pagine online del New York Times: le autorità federali degli Stati Uniti, in stretta collaborazione con i vertici della National Security Agency (NSA), avrebbero la più ferma intenzione di introdurre nuove regole per rendere le comunicazioni a mezzo Internet più facilmente controllabili. Un disegno di legge sponsorizzato dalla stessa amministrazione del Presidente Barack Obama, da approvare nel corso del prossimo anno. E una regolamentazione necessaria, data la sempre più massiva migrazione dei cittadini statunitensi verso le tecnologie in Rete.
Un problema, almeno per le autorità a stelle e strisce. Intercettare comunicazioni a sfondo criminoso e/o terroristico attraverso le tradizionali linee telefoniche sarebbe ormai divenuto quasi inutile. I nemici del paese si anniderebbero tra i più vasti e indisturbati meandri della Rete.
In sostanza, tutti gli attuali servizi che permettano di comunicare online – come ad esempio siti di social networking come Facebook e tool VoIP come Skype – dovrebbero risultare “tecnicamente capaci” di piegarsi ad un determinato mandato per l’intercettazione delle comunicazioni avvenute tramite le loro infrastrutture.
Tra le possibilità garantite alle autorità statunitensi, la visualizzazione di messaggi cifrati di posta elettronica, come ad esempio quelli scambiati a mezzo BlackBerry. Proprio i dispositivi made in RIM erano finiti nello scorso agosto nelle mire delle autorità di paesi come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
Ma il governo statunitense non avrebbe affatto intenzione di stroncare il mercato, né tantomeno di imporre un vasto meccanismo di sorveglianza del web. Secondo l’FBI, si tratterebbe semplicemente di tutelare i cittadini dalle minacce portate avanti da terroristi e affini.
Non altrettanto convinto, James X. Dempsey, vicepresidente del Center for Democracy and Technology. La legge soffocherebbe quegli elementi fondamentali che sono stati alla base della rivoluzione stessa di Internet. Una Rete decentralizzata, ora minacciata da un meccanismo che la trasformerebbe in una tradizionale rete telefonica.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2998491/PI/News/usa-web-intercettato.aspx
—
Salari, dieci anni in fumo 27.09.2010
In 10 anni ogni lavoratore ha perso 5.453 euro di potere d’acquisto del suo stipendio: è quanto emerge dal rapporto Ires-Cgil nel rapporto sulla crisi dei salari. Tra il 2000 e il 2010, si legge nel rapporto, le retribuzioni hanno avuto a causa dell’inflazione effettiva più alta di quella prevista, una perdita cumulata del potere d’acquisto di 3.384 euro ai quali si aggiungono oltre 2 mila euro di mancata restituzione del fiscal drag che porta la perdita nel complesso a 5.453 euro
Dieci anni da dimenticare per i lavoratori dipendenti italiani, che hanno visto scemare drasticamente il potere d’acquisto delle loro retribuzioni, calato di quasi 5.500 euro. Dal 2000 al 2010, infatti, a causa dell’inflazione effettiva più alta di quella prevista, c’è stata una perdita cumulata di potere d’acquisto dei salari lordi di fatto di 3.384 euro (solo nel 2002 e nel 2003 si sono persi oltre 6.000 euro) che, sommata alla mancata restituzione del fiscal drag, si è tradotta in 5.453 euro in meno per ogni lavoratore dipendente alla fine del decennio.
E’ questo il dato che emerge dal quinto rapporto Ires-Cgil “Salari in Italia: un decennio perduto”, presentato oggi in corso d’Italia dal segretario generale Guglielmo Epifani, e dal presidente dell’Ires Agostino Megale. Secondo l’analisi dell’istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil, nel 2010 le retribuzioni contrattuali rispetto all’inflazione dell’1,7 per cento crescono del 2,1 per cento, le retribuzioni di fatto aumentano del 2,1 per cento e le retribuzioni nette dell’1,9 per cento. Con un incremento della pressione fiscale dello 0,2 per cento in corso d’anno.
A questo punto, spiega l’Ires, “se consideriamo il biennio della crisi, contiamo un aumento della pressione fiscale dello 0,4 per cento. L’incremento medio reale del biennio 2009-2010 risulta pertanto di appena 16,4 euro netti medi mensili. Se, inoltre, calcoliamo la crescita delle retribuzioni includendo anche l’abbattimento del reddito dovuto al massiccio ricorso alla cassa integrazione, l’aumento netto reale in busta paga, per tutti i lavoratori dipendenti, risulta solamente di 5,9 euro al mese”. In Italia insomma esiste “un grande problema che riguarda l’abbassamento dei salari collegato soprattutto al prelievo fiscale – osserva Epifani -. Ecco perché è urgente un intervento che sgravi i lavoratori dipendenti almeno dagli effetti del fiscal drag”. Il peso fiscale, continua il dirigente sindacale, in questi anni “si è trasferito dai salari ai profitti e dai profitti alle rendite”. Quindi adesso bisogna “riequilibrare il peso del prelievo a favore dei lavoratori dipendenti” e anche in fretta, “non si possono aspettare le calende greche”.
Per Epifani proprio “il nostro sistema fiscale sta uccidendo la produttività” e “questa non è una affermazione forte ma un’affermazione giusta”. Di fatto “se si aumenta il carico fiscale solo sul lavoro, riducendolo invece su altri fattori, si fa una operazione contro la produttività del paese”. Un’operazione, aggiunge il leader della Cgil, “totalmente iniqua e sbagliata sotto il profilo di una politica per la crescita”.
Per questo serve “ridurre il carico fiscale su redditi e pensioni senza dover aspettare altri tre anni – ribadisce – perché il lavoro non è una gallina dalle uova d’oro”. Anzi, complici gli effetti della recessione il problema dell’occupazione oggi rischia di “esploderci tra le mani”.
In questo senso la vicenda Castellamare, dove i lavoratori stanno protestando contro l’ipotesi di chiusura dello stabilimento della Fincantieri, non è un caso isolato: “Ci sono tante Castellammare – avverte Epifani – non solo al Sud ma in tutto il Paese”. Per questi motivi adesso è necessaria una linea comune con imprese e sindacati, anche se “concertazione è una parola grossa”. Ma al momento, afferma il numero uno di corso d’Italia, ci sono “due o tre questioni su cui ci può essere convergenza con Cisl, Uil e Confindustria”. Ovvero “prorogare la Cig in deroga per il 2011 e 2012, dare una prospettiva ai lavoratori in mobilità e ridurre le tasse sul lavoro dipendente”. Tutto per rispondere a una situazione “allarmante” che “è aggravata dal fatto che l’Italia esce dalla crisi peggio degli altri paesi e non meglio, come ha osservato giustamente Marcegaglia”. Lo Stivale infatti “affronta il dopo crisi in condizioni più difficili”, dichiara Epifani, e la colpa è anche del governo che “ha fatto una politica di tagli indiscriminati senza varare al contempo investimenti in settori strategici” per la crescita, come “la ricerca, la scuola e l’università” e ovviamente “il lavoro”. Eppure, chiosa il segretario della Cgil, “tutte le vie d’uscita passano attraverso questo snodo, che è il cambiamento della politica economica e sociale”.
Tornando al rapporto dell’Ires, secondo le stime dell’Istituto la perdita cumulata in dieci anni e calcolata sulle retribuzioni equivale a circa 44 miliardi di maggiori entrate complessivamente sottratte al potere d’acquisto dei salari. Questo spiega perché, nel periodo 2000-2010, le entrate da lavoro dipendente abbiano registrato una crescita reale (quindi al netto dell’inflazione) del 13,1 per cento a fronte di una flessione reale di tutte le altre entrate del -7,1 per cento. In ogni caso, nel periodo 2000-2008, a parità di potere d’acquisto, le retribuzioni lorde italiane sono cresciute solo del 2,3 per cento rispetto alla crescita reale delle retribuzioni lorde dei lavoratori inglesi del 17,40 per cento, francesi e americani (4,5 per cento). Sempre questo, prosegue il report, spiega anche come, in Italia, a parità di potere d’acquisto, nonostante una dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto più sostenuta, le retribuzioni e lo stesso costo del lavoro risultino all’ultimo posto della classifica Ocse 2008.
Eppure, classificando i 30 Paesi Ocse attraverso l’indice di concentrazione del reddito lo Stivale risulta il sesto paese più diseguale. “Come ci ha insegnato la crisi – evidenzia l’Ires – a generare la bassa crescita a zero sviluppo contribuisce anche un’iniqua distribuzione del reddito. In Italia, la distanza tra reddito medio e reddito mediano (del 50 per cento popolazione più povera) risulta invece essere cresciuta più di tutti gli altri paesi Ocse, passando negli ultimi 15 anni, dal 10,5 per cento al 17,3 per cento (prima della crisi). La previsione è che nel 2011 tale distanza raddoppierà, superando il 20 per cento”.
Già oggi, si legge ancora, oltre 15 milioni di lavoratori dipendenti guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese. Circa 7 milioni ne guadagnano meno di 1.000, di cui oltre il 60 per cento sono donne. Oltre 7 milioni (63 per cento) di pensionati di vecchiaia o anzianità guadagna meno di mille euro netti mensili.
Ma da chi è composto il ventaglio delle disuguaglianze italiane? Secondo l’Ires, elaborando i micro dati dell’indagine sulle forze lavoro Istat e prendendo come riferimento il salario netto medio mensile di 1.260 euro, emerge che: una lavoratrice guadagna il 12 per cento in meno; un lavoratore di una piccola impresa (1-19 addetti) il 18,2 per cento in meno; un lavoratore del Mezzogiorno il 20 per cento in meno; un lavoratore immigrato (extra Ue) il 24,7 per cento; un lavoratore a tempo determinato il 26,2 per cento; un giovane lavoratore (15-34 anni) il 27 per cento in meno e un lavoratore in collaborazione il 33,3 per cento in meno.
A conferma dei queste dinamiche, interviene il fatto che in Italia la caduta del potere d’acquisto per abitante in realtà risulta già molto evidente prima del 2009: rispetto al “picco” del terzo trimestre 2006 la flessione del reddito delle famiglie italiane in termini reale supera il 6 per cento che corrisponde a oltre 1.100 euro annui.
Contemporaneamente “il rapporto tra debito (mutui e credito al consumo ad esempio) e reddito medio lordo delle famiglie ha raggiunto il 60 per cento (circa 27 punti in più dal 2001 al 2009 e 5 punti nell’ultimo anno). Il confronto tra l’andamento del potere d’acquisto del reddito disponibile familiare tra il 2002 e il 2010 – secondo le elaborazioni e le stime Ires – rileva una perdita di circa -3.118 euro nelle famiglie di operai e impiegati, contro un guadagno di 5.940 euro per professionisti e imprenditori”.
Secondo gli economisti, “principale causa e al tempo stesso conseguenza della crisi è proprio la caduta della quota distributiva del lavoro sul reddito nazionale, in Italia come in tutti gli altri paesi industrializzati. Anche i dati sulla dinamica dei profitti delle maggiori imprese industriali italiane (campione Mediobanca) – ricorda l’Istituto di analisi della Cgil – indicano che dal 1995 al 2008 i profitti netti sono cresciuti di circa il 75,4 per cento e, al contempo, dal 1990 a oggi, si registra una crescita dei redditi da capitale (rendite) pari a oltre l’87 per cento; mentre i salari netti sono sotto il valore reale del 2000.
Il problema, però, risiede nel fatto che l’andamento della quota di investimenti in rapporto ai profitti, dell’intera economia, negli ultimi trent’anni, ha segnato una caduta del 38,7 per cento.
Il punto, quindi, insieme alla perdita registrata dai salari netti e all’aumento delle disuguaglianze, sono gli investimenti mancati e la produttività perduta. La produttività reale delle imprese italiane è cresciuta dal 1995 di 1,8 punti percentuali, mentre quella delle imprese di Francia, Regno Unito e Germania è salita dai 25 e i 32 punti.
A pesare su tale “forbice” sono diverse determinanti della produttività – di cui il sistema di relazioni industriali rappresenta solo un singolo fattore – i cui maggiori effetti nell’economia italiana si possono riscontrare nella piccola dimensione d’impresa e nella forte specializzazione in settori a bassa intensità tecnologica e della conoscenza. La produttività di questi paesi, in ogni classe dimensionale d’impresa, infatti, è nettamente più alta di quella italiana, a eccezione delle medie imprese, in cui siamo i primi (escludendo il Regno unito) tra i paesi industrializzati europei. Escludendo le piccole imprese dai raffronti sulla produttività i differenziali con gli altri paesi si riducono radicalmente. “Il risultato – conclude il rapporto – è un decennio perduto di crescita, occupazione, produttività e salari netti”.
(fonti agi/velino/ ansa)
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15842
—
Celiaci si diventa, raddoppiati casi fra adulti 27.09.2010
L’intolleranza al glutine compare sempre più spesso, 10.000 nuovi casi l’anno in Italia
di Maria Emilia Bonaccorso
ROMA – Celiaci non si nasce, si diventa. La frequenza della celiachia è in costante aumento e l’intolleranza al glutine compare sempre più spesso fra gli adulta o addirittura fra anziani. Tanto da avere indotto l’Associazione Italiana Celiachia (AIC) a lanciare un appello a prestare attenzione ai segni della celiachia proprio fra queste fasce di età e non solo fra i bambini. L’ipotesi giudicata dagli esperti la più attendibile sarebbe legata ai fattori ambientali: il consumo abbondante e pressoché esclusivo di farine fatte con grani ad alta resa per la produzione nei campi ma molto ricchi di glutine ‘tossico’, sono probabilmente alla base della perdita della tolleranza al glutine in età avanzata.
Secondo i dati raccolti da ricercatori italiani del Center for Celiac Research dell’università di Baltimora, negli Stati Uniti, il numero delle nuove diagnosi fra gli over 60 è raddoppiato in 15 anni. I dati arrivano da un ampio studio epidemiologico condotto da ricercatori italiani dell’università di Baltimora, negli Stati Uniti, in collaborazione con l’università Politecnica delle Marche di Ancona, la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, il Women and Children’s Hospital di Buffalo ed il Quest Diagnostics Inc. di San Juan Capistrano in California. Lo studio pubblicato sulla rivista Annals of Medicine, ha riguardato 3500 cittadini americani di cui i ricercatori conservavano campioni di sangue raccolti nel 1974, quando già tutti erano entrati nell’età adulta; gli stessi soggetti sono stati analizzati poi a quindici anni di distanza, nel 1989.
“Il numero di persone diventate celiache è raddoppiato in quindici anni, passando da un caso su 501 nel 1974 a uno ogni 219 nel 1989″ spiega il coordinatore della ricerca Alessio Fasano, direttore dell’University of Maryland’s Mucosal Biology Research Center e del Celiac Research Center. Per Carlo Catassi dell’Università Politecnica delle Marche ad Ancona, condirettore del Center for Celiac Research e membro della Fondazione Celiachia, questi risultati ribaltano il concetto diffuso secondo cui la perdita di tolleranza nei confronti del glutine avvenga per lo più nell’infanzia: la malattia può manifestarsi a qualsiasi età”. “Tutto questo ha un’importante conseguenza sul piano pratico e clinico: significa che non bisogna mai abbassare la guardia, facendo screening di celiachia anche e soprattutto nell’anziano”, consiglia Elisabetta Tosi, Presidente dell’Associazione Italiana Celiachia. La celiachia è una patologia autoimmune scatenata dal consumo di glutine, proteina presente nel grano, orzo e segale. I sintomi classici sono la diarrea, il gonfiore intestinale e i dolori addominali, ma spesso si manifesta con altri sintomi come dolori articolari, stanchezza cronica e depressione rendendo più difficile la diagnosi: se non riconosciuta, l’intolleranza al glutine può causare un cattivo assorbimento di nutrienti, danno dell’intestino e altre complicanze.
OGNI ANNO 10.000 NUOVI CASI IN ITALIA – Cresce la celiachia: sono oramai 101 mila i celiaci In Italia e le diagnosi aumentano fra le persone adulte e gli anziani, come rivelano gli ultimi studi. Sono circa 10.000 le nuove diagnosi ogni anno nel nostro Paese e 1 su 100 è l’incidenza dei celiaci in Italia e nel mondo. Tuttavia sono 500.000 i celiaci in Italia che non sanno di esserlo. I costi della celiachia non sono affatto bassi: 200 sono gli euro che le famiglie spendono per la diagnosi dove non è stato applicato il decreto sulle malattie rare che consente la diagnosi gratuiti anche ai parenti di primo grado. Si aggira attorno ai 150 milioni la spesa complessiva in Italia per gli alimenti senza glutine. Oltre 2000 sono le strutture di ristorazione in Italia, alberghi, ristoranti pizzerie e gelaterie, che possono ospitare celiaci in sicurezza e circa 2000 è il numero dei prodotti senza glutine contenuti nel registro Nazionale degli alimenti, quello dei prodotti erogabili. Il 2005 è stato l’anno a partire da quale i celiaci hanno potuto contare su una legge di tutela che garantisce loro il diritto di avere un pasto senza glutine in tutte le mense pubbliche.
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2010/09/27/visualizza_new.html_1759318763.html
—
Una proteina per ‘fermare’ i tumori più resistenti 29.09.2010
Lo studio è stato pubblicato a settembre sulla prestigiosa rivista specialistica ‘Cancer Cell’.
A firmare l’importante lavoro, un team tutto italiano dell’Istituto nazionale tumori ‘Regina Elena’ di Roma e dell’Istituto di biologia e patologie molecolari (Ibpm) del Cnr finanziati in parte dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc) e in collaborazione con colleghi dell’Università dell’Aquila e dell’Istituto superiore di sanità. I ricercatori hanno compreso come la proteina ‘Che-1′ abbia effetti devastanti sulle formazioni tumorali, attivando un gene che favorisce la proliferazione delle cellule malate, e messo a punto un’innovativa tecnica per arrestare il processo.
Tutto ha inizio con l’individuazione e l’isolamento, da parte del gruppo, della proteina ‘Che-1′, che svolge un ruolo fondamentale in caso di danno al Dna, promuovendo la trascrizione del gene ‘p53′, la cui attivazione induce la riparazione del Dna danneggiato o alla morte cellulare programmata quando il danno è irreparabile.
In molti tumori tale gene è presente in una forma mutata, detta ‘mtp53′, che non solo non è più in grado di arrestare la crescita delle cellule malate, ma svolge al contrario un importante ruolo nel favorirne la proliferazione. Il gruppo ha scoperto che ad attivarlo è sempre la proteina ‘Che-1′, che nelle cellule normali ‘attiva’ il gene ‘p53′ e in quelle cancerose la forma mutata del gene. Da qui l’idea di provare a ‘silenziare’ l’attività di ‘Che-1′ nelle cellule malate: è emerso che senza tale proteina le cellule tumorali che esprimono il gene ‘mtp53′ muoiono. In pratica si attivano nella cellula percorsi alternativi di riparazione del danno che portano ad arrestare la progressione del tumore causandone addirittura la riduzione. Un risultato importante, che apre la strada a nuovi approcci terapeutici nella lotta a tumori aggressivi o resistenti alle terapie.
“Il contributo dell’Ibpm-Cnr è legato soprattutto alla fase di caratterizzazione molecolare della proteina, essendo il nostro gruppo più orientato alla ricerca biotecnologica di base”, spiega Claudio Passananti. “Quella tra il Cnr e l’Istituto Regina Elena è una collaborazione che va da anni grazie alle diverse competenze e know-how, ha consentito di ottenere importanti risultati. Solo per citare uno dei più recenti, la realizzazione in laboratorio del gene sintetico denominato ‘jazz’ che potrebbe aprire innovativi scenari nella lotta a una delle patologie più devastanti e tuttora incurabili, la distrofia muscolare di Duchenne
Fonte: Claudio Passananti, Istituto di biologia e patologie molecolari del Cnr presso l’ospedale ‘Regina Elena’ di Roma, tel. 06/52662573, email claudio.passananti@ibpm.cnr.it
—
Rispondi