Esplosivi: lo spray che fiuta i perossidi 01.04.2011
Un materiale spray composto di nanoparticelle di ossido di metallo in grado di localizzare e neutralizzare esplosivi a base di perossidi. È questo l’ultimo ritrovato nella lotta al terrorismo e agli attacchi suicidi, presentato da un gruppo di ricercatori della Oklahoma State University (Stillwater, Oklahoma) in occasione del National Meeting & Exposition of the American Chemical Society, che si è tenuto questa settimana ad Anaheim, in California. Secondo gli studiosi, il nuovo materiale, simile a un inchiostro, potrebbe essere lo strumento più valido messo a punto finora per contrastare la minaccia di ordigni al perossido di idrogeno.
Gli ordigni a base di perossidi – hanno spiegato i ricercatori – sono particolarmente facili da produrre e far esplodere. A farli conoscere al mondo, quasi 10 anni fa, fu il caso di Richard Reid, soprannominato “shoe bomber”, che il 22 dicembre del 2001 cercò di farne esplodere uno a bordo di un aereo della American Airlines. In particolare, una sostanza ritenuta ad alto rischio è il perossido di acetone (TATP), spesso nascosta nei vestiti degli attentatori suicidi o in altri dispositivi rudimentali che possono essere nascosti nel cibo o nelle bevande.
Se passi in avanti sono stati fatti per l’identificazione di mine (vedi Galileo) ed esplosivi a base di azoto (vedi Galileo), le bombe rudimentali sono sempre state, finora, particolarmente difficili da scovare. Stando ai primi test, invece, il nuovo materiale sarebbe capace di individuare questi esplosivi. “L’inchiostro – ha spiegato Allen Apblett, la ricercatrice che ha diretto lo studio – è fatto di particelle nanoscopiche di un composto di molibdeno (un metallo di transizione utilizzato, tra le altre cose, per la realizzazione di missili e parti di velivoli, ndr.), così piccole che nella sezione orizzontale di un capello ce ne possono entrare circa 50.000″.
L’inchiostro cambia colore, da blu scuro a giallo chiarissimo, in presenza di un esplosivo. Inoltre, è anche in grado di agire come sensore elettronico, modificando il suo stato da conduttore metallico a isolante. Quando si trova nelle vicinanze di un esplosivo, insomma, il materiale spray si fa sempre più chiaro e smette di condurre elettroni. Secondo i ricercatori, può essere utilizzato anche come neutralizzatore, ad esempio spruzzandone quantità più ampie su ordigni o pacchi sospetti fino a quando il colore non cambia, oppure immergendo gli eventuali esplosivi in contenitori pieni del nuovo reagente.
Nella sua funzione di sensore elettronico, in particolare, il materiale riesce a rilevare in una trentina di secondi la presenza di vapori di TATP a livelli inferiori alle 50 parti per milione, equivalenti a poche gocce di vapore in una stanza. Lo spray – sostengono gli studiosi della Oklahoma State University – potrebbe essere usato in contesti tanto diversi quanto campi di guerra, aeroporti e metropolitane. I soldati, per esempio, potrebbero indossare dei sensori a mo’ di badge sulle loro uniformi, oppure utilizzarli come delle strisce simili a dei fogli di carta. Aeroporti, metropolitane e altre strutture, invece, potrebbero integrare questi sensori ai loro dispositivi di monitoraggio. Andando più in là con la fantasia, i ricercatori immaginano anche la possibilità di incorporare i sensori in gioielli e telefoni cellulari.
Infine, un altro potenziale campo d’applicazione riguarda la sicurezza nei laboratori che usano sostanze chimiche esplosive. Recentemente, infatti, Apblett e colleghi hanno sviluppato delle “pallette” contenenti il nuovo reagente: aggiungendole ai solventi, è possibile accorgersi per tempo della formazione di livelli pericolosi di perossido.
Riferimento: Acs
http://www.galileonet.it/articles/4d957f4a72b7ab101200002e
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Case di riposo, almeno 700 residenze fantasma 03.04.2011
Recentemente è stato reso pubblico uno studio dell’Auser sulle case di riposo, nel quale è emerso che si sono moltiplicati i casi di istituti sconosciuti agli enti pubblici. Molte le irregolarità rilevate le più frequenti delle quali sono l’assenza di autorizzazioni, strutture non adeguate, numero di ospiti superiore al consentito. Esamina lo studio Francesco Montemurro in un articolo pubblicato su www.rassegna.it:
“Una giungla di servizi e residenze, dove sul concetto di adeguatezza prevale la carenza di trasparenza e regolamentazione. Il sistema delle ‘Case di riposo’ indagato dall’Auser nazionale è una realtà costituita dalle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa, che assistono in modo particolare anziani non autosufficienti) e dalle Residenze assistenziali (Ra, che invece ospitano soprattutto utenti autosufficienti e con una lieve non autosufficienza). L’attenzione, però, si è focalizzata sul secondo tipo di strutture: cioè proprio quelle che in genere vengono qualificate come ‘Case di riposo’, dove negli ultimi anni è cresciuta in modo considerevole la presenza di irregolarità e di fenomeni di disagio sociale…
Un sistema ‘incerto’, dunque, tanto che basta la mappatura dei principali elenchi telefonici e commerciali delle case di riposo (ad esempio le ‘pagine gialle’) per far emergere una buona parte del sommerso: cioè fino a settecento residenze che vivono nell’oscurità, senza contatti con gli enti pubblici, con la comunicazione all’esterno ridotta al lumicino e con pochissimi controlli a carico.
Veniamo all’indagine effettuata sul campo.Una parte considerevole delle strutture socio-assistenziali è ubicata in aree a basso costo delle abitazioni. Questo fenomeno è presente in modo diffuso, in particolare nei grandi centri abitati (Roma, Torino, Milano e Napoli), dove le scelte delle famiglie, strettamente connesse alle tariffe di soggiorno richieste dalle Case di cura, costringono l’anziano all’ulteriore disagio di vivere distante, spesso decine di chilometri, dal proprio nucleo familiare. Si tratta di un vero e proprio fenomeno di ‘migrazione’ territoriale dell’anziano, in diversi casi ‘abbandonato’ a se stesso, anche a causa della distanza, all’interno della struttura assistenziale…
Critica è inoltre la situazione relativa alle autorizzazionial funzionamento e in particolare all’adeguatezza delle Case di riposo per anziani. In base alle indagini svolte dai Nuclei antisofisticazione e sanità (Nas) dei carabinieri il 27,5% degli 863 controlli effettuati nel 2010 presso le strutture residenziali per anziani ha rilevato irregolarità. Erano, infatti, 283 i casi di strutture non in regola, con 371 infrazioni rilevate. Autorizzazioni mancanti, strutture non adeguate, numero di anziani ospitati superiore rispetto a quanto possibile, oltre alla mancanza di condizioni adeguate (igienico-sanitarie, sicurezza ecc.) e con attività infermieristiche esercitate in modo abusivo: queste le infrazioni maggiormente riscontrate.
Per comprendere meglio le dimensioni del fenomeno delle irregolarità nelle Case di riposo ne abbiamo osservato, attraverso la stampa nazionale e locale (un campione di novanta quotidiani e settimanali), alcune caratteristiche. Nel 2010 sono 286 le notizie di abusi ‘smascherati’ di Case di cura abusive e illegali, un fenomeno ben più diffuso di quel che si pensi. I casi rilevati in base agli articoli pubblicati si concentrano per lo più nelle regioni del Sud (39,5% del totale), a fronte di ottantadue articoli riguardanti zone del Centro (circa il 29%), mentre il restante 31,8 riguarda interventi delle forze dell’ordine nel Nord: nel dettaglio quarantuno casi nel Nord-Est (14,3%) e cinquanta nel Nord-Ovest (17,5%). L’esame dei testi ha preso in esame, quale unità di analisi, l’infrazione rilevata, il cui numero totale è pari a circa 1.240 ‘reati’…
L’analisi ha riguardato anche il contatto diretto con le Case di riposo, con particolare riferimento a quelle private, rivolte alla popolazione autosufficiente. La totalità delle residenze facenti parte del campione non è presente negli elenchi regionali e al momento del contatto non presentava un sito web funzionante presso il quale reperire informazioni. Nel complesso sono state identificate quattrocento strutture, localizzate nel territorio nazionale secondo il seguente schema: a fronte di quattrocento contatti sono stati complessivamente compilati 227 questionari relativi ad altrettante Case di riposo, con un ‘successo’ del 56,8%.
L’obiettivo dell’indagine telefonica è la costituzione di un quadro conoscitivo significativo delle strutture oggetto di analisi, sia sotto il profilo organizzativo e funzionale, sia per quanto riguarda le relazioni con gli utenti anziani e le loro famiglie. La maggior parte delle Case di riposo intervistate, mediamente circa il 65%, è collocata in una zona periferica, percentuale che cresce fino al 73% nel Nord-Ovest e risulta invece più contenuta (58%) nel Sud e nelle Isole. Molte strutture inoltre sono distribuite su più livelli di uno stesso stabile (209 casi su 227); nonostante questo solamente in 144 casi le informazioni ricevute confermano la presenza di un ascensore.
Le strutture oggetto di analisi risultano per lo più di modeste dimensioni, idonee a ospitare in genere non più di tredici anziani. Risulta assente una figura professionale operante nel settore sanitario (medico, infermiere) in più del 67% delle strutture; figura presente in maniera stabile (24 ore) in 74 casi su 227 complessivi…
Per quel che concerne l’assistente sociale quasi il 70% delle case di riposo dichiara di non far ricorso a questa figura, neanche saltuariamente. Al di sotto del 30% inoltre anche la presenza continuativa di attività di animazione.
In linea generale nel Sud e nelle Isole i prezzi appaiono più contenuti che nel resto della penisola; evidenti le diversità geografiche, sebbene permangano forti disparità anche nella medesima area. L’impegno economico richiesto alle famiglie per la permanenza degli anziani autosufficienti in una Casa di riposo è molto elevato.
I prezzi, seppur mediamente si attestano attorno ai 1.400-1.500 euro, possono spesso oltrepassare la soglia dei 2.500-3.000 euro, rilevati a Roma e Milano, fino ad arrivare a 4.200. Molto dipende dalla tipologia e dai servizi offerti dalla ‘Casa di riposo’, più spesso dalla presenza o meno di convenzioni con la Regione, in altri casi le differenze rilevate appaiono senza motivazione…”.
Quindi la gestione delle case di riposo è ormai diventato un “business” di notevoli proporzioni. Importa poco fornire un’assistenza adeguata agli anziani a prezzi non eccessivi. Ciò che più conta è guadagnare il più possibile. E che importa se le irregolarità sono ampiamente diffuse, che importa se gli anziani sono trattati male. Le responsabilità certo sono anche di coloro che gestiscono quegli istituti, tramite i quali si realizzano delle vere e proprie attività speculative. Ma le responsabilità maggiori sono degli enti che non garantiscono l’effettuazione dei necessari controlli. I controlli, in realtà, sono pochi e le conseguenze sono quelle evidenziate nello studio dell’Auser.
http://paoloborrello.splinder.com/post/24395148/case-di-riposo-almeno-700-residenze-fantasma
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Costa d’Avorio, un migliaio tra morti e dispersi Feriti 4 caschi blu. La Caritas: “E’ una strage” 03.04.2011
Tensione alta e situazione instabile in Costa d’Avorio. Continuano i combattimenti tra le forze del presidente uscente Gbagbo e il capo di Stato legittimo Outtara. La Caritas denuncia: “E’ un massacro”
Abidjan – Bagno di sangue in Costa d’Avorio. Un migliaio di persone risultano morte o disperse nella località di Duekoué, nell’ovest del Paese, teatro di un “massacro avvenuto fra domenica e martedì”. A renderlo noto è l’ong Caritas. La strage è avvenuta nel quartiere “Carrefour”, controllato dalle forze del presidente legittimo Alassane Oauttara “nel corso di combattimenti avvenuti fra domenica 27 marzo e martedì 29 marzo”, si legge in un comunicato dell’organizzazione umanitaria. L’ong “ignora chi sia responsabile di questo massacro ma indica come un’inchiesta possa accertare la verità: la Caritas condanna gli attacchi contro i civili e sottolinea come la situazione stia peggiorando rapidamente”.
La condanna degli Usa Il presidente ivoriano uscente, Laurent Gbagbo, deve “cedere immediatamente il potere” al capo di Stato legittimo, Alassane Ouattara, prima di condurre il Paese verso “l’anarchia”: lo ha dichiarato il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, la quale ha poi espresso “grave preoccupazione” di fronte alla “situazione pericolosa e in fase di degrado” nel Paese: le forze di Gbagbo e Ouattara si affrontano da tre giorni ad Abidjan mentre l’Onu e molte ong hanno accusato le parti di essere responsabili di massacri nelle regioni occidentali.
Gbagbo non lascia Gbagbo si rifiuta di lasciare il potere ad Alassane Ouattara nonostante abbia perso le elezioni dello scorso novembre. Le forze fedeli a Ouattara, riconosciuto legittimo presidente dalla comunità internazionale, hanno preso il controllo di quasi tutto il Paese. Un consigliere del presidente ivoriano Alassane Ouattara ha detto che i combattenti si stanno preparando per un’azione finale per deporre il leader Laurent Gbagbo, ex capo di Stato che non vuole lasciare il potere. Le forze di Ouattara, presidente riconosciuto internazionalmente, si sono radunate ieri sera fuori dalla capitale commerciale Abidjan e hanno previsto un’avanzata oggi verso il centro della città. La situazione è tuttavia al momento calma vicino al palazzo presidenziale di Gbagbo. Ieri il suo governo ha invitato i civili a formare uno scudo umano intorno al suo ufficio e alla casa e centinaia di giovani si sono riuniti vicino all’edificio questa mattina. I sostenitori di Ouattara hanno preso ormai il controllo di quasi l’80% della nazione, grande più o meno quanto la Polonia.
Intanto oltre 1.500 cittadini stranieri, di cui circa la metà francesi, si sono rifugiati nella base militare di Port Bouet ad Abidjan, principale città della Costa d’Avorio. Gli stranieri si trovano sotto la protezione del contingente francese “Licorne”, sul posto per appoggiare le forze dell’Onu e proteggere i cittadini francesi: tra gli altri rifugiati vi sarebbero una cinquantina di europei e numerosi libanesi, in attesa di un volo di rimpatrio.
Feriti 4 caschi blu Inoltre quattro Caschi Blu del contingente dell’Onu (Onuci) in Costa d’Avorio sono stati “gravemente feriti” dai militari del presidente uscente Laurent Gbagbo: lo hanno reso noto fonti delle Nazioni Unite. “Una pattuglia dell’Onuci è stata ancora una volta oggetto di colpi d’arma da fuoco da parte delle forze speciali di Gbagbo mentre effettuava una missione umanitaria”, si legge in un comunicato che non fornisce ulteriori dettagli sulla nazionalità dei Caschi Blu coinvolti.
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clochard 04.04.2011
Dino Erba Il sogno americano è morto
Congratulazioni a Dino Erba per l’ottimo assemblaggio.
e
Ci risiamo…
Dagli States giungono segnali preoccupanti, ma inequivocabili, che la corsa al prossimo crash sta prendendo velocità.
In questi anni più volte si è detto che gli investitori americani (ma non solo) non hanno imparato la lezione e ci ricascano. Succede che stanno tornando di moda i bond garantiti dai mutui subprime, i famigerati prodotti finanziari che hanno contribuito a scatenare il crash dell’autunno 2008.
Come se non bastasse, sul fronte del debito, gli Usa stanno superando la Grecia. In peggio. Lo afferma Bill Gross, il gestore del più grande fondo obbligazionario al mondo: la Pacific Investment Management Co (PIMCO)
«In un report della società, citato dall’agenzia «Bloomberg», il supergestore ha dipinto un futuro a tinte fosche per i titoli di Stato a stelle e strisce. I “Treasuries” (titoli di Stato), queste le sue parole, “hanno poco valore” a causa del crescente peso del debito americano. Un numero? Gli Stati Uniti, secondo Gross, hanno un’esposizione complessiva, contando anche il sommerso (fuori dalle statistiche ufficiali) di 75 mila miliardi di dollari, vale a dire quasi il 500% del Pil. Il debito pubblico (ufficiale) italiano, per intenderci, viaggia intorno al 120%. Alla somma, a quel 500%, Gross è arrivato aggiungendo alle obbligazioni tradizionali i debiti per i programmi di sicurezza sociale e assistenza sanitaria. E, a conti fatti, il gestore ha completamente azzerato il debito governativo nel suo Total Return Fund.
Pronosticando oltre Atlantico inflazione, svalutazione del dollaro e tassi d’interesse reali vicini allo zero se non addirittura negativi: uno scenario poco incoraggiante tanto per chi compra e vende Treasuries ogni giorno quanto per chi aspetta la scadenza naturale delle obbligazioni.
E Gross non è l’unico a parlare con questi toni. Il finanziere miliardario Warren Buffett ha consigliato di evitare gli investimenti in obbligazioni di lungo termine in dollari, prevedendo un calo del potere d’acquisto del biglietto verde. Se una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze possono benissimo rappresentare un indizio.
[Giovanni Stringa, Il supergestore che snobba la Casa Bianca, «Corriere della Sera», 2 aprile 2011, p. 53.]
Per una descrizione di quanto avviene negli States, ecco l’articolo di Robert Reich.
CI STIAMO INCAMMINANDO VERSO UN’ALTRA CRISI
DI ROBERT REICH huffingtonpost.com
Perché agli Americani (1) non viene detta la verità sull’economia? Siamo indirizzati verso un’altra crisi, ma non ne verremmo mai a conoscenza ascoltando i messaggi ottimisti che arrivano da Wall Street e da Washington.
I consumatori rappresentano il 70% dell’economia Americana e la loro fiducia è crollata: oggi è mediamente più debole che nel punto più basso della Grande Depressione.
Un sondaggio, tenuto da Reuters e dall’Università del Michigan, evidenzia un calo di dieci punti a marzo , il decimo più alto mai registrato. Parte di questo calo è da attribuire al rincaro della benzina e a quello dei generi alimentari.
Un diverso indice della fiducia dei consumatori, appena realizzato, mostra che la fiducia sta calando da cinque mesi, e per larga parte ciò è dovuto all’aspettativa di trovare impieghi peggiori e di ricevere salari più bassi nei mesi a venire.
I consumatori pessimisti acquistano meno, e vendite inferiori significano guai in vista.
E i 192,000 nuovi impieghi che si sono aggiunti a febbraio (per quelli di marzo ne sapremo qualcosa di più venerdì)? Un’inezia in confronto a quanto sarebbe necessario;
ricordiamo che 125,000 nuovi impieghi sono sufficienti solo per vedere aumentare il numero delle persone in cerca di un lavoro, visto che la nazione ha perso così tanti impieghi negli ultimi tre anni che persino una quota di 200,000 nuovi assunti al mese non riuscirebbe a farci giungere al 6% di disoccupazione prima del 2016.
Ma l’economia non sta di nuovo crescendo, per una stima che va dal 2,5 a, 2,9%? Sì, ma sono bruscolini. Più profonda è la voragine economica, più rapida dovrà essere la crescita per rientrare sui giusti binari; al punto in cui siamo, da una vera crescita, dovremmo aspettarci un incremento che va dal 4 al 6% ogni anno.
Consideriamo che nel 1934, quando si stava uscendo dalla crisi più profonda della Grande Depressione, l’economia cresceva del 7,7%, l’anno successivo dell’8% e nel 1936 giunse ad un incremento sensazionale del 14,1%.
Aggiungiamo due fattori preoccupanti: il totale delle le ore lavorate continua a diminuire e i prezzi delle case continuano a scendere. Le retribuzioni orarie stanno calando, perché la disoccupazione è così alta che molte persone non alcun potere contrattuale e accettano qualsiasi cosa gli venga proposta; i prezzi delle abitazioni diminuiscono perché un numero ancora più alto di persone sono state sfrattate dato che non potevano pagare i loro mutui. Gli Americani stanno diventando sempre più poveri.
Non c’è alcuna possibilità che il governo riesca a risolvere la prossima diminuzione della spesa dei consumatori; al contrario, sta peggiorando la situazione. Quest’anno, gli enti locali e nazionali stanno tagliando i loro bilanci di circa 110 milioni di dollari: lo stimolo federale sta terminando e il governo alla fine taglierà qualcosa come 30 milioni di dollari rispetto a quanto stanziato l’anno scorso.
In parole povere: stiamo all’erta. Potremmo riuscire a evitare una doppia crisi, ma l’economia sta rallentando in modo inquietante e gli interventi di salvataggio sono in via d’esaurimento.
E quindi perché non ci viene detta la verità sull’economia? Come al solito, Wall Street si mostra esuberante, e la maggioranza dei notiziari economici che vengono diffusi arrivano proprio da lì. I profitti di Wall Street sono arrivati a 426,5 milioni di $ nell’ultimo quadrimestre, in base a quanto divulgato dal Commerce Department (questo guadagno è superiore al calo dei profitti delle compagnie nazionali non finanziarie). Tutti quelli che credono che la riforma finanziaria Dodd-Frank abbia posto fine alla creatività della borsa stanno girando la testa dall’altra parte.
Alla fine dei giochi anche le compagnie non finanziarie stanno comunque facendo bene, visto che la maggior parte dei loro profitti viene all’estero: dal 1992, ad esempio, i profitti offshore di G.E. sono saliti a 92 miliardi di $ dai 15 precedenti (anche per il fatto che così non vengono pagate le imposte USA). Infatti, l’unico conglomerato che è ottimista sul futuro è costituito dai general manager delle grandi compagnie Americane. L’indice di prospettiva economica del Business Roundtable, che monitora 142 amministratori delegati, è adesso al suo punto più alto da quando ha iniziato nel 2002.
Washington, nel frattempo, non ha nessuna intenzione di suonare l’allarme economico: la Casa Bianca e la maggior parte di Democratici vogliono che gli Americani credano che l’economia sia in ripresa.
I Repubblicani, da parte loro, si preoccupano che, se gli venisse detto come stanno realmente le cose, allora gli Americani vorrebbero che il governo intervenisse ancora di più; preferiscono non parlare di lavori e di stipendi e così focalizzano l’attenzione sulla riduzione del deficit (oppure diffondendo la menzogna che con la riduzione del deficit si avranno più posti di lavoro e stipendi più alti).
Mi dispiace di aver portato cattive notizie, ma è meglio che voi lo sappiate.
Robert Reich è l’autore di Aftershock: The Next Economy and America’s Future, ora nei negozi. Questo post è originalmente apparso su RobertReich.org
Robert Reich è l’autore di Aftershock: The Next Economy and America’s Future, ora in libreria.
Questo post è originalmente apparso su RobertReich.org
Fonte: www.huffingtonpost.com
Link: http://www.huffingtonpost.com/robert-reich/the-truth-about-the-econo_b_842998.html 31.03.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE Note del Traduttore 1) Traduco alla lettera ‘Americans’, pur con qualche rigetto nell’uso della metonimia.
http://permalink.gmane.org/gmane.politics.activism.neurogreen/33531
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Da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org
Fare peggio del Wisconsin si può 04.03.2011
Dopo che il Wisconsin si è attirato l’attenzione di tutta l’opinione pubblica Usa, tagliando il diritto alla trattativa collettiva dei dipendenti pubblici con una legge che ha portato in piazza quasi 100 mila persone, l’Ohio ha approvato senza grandi clamori una norma forse anche più severa. E’ singolare infatti che non ci sia stata alcuna mobilitazione di massa alla notizia che, ieri, il governatore repubblicano John Kasich ha firmato un provvedimento che limita il diritto alla trattativa collettiva non solo degli statali – come in Wisconsin – ma anche di polizia e vigili del fuoco. Due casi, quelli di Wisconsin e Ohio, che dimostrano la volontà del Partito Repubblicano di andare a toccare gli equilibri di quelli che sono, per sindacati e Democratici, dei diritti fondamentali dei dipenendti pubblici ovvero la possibilità di trattare su buste paga e sovvenzioni.
http://www.nytimes.com/2011/04/01/us/01ohio.html?_r=1&hpw
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Può un’alga salvare Fukushima? 04.04.2011
La Tepco annuncia di dover sversare acqua radioattiva nell’Oceano Pacifico, nel frattempo dalla Northwestern University arriva la notizia di un microrganismo in grado di eliminare le sostanze tossiche
di Caterina Visco
Circa 15 mila tonnellate di acqua radioattiva potrebbero essere presto riversate nell’ Oceano Pacifico. Lo ha dichiarato il portavoce della Tepco, la società che gestisce l’impianto di Fukushima, almeno secondo la Jiji Press: “ Non abbiamo altra scelta che riversare l’acqua radioattiva nell’oceano come misura di sicurezza”. Sembra infatti che questa mossa permetterebbe di far posto nei depositi ad acqua ancora più radioattiva, ovvero quella che sta spillando dalla crepa del reattore numero due della centrale, formatasi sabato scorso. Crepa che i tecnici giapponesi non sono riusciti a chiudere.
Sempre più fondamentali appaiono dunque quelle ricerche incentrate su eventuali contromisure per rimuovere le scorie radioattive dall’ambiente. Come quella sull’alga Closterium moniliferum presentata da Minna Krejci, della Northwestern University di Evanston in Illinois, la scorsa settimana al meeting dell’ American Chemical Society in Anaheim, California e pubblicato su ChemSusChem.
Insieme al suo gruppo di ricerca, infatti, Krejci ha mostrato che oltre alla sua forma curiosa, di spicchio di luna crescente, questo microrganismo ha una proprietà molto interessante: è in grado di rimuovere lo stronzio – compreso il suo isotopo radioattivo, lo stronzio 90, che è uno dei residui dei reattori nucleari – dall’acqua, depositandolo in cristalli all’interno di particolari strutture cellulari chiamate vacuoli.
Lo stronzio ha un’emivita di circa 30 anni ed è capace di infiltrarsi nel latte, nelle ossa, nel midollo osseo, nel sangue e in altri tessuti dove la radiazione emessa può avere azione cancerogena. Questo elemento è molto simile in proprietà e dimensioni al calcio (normalmente presente nei rifiuti dei reattori in quantità fino a dieci miliardi più alte rispetto allo stronzio) rendendo difficile durante i processi biologici separare i due elementi e sequestrare uno o l’altro selettivamente. E qui entra in gioco C.moniliferum.
Secondo quando raccontato nella ricerca statunitense, l’alga raccoglie al suo interno preferibilmente atomi di un altro elemento chimico, il bario. Tuttavia lo stronzio, in quanto a dimensioni e proprietà, è una perfetta via di mezzo tra calcio e bario e viene quindi cristallizzato dall’alga tanto bene quanto quest’ultimo. Cosa che invece non avviene con il calcio che, sebbene più presente, è abbastanza differente rispetto al bario, tanto da non suscitare l’interesse del C. moniliferum.
La funzione dei cristalli all’interno del microrganismo non è ancora chiara e la loro formazione sembra essere la conseguenza di un’alta concentrazione di soluzioni contenenti solfati nei vacuoli. In queste soluzioni, infatti, bario e stronzio non sono solubili e quindi precipitano sottoforma di cristalli.
La parte più interessante dello studio, tuttavia, è quella che mostra la possibilità di incrementare l’accumulo di stronzio da parte dell’alga seminando piccole quantità di bario nei depositi delle scorie o nei siti delle fuoriuscite accidentali. Inoltre, secondo Krejci, potrebbe essere possibile migliorare il processo anche ritoccando i livelli di solfati nell’ambiente. “ Una volta capito meglio come le cellule rispondo alle variazioni di condizioni potremo facilmente trovare metodi più eleganti per manipolarle”, ha commentato la ricercatrice.
Gli scienziati non hanno ancora sperimentato la capacità delle alghe di sopravvivere in ambienti radioattivi, ma anche se non dovessero dimostrare una particolare sopravvivenza questo non sarebbe un grande problema. Infatti, vivrebbero comunque abbastanza per rimuovere parzialmente lo stronzio in quanto i cristalli precipitano nella cellula in circa trenta minuti- un’ora. Inoltre, sono alghe molto semplici da coltivare e quindi si potrebbero facilmente sostituire, anche molto spesso.
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Baratto creativo, divani in cambio di idee 04.04.2011
Un’azienda di design offre mobili in cambio di creazioni artistiche, pezzi di artigianato o anche solo idee intelligenti o folli. Un modello di promozione brillante
di Filippo Ferrari
Io ti do una collezione di 34 cucchiai, ma belli, originali, uno addirittura del MoMA, tutti esposti elegantemente in fila su tre pannelli di sughero. Tu mi dai una sedia nuova, moderna e raffinata, da 600 dollari. Affare fatto? Affare fatto. È quello che succede al Blu Dot Swap Meet, un’iniziativa dell’azienda newyorchese Blu Dot, che dalla fine degli anni Novanta produce interessanti elementi di arredo, fedele a un motto riassumibile in ” buon design per più gente possibile, a prezzi ragionevoli“.
Lo Swap Meet è una brillante trovata promozionale: la gente si collega al sito e propone un oggetto o un’idea in cambio di un mobile firmato Blu Dot a scelta. Se la proposta viene valutata accettabile (magari dopo un po’ di contrattazione), lo scambio viene effettivamente concluso. La lista delle eruzioni di creatività offerte al baratto dagli utenti è sterminata, e comprende trovate che coprono tutta la gamma del possibile dal triviale al sublime, dal grottesco all’improbabile, dal normale al fantasmagorico all’indispensabile.
Ecco alcuni degli scambi accettati e conclusi finora:
– il secondo divano più brutto degli Stati Uniti, per un divano nuovo
– 25 esecuzioni della worm dance in luoghi pubblici, filmate, per un divano
– un’azione della Enron, per una lampada
– una stretta di mano segreta personalizzata, per un comodino
– le repliche di tre macchine teatrali per effetti sonori del Seicento, per un divano.
Ed ecco alcuni di quelli in lizza:
– un impeccabile accento inglese, per una poltrona
– un fungo riscaldante di design, per un tavolo
– una pubblicità permanente tatuata sul corpo, per un letto
– shakespearizzazione di contenuti od oggetti, ripresa in video, per un divano
– un cuscino decorato con immagini dei Daft Punk cucite a mano, per una sedia
– un campione di urine ” pulite” per passare i test antidroga, per una sedia
E ancora modellini architettonici, gambe di manichini, collezioni di teste di bambole, toast con impresso il volto di Gesù, dipinti, sculture, mobili fai da te… La gente si è scatenata.
Ora, si tratta appunto solo di una boutade promozionale, ma il successo è stato notevole. Insomma, lo spunto è buono e sarebbe interessante vederlo applicato anche ad altri soggetti, con baratti di altro genere: ONLUS, case discografiche, software house, negozi online…
Qualcuno ci prova?
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Estratto della rassegna http://caffeeuropa.it/ del 05.04.2011
“…E’ stato ucciso dagli integralisti, come scrive La Repubblica, il direttore del “Teatro della libertà” di Jenin: teatro per bambini in un campo profughi. Si chiamava Juliano Mer-Khamis, ed era un attore molto noto per questo teatro fondato dalla madre, una militante israeliana per i diritti dei palestinesi, sposata a sua volta con un arabo israeliano, dirigente del Partito comunista israeliano. Juliano aveva rifondato il teatro con l’ex comandate locale delle brigate dei martiri di Al Aqsa, Zubeidi, che da tempo aveva abbandonato la lotta armata. Inviso agli integralisti, che lo accusavano di essere una quinta colonna di Israele.
Si definiva, come racconta il Corriere della Sera, “al cento per cento ebreo e al cento per cento palestinese”. E’ stato freddato da cinque pallottole.
E poi
Lunedì entra in vigore la legge francese che vieta il burqa e il niqab in uno spazio pubblico. Vietato il velo, permesso il foulard. Un articolo de La Stampa spiega la pignolissima circolare distribuita a tutti i gendarmi di Francia come vademecum per avere istruzioni precise.
La legge arriva nei giorni in cui il partito di Sarkozy rilancia il dibattito sulla laicità e l’islam in Francia per togliere il monopolio del tema ad una Marine Le Pen in grande ascesa nei sondaggi per le presidenziali.
Su Il Foglio una lunga analisi parla di un Sarkozy che cavalca lo spettro dell’islamizzazione e, in affanno com’è, per guardarsi dalla destra di Madame Le Pen, vuole richiudere lo spazio pubblico alla religione con una “conversione alla laïcité”. Ci si riferisce per l’appunto al convegno del partito di Sarkozy e dedicato alla difesa del principio di laicità, convegno che inizia oggi. Da ministro Sarkozy, negli anni 2003-2004, si era smarcato dall’allora presidente ultralaico Chirac, che nominò una commissione sulla laicità.
Il quotidiano Il Riformista sottolinea che alla conferenza convocata da Sarkozy non ci sarà il premier Fillon.
Alle pagine R2 de La Repubblica si parla della gauche sedotta dalla Le Pen. Ultimo conquistato è Robert Menard, fondatore di Reporters senza frontiere che, secondo il quotidiano, flirta con l’omofobia e si dice favorevole alla pena di morte.
Certamente tra i temi che hanno portato ad una inversione del percorso, l’avversione all’Islam.”
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BRUNO AMOROSO: Capitali congelati, un furto «umanitario» 03.04.2011
La nuova aggressione contro la Libia e il mondo arabo delle potenze militari occidentali fornisce alcune conferme e nuovi insegnamenti. Tra le conferme: l’ipocrisia imperialistica dell’Europa che con questa guerra mette una pietra tombale sulla proclamata partnership euro-mediterranea; la sempre risorgente vocazione al colonialismo socialista della sinistra europea mossa dall’istinto di sciacallaggio di poter attingere al dividendo politico delle imprese militari (la retorica nazionalista dell’inno e della bandiera) per far cadere il governo Berlusconi; l’inservibilità accertata di una Costituzione che come accade per il «lavoro», la «partecipazione» e l’«equità sociale» (evitiamo la parola «giustizia» perché è troppo sputtanata), rivela ancora una volta come le dichiarazioni di principio sul «ripudio della guerra» (art 11 della Costituzione) possono liberamente e autorevolmente essere estese dal presidente della repubblica a iniziative delle organizzazioni internazionali volte non a questo scopo, ma a legittimare iniziative «di guerra».
Ma le novità più interessanti sono sul piano dell’economia. Nel corso degli ultimi anni di fronte a una situazione economica e sociale acuta, ai gravi deficit democratici che questi comportano in Europa, ai numerosi episodi di economia criminale gestiti da sistemi finanziari e bancari nazionali e internazionali, ci è stato ripetutamente spiegato che non si poteva fare nulla, perché l’«economia di mercato» non consente interventi sui mercati e sulla finanza: avremmo spaventato i mercati, gli investimenti. Intervenire su istituzioni come le borse o col controllo politico democratico delle banche centrali, non era neanche pensabile, se non ad utopisti come Federico Caffè e pochi altri.
Cosa è accaduto con la «crisi libica», che è in realtà un complotto per espropriare questo paese delle proprie ricchezze, così come sono state un complotto le recenti crisi finanziarie? Improvvisamente abbiamo scoperto che si possono, tecnicamente e politicamente, espropriare e congelare ingenti capitali investiti in imprese e depositati nelle banche individuandone con certezza la provenienza, la collocazione e le appartenenze. Anche questo, ovviamente, può spaventare investitori privati e pubblici di altri paesi che avessero depositato capitali nelle banche europee. Tuttavia si può fare. E lo si è fatto per un «sentimento» di giustizia verso un gruppo di rivoltosi di una provincia di uno stato amico dei quali peraltro sappiamo molto poco (e quello che sappiamo è inquietante perché manovrato da fuori). Quindi ora abbiamo appreso che lo Stato può congelare ed espropriare capitali per ragioni di «giustizia». Per esempio per proteggere i cittadini greci o italiani dai furti della finanza. O forse i milioni di europei ridotti alla miseria non meritano la stessa solidarietà degli «insorti di Bengasi»?
Ma abbiamo appreso molto di più grazie all’impegno messo in atto da un noto economista, Alberto Quadrio Curzio, sul Corriere della Sera (20 marzo 2011, p. 34). Secondo l’economista la guerra offre grandi prospettive di benessere ai paesi arabi tanto che il vertice che ha deciso la guerra ha anche prospettato grandi progetti economico finanziari per il Medio Oriente con un «Programma di Democrazia e Prosperità». Strano perché è dal 1995 che con l’Accordo di Barcellona con i paesi arabi si parla di prosperità condivisa ma i soldi non si sono mai trovati.
Ma ora sembra si possano trovare. Vediamo come. Congeliamo come abbiamo fatto con i soldi della Libia i capitali dei paesi arabi e li mettiamo in una bella Banca per lo Sviluppo (questa è la proposta qui semplificata), che però amministriamo noi a Roma insieme ai governi arabi amici (non sto semplificando). Così da questa gestione «comune» del petrolio degli arabi, dei soldi degli arabi e dei loro mercati creeremo una area di prosperità della quale, ovviamente, godranno anche gli europei evitando i rischi di progetti di autonomia politica ed economica che pochi sconsiderati come Gheddafi potrebbero sollecitare nel mondo arabo. Naturalmente il cervello di tutto ciò sarebbero i sistemi finanziari e bancari europei, dei quali conosciamo la trasparenza e l’attendibilità politica.
Insomma un bel piano finanziario che ci fa capire meglio le ragioni della guerra che rischiavano di restare oscure.
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Il cacciatore di antimateria 05.04.2011
Tutto pronto per la partenza di Ams, lo spettrometro (di origini anche italiane) che passerà al setaccio i raggi cosmici. Per capire come è fatto l’Universo
di Anna Lisa Bonfranceschi
650 computer stipati in 64 metri cubi, per un peso totale di oltre 8 tonnellate, e 300mila canali di elettronica per far viaggiare i segnali. Sono questi i numeri di Ams-02 (Alpha Magnetic Spectrometer), il cacciatore di antimateria che alla fine di aprile partirà alla volta della Stazione spaziale internazionale (Iss), il laboratorio in orbita a 400 km di altezza sopra le nostre teste, per studiare le particelle elementari direttamente dai raggi cosmici che attraversano lo Spazio. Ad accompagnare il viaggio di AmsS-02 (il primo Ams risale al 1998) che partirà a bordo dell’ultimo lancio dello shuttle Endeavour, sarà l’astronauta dell’ Asi Roberto Vittori, pronto a raggiungere il connazionale Paolo Nespoli.
La missione di Ams (che dagli inizi di maggio diventerà parte integrante della Iss, lavorando per almeno una decina di anni) è quella di aiutare gli scienziati a far luce sui misteri della fisica dell’ antimateria, della materia oscura e della cosiddetta materia strana, andando a spulciare lo Spazio alla ricerca di quei segnali e di quelle particelle che non possono essere riprodotte sulla Terra. Strumenti come l’acceleratore di particelle Lhc (Large Hadron Collider) sono infatti laboratori eccezionali per studiare la fisica delle materia, ma di fatto le particelle più energetiche sono quelle prodotte nell’Universo (per fare un confronto basti pensare che i raggi cosmici hanno energie di 100mila milioni di miliardi di eV, mentre quelli prodotti da Lhc raggiungono al massimo un’energia di 7mila miliardi di eV).
Ams permetterà di studiare proprio questi raggi cosmici ad altissime energie che provengono dalla profondità dello Spazio, portatori di informazioni sulla natura dell’Universo. Questo perché Ams è uno spettrometro magnetico ad alta precisione, capace di captare i raggi cosmici nella regione energetica del TeV (teraelettronvolt, ovvero 10 15 eV), e di intercettare, misurandone tutte le caratteristiche, tutte le particelle elementari che li compongono, grazie ai rivelatori presenti a bordo. Passando in rassegna tutte queste informazioni sarà possibile acquisire informazioni sull’esistenza dell’antimateria in qualche parte dell’Universo, quindi di antigalassie e antistelle, oppure sulla natura della materia oscura, o ancora sulla materia strana (la materia ultradensa, composta dai tre quark up, down e strange).
Per portare a termine Ams-02, cui hanno partecipato 16 paesi con circa 600 ricercatori di 60 Istituti, ci sono voluti 16 anni di lavoro e circa un miliardo e mezzo di euro. Costi che per un quarto provengono dell’Italia, grande protagonista nella missione del cacciatore dell’antimateria con l’ Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e l’ Agenzia spaziale italiana (Asi). Parla italiano anche il vice responsabile della missione, Roberto Battiston, fisico dell’Infn e docente all’Università di Perugia.
Ma se non bastasse la partecipazione della ricerca, con gli enti e le Università che hanno contribuito alla realizzazione di alcuni importanti componenti a bordo dello spettrometro, va ricordato che la missione Ams-02 è stata un successo anche per l’ industria italiana, per le piccole e medie imprese hi-tech distribuite sul territorio nazionale che hanno partecipato ai lavori. A testimoniare il carattere fortemente made in Italy della missione, sarà anche il tricolore donato dal presidente Napolitano a Roberto Vittori lo scorso gennaio, che per la prima volta sventolerà, letteralmente, nello Spazio.
La straordinaria avventura di Ams-02 prenderà il via il prossimo 29 aprile, dalla rampa di lancio del Kennedy Space Center (Florida), dieci giorni dopo la data inizialmente prevista, per evitare problemi di “ingorgo spaziale”. Infatti a metà di aprile le strade intorno alla ISS potrebbero essere trafficate, a causa dell’arrivo nella stazione anche di un cargo russo.
http://daily.wired.it/news/scienza/2011/04/05/missione-spazio-ams-antimateria.html#content
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I Gesuiti: “Beati gli hacker” 05.04.2011
Secondo Civiltà Cattolica la figura dell’hacker è portatrice di valori etici importanti per i credenti.
Le bozze degli articoli della rivista Civiltà Cattolica, redatta dai Gesuiti, sono approvate dalla stessa Segreteria di Stato, e hanno da sempre la caratteristica di essere considerati come la posizione della Chiesa cattolica sui temi di attualità.
Nell’ultimo numero padre Antonio Spadaro, noto esperto del web, rivaluta dal punto di vista etico la figura dell’hacker: “Gli hacker costruiscono le cose, i cracker le distruggono”.
Hacker dunque è chi “si impegna ad affrontare sfide intellettuali per aggirare o superare creativamente le limitazioni che gli vengono imposte nei propri ambiti d’interesse”.
Secondo padre Spadaro “il termine hacker può essere esteso a persone che vivono in maniera creativa molti altri aspetti della loro vita”.
“Quella hacker è, insomma, una sorta di filosofia di vita, di atteggiamento esistenziale, giocoso e impegnato, che spinge alla creatività e alla condivisione, opponendosi ai modelli di controllo, competizione e proprietà privata”.
“Intuiamo dunque come parlando in modo proprio degli hacker siamo di fronte non a problemi di ordine penale, ma a una visione del lavoro umano, della conoscenza e della vita. Essa pone interrogativi e sfide quanto mai attuali”.
Come esempio della compatibilità tra fede ed etica hacker, padre Spadaro cita il linguaggio di programmazione Perl: “Fu creato nel 1987 dall’hacker Larry Wall, cristiano evangelico, il cui nome è l’acronimo di Practical Extraction and Report Language. Ma in origine si chiamava Pearl e deve il suo nome alla “perla di gran valore”, trovata la quale un mercante vende tutto pur di comprarla, come racconta il Vangelo di Matteo“.
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=14521
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Doping per nanocristalli 05.04.2011
Quando si parla di semiconduttori il termine “doping” non ha un significato negativo. Anzi. L’industria del silicio spende ogni anno miliardi di dollari per “drogare” questi materiali, cioè per aggiungere impurità che servono a migliorare le prestazioni, così da “far andare” i dispositivi elettronici più veloci. Se drogare cristalli di semiconduttori come il silicio è cosa semplice, rimane una sfida farlo con cristalli su scale nanometriche. Ora, uno studio su Science propone una nuova tecnica per dopare questi nanocristalli, le cui dimensioni sono inferiori a 10 nanometri (1 nanometro equivale a 1 miliardesimo di metro). La ricerca, coordinata da David Mocatta dell’Università di Gerusalemme, avrà un notevole impatto tecnologico perché offre un nuovo strumento per realizzare nanocristalli semiconduttori ad alte prestazioni.
L’aggiunta di impurità ai semiconduttori, introdotta negli anni Quaranta del secolo scorso, è alla base del vasto impiego dei semiconduttori in elettronica. Allo stato solido, un semiconduttore è tipicamente costituito da un cristallo, cioè un reticolo periodico di atomi. Per esempio, nei cristalli di silicio i quattro elettroni più esterni (detti elettroni di valenza) sono messi in comune con gli atomi adiacenti (a formare quattro legami covalenti). Come ci insegna la meccanica quantistica, questi elettroni possono avere energie comprese solo entro certi intervalli (o bande energetiche). Le proprietà di conduzione elettrica del semiconduttore dipendono dalla capacità di questi elettroni di saltare fra bande di energia differenti. Se un atomo di silicio viene sostituito con uno di fosforo, che ha cinque elettroni esterni, sarà possibile costruire quattro legami e avere così un elettrone in eccesso, disponibile per il flusso di corrente elettrica. L’aggiunta di un’impurità atomica, in questo caso, ha quindi creato un semiconduttore con un eccesso negativo, cioè un semiconduttore “di tipo n”. Al contrario, aggiungendo un atomo con tre elettroni di valenza, si crea una carenza, o buca, e il semiconduttore diventa “di tipo p”. La presenza di impurità permette inoltre di regolare le bande energetiche dei semiconduttori.
Mocatta e colleghi sono riusciti ad aggiungere impurità di rame, argento e oro, a nanocristalli di arseniuro di indio (InAs), attraverso una reazione chimica condotta a temperatura ambiente. Questi nanocristalli, che sono solitamente dispersi in soluzioni colloidali, sono stati così drogati a formare dei nano-semiconduttori detti quantum dots, cioè “punti quantici”. I nanocristalli semiconduttori hanno già numerose applicazioni, per esempio vengono utilizzati come traccianti fosforescenti all’interno delle cellule. Questo nuovo sviluppo apre però molte applicazioni innovative: rappresenta la possibilità di realizzare componenti elettronici di nuova generazione, dalle celle fotovoltaiche ai diodi LED.
Riferimento: DOI: 10.1126/science.1196321
http://www.galileonet.it/articles/4d9977e472b7ab1119000001
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A L’Aquila serve una firma per sottrarre la ricostruzione a quelli che alle 3,32 ridevano 06.04.2011
Ultimi giorni per sostenere la legge di iniziativa popolare
<i>Temporary landscapes</I>. Paesaggi provvisori. Foto in cui non si vedono persone, scatti sull’assenza, sullo spaesamento, sui non luoghi prodotti dal sisma di due anni fa. Poche ore prima della commemorazione delle vittime, queste grandi foto di Massimo Mastrorillo sono state applicate alle grate della zona rossa. E’ uno dei modi con cui leggere L’Aquila. L’altro è la ricerca di segnali di conflitto dentro quei paesaggi temporanei. Ultimi giorni per raccogliere le firme a sostegno della legge di iniziativa popolare per la ricostruzione de L’Aquila e per la messa in sicurezza dei territori a rischio sismico, ambientale, idrogeologico. Bisogna raggiungere 50mila firme entro la prossima settimana. Sono pochissimi giorni ma il risultato è ancora a portata di mano. Questo articolo vuole essere un modo, lontano dalla retorica del lutto, per rendere omaggio a due anni di resistenza civile dei cittadini terremotati (per informazioni su come firmare o organizzare la raccolta vedi http://www.anno1.org). Questa legge, infatti, è stata scritta da loro su quattro punti fondamentali: l’uscita da uno stato di emergenza commissariale e il ritorno alle strutture ordinarie, il chiarimento sui rimborsi delle seconde case che costituiscono circa la metà del centro storico dell’Aquila e gran parte dei borghi del cratere, le attività economiche e le modalità di restituzione delle tasse equiparato a Marche e Umbria, la tassa di scopo (due punti percentuali del prelievo Irpef per i redditi superiori a centomila euro più l’adeguamento al 20% delle tasse sulle rendite finanziarie) che serve a finanziare la legge e alimentare un fondo nazionale per la prevenzione dai disastri. «Due anni dopo si può dire di tutto ma in città esiste un tessuto di resistenza – racconta a Liberazione, Alessandro Tettamanti, 30 anni, attivista del 3.32, il collettivo che prende il nome dall’ora della grande scossa – non era facile organizzarsi perché la vita si svolgeva nella frammentazione dei campi, con uno strapotere organizzativo e comunicativo della Protezione civile. Eravamo come ingabbiati nella fiction». Invece ce ne sono state di reazioni. Alessandro, che quei giorni scrisse molte delle cronache di Liberazione, dice che «da un orgoglio montanaro, protopolitico, s’è arrivati a un percorso più consapevole». L’incontro con altri movimenti, No tav, No ponte, No G8, fino al popolo delle carriole e al lancio di questa legge passando per le occupazioni di spazi. «La nostra lotta è la stessa delle comunità resistenti». Un altro 6 aprile. «Il dilemma è parlare, sfruttando il ritorno di tutte le tv, o rispettare il silenzio che ci chiedono i familiari delle vittime – continuna Tettamanti – di certo la battaglia per la ricostruzione dura 365 giorni l’anno». E i comitati vogliono che sia partecipata, razionale, sottratta alle logiche emergenziali e agli appetiti degli speculatori. 1112 persone sono ancora negli alberghi e 13697 ricevono un contributo per autonoma sistemazione (non sono né nelle new town né a casa loro). Non ci sono state emorragie di rilievo né tra i residenti (75mila, 700 in meno), né tra gli universitari (23mila, 2mila in meno del 2009). La ricostruzione “leggera” è quasi compiuta quella delle case pesantemente danneggiate, invece, è ferma. Oltre il 90 % delle strutture vincolate o di interesse storico nel centro di L’Aquila sono state messe in sicurezza. Per Natale del 2011 115 Chiese saranno rese agibili. L’assessore regionale al Lavoro dichiara che la ripresa c’è e fa un esempio che la dice lunga sulla sua visione del lavoro e della vita: «Nella zona del cratere abbiamo una chiarissima ripresa. Nel 2009 c’erano 9 locali notturni aperti e ora invece ne abbiamo 13». Bunga-bunga garantito? «Come si fa a dire che non c’è crisi? – dice Francesco Marola, coordinatore dei giovani comunisti aquilani – 1867 sono gli accordi firmati dalla sola Cgil con aziende che hanno fatto ricorso ad ammortizzatori sociali ordinari, straordinari o in deroga. I dati ufficiali dicono che sono stati perduti 6mila posti di lavoro, 3500 solo nel cratere, la cassa integrazione è schizzata da 250mila ore a oltre sette milioni di ore dell’anno appresso. Le liste di mobilità si sono gonfiate del 60% di persone che hanno perso definitivamente il posto». Per alcune ore i riflettori si riaccenderanno sulla città e sulle macerie sotto le quali la terra trema ancora. Ieri alle 7.22, epicentro Pettino, è stata registrata l’ennesima scossa di magnitudo 1,7.
Checchino Antonini
http://www.liberazione.it/news-file/A-L-Aquila-serve-una-firma-per-sottrarre—LIBERAZIONE-IT.htm
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Il comune che verrà. Appunti per ripensare il legame sociale nell’epoca della comunicazione in rete
di Laboratorio Roma il 29 marzo 2011 · 3 commenti
in laboratori
Davide Borrelli
Uno spettro si aggira nel mondo, ma questa volta non si tratta dello spettro del comunismo. E’ piuttosto lo spettro del comune, o meglio della comunanza, che esprime la tensione a costruire un orizzonte condiviso tra entità che si trovano in condizioni di differenza. Diversamente dal comunismo, la passione del comune non si esprime in un manifesto ideologico né si concretizza in uno specifico programma d’azione. Per essere precisi, non costituisce neanche una categoria politica, dal momento che si manifesta come un’istanza che è insieme prepolitica, impolitica e postpolitica. Prepolitica, perché ha la forza energetica di un sentire. Impolitica, perché contesta al politico la pretesa di rappresentare la totalità dell’umano. Postpolitica, perché dispiega un nuovo orizzonte di senso e fornisce una nuova agenda per il terzo millennio, in cui trovano spazio pratiche, esperienze, soggettività e forme di vita associata rimaste per lo più in ombra e impensate nel corso della modernità.
Viviamo in tempi di globalizzazione e di comunicazione in rete, fattori che contribuiscono particolarmente ad alimentare l’esigenza che abbiamo di rimettere a fuoco e ripensare il concetto di comunità. Recentemente sono stati pubblicati diversi saggi che affrontano, a partire da differenti punti di vista ed ambiti disciplinari, questo tema, e si interrogano su come sia possibile immaginare nuove forme di socialità al di fuori delle appartenenze date (di classe, di nazionalità, di cultura, di identità ed orientamento sessuale, di etnia, di religione), in grado di garantire insieme le condizioni del massimo sviluppo del sé e della più ampia inclusione del diverso.
Come ogni tradizione di pensiero, anche quella che fa riferimento al comune ha i suoi pionieri e i suoi progenitori illustri. Uno di questi è Georges Bataille, cui Fausto De Petra dedica una monografia che ha il merito di posizionare il filosofo francese tra i classici del pensiero sulla comunicazione. De Petra ne ricostruisce puntualmente l’itinerario teorico che lo ha portato dal bisogno di ripensare l’idea di comunità ad una nuova nozione di comune e di comunicazione.
Lo smarrimento della comunità è la cifra del moderno, che ha messo al centro del mondo sociale la figura dell’individuo come soggetto isolato e autoconsistente. Contro l’autosufficienza dell’individuo moderno si muove il progetto comunitario di Bataille, teso a valorizzare la forza del “religioso” come esperienza sovrana che trascende l’ego e fonda le passioni del legame sociale. D’altra parte, il problema di ogni anelito comunitario è di evitare la sostanzializzazione della comunità, ossia di impedire che l’essere-in-comune si trasformi in un essere-comune totalitario che sopprima la singolarità dei soggetti che vi si riconoscono. Per Bataille la comunicazione non è l’atto di una soggettività compiuta e formata che trasmette agli altri le proprie esperienze. Si comunica, al contrario, a partire da un’intrinseca insufficienza ed incompletezza ontologica. E la comunicazione, d’altra parte, non è trasmissione di esperienze, ma essa stessa esperienza nel suo farsi, se è vero che ogni es-perire si risolve in un movimento es-tatico che conduce al di fuori, nell’ex in cui è esposta l’identità.
Come scrive De Petra, “la comunicazione non può ‘colmare’ l’incompiutezza degli esseri ma li vota, al contrario, a uno scambio infinito, consegnandoli al desiderio del desiderio, all’eccesso che li vota all’aperto” (pag. 107). Una nozione di comunicazione, quella che ci proviene da Bataille, che appare completamente diversa dall’idea che oggi ci è familiare. Quando pensiamo alla comunicazione, tendiamo generalmente a riferirci all’insieme delle pratiche e dei saperi che ci mettono in condizione di raggiungere in maniera più efficiente il destinatario del nostro messaggio. Chi comunica è un soggetto ben definito che si propone di trasmettere un messaggio ben circostanziato ad un altro soggetto, a sua volta ben individuato: la comunicazione è un processo che avviene tra ipseità chiuse e ripiegate sulla propria interiorità. Quello che viene meno in questa prospettiva, che è poi essenzialmente quella dei professionisti della comunicazione, è proprio il carattere, che Bataille invece riteneva fondante, della comunicazione come esperienza del fuori, ovvero come eccedenza rispetto ai limiti della forma individuata.
Che cos’è e come è possibile, dunque, il comune alla luce di questa concezione della comunicazione? Se i soggetti trovano nel comunicare una forza che li espropria da se stessi, il comune non può risolversi in un rassicurante processo di identificazione nel medesimo (negli stessi valori, nella stessa cultura ecc.), ma deve consistere in un movimento di alterazione che pro-voca, cioè chiama ciascuno ad affacciarsi oltre i bordi della propria identità e lo espone all’alterità.
Anche la sfera dell’economia ha riscoperto e capitalizzato il valore del comune come ci spiegano nella loro ultima opera Antonio Negri e Michael Hardt. Il modo di produzione capitalistico che si è fondato tradizionalmente sull’accumulazione privata di risorse materiali, oggi non può fare a meno di energie simboliche e immateriali che si generano autonomamente nel mondo della vita, ovvero nello spazio del comune, inteso come “tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via” (pag. 8).
Mentre un’economia materialista fondata prevalentemente sulla produzione di beni di consumo necessita di forza lavoro fisica, un’economia postmaterialista che ruota intorno all’erogazione di servizi avanzati si avvale dell’intera vita dei knowledge workers in tutte le sue espressioni cognitive, emotive e comunicative, anche al di là della loro specifica prestazione professionale e non necessariamente nei limiti del tempo di lavoro.
Diverso è anche l’idea di soggettività che è al centro di queste diverse forme economiche. Il soggetto dell’economia materialista è l’individuo, identificato da un ruolo specifico e chiuso ad ogni processo che non sia pertinente alla funzione sociale ed economica che si trova a svolgere. Il soggetto di un’economia postmaterialista o della conoscenza è, invece, il singolo, la cui cifra esistenziale consiste nell’incompiutezza, e dunque nello slancio e nell’apertura al poter essere altrimenti. Nel primo caso il soggetto è un atomo chiuso in se stesso, nel secondo è un’onda che non si dà se non in relazione con ciò che si trova al di fuori di sé. L’idea della soggettività come “onda” costituisce il lascito più prezioso sulla comunicazione di Georges Bataille. L’esistenza umana viene così ridefinita come un nodo di comunicazioni reali, il cui flusso non è riducibile a un punto isolato. La comunicazione, in altre parole, non è mai un processo che interviene tra soggetti dati e compiuti, ma il clinamen che li costituisce in quanto tali, e che non smette mai di tenderne i confini e modificarne la forma.
Del senso del comune si è occupato recentemente anche il sinologo François Jullien in un saggio dedicato al dialogo tra culture. Muove dalla constatazione che gli attuali processi di globalizzazione mettono al centro del dibattito la necessità di ripensare i principi e le condizioni che regolano il vivere in comune. Il mondo si è ormai dilatato fino ad accogliere sul medesimo palcoscenico globale universi culturali da sempre periferici e modi di essere che sembrano refrattari al canone dei valori occidentali. La condizione di connettività planetaria in cui viviamo fa sì che non sia più possibile ignorare, come avveniva in passato, queste forme di alterità, e rende quindi sempre più ineludibile il compito di elaborare un orizzonte comune di cui ciascun soggetto culturale possa sentirsi a buon diritto parte.
Ma c’è un rischio nel doveroso compito di assicurare il dialogo tra culture. Il rischio che il comune che dobbiamo costruire possa essere esemplificato sui principi dell’universale o dell’uniforme. E invece è bene sottolineare che il comune non coincide con l’universale, dal momento che quest’ultimo poggia su un’istanza (quella di una ragione astratta e oggettiva che prescinda dalle esperienze dei singoli) che è tutta dentro la cultura occidentale, e che altrove non trova equivalenti né possibilità di essere condivisa in quanto tale. D’altra parte, il comune non è neanche l’uniforme, essendo questo solo l’effetto di una necessità economica di riproduzione seriale di stili di vita e standard produttivi o normativi.
Ma se il comune non può discendere dall’universale né tanto meno può essere confuso con l’uniforme, allora come è possibile articolarlo? Intanto, secondo Jullien va precisato che quello di comune non è un concetto logico (come l’universale) né economico (come l’uniforme), ma eminentemente politico, nel senso che riguarda le condizioni che ci fanno appartenere alla stessa polis. Tra l’universale e il comune vi è la stessa differenza che separa qualcosa che viene prescritto da qualcosa a cui ci si impegna a partecipare, il che vuol dire che nella prospettiva del comune “il dover essere viene considerato non più tanto come qualcosa di preventivamente stabilito, quanto come qualcosa da insegnare e conquistare (pag. 23). Se l’universale opera sul piano di una totalizzazione di principio, il comune è il frutto laborioso di un’estensione progressiva che si acquisisce giorno per giorno attraverso il confronto, anche arduo e rischioso, con l’altro. L’universale ha come contrario il singolare, il soggettivo, ciò che non si lascia riassorbire all’interno della sua normatività impersonale, al punto che per il soggetto l’istanza dell’universale resta priva di significato e diventa comune, nel senso di banale, come qualcosa che si presenta privo di interesse ai suoi occhi, lontano dal suo personale orizzonte di senso e di valore. Il comune, essendo un compito infinito che si realizza per inclusioni progressive nel corpo a corpo con l’alterità, ha invece come opposto il proprio, che è precisamente ciò che arresta il divenire del comune e genera il comunitarismo, ovvero quella formazione reattiva al globalismo fa del ripiegamento identitario lo strumento per escludere e mettere al bando l’altro. Il comune non è, in altri termini, qualcosa che si detiene in forma di proprietà collettiva, è piuttosto, ancora una volta, un fattore di espropriazione che impedisce ai soggetti di compiersi e li proietta ec-staticamente al di fuori di sé. Riaffiora, così, anche nella riflessione di Jullien quella linea di pensiero sul comune e sulla comunicazione che da Bataille porta fino a Nancy.
Dal superamento dei limiti dell’individualità proprietaria al modello del crowdsourcing telematico la strada verso la valorizzazione (in senso sia simbolico che materiale) del comune è ormai tracciata. Che cos’è infatti il crowdsourcing se non la possibilità di forzare i limiti della condizione di persona individuale e generare uno spazio di informazione fluido ed un ambiente cognitivo accresciuto, capace di articolare insieme le onde di soggettività che altrimenti rimarrebbero allo stato di atomi dislocati ciascuno al proprio posto? Clay Shirky ci racconta con dovizia di particolari alcuni casi di cooperazione e di messa in comune di risorse cognitive, che il web consente di organizzare in forma più o meno spontanea. Immaginiamo che il tempo che ciascun individuo trascorre davanti alla tv possa essere messo in comune e dedicato ad attività cooperative. Ebbene, la rete fa proprio questo: permette di aggregare il “surplus cognitivo” della gente e di metterlo al servizio della produzione di innovazioni ed azioni collettive. Ci stiamo abituando ad un nuovo modo di intendere i media, che “non sono solo qualcosa da consumare, ma qualcosa da usare” (pag. 47). Internet ci sta altresì formando al superamento di una cultura individualistica, per cui ognuno consuma il tempo libero per conto proprio, e allo sviluppo di una cultura del comune, in cui ciascuno diventa parte di un processo di produzione di senso collettivo.
Ma forse per comprendere le dinamiche di senso che si sprigionano in rete la rivisitazione del pensiero di autori come Bataille e Nancy è meno incongrua, impertinente e spiazzante di quanto apparentemente non sembri.
De Petra, Fausto, Comunità, comunicazione, comune. Da Georges Bataille a Jean-Luc Nancy, DeriveApprodi, Roma 2010.
Hardt, Michael – Negri, Antonio, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.
Jullien, François, L’universale e il comune. Il dialogo tra culture, Laterza, Roma-Bari 2010.
Shirky, Clay, Surplus cognitivo. Creatività e generosità nell’era digitale, Codice, Torino 2010.
Tag di questo articolo: Antonio Negri, comunanza, comunità, comunitarismo, Davide Borrelli, Fausto De Petra, Georges Bataille, Michael Hardt, singolare, soggettivo
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Grafene, professione pompiere 06.04.2011
I ricercatori individuano l’ennesima qualità di eccellenza nel materiale delle meraviglie: uno strato di grafene è in grado di auto-raffreddarsi, condizione particolarmente allettante per la realizzazione di circuiti integrati
Roma – Una nuova qualità si aggiunge alla già lunga lista di caratteristiche di eccellenza che contraddistinguono il grafene: il materiale monomolecolare a base di carbonio che ha già fruttato il premio Nobel ai suoi inventori è in grado letteralmente di auto-raffreddarsi, caratteristica che in prospettiva potrebbe rappresentare l’ennesimo asso nella manica per un suo impiego nel settore dell’elettronica e dei circuiti integrati.
La nuova scoperta sulle qualità del “materiale delle meraviglie” arriva da uno studio pubblicato su Nature Nanotechnology, nel quale i ricercatori hanno impiegato un microscopio opportunamente modificato per registrare la temperatura di un transistor di grafene.
La “sonda” creata dai ricercatori ha permesso loro di verificare il notevole calo di temperatura al contatto del metallo del microscopio con lo strato di grafene, e questo mentre la corrente elettrica passa tra i due elementi.
La straordinaria capacità conduttiva del grafene sarebbe dunque sufficiente ad abbattere la resistenza al passaggio degli elettroni – fenomeno che porta appunto alla generazione di calore – e in maniera molto più efficiente di quanto possibile con altri materiali.
Neanche a dirlo, la capacità auto-refrigerante del grafene rappresenterebbe un altro prezioso “bonus” all’impiego del materiale per la creazione di circuiti elettronici integrati. Sempre che, naturalmente, le aziende riescano a trovare il modo di integrare il grafene con l’attuale business del silicio.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3125263/PI/News/grafene-professione-pompiere.aspx
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Falcon Heavy, il super-razzo a buon mercato 06.04.2011
SpaceX disvela la sua nuova creatura: un vettore pesante, potenzialmente in grado di riportare l’uomo sulla Luna a una frazione del costo necessario all’impiego dello storico Saturn V
Roma – Space Exploration Technologies, la società privata di trasporti spaziali che dovrebbe prendere il posto dello Shuttle nelle future missioni NASA, è pronta a fare un passo ancora più in là grazie al suo nuovo razzo vettore. Falcon Heavy è l’ambizioso progetto dell’azienda statunitense per un sistema di trasporto di grandi cargo, comparabile per capacità ai razzi storici della serie Saturn V usati da NASA per portare l’uomo sulla Luna.
Falcon Heavy, un razzo vettore in grado di trasportare almeno 20 tonnellate di carico nell’orbita bassa dell’atmosfera terrestre, è costituito da un design a “triplo core” in cui ognuno è dotato di nove motori “Merlin” – gli stessi usati nel già varato vettore Falcon 9.
Programmato il viaggio inaugurale entro il 2013, Falcon Heavy rispetta gli standard di sicurezza per equipaggi umani stabiliti da NASA ed è molto efficiente nella gestione del propellente se confrontato alle precedenti generazioni di razzi pesanti creati dall’agenzia statunitense.
Il razzo ha una capacità di trasporto stimata di 52mila chilogrammi, più del doppio del razzo-vettore che trasporta la navetta Shuttle, e anche se ha solo della metà della capacità di Saturn V Falcon Heavy porta il suo carico a destinazione a una frazione del costo.
I primi obiettivi del nuovo razzo vettore di SpaceX sono naturalmente la messa in orbita di satelliti commerciali, nonché le operazioni di traghetto tra la Terra e la Stazione Spaziale Internazionale. Nondimeno, in un futuro non molto lontano Falcon Heavy potrebbe costituire il sistema di trasporto spaziale ideale anche per trasferire uomini e mezzi su una possibile base sotterranea sulla Luna.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3126234/PI/News/falcon-heavy-super-razzo-buon-mercato.aspx
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Il NASDAQ ridimensiona l’importanza di Apple 06.04.2011
Il peso del titolo Apple all’interno dell’indice cala in maniera significativa.
L’indice di borsa NASDAQ-100, che considera le 100 maggiori imprese non finanziarie quotate al mercato elettronico NASDAQ, ha annunciato una riforma della composizione del proprio “paniere”.
Il NASDAQ-100 è un indice ponderato, ossia assegna ai vari titoli tecnologici che lo compongono un “peso” diverso, legato alla capitalizzazione delle società cui si riferiscono.
La conseguenza più interessante della riorganizzazione annunciata questa notte è la forte riduzione che riceverà il peso delle azioni di Apple.
Negli ultimi due anni, l’azienda della Mela ha pesato per il 20,49%; dopo la revisione, che entrerà in vigore il 2 maggio prossimo, scenderà al 12,33%, restando in ogni caso il componente maggiore del NASDAQ-100.
A guadagnare in importanza dalla riforma dell’indice saranno i cinque rivali principali di Apple: innanzitutto Google, che da maggio peserà il 5,77% (cioè l’1,59% in più), e Yahoo, il cui peso crescerà dello 0,37%; poi Intel (+2,45%), Cisco (+2,10%) e Oracle (+3,36%).
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=14536
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il fondatore di rsf è un fascista 05.04.2011
mazzetta <mazzettatm <at> gmail.com>
Da tempo su Reporter sans frontières, l’associazione francese che si batte per la libertà di stampa, si andavano accumulando sospetti. L’azione dell’associazione è sempre stata un po’ troppo sbilanciata nell’accusare i nemici dell’Occidente e troppo timida nel denunciare la repressione dei dittatori amici.
La rivelazione della collaborazione di RSF con i servizi americani in chiave anti-cubana aveva destato più di un sospetto, ma ora ci ha pensato lo stesso Robert Ménard a sciogliere ogni dubbio, scendendo in campo accanto al Front Nationale di Le Pen e diffondendo alcune perle del suo pensiero, non esattamente “libertario”.
Favorevole alla pena di morte, omofobo, adesso Ménard si batte per la libertà d’espressione dei fascisti e ha dato alle stampe “Vive Le Pen”, un testo nel quale lamenta la discriminazione e la “censura” dei fascisti francesi, che hanno un programma elettorale da veri fascisti nazionalisti, roba che Lega e post-fascisti italiani sembrano liberali al confronto.
Menard, un pied-noir figlio di un membro dell’organizzazione fascista OAS che mise a ferro e fuoco l’Algeria opponendosi al movimento indipendentista algerino, nella sua vita si è spesso spacciato per progressista e libertario, salvo rivelarsi ora per un fascista che appoggia apertamente un movimento fascista.
Con tanti saluti alla libertà di stampa e agli ingenui che hanno sposato le sue campagne e gli hanno dato credito scambiandolo per un libertario, quando invece era solo un fascista travestito per opportunità. Un fascista che ora ha gettato la maschera e che resta un fascista anche se cita Voltaire ogni cinque minuti per dissimulare l’evidenza: che la libertà che chiede ad alta voce è quella per i fascisti. Che devono essere liberi di die e fare cose da fascisti, come il limitare la libertà degli altri a favore dei francesi bianchi, mettere a morte i criminali e discriminare gli omosessuali che attentano al carattere virile del popolo francese.
http://permalink.gmane.org/gmane.politics.activism.neurogreen/33543
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Protezione Civile, un rischio per la democrazia? 06.04.2011
obzudi <digitalequestre <at> yahoo.it>
Guardia nazionale padana, nuova sede a Varese
Inaugurato domenica mattina il quartier generale della Gnp, associazione che opera con la protezione civile. Galli: “Il primato dell’assistanza a Varese”
L’assistenza ha una marcia in più. Domenica mattina è stata inaugurata la sede della Guardia nazionale padana olnus, associazione che fa parte della protezione civile. ******
E che collabora con la Regione per portare avanti assistenza ed interventi in caso di emergenza. ****
Si tratta della storica associazione, nata nel ’98 ad opera della Lega Nord, ma che dopo 6 anni di esperienza, nel 2004, si trasforma ed entra a fare parte delle associazioni di protezione civile. ****
Qualche anno di stasi, e poi, da due anni a questa parte, ad opera del presidente Renzo Oropesa, il rilancio, con il radicamento a livello lombardo.
Oggi la prima sede inaugurata si trova in provincia di Varese, a Crosio della Valle. Da qui ad un mese e mezzo verranno inaugurate anche le altre due, a Milano ed a Bergamo.
I volontari sono circa 165, 50 a Varese, 80 a Milano e 35 a Bergamo.
“Ma contiamo di salire – dice Oropesa – siamo solo all’inizio e ci muoveremo per raccogliere persone. Da sottolineare, che siamo tutti volontari, che prestano il loro tempo in campo sociale. Cerchiamo fondi pubblici e privati per le nostre attrezzature, che sono tutte a disposizione della collettività. Il nostro parco mezzi conta circa 40 automezzi. ***
Abbiamo anche una moto d’acqua, con la quale pattuglieremo il Lago di Ghirla”.
Il lavoro dei volontari consiste infatti nello svolgere attività socioassistenziali in collaborazione con gli enti locali. Insomma, veri e propri comitati di protezione civile, che nella Regione Lombardia viene articolata nei vari enti provinciali.
Per evitare dubbi o pregiudizi, riportiamo una parte dello statuto dell’associazione: “La nostra associazione è una onlus, ovvero un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale. È formata da volontari che, spinti dalla generosità verso chi ne ha necessità, si mettono a disposizione del prossimo in occasione di calamità e decidono di dedicare parte del loro tempo libero alle popolazioni in pericolo, indipendentemente da razza, religione o credo politico”.
Il presidente della Provincia di Varese Dario Galli, presente all’inaugurazione insieme al segretario nazionale della Lega Giancarlo Giorgetti ed a tutto lo stato maggiore leghista della provincia di Varese, ha commentato positivamente questa iniziativa.
“Un arricchimento – dice Galli – in un panorama già positivo a Varese.
Abbiamo il primato di avere circa 3.000 volontari operativi di protezione civile nella nostra provincia. ****
Siamo tra le prime realtà italiane. L’apertura di questa nuova sede è positiva, e del resto in una provincia che esprime una precisa ideologia politica è anche giusto che nasca la Guardia nazionale padana”.
La galleria delle immagini dell’articolo: Guardia nazionale padana, nuova
sede a Varese – insubria –
http://permalink.gmane.org/gmane.politics.activism.neurogreen/33566
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Informazione,cultura e debito 07.04.2011
La schiavitù, sin dai tempi passati è sempre esistita,con il tempo si evoluta.
Oggi abbiamo 3 tipi di schiavitù:
1 Informazione
2 Cultura
3 Debito
Come potete notare,oggi l’informazione in Italia,ma in generale è sicuramente scarsa,in termini di varietà e in termini di approfondimento.
Con l’arrivo di interenet, qualcosa sembrava cambiato,ma…ora i potenti stanno lavorando anche qui e sono sempre maggiori i siti i blog che mettono le loro notizie a pagamento.
Come mai invece i vari giornaletti,Metro,Leggo, City sono giornali cartacei e vengono addirittura dati gratuitamente??
Per abituare in maniera indiretta a leggere quello che fa comodo, un sommario delle notizie,con ampio spazio alla cronaca,che fa meno pensare.
Collegata all’informazione, abbiamo la cultura,che è la prima vera forma di libertà. Tutto ciò che non si conosce fa paura. Quindi se io mantengo un popolo nell’ignoranza,per timore di cose che non si conoscono,questi faranno esattamente quello che interessa ai potenti.
Lo vediamo oggi, con il continuo impoverimento della scuola pubblica a favore di quella privata e quindi di una scuola elitaria,per cui come al tempo dei romani,l’istruzione sarà solo per pochi.
Debito. Questa è l’evoluzione più grande, una droga. Voi lo sapete che la Libia è lo stato meno indebitato al mondo?? Quindi non è ricattabile,quindi….
Guardate cosa stanno facendo con i paesi europei,ad uno ad uno, li stanno legando mani e piedi offrendo dei prestiti. I paesi che li prenderanno,non riusciranno mai a restituirli per intero, senza in parte rifinanziarli e quindi saranno per sempre, schiavi di chi li ha forniti a loro. La Bce, con l’aiuto della Cina si sta comprando l’Europa in maniera silenziosa.
I prossimi saranno Spagna e Italia.
Stessa cosa avviene con gli italiani,popolo di risparmiatori..quindi sono degli ottimi possibili schiavi, se li si fa indebitare non vi pare??
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
http://www.lamiaeconomia.com
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Vi auguro un Egitto: lettera aperta alle persone coscienziose in Occidente – Omar Barghouti
Vi auguro un Egitto!
Vi auguro empowerment per resistere; per lottare per la giustizia sociale ed economica; per conquistare la vostra vera libertà e uguali diritti.
Vi auguro la volontà e la capacità di evadere dalle vostre mura di prigione ben nascoste. Vedete, nella nostra parte del mondo, mura di prigione e spesse porte inviolabili sono anche troppo evidenti, ovvie, insopportabili, soffocanti; ecco perché restiamo indocili, ribelli, irati, e sempre attivi nel preparare il nostro giorno di libertà, di luce, quando metteremo insieme una massa critica di potere popolare sufficiente ad attraversare tutte le linee rosse categoriche. Allora potremo sbriciolare le vecchie, brutte, fredde, pesanti catene arrugginite che ci hanno imprigionato mente e corpo per tutta la nostra vita come il lezzo incontenibile di un cadavere putrescente nella nostra claustrofobica cella carceraria.
Le vostre celle sono invece del tutto diverse. I muri sono ben nascosti per non provocarvi la volontà di resistere. E non hanno porte: potete aggirarvi “liberamente” intorno, senza mai riconoscere la prigione più vasta nella quale siete pur sempre confinati.
Vi auguro un Egitto, di modo che possiate decolonizzare la vostra mente, perché solo allora riuscirete a visualizzare la vera libertà, la vera giustizia, la vera uguaglianza, e la vera dignità.
Vi auguro un Egitto, per poter stracciare il foglio con la domanda a scelta multipla “che cosa vuoi?”, giacché tutte le risposte che vi sono date sono sbagliate in pieno. La vostra unica scelta sembra fra un male e un male minore.
Vi auguro un Egitto, perché possiate gridare come i tunisini, gli egiziani, i libici, i bahrainiti, gli yemeniti, e certamente i palestinesi, “No! Non vogliamo scegliere la risposta meno sbagliata. Vogliamo una scelta del tutto altra, che non è nel vostro dannato elenco”. Data la scelta fra schiavitù e morte, noi univocamente optiamo per la libertà e una vita dignitosa — niente schiavitù e niente morte.
Vi auguro un Egitto, perché sappiate ricostruire collettivamente, democraticamente, e responsabil-mente le vostre società; ristabilire regole che servano alla gente, non al capitale selvaggio e al suo braccio bancario; porre fine al razzismo e a ogni sorta di discriminazione; guardare più avanti e vivere in armonia con l’ambiente; eliminare guerre e crimini di guerra, anziché posti di lavoro, sussidi e servizi pubblici; investire nell’istruzione e nella sanità, non in combustibili fossili e ricerca sugli armamenti; rovesciare la tirannia repressiva delle multinazionali; e sparire dall’Afghanistan, dall’Iraq, e da tutti gli altri luoghi dove sotto la cappa della “esportazione della democrazia” le vostre ipocrite crociate hanno diffuso disintegrazione sociale e culturale, povertà estrema e disperazione senza fondo.
Vi auguro un Egitto, di modo che possiate adempiere agli obblighi legali e morali dei vostri paesi per aiutare a ricostruire le economie e le società violentate, de-sviluppate delle vostre ex- o attuali – colonie, di modo che i loro giovani possano trovare la propria patria di nuovo vitale, vivibile e amabile, anziché rischiare la morte — o peggio — in alto mare per raggiungere i vostri litorali avvolti nel miraggio, abbandonando i loro cari e luoghi che hanno chiamato casa. Vedete, loro sono “qui” perché voi foste là… e sappiamo tutti che cosa avete fatto là!
Vi auguro un Egitto, perché possiate ravvivare lo spirito della lotta anti-apartheid sud-africana, rendendo Israele responsabile di fronte al diritto internazionale e ai principi universali dei diritti umani, adottando il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, invocati da una schiacciante maggioranza della società civile palestinese. Non c’è modo più efficace, nonviolento per por fine all’occupazione, alla discriminazione razziale e al rifiuto pluridecennale da parte d’Israele del diritto sancito dall’ONU al ritorno dei profughi palestinesi. La nostra oppressione e la vostra sono intimamente interrelate e intrecciate — non è mai una partita a somma zero! La nostra lotta per i diritti e le libertà universali non è un nostro mero slogan auto-gratificante; è piuttosto una lotta per una vera emancipazione e auto-determinazione, un’idea il cui tempo è rumorosamente arrivato. Dopo l’Egitto, è la nostra volta. È la volta della libertà palestinese e della giustizia. È la volta di tutta la gente di questo mondo, particolarmente la più sfruttata e calpestata, per riaffermare la nostra comune umanità e reclamare il controllo sul nostro comune destino. Vi auguro un Egitto!
Omar Barghouti è un attivista palestinese per i diritti umani, ex-residente in Egitto, e autore di Divestment and Sanctions (BDS): The Global Struggle for Palestinian Rights (Haymarket Books, 2011) (Boicotaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS): la lotta globale per i diritti palestinesi).
23 marzo 2011
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis
Titolo originale: I WISH YOU EGYPT: AN OPEN LETTER TO PEOPLE OF CONSCIENCE IN THE WEST
NENA-NEWS: L’Informazione Indipendente dal Vicino Oriente
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FermiLab e la particella senza nome 07.04.2011
Scoperta una nuova particella elementare, dalla collisione protoni-antiprotoni nell’acceleratore Tevatron. Ma non si tratterebbe del noto bosone di Higgs, probabilmente di una forza non ancora conosciuta nel mondo della fisica
Roma – C’è chi ha sottolineato come si possa trattare della più importante scoperta in decenni di ricerca nel campo della fisica subatomica. Al Fermi National Accelerator Laboratory di Batavia, Illinois, sono stati infatti trovati alcuni indizi della presenza di una particella elementare ancora ignota, forse indice di un tipo di forza non attualmente conosciuta.
Un’ipotesi di sicuro impatto, proposta dai ricercatori del FermiLab dopo l’analisi di migliaia di collisioni tra protoni e antiprotoni. Questa presunta nuova particella elementare sarebbe stata rilevata dal vecchio acceleratore Tevatron, ormai destinato allo spegnimento nel prossimo settembre. C’è chi ha ovviamente colto l’ironia della sorte, soprattutto perché lo stesso acceleratore era stato a suo tempo messo in piedi per dar caccia al bosone di Higgs, la cosiddetta particella di Dio.
“Non si tratta del bosone di Higgs: è l’unica cosa di cui siamo certi – ha comunque spiegato Giovanni Punzi dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – Il bosone di Higgs è un tassello che si inserisce in un puzzle che già possediamo. Questo è qualcosa che va al di là, una nuova interazione e forse una nuova forza”. La nota particella di Dio sembrerebbe dunque da escludere: quella rilevata dal Tevatron sarebbe infatti troppo pesante.
Perché allora il dubbio? I risultati ottenuti si collocano in un intervallo compreso in una fascia tra i 140 e 150 GeV, che poi è molto vicina a quella dove viene abitualmente cercato il bosone di Higgs (118-180 GeV). “In circa 250 casi, ben più di quanto ci si dovrebbe aspettare, l’energia totale dei getti si è attestata attorno ai 144 miliardi di elettronvolt – hanno spiegato i ricercatori – come se fossero i prodotti di decadimento di una particella sconosciuta di quella massa-energia”.
Secondo gli scienziati del FermiLab, la presunta nuova particella assomiglia – anche se più pesante – ai bosoni W e Z. C’è ora nemmeno l’1 per cento di possibilità che l’osservazione possa rivelarsi fasulla, anche se bisognerà attendere conferme ovviamente necessarie nel mondo della fisica sperimentale. La particella passerà ora al vaglio del Large Hadron Colider del CERN di Ginevra, soprattutto dopo la fine annunciata del piccolo, vecchio Tevatron.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/3127589/PI/News/fermilab-particella-senza-nome.aspx
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Google, 20 canali per YouTube 07.04.2011
Un maxi finanziamento di 100 milioni di dollari per creare contenuti originali e di alta qualità da “mandare in onda”. Lo rivela il WSJ, senza conferme o smentite da Mountain View
Roma – Google prevede di creare 20 canali tematici ed investire 100 milioni di dollari sul suo YouTube. Contenuti esclusivi quali sport, divertimento e news che avrebbero dalle 5 alle 10 ore di programmazione professionale a settimana, prodotti appositamente per il web. L’idea sarebbe quella di rendere YouTube un vero e proprio centro di distribuzione video, e non soltanto un contenitore, e di costituire un canale in broadcast che sia capace di rivaleggiare con le TV tradizionali, attirando visitatori e inserzionisti.
È quanto annunciato dal Wall Street Journal, che cita fonti interne. Come anche Netflix aveva annunciato il mese scorso, Google vuole creare i propri programmi in streaming video, tuttavia secondo le fonti WSJ l’azienda creerà programmazione a basso costo progettata specificamente per il web e YouTube sostenuta grazie agli introiti pubblicitari. Le fonti dicono che questa sarà una “profonda revisione” per YouTube. La riprogettazione del sito, secondo quanto dichiarato nel report del WSJ, sarà “effettuata a partire dalla fine di quest’anno in modo graduale e potrebbe includere i canali creati dalle aziende di produzione e da registi di Hollywood” sottolinea il giornale.
Se fosse vero, la notizia non sorprenderebbe molto. Dopo tutto, YouTube nel mese di marzo ha acquisito la società di produzione video web Next New Networks con l’obiettivo di aiutare i partner a creare contenuti video migliori e ha costruito la sua attività sulla creazione e distribuzione di canali verticali di contenuti video online. Sempre recentemente, la società ha annunciato la creazione di un programma chiamato YouTube Avanti per fornire borse di studio e di formazione per i partner. Nel corso degli ultimi mesi, YouTube ha perseguito una politica chiara riguardo questi partner, offrendo loro una serie di vantaggi tra cui borse per finanziare i progetti futuri, carte regalo per aiutarli a migliorare le attrezzature e per creare programmi educativi.
Ora, invece, YouTube cambierà e passerà da essere un contenitore di video principalmente generati dagli utenti o forniti in collaborazione con le etichette, ad essere un network vero e proprio con una programmazione di qualità e in alta definizione.
Non è chiaro quando Google avrebbe iniziato a finanziare a e creare i nuovi programmi, secondo le fonti Mountain View avrebbe visitato molte agenzie di talento di Hollywood in cerca di idee nuove e originali e probabilmente finirà per fare offerte con società di produzione per la produzione di contenuti.
Un portavoce di YouTube ha rifiutato di confermare o negare la notizia dichiarando che la società non commenta voci e speculazioni. Tuttavia ha fornito questa dichiarazione: “YouTube ha visto una crescita incredibile nel 2010 e siamo ottimisti per il futuro. Siamo sempre al lavoro per l’aggiornamento del sito e per migliorare l’esperienza generale e dell’interfaccia utente. Tuttavia, non abbiamo in programma di cambiare drasticamente il design del sito nel prossimo futuro”.
Raffaella Gargiulo
http://punto-informatico.it/3127177/PI/News/google-20-canali-youtube.aspx
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Dell’1%, Dall’1%, Per l’1% 07.04.2011
di Joseph E. Stiglitz
Gli americani sono stati a guardare le proteste contro i regimi oppressivi che concentrano enormi ricchezze nelle mani di pochi eletti. Eppure, nella nostra stessa democrazia, l’1 per cento della gente prende quasi un quarto del reddito nazionale – una disuguaglianza di cui anche i ricchi si pentiranno
E’ inutile far finta che ciò che di fatto è successo, non sia veramente accaduto. La fascia alta dell’1 per cento degli americani si prende ogni anno quasi un quarto del reddito nazionale. In termini di patrimonio invece che di reddito, l’1 per cento controlla il 40 per cento del patrimonio. Le loro sorti di vita sono sensibilmente migliorate. Venticinque anni fa, i dati corrispondenti erano del 12 per cento e del 33 per cento. Una reazione potrebbe essere quella di celebrare l’ingegno e la capacità di iniziativa che ha portato a queste persone la loro fortuna, e sostenere che l’alta marea solleva tutte le barche[1]. Ma sarebbe una risposta fuorviante. Mentre l’1 per cento al top ha visto il proprio reddito aumentare del 18 per cento negli ultimi dieci anni, la classe media ha visto i suoi redditi diminuire. Per quelli che hanno solo un diploma di scuola superiore, il calo è stato precipitoso – il 12 per cento solo negli ultimi venticinque anni. Tutta la crescita degli ultimi decenni – e oltre – è andata a quelli che stanno al top. In termini di equa distrubuzione del reddito, l’America è indietro rispetto a tutti i paesi del vecchio continente, l’Europa “fossilizzata” su cui ironizzava il presidente George W. Bush. I paesi a noi più vicini sono la Russia con i suoi oligarchi, e l’Iran. Mentre molti dei vecchi centri di disuguaglianza dell’America Latina, come il Brasile, negli ultimi anni si sono adoperati con discreto successo per migliorare la situazione dei poveri e ridurre i divari di reddito, l’America ha permesso la crescita delle disuguaglianze.
Gli economisti molto tempo fa hanno cercato di giustificare le grandi disuguaglianze che hanno portato tanti problemi durante la metà del 19° secolo, disuguaglianze che sono solo una pallida ombra di quello che vediamo oggi in America. Se ne vennero fuori con una giustificazione che ha preso il nome di “teoria della produttività marginale”. In poche parole, questa teoria associa i redditi più alti con una maggiore produttività e quindi un maggior contributo alla società. E’ una teoria che è sempre stata amata dai ricchi. La prova della sua validità, tuttavia, rimane inconsistente. I dirigenti aziendali che hanno contribuito alla recessione degli ultimi tre anni – il cui contributo alla nostra società, e alle loro stesse compagnie, è stato massicciamente negativo – hanno continuato a ricevere dei bonus di grandi dimensioni. In alcuni casi, le società erano talmente in imbarazzo a chiamare queste ricompense come “performance bonuses”, che si sono sentite costrette a cambiare il nome in “retention bonuses[2]” (anche se l’unica cosa che viene mantenute sono le cattive prestazioni). Coloro che hanno contribuito alla società con grandi innovazioni positive, dai pionieri della genetica ai pionieri dell’era dell’informazione, hanno ricevuto una miseria rispetto ai responsabili delle innovazioni finanziarie che hanno portato la nostra economia globale sull’orlo della rovina.
Alcuni osservano le disparità di reddito e alzano le spalle. E allora cosa succede se uno perde e l’altro guadagna? Ciò che conta, sostengono, non è come la torta viene divisa, ma le dimensioni della torta. Tale argomento è fondamentalmente sbagliato. Un’economia in cui la maggior parte dei cittadini stanno peggiorando anno dopo anno – un’economia come quella dell’America – non è in grado di andare bene nel lungo periodo. Ci sono diverse ragioni che lo dimostrano.
In primo luogo, la crescente disuguaglianza è l’altra faccia di qualcosa d’altro: il restringimento delle opportunità. Ogni volta che diminuisce l’uguaglianza delle opportunità, significa che non stiamo usando una delle nostre risorse più preziose – il nostro popolo – nel modo più produttivo possibile.
In secondo luogo, molte delle distorsioni che hanno portato alla disuguaglianza – come quelle legate al potere dei monopoli e al trattamento fiscale preferenziale per particolari categorie – minano l’efficienza dell’economia. Questa nuova disuguaglianza va avanti a creare nuove distorsioni, compromettendo ulteriormente l’efficienza dell’economia. Per fare solo un esempio, troppi dei nostri migliori giovani talenti, vedendo i guadagni astronomici, hanno cercato occupazione nella finanza piuttosto che in campi che porterebbero ad un’economia più produttiva e sana.
Terzo, e forse più importante, una economia moderna richiede “un’azione collettiva” – ha bisogno che il governo investa in infrastrutture, istruzione e tecnologia. Gli Stati Uniti e il mondo intero hanno beneficiato enormemente della ricerca sponsorizzata dal governo che ha portato a Internet, ai progressi nella salute pubblica, e così via. Ma l’America ha sofferto a lungo di una carenza di investimenti nelle infrastrutture (vedi la condizione delle nostre autostrade e dei ponti, delle nostre ferrovie e degli aeroporti), nella ricerca di base, e nel campo dell’istruzione a tutti i livelli. Ulteriori tagli in questi settori ci attendono.
Nulla di tutto questo dovrebbe essere una sorpresa – è semplicemente quello che accade quando la distribuzione della ricchezza di una società diventa sbilenca. Quanto più una società diventa divisa in termini di ricchezza, tanto più i ricchi diventano riluttanti a spendere soldi per i bisogni comuni. I ricchi non hanno bisogno di fare affidamento sul governo per i parchi o l’educazione o l’assistenza sanitaria o la previdenza, dato che possono comprarsi tutte queste cose da soli. Nel tempo, diventano sempre più distanti dalla gente comune, perdendo qualsiasi empatia che possono aver avuto una volta. Hanno anche paura di un governo forte, che potrebbe utilizzare i suoi poteri per aggiustare il bilancio, richiedere un po’ della loro ricchezza, e investirla per il bene comune. L’1 per cento al top può lamentarsi del tipo di governo che abbiamo in America, ma in realtà a loro piace parecchio: troppo paralizzato per re-distribuire, troppo diviso per fare qualsiasi cosa oltre che tagli alle tasse dei ricchi.
Gli economisti non sono sicuri su come spiegare in maniera esuriente la crescente disuguaglianza in America. La dinamica ordinaria della domanda e dell’offerta hanno certamente giocato un ruolo: le tecnologie laborsaving hanno ridotto la domanda per molti “buoni” di posti di lavoro operaio della classe media. La globalizzazione ha creato un mercato mondiale, scambiando i costosi lavoratori non qualificati americani contro gli economici manovali d’oltremare. Anche i cambiamenti sociali hanno svolto un ruolo – per esempio, il declino dei sindacati, che una volta rappresentavano un terzo dei lavoratori americani e ora rappresentano circa il 12 per cento.
Ma gran parte delle ragioni di tanta disuguaglianza sta nel fatto che l’1 per cento al top vuole così. L’esempio più evidente riguarda la politica fiscale. L’abbassamento delle aliquote fiscali sui redditi da capitale, che rappresentano una gran parte del reddito dei ricchi, è stato un regalo per gli americani più ricchi. Monopoli e oligopoli sono sempre stati una fonte di potere economico – da John D. Rockefeller, all’inizio del secolo scorso, a Bill Gates alla fine del secolo. La negligente applicazione di leggi anti-trust, specialmente durante le amministrazioni repubblicane, è stata una manna dal cielo per l’1 per cento. Gran parte delle disuguaglianze di oggi sono dovute alla manipolazione del sistema finanziario, consentita da modifiche alle leggi che sono state comprate e pagate dalla stessa industria finanziaria, uno dei suoi migliori investimenti di sempre. Il governo ha prestato denaro alle istituzioni finanziarie a un interesse vicino allo 0 per cento e ha fornito generosi salvataggi a condizioni favorevoli, quando tutto il resto veniva bocciato. I regolatori hanno chiuso un occhio verso la mancanza di trasparenza e i conflitti di interesse.
Quando si osserva l’enorme volume di ricchezza controllato dall’1 per cento al top in questo paese, si è tentati di vedere la nostra crescente disuguaglianza essenzialmente come una conquista – abbiamo iniziato in ritardo, ma ora stiamo arrivando a un livello di disuguaglianze mondiale. E sembra che andremo avanti su questo obiettivo per gli anni a venire, perché quel che lo ha reso possibile si autoalimenta.
La ricchezza genera potere, che a sua volta genera più ricchezza. Durante lo scandalo “Savings and Loan” degli anni ’80 – uno scandalo le cui dimensioni, per gli standard attuali, sembrano quasi antiquate – una commissione del Congresso chiese al banchiere Charles Keating se il milione e mezzo di dollari che aveva distribuito tra alcuni importanti funzionari elettivi avrebbe potuto effettivamente comprare i loro favori. “Spero proprio di sì”, rispose. La Suprema Corte, nel suo recente caso Citizens United, ha sancito il diritto delle corporations di comprarsi il governo, eliminando le limitazioni alle spese per le campagne politiche. Il personale e il politico sono oggi perfettamente in linea.
Praticamente tutti i senatori degli Stati Uniti, e la maggior parte dei rappresentanti alla Camera, quando arrivano sono membri dell’1 per cento al top, sono tenuti in carica dal denaro dell’1 per cento al top, e sanno che se servono gli interessi dell’1 per cento al top quando finiscono il mandato saranno ricompensati dall’1 per cento al top. In generale, i politici più importanti dell’esecutivo nel settore del commercio e della politica economica provengono sempre dall’1 per cento al top. Quando le aziende farmaceutiche ricevono un regalo di mille miliardi di dollari – attraverso la legislazione che vieta al governo, il più grande acquirente di farmaci, la contrattazione sul prezzo – non dovrebbe essere motivo di meraviglia. Non dovrebbe sorprendere che non possa venir fuori dal Congresso alcun disegno di legge fiscale che non preveda grandi tagli di tasse per i ricchi. Dato che l’1 per cento al top è al potere, è così che ci si deve aspettare che funzioni.
Le disuguaglianze in America creano distorsioni nella società in ogni modo immaginabile. C’è, da un lato, un ben documentato effetto sullo stile di vita – le persone fuori dall’1 per cento al top vivono sempre di più al di sopra dei propri mezzi. L’economia “trickle-down”[3] può essere una chimera, ma il comportamentismo trickle-down è molto reale. La disuguaglianza distorce in maniera massiccia la nostra politica estera. L’1 per cento al top raramente presta il servizio militare, la realtà è che l’esercito non paga abbastanza per attirare i loro figli e figlie, e il patriottismo non arriva a tanto. In più, la classe dei ricchi non sente il peso delle tasse quando il paese va in guerra: il denaro preso in prestito pagherà per tutto questo. La politica estera, per definizione, riguarda il bilanciamento degli interessi nazionali con le risorse nazionali. Con l’1 per cento al potere, che non paga nessun prezzo, la nozione di equilibrio e di moderazione esce fuori dal quadro.
Non c’è limite alle avventure che possiamo intraprendere; le aziende e i fornitori hanno solo da guadagnare. Le regole della globalizzazione economica sono progettate a beneficio dei ricchi: incoraggiano la concorrenza tra i paesi per il business, che spinge verso il basso le imposte sulle società, indebolisce la protezione della salute e dell’ambiente, e pregiudica quello che era visto come il “fondamento” dei diritti del lavoro, il diritto alla contrattazione collettiva. Immaginate come potrebbe apparire il mondo se le regole fossero state concepite invece per promuovere la concorrenza tra i paesi per i lavoratori. I governi avrebbero dovuto competere nel provvedere maggiore sicurezza economica, meno tasse sul reddito da lavoro, un buon livello di istruzione, e un ambiente pulito – cose di cui i lavoratori si preoccupano. Ma l’1 per cento al top non ha bisogno di preoccuparsene.
O, più precisamente, pensano di no. Di tutti i costi imposti alla nostra società da parte dell’1 per cento al top, forse questo è il più grande: la perdita del nostro senso di identità, in cui il fair play, la parità di opportunità, e il senso della comunità sono così importanti. L’America da tempo si vantava di essere una società giusta, dove ognuno ha le stesse probabilità di farsi strada, ma le statistiche suggeriscono il contrario: in America le possibilità di arrivare in cima di un cittadino povero, o anche di un cittadino del ceto medio, sono inferiori a quelle di molti paesi d’Europa. Le carte per loro sono truccate. E’ questo sentimento di un sistema ingiusto, senza opportunità, che ha dato origine alle rivolte in Medio Oriente: i prezzi crescenti dei prodotti alimentari e la disoccupazione giovanile semplicemente hanno fatto da miccia.
Con la disoccupazione giovanile in America intorno al 20 per cento (e in alcuni luoghi, e in alcuni gruppi socio-demografici, anche al doppio); con un americano su sei che desidera un lavoro a tempo pieno ma non è in grado di ottenerlo, con un americano su sette a buoni pasto (e circa lo stesso numero che soffre di “insicurezza alimentare”) – dato tutto questo, ci sono prove evidenti che qualcosa ha bloccato la tanto vantata “ricaduta” dall’1 per cento al top verso tutti gli altri. Tutto questo sta avendo l’effetto prevedibile di creare alienazione – l’affluenza alle urne nelle ultime elezioni è stata pari al 21 per cento, comparabile al tasso di disoccupazione.
Nelle ultime settimane abbiamo visto la gente scendere in piazza a milioni per protestare contro le condizioni politiche, economiche e sociali delle società oppressive in cui abitano. In Egitto e in Tunisia i governi sono stati rovesciati. Le proteste sono scoppiate in Libia, in Yemen e nel Bahrain. Le famiglie dominanti degli altri paesi della regione considerano nervosamente dai loro attici con l’aria condizionata, chi sarà il prossimo? Hanno ragione di preoccuparsi. Queste sono società in cui una minuscola frazione della popolazione – meno dell’1 per cento – controlla la parte del leone delle ricchezze; dove la ricchezza è una determinante principale del potere; in cui la corruzione di un tipo o di un altro è uno stile di vita, e dove i più ricchi spesso si oppongono attivamente alle politiche atte a migliorare la vita della gente.
Mentre guardiamo le proteste popolari per le strade, una domanda da porci è questa: Quando succederà in America? In maniera importante, il nostro paese è diventato come uno di questi lontani luoghi travagliati.
Alexis de Tocqueville una volta ha descritto quello che lui vedeva come la parte fondamentale del genio peculiare della società americana – qualcosa che lui chiamava “il proprio interesse correttamente inteso”. Le ultime due parole erano la chiave. Ognuno possiede un interesse personale in senso stretto: io voglio ciò che è bene per me in questo momento! L’interesse personale “correttamente inteso” è diverso. Significa rendersi conto che prestare attenzione all’interesse personale di tutti gli altri, in altre parole, al bene comune – è in realtà una condizione preliminare per il proprio massimo benessere. Tocqueville non intendeva sostenere che ci fosse qualcosa di nobile o idealistico in questa visione – in realtà, suggeriva il contrario. Era un segno del pragmatismo americano. Quegli americani astuti avevano capito un fatto fondamentale: prestare attenzione agli altri non è solo un bene per l’anima – fa bene al business.
L’1 per cento al top ha le migliori case, la migliore istruzione, i migliori medici, e i migliori stili di vita, ma c’è una cosa che il denaro non sembra avere comprato: la comprensione che il loro destino è legato alle condizioni di vita dell’altro 99 per cento. Nel corso della storia, questo è un qualcosa che l’1 per cento al top, alla fine, imparerà. Troppo tardi.
1 “A rising tide lifts all boats” è un aforisma associato all’idea che i tagli delle tasse e le politiche economiche che in genere portano benefici in primo luogo ai percettori dei redditi alti, alla fine ricadono su tutta l’economia.
2 Sarebbe: “premi di mantenimento”
3 Termine usato per indicare (in maniera critica) la teoria economica del supply side, detta anche reaganomics, in base alla quale i provvedimenti che favoriscono i più ricchi produrrebbero effetti a cascata su tutta l’economia grazie agli investimenti.
http://www.sinistrainrete.info/index.php?option=com_content&view=article&id=1318&Itemid=60
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LAVORO: BLITZ PRECARI ALL’INPS, ECCO NOSTRA MISERA PENSIONE
(ANSA) – ROMA, 7 APR – Blitz dei giovani precari alla sede dell’Inps di via dell’Amba Aradam a Roma. Una cinquantina di ragazzi del Comitato ‘Il nostro tempo è adessò è entrata nell’edificio e ha creato simbolicamente ‘lo sportello dei precarì dove calcolare la pensione della generazione ‘senza posto fissò. «È l’ennesima azione per lanciare la manifestazione nazionale del 9 aprile – spiegano – L’Italia deve accorgersi di noi. Stiamo arrivando!». «Nell’ottobre del 2010 il presidente dell’Inps Mastrapasqua – ricorda Emanuele del comitato – disse che ‘non si poteva calcolare e rendere pubblica la pensione dei precari perchè questo avrebbe generato un sommovimento sociale. Ebbene noi siamo qui perchè vogliamo rendere nota la nostra misera o inesistente ‘pensionè e vogliamo che si prendano dei provvedimenti». Presso il banchetto montato all’Inps i manifestanti calcolano la capacità contributiva di ogni precario che passa. «Abbiamo scoperto che una ragazza di 28 anni quando avrà raggiunto i 38 anni di contributi avrà diritto a 500 euro di pensione – continua Emanuele -. Questa non è una battaglia di contrapposizione tra garantiti e non garantiti: non vogliamo togliere la pensione ai nostri nonni e ai nostri padri, ma pensiamo che la precarietà sia un problema di tutti». In previsione del 9 aprile ieri sera un altro gruppo di giovani ha messo in scena un flash mob nella zona pedonale del Pigneto. Vestiti da camerieri, attivisti della Generazione P. e ‘Giovani non più disposti a tuttò hanno offerto drink ai passanti esponendo cartelli con su scritto ‘Un bicchiere contro il lavoro nerò. «Nella zona in cui l’intrattenimento è di casa – ha spiegato Carlo Antonicelli, uno di loro – lo sfruttamento lo è allo stesso modo. Qui sono numerosissimi i lavoratori in nero che ogni sera servono da bere agli avventori del Pigneto. Anche per questo saremo in piazza il 9 aprile».(ANSA).
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MI DIMETTO DA ITALIANO – DI DINO NARDI 07.04.2011
ZURIGO\ aise\ – Sì, il pensiero di dimettermi da italiano per me e, credo, per tanti altri cittadini della Repubblica che viviamo all’estero è ormai molto forte e sempre più frequente, purtroppo.
Anche per chi, come il sottoscritto, pur dopo tanti anni di emigrazione e di residenza in Svizzera non ha mai pensato, finora, nemmeno di scalfire la cittadinanza italiana chiedendo quella elvetica per diventare doppio cittadino.
Oggi, confesso, la tentazione di dimettermi da italiano è, tuttavia, quasi irresistibile con le notizie e le immagini che dall’Italia ci raggiungono quotidianamente in ogni parte del mondo, tramite i giornali, le tv ed internet. Notizie ed immagini che ci espongono tutti alla berlina della gente che ci circonda nella nostra vita quotidiana e ci fanno veramente vergognare di essere italiani mettendoci, oltretutto, in grande imbarazzo soprattutto con i nostri figli.
Non bastavano le immagini de L’Aquila, una città morta ed ancora transennata a due anni dal terremoto; il bunga-bunga e le vicende giudiziarie del capo del governo; lo sfregio dei leghisti al Tricolore ed all’Unità d’Italia; le scene orribili degli ospedali psichiatrici giudiziari che ci riportano al medioevo. No, non bastavano quelle immagini, adesso abbiamo perfino dei teatranti che a pagamento, in una trasmissione di successo di una tv di proprietà del presidente del consiglio, si spacciano per dei veri terremotati de L’Aquila lodando l’operato del governo Berlusconi e dando L’Aquila ormai per ricostruita; abbiamo nel parlamento le risse da taverna con il Ministro della difesa che manda un plateale vaffa….. al Presidente della Camera dei Deputati; parlamentari della maggioranza che se la prendono con una deputata diversamente abile; abbiamo le immagini pietose di Lampedusa a testimonianza dell’assurdità di un Paese di 60 milioni di cittadini, pur ricco e considerato tra i più importanti al mondo, che va in tilt per l’arrivo (peraltro ampiamente previsto dallo stesso Ministro dell’Interno) di qualche migliaia di immigrati disperati; immagini dell’isola accompagnate da quelle del capo del governo che elargisce alla popolazione arrabbiata di Lampedusa, come fece anche a L’Aquila, le sue solite bufale tranquillizzanti (in questo caso: Lampedusa zona franca, apertura di un casinò e la promessa del nobel della pace per l’isola, ecc.), riuscendo perfino a farsi applaudire da qualche sprovveduto o, forse, da qualche prezzolata comparsa, chissà!
Che vergogna, che tristezza. C’è solo da sperare che tutto questo sia solo un brutto sogno e che finisca presto, molto presto ed è proprio questa speranza che, evidentemente, dà la forza al sottoscritto ed a tanti altri emigrati di non tramutare in realtà il pensiero assillante di dimetterci da italiani. (dino nardi*\aise)
* consigliere Cgie
http://www.aise.it/italiani-nel-mondo/previdenza/79297-mi-dimetto-da-italiano–di-dino-nardi.html
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Berlusconi apre le braccia alla privatizzazione del Colosseo
di Miguel Mora – 5 aprile 2011 Pubblicato in: Spagna
Traduzione di ItaliaDallEstero.info
Cede l’esclusiva dell’anfiteatro all’imprenditore Diego Della Valle per 25 milioni di euro
Il grande Totò vendeva la Fontana di Trevi in un celebre film del 1961, Totòtruffa. Mezzo secolo dopo, il governo di Silvio Berlusconi ha forse superato la prodezza del comico napoletano mettendo in mani private il Colosseo, probabilmente il monumento più importante del mondo.
I sindacati hanno denunciato l’accordo presso il Tribunale di Roma.
Il beneficiario è l’imprenditore Diego Della Valle, proprietario dell’azienda di calzature Tod’s, che in cambio del pagamento dei lavori di restauro, 25 milioni di euro, manterrà per almeno 15 anni (prorogabili) l’esclusiva sull’immagine mondiale del monumento romano.
Berlusconiano fin dall’inizio, poi allontanatosi dal premier e ora di nuovo affine, Della Valle, che è anche socio nei magazzini Saks e in RCS, gruppo editoriale del Corriere della Sera e de El Mundo, sembra aver fatto uno dei migliori affari della sua vita.
In cambio del pagamento dei 25 milioni che le costerà il restauro dell’anfiteatro del primo secolo, la Tod’s gestirà in esclusiva gli affitti e i diritti di immagine dell’Anfiteatro Flavio in Italia e all’estero, potrà mettere il suo logo agli ingressi e sulle impalcature, e costruire un “centro servizi” nell’area archeologica più protetta del mondo.
L’accordo è stato firmato lo scorso 27 gennaio e il Governo lo ha firmato con grandi cerimonie, come un atto di generoso mecenatismo da parte dell’imprenditore della calzatura.
Stranamente il testo non è stato diffuso, e in gran parte è ancora un mistero. Il sindacato UIL, molto attivo nell’ambito del patrimonio storico e culturale, ha presentato un ricorso presso il Tribunale di Roma e la Corte dei Conti, nel quale esprime i suoi dubbi sullle condizioni reali del contratto e chiede un’indagine per verificare gli eventuali estremi di reato.
Gianfranco Cerasoli, segretario generale di UIL Cultura, spiega che l’accordo è stato firmato “in gran fretta dopo che l’asta pubblica era stata dichiarata deserta”, e ricorda che “impedirà per almeno 15 anni al Ministero, e pertanto allo Stato, che secondo la Costituzione è responsabile dell’Anfiteatro, di decidere liberamente dell’uso e dell’immagine del monumento”.
Inoltre secondo Cerasoli, “la valutazione dell’accordo è evidentemente sottostimata, dato che qualsiasi economista sa che l’operazione produrrà come minimo 200 milioni di euro, poiché concede all’azienda, per tutta la durata del cantiere, il piano di comunicazione e la commercializzazione del Colosseo in tutto il mondo”.
Il sindacato chiarisce che non ha nulla contro la Tod’s. “Della Valle ha fatto il suo lavoro chiudendo un’operazione commerciale e promozionale di grande impatto. Non siamo contro gli sponsor privati, ma contro le concessioni statali a basso costo”.
Un’associazione mista, che deve essere ancora costituita e in cui l’azienda calzaturiera sarà di maggioranza, prenderà d’ora in poi le decisioni che riguardano il monumento. Se qualcuno volesse usare l’immagine del Colosseo per girare un film, uno spot pubblicitario o fare una campagna politica, dovrà chiedere il permesso alla Tod’s. Hanno già dovuto farlo i responsabili della Volkswagen, che volevano presentare un nuovo modello nel teatro romano.
Fonti dell’azienda italiana hanno replicato alle critiche con un argomento semplice: ”Un’azienda quotata in borsa che investe 25 milioni di euro nel restauro di un monumento deve spiegare ai suoi azionisti il suo comportamento. Sarebbe assurdo che la Tod’s non avesse l’esclusiva durante il corso dei lavori”.
Il proprietario della Tod’s ha firmato l’accordo con il commissario dell’area archeologica di Roma, l’architetto Roberto Cecchi, cui la presidenza del Consiglio ha conferito pieni poteri con un decreto speciale. Cecchi è uno dei nomi che l’Esecutivo impiega dal 2001 per sostenere la sua “valorizzazione del patrimonio culturale”. Il suo superiore, Mario Resca, ex amministratore delegato della McDonald’s Italia, fu nominato personalmente da Silvio Berlusconi per sfruttare i monumenti e i musei con un’impostazione commerciale e privata. Secondo i critici è un’altra strategia populista, che considera la conservazione del patrimonio in uno stato di perenne emergenza (cosa che serve per firmare i contratti in fretta e furia).
L’obiettivo dichiarato è lanciare azioni di grande impatto e aumentare le visite. Nel frattempo, si tagliano i fondi pubblici, si riduce il personale addetto alla manutenzione e si tralascia la salvaguardia dei beni artistici e storici. In parallelo, il governo ha gradualmente ceduto al privato gran parte della gestione museale e culturale, dall’organizzazione di mostre alla gestione delle biglietterie, un mercato ristretto a una manciata di aziende che incassano fino al 30% su ogni ingresso venduto. Aziende come Electa Mondadori, di proprietà del capo del Governo, hanno ottenuto inoltre concessioni pubbliche per le librerie di una trentina di istituzioni, tra cui il Colosseo e il Foro Romano.
Negli ultimi due anni, questa tendenza sembra essersi intensificata, provocando tensioni e dimissioni tra le alte cariche culturali. Prima se n’è andato il numero due della Cultura, Salvatore Settis; poi il suo successore, Andrea Carandini, e infine lo stesso ministro, Sandro Bondi, che è stato sostituito dall’ex ministro dell’Agricoltura, Giancarlo Galan.
Carandini ha appena rettificato, ed è tornato al Ministero dopo che il governo ha accettato di limitare i tagli alla spesa previsti per quest’anno, giustificandoli con un aumento di un centesimo sul prezzo della benzina.
Storia dell’Anfiteatro Flavio
La costruzione del Colosseo iniziò nell’anno 72 per volontà dell’imperatore Vespasiano. I lavori terminarono nell’80, quando l’imperatore Tito lo inauguro’ con 100 giorni consecutivi di giochi.
Anche chiamato anfiteatro Flavio, dalla dinastia dei Flavii che lo fece costruire, accoglieva spettacoli e lotte tra gladiatori o tra uomini e belve. In alcune occasioni, i Romani lo riempivano d’acqua e riproducevano le battaglie navali dalle quali Roma era tornata vittoriosa. L’ingresso era gratuito.
A partire dal Medio Evo fu trasformato in una fortificazione e secoli dopo in un magazzino di materiali da costruzione. L’Unesco lo ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità insieme al centro storico. Un biglietto costa 12 euro (7,50 per cittadini dell’Unione Europea). Nel 2010 ha ricevuto più di cinque milioni di visite.
http://italiadallestero.info/archives/11249
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La rassegna di http://caffeeuropa.it/ dello 08.04.2011
Le aperture
Il Corriere della Sera: “Migranti, crisi Italia-Francia. Diventano un caso i permessi temporanei. Berlusconi e il ministro da Napolitano”. “La linea di Sarkozy: bloccare i profughi. Ira di Maroni”. Il titolo di apertura è per la decisione della Bce di alzare il costo del denaro: “Il denaro costa di più: primo rialzo dal 2008. La mossa di Trichet per frenare l’inflazione”. “La banca centrale europea porta i tassi all’1,25 per cento”. L’editoriale, firmato da Francesco Giavazzi, è titolato: “I veri nemici dell’euro”: sono quei politici che stanno costruendo la loro fortuna sulla critica all’Euro, e che non capiscono che è la mancata crescita europea a determinare la disoccupazione.
La Repubblica: “Immigrati, guerra Parigi-Roma. Bagarre alla Camera per un cartello dell’Idv: ‘Maroni assassino’. Libia, la Nato chiede all’Italia di bombardare. La Francia: li respingeremo. Il Viminale: siete ostili, uscite da Schengen”. A centro pagina la vicenda Generali: “Galateri verso la presidenza. Oggi il successore di Geronzi. Intervista con Rampl: da rivedere anche gli equilibri in Mediobanca”. Di spalla. “La terra trema ancora, torna la paura a Tokyo”.
La Stampa: “Immigrati, scontro Italia-Francia. Parigi li respinge. Maroni: siete ostili, se lo fate uscite da Schengen. Accordo governo-regioni, c’è il decreto. Berlusconi sale al Colle, Napolitano soddisfatto. Tunisi ferma il primo barcone”. A centro pagina: “Caldo record, in montagna è giàò estate. Scatta l’allerta valanghe”.
Libero: “La Francia abbaia e l’Italia non morde. Parigi straccia i nostri permessi temporanei e respinge i nordafricani”. L’editoriale, firmato da Vittorio Feltri, si sofferma su Generali: “Così i padroni vogliono prendersi la politica”.
Il Foglio: “I capricci francesi fanno traballare anche i patti del governo sui migranti. Parigi sbarra i confini agli africani con permesso di soggiorno italiano, proprio mentre l’esecutivo convince le regioni”. Di spalla, la crisi europea: “Per salvare le banche francesi e tedesche, l’Ue cura male il Portoghgallo. Gli speculatori che hanno portato Lisbona al tracollo stanno negli istituti di Parigi, Berlino, Londra”.
Il Riformista, con foto del Presidente francese: “Sarkoznò”. “Migranti, loro navigano verso l’Italia, noi navighiamo a vista”. Di spalla: “Cavaliere senza Geronzi. Perdere un banchiere amico”.
L’Unità, con foto di Maroni: “Vù scappà? Condono e un foglio di via per l’Europa a 20 mila tunisini. Et voilà il decreto: i migranti restano per sei mesi con l’invito ad andarsene. Per far digerire la resa alla base padana. Parigi non mangia la foglia. ‘Pronti a respingere l’ondata’”.
Europa: “Anche sugli immigrati l’unico garante è Napolitano. Il governo deve mediare con le Regioni. Via ai permessi, ma non si sa a chi darli”. “Decreto caos, Maroni in guerra con la Francia non convince la Camera”.
Il Sole 24 Ore: “Il piano di Mediobanca. L’obiettivo è una progressiva discesa al 30 per cento del patto di sindacato che controlla l’istituto”. “Generali, si tratta nella notte: favorito Galateri, in corsa Berger”. L’editoriale è sulla crisi e il debito (“Lezioni europee per l’Italia”), mentre di spalla si parla della Francia, “pronta a bloccare l’ingresso dei tunisini. Maroni: Parigi esca da Schengen”.
Il Giornale: “Boccassini sotto inchiesta. Dopo le telefonate del Cavaliere sbattute sui giornali, la Cassazione indaga sui Pm milanesi: quelle conversazioni non dovevano finire nel fascicolo. Ora vedremo se qualcuno pagherà”. A centro pagina: “Immigrati, Sarkozy ci fa la guerra”. L’editoriale, firmato da Alessandro Sallusti, parla di Generali.
Immigrati
Una corrispondenza da Parigi del Sole 24 Ore riferisce le parole del ministro dell’interno francese Guéant: “La Francia non ha alcuna intenzione di subire una ondata di immigrati provenienti dall’Italia. Per circolare liberamente all’interno dello spazio Schengen non è sufficiente avere una autorizzazione di soggiorno rilasciata da uno degli Stati membri. Bisogna avere dei documenti di identità e soprattutto dimostrare di possedere risorse finanziare adeguate. In caso contrario la Francia ha il diritto di riaccompagnare gli immigrati in Italia, ed è quello che farà”.
Mercoledì scorso ai prefetti e alle gendarmerie francesi è stata inviata una circolare in cui si precisano i requisiti necessari per l’ingresso in Francia: bisogna tra l’altro dimostrare di non esser già entrato nel Paese nei tre mesi precedenti, ma soprattutto dimostrare di disporre di risorse sufficienti, dichiarare quanto tempo si prevede di rimanere in Francia, e per rimanervi si deve dar prova di possedere 31 euro al giorno qualora abbia qualcuno in grado di ospitarlo o 62 in caso contrario. Guéant ha chiuso così: “La Francia non può che rallegrarsi che la Tunisia entri in un’era di libertà e democrazia, ma non è assolutamente disposta ad accettare un flusso migratorio motivato esclusivamente da ragioni economiche”.
Il Sole 24 Ore spiega anche come funziona il permesso di soggiorno previsto ieri da un decreto del presidente del consiglio ai fini di protezione umanitaria. E’ di sei mesi, e garantisce comunque tre mesi di libera circolazione negli stati dell’area Schengen. Dopo i primi tre mesi l’immigrato che ha valicato i nostri confini può tornare in Italia e continuare a godere della protezione umanitaria o invece rimanere nello stato in cui risiede, se rispetta una serie di condizioni. La Francia ha ribadito ieri queste condizioni (possesso di un documento di identità, dimora dignitosa, reddito sufficiente, assenza di rilievi di tipo penale). Nei fatti la pretesa di far rispettare queste condizioni e di espellere gli immigrati, in caso di assenza dei requisiti, è sempre stata considerata con grande difficoltà. La domanda di attivazione del meccanismo di protezione temporanea – spiega Il Sole – deve essere rivolta alla Commissione europea, che ha il compito di presentare una proposta formale ai ministri Ue. Dopodiché deve essere approvata dal Consiglio a maggioranza. Il fatto è che la maggioranza degli stati è contraria, perché il provvedimento è l’affermazione del principio della condivisioni degli oneri, il cosiddetto burden sharing.
A quella che definisce “l’internazionale del cinismo” è dedicato un commento su La Repubblica di Chiara Saraceno. Sotto accusa non solo l’Italia, ma anche Malta (che da un lato rivendica il controllo di un’ampia zona di mare, ma respinge le imbarcazioni che accostano). E la Francia, “in prima fila quando si trattava di bombardare la Libia, anche al di là del mandato dell’Onu, ma altrettanto in prima fila a pattugliare i confini, perché nessuno di coloro di cui ‘difende la lotta per libertà’ bombardando più o meno indiscriminatamente il loro Paese eserciti questa libertà duramente conquistata anche a rischio di vita cercando di entrare in territorio francese”.
Alle parole del ministro Guéant, che esclude ogni possibile apertura umanitaria, è dedicata anche l’analisi di Cesare Martinetti su La Stampa: soffia “il vento di Le Pen“, è l’effetto di quella che nel dibattito francese si chiama la “lepenizzazione degli spiriti”, visto che tra un anno ci sono le presidenziali e i sondaggi per Sarkozy sono spietati. Se il presidente ha indossato il “kepì blanc” e scommette sulla grandeur perduta per ricollocare la Francia sullo scenario internazionale, riconoscendo per primo i ribelli di Bengasi, sul piano interno il suo fronte è “in difesa”. E sull’incontro previsto oggi tra Maroni e il suo omologo francese c’è poco da illudersi. Il trattato bilaterale Italia Francia del 1997 prevede la restituzione dei clandestini. Peraltro tra Francia e Italia è in corso da tempo una guerra fredda che ha per teatro la finanza. In Edison, dove Edf vorrebbe la mano libera, in Parmalat, dove è in corso la scalata Lactalis, nelle assicurazioni, sia Generali che Premafin Fonsai, dove si muove il guascone supersarkozista Bolloré.
“Promesse e paure del voto francese, quella doppiezza nel segno di Le Pen” è il titolo del commento di Massimo Nava sul Corriere della Sera, dedicata all’atteggiamento francese, che chiede una interpretazione più restrittiva delle regole di Schengen: “Parigi sembra non accorgersi che – così facendo – rimette in discussione lo spirito del trattato e uno dei caposaldi della Costituzione europea”. La doppiezza francese si spiega in estrema sintesi con un nome, Marine Le Pen, che miete consensi negli strati popolari agitando le questioni dell’immigrazione e della sicurezza: meno inelegante di Bossi, ma più elettoralmente penetrante. A confronto, va invece dato atto al ministro Maroni – scrive Nava -di aver sfidato l’impopolarità e la sua stessa base cercando soluzioni praticabili e sollecitando collaborazione all’Europa e alla Francia.
Su La Stampa: “L’incubo Marocco e Algeria fa alzare la voce a Parigi”. Con una ricostruzione del percorso politico del ministro Guéant, gran burocrate ed eminenza grigia scoperto da Charles Pasqua. Lo stesso quotidiano intervista l’ex direttore di Le Monde Jean Marie Colombani: Guéant è un portavoce del presidente, che se ne serve per i bassi servizi della politique politicienne.
Generali
Nel suo editoriale su Il Giornale Alessandro Sallusti spiega che “in effetti DellaValle ha urlato molto contro Geronzi, ma non credo, con tutto il rispetto verso uno dei nostri migliori imprenditori, che il padrone delle Tod’s e non solo abbia tutto questo potere. In effetti lui e il suo amico Luca Montezemolo stanno scalpitando, il primo nel mondo della finanza, il secondo in quello della politica”, ma la verità è che “in Generali si stanno giocando due partite diverse”. La prima è quella di chi deve gestire la montagna di miliardi che gestisce, la seconda, “di più modesto profilo”, riguarda “alcune cosette italiane”, come il controllo del Corriere della Sera.
Vittorio Feltri, su Libero, legge il versante italiano e spiega che far fuori Geronzi vuol dire che “muterebbero gli assetti proprietari del Corriere della Sera e di conseguenza la linea editoriale del medesimo. La 7 si affiancherebbe al Corriere, “La Stampa si adeguerebbe, il Messaggero di Caltagirone è già lì a disposizione”. I “nuovi padroni del vapore” avrebbero dunque un ovvio candidato a Palazzo Chigi in Luca di Montezemolo. Ma il piano “sottovaluta le capacità reattive di Cesare Geronzi e di Silvio Berlusconi”. Il primo tenterà di “rovesciare il tavolo” in Mediobanca, il secondo “troppe volte è stato dato per morto, e si è mangiato i becchini”.
Esteri
Ieri sono morti per fuoco amico nel corso delle operazioni Nato in Libia tredici persone. E i ribelli – scrive Il Riformista – hanno comunque chiesto alla Nato di colpire più duro. L’incidente di ieri conferma i rischi sempre più alti degli strike dal cielo, oltre che la loro indaguatezza. Rilancia i sostenitori di una escalation sul terreno, magari con istruttori per i ribelli. Tanto che si è parlato di possibii “mercenari” che fronteggino quelli di Gheddafi. Mettere le armi nelle mani degli insorti è considerata una mossa rischiosa, poiché poco addestrati. Quando si parla degli addestratori ci si ispira al modello afghano quando le forze speciali della Cia infiltrate nel Paese prima ancora dell’attacco, operavano in stretto coordinamento con le forze dell’Alleanza del Nord, che erano però guidati da signori della guerra assai esperti. Gli alleati preferirebbero affidare le operazioni agli arabi già impegnati nella missione, come Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Qualcuno pensa invece alla Giordania, che ha i migliori servizi di intelligence tra i Paesi arabi.
La Repubblica riferisce che ieri il segretario generale della Nato Rasmussen, in una telefonata con Frattini, ha formalmente chiesto l’impiego da parte dell’Italia della sua capacità air to ground, ovvero di bombardare come fanno gli altri.
Alla mancanca di una leadership chiara sul fronte dei ribelli libici è dedicata una analisi di Europa. Manca una figura carismatica. I capi dell’opposizione sottolineano che la rivolta è stata spontanea, che le strutture e le strategie hanno preso corpo in modo casuale e caotico, e che non c’è background organizzativo poiché Gheddafi ha sempre vietato qualsiasi manifestazione politica, controllato il flusso delle informazioni e messo al bando ogni associazione.
Il Foglio si occupa invece dei militari che hanno abbandonato Gheddafi e che stanno tentando di dare forma ai “ribelli fai da te”.
Sullo stesso quotidiano ci si occupa dell’Iran e di come abbia individuato quattro Paesi in cui la primavera araba può diventare “riscossa sciita”: Teheran concentra i suoi sforzi su Egitto, Siria, Yemen, Bahrein.
E poi
“La Consulta boccia i sindaci sceriffi“, titola il Corriere della Sera: ieri la Corte Costituzionale ha ridotto notevolmente i poteri – “straordinari” – concessi agli amministratori locali dal pacchetto sicurezza del 2008, varato dal Ministro dell’Interno Roberto Maroni. La Consulta ha dichiarato illegittima la parte della legge in cui permette ai sindaci di adottare, anche al di fuori dei casi di contingibilità e urgenza, provvedimenti a contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato. Il Corriere ripercorre la lista dei provvedimenti dei sindaci in questi anni in fatto di sicurezza, che vanno dalle ordinanze anti-accattonaggio e anti-lucciole a Roma e Milano, ai provvedimenti contro i lavavetri e i vu cumprà a Firenze o Trieste, dai vigili urbani muniti di spray al peperoncino a Modena, alle ronde di Chiarano, in provincia di Treviso. Il ministro Maroni considera un errore la bocciatura della Corte e si domanda se si tratti di un rilievo formale, ovvero la necessità di una legge in luogo di un decreto amministrativo. Di diverso parere Sergio Chiamparino, presidente dell’Anci, che ricorda come l’Associazione “evidenziò subito la necessità che l’ampliamento degli strumenti e dei poteri per fronteggiare la crescente domanda di sicurezza fosse disciplinata dalla legge in un quadro organico”.
Su Il Giornale si parla di “colpo al pacchetto sicurezza”: “i superpoteri dei sindaci aboliti per sentenza”, “bocciate le norme che ampliavano le facoltà degli amministratori locali. Nel mirino le ordinanze da sceriffi, come quelle contro accattonaggio e prostituzione, ‘legittime solo se urgenti’. Maroni: ‘Errore della Consulta, rimedieremo con una legge'”. Il quotidiano pubblica uno specchietto che riepiloga i contenuti del pacchetto sicurezza del 2008, con le facoltà che erano concesse agli amministratori locali.
Renata Pisu su La Repubblica spiega chi sia Ai Wei Wei, il più famoso artista e architetto cinese, autore dello stadio “Nido d’uccello”, incriminato per crimini finanziari ed arrestato.
Europa racconta che il magnate kazako israeliano Alexandr Mashkevitch ha deciso di lanciare una “all news” israeliana in stile Al Jazeera: “Ogni giorno le popolazioni mondiali ricevono informazioni negative su Israele”, ha detto. Ora la cosa più importante da fare “è riuscire a rappresentare Israele, a livello internazionale, in maniera diversa”. Ha promesso che non sarà un canale di propaganda, “e per questo indipendente da qualsiasi governo”.
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Sovranita’ bancaria: perche’ il Giappone puo’ permettersi la ricostruzione 08.04.2011
POSSIEDE LA PIU’ GRANDE BANCA DEPOSITI DEL MONDO
Il governo giapponese puo’ permettersi il suo enorme debito perche’ possiede la banca che e’ il suo principale creditore. Ma i concorrenti stanno premendo per la privatizzazione della banca. Se ci riescono, potrebbero spingere il paese verso la servitu’ del debito insieme ad altre nazioni a corto di credito.
Quando un portavoce del FMI ha dichiarato in una conferenza stampa il 17 marzo che il Giappone dispone di mezzi finanziari per recuperare dal suo devastante tsunami, i blogger scettici si chiedevano cosa volesse dire. Era un modo educato per dire: ‘Tu sei da solo?’
La portavoce Caroline Atkinson ha dichiarato: ‘La politica di priorita’ piu’ importante e’ quella di affrontare i bisogni umanitari, le esigenze infrastrutturali e di ricostruzione e di affrontare la situazione nucleare. Crediamo che l’economia giapponese sia una societa’ forte e ricca e che il governo ha le intere risorse finanziarie per rispondere a queste esigenze’. Alla domanda se il Giappone aveva chiesto l’assistenza del FMI, ha detto, ‘il Giappone non ha richiesto alcun contributo finanziario del Fondo Monetario Internazionale.’
Gli scettici hanno chiesto come un Paese con un debito nazionale che e’ stato oltre il 200% del PIL potrebbe essere ‘forte e ricco’. In una pubblicazione della CIA, il CIA Factbook list che riporta i dati statistici fondamentali e una sintesi di informazioni riguardanti tutti i Paesi del mondo, dei rapporti debito/PIL di 132 paesi nel 2010 il Giappone era in cima alla lista con il 226%, sorpassando anche lo Zimbabwe detentore di un sonante 149%. Grecia e Islanda sono al quinto e sesto posto, rispettivamente al 144% e 124%. Eppure il rating del credito del Giappone era ancora AA, mentre la Grecia e l’Islanda erano nella categoria BBB. Il Giappone come ha saputo conservare non solo il suo rating di credito, ma il suo status di terza o seconda economia del mondo, portando un carico cosi enorme di debito?
La risposta potrebbe essere che il governo giapponese ha una fonte di finanziamento in cattivita’: possiede la piu’ grande banca depositi del mondo. Come ha detto il vicepresidente americano Dick Cheney, ‘fare deficit, non importa’. Non importa, almeno quando possedete la banca che e’ il vostro principale creditore. Il Giappone e’ rimasto impermeabile agli attacchi speculativi che hanno messo in ginocchio paesi come la Grecia e l’Islanda, perche’ non e’ caduto nella trappola della dipendenza da finanziamenti esteri.
La Japan Post Bank e’ oggi il piu’ grande detentore di risparmio privato in tutto il mondo, diventando cosi il piu’ grande motore del credito al mondo. La maggior parte dei soldi oggi nasce come prestiti bancari, e i depositi sono la piscina magica da cui e’ generato questo credito in denaro. La Japan Post non e’ solo la piu’ grande banca depositi del mondo, ma la sua piu’ grande banca di proprieta’ pubblica. Fino al 2007, e’ stata anche il piu’ grande datore di lavoro in Giappone, e il titolare di un quinto del debito pubblico sotto forma di titoli di Stato. Come menzionato da Joe Weisenthal, scrivendo in Business Insider, nel febbraio 2010.
Siccome l’enorme debito pubblico giapponese e’ in gran parte detenuto dai propri cittadini, il Paese non deve preoccuparsi di perdere la fiducia degli investitori stranieri.
Se ci sara’ una corsa al debito pubblico, dovra’ essere il risultato dela volonta’ dei propri cittadini di non finanziarlo piu’. E dal momento che molti giapponesi finanziano il governo attraverso conti detenuti presso la Japan Post Bank – che a sua volta acquista il debito pubblico – tale istituzione sarebbe il canale perche’ avvenga un cambiamento.
Questo potrebbe spiegare perche’ la Japan Post e’ stata il campo di battaglia tra le fazioni in lotta politica per oltre un decennio. Il sistema giapponese di risparmio postale risale al 1875; ma nel 2001 la Japan Post e’ stata costituita come societa’ pubblica indipendente, il primo passo nella privatizzazione e vendita agli investitori esterni. Quando il neo-eletto primo ministro Junichiro Koizumi ha cercato di far passare la ristrutturazione, pero’, incontro’ una fiera resistenza. Nel 2004, Koizumi ha praticato un rimpasto nel suo gabinetto, nominando dei riformisti come nuovi ministri, e ha creato una nuova posizione per il Ministro della la privatizzazione postale, insediandovi Heizo Takenaka. Nel marzo 2006, Anthony Rowley ha scritto in Bloomberg:
Con la privatizzazione di Japan Post, [Koizumi] mira a spezzare la morsa che politici e burocrati hanno a lungo imposto sulla ripartizione delle risorse finanziarie in Giappone e a iniettare nuova concorrenza nel settore dei servizi finanziari del Paese. Il suo piano creera’ anche un target potenzialmente appetitoso per gli investitori nazionali e internazionali: la cassa di risparmio della Japan Post e le assicurazioni vantano attivita’ combinate per piu’ di 380mila miliardi di yen (3.200 miliardi dollari). . .
Un bacino di attivita’ di 3.000 miliardi dollari fa davvero venire l’acquolina in bocca. In una riorganizzazione del 2007, la divisione di risparmio postale e’ stata separata dalle altre del servizio postale, trasformando la Japan Post in una propria banca. Come si legge in un articolo di ottobre 2007 su The Economist:
Questo era il piano, e la Japan Post ha investito piu’ avventurosamente, ma non ha ancora rinunciato ai suoi privilegi di governo. Il nuovo ministro ai servizi finanziari Shizuka Kamei ha messo un freno al processo di privatizzazione, e le azioni della banca non sono state vendute. Nel frattempo, il consolidata Post Bank e’ cresciuta fino a dimensioni enormi, superando Citigroupcome il piu’ grande istituto finanziario al mondo, e si e’ ramificata in nuove aree, allarmando i concorrenti. Un articolo a marzo 2007 di USA Today ha avvertito, ‘Il colosso alimentato dal governo potrebbe sfruttare la propria dimensione per schiacciare i rivali, stranieri e nazionali’.
Prima dello tsunami del marzo 2011, che e’ quello che sembrava stesse per fare. Ma ora si discute di un ritorno al modello neoliberista, vendendo beni pubblici per trovare i fondi per la ricostruzione. Christian Caryl ha commentato in un articolo del 19 marzo di affari esteri, pubblicato dal Council on Foreign Relations:
Per quanto orribile essa sia, la devastazione del terremoto presenta per il Giappone e la sua classe politica la possibilita’ di portare avanti le numerose riforme che il Dpj [Partito Democratico del Giappone], ha da tempo promesso e di cui il paese ha tanto bisogno.
In altre parole, la possibilita’ per gli investitori di mettere finalmente le mani sulla pregiata banca di proprieta’ pubblica del Giappone e sulla base dei depositi massivi che finora ha protetto l’economia dagli attacchi dei predatori finanziari stranieri.
Il governo giapponese puo’ permettersi il suo enorme debito perche’ gli interessi che paga sono estremamente bassi. Per l’economia privata, il debito pubblico E’ denaro. Un grande debito pubblico nei confronti del popolo giapponese significa industrie giapponesi che hanno i soldi per ricostruire. Ma se la Japan Post e’ venduta a investitori privati, i tassi di interesse sono suscettibili di aumento, gettando il governo nella trappola del debito a cui finora e’ in gran parte sfuggito.
I giapponesi hanno pero’ forti valori di comunita’, e non si affidano tranquillamente alla dominazione da parte di stranieri. Essi in genere amano il loro governo, perche’ sentono che serve i loro interessi. Speriamo che il governo giapponese avra’ la lungimiranza e la forza di aggrapparsi alla sua colossale banca di proprieta’ pubblica e usarla per sfruttare il risparmio del suo popolo nel credito necessario a ricostruire le infrastrutture devastate, evitando di essere paralizzato da un debito nei confronti di interessi stranieri.
Fonte: http://webofdebt.wordpress.com/
Link: http://webofdebt.wordpress.com/2011/03/31/why-the-japanese-government-can-afford-to-rebuild-it-owns-the-largest-depository-bank-in-the-world/
Traduzione per http://www.comedonchisciotte.org a cura di ETTORE MARIO BERNI (Tratto da: http://www.ariannaeditrice.it)
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Marzo 2011
I parlamentari si sono nuovamente aumentati lo stipendio di circa € 1100
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IBM, nanotech che ammazza i superbatteri 08.04.2011
E’ in grado di spezzare le difese dei germi più pericolosi per la salute umana, batteri resistenti agli antibiotici
Roma – Dopo aver preso d’assalto le cellule tumorali, le nanoparticelle sono ora pronte a ridare speranza per chi cerca una cura contro i cosiddetti “superbatteri” – agenti patogeni resistenti agli antibiotici più forti, che risultano estremamente difficili da trattare una volta annidati nel corpo di un paziente. La tecnologia è targata IBM, che parla di successo nelle prime sperimentazioni animali ed è pronta a passare al test su soggetti umani.
Il gruppo di lavoro di Big Blue che lavora alle nanoparticelle-killer è guidato dal dottor James Hedrick, e il principio di funzionamento del ritrovato prevede che le particelle prendano d’assalto la membrana cellulare del super-batterio da colpire – eliminata la membrana, il resto degli elementi cellulari viene espulso dal corpo in maniera assolutamente naturale.
Le nanoparticelle vengono create a partire da una plastica biodegradabile e sono elettricamente cariche, con segno però contrario alla carica elettrica della parete cellulare del superbatterio. Dopo aver “attaccato” la membrana e provocato la distruzione del microbo, le nanoparticelle biodegradabili vengono eliminate facilmente dal corpo.
L’innovativa nanotecnologia di IBM si è sin qui distinta nei test di laboratorio, riuscendo a distruggere i ceppi bioresistenti del micidiale stafilococco aureo con cui i ricercatori avevano infettato i topi usati per gli esperimenti. Per la prossima, inevitabile fase di sperimentazione umana, Big Blue dice di aver già aperto negoziati con non meglio specificate aziende farmaceutiche interessate.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3127706/PI/News/ibm-nanotech-che-ammazza-superbatteri.aspx
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Da questa roccia viene l’energia del futuro? 08.04.2011
Mentre il nucleare diventa sempre più scomodo e il prezzo del petrolio raggiunge quote insostenibili, in tutto il mondo parte la corsa all’estrazione di gas di scisto. Ma cos’è? Come si estrae? E, soprattutto, è davvero una buona alternativa al petrolio?
di Fabio Deotto
E se la fonte energetica del futuro fosse qualcosa di molto simile al petrolio? Anzi, di più, un parente prossimo dell’oro nero? È quello che suggererirebbe la recente corsa delle più potenti nazioni del mondo (Usa in particolare) all’estrazione di scisto bituminoso, un tipo di bitume sedimentario dal quale, con opportuni e dispendiosi procedimenti chimici, si può ottenere gas naturale non convenzionale.
Lo scisto è un materiale sedimentario bituminoso (sono considerati bitumi anche asfalto e catrame) molto ricco in idrocarburi che può essere trovato in grandi quantità nella crosta terrestre. Da questo tipo di roccia sedimentaria può essere prodotto prezioso gas naturale, il problema però è che, data la sua ridotta permeabilità, per poter estrarne gas è necessario provocare microfratture attraverso cui far filtrare dell’acqua trattata. Questo porta ai processi estremamente invasivi che si stanno diffondendo negli Stati Uniti e in Cina, e che stanno procurando allo shale gas la cattiva fama di nemico dell’uomo.
A differenza delle tradizionali estrazioni petrolifere, per ottenere gas di scisto è necessaria una tecnica chiamata hydraulic fracturing, che implica l’attuazione di trivellazioni che si estendono orizzontalmente. Completata la trivellazione, nel canale creato viene pompata acqua mischiata a sabbia e a particolari composti chimici, per moltiplicare le fratture nel materiale bituminoso e permettere il recupero di gas attraverso l’acqua. Questa tecnica di estrazione è stata sviluppata e messa in opera solo di recente, abbattendo i costi di estrazione e rendendo il gas di scisto un’alternativa molto più abbordabile di quanto non lo fosse dieci anni fa.
Un altro idrocarburo, dunque, un’altra risorsa esauribile, un’altra fonte di emissioni la cui estrazione comporta interventi di perforazione parecchio invasivi. Possibile che questa sia considerata l’alternativa futura a petrolio e carbone? Sì, perché anche se negli anni lo scisto bituminoso non è mai stato preso troppo sul serio – per via dei suoi elevati costi di estrazione e raffinazione – dopo il disastro di Fukushima, con il prezzo del petrolio che sale inarrestabile, il terreno è ormai fertile per rivalutare qualsiasi alternativa energetica immediatamente spendibile; spesso a discapito di una transizione verso le rinnovabili che continua a procedere a scossoni.
Non sconvolge più di tanto quindi sapere che in tutto il mondo la corsa alle perforazioni idrauliche orizzontali sia partita in quarta. Pochi giorni fa la compagnia cinese Petrochina ha completato la prima massiccia trivellazione (un km in orizzontale, due in verticale) nella regione di Sichuan. Un mese fa, poi, la famosa compagnia australiana Bhp Billiton ha scucito 4,75 miliardi di dollari per comprare una riserva di scisto bituminoso sul suolo statunitense.
Ma la nuova frontiera energetica aperta da questa nuova tecnologia fa gola a tanti altri paesi, in particolare quelli che oggi dipendono in aprte dalle riserve energetiche di altre nazioni, come per esempio la Polonia, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna.
Parlando di impatto ambientale, per quanto concerne le emissioni, il gas di scisto rappresenterebbe un’alternativa più verde di petrolio e carbone. Il problema sono le tecniche di estrazione che, oltre a consumare ampie porzioni di terreno, creano non pochi problemi ai centri abitati limitrofi. Questa problematica è lampante negli Stati Uniti, dove le trivellazioni hanno fatto emergere 23mila miliardi di metri cubici di gas di scisto (più di 30 volte quanto ne viene consumato nell’intero paese), migliaia di cittadini si sono trovati con dei pozzi rumorosi a poche centinaia di metri (a volte addirittura nel cortile di casa, per via delle norme sui diritti minerari). Acque del rubinetto che prendono fuoco, specchi d’acqua neutralizzati della loro flora e fauna, bestiame contaminato per aver bevuto le acque di scarico dei pozzi. Una situazione drammatica che è stata raccontata con efficacia in un documentario intitolato GasLand.
Ma la protesta contro lo shale gas si è allargata anche fino ai paesi europei. In Francia, per esempio, è nato un movimento chiamato No Gazaran, che si batte per contrastare lo sfruttamento delle campagne attorno al Rodano. In Italia, dove dal 2009 è attivo il primo rigassificatore offshore Gbs al mondo, stando ad alcune analisi, non ci sarebbero le condizioni territoriali e logistiche, per traforare orizzontalmente le riserve di scisto come negli Stati Uniti. Eni, tuttavia, avrebbe in progetto di sfruttare il know-how che detiene in materia di gas non convenzionali, per finanziare estrazioni di gas di scisto in Algeria e Polonia.
Insomma, il gas di scisto potrebbe rappresentare un punto di svolta nella produzione energetica internazionale? La risposta è: dipende. Dipende dalla zona geografica di cui si parla. Se per gli Stati Uniti le riserve di gas non convenzionale possono effettivamente fare la differenza, lo stesso non vale per l’ Europa dove, stando a un calcolo fatto da Don Gauthier dell’US Geological Survey, bisognerebbe sfruttare una zona grande quando Belgio, Olanda e Lussemburgo messi assieme e ridurla a un colabrodo con almeno 6mila pozzi.
Senza contare, poi, che ancora non si conoscono con esattezza le dinamiche dell’estrazione di gas di scisto. Alcuni esperti valutano infatti che il picco di produttività potrebbe essere raggiunto presto, dopodiché la produttività si assesterebbe su un plateau di valori bassi. In quest’ottica, lo sfruttamento di shale gas potrebbe dunque aiutare a tamponare l’emergenza energetica nei prossimi anni, ma lascerebbe irrisolto il problema per le generazioni a venire.
http://daily.wired.it/news/ambiente/2011/04/08/futuro-energia-scisto-bituminoso.html#content
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Bye Bye Lisbona… 08.04.2011
Il Portogallo si consegna mani e piedi alla follia monetarista. Dopo Grecia e Irlanda è il turno di Lisbona.L’Europa infatti oggi ha detto sì alla richiesta di aiuto del Portogallo, ma invece di un salvagente gli ha legato un cappio al collo. Così oggi l’Ecofin riunito a Budepast ha dato il via libera alla Commissione Ue per il mandato di ricattare insieme alla Bce e all’Fmi il Portogallo. Il tutto con un piano di aiuti triennale che – secondo le prime stime di Bruxelles – si aggira sugli 80 miliardi di euro. Un piano da varare al più tardi entro la metà di maggio, prima delle elezioni politiche portoghesi . I ministri dell’Eurozona, ma sarebbe meglio dire i ministri dei paesi ricchi (perchè di fatto loro decidono )hanno da subito stretto il cappio al collo richiedendo al pese lusitano più sacrifici di quanto finora ipotizzato. sacrifici sia sul fronte dei conti, sia su quello delle riforme. Un piano d’azione su cui dovranno impegnarsi non solo le forze che sostengono il governo dimissionario di Socrates (socialisti), ma anche i partiti dell’opposizione (centro destra) che tra pochi mesi molto probabilmente si ritroveranno alla guida del Paese con una maggioranza schiacciante… è il bipolarismo bellezza.
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Errori della Bce e giochi di potere in Italia
Alfiero Grandi, 09.04.2011
Stupefacente il silenzio del Governo sull’aumento dei tassi deciso dalla BCE. L’inflazione non è da eccesso di domanda, anzi al contrario andrebbe sostenuta. Alzare i tassi di interesse è un colpo alla ripresa, non il suo contrario, ma il Governo italiano tace, distratto dai vari salvaprocessi
L’attenzione sui processi del Presidente del Consiglio e sugli incredibili tentativi di bloccarli rischia di distrarre dalla situazione economica e dalla redistribuzione dei poteri a cui si dedica con grande impegno il Ministro Tremonti. Ad esempio il Governo – in modo schizofrenico – ha bloccato il fotovoltaico per dare impulso al nucleare, proprio quando l’incidente di Fukushima spinge il mondo intero ad un ripensamento sulle centrali.
Prima c’è stato il ripensamento tedesco, ora i socialisti francesi con una svolta clamorosa vogliono che anche la Francia esca dal nucleare. Fino ad ora in Francia il nucleare era argomento tabù per chiunque volesse candidarsi a governare.
In Italia il Governo dopo un goffo tentativo di far finta di nulla ha previsto solo una moratoria delle decisioni previste dalla legge che ha fatto approvare, con il solo obiettivo di prendere tempo ed eventualmente tentare, passato il referendum, di riprendere il disegno nuclearista.
Eppure anche il Ministro Tremonti ha sollevato più di un velo sul nucleare quando ha denunciato che la chiusura delle centrali costa molto di più – 3 volte – che costruirle, ovviamente a carico della collettività.
Stupefacente il silenzio del Governo sull’aumento dei tassi deciso dalla BCE. L’inflazione non è da eccesso di domanda, anzi al contrario andrebbe sostenuta. Alzare i tassi di interesse è un colpo alla ripresa, non il suo contrario, ma il Governo italiano tace, distratto dai vari salvaprocessi.
Così è in corso una dura battaglia per impadronirisi delle leve del potere. Battaglia che si combatte all’interno della coalizione di Governo e che lascia interdetti per la sua pochezza strategica. Quali sono gli obiettivi ? Solo accrescere il potere di questo o quel gruppo.
Quale debba essere il futuro dell’economia e della società italiana sembra non interessare questi “combattenti”. Tremonti, ad esempio, manifesta la tentazione crescente di utilizzare il formidabile serbatoio finanziario della Cassa Depositi e Prestiti (almeno 40 miliardi di euro di risparmio postale) per diventare azionista nelle grandi imprese, per ricapitalizzare le banche, per costituire fondi per interventi diretti nell’economia.
Questa strategia è il contrario del liberismo ideologico della destra oggi al governo, ma il Ministro dell’Economia non sembra interessato alla coerenza con il programma elettorale del Pdl. E’ stato scritto che così tornerebbe l’Iri. Non è così, forse l’unico punto in comune è l’essere entrambe strategie post crisi, quella del 1929 e quella attuale.
L’Iri bene o male era parte di una strategia di politica economica strutturale, non era solo assicurarsi il controllo e il consenso di centri di potere. L’Iri aveva un Ministero di riferimento, doveva riferire al parlamento.
La Cassa Depositi e Prestiti dipende solo dal Ministro dell’Economia, di cui diventerebbe il braccio operativo, opaco e senza controlli. L’obiettivo di potere è chiarissimo, la strategia istituzionale e di politica economica totalmente opaca.
Tuttavia in questa spasmodica ricerca di potere c’è la conferma che il sistema del credito italiano ha bisogno di rafforzarsi, che i grandi (si fa per dire) gruppi italiani hanno bisogno di una guida per competere nel dopo crisi e che anche le imprese minori hanno bisogno di un quadro di riferimento politico ed economico che non c’è.
lla sinistra questo scontro di potere pone diversi interrogativi.
Ad esempio, la tradizionale risposta mercato più autorità di regolazione può reggere le prove future ? Non sembra proprio. Quindi, si rischia il limite di scandalizzarsi per questo accaparramento di fette di potere, senza cercare una risposta istituzionale e politica aggiornata e credibile ai problemi così mal affrontati dal Governo, senza altro respiro che la smania di potere personale in vista dei futuri giochi di successione.
Del resto anche i referendum abrogativi per garantire l’acqua bene pubblico tendono a riscrivere il confine pubblico/privato. E’ evidente che la risposta data fino ad ora non regge più e anzi paradossalmente di questa inadeguatezza approfitta chi sta costruendo una rete di potere più o meno personale.
Lo spessore degli interrogativi e la complessità delle risposte possibili impone di andare oltre l’astratto e di cercare di riprogettare la politica energetica (niente nucleare e prezzo del petrolio random verso l’alto obbligano a scelte decise per una diversa politica energetica), come la politica dei beni pubblici (che debbono restare o debbono diventare tali), come la ricerca e le scelte di selezione degli investimenti prioritari, in epoca di risorse scarse
E’ paradossale che il Governo abbia deciso di aumentare le tasse sulla benzina con la scusa di finanziare i beni culturali, anzichè diminuirle applicando la norma che prevede di manovrare l’accisa per contenere l’aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi. Questa folle manovra del Governo per fare un poco di cassa con facilità avrà conseguenze gravissime perchè accelera l’inflazione che si scaricherà su tutta l’economia, eroderà i redditi già duramente colpiti e aggraverà il costo del debito pubblico. A questa follia la scelta della Bce dà una risposta peggiore del male che vorrebbe curare.
Il debito pubblico sta già aumentando comunque e ha raggiunto ormai il 120 % del PIL. Debito di cui il Governo ha concordato con l’Europa la discesa anche senza ripresa economica. In particolare i provvedimenti restrittivi si faranno sentire dal 2015. Può essere che il debito dell’Italia calerà un poco meno del 3% l’anno previsto – anche se non c’è da giurarci – ma in ogni caso sarà un vincolo molto pesante per l’Italia, per qualunque Governo.
Al punto che Tremonti ha adombrato la possibilità di mettere questo vincolo nella Costituzione. Sarebbe un’ipoteca sui futuri Governi fino al 2035, cosa mai vista prima.
Questo però fa capire meglio l’interesse di Tremonti per i soldi della Cassa Depositi e Prestiti, visti come valvola di sfogo per la sua personale politica economica.
L’opposizione, che dovrebbe candidarsi a governare in alternativa alla destra cosa pensa di fare ?
Chi desidera un’alternativa politica farebbe bene a prestare attenzione a questi movimenti perchè rischia seriamente – anche vincendo le elezioni – di trovarsi nell’impossibilità di muoversi.
Il merito di Tremonti, se così si può chiamare, è di disvelare che per uscire dalla crisi occorrono strumenti innovativi e scelte politiche precise. Tremonti si candida a gestirle come rete di potere, mentre l’opposizione dovrebbe avere una sua visione degli strumenti necessari e degli obiettivi verso cui tendere per un diverso modello economico (energetico) e sociale.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=17460
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Livorno, 3 euro all’ora nel call center sopra la Cgil. Intervista ad un operatore Starweb
Intervista ad un operatore che lavora in un call center al piano di sopra della sede della Cgil a Porta a Terra
Al sesto piano del grattacielo della sede provinciale della CGIL Livorno, si trova la società Starweb, un call center che opera per conto di Fastweb. I lavoratori e le lavoratrici, in barba ad anni di lotte e normative nazionali che hanno disciplinato il settore, lavorano con contratti a progetto per 3 euro l’ora.
Smascherato l’immobilismo vergognoso della CGIL, come collettivo “Livorno precaria” siamo entrati in contatto con un lavoratore che ci ha concesso un’intervista.
In quale azienda lavori?
Lavoro in un callcenter di Livorno situato nel palazzo della CGIL in via Giotto Ciardi n°8, come operatore outbound. La sede è appartenente alla ditta Starweb di Torino. A detta del contratto non dovremo vendere niente, ma prendere appuntamenti a domicilio gratuiti e senza impegno per dei consulenti i quali vendono dei servizi, ma avvolte capita che alcuni collaboratori riescano a fare il contratto per telefono.
Quante persone lavorano per questa compagnia?
All’incirca saremo, fra operatori (sia residenziali che aziendali) che principali un 30-40 persone.
Quali sono le vostre condizoni di lavoro?
Siamo tutti assunti con contratto a progetto, lavoriamo dal lunedì al venerdì e a volte anche il sabato. Gli orari sono prestabiliti e ci vengono comunicati dai principali il primo giorno di lavoro e modificati se il collaboratore è bravo nel corso del mese. Gli orari lavorativi sono divisi in turni: dalle 12:00 alle 15:00 o dalle 12:30 alle 15:30 e dalle 18:00 alle 21:00 o dalle 18:30 alle 21:30. durante la settimana, le nostre principali richiedono la disponibilità, se ci è possibile, a lavorare anche il sabato con l’orario che va dalle 12:00 alle 15:00 o dalle 12:30 alle 15:30 più o meno. Va detto che nel contratto viene specificato che il collaboratore può scegliere i giorni e gli orari in cui operare nella fascia oraria tra le 9:00 e le 21:00 dal Lunedì al Venerdì. Durante i turni abbiamo una pausa di 10-15 minuti che avviene intorno alle 19:00\19:30 all’incirca. Mentre per quanto riguarda i pagamenti avvengono con acconti o con assegno il 15 di ogni mese successivo al mese della prestazione. Il compenso va, secondo il contratto, in base al raggiungimento o meno dei 3600 contatti utili (contatto telefonico con un potenziale acquirente del quale il collaboratore rileva la disponibilità ad ascoltare la formulazione di una proposta) ed ovviamente gli appuntamenti presi i quali con il raggiungimento dei 25 appuntamenti scatta il “premio” e dovrebbero esser pagati 10 euro l’uno. I pagamenti variano in base ai turni di lavoro, chi fa il doppio turno ha la possibilità di prendere il fisso mensile di 320 euro, ma sono sempre troppo bassi e non corrispondono praticamente mai al lavoro eseguito. Praticamente dovremo prendere 4 euro l’ora, togliendo poi dal totale lordo le tasse percepiamo più o meno 3 euro e qualcosa netti l’ora. La spiegazione dataci dai datori di lavoro è che per ottenere il fisso di 320 euro bisogna lavorare in un doppio turno di 3 ore e mezzo (ma i turni sono di 3 ore).
Nella tua situazione ci sono anche altri lavoratori?
Tutti i lavoratori all’interno del call center sono più o meno nelle stesse condizioni .
Avete mai fatto proteste?
Solo una volta abbiamo deciso di fare sciopero, cioè tutti hanno deciso di non andare a lavoro contemporaneamente.
Qual è l’età media dei lavoratori?
Tra i 18 e i 40-50 anni.
Come fai a sopravvivere se guadagni così poco?
Molti lavoratori rimangono perché non riescono a trovare altro, altri tipo studenti delle superiori e universitari lo usano per racimolare un poco di soldini per pagarsi l’università o comunque le varie spese che hanno mentre altri ancora con lo stipendio che prendono arrotondano lo stipendio del partner.
Perché continuate a lavorare lì?
Perché non è facile di questi tempi trovarsi un altro lavoro.
Il 6 maggio ci sarà lo sciopero generale di 4 ore della Cgil fra i cui punti c’è “Ridare fiducia ai giovani”. Per te è sufficiente?
No che non è sufficiente, come può esserlo? Non basta uno sciopero di 4 ore per “ridare fiducia ai giovani”, purtroppo la condizione di precarietà è centrale nella società attuale e non credo che uno sciopero basti. Bisogna anche pensare a quelle persone che lavorano in nero o che son disoccupate o comunque assunte con contratti a progetto, scioperare diventa utile solo se viene fatto uno sciopero di massa della sede in cui lavorano. Ciò che è necessario fare è assicurare ai lavoratori un contratto regolare con uno stipendio adeguato ed il mantenimento dei propri diritti. La sede dove lavoriamo dista un piano dalla sede della CGIL eppure non ho mai visto, neanche in ascensore che spesso capita di prendere insieme, un sindacalista della CGIL che ci chiedesse o comunque ci informasse di ciò che potevamo fare per far si che i nostri diritti fossero rispettati.
Livorno Precaria
9 aprile 2011
http://www.senzasoste.it/livorno/livorno-3-euro-all-ora-nel-call-center-sopra-la-cgil
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Fusione a freddo, gli svedesi confermano: è una reazione nucleare 11.04.2011
Hanno Essén e Sven Kullander sono due professori di fisica che hanno assistito lo scorso 29 marzo a un nuovo esperimento di fusione a freddo che si è tenuto a Bologna. I risultati raggiunti sono i medesimi che si sono sviluppati durante l’esperimento dello scorso gennaio e che ha visto l’E-Cat (Energy Catalyzer) in azione. I due scienziati li hanno pubblicati in un rapporto.
Essén è associato di fisica teorica e docente presso il Royal Institute of Technology nonché presidente della Skeptics Society, mentre Kullander è professore emerito presso l’Università di Uppsala nonché presidente della Commissione Energia dell’Accademia Reale Svedese. Scrive 22 passi, il blog che ha seguito l’esperimento di due settimane fa:
La nuova prova è stato condotta in modo molto simile a quella di gennaio e si è protratta per quasi sei ore. Secondo le osservazioni di Kullander ed Essén, è stata generata una energia totale di circa 25 kWh.
Spiega il prof. Kullander del perché sia convinto che si tratti di una reazione nucleare:
Purché il rame non sia uno degli additivi utilizzati come catalizzatore, gli isotopi 63 e 65 del rame possono essersi formati solo nel corso del processo. La loro presenza è quindi una prova che si verificano reazioni nucleari nel processo. Tuttavia, è da rimarcare che il nickel-58 e l’idrogeno possono formare rame-63 (70%) e rame-65 (30%). Questo significa che nel processo, il nickel-58 originale dovrebbe essere cresciuto rispettivamente di cinque e sette unità di massa atomica durante la trasmutazione nucleare. Tuttavia, ci sono due isotopi stabili del nickel con bassa concentrazione, il nickel-62 e il nickel-64, che, plausibilmente, potrebbero contribuire alla produzione del rame.
Scrive Essén nella sua relazione:
In qualche modo un nuovo tipo di fisica sta succedendo. È un enigma, ma probabilmente non sono coinvolte nuove leggi della natura. Noi crediamo che sia possibile spiegare il processo con le leggi della natura che sono note.
Via | 22 Passi
Foto | Report Kullander e Essén
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A volte ritornano: l’IRI
di Francesco Vella 11.04.2011
La nostalgia per il ritorno del capitalismo di Stato è oggi forte in Italia. Tanto da sfociare in un decreto che consente alla Cassa depositi e prestiti di assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale. L’attuale irresistibile desiderio di italianità delle imprese porta però alla riproposizione di un’Iri tutta particolare, perché le sue risorse derivano dalla raccolta postale. Forse, bisognerebbe provare a raccontare la realtà anche dalla parte di chi acquista i prodotti e utilizza i servizi.
La tentazione di mettere l’orologio all’indietro invocando un bucolico passato è forte nei momenti di crisi, soprattutto quando guardare al futuro significa fare scelte radicali e coraggiose. In questi casi, attraverso una accorta regia della narrazione, si finisce con l’occultare la dura e cruda realtà, confondendo i veri e molto prosaici interessi in gioco.
NOSTALGIA RISCHIOSA
La discussione sull’irresistibile fascino del capitalismo di Stato con relativi rimpianti per l’epico Iri segue perfettamente lo schema, anche se basta scegliere una modalità di raccontare la storia un po’ diversa perché il fascino si dissolva rapidamente. Un piccolo e divertente esempio è il racconto di Guido Salerno Aletta, con due gustose rievocazioni delle battaglie tra la Sip e l’Asst (azienda di stato per i servizi telefonici e telegrafici) e della vicenda della televisione via cavo, a testimonianza di come le aziende pubbliche abbiano intralciato lo sviluppo di alcuni settori chiave dell’economia e dell’industria italiana. (1)
Ma, guardando, appunto, al futuro, una altra modalità di narrazione è quella di vedere cosa concretamente potrà diventare il “nuovo capitalismo di Stato all’italiana” secondo i progetti governativi sfociati nell’articolo 7 del decreto omnibus, che consente alla Cassa depositi e prestiti di “assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del paese”. (2)
Fin dalla trasformazione della Cassa depositi e prestiti in società per azioni nel 2003 si era paventato il pericolo della nascita di una nuova Iri, e in effetti oltre al conferimento delle partecipazioni di alcune grandi società pubbliche, nel corso degli anni si sono gradualmente allargate le sue tradizionali competenze di finanziamento degli enti pubblici, fino a ricomprendere interventi di sostegno alle piccole e medie imprese e la partecipazione in fondi per le infrastrutture e il social housing. E si è anche allargata, sebbene con non pochi mal di pancia, la compagine sociale coinvolgendo nell’avventura una 30 per cento di capitale rappresentato dalle fondazioni bancarie.
È però un’Iri tutta particolare perché le sue risorse derivano dalla raccolta postale. E infatti in un approfondito studio di qualche anno fa intitolato, non a caso, Ma che cos’è la Cassa depositi e prestiti? si diceva senza mezzi termini che in realtà la Cdp era una banca, solamente che veniva trattata come un intermediario finanziario per sottrarla alla penetrante disciplina prudenziale delle partecipazioni prevista per le banche. (3) Mai profezia fu più vera: con la nuova disciplina si va oltre il normale private equity, consentendo l’acquisto di asset decisamente più “pesanti” in imprese le cui caratteristiche di strategicità saranno fra l’altro individuate direttamente dal ministro del Tesoro. E l’acquisto potrà avvenire, secondo il decreto, anche mediante risorse provenienti della raccolta postale. (4)
Insomma, gli incontenibili desideri di latte italiano, banche italiane, comunicazioni italiane (e chissà se a questo punto anche i gioielli, gli orologi e la moda non diventino strategici) possono prendere la china non solo di una pubblicizzazione forzata che notoriamente da noi significa politicizzazione, ma anche di un capitalismo di Stato all’amatriciana, si parla già di vari miliardi di euro messi sul piatto, pericolosamente in bilico sulle nostre tasche.
SCENARIO MUTATO
Èbene quindi che le Autorità di vigilanza drizzino le orecchie e anche le fondazioni socie hanno tutto l’interesse, almeno quelle non ancora colpite sulla via di damasco dal fulmine dell’italianità, a esercitare i poteri che lo statuto consente loro quantomeno per chiedere il rigoroso rispetto di nuovi e più stringenti limiti prudenziali. Questo anche per una doverosa tutela del proprio patrimonio.
Lo scenario sta cambiando: in un mondo dove, dopo il pronto soccorso post-crisi, i governi sono impegnati a tornare a fare il loro mestiere e cioè governare la crescita per ridare regole e fiducia alle economie, noi stiamo mettendo la retromarcia. (5) Si risente l’atmosfera stantia dei “campioni nazionali”, abbellita adesso con mirabolanti richiami patriottici. Eppure, con un po’ di pazienza si trova anche chi le cose le racconta in modo diverso: qualche giorno fa, in pieno battage nazionalista, un breve trafiletto del Sole-24Ore riportava un intervento di Lorenzo Bini Smaghi, secondo il quale sarebbe un errore chiudere le porte alla banche straniere perché non è detto che queste non possano offrire a famiglie e imprese buoni prodotti. (6)
Sarebbe, appunto, un bell’esercizio provare a raccontare la realtà dalla parte di chi il latte lo beve e il credito lo utilizza.
(1) G. Salerno Aletta, “Quegli Imprenditori di stato di cui non abbiamo nessuna nostalgia”, in Milano Finanza, 5 aprile 2001.
(2) Articolo 7, decreto legge 34, 31 marzo 2011.
(3) F. Mucciarelli, “Ma che cos’è la Cassa depositi e prestiti?”, in Mercato, Concorrenza, Regole, 2004, p. 370. Vedi anche “Verso una nuova Iri?” del 18 novembre 2003.
(4) Secondo il decreto in questa ipotesi le partecipazioni andranno contabilizzate alla gestione separata. Ma la gestione separata significa solo separazione contabile e amministrativa, non offrendo garanzie di separazione patrimoniale.
(5) F. Vella, Capitalismo e finanza. Il futuro tra rischio e fiducia, il Mulino, 2011.
(6) Il Sole-24Ore del 2 aprile 2011, p. 31.
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002252.html
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Sinistra produttivista
Franco Bianco, 12.04.2011
Il settore manifatturiero non solo ”non può” crescere, perché i continui progressi tecnologici conducono all’opposto: esso ”non deve” crescere, bisogna produrre meno beni materiali e più servizi. La sinistra politica e sindacale non deve auspicare l’aumento dell’occupazione operaia: deve invece farsi paladina di un “cambio di paradigma”, sostenere che la crisi produttiva deve essere valutata e sfruttata come occasione per ripensare il ”modello di sviluppo”
Prendendo lo spunto da quanto viene affermato in un saggio di recente pubblicazione, vorrei aggiungere qualche altro tassello di considerazioni alla discussione che si è aperta, qualche settimana fa, sull’attualità degli operai – non vorrei continuare ad usare l’antica espressione della sinistra, “classe operaia”, poiché credo (lo credono in molti, comprese persone che per storia personale e per cultura costituiscono riferimenti autorevoli e non sospettabili) che nel mondo attuale non sia più corretto continuare ad usare questa parola ed il concetto che essa sottendeva – come soggetto della trasformazione sociale, ruolo che a mio parere attualmente da un lato compete, e dall’altro è opportuno che venga riconosciuto, a quella che, pur con qualche approssimazione, ed in mancanza di classificazioni più adeguate, ho infine definito “moltitudine terziaria” (www.paneacqua.eu/notizia.php?id=17194, dell’11 Marzo). Il sostegno di questa tesi, che ho lungamente affrontato in articoli precedenti, mi darà modo di allargare le mie considerazioni ad un altro e non meno importante tema.
Il saggio dal quale traggo spunto è stato pubblicato nel Gennaio 2011 da DeriveApprodi, ed è intitolato ”Nuova Panda schiavi in mano” (164 pagg., 12 euro), dove il senso della parola ”schiavi” – che rende il titolo una sorta di ammiccante parafrasi del ”chiavi in mano” che si usa con altro significato – viene chiarito già dal sottotitolo: ”La strategia Fiat di distruzione della forza operaia”. Ne è autore il ”Gruppo Lavoro” del Centro per la Riforma dello Stato – CRS (che, come recita la ”Presentazione” esposta nel suo sito, “si caratterizza per una elaborazione intellettuale capace di stimolare il dibattito tra partiti, istituzioni e studiosi di diversa estrazione e cultura politica”. Chi desiderasse informazioni sul CRS le troverà al suo sito, http://www.centroriformastato.org/crs2/spip.php?article33). Il saggio del Gruppo Lavoro – che è la parte consistente del libro – viene seguito, in chiusura del volume, da un testo di una dozzina di pagine (”conciso e sostanzioso”, vorrei dire) di Mario Tronti, che del CRS è il Presidente, che da esso prende le mosse per aggiungere considerazioni che si collegano a quelle svolte dal Gruppo Lavoro per poi estendersi anche a temi più ampi.
Il libro è dedicato, come si intende subito da titolo e sottotitolo, alla vicenda Fiat: nello specifico, a quella di Pomigliano. Di essa indaga i vari aspetti, con lo scopo di trarne il senso per così dire “paradigmatico”. E’ un libro ”di parte”, in tutta evidenza (non lo dico in senso critico, è una constatazione): esso si pone esplicitamente il compito di “squarciare il velo ideologico” che presiede ai comportamenti della Fiat di Marchionne, e di rintracciarne i motivi più profondi, la vera ”posta in gioco”, che è quella – secondo gli autori – di far sì che “la definitiva brutalizzazione del lavoro e della società tutta divenga socialmente accettabile” (ecco il “paradigma”). Quel compito viene perseguito con compiutezza di analisi e di argomentazioni, direi quasi ”con tigna”, senza mai lasciarsi distrarre da aspetti che non rientrino nel fine annunciato della trattazione – il che non vuol dire che si debbano condividere le tesi esposte e le metodologie di interpretazione: è solo un riconoscimento della serietà del lavoro svolto, al di là del giudizio di merito.
Lo scopo che si propongono queste brevi note non è tanto quello di recensire il testo e nemmeno quello di esprimersi sul metodo in esso seguito e sulle tesi esposte, quanto quello di rilevare l’orientamento che esso esprime e trarne valutazioni che vanno ben al di là del caso considerato, pur così importante in sé.
La prima impressione che viene dalla lettura del libro in questione, e che è confermata dal saggio conclusivo di Tronti, è che viene – ancora una volta, come sempre – confermata l’incoercibile “vocazione produttivista” della sinistra. Essa si rivela, peraltro, fin dalle primissime pagine – e la cosa non fa meraviglia, alla luce della storia secolare della sinistra politica e sindacale -, benché gli autori dichiarino subito, quasi a mettere le mani avanti, che quanto esprimono “nulla ha a che vedere con un nostalgico attaccamento a novecenteschi residui di lavoro operaio e di lotta di classe”, ma aggiungendo, di seguito, che “la posta oggi in palio a Pomigliano è altissima per il lavoro e la società tutta… la vicenda del sito campano ha reso tangibile la ”ratio” della riorganizzazione del lavoro che ha caratterizzato il trentennio di ristrutturazioni capitalistiche che ci lasciamo alle spalle”. Ora nessuno si sogna di non voler dare tutta l’attenzione sociale e politica che merita ad una vicenda che riguarda alcune migliaia di lavoratori: ma dare a questa una valenza, appunto, “paradigmatica” significa forse non essersi accorti, o non avervi prestato sufficiente attenzione, di quanto andava accadendo intorno a noi già da tempo, mentre il lavoro ”non-operaio” diventava largamente più numeroso di quello manifatturiero (il ”Terziario” occupa attualmente, in Italia, il 68% dell’intera massa dei lavoratori, contro il 30% del settore industriale, che include il lavoro manifatturiero e quello dell’edilizia). E la ragione di questa ”distrazione” sta proprio in quella “vocazione produttivista”, che pur senza voler fare deliberatamente torto a nessuno ha tuttavia sempre considerato di primaria importanza (non voglio dire esclusiva: ma fortemente preponderante sì) il lavoro operaio.
Lo stesso Mario Tronti, nel suo saggio finale, scrive – Gennaio 2011 – che “L’industria manifatturiera fa la differenza fra un paese forte e uno fragile, tra un’economia solida e una liquida… Solo il lavoro operaio può ridare un centro al pluriverso del lavoro contemporaneo. E di qui può ricollocarsi al centro della questione sociale”. Affermazioni sorprendenti in Tronti: quando è stato ripubblicato, nel 2006 da DeriveApprodi, il suo testo ”principe”, quell’ ”Operai e capitale” che (cito dalla descrizione del libro) “nel corso degli anni Sessanta ha determinato la fondazione di una mentalità, un atteggiamento, un lessico assolutamente innovativi, contribuendo alla formazione culturale di migliaia di nuovi militanti… Concetti che [….] si sono man mano imposti nel lessico del dibattito politico fino a diventare “senso comune”, lo stesso Tronti, intervistato da Antonio Gnoli per ”Repubblica”, diceva testualmente che “C’è stato un passaggio, che a me pare irreversibile, dalla centralità alla marginalità operaia. Ed è un movimento che ha motivazioni economiche, sociologiche, politiche e che sta dentro il tempo stretto in cui viviamo”; ed era talmente convinto di quello spostamento che concludeva quell’intervista con le parole seguenti: “È possibile che al livello mondo il soggetto operaio possa nuovamente riemergere. Ma forse la storia sarà un’altra. E allora preferisco stare fermo sulla coscienza della sconfitta più che baloccarmi sui ritorni di fiamma. È un atteggiamento culturalmente più produttivo e più onesto. Anche se è molto amaro. Ma l’amarezza fa parte della nostra vita”. Ecco perché mi suonano sorprendenti le parole di Tronti di oggi, paragonate a quelle da lui pronunciate cinque anni fa.
Uno dei molti saggi di cui si compone quel testo di Tronti – che personalmente ritengo non più adeguato ai tempi in cui viviamo, ma che resta come testimonianza di un pensiero di enorme spessore, e che va giudicato nel contesto storico del tempo in cui è stato scritto – è intitolato ”La fabbrica e la società”: facendo ad esso riferimento i ricercatori del CRS scrivono che “la tesi di Tronti potrebbe rivelarsi ancora vera”, nel senso che (citazione da Tronti) “Quel che si verifica e si modella nel lavoro produttivo allargato […..] il giorno dopo te lo ritrovi nei rapporti sociali, nelle nuove regolamentazioni giuridiche”. Ebbene, io credo che la straordinaria terziarizzazione che si è verificata in questi decenni – non solo in Italia, poiché si tratta di un fenomeno assolutamente ”globale” e che conserva una irreversibile tendenza oggi e per il futuro – abbia in certo modo ribaltato quei poli, sì che le regole – durissime, forse non conosciute abbastanza – che sono invalse nel mondo invaso (e sempre più lo sarà) da lavoro terziario si ribaltano, esse, sul lavoro operaio: dalla società (terziarizzata) alla fabbrica, oggi, come in un gioco di specchi. Come ho scritto in precedenza, ritengo inevitabile che, in una società assimilabile ad un sistema di vasi comunicanti, le condizioni che valgono per i lavoratori più numerosi (quelli del Terziario) in certo senso finiscano con ”l’assediare” tutti gli altri e, prima o poi, con il trascinarli a sé. E’ per questo che non posso sentirmi d’accordo, in questa occasione, con Mario Tronti, che resta comunque un maestro di pensiero.
Ed infine, ma non meno importante: la “vocazione produttivista” che percorre ed informa quel testo dalla prima all’ultima pagina, comprese quelle finali di Tronti, fa parte di una cultura che ormai da tempo ha mostrato i suoi limiti, che ha già arrecato molti danni e che minaccia di produrne di devastanti. Se il lavoro operaio deve essere al centro (questo l’assunto), esso deve rafforzarsi sempre più (la tendenza è esattamente l’opposta, ma per il momento glissiamo su questo aspetto); come conseguenza di quell’assunto, perché il lavoro operaio si rafforzi, il settore manifatturiero deve crescere sempre più: e siamo così fino al collo, ancora e sempre, in quella cultura della ”crescita senza fine” che è stata ed è alla base del capitalismo, sin da quando esso si è imposto, nella seconda metà del Settecento. Per una sorta di paradosso storico, in questo la sinistra ed il capitalismo vanno d’accordissimo: ma il mondo non ce la fa, né a fornire risorse (le ”sorgenti”) in modo indefinito, né a smaltire rifiuti ed inquinamento (anche i ”pozzi” sono limitati). Io non mi chiedo soltanto come farà la Fiat a produrre globalmente 6 milioni di vetture, di cui circa un milione e mezzo in Italia (dalle 600.000 attuali): credo che dovrebbe spaventarci ancor più la prospettiva che la Fiat riesca veramente a farlo.
Il settore manifatturiero non solo ”non può” crescere, perché i continui progressi tecnologici conducono all’opposto: esso ”non deve” crescere, bisogna produrre meno beni materiali e più servizi. La sinistra politica e sindacale non deve auspicare l’aumento dell’occupazione operaia: deve invece farsi paladina di un “cambio di paradigma”, sostenere che la crisi produttiva deve essere valutata e sfruttata come occasione per ripensare il ”modello di sviluppo”: ma per davvero, e non solo proclamarlo come fa troppo spesso. Ed in quel nuovo modello non ci può essere ”più produzione”.
E’ una mutazione culturale profonda e difficile, ma è ad essa che la sinistra deve tendere, abbandonando l’industrialismo che ha sempre guidato i suoi comportamenti. Perché se il mondo non lo farà per scelta, sarà ben presto costretto a farlo per necessità. E non sarà per niente una cosa piacevole.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=17478
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Dino Erba: USA, shutdown rimandato. Ma a quale prezzo! E il peggio deve ancora venire.
USA, shutdown rimandato
Sul filo del rasoio, la notte di venerdì 8 aprile, il Congresso ha approvato
la finanziaria 2010-2011, evitando così la bancarotta dello Stato.
Ma a quale prezzo! E il peggio deve ancora venire
I repubblicani hanno rinunciato ad alcune questioni più di forma che di sostanza (aborto e ambiente), che poco incidono nel bilancio dello Stato. I democratici hanno invece calato le braghe, con un taglio da 38,5 miliardi di dollari, che riguardano un semestre scarso. Su base annua, la somma tagliata tocca gli 80M$. A farne le spese è l’assistenza sociale e sanitaria, che ha visto svanire 17,8M$. Qualche briciola in meno, 3M$, anche per la difesa, che comunque si mangia quasi metà della spesa pubblica (513M$ su 1.049). E ciò nonostante, i soldi non bastano a far fronte ai numerosi impegni della guerra continua.
In poche parole, va a farsi benedire il piano sanitario a favore degli anziani (medicare) e a favore dei poveri (maedicaid), su cui Obama centrò la sua campagna elettorale. E nel frattempo le condizioni sociali dei proletari americani sono andate peggiorando (vedi Robert Reich, Ci stiamo incamminando verso un’altra crisi, dell’8 aprile, tratto da http://robertreich.org/).
I tagli, oltre a condannare all’indigenza milioni di persone, avranno un effetto cascata, in primis colpiranno anche i dipendenti pubblici, impegnati nel settore assistenziale, soffiando sulla disoccupazione che è attorno al 10%, secondo i dati ufficiali, che sono assai compiacenti (considerano occupati coloro che lavorano una settimana all’anno).
I tagli incidono su redditi in continua diminuzione, non da oggi ma da decenni. Sul fronte dei salari operai, in molte grandi aziende (vedi la Crysler), ultimamente sono state fatte riduzioni fino al 15%. Ma è sempre una pacchia, in confronto alla dilagante palude della miriade di vere e proprie maquiladoras, dove i salari sono un optional, a tutta discrezione del padrone.
L’Amministrazione Obama è consapevole dei sacrifici imposti, e parla di «lacrime e sangue». Ma questi sacrifici sono un soffio rispetto all’uragano che si profila all’orizzonte. A ben vedere, gli 80M$ «risparmiati» sono nulla, in rapporto a un debito pubblico di oltre 14.000M$.
Il 16 maggio, al Congresso, ci sarà lo scontro ben più grave sul tetto del debito pubblico, che ora è di 14.290M$, prossimo quindi a splafonare. Il capo dei Tea Party, il senatore della Florida Marco Rubio, si dichiara contrario a ogni innalzamento, che favorirebbe ulteriormente gli investitori stranieri in titoli di Stato USA, come la Cina, che già detengono metà del debito dello zio Sam. È una cura da cavallo, quella di Marco Rubio & Co., che dovrebbe «restituire vigore al Paese», ma potrebbe avere effetti «collaterali» catastrofici, secondo il governatore della FED, Ben Bernake.
Per evitare un default, Obama si rimangia tutte le sue velleità progressiste, e propone una cura alla «greca»: forti tagli ai programmi di assistenza sociale, blocco dei salari degli statali e generose riduzioni fiscali alle aziende. In cambio, solo le promesse di un sostegno all’istruzione, grazie a un eventuale aumento delle tasse per i redditi sopra i 250mila$. Promesse…
Ma, ancora una volta, i contabili yankee fanno i conti senza l’oste. L’oste è il debito complessivo degli Stati Uniti, cui concorrono il debito degli Stati Federali, delle famiglie, delle banche, delle imprese. Infine, c’è una parte di debito «sommersa», fuori dalle statistiche ufficiali. Calcolando tutti questi debiti gli USA, hanno un’esposizione complessiva di 75milaM$, vale a dire più del 500% del Pil (che è di 14.266M$). Per capirci, il debito pubblico italiano è intorno al 120%, con una differenza sostanziale, rispetto agli USA: lo Stato italiano è indebitato sopratutto con gli italiani, privati e imprese, che, a loro volta, sono poco indebitati, anzi, le famiglie hanno ancora qualche risparmio.
Sull’orlo del baratro, gli Stati Uniti sono allo sbando; cercando di salvare capra e cavoli, vivono alla giornata e si barcamenano tra espedienti improvvisati, spesso in contrasto l’uno con l’altro. Non ultimo, a fine marzo, mentre il Pentagono schierava la Sesta flotta nella Sirte, la FED ha salvato la Central Bank of Libya, con un’iniezione di 35M$, per rimediare alle malefatte della Lehman Brothers (vedi Stepehn Gandell, Bailout Revelation: Fed Lent Billions to Save Libyan Bank, 4 aprile 2011, in http://curiouscapitalist.blogs.time.com/2011/04/04/bailout-revelation-fed-lent-billions-to-save-lybian-bank/#ixzz1JISavAX5). Non c’è che dire, un bel sostegno al colonnello Gheddafi. Mentre i piccoli imprenditori yankee se lo son presi nel lisca.
Dino Erba, 12 aprile 2011
http://permalink.gmane.org/gmane.politics.activism.neurogreen/33633
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Un’esplosione cosmica misteriosa 13.04.2011
Hubble, Chandra, e Swift. I più famosi telescopi spaziali della Nasa sono puntati verso una remota regione nella costellazione del Dragone, dove il 28 marzo scorso si è verificata una super esplosione mai osservata prima. Un improvviso lampo di raggi gamma, o Gamma Ray Burst (GRB), che continua mantenere la sua luminosità nonostante siano passati più di dieci giorni. Si tratta di un fenomeno inedito, secondo gli astronomi della comunità internazionale, perché solitamente i lampi gamma durano solo alcune ore. Per questo motivo è importante avere più occhi puntati su questo incredibile lampo, in maniera da raccogliere più dati possibile. Inoltre, come ben sanno gli scienziati, il cielo è imprevedibile e non è possibile sapere quando questo spettacolo terminerà.
L’improvviso lampo di raggi gamma è stato rivelato dal telescopio Swift, appositamente progettato dalla Nasa per cogliere “al volo” i lampi gamma e puntarsi sul soggetto di interesse in pochissimo tempo. Swift è un telescopio dalle ottime prestazioni, grazie anche a un notevole impegno italiano. È infatti un satellite dedicato allo studio dei GRB e vede il contributo sia dell’Istituto nazionale di astrofisica, sia dell’Agenzia spaziale italiana. In particolare, l’Italia fornisce gli specchi del telescopio X (XRT) e la stazione di terra di Malindi.
Come accade di solito in questi casi, è importante osservare i fenomeni con telescopi ottici o infrarossi, che grazie alla loro ottima risoluzione angolare permettono di individuarne con precisione la posizione in cielo. Ed è a questo punto che entra in scena il telescopio spaziale Hubble, che il 4 aprile ha osservato il lampo gamma, scoprendo che proviene dalla costellazione del Dragone a circa 3,8 miliardi di anni luce da noi. Per mettere insieme i pezzi di questo complesso puzzle astronomico sono inoltre necessarie le osservazioni ai raggi X, fornite dal telescopio spaziale Chandra.
Non è ancora chiaro quale sia il fenomeno che ha prodotto questa enorme esplosione, ma potrebbe trattarsi di una stella inghiottita da un buco nero supermassiccio all’interno della galassia. “Conosciamo oggetti nella nostra galassia in grado di produrre ripetuti lampi gamma, ma sono da migliaia a milioni di volte meno potenti di quelli che stiamo osservando per quella sorgente”, ha dichiarato Andrew Fruchter dello Space Telescope Science Institute di Baltimora. Ancora una volta, grazie a questa misteriosa esplosione cosmica, ci rendiamo conto che l’Universo non è quel posto tranquillo e sereno che ci immaginiamo.
http://www.galileonet.it/articles/4da5536a72b7ab62cb000074
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