Ma i diritti non sono tutti uguali 20.12.2010
MICHELE AINIS
Calma e gesso, per favore. Anche perché di scalmanati in abito gessato ce n’è fin troppi in giro. A cominciare dall’onorevole Gasparri, che invoca arresti preventivi, retate di massa, e in conclusione un nuovo 7 aprile. Insomma la ricetta del 1979, benché Gasparri abbia citato il 1978. E allora proviamo a dare i numeri, di questi tempi non saremo i primi a farlo. Proviamo a misurare sui numeri della Costituzione non tanto la sparata di Gasparri (qui è più facile: zero), quanto piuttosto l’idea di Mantovano e di Maroni, quella d’esportare ai manifestanti il Daspo che s’applica ai tifosi. Ossia il divieto comminato dal questore – e dunque senza una pronuncia giudiziaria – a carico di persone che si ritengono pericolose, impedendo loro d’entrare in uno stadio, o per l’appunto in una piazza gremita da cortei.
Sulle prime, parrebbe una misura di buon senso. Se il Daspo ha funzionato per i disordini sportivi, perché non dovrebbe rivelarsi altrettanto efficace per i disordini politici? Peccato tuttavia che non abbia senso equiparare il diritto di tifare per la Lazio al diritto di manifestare contro la Gelmini. Peccato che ai costituenti interessasse la regolarità delle elezioni, non la regolarità dei campionati.
Peccato infine che il libero esercizio del diritto di voto è possibile soltanto a condizione che il voto venga espresso in un clima democratico, con un’informazione pluralista, con un dissenso garantito in Parlamento e nelle piazze.
Insomma i diritti non sono tutti uguali: taluni hanno dignità costituzionale, altri s’esercitano sotto l’ombrello della legge. E a loro volta i diritti costituzionali non pesano sempre in modo eguale: come diceva Bobbio, i diritti politici sono strumentali a tutti gli altri, e dunque li precedono, e dunque vantano uno statuto superiore. Significa che subiscono soltanto restrizioni circoscritte, tassative, temporalmente limitate. Altrimenti, se la sicurezza fosse un passe-partout per scardinarli, tanto varrebbe vietare le manifestazioni. Faremmo prima, e con un risultato garantito.
Tuttavia non è possibile, vi s’oppongono per l’appunto i numeri della Costituzione. Articolo 16: chiunque può circolare in ogni contrada del nostro territorio, salvo i limiti che la legge disponga in nome della sicurezza. Ma guarda caso tali limiti non possono mai venire ispirati da ragioni politiche. Articolo 17: la libertà di riunirsi può essere negata per motivi («comprovati») di sicurezza pubblica, ma non ai singoli, bensì all’intero gruppo che chiede di manifestare. Articolo 27: la responsabilità penale è personale, e c’è inoltre una presunzione d’innocenza fino alla sentenza definitiva di condanna. Vuol dire che non è reato partecipare a un corteo dove altri commettono reati, e vuol dire inoltre che i reati sono tali solo quando lo dichiara un giudice, e nessun altro giudice possa rovesciare il suo verdetto. Al limite, se proprio vogliamo un Daspo politico dopo quello sportivo, se ne potrà forse discutere per chi ha subito una condanna, quantomeno in primo grado.
E c’è in ultimo un risvolto politico di queste chiacchiere imprudenti, ben più saliente del profilo giuridico. Perché nessuno ha mai evocato misure preventive di polizia dopo i fatti di Genova, dopo altri disordini che pure hanno scandito gli anni Zero? Che c’entra Roma del 2010 con Padova del 1979, dove i professori insegnavano con un coltello alla gola? Risposta: niente, non c’è niente in comune. C’è solo una politica, una classe dirigente, una generazione di governo che ha bisticciato con la nuova generazione, e allora mostra i muscoli, non avendo altro da mostrare.
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Il caso Fiat, fallimento dell’era Berlusconi
Gianni Rossi, 18.12.2010
Il caso Fiat non è solo un fatto di scelte di politica industriale o di alleanze tra capitali italiani e statunitensi, tra i due marchi automobilistici più deboli nel mercato globale delle auto, anche se con prodotti e stiling ritenuti di pregio dal mercato. Il futuro del gruppo ex-torinese, e ormai quasi ex-Agnelli, anticipa e preconizza quello che potrebbe accadere al “Sistema Italia”
L’italianità della FIAT è ormai un sentimento romantico. Come è un retaggio romantico per una certa sinistra pensare ancora al contratto metalmeccanico onnicomprensivo, senza distinzione di settori produttivi tra loro, come se dalla storica FIOM ci si possa attendere ancora un messaggio di salvezza dalla crisi del capitalismo iperliberista, come nel 1917 lo furono i Soviet per la rivoluzione russa. Il caso Fiat non è solo un fatto di scelte di politica industriale o di alleanze tra capitali italiani e statunitensi, tra i due marchi automobilistici più deboli nel mercato globale delle auto, anche se con prodotti e stiling ritenuti di pregio dal mercato. Il futuro del gruppo ex-torinese, e ormai quasi ex-Agnelli, anticipa e preconizza quello che potrebbe accadere al “Sistema Italia”.
Volenti o nolenti è spesso stato così nella storia del nostro paese. Quando la Fiat “marciava” negli anni del boom, il paese ha realizzato la più vasta rete di infrastrutture che ancora oggi reggono, prediligendo la “cura del cemento e dell’asfalto” rispetto a quella del “ferro”, dei trasporti su ferrovia, come invece avveniva nel resto del Nord Europa. Grande inganno, ma anche decisivo impulso alla ripresa economica, industriale e sociale. L’Italia allora entrò tra i primi paesi dell’Occidente nella ricerca avanzata meccanica e chimica, nel designer per arredamento, nella moda, nella progettazione urbanistica e in quella antesignana dei “calcolatori” (Olivetti docet!).
La democrazia sindacale e politica fece dei grossi passi avanti, così come la scolarizzazione di massa. Poi venne il cosiddetto “Autunno caldo” e il vento reazionario della FIAT con la prima crisi ideativa del gruppo. Tra gli anni Settanta e Ottanta, gli Agnelli, dopo aver scoperto il mercato dell’Est con l’Unione Sovietica, facendo da apripista al capitalismo conservatore, firmarono anche una “cambiale di credito” verso il PCI, ormai conquistato al “gioco democratico” occidentale, difensore della NATO e libero dai vincoli della “santa madre Russia comunista”. Fu in parte travolta dalla lunga stagione del terrorismo rosso, ma resistette, grazie anche alla responsabilità democratica del movimento operaio. Durò fino agli inizi degli anni Ottanta, quando ci fu la “marcia dei Quarantamila”, con l’era di Cesare Romiti e la finanziarizzazione del gruppo. La Fiat si estese in qualsiasi mercato, gli aiuti di stato si fecero sentire per respingere i primi colpi del mercato a “qualità totale” delle auto giapponesi. I governi “craxiani” e il sistema “Tangentopoli” intaccarono l’etica eremitica piemontese del Lingotto ancora in mano alla “famiglia reale” Agnelli. Alcuni top manager furono inquisiti e patteggiarono. Nel frattempo, la FIAT era diventata il costruttore monopolista dell’auto italiana, inglobando anche l’Alfa Romeo, il marchio storico più amato all’estero (specie in Germania, negli USA e in Gran Bretagna). Fu uno storico “regalo” dello stato, che passò in pratica a costo zero un “gioiello di famiglia ” (l’Alfa era della Finmeccanica), complici anche i partiti di sinistra, PSI e PCI in testa, e i sindacati (tranne gran parte della CGIL, favorevole al “piano Ford”, in sintonia con il parere avveduto del presidente dell’IRI, Romano Prodi).
La FIAT divenne un gigante nazionale con i piedi d’argilla come “competitor” a livello internazionale e l’Alfa Romeo, così come la Lancia prima, perse stile, identità e appeal sui mercati di pregio e nella fascia delle “gamme superiori”. Dopo Tangentopoli, le crisi sistemiche del capitalismo iperliberista e la fuoriuscita dei vecchi “padri” (Gianni e Umberto Agnelli morti, Romiti e Paolo Cantarella in pensione), la FIAT ha conosciuto il “viale del tramonto” inarrestabile, con avvicendamenti continui al timone di comando, la cura dimagrante di attività non industriali, cessioni di brand, riduzioni di personale, carenza di innovazione nella ricerca tecnologica e nei modelli. Si è rivolta due volte al mercato americano, prima cercando un aiuto finanziario e industriali al colosso GM: matrimonio finito presto e male, ma almeno con qualche boccata di ossigeno in soldi. Quindi, con la crisi del 2008-2009, ecco che il “commercialista filosofo” Marchionne, s’inventa il salvataggio della Chrysler, con l’aiuto finanziario dell’amministrazione Obama e la FIAT si “americanizza”. Intanto, i “rampolli ” della famiglia venivano relegati ai margini delle scelte strategiche: Luca Crodero di Montezemolo prima, John Elkann dopo. La FIAT si “americanizzava” in tutto e per tutto!
Oggi, la FIAT non è uscita dalla crisi, come i suoi competitor tedeschi e giapponesi, ma anzi la situazione produttiva e commerciale in Europa (il principale mercato di vendita, con l’Italia in posizione dominante) si è aggravata. Negli ultimi due anni, anziché proporre nuovi modelli con innovazioni tecnologiche, come stanno facendo i grandi competitor tedeschi e nipponici, tutto lo sforzo manageriale del gruppo americo-italiano è stato rivolto a ridurre gli organici al Sud Italia, chiudere gli impianti ritenuti meno produttivi, come Termini Imerese, giocare la carta della riduzione del costo del lavoro, della scarsa competitività produttiva operaia nella competizione globale, dell’eccessivo peso dei “diritti” sindacali, ormai ritenuti antistorici.Il problema dei problemi per la FIAT di Marchionne, e per un’ala del vertice di Confindustria che gli regge la coda, non è la capacità di produrre e innovare, ma la “forza lavoro”: sono gli operai, il loro sistema di relazioni e garanzie sindacali, il livello retributivo, previdenziale e assistenziale. E’ appunto un “problema etico, filosofico”, affrontato con un approccio ideologico e tutt’al più finanziario.E i miliardi di euro gettati al vento nella finanziarizzazione del gruppo? E le ricche buonuscite del top management? E la posizione di monopolista produttivo in Italia (nei decenni FIAT ha inglobato Lancia, Bianchi, Innocenti, Ferrari, Maserati e Alfa Romeo, nonché temporaneamente anche Piaggio-Gilera, n.d.r.)? E lo scarso “appeal” dei suoi prodotti sul mercato italiano ed europeo?
Il futuro del gruppo ormai è rivolto a Detroit: lì probabilmente verranno spostati i “cervelli creativi”, le innovazioni di prodotto e di produzione; da lì verranno le nuove regole per le relazioni industriali, sulla falsariga del più retrogrado mercato del lavoro esistente al mondo, secondo solo a quello cinese. Più produttività, meno salario, minori garanzie previdenziali, assistenziali e sindacali. Un ritorno ad un passato fatto di “deregulation”, foriero di incognite per le future tensioni sociali dentro e fuori le fabbriche in Italia. Cancellazione del contratto nazionale collettivo a favore di quelli di “fabbrica” e di settore. Fuoriuscita da Federmeccanica e dalla Confindustria per “avere le mani libere”. O lavori come dico io o muori di fame!Incredibile, ma vero: questo il ricatto neo-fordista del capitano d’industria Marchionne, subito fatto proprio da gran parte dei sindacati “berlusconizzati” come CISL e UIL, e dal ministro del lavoro-welfare, l’ ex-craxiano Sacconi; mentre in Germania, Francia e Giappone si praticano strade diverse, innovative. Lì non si intaccano i diritti, ma si aumentano i salari e si apre la gestione societaria all’azionariato dei dipendenti tramite i fondi pensione. Il mercato europeo dell’auto è in forte calo, la quota di penetrazione della FIAT sempre più ridotta e se non ci fossero state dagli anni Novanta in poi le “rottamazioni”, gli incentivi fiscali governativi, la FIAT, come in parte anche le altre marche concorrenti, non avrebbe saputo da sola riprendersi quote di vendite.
Oggi la stessa Confindustria, guidata da Emma Marcegaglia, certifica il fallimento della politica economica, fiscale e industriale del “non-governo” Berlusconi. Anche le stime congiunturali sono state riviste al ribasso, mentre aumenta la pressione fiscale (siamo al terzo posto nell’OCSE, dopo Danimarca e Svezia, dove il welfare state e il tenore di vita sono di gran lunga migliori) e diminuiscono i salari e il potere d’acquisto. Mai nel mondo occidentale una compagine di destra che si basa ideologicamente sul taglio delle tasse, maggiore competitività e liberalizzazioni, più incentivi alla concorrenza e ai consumi, oltre agli aumenti salariali, è riuscita come quella guidata da Berlusconi, a partire dal 1994 ad oggi, a contrastare nei fatti queste teorie iperliberiste. Con Berlusconi, l’Italia ha sempre accresciuto il debito pubblico e il deficit di bilancio, il costo del lavoro è aumentato, mentre sono diminuiti drasticamente salari e potere d’acquisto, non ci sono state né privatizzazioni né liberalizzazioni ele tasse sono sempre state elevate, a livello statale e locale. Sono però aumentati i condoni fiscali tombali ed è cessata la lotta a fondo verso i settori produttivi e commerciali responsabili della più colossale evasione ed elusione fiscale al mondo, che ci fa essere i primi nella speciale classifica del disonore.
Ora, se il “Sistema Italia” non funziona, è chiaro che anche la classe imprenditoriale cerca nuove strade per risalire la china della crisi, dopo aver sprecato due decenni a speculare in finanza piuttosto che investire in ricerca, sviluppo e innovazione. Ma non è questa, ci sembra a tutt’oggi, la scelta di Marchionne e della Marcegaglia. I due, senza ben comprendere gli esiti futuri disastrosi delle loro scelte sindacali-imoprenditoriali “a tempo”, ammettono che si è di fronte ad una assenza di strategia economica del governo di destra, e così fanno ricadere tutto sulla forza lavoro. Gli esempi dei competitor esteri, dunque, non sono ritenuti validi per “l’anomalia Italia”? Il caso Germania col suo capitalismo partecipativo e l’azionariato diffuso tramite i Consigli di sorveglianza, ma anche le scelte keynesiane dell’amministrazione Obama e il neo-capitalismo indiano e brasiliano testimoniano che altre vie sono praticabili per uscire dalla crisi. In realtà, a capo dei grandi gruppi industriali competitor della FIAT non siedono più i “rampolli” di famiglia né esperti filosofi-commercialisti (Marchionne ha fatto la sua carriera come esperto di finanze in grandi società estere del settore): lì si scelgono ingegneri o top manager usciti da lunghe esperienze nello stesso settore industriale. E vengono, tranne casi rarissimi, pagati molto meno dei nostri Marchionne e compagnia bella.
Non è demagogia! Ma è come se a capo di un’azienda che produce auto, camion e veicoli industriali, si chiama un laureato in filosofia: forse potrà dare consigli sul come vivere in fabbrica, ma certo dovrà basarsi e fidarsi del management sottostante per stilare piani di innovazione e produzione, di quello stesso management che però ha portato quel gruppo alla crisi. Così il buon Marchionne, in poco più di 6 anni di “regno” è riuscito solo a risanare finanziariamente una FIAT che era sull’orlo del precipizio, ma ha perso la sfida produttiva con i suoi competitor. Non a caso si parla di un’ipotetica cessione del marchio Alfa Romeo e di un disimpegno dalla Ferrari: i due ultimi gioielli di famiglia da sacrificare forse sull’altare della competitività globale?
“La strategia di Marchionne che lega gli investimenti a una maggiore produttività puòfungere da volano per il risveglio del sistema industriale italiano. A due condizioni, però. La prima che non cerchi di scegliersi in proprio le controparti: una strategia fallitagià negli anni ’50. La seconda, che non tenti un trapianto di modelli d’oltreoceano troppo distanti dalla nostra tradizione di relazioni sindacali. Il rigetto potrebbe costare caro”. E’ quanto scrive l’Avvenire, il quotidiano espressione della Conferenza Episcopale italiana, in un editoriale dedicato alle relazioni industriali del settore auto italiano, a firma di Francesco Riccardi . E invita la CGIL a fare pressione sulla FIOM “affinché assicuri maggiore disponibilità, abbandonando una visione ideologica della contrattazione quale strumento della lotta di classe. Allo stesso tempo, però, occorre che la Fiat eviti le forzature progressive per non compromettere, non solo le proprie relazioni industriali, ma il sistema più in generale. Il “come” si realizza l’intesa e il “dove” la si colloca, infatti, avranno un significato e conseguenze ben oltre il destino – pur importantissimo – dello stabilimento torinese”.
Se anche la “dottrina sociale” della Chiesa riconosce i pericoli della “svolta americana” di Marchionne, Marcegaglia e Confindustria, allora sì che la situazione è grave e solo una nuova visione economica e sociale del centrosinistra e della CGIL potrà forse contrastare la chiusura delle fabbriche e ridare un segnale di speranza anche alle nuove generazioni.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16520
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comunicato stampa CAE su abrogazione legge ALTRA ECONOMIA REGIONE LAZIO INCONTRO DOMENICA 19 CON TUTTE LE REALTA AE
LA CITTA’ DELL’ALTRA ECONOMIA
NON CHIUDE !!
MA LA REGIONE LAZIO ABROGA
LA LEGGE QUADRO REGIONALE SULL’ALTRA ECONOMIA
DOPO IL CORRETTO PERCORSO
IMPOSTATO CON IL SINDACO ALEMANNO
sul tema Altra Economia
ARRIVA (IN ANTICIPO) IL CARBONE
DELLA GIUNTA POLVERINI
E’ aperto un nuovo fronte di pericolo che potrebbe davvero chiudere per sempre non solo su Roma ma su tutta la Regione Lazio le speranze riposte dai cittadini in alternative etiche e solidali di risparmio di denaro e riuso dei materiali, di buone pratiche sociali, di attenzioni alle condizioni del lavoro e del rapporto con i cittadini che l’Altra Economia pone al centro degli obiettivi della Legge regionale e della Carta dei Princìpi.
La disposizione è contenuta nel collegato alla finanziaria regionale da poco approvato dalla Giunta e che presto sarà in discussione alla Pisana. Si sta cercando di abrogare la legge quadro in materia, frutto di un lavoro di confronto maturato attraverso anni di confronto con le imprese e le associazioni, con cui la Regione Lazio ha dato per la prima volta una definizione compiuta all’Altra economia e a tutti i settori che ne fanno parte, mentre in altre regioni sul nostro esempio si sono fatte e o si stanno per approvare leggi simili.
Riteniamo che questo attacco molto duro da parte della Giunta Polverini sia in forte contrasto con il rapporto di recente stabilito con il Comune di Roma, un percorso al quale invece partecipiamo pienamente con grandi attese.
Il Consorzio quindi chiede alla Presidente Polverini con forza di cancellare immediatamente questo atto, annuncia ovviamente nuove forme di mobilitazione con richiesta di appoggio da parte della popolazione della Regione Lazio e azioni di pressione da parte delle imprese e dei lavoratori che operano in Altraeconomia alla Pisana quando questo passaggio verrà discusso.
IL CONSORZIO CITTA’ DELL’ALTRA ECONOMIA
convoca sul tema un incontro delle realtà interessate
DOMENICA 19 DICEMBRE ALLE ORE 10.30
PRESSO LA SALA “RENATO BIAGETTI”
ENTRATA DA LARGO DINO FRISULLO E DA LUNGOTEVERE TESTACCIO
Roma, 16 dicembre 2010
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Da Susanne.Scheidt@libero.it per ListaSinistra@yahoogroups.com 18.12.2010
c’è un giudice a Darmstadt
La sentenza di Darmstadt mi lascia perplessa – non per l’implicito gudizio sul comportamento dell’Italia nei confronti dei rifugiati chiedenti asilo politico, ma per l’ovvia ignoranza delle condizioni vigenti in Germania. Mentre in Italia i richiedenti asilo sono praticamente lasciati a se, cioè al nulla e si spera che si dileguano diventando invisibili pur di non dovere provvedere assistenza a loro, in Germania si va nell’opposta direzione, conseguendo però un simile risultato: in Germania i richiedenti asilo sono concentrati in campi appositamente allestiti fuori dalle città, dove sono lasciati a vegetare in condizioni di difficile sopravvivenza. Per di più, si trovano alla mercé delle varie autorità regionali che ne fanno sostanzialmente quello che vogliono. Così, i lager più malfamati si trovano in Baviera, dove non esiste acqua calda, di solito le porte nei bagni sono rotte e non vengono riparate, gli scarafaggi ed altri insetti pericolosi per la salute imperversano ecc. ecc. Per muoversi da una regione ad un’altra, per esempio, per andare a trovare un amico, occorre un permesso speciale. C’è divieto di lavorare e di frequentare corsi di lingua tedesca, pur di impedire agli imprigionati di migliorare le proprie capacità d’integrarsi. Il cibo distribuito ai campi di imprigionati e di scadente qualità, molto spesso già scaduto. I 40 Euro che vengono distribuiti a ciascun adulto per mese, non sono nemmeno sufficienti per pagarsi il trasporto via autobus in centro città, per sbrigare le pratiche burocratiche. Spero che la magistratura, dopo avere guardato di vicino le condizioni dei richiedenti asilo in Italia, facciano il prossimo passo e procedano a dichiarare illegale il comportameno di una serie di amministrazioni regionali tedesche.
Susanne Scheidt
Da claudio.tullii@alice.it per ListaSinistra@yahoogroups.com 17.12.2010
In Italia diritti umani negati – L’espresso
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/in-italia-diritti-umani-negati/2139856
Italia diritti umani negati
Con una sentenza choc, la giustizia tedesca ha rifiutato il rinvio nel nostroo Paese di un cittadino somalo perchè da noi “non ci sono garanzie sufficienti e pari agli altri Paesi Ue”
di Alberto D’Argenzio
(07 dicembre 2010)
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Internet diritto costituzionale: la proposta arriva in Senato. Sul web dibattito 17.12.2010
ROMA – La proposta del giurista Stefano Rodotà, un articolo 21bis della Costituzione per sancire il diritto di accesso a internet, è approdata in Parlamento. È contenuta nel disegno di legge 2485 presentato da 16 senatori, primo firmatario Roberto Di Giovan Paolo del Partito Democratico. “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”. Questo il testo, frutto di un accurato lavoro che ha coinvolto anche il professor Tullio De Mauro. Secondo questa impostazione, internet dovrebbe diventare un diritto fondamentale, un corollario tecnologico necessario per il pieno dispiegarsi della libertà d’espressione e del diritto ad essere informati, che sono poi le due “facce” dell’attuale articolo 21. E per rendere effettivo questo diritto, diventa indispensabile un intervento pubblico finalizzato, per forza di cose, a colmare il digital divide, il divario digitale, ovvero le distanze nelle possibilità di accesso alla rete tra cittadini italiani più o meno serviti da connessioni a banda larga, più o meno alfabetizzati all’utilizzo delle tecnologie informatiche. Il testo del 21bis è stato presentato il 29 novembre a Roma, nel corso di un dibattito svoltosi all’interno dell’Internet Governance Forum, versione italiana dell’assise Onu che annualmente riunisce attorno a tavoli di lavoro tematici i diversi stakeholders, portatori di interessi (cittadini, enti locali, università e imprese) coinvolti nell’utilizzo e nello sviluppo della rete. La rivista Wired Italia ha lanciato una petizione on line a sostegno dell’iniziativa, fortemente voluta dal direttore del magazine, Riccardo Luna. Lo stesso Rodotà, sul sito dell’associazione Articolo 21, ha provato a rispondere alle critiche che sul web non sono mancate. C’è chi la ritiene un’operazione di marketing, chi il primo passo verso un pericoloso interventismo statale. Chi, con argomentazioni più sostanziate, sostiene che la Costituzione italiana vada già bene così com’è, e che se le prescrizioni attuali non bastano, non si capisce perché un altro articolo dovrebbe tradursi in un beneficio concreto. In questo caso, si fa riferimento all’articolo 3 e ad una sua lettura estensiva. Tra gli ostacoli, economici e sociali, che la Repubblica dovrebbe rimuovere poiché “impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, oggi c’è anche l’accesso a internet. Stando così le cose, a cosa servirebbe un altro articolo ad hoc? “Il fatto che in Italia si possa già fare riferimento a norme costituzionali o ordinarie non è considerazione di per sé risolutiva – scrive Rodotà – Al contrario, abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a continue incursioni che considerano Internet come un territorio dove si possano mettere impunemente le mani, nella sostanza negando proprio che si tratti di materia già accompagnata da una adeguata copertura costituzionale. Se la proposta di un articolo aggiuntivo spingerà ad una reinterpretazione dell’art. 21 e ad una estensione della garanzia costituzionale, non sarà un risultato da poco”. C’è allora la volontà di affrontare il problema del divario digitale, stabilendo dunque il ruolo attivo del soggetto pubblico per colmare carenze infrastrutturali che impediscono a molti cittadini di poter usufruire della banda larga, ovvero di una connessione decente ad esempio a interagire con la pubblica amministrazione. Ma non si tratta solo di questo. E’ la stessa rete a dover essere tutelata, da chi sembra non essersi accorto della sua valenza in quanto “precondizione della cittadinanza, dunque della stessa democrazia. E, in questo modo, si fa emergere anche l’inammissibilità di iniziative censorie”. Dunque, internet come diritto costituzionale, di rango superiore, per evitare leggi come il decreto Pisanu. Una legge nata con finalità antiterroristiche sulla regolamentazione delle connessioni senza fili, che con l’introduzione di una serie di obblighi di carattere burocratico, di fatto costituisce un grosso ostacolo alla diffusione del wi-fi, tanto che lo stesso ministro dell’Interno, Roberto Maroni ha promesso di volerlo abolire. Ma anche internet come diritto costituzionale per rendere inammissibili proposte come quella inserita nel disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche. Una proposta per ora bloccata che puntava ad estendere il diritto di rettifica, oggi previsto per la stampa, a tutti i siti informatici. In pratica una mannaia sui blog, sul nuovo giornalismo partecipativo e non professionale, e quindi sul pluralismo delle fonti informative e implicitamente sulla libertà d’espressione e sul diritto ad essere informati. Iniziative simili sono già state attuate in altri paesi europei, come la Finlandia, la Grecia e l’Estonia, e in questa direzione va anche un recente pronunciamento del Conseil Constitutionnel, la Corte Costituzionale in Francia. E tuttavia la realtà italiana ha esigenze specifiche. Il contesto storico e politico nel quale si inserisce questa integrazione della legge fondativa dello Stato, è fondamentale, come sottolineato dall’avvocato esperto di diritto in rete Guido Scorza: “Le leggi – ha scritto Scorza sul suo blog – non sono principi filosofici o teoremi astratti avulsi dallo spazio e dal tempo ma, rispondono – o dovrebbero rispondere – alle esigenze ed ai problemi della comunità che attraverso esse si intendono governare […] L’Italia ha più bisogno di internet che la più parte dei Paesi occidentali perché in Italia l’informazione è meno libera è più dipendente da pochi grandi centri di potere economico-politico che altrove”. Molto chiaro, e dal punto di vista di chi scrive, molto condivisibile. I tempi per l’eventuale approvazione della legge non saranno brevi, visto che, trattandosi di una legge costituzionale, è necessaria una doppia lettura di Camera e Senato. Insomma, il traguardo è molto lontano. Certo è che un risultato è già stato raggiunto: il dibattito, perlomeno sul web, è aperto e non si può dire che non sia un bene.
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Cancun: fuori la banca mondiale dal clima 15.12.2010
Oltre 200 Ong internazionali hanno lanciato a Cancun, nel bel mezzo della sedicesima conferenza Onu sul cambiamento climatico da poco conclusasi in Messico, la campagna per chiedere che ai banchieri di Washington a capo della Banca Mondiale non siano affidati i fondi per il clima. Ad animare la richiesta una lunga marcia della società civile che dal municipio di Cancun è giunta fino al cosiddetto “chilometro zero” dove, nel 2003, un contadino coreano durante le mobilitazioni contro il Wto si è tolto la vita come estremo, drammatico atto per denunciare la condizione di sfruttamento di milioni di donne e uomini.
Un modo per ricordare un passato tragico, ma soprattutto per rivendicare la legittimità di una campagna che sta facendo notizia anche attraverso numerose azioni in diverse città del mondo, una conferenza stampa, il lancio del sito web www.worldbankoutofclimate.org e una lettera aperta ai governi presenti al vertice messicano con lo stesso urgente appello: “Fuori la Banca Mondiale dal clima”.
“Le Ong – ha sottolineato Crbm (Campagna per la Riforma della Banca Mondiale) tra i promotori dell’iniziativa insieme alla rete Giubileo Sud – ritengono che i Paesi del Nord del mondo debbano tener fede ai loro impegni per creare un fondo climatico all’interno della cornice delle Nazioni Unite destinato soprattutto agli Stati del Sud del mondo, i più colpiti, senza avere particolari responsabilità, dai cambiamenti climatici“. “Un fondo – precisa Crbm – per coprire i costi delle azioni necessarie a fare fronte ai cambiamenti climatici e a trasferire le compensazioni necessarie ai paesi poveri per l’adattamento, che operi in totale trasparenza, partecipazione e garantisca un accesso diretto alle risorse economiche da parte delle realtà coinvolte”.
Ora la World Bank e altre banche multilaterali di sviluppo, con l’appoggio di buona parte dei Paesi del Nord del mondo, vorrebbero entrare massicciamente nel processo, “nonostante le loro politiche, attività e strutture siano in aperta contraddizione con i principi di un’equa ed efficace finanza per lo svilupp”. In particolare, prosegue la Crbm, “la Banca mondiale da decenni impone pesanti condizionalità ai prestiti concessi ai Paesi del Sud del mondo, è dominata dagli interessi delle nazioni più ricche e delle loro multinazionali e continua a finanziare in maniera spropositata lo sfruttamento dei combustibili fossili”.
Solo nel 2010, secondo un rapporto dell’Enea (.pdf), a progetti per l’estrazione di gas e petrolio sono stati destinati 6,3 miliardi di dollari, un incremento di ben il 138% rispetto allo scorso anno.”Chiediamo ai governi del mondo, e a quello italiano in particolare, – ha affermato da Cancun Elena Gerebizza della Crbm – di impegnarsi per istituire un fondo globale per il clima sotto l’autorità della Conferenza delle Parti dell’Unfcc”.
La richiesta è chiara: servono soluzioni innovative che rimettano le politiche pubbliche sul clima a forme democratiche di gestione. ”Strumenti – ha concluso Gerebizza – come una tassa sulle transazioni finanziarie, una tassa sulle emissioni di carbonio o una conversione dei sussidi all’industria estrattiva potrebbero già oggi fare la differenza”.
Critiche aspre dalle ong coinvolte nella protesta anche sulla scelta della Banca Mondiale di imporre la forma del credito, e non del dono, per finanziare delle azioni di contrasto ai cambiamenti climatici. Una scelta capace di innescare nuove spirali del debito in Paesi che non se ne sono, in fondo, mai liberati. Per Ian Rivera, del Freedom from Debt Coalition (Fdc) delle Filippine, “è oltraggioso imporre di nuovo la Banca Mondiale ai Paesi in via di sviluppo. Non vogliamo lavorare con la Banca Mondiale per accedere ai fondi sul clima, perché accrescerebbe il nostro debito, e la povertà, minando i nostri diritti umani”.
Buoni i propositi, ma per niente facile sembra la strada che dovrà percorrere la campagna chiamata a confrontarsi in primis con la Gran Bretagna, “che veicola attraverso la Banca Mondiale l’80% dei suoi fondi sul clima, il 60% dei quali destinati ai Paesi in via di sviluppo”, spiega Kirsty Wright dell’inglese the World Development Movement. Esiste quindi un’azione di pressione dei grandi donatori che, secondo le ong coinvolte, deve finire a Cancun per poter rilanciare il difficile tema della salvaguardia del clima nella cornice di una finanza pubblica, senza strumentalizzazioni del Nord del mondo, delle multinazionali e delle elite finanziarie e politiche. [A.G.]
http://www.unimondo.org/Notizie/Cancun-fuori-la-banca-mondiale-dal-clima
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In California nascerà un mercato di emissioni della CO2 17.12.2010
Appena ieri parlavamo del mercato di emissioni di CO2 e del fatto che l’Italia non si stia sicuramente distinguendo come Stato modello nel suo utilizzo. Sempre restando in tema, fa notizia il fatto che il Governo della California abbia oggi deliberato per adottare un programma cap-and-trade ovvero un sistema di compravendita delle emissioni di CO2 simile a quello europeo. Il provvedimento è stato approvato quasi all’unanimità.
E’ stato quindi deciso che le imprese che si dimostreranno incapaci con la tecnologia di ridurre le proprie emissioni, potranno acquistare quote di CO2 direttamente dallo Stato o da altre aziende più virtuose in questo senso. L’annuncio arriva a meno di una settimana dopo l’accordo planetario raggiunto alla conferenza di Cancun e conferma l’anima verde della California da tempo impegnata in iniziative green di un certo rilievo.
Da più fronti arrivano comunque le critiche al provvedimento; i detrattori rimproverano al governatore Schwarzenegger di aver sostenuto un’iniziativa inutile che in realtà non farà altro che “spostare” quote di anidride carbonica senza in realtà ridurle concretamente. Non dello stesso avviso la maggioranza dello Stato californiano che, per bocca del Presidente, sottolinea l’importanza di questo nuovo strumento considerandolo estremamente importante per le imprese assoggettate all’obbligo che saranno quindi maggiormente stimolate ad intraprendere programmi di decarbonizzazione.
Via | Newser.com
Foto | Flickr
Commento di Gianni642
E in Italia la GDF lo chiude questo mercato-truffa
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Nichi Vendola: “In Puglia fotovoltaico gratis per tutti”. Primo esperimento in Italia 19.12.2010
Nichi Vendola governatore della Regione Puglia ha firmato con Enelsi un protocollo d’intesa per fornire ai pugliesi un pannello fotovoltaico gratuito per la microgenerazione di energia elettrica.
Ha detto Vendola:
Siamo dinanzi ad una sperimentazione che non ha precedenti in Italia. Oggi inizia il secondo tempo della strategia regionale in materia di fotovoltaico. Il tentativo è quello di realizzare una vera e propria solarizzazione strutturale degli edifici pugliesi, delle case, degli ospedali, delle scuole, dei parcheggi e di molte strutture pubbliche.
Veniamo all’accordo che prevede due opzioni possibili. Nella prima i proprietari mettono a disposizione il loro tetto per 20 anni e usufruirà da subito delle energia prodotta. E’ in pratica una ESCO dove la proprietà dell’impianto è dell’affiliato, con annessi incentivi e GSE, che dopo i 20 anni la passerà al proprietario del tetto; nella seconda opzione si prevede la piena proprietà dell’impianto e dunque dell’investimento ma si potrà beneficiare sia degli incentivi sia del GSE.
Conclude Vendola:
La microproduzione di energia elettrica (da 1 a 50 Kw), ha un duplice effetto: da un lato, consente di promuovere la cultura dell’autoconsumo e del risparmio energetico, aumentando così la consapevolezza individuale dell’importanza economica e ambientale di definire un equilibrato bilancio energetico; e dall’altro, permetterà a molte famiglie pugliesi e a micro e piccole imprese di ottenere consistenti risparmi di spesa sulle bollette ottenendo i vantaggi diretti o indiretti del sistema incentivante riconosciuto a livello statale e che, diversamente, risulterebbe a vantaggio della produzione industriale di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Via | Regione Puglia
Foto | Facebook
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Culturomics, la genomica applicata alla cultura 17.12.2010
di Giulia Belardelli
Per la sua affinità alla genomica, i ricercatori lo hanno denominato “culturomics”, vale a dire genoma culturale. Ora, dopo quattro anni di lavoro, i frutti di questo ambizioso progetto, nato dalla collaborazione tra Università di Harvard, Google, Encyclopaedia Britannica e American Heritage Dictionary, sono stati descritti in un articolo apparso sull’ultimo numero di Science. Si tratta di un set di dati estremamente potente, costruito a partire da 5,2 milioni di volumi e ben 500 miliardi di parole: pari a circa il 4% dei libri ad oggi pubblicati.
“Questo patrimonio digitale – spiegano gli autori – verrà utilizzato secondo criteri quantitativi ripresi, appunto, dalla genomica: servirà per studiare l’evoluzione di una serie di fenomeni culturali e storici, sulla base dei cambiamenti nella frequenza dei termini usati nel corso di secoli e decenni”. Con una metafora, è possibile paragonarlo a un “reperto fossile” della cultura umana, riportato in vita grazie alla digitalizzazione dei testi.
“L’interesse per gli approcci computazionali alle scienze umane e sociali risale agli anni Cinquanta”, ha detto Jean-Baptiste Michel, ricercatore presso il Dipartimento di Psicologia e Programmazione per le Dinamiche Evoluzionare di Harvard. “Finora, però, i tentativi di utilizzare i metodi quantitativi nello studio della cultura sono stati ostacolati dalla mancanza di dati appropriati. Adesso, grazie a questo lavoro, abbiamo un grande set di dati, disponibile tramite una interfaccia che è al tempo stesso facile da usare e disponibile gratuitamente a tutti”.
A realizzare questo strumento sono stati gli ingegneri di Google: essenzialmente si tratta di un’interfaccia che consente agli utenti di digitare una parola o una frase, per poi vedere come è cambiata la sua frequenza durante i secoli. “La culturomica estende i confini dell’indagine quantitativa a un ampio spettro di nuovi fenomeni nelle scienze umane e sociali”, ha aggiunto Erez Lieberman Aiden, l’altro autore dell’articolo. “Navigare tra questo patrimonio di dati è un’esperienza affascinante per chiunque sia interessato a capire ciò che ha interessato le persone nei secoli. Inoltre, speriamo che gli accademici delle discipline umanistiche lo trovino uno strumento utile ed efficiente”.
L’insieme dei dati digitali è migliaia di volte più grande rispetto a ogni altro corpus storico collezionato finora. Circa il 72 per cento del testo è in inglese, il resto si divide tra francese, spagnolo, tedesco, cinese, russo ed ebraico. Messe insieme, tutte le lettere compongono una sequenza 1.000 volte più lunga del genoma umano. Se tutti i caratteri venissero disposti in linea retta, si otterrebbe una linea pari a dieci volte la distanza tra il nostro pianeta e la Luna. “Ora che una frazione significativa dei libri del mondo è stata digitalizzata, è possibile per i programmi di analisi computerizzata rivelare trend nascosti in campi come la storia, la cultura, il linguaggio e il pensiero filosofico”, ha concluso Jon Orwant, ingegnere e manager di Google Books.
Riferimento: Science DOI: 10.1126/science.1199644; DOI: 10.1126/science.330.6011.1600
http://www.galileonet.it/articles/4d0b72a372b7ab5498000005
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Science, le migliori scoperte del 2010 17.12.2010
The best of 2010 per la rivista Science è la prima macchina quantistica: uno strumento in grado di mettere in moto un oggetto visibile a occhio nudo sfruttando le enigmatiche e sfuggevoli leggi della fisica quantistica. Nella tradizionale lista delle migliori scoperte e invenzioni di fine anno della più importante rivista scientifica generalista statunitense, ci sono anche la biologia sintetica di Venter, la profilassi contro la diffusione dell’ Hiv, il genoma svelato dell’ uomo di Neandertal e le tecniche superveloci di sequenziamento del dna.
1 – La macchina quantistica
Se pensate che la fisica dei quanti sia “una roba” che riguarda solo i fenomeni nanoscopici, atomici e molecolari, non visibili a occhio nudo, allora dovrete ricredervi.
Progettata e costruita da Andrew Cleland e John Martinis dell’Università della California di Santa Barbara, con lo scopo di vedere gli effetti della meccanica quantistica, la macchina non obbedisce alle leggi della fisica classica. L’invenzione è stata presentata a marzo sulle pagine di Nature.
I ricercatori sono riusciti a portare la fisica dei quanti nel mondo reale e tangibile, costruendo un dispositivo costituito da un piccola lastra (wafer) di materiale piezoelettrico (capace cioè di variare forma in seguito a stimoli elettrici), collegato a uno speciale “motore quantico”. Questo motore è un piccolo strumento noto come qubit, un termine generalmente utilizzato per i transistor dei computer quantistici, in questo caso rappresentato da un sottile materiale semiconduttore. Se tutto il dispositivo viene raffreddato a temperature prossime allo zero assoluto (ovvero vicine ai 273°C sotto zero, dove il movimento degli atomi è praticamente nullo) e successivamente si “eccita” il qubit con un singolo impulso energetico, allora il pacchetto di energia si trasmette al wafer che comincia a muoversi con “ vibrazioni quantiche”, come le hanno chiamate i ricercatori. Inoltre, data la natura quantistica del fenomeno, nello stesso istante si può vedere l’oggetto muoversi o rimanere fermo. È infatti il tipo di misurazione che si decide di compiere a “forzarlo” in uno dei due stati. La scoperta mette alla prova il nostro senso della realtà. Ma, soprattutto, potrebbe permettere – in un futuro non molto lontano – di usare le strane regole della fisica quantistica per controllare il movimento di oggetti macroscopici.
2 – Il batterio sintetico
Il secondo posto non poteva che spettare alla biologia sintetica, con la prima cellula creata in laboratorio dal pioniere della “vita artificiale” Craig Venter. A maggio, il visionario ricercatore ha scosso la comunità scientifica annunciando su Science di essere riuscito a trasferire in una cellula batterica, privata del proprio Dna, un intero patrimonio genetico sintetizzato completamente in laboratorio (Prove di vita artificiale). Le potenzialità di questa impresa, costata 40 milioni di dollari, sono infinite.
Venter promette di usare la biologia sintetica per creare alghe in grado di produrre biocarburanti a partire dall’anidride carbonica e vaccini antiinfluenzali. Appuntamento ai prossimi anni (Benvenuti nell’era della biologia sintetica).
3 – Il genoma del Neandertal
Si guadagna il podio anche il primo sequenziamento del Dna nucleare di Homo neanderthalensis, ottenuto grazie ai resti ossei di tre fossili (femmine) rinvenuti in Croazia e vissuti circa 40.000 anni fa (Neanderthal, un ritratto in Dna). Il successo, riportato su Science da Svante Pääbo del Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia (nel video e su Saperevedere), ha aperto per la prima volte le porte al confronto del nostro genoma con quello dei nostri cugini estinti. Così oggi sappiamo che chi tra noi ha origini asiatiche o europee condivide con loro dall’1 al 4% del Dna (L’eredità dei Neanderthal).
4 – Genomica next generation
La genetica spopola nella top ten. Il quarto posto va alla genomica di nuova generazione, che permette di abbassare i tempi e i costi delle analisi del dna. Diversi i progetti che hanno portato a importanti risultati. Uno è il 1000 Genomes Project, che si prefigge di trovare tutte le mutazioni a singolo nucleotide (single-nucleotide polymorphisms, SNPs) presenti in almeno l’1% della popolazione mondiale (Dna open access). Quest’anno sono stati portati a termine tre studi pilota, che insieme hanno identificato 15 milioni di variazioni, di cui 8 milioni e mezzo sconosciute. Le informazioni serviranno a individuare le correlazioni tra mutazioni e malattie.
Un altro progetto portato a termine è la catalogazione di tutti gli elementi funzionali nel genoma del famoso (almeno per i biologi) moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) e del verme nematode (Caenorhabditis elegans). I risultati dovrebbero essere pubblicati prima che l’anno finisca. Non vanno dimenticati, infine, il sequenziamento completo del genoma di due africani di una tribù di cacciatori-raccoglitori (che conferma la grande diversità che esiste, a livello di Dna, all’interno di questo antichissimo gruppo), e quello di un uomo di 4.000 anni fa.
5 – La riprogrammazione cellulare con Rna
Cambiare il destino delle cellule adulte riportandole indietro nel tempo fino allo stato embrionale usando Rna di sintesi. Questa è la ricerca dell’anno che ha permesso agli scienziati di velocizzare e di rendere più efficiente e sicura la riprogrammazione cellulare. Negli ultimi tempi, infatti, i ricercatori sono riusciti a spostare indietro le lancette delle cellule, fino a farle diventare simili alle staminali pluripotenti (staminali indotte, Ips), attraverso l’inserzione, nel genoma, di alcuni particolari geni (Ritornare staminali). La nuova tecnica si serve invece di Rna costruiti in laboratorio, che riescono ad eludere le difese della cellula. Il metodo è due volte più veloce e 100 volte più efficiente del precedente. Inoltre, poiché L’Rna si degrada velocemente, le staminali indotte sono geneticamente identiche alle adulte di partenza.
6 – I geni delle malattie rare
Ancora genetica.Questa volta si parla del sequenziamento degli esoni (le porzioni del Dna che contengono le informazioni per la sintesi delle proteine, e che rappresentano solo una piccola parte dell’interno genoma). Scopo: identificare le cause delle malattie rare. I risultati raggiunti nel corso dell’anno dimostrano che il Dna difettoso è alla base di almeno una dozzina di misteriose patologie. Sono stati individuati i geni che portano a gravi malformazioni del cervello, a livelli troppo bassi di colesterolo e a deformità facciali. I ricercatori puntano al sequenziamento degli esoni per trovare più della metà delle 7.000 malattie rare che ancora non hanno una spiegazione genetica.
7- Il simulatore quantistico passa il primo test
Una scorciatoia per risolvere un annoso problema matematico della fisica della materia condensata. Questa scorciatoia, però, non è esattamente banale da percorrere. Diversi gruppi di fisici (finora 5) hanno dimostrato che la soluzione può essere trovata usando un simulatore quantistico (tipicamente, un cristallo in cui singoli punti di luce laser svolgono il ruolo degli ioni e gli atomi strappati da questi spot si fingono elettroni). Che ci si fa? Per esempio si rivela come si comporta un dato sistema posto a determinate condizioni.
8 – Così si avvolge una proteina
Una semplice proteina composta da soli 100 aminoacidi si può avvolgere e piegare in 3 alla 198 modi differenti. La “decisione” è presa in pochi millisecondi: molto meno di quanto ci metterebbe un potente computer. Infatti, per studiare questo fenomeno, è servito un potente supercomputer. Due anni fa alcuni ricercatori statunitensi hanno cominciato i calcoli e quest’anno hanno raccolto il frutto di tanta potenza: la loro macchina è stata in grado di tracciare il movimento degli atomi di una proteina 1000 volte più lunga di quella del precedente primato: abbastanza, quindi, da permettere ai ricercatori di vedere come questa trova la sua strada attraverso 15 cicli di avvolgimento e riavvolgimento.
9 – Meglio i ratti dei topi
Modello d’eccellenza negli studi clinici, il ratto è da preferire al topo perché più simile all’essere umano. Il nostro cuore batte circa 70 volte al minuto, quello del ratto 300, quello del topo 700; il pattern di segnali elettrici cardiaci di ratto e essere umano sono molto simili; il ratto è un miglior modello del topo per studi su malattie degenerative come Alzheimer e Parkinson. Inoltre, è più grande, quindi più facile da manipolare.
Se non bastasse, quest’anno diversi gruppi di ricerca hanno riportato importanti risultati usando trasposoni (sequenze di Dna che saltano da un sito a un altro del genoma) per modificare geneticamente i ratti. Dal prossimo anno, quindi, è probabile che i topi vengano rimpiazzati definitivamente.
10 – Contro la diffusione dell’Hiv
Il 2010 è stato un anno notevole anche per la profilassi contro la diffusione dell’Hiv. Due gli studi clinici in cui si è riusciti a bloccare parzialmente il contagio. Il primo, presentato a luglio alla XVIII International AIDS Conference che si è tenuta a Vienna, si è servito di un gel vaginale a base di tenofovir (un antiretrovirale). Il rischio di infezione nelle donne più esposte al virus si è ridotto del 39% per un periodo di 30 mesi. La ricerca è stata condotta su circa 900 sudafricane. L’altro studio è il primo mai condotto su una profilassi orale pre-esposizione, e ha dato risultati anche più incoraggianti. È mix di due diversi principi (lo stesso tenofovir e l’emtricitabina, un inibitore della trascrittasi inversa del virus) ed è stato testato su 2.499 uomini e donne transessuali provenienti da sei paesi. Dopo poco più di un anno, il rischio di contagio si è ridotto del 43,8 per cento.
Fonte: Wired.it
http://www.galileonet.it/articles/4d0b267b72b7ab1407000042
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Dai testicoli un’arma contro il diabete di tipo 1 14.12.2010
di Giulia Belardelli
Le cellule staminali prelevate dai testicoli potrebbero in futuro essere utilizzate per il trattamento del diabete di tipo 1. A suggerirlo sono i ricercatori del Georgetown University Medical Center di Washington DC, i cui risultati sono stati presentati in occasione del convegno annuale dell’American Society of Cell Biology, a Filadelfia. Lo studio mostra che le cellule staminali spermatogeniche (SSC) estratte dai tessuti dei testicoli possono svolgere funzioni simili alle cellule ß delle isole di Langerhans presenti del pancreas, responsabili della produzione di insulina.
“Finora nessuna cellula staminale, embrionale o adulta, è stata indotta a secernere abbastanza insulina per curare il diabete negli esseri umani. Adesso sappiamo che le SSC potrebbero essere in grado di farlo, e conosciamo anche il modo per aumentare la loro produzione”, ha dichiarato G. Ian Gallicano, docente presso il Dipartimento di Biologia Cellulare della Georgetown University e coordinatore dello studio.
Nel diabete di tipo 1, il pancreas non produce insulina a causa della distruzione delle cellule ß. Si tratta di una forma che riguarda circa il 10 per cento delle persone diabetiche, e che insorge spesso durante l’infanzia o l’adolescenza. “Negli ultimi anni – hanno spiegato i ricercatori – sono state sperimentate diverse nuove terapie. Ognuna, però, ha degli inconvenienti”. Il trapianto di cellule ß da donatori deceduti, per esempio, può risultare in un rigetto, oltre al fatto che queste donazioni non sono affatto comuni. Alcuni gruppi di ricerca, invece, hanno trattato il diabete nei topi usando cellule pluripotenti indotte (IPS), vale a dire cellule adulte che sono state riprogrammate con altri geni così da comportarsi come quelle staminali. Questa tecnica, tuttavia, può generare teratomi (tumori dei tessuti embrionali), così come altri tipi di problemi causati dai geni esterni utilizzati per la riprogrammazione.
Il gruppo di Washington, invece di usare le cellule IPS, ha concentrato la sua ricerca sulle staminali spermatogeniche, precursori delle cellule dello sperma, recuperandole dai tessuti testicolari di donatori deceduti. Poiché le SSC hanno già i geni necessari a diventare cellule staminali embrionali, non hanno bisogno di alcun gene aggiuntivo che le forzi a “trasformarsi”.
A partire da un grammo di tessuto testicolare, i ricercatori hanno ricavato circa un milione di cellule staminali. “Ciò che abbiamo visto – ha raccontato Gallicano – è che queste cellule, una volta estratte dal loro tessuto originario, formano tutti e tre i foglietti embrionali (i primi tessuti che si sviluppano) per diverse settimane. In questo modo, si comportano come delle vere e proprie staminali pluripotenti, mostrando di avere molti dei marcatori biologici che caratterizzano le normali cellule ß”. Nell’esperimento, queste cellule, trapiantate in topi diabetici immunodeficienti, hanno dimostrato di far diminuire per circa una settimana i livelli di glucosio nel sangue. Secondo il ricercatore, la produzione di insulina può essere aumentata notevolmente, prolungando così l’effetto oltre la settimana.
http://www.galileonet.it/articles/4d0715ea72b7ab53a3000078
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Genetica, il primo figlio con due papà (e senza mamma) 13.12.2010
“ Una nuova forma di riproduzione dei mammiferi”, così è stata chiamata dagli scienziati che l’hanno messa a punto. È la tecnica che permette di ottenere una progenie di topi a partire da due padri (quella con due madri ormai è storia vecchia). A riuscire per la prima volta nell’impresa, che diventerà una pietra miliare della ricerca genetica , i ricercatori dell’ Anderson Cancer Center dell’ università del Texas negli Stati Uniti con uno studio pubblicato su Biology of Riproduction.
Per ottenere questo straordinario risultato, gli scienziati hanno manipolato alcune cellule del tessuto connettivo (fibroblasti) di un primo topolino per ottenere una linea di cellule staminali pluripotenti indotte (o iPS). Queste cellule, generate per la prima volta quattro anni fa da Shinya Yamanaka e dal suo gruppo di ricerca dell’ università di Kyoto, possono dare origine a diversi tipi di tessuto.
Ora i ricercatori statunitensi hanno notato che circa l’1 per cento delle cellule prodotte a partire dalle iPS ottenute con i fibroblasti del topo maschio perdono spontaneamente il cromosoma maschile Y, diventando cellule con corredo X0.
Partendo da questa osservazione, gli studiosi hanno messo a punto una tecnica molto complessa. Per prima cosa hanno iniettato le cellule X0 in blastocisti di topi (ovvero in embrioni nelle primissime fasi di sviluppo). Queste blastocisti “modificate” sono state poi impiantate nell’utero di alcune topoline, che hanno così dato alla luce una progenie femminile con cromosomi sessuali X0/XX (in cui l’X singola derivava direttamente dai fibroblasti del primo maschio).
Una volta raggiunta l’età riproduttiva, questa progenie femminile è stata fatta accoppiare normalmente con dei topi. Da questa unione sono nati cuccioli maschi e femmine il cui Dna proviene sia dal loro padre, sia dal primo topo. Usando la fecondazione in vitro, sostengono i ricercatori, si potrebbe eliminare persino la necessità delle madri X0/XX.
Dal punto di vista puramente tecnico si tratta di uno studio destinato a far storia. Tuttavia, le applicazioni pratiche sono ancora abbastanza lontane. La più probabile, secondo gli studiosi, potrebbe essere l’uso della tecnica per la salvaguardia di specie a rischio estinzione.
Fonte: wired.it
http://www.galileonet.it/articles/4d02462972b7ab53a3000062
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 21.12.2010
Di Ada Pagliarulo e Paolo Martini
Le aperture
Il Corriere della Sera: “Proposta per il dialogo con gli studenti” è il titolo di un corsivo firmato da Dario Di Vico e Maurizio Ferrera, in cui si torna alla proposta di Mario Monti di dotarsi di un “ministro del Futuro”, “una sorta di garante dei diritti delle giovani generazioni che nella compagine governativa avesse il potere di intervenire contro i provvedimenti miopi che consolidano gli (iniqui) assetti vigenti”, ed avesse “la lungimiranza di introdurre nell’agenda delle scelte del Paese una serie di azioni di tutela degli outsider”. Secondo i due la “strategia dei tagli lineari” del ministro Trermonti ha “mascherato una doppia incapacità, di scelta e di decisione”. E la riforma dell’università è stata una “menomazione” che, anche per i tagli alle risorse, “è stata percepita come una rottamazione di chance”.
Il grande titolo a centro pagina è per la politica: “Casini apre a Berlusconi. Il leader Udc: se il premier fa un appello alla responsabilità, noi risponderemo. Napolitano: resisto al voto anticipato per il bene del Paese”. Ancora sulla politica l’editoriale del quotidiano milanese, firmato da Ernesto Galli della Loggi: “L’orecchino populista. La sinistra e il fenomeno Vendola”. A centro pagina il quotidiano milanese si occupa delle nuove notizie dai file di Wikileakjs: “Calipari, il dossier Usa. Roma frenò le indagini? Palazzo Chigi: è falso. Pubblicati nuovi file segreti di Wikileaks”. A fondo pagina: “Accusa all’Eni: evasione fiscale da 1,7 miliardi. I pm di Milano preparano la richiesta di rinvio a giudizio per nove manager”.
La Repubblica. “Napolitano: no alle elezioni. Per il capo dello Stato ci sono ‘troppe incognite e la legislatura deve continuare’. Veltroni e Bersani: le primarie non vanno abbandonate. Berlusconi accusa Fini: complotta con i giudici. La replica: barzelletta”. A centro pagina: “Gasparri ai genitori: tenete i figli a cassa, nei cortei potenziali assassini”. Il Pd al capogruppo del Pdl: sobillatore. Il Colle: ascoltate gli studenti”. Su Gasparri e le polemichee un articolo di Adriano Prosperi (“Dottor Stranamore”) e un articolo in cui si racconta la storia del giovane colpito da un altro manifestante con un casco: “Manuel: così ho colpito Cristiano”.
E poi: “Su Calipari il governo frenò le indagini”. “I dispacci di Wikileaks imbarazzano l’Italia”.
Il Fatto quotidiano: “Allarme son fascisti. Dietro Gasparri che parla di ‘studenti assassini’ c’è chi spera nella violenza di piazza per rafforzare un esecutivo in agonia. In gioco la libertà di manifestare”. L’editoriale è firmato da Furio Colombo: “Governo con il morto”. A centro pagina: “Confermato: Così Berlusconi e Fini imbrogliarono il Parlamento su Calipari. Gli Usa: gli italiani depistano le indagini per favorirci”.
La Stampa: “Calipari, gli italiani cercarono di fermare l’inchiesta dei pm”. “Wikileaks rivela un dispaccio dell’ambasciatore Usa”. “La replica di Palazzo Chigi: tutto falso”. Titolo grande: “Napolitano: no alle elezioni”, “il capo dello Stato chiede un salto di qualità ai partiti: avanti con la legislatura, ma l’azione dell’esecutivo sia efficace”. E poi: “Il premier: patto Fini-giudici. Poi smentisce. Il leader Fli: barzellette”. Sulla scuola le parole del ministro dell’istruzione, che concede una intervista al quotidiano: “Gelmini: non c’è dialogo con chi sa solo insultare”, “ma vale la pena affrontare le proteste”. Un richiamo anche per le parole del capogruppo Pdl al Senato Gasparri, ancora sulle manifestazioni: “Domani in corteo potenziali assassini”.
Il Foglio: “Il Quirinale dà un aiuto al Cav ma lo condanna a governare con Casini. Napolitano invita al dialogo per non buttare la legislatura, terzopolisti tentati: primo test, la legge Gelmini. Con Fini ancora muso duro”. In prima una intervista a Giorgio La Malfa, sulla situazione Fiat, sotto il titolo: “Ascoltate l’urlo di Sergio”; per La Malfa, ex ministro del Bilancio e vicino come il padre Ugo alla Fiat, Confindustria e Cisl non possono stare sulla difensiva rispetto all’innovatore Marchionne che vuole solo crescere crescere crescere. Sulla politica internazionale si ricorda che oggi al Senato americano è previsto il primo voto per la ratifica del nuovo Start, trattato per la riduzione delle armi nucleari che Obama ha firmato ad Aprile con il presidente russo. Il titolo: “In tre giorni Obama si gioca lo Start atomico contro i repubblicani”. Si spiega che il leader repubblicano McConnel “guida il fronte che non vuole favori strategici a Mosca e lascia i Dem senza i voti necessari”. Insomma, secondo il quotidiano, si tratta di un altro successo a rischio.
L’Unità: “Così hanno tradito Calipari. In un cablo del 2005 l’ambasciatore Usa svelava: il governo italiano vuole lasciarsi la vicenda alle spalle. Paura dell’inchiesta. L’obiettivo era evitare che le indagini potessero smentire il rapporto che definiva ‘non intenzionale’ l’uccisione del funzionario”.
Il Giornale: “Addio Pdl, torna Forza Italia. Rivoluzione nel centrodestra. La sigla non funziona più, e il Cav punta a ricreare il binomio con An. Per annientare Fli. Patto tra Fini e i magistrati: è giallo su una frase di Berlusconi”. Di spalla: “Gasparri: ‘Nei cortei potenziali assassini. Tenete a casa i figli'”.
Libero ha in prima la caricatura di un Fini legato alla poltrona, che dice: “La poltrona sono io”, ”gli uomini passano, le istituzioni restano’, sentenzia il leader Fli, che poi però riflette sui suoi 20 mila euro netti al mese e su tutti i privilegi della carica e conclude: ‘dimettermi? Mai…'”
Il Sole 24 Ore: “Nelle case metà della ricchezza. Per Bankitalia patrimonio netto delle famiglie a 8600 miliardi: il mattone è la voce principale, meno Bot e più risparmio postale. Nel primo semestre calo dello 0,3 per cento, ma il debito privato è tra i più bassi”. “Un primato che Obama ci invidia” è il titolo dell’editoriale di Marco Fortis. A centro pagina Napolitano e il suo “appello alla responsabilità”. “No alle elezioni, ma serve un salto di qualità”. In prima anche un richiamo al percorso al Senato del disegno di legge sull’università: “DDl università, corsa per anticipare a oggi il voto finale”. “Sprint della maggioranza per anticipare a oggi il voto finale al Senato sulla riforma dell’università. Dialogo con i manifestanti ma nessuno sconto ai violenti: è questa la linea decisa dal Viminale in vista delle manifestazioni di protesta contro la riforma previste per oggi e domani. E il capo dello Stato Napolitano definisce i cortei come spie del malessere”.
Berlusconi-Fini-Casini-D’Alema
Sul Giornale su Libero ci si sofferma su quello che viene definito il “giallo” su una frase che Berlusconi avrebbe pronunciato ieri incontrando i suoi parlamentari. Libero la riassume così: “Gianfranco è protetto dai pm”, “ha dato una sponda all’Anm sulle intercettazioni: c’è un patto con loro”. E Il Giornale: “La legge sulle intercettazioni è arenata dopo un incontro tra Gianfranco e il capo dell’Anm”. Secondo il quotidiano sarebbe stato lo stesso presidente dell’Anm Palamara a consegnare alla finiana presidente della commissione giustizia Giulia Bongiorno, un gruppetto di emendamenti al provvedimento sulle intercettazioni. Maurizio Belpietro, direttore di Libero, prende spunto dalla apparente indole da gaffeur del Cav, e dice: “Santi in tribunale, gaffes per finta. Silvio ha ragione, lo dimostrano i giudici che hanno archiviato il caso Montecarlo.
Lo stesso quotidiano annota tuttavia che il Terzo Polo ha annunciato che si asterrà alla Camera sulla mozione di sfiducia predisposta da Italia dei Valori nei confronti del ministro Calderoli. Ci sarebbero dubbi invece sulla riforma Gelmini.
Il Corriere sintetizza: “Il terzo polo si blinda sulle scelte in aula”, decidendo la linea comune sui prossimi temi. L’Udc sarebbe orientata al dialogo, anche sulla giustizia. Ma, fino alla sentenza della Consulta sul legittimo impedimento, è azzardato fare previsioni sul futuro.
Il Foglio riassume così la situazione politica: “Silvio Berlusconi è convinto di poter giocare di sponda con Pierferdinando Casini, che il leader dell’Udc sia sincero quando parla di ‘metodo Obama’, e pensa pure che già domani, al Senato, sulla riforma universitaria, si potranno intravedere segnali di dialogo”. Secondo il quotidiano “una sorta di negoziato preliminare si è aperto”, tenendo presente anche l’astensione sulla sfiducia a Calderoli. “Casini appare aver preso sul serio gli inviti delle gerarchie vaticane, della Confindustria, dei sindacati riformisti (e ieri anche del Quirinale) a lavorare per la governabilità”. Per Il Foglio anche il Pd bersanianao non punta ad un’alleanza con il Terzo polo: l’offerta di collaborazione è rivolta a Casini, con l’appendice di Rutelli e non al presidente della Camera, anche se non si può chieder all’Udc di rompere “con il neoalleato Fini”.
Il Corriere della Sera scrive che i vertici del Pd vanno maturando la decisione di non rinchiudersi in una alleanza marcatamente di sinistra con Vendola e Di Pietro, e di non dare per scontate le primarie. A spingere in questa direzione è Massimo D’Alema: “Con uno schieramento di quel tipo non andiamo da nessuna parte. E poi, se ci dividiamo in tre poli, rischiamo di far vincere Silvio Berlusconi”. Si punta quindi su un avvicinamento con Casini, cui si potrebbe promettere la candidatura alla premiership. Resterebbe fuori solo Idv, perché D’Alema è convinto che anche Vendola potrebbe dire di sì.
Il quirinalista del Corriere Marzio Breda, spiegando la logica in cui si muove il presidente Napolitano, punta l’attenzione sulle parole da lui pronunciate ieri: Napolitano ha dichiarato di sentirsi “tenuto a resistere, nell’interesse generale, alla improvvida prassi italiana degli scioglimenti anticipati, specie in periodi così gravidi di incognite”. Il che significa, per il Corriere, alzare un argine davanti a chi (da entrambi i fronti politici) insiste da mesi nell’indicare le urne come una sorta di appello in cassazione cui rivolgersi per risolvere i conflitti. La bussola che seguirà Napolitano, lo porterà comunque ad escludere ribaltoni nel caso di una caduta dell’Esecutivo.
Infine da segnalare, dal Sole 24 Ore, l’idea che pare voglia lanciare Berlusconi: cambiare nome al Pdl. Il nuovo simbolo servirebbe ad evitare contenziosi con Fli.
Esteri
Il Sole 24 Ore si occupa delle elezioni in Bielorussia: si sono tenute domenica scorsa, l’Osce ha definito le procedure di spoglio delle schede “non trasparenti”. Il titolo: “Pugno di ferro di Lukashenko”, “fermati sette candidati su nove dell’opposizione”, 600 persone arrestate. Lui, Lukashenko, eletto per la quarta volta, definisce i manifestanti “banditi, vandali”. “In Bielorussia non ci sarà alcuna rivoluzione”, ha detto Lukashenko.
Un reportage con copyright Le Monde viene offerto ai lettori de La Stampa. A firmarlo è Piotr Smolar, il titolo riassume così la situazione: “Bielorussia, l’ultimo kolkhoz dell’Unione Sovietica. Nell’economia pianificata lo Stato controlla tutto, anche i prezzi della vodka”. Smolar parla di “un capitalismo burocratico”: il settore privato è solo il 25 per cento e le grandi aziende sono in mano ai clan del potere.
Su La Repubblica da segnalare anche una intervista alla ex premier ed ex leader della rivoluzione arancione in Ucraina Yulia Timoshenko, sotto indagine con l’accusa di aver distolto fondi destinati all’Ambiente per pagare le pensioni: accusa l’Europa di ignorare la repressione in corso da quando al potere è arrivato il filorusso Yanukovich, in nome degli affari. In questo Paese – dice “si uccidono giornalisti scomodi, si processa l’opposizione. Vorrei che Usa ed Europa non legittimassero così tanto questo regime”, dice. Ha passato 40 giorni in carcere, rischia dieci anni.
Il Foglio, con Andrea Affaticati, si occupa di Amburgo: “Chiamatela Amburghistan. Così il mito dell’11/9 e il garantismo tedesco hanno fatto della città una Mecca jihadista”. Per i giovani islamisti di tutta Europa era diventato un sogno inginocchiarsi sul tappeto sul quale aveva pregato Mohamed Atta, mente dell’attentato dell’11 settembre. Tutti volevano passare per la moschea di Amburgo, la Al Qud, ribattezzata poi Taiba. Dopo nove anni è stata chiusa. Con intervista al vicecapo dei servizi di sicurezza tedeschi.
Dal Corriere della Sera: “Teheran, sei anni di carcere al regista dissidente Panahi”, “per vent’anni non potrà viaggiare né girare film”, “non potrà avere contatti con i media nazionali e stranieri”. L’autore di Il palloncino bianco, Il cerchio, L’Oro rosso e Offside, ha appoggiato l’Onda verde del 2009. Era stato arrestato per la prima volta nel luglio di quell’anno al cimitero dove era sepolta Neda, la ragazza simbolo delle proteste. Rilasciato, e poi privato del passaporto, è stato riarrestato nel marzo 2010, con l’accusa di preparare un film contro il regime. Da anni amici e famiglia insistono perché se ne vada dall’Iran, aveva offerte di lavoro in Francia, ma ha sempre rifiutato.
Il Sole 24 Ore racconta che all’ingresso della sua casa di Teheran tiene in vista una grande locandina di Ladri di biciclette. Ricorda di esser stato promosso per una tesi all’Università sul film di De Sica da un professore che poi, diventato responsabile della censura, ha bloccato in Iran la distribuzione del film.
La Stampa intervista l’avvocato di Sakineh, la donna condannata alla lapidazione, che torna sulla vicenda e spiega che non è più potuto tornare in Iran per assisterla: la sua colpa è stata denunciare in una intervista alla tv tedesca l’amputazione della mano a cinque condannati per rapina. Torna sulla vicenda di Sakineh, sottolinea quanto l’ordinamento giudiziario iraniano sia contradditorio. Per i delitti comuni, spiega, il sistema di garanzie è sulla carta equilibrato. Ma il giudizio “arriva in base alla sharia, quindi discrimina a priori, per esempio, le donne”. “Poi ci sono tutta una serie di reati che attengono alla sicurezza pubblica, perseguiti senza nessuna garanzia dalle forze di repressione, in definitiva dai pasdaran”.
Restiamo a La Stampa per una corrispondenza da New York sulla politica estera Usa: “Costa d’Avorio, Obama alza il tiro. Sanzioni al presidente uscente Gbagbo. Referendum in Sudan, pressing su Bashir”. Spiega il quotidiano che la Casa Bianca punta sul referendum in Sudan, convinta che la separazione del sud da Khartoum avrà effetti positivi anche sul Darfur, spingendo il governo sudanese a collaborare con la comunità internazionale per la protezione dei civili. Obama ha quindi scritto ai leader di Libia, Egitto, Ciad, Uganda Kenya, Sudafrica, Nigeria, Ruanda e Unione Africana per chiedere collaborazione affinché si tenga il referendum.
Su Il Foglio si evidenzia invece che il Presidente del Sudan Bashir, di fronte alla prospettiva di un referendum, ha detto che “se secessione ci sarà, allora questo Stato – che diventerebbe di fatto Sudan del nord – ‘cambierà la Costituzione'”, e, quindi, “la fonte legislativa sarà la sharia”, “non si parlerà più di diversità di cultura e di etnia”.
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Calipari ucciso due volte
Ida Rotano, 20.12.2010
L’ambasciata USA: “l’Italia non voleva inchieste”. Wikileaks rivela un cablo di Sembler del 2005: il governo esclude l’omicidio volontario per evitare indagini della magistratura e lasciarsi la vicenda alle spalle. Il Pd chiede a Berlusconi di riferire alle Camere: Agghiacciante che abbia impedito di fare luce sulla sua morte
Il governo italiano voleva “lasciarsi alle spalle” il caso di Nicola Calipari e il rapporto italiano sulla morte dell’agente dei servizi uccisi da un soldato americano in Iraq, sostenendo la tesi del “tragico incidente”, puntava a scoraggiare un processo penale e un’inchiesta parlamentare. E’ quanto si legge in un dispaccio inviato dall’ambasciatore americano Mel Sembler il 3 maggio 2005, diffuso da Wikileaks, citato oggi sul Guardian.
Il dispaccio riferisce di colloqui con alti funzionari del governo italiano avvenuto il 2 maggio in merito al rapporto preparato da Roma, che doveva essere diffuso quello stesso giorno. Incontro che avvenne nell’ufficio di Silvio Berlusconi, presenti l’allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, l’allora consigliere diplomatico di Berlusconi, Gianni Castellaneta, il capo del Sismi Niccolò Pollari. Il presidente del Consiglio era invece assente.
Gli italiani, si legge nel dispaccio, evidenziarono alcuni punti: il governo italiano non voleva che “questo incidente avesse effetti negativi sulle eccellenti relazioni bilaterali” e sull’impegno italiano in Iraq. Inoltre “il governo italiano vuole porsi l’incidente dietro le spalle e spera che il rapporto serva a questo”. Il dispaccio sottolinea che Berlusconi sarebbe intervenuto in Parlamento il 5 maggio e che riteneva “utile” una precedente telefonata da parte del presidente americano George Bush per poterla citare in aula.
Il rapporto italiano, scrive ancora Sembler, sosteneva la tesi del “tragico incidente” e la mancanza di prove che la morte di Calipari fosse stata intenzionale. “Questo ultimo punto -si legge nel dispaccio- era stato messo a punto in modo specifico per scoraggiare ulteriori inchieste da parte della magistratura, dato che apparentemente, in base alla legge italiana, si può indagare sui casi di omicidi intenzionale di cittadini italiani all’estero, ma non nei casi omicidi non intenzionali”.
Nel dispaccio si aggiunge però che gli interlocutori italiani hanno avvertito che i magistrati “sono noti per piegare tali leggi ai loro obiettivi” e pertanto bisognerà vedere “se la tattica del governo italiano potrà funzionare”. Infine, il cablogramma riferisce che il governo italiano “bloccherà i tentativi delle commissioni parlamentari di avviare inchieste (ci sono già diverse richieste da parte dell’opposizione) sostenendo che questo rapporto risponde alle domande in modo sufficiente”.
Nel dispaccio si sottolinea che il rapporto italiano cavilla rispetto a vari punti di quello americano, ma che non è nell’interesse di Washington “attaccare la versione italiana punto per punto”. “Se il governo italiano apparirà sleale verso i propri funzionari” o sembrerà voler compiacere gli americani “le conseguenze per il governo Berlusconi e l’impegno italiano in Iraq sarebbero gravi”, nota il cablo diplomatico.
Durante l’incontro, si legge, l’ambasciatore Sembler sottolinea come gli americani condividano il desiderio italiano di porsi l’incidente alle spalle. Fini afferma allora che “l’Italia non può lamentarsi della cooperazione da parte americana” e che avrebbe chiesto a Berlusconi di sottolineare questo fatto nel suo intervento in Parlamento.
Il dispaccio raccomanda quindi di organizzare nei giorni successivi una telefonata fra il segretario di Stato americano e Fini per confermare che Washington condivide il desiderio americano di lasciarsi l’incidente alle spalle.
Rivelazioni “agghiaccianti” quelle di Wikileaks. Così, il responsabile sicurezza del Partito democratico Emanuele Fiano: ” Pretenderemo che il presidente del Consiglio riferisca al Parlamento, spiegando il contenuto di queste informazioni che dimostrerebbero che, per motivi inaccettabili di rapporti internazionali, il nostro governo avrebbe omesso di fare fino in fondo il proprio dovere per accertare le cause dell’uccisione di un servitore dello Stato, che si è sacrificato per riportare a casa una giornalista”.
“Sono notizie agghiaccianti – gli fa eco Ettore Rosato, deputato Pd componente del Copasir- e vogliamo subito chiarimenti in parlamento.Calipari è stato un servitore dello Stato, uno dei migliori uomini della nostra intelligence, pensare che il governo Berlusconi abbia impedito di fare luce sulla sua morte è inquietante. Visto che Berlusconi non ha voluto presentarsi al Copasir, dica in Aula davanti al parlamento e al paese cosa è davvero avvenuto”.
Una posizione condivisa anche dall’Italia dei valori. “Se venisse confermato quanto emerge dal documento sulla morte di Nicola Calipari diffuso da Wikileaks e pubblicato dal Guardian, saremmo di fronte ad un gravissimo atto eversivo da parte del governo”. E’ quanto afferma il portavoce dell’Italia dei Valori, Leoluca Orlando, che aggiunge: “In nessun Paese democratico, infatti, l’esecutivo puo’ pensare minimamente di ostacolare le indagini delle commissioni parlamentari. Il sottosegretario Gianni Letta venga in Aula e spieghi al Parlamento e agli italiani come stanno realmente le cose”.
Mentre Giuliana Sgrena, la giornalista de il manifesto che il 4 marzo del 2005 si trovava con Calipari a bordo della Toyota Corolla sulla quale perse la vita il funzionario del Sismi chiede che il parlamento italiano “riapra” il caso attraverso l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16539
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Addio a Bearzot, il ct campione del mondo
Vinse il Mondiale di Spagna nel 1982. Aveva 83 anni
E’ stato anche giocatore vestendo le maglie di Pro Gorizia, Inter, Catania e Torino
MILANO – È morto Enzo Bearzot. Il mitico commissario tecnico campione del mondo in Spagna nel 1982. Aveva 83 anni. Friulano d’origine, era nato ad Aiello del Friuli il 27 settembre 1927, giocò da mediano anche nell’Inter, prima di allenare con Rocco, Fabbri e Bernardini. Alla guida della Nazionale dal 1975, conquistò il quarto posto ad Argentina ’78 e vinse il Mondiale quattro anni dopo. Prima di diventare allenatore della Nazionale è stato anche giocatore vestendo le maglie di Pro Gorizia, Inter, Catania e Torino. Bearzot è morto a Milano, nella sua casa in zona Vigentina. Secondo quanto si è appreso l’ex commissario tecnico era gravemente malato.
Addio a Enzo Bearzot Addio a Enzo Bearzot Addio a Enzo Bearzot Addio a Enzo Bearzot Addio a Enzo Bearzot Addio a Enzo Bearzot Addio a Enzo Bearzot Addio a Enzo Bearzot
LA CARRIERA – Bearzot ha collezionato anche una presenza in Nazionale da giocatore e in totale ha disputato 251 partite nella massima serie. Al termine della sua carriera da giocatore, nel 1964, iniziò l’apprendistato tecnico sulla panchina del Torino prima come preparatore dei portieri e poi da assistente di Nereo Rocco, poi di Fabbri e, successivamente, nella stagione 1968-1969, divenne allenatore del Prato (in serie C). Entrò ben presto nei quadri federali, inizialmente come allenatore delle giovanili (under 23 all’epoca) ma ben presto venne promosso ad assistente di Valcareggi nella Nazionale maggiore e quindi a vice del suo successore, Fulvio Bernardini. Nel 1975 è stato nominato commissario tecnico (condivise la panchina con Fulvio Bernardini fino al 1977). I primi importanti frutti del suo lavoro iniziarono a vedersi ai mondiali del 1978, terminato al quarto come l’Europeo casalingo del 1980.
IL MUNDIAL – Il miracolo avviene in Spagna nel 1982: nonostante una critica feroce da parte dei giornalisti (che lo portò a introdurre la novità del silenzio stampa), riuscì a portare la Nazionale sul tetto del mondo, grazie anche a una preparazione morale, basata sulla forza del gruppo, oltre che tecnica e grazie a giocatori come Cabrini, Zoff, Conti, Collovati, Scirea, Gentile, Bergomi, Oriali, Tardelli, Graziani, Rossi, Altobelli, Antognoni. Dopo il Mondiale vinto, non riuscì a qualificarsi all’Europeo successivo, dimettendosi dopo il deludente Mondiale 1986. Il «Vecio», soprannome con il quale era ormai famoso, non si riconosceva più in quel calcio in cui il denaro stava diventando l’elemento più importante. Detiene il record di panchine azzurre: 104, davanti alle 97 di Vittorio Pozzo.
Redazione online
21 dicembre 2010
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Lettera aperta a Ron Paul – di Benjamin Fulford 20.12.2010
Caro Rappresentante Paul,
Il mio nome è Benjamin Fulford. Sono un portavoce della società del Dragone nero, bianco e dorato, ma anche rosso e verde. Queste antiche società segrete hanno una struttura di comando globale, parzialmente visibile nelle vostre società locali di arti marziali, che è capace di mobilitare un esercito di 100 milioni di persone con brevissimo preavviso in caso di emergenza.
Queste antiche società sono passate da dormienti alla modalità di semi-attive perché attraverso il buon esito delle intercettazioni delle riunioni della vostra élite, sono venute a sapere dei piani per avviare World War 3, per uccidere almeno 4 miliardi di persone e distruggere gran parte dell’emisfero settentrionale. Può ricevere conferma dal Pentagono o dalle fonti della CIA sul fatto che tutto questo sia del tutto vero.
Il motivo per cui sto scrivendo una lettera aperta a lei è quello di spiegare il motivo per cui la Federal Reserve Board deve essere abolita e l’architettura finanziaria globale rinnovata.
Il governo degli Stati Uniti è in bancarotta e si è continuato ad approfittare della buona volontà dei popoli del pianeta. Una buona volontà che si sta esaurendo.
La vostra élite finanziaria ha proposto di svalutare il dollaro o di effettuare una svalutazione occulta per mezzo della sua sostituzione con una nuova moneta chiamata Amero. Entrambe le proposte sono state respinte. Il motivo è che da ormai tanto tempo i dollari non sono più di proprietà degli americani. Sono molti coloro che, spesso poveri, soffrirebbero enormemente qualora questi dollari improvvisamente perdessero metà del loro valore.
I nostri gruppi hanno proposto un piano alternativo. Noi abbiamo offerto di rimettere tutto il debito degli Stati Uniti nei confronti di Cina, restituendo l’oro che abbiamo loro rubato nel corso del 20° secolo. Inoltre, abbiamo in programma cancellare il debito degli Stati Uniti verso il resto del mondo prendendo i dollari di proprietà non-americana, scambiandoli con oro e ponendoli sotto il controllo di una nuova organizzazione internazionale meritocratica. Questa organizzazione non creerebbe mai moneta a corso forzoso, ma semplicemente fungerebbe da camera di compensazione neutrale per governi, aziende e plutocrati.
Il nuovo governo degli Stati Uniti, senza più debiti, sarebbe quindi libero di emettere la propria valuta, sotto il controllo del governo stesso. Tale moneta avrebbe un potere d’acquisto a livello internazionale inferiore rispetto al dollaro statunitense attuale. Il risultato sarà che le merci cinesi diventeranno più costose per gli americani, mentre le esportazioni USA riguadagnarebbero la loro competitività. Ciò permetterà agli Stati Uniti di ricostruire la sua economia reale.
Tuttavia, come la storia dello yen e lo show del Plaza Accord insegnano, la mera svalutazione non risolve il problema cronico del deficit esterno degli Stati Uniti. Quest’ultimo è anche un problema strutturale causato dal fatto che il complesso militare-industriale non produce beni commerciali.
I funzionari del Pentagono hanno anche chiarito che avrebbero preferito iniziare una guerra piuttosto che finire come i generali dell’epoca sovietica, che improvvisamente si sono trovati a guidare taxi.
Proponiamo pertanto che i popoli del mondo finanzino una graduale conversione del complesso militare industriale. Secondo l’Associazione Americana degli Scienziati, oltre 6.000 brevetti sono stati soppressi per “ragioni di sicurezza nazionale”. Crediamo che uno studio condotto da parte di esperti di questi brevetti permetterebbe di scoprire una miniera d’oro in termini di alta tecnologia che contribuirebbe a facilitare questa transizione a tutto vantaggio del popolo e dell’economia americana.
Proponiamo inoltre la creazione di un’agenzia globale di pianificazione economica. Questa agenzia dovrebbe essere ispirata dal motto: “in equilibrio tra i desideri e la realtà.” L’organizzazione tenterebbe di superare il triste record della Banca Mondiale e del FMI promuovendo un’intensa campagna con l’obbiettivo di porre fine alla povertà, fermare la distruzione ambientale e creando le condizioni di un’evoluzione verso il futuro. Non vi sarebbe alcun onere per il popolo americano e questa stessa organizzazione non costituirebbe una minaccia alla sovranità degli Stati Uniti. Piuttosto sarebbe in grado di fornire nuove opportunità per gli individui e le imprese americane.
Infine, anche se questo è un problema puramente interno, si consiglia vivamente di confiscare i fondi rubati al popolo americano – durante il secolo trascorso – da parti di finanzieri senza scrupoli e criminali, per restituirli ai loro legittimi proprietari. Vladimir Putin è stato capace di quintuplicare gli standard di vita, quando ha fatto una cosa simile in Russia.
L’ultimo punto che intendiamo perseguire è che i popoli desiderino la pace mondiale. La disperata cabala criminale soggiacente dietro la Federal Reserve esercita ancora un potere enorme e sta ancora cercando di avviare una terza guerra mondiale. Vorremmo chiedere l’aiuto del popolo americano per porre fine a questa perversa minaccia per l’umanità e per il pianeta.
Cordiali saluti,
Benjamin Fulford
PS: Se volete sentire i più, mi contatti tramite l’ambasciata americana a Tokyo.
Benjamin Fulford 090-3439-5558
FONTE:
http://www.rense.com/general92/flf.htm
Tradotto per Nexus da Carlo Dorofatti
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Dalla rassegna http://www.caffeeuropa.it/ del 22.12.2010
“…Fiat
L’Ad Fiat Marchionne ieri, nel corso di un incontro con i dirigenti al Lingotto, si è detto disponibile “se i dipendenti di Mirafiori vogliono, a fare un referendum. Ma ha avvertito, come nota Il Sole 24 Ore, che “se il risultato è 51 per cento no e 49 per cento sì (alla proposta della Fiat ndr) ce ne andiamo”. Marchionne ha invitato la Fiom a firmare e ad assumersi le proprie responsabilità, convinto che firmare l’accordo prima di Natale sia “un’ottima idea”. Una ottima notizia è per Marchionne la richiesta di incontro inviata da Fim e Uilm per riprendere la trattativa. “Purtroppo non abbiamo il tempo per posticipare una decisione – ha detto Marchionne. Ci sono scadenze industriali che premono e investimenti che devono partire al più presto”. La proposta Marchionne prevede un investimento da oltre un miliardo di euro per produrre berline e suv con i marchi Alfa Romeo e Jeep, in cambio della disponibiòità a modulare orari di lavoro e organizzazione interna in modo da permettere il massimo utilizzo dell’impianto.
Titola La Repubblica: “Marchionne: con il 51 per cento di sì Fiat farà l’investimento a Mirafiori”. Parole polemiche anche per l’azienda stessa
Esteri
“Dopo nove mesi l’Iraq ha un governo”, titola La Stampa, che al tema dedica un lungo articolo. Accordo con il leader dei sunniti Allawi, confermato il premier sccita Al Maliki. Il presidente curdo Talabani si è opposto solo al ministro delle donne, che è un uomo. Il governo nasce con quarantadue ministeri e la svolta è arrivata dopo che i curdi hanno ottenuto la sostituzione del ministro del petrolio, Shahristani, che si è sempre opposto -ricorda il quotidiano- alla richiesta dei curdi di una divisione delle ricchezze petrolifere su basi regionali.
Il Sole 24 Ore offre ai lettori una lunghissima intervista al Presidente dell’Eni Roberto Poli, alla vigilia della visita dell’Ad Scaroni a Mosca, per rinegoziare i costi degli accordi. Il titolo riassume così le opinioni di Poli: “Gazprom? E’ business, non politica”. “L’Eni è e resta indipendente”. Il Presidente offre una intervista a tutto campo, parla dei gasdotti NorthStream e SouthStream (“vanno insieme”, “non potevamo starne fuori”), dei rapporti con l’Iran (lo stesso Dipartimento di Stato Usa riconosce la correttezza di Eni, che ha l’obiettivo di incassare i crediti di Teheran), torna sulla vicenda Mentasti, l’imprenditore riconducibile a Berlusconi (“Quel contratto non ha avuto esecuzione”, “è la riprova concreta che la governance del gruppo funziona”), risponde alle domande sulla inchiesta di Milano in cui si accusa l’Eni di truffa per 1,7 miliardi per accise non pagate (“Il tema della misurazione gas è di particolare complessità”). Non vi sono invece, nel corso dell’intervista, riferimenti ad una parallela inchiesta giudiziaria per tangenti in Nigeria, che riguardano dirigenti di Saipem-SnamProgetti.
Il Foglio, come segnalato, si occupa in apertura delle rivelazioni del New York Times, relative alle intenzioni del Pentagono di intervenire direttamente sul campo in Pakistan, ovvero a dare la caccia sul terreno, facendo penetrare i suoi uomini in zone in cui né i bombardamenti con i droni, né il coordinamento con uno Stato che non considerano affidabile nella lotta ai talebani, sembrano dare risultati apprezzabili. Significherebbe, sottolinea Il Foglio, l’apertura di un nuovo fronte di guerra da parte di Obama. Smentisce l’ambasciatore pakistano a Washington (“Le forze pachistane sono in grado di gestire la minaccia”, e “alle forze di nessun Paese straniero sarà consentito o richiesto un intervento”), smentisce l’Isaf. Per Il Foglio è anche l’ennesimo sintomo del braccio di ferro tra Pentagono e Cia.
“Usa pronti ad attacchi in Pakistan. Pressing dei militari per usare unità speciali nelle aree tribali”, titola Il Sole 24 Ore, secondo cui i piani del Pentagono sarebbero già predisposti. Manca il via libera della Casa Bianca. Ma una escalation della guerra in Pakistan rischierebbe di minare la solidità della coalizione di 47 Paesi che affiancano gli Usa in Afghanistan.
Dal Sole 24 Ore segnaliamo anche un articolo sulla lettera inviata ieri dai ministri degli Interni di Francia e Germania alla commissaria UE Maelstrom: nella missiva si chiede che Bucarest e Sofia restino fuori dall’area Schengen, che prevede l’abbattimento delle frontiere e la libera circolazione delle persone. I due Paesi considerano l’allargamento prematuro, alla luce delle carenze che Bulgaria e Romania mostrano di avere nel campo della lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata.
Sotto accusa la nuova legge sui media del governo ungherese, oggi guidato dal conservatore Orban. Repubblica la definisce una legge bavaglio. Per il Corriere: “I giornali in Ungheria sottomessi al governo. Imbarazzo della Ue”. E anche su La Stampa: “Budapest contro il potere di radio e tv”: e il quotidiano sottolinea che potrebbe trattarsi di un “brutto inizio” per la presidenza Ue ungherese, che partirà dal 1 gennaio 2011.
Su La Repubblica un ampio articolo su Obama, che ha incassato il sì bipartisan sulla riduzione delle testate nucleari: “Start, Obama convince i repubblicani”, titola il quotidiano. Dal Corriere della Sera, invece, ci si occupa di India, un Paese in cui prosegue “la sfilata dei grandi”. Ieri è arrivato il Presidente russo, in sei mesi sono stati a New Delhi Obama, Wen, Cameron e Sarkozy.”
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Una legge mai vista in un Paese dell’Unione europea
Ungheria: libertà di stampa a rischio Media sotto controllo del governo 21.12.2010
Voluta dal premier di destra Orban: multe pesanti nel caso di «violazione dell’interesse pubblico»
Una legge simile in un Paese dell’Unione europea non si era mai vista. Con la maggioranza di due terzi il Parlamento dell’Ungheria, controllato dal partito di destra Fidesz del primo ministro Viktor Orban, ha approvato una legge sulla stampa che, tra le altre cose prevede:
– soppressione delle redazioni di news alla tv e alla radio, che confluirebbero in un unico centro di notizie presso l’agenzia di stampa nazionale Mti, finanziata dallo Stato
– multe pesanti agli organi d’informazione nel caso di «violazione dell’interesse pubblico», non meglio specificato, articoli «non equilibrati politicamente» o «lesivi della dignità umana», le multe vanno da 700 mila euro per le tv, a 89 mila per i giornali e siti internet
– i telegiornali dovranno rispettare un tetto del 20% per le notizie di cronaca nera
– il 40% della musica trasmessa dovrà essere di provenienza ungherese
– i giornalisti saranno tenuti a rivelare le loro fonti per questioni legate «alla sicurezza nazionale» e le autorità investigative potranno analizzare tutti i loro strumenti e i documenti anche prima di aver identificato un delitto.
DISEGNO – L’approvazione della «legge bavaglio» è l’ultima mossa di un disegno preciso della maggioranza conservatrice. A luglio, dopo aver ottenuto in aprile una maggioranza di due terzi alle elezioni, senza precedenti dopo la caduta del regime comunista in Ungheria, che consente di modificare la Costituzione e la struttura dello Stato, il primo ministro Orban ha subito istituito un’Autorità nazionale delle telecomunicazioni con a capo la garante Annamaria Szalai, vicina al premier, e composta da cinque membri tutti nominati dal partito di governo, alla quale è stato assegnato un mandato di nove anni con inoltre la facoltà di emanare decreti. Poi è stato istituito un ente unico di cui fanno parte la televisione pubblica (Mtv e Duna), la radio pubblica (Mr) e l’agenzia stampa Mti, con direttori nominati dal garante. Infine lunedì 20 dicembre il varo definitivo di una legge di 175 articoli che regola il comportamento degli organi di stampa.
PROTESTA – Circa 1.500 persone lunedì sera hanno manifestanto davanti il Parlamento a Budapest. Orban si è giustificato con il fatto che la tv pubblica, per esempio, era senza presidente da anni perché l’autorità – nella quale c’erano tutti i partiti – non riusciva ad accordarsi su un nome. «D’ora in poi, giornalisti e direttori dovranno essere molto cauti su cosa pubblicheranno», ha detto il direttore di Nepszabadsag, il maggiore quotidiano indipendente, di stampo liberal, che ha annunciato ricorso alla Corte costituzionale. Con nulle possibilità di successo, dato che l’approvazione con la maggioranza di due terzi ha blindato la legge. Csaba Belenessy, direttore generale dell’agenzia Mti, che dirigerà la nuova centrale di notizie, aveva di recente detto che i giornalisti nel suo servizio dovranno essere leali al governo. Orban ha affermato che la nuova legge èconforme alle norme europee. L’Istituto internazionale della stampa (Ipi), invece si è detto invece preoccupato per la situazione della stampa in Ungheria, e anche l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), ha espresso critiche severe nell’ultimo rapporto del garante per la libertà di stampa in Ungheria.
Redazione online
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Venezuela, rete imbavagliata 21.12.2010
Approvata una legge che estenderà alcune limitazioni già imposte nel 2004 ai principali media del paese. I gestori di blog e siti rischieranno condanne per apologia di reato
Roma – La smentita era stata tra le più categoriche: le autorità venezuelane non avrebbero mai preso provvedimenti per limitare la libertà in Rete. Le stesse dichiarazioni del presidente Hugo Chavez erano state corrette, riferitesi soltanto all’uso illegale di Internet e non all’ecosistema online considerato nella sua interezza.
L’Assemblea Nazionale del Venezuela ha ora approvato – in un tempo record pari a meno di una settimana – i principali dettami di una legge che estenderà alcune delle restrizioni già imposte nel 2004 ai principali media del paese. L’uso di Internet da parte degli utenti verrà di fatto limitato per questioni di sicurezza.
Tutti quei contenuti online che inciteranno alla violenza contro il presidente Chavez verranno bloccati dalle autorità venezuelane. Stessa sorte per quei contenuti che getteranno fango sui membri del governo o che immetteranno in Rete materiale volgare, estremista o comunque legato ad attività di stampo criminoso.
La responsabilità cadrà sui gestori di blog o siti web, accusabili di apologia di reato o di aver più in generale incitato alla violenza il popolo venezuelano. Tutto il traffico web sarà fatto passare per un hub gestito dal governo, cosa che – secondo le autorità venezuelane – porterà a velocità di connessione maggiori.
Il governo di Chavez ha quindi rifiutato qualsiasi accusa di censura da parte degli attivisti. Le nuove disposizioni sarebbero perfettamente in linea con i diritti garantiti dalla Costituzione, aiutando i netizen locali a tutelarsi meglio da spacciatori di droga, prostituzione e crimini assortiti.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/3059947/PI/News/venezuela-rete-imbavagliata.aspx
(Presenti diversi commenti discordanti)
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Di(a)ffetti, riciclare la ceramica con difetti 21.12.2010
Si possono recuperare ceramiche e riciclarle in opere d’arte? Vi parlo di ceramiche rotte, scheggiate, sbrecciate. Si se passano tra le mani e i pennelli di Maddalena Vantaggi e Gabriele Tognoloni che si sono divertiti a cogliere le ispirazioni delle ceramiche Rampini e Cerbella. Nella gallery il risultato.
Gli oggetti sono in mostra a Gubbio fino al 29 dicembre presso gli ex archivi della Residenza municipale in via Lucarelli. Spiega Maddalena Vantaggi:
Rimettere in circolazione un bene ancora utilizzabile, allungandone il ciclo di vita, evita il consumo di materie prime per la produzione di uno nuovo. Inoltre, recuperando i manufatti difettosi, si risparmiano l‟energia e i costi necessari per lo smaltimento che le imprese sono costrette ad effettuare almeno una volta all‟anno.Sarebbe interessante se “di(af)fetti” si strutturasse come format: in ogni edizione del progetto mi piacerebbe coinvolgere un artista diverso.
Non è una novità però il recupero e il riciclo nell’arte. Spiega Ettore Sannipoli critico d’arte:
In tutto il ‘900 il frammento ha esercitato un notevole fascino basti pensare ai magistrali esempi offerti da Gaudì al parco Güell di Barcellona, realizzato con variopinte ceramiche di recupero e pezzi di vetro o agli arredi della casa di Jorn ad Albissola Marina, arricchita con pannelli murali in ceramica. Nel campo del design sono da ricordare gli esperimenti di Enzo Mari, che nei vasi “Per forza di levare” (1994) colpisce con colpi di mazza i cilindri in porcellana di grosso spessore per ottenere forme fratturate sempre diverse.
Di(a)ffetti- riciclare i difetti
Al link diversi bellissimi oggetti
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La Riforma Gelmini e la fine della Storia dell’Università di massa 23.12.2010
Ha ragione Mariastella Gelmini a celebrare l’approvazione della sua riforma dell’Università come “la fine del Sessantotto”. Con questa espressione però la ministro non intende quello che ogni buon conservatore associa al cosiddetto Sessantotto: antiautoritarismo, antimilitarismo, liberazione sessuale, rottura della morale borghese, equilibrio nel conflitto tra capitale e lavoro.
No, per Mariastella Gelmini il Sessantotto rappresenta innanzitutto un aborrito “egualitarismo”, da combattere con le armi dello sfuggente concetto di “meritocrazia” che la nuova legge si propone di incarnare. La Riforma di oggi è “la fine del Sessantotto” in quanto fine di quel fattore cardine di coesione e perequazione sociale rappresentato dall’Università di massa che Berlusconi e Tremonti, attraverso Gelmini, si erano promessi di eliminare.
L’equilibrio tra capitale e lavoro raggiunto dalle socialdemocrazie europee si protrasse per tutto il decennio successivo finché il primo, con la spallata thatcheriana, non prevalse sul secondo. La svolta neoliberale e neoconservatrice, che in Italia prese la forma simbolica della “marcia dei 40.000” prima e del berlusconismo poi, oggi, trent’anni dopo, è tra i fattori che stanno determinando la caduta di coesione sociale che è alla base dell’eclisse dell’Occidente. La Riforma Gelmini approvata oggi dal Senato è quindi epocale perché è il compimento di un lungo percorso che rompe in Italia un altro equilibrio fondamentale: quello tra la Costituzione, che ancora elementi, come il diritto allo studio, di forte perequazione sociale in un’economia di mercato, e gli interessi delle classi dirigenti. Gli ottimati pensano di incarnare il “merito” per censo e con Gelmini hanno l’occasione, nel tardo neoliberismo incarnato dal governo Berlusconi, di rafforzare e rinnovare privilegi antichi. Quindi, al contrario di quanto dice il ministro, solo i figli dei farmacisti continueranno a fare i farmacisti, i figli degli architetti gli architetti e i figli dei baroni… i baroni. Ciò perché la riforma Gelmini rappresenta la caduta dell’architrave democratico della nostra società rappresentato dall’Università di massa come percorso di ascensione sociale prima precluso ai più, poi dalla fine degli anni ‘60 aperto a tutti (che roba Contessa!), da oggi di nuovo ristretto.
I numeri parlano chiaro. Alla metà degli anni ‘60 gli studenti universitari in Italia erano 400.000. Oggi sfiorano i due milioni. Riscontriamo dati simili per tutti i nostri paesi di riferimento, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna. Nell’Europa occidentale, nel quarantennio che ci separa dal “maggio francese” il numero delle persone che hanno potuto spendere sul mercato del lavoro un titolo universitario è quadruplicato. Ovvero: con l’Università di massa i figli del popolo vanno all’Università, senza Università di massa i figli del popolo, anche i capaci e i meritevoli, ne sono esclusi.
Prima di proseguire, allora, è bene che il lettore si interroghi se i propri studi universitari sarebbero stati possibili se fosse nato una generazione prima. Basta interrogarsi sulla propria classe sociale di provenienza e sul percorso formativo dei propri genitori per avere un’approssimazione di risposta. Basta dare un’occhiata al registro del personale docente universitario, in particolare dei 27.000 ricercatori. Altro che “parentopoli”! Nella maggior parte dei casi troverete cognomi umili (vogliamo dire proletari?) che per la prima volta nella storia accedono alla docenza universitaria. Lo stesso l’Università di massa ha garantito in altri campi, dalla medicina all’avvocatura. Che l’operaio abbia visto il proprio figlio dottore non vuol dire che i dottori di oggi siano migliori di quelli di ieri. Vuol dire che lo studiare come privilegio elitario, sia pure in un contesto dove permangono mille problemi, è stato abbattuto da quell’Università egualitaria della quale oggi Gelmini rivendica lo scalpo.
L’Università di massa della quale si celebra il funerale era figlia della lotta generazionale e di classe per permettere ai molti di sfuggire sia a un lavoro subalterno che a una subalternità culturale. Tale destino subalterno aveva cominciato ad essere superato quando la costruzione delle nazioni dopo la Rivoluzione francese aveva teorizzato e praticato l’educazione di massa come passaggio ineludibile per il benessere della società. In Italia però, con la riforma Gentile, della quale Gelmini si considera erede, in epoca fascista, l’avviamento al lavoro subalterno di chi non apparteneva alla classe dirigente era rigidamente incanalato fin dalla pre-adolescenza e solo nel periodo dell’odiato Sessantotto le masse ruppero gli argini e conquistarono il diritto a studi e carriere superiori.
Certo, l’ultimo quarantennio ha mostrato tutte le difficoltà della costruzione di un modello democratico di Università. Gli studenti che provengono dalla classe lavoratrice beneficiano di meno opportunità e stimoli di quelle offerte dalle famiglie borghesi. Hanno in casa biblioteche meno capienti, hanno fatto meno viaggi, visitato meno musei. Sono stati meno sorretti nelle difficoltà e più portati all’abbandono degli studi. Allo stesso modo un’Università che ha bisogno di circa centomila docenti tra strutturati e precari non può garantire lo stesso livello medio di didattica di un’università elitaria. I saperi di massa si sono per loro stessa natura massificati e in qualche caso sviliti. Arrivano alla laurea studenti con basi culturali traballanti che faranno ben poco con il “pezzo di carta”. Ciò non è un bene ma l’unica alternativa sostenibile, come sa per esempio il cancelliere Angela Merkel, è continuare a investire in educazione, borse di studio, aiuti, che permettano di liberare le forze di ragazzi altrimenti destinati all’abbandono. Alla logica del “merito” teorizzato da Gelmini e supportato dal taglio del 90% delle borse di studio, che comporta lo stigma del “demerito”, va contrapposta la logica del sostegno a chi ne ha bisogno come unica possibilità di progresso della società.
E’ vero, l’Università di massa è piena di sclerosi e di malfunzionamenti, difetti, sprechi e si basa su un modello piramidale dove il servilismo rende di più del pensiero critico. Ma la risposta non può essere quella neo-elitaria della Gelmini e di Francesco Giavazzi, mai osteggiata seriamente dal centro-sinistra. Valgano due dettagli per tutti: il citato taglio anticostituzionale del 90% delle borse di studio e l’allungamento di ulteriori sei anni del precariato per accedere ai ruoli universitari. Questo domani porterà ad un ingresso molto oltre la soglia dei 40 anni. Chi ne sarà colpito non saranno i figli della classe medio-alta, che possono con crescente difficoltà pagare, o quelli della classe dirigente, che già oggi vanno a studiare all’estero come nella miglior tradizione dei paesi sottosviluppati.
Chi ne sarà naturalmente colpito saranno quegli studenti vittime del “demerito indotto” dalle loro condizioni sociali e che si interrogano quotidianamente se vale la pena continuare a studiare rispetto ai sacrifici che ciò comporta. Chi si beneficerà dell’allungamento ulteriore del precariato universitario voluto dalla Gelmini con i contratti da ricercatore a tempo determinato, saranno i figli di professori, i figli della classe dirigente. E’ questa la vera parentopoli! La vera parentopoli, la parentopoli sociale rafforzata dalla Gelmini, è quella del classismo del quale è intrisa la vita universitaria a ogni livello e del quale se ne comprendono i meccanismi solo dall’interno. Lo scandalo non si gioca sui cento metri piani di un concorso più o meno combinato. Si gioca sulla lunga distanza di una maratona dove i capaci e i meritevoli, anche se in testa alla corsa, vengono costretti ad abbandonare per mancanza di acqua prima di un traguardo posto ogni giorno più lontano.
Sbagliano dunque gli studenti che temono la “privatizzazione” dell’Università. In Italia tutte le privatizzazioni si sono sempre fatte con soldi pubblici e non è questo il caso. Il progetto continentale, che possiamo far partire dal “processo di Bologna” del 1999 è quello della dismissione dell’Università di massa per preservarne solo gli spazi elitari. E’ quello di un’Università che autoriducendosi esce dalla sfera del diritto allo studio per entrare nel mercato come “public company” e dalla quale pertanto sono espulsi quelli che nell’Università cercavano un luogo per sfuggire ad un destino sociale di subalternità. Nel 2020, quando la riforma Gelmini sarà a pieno regime e il blocco del turn-over avrà impedito la sostituzione dei quadri entrati in ruolo nei primi anni ‘80, l’Università pubblica avrà docenti solo per 5-600.000 studenti con la conseguente espulsione dei tre quarti degli studenti attuali. Un bel risparmio per il quale oggi incroceranno i calici Gelmini, Giavazzi e Tremonti.
È un risparmio che nasconde il disinvestimento nel paese nel suo complesso che torna ad essere identificato nella propria classe dirigente escludendo tutte le altre. La riforma Gelmini accelera dunque un processo che costituisce un salto indietro (graduale, mascherato) di 50 anni, ai numeri dei primi anni ‘70, nel quale un numero limitato di clienti-studenti troveranno soddisfazione alle loro esigenze di imprenditoria individuale. Tutto il resto, tutto quanto non smerciabile, sapere critico, cultura, dovranno essere marginalizzati in piccole nicchie perché, per i criteri di economicità e di profitto con i quali funzionerà l’Università “public company” non c’è posto per loro come non c’è posto per quelle classi popolari e medio-basse che in questi 40 anni avevano beneficiato dell’Università in un processo di ascensione sociale.
Il problema è che se il modello su cui si basa la Riforma Gelmini poteva essere vendibile 15 o 20 anni fa, al momento di auge del modello neoliberale, è palesemente antistorico oggi che la crisi ne mette a nudo l’impraticabilità. Oggi chiunque ha avuto occasione di confrontarsi con gli studenti sa che questi non lottano per sfuggire solo ad un destino subalterno ma anche per sfuggire ad un modello di sviluppo capitalista che ha eretto la precarietà come nuova, più avanzata e più pervasiva forma di costringerli a tale subalternità nonostante gli studi universitari. Se oggi un titolo universitario non garantisce più progressione sociale la risposta del governo è quella di indurre a rinunciare all’educazione superiore chi acquisirebbe un titolo svalutato. Al contrario la richiesta degli studenti è di una politica che riqualifichi e renda nuovamente spendibili tali titoli.
Venti anni fa si poteva ancora far finta di non esserne coscienti, ma oggi è evidente che la precarietà non è solo un miglior modo di controllo sociale, di coercizione sindacale e di massimizzazione degli utili ma anche l’unica maniera di creare lavoro che questo modello di sviluppo riesce a concepire. Paesi come l’India, in grado di laureare 700.000 ingegneri l’anno, sanno che dai grandi numeri si può scremare l’eccellenza. L’Italia (e pezzi dell’Europa) sta scegliendo un cammino opposto, convogliando decrescenti risorse su numeri via via più ristretti che tornano a coincidere con le élite tradizionali. Dal rifiuto della riforma Gelmini all’ “intuizione” di un destino subalterno e precario che ha portato gli studenti, a Londra come a Parigi come a Roma, a scendere in piazza, all’elaborazione di un modello alternativo di Università e di società che rimetta al centro, in una società dei saperi rivalorizzati, la lotta all’esclusione, il passo è ancora lungo. Per colmarlo ci vorrebbe la politica.
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PARLA L’AUTORE DEL SAGGIO CRITICO SULL’EUROPA DELLA MONETA UNICA
BARNARD,IL PIU’ GRANDE CRIMINE
”IL POTERE DEMOLISCE GLI STATI” 19.12.2010
di Roberto Santilli
LONDRA – Il ritorno schiacciante delle élite assolutiste in cabina di comando è l’argomento al centro del saggio “Il più grande crimine”, pubblicato dal giornalista e scrittore Paolo Barnard sul suo sito Internet.
Sessanta pagine di nomi, cognomi, dettagli politici, sociali ed economici su ottant’anni di storia in Occidente, con particolare attenzione all’Europa della moneta unica. Una moneta non più sovrana come quelle nazionali, ma che va presa in prestito: caratteristica che limita la capacità di investimento per opere come potrebbe essere anche la ricostruzione dell’Aquila.
Quasi un secolo durante il quale secondo Barnard sono state abbattute conquiste sociali d’ogni risma a colpi di colossali bugie e storie di fantasmi inventate da chi, in sostanza, aveva sempre dominato i destini dei popoli ma che, in seguito agli sviluppi dell’Illuminismo e ai postumi democratici della Rivoluzione francese, era stato costretto ad indietreggiare di fronte alla diffusione su larga scala di idee contrarie alle proprie.
AbruzzoWeb lo ha intervistato.
Ha da poco pubblicato “Il Più Grande Crimine”, nel quale spiega che cosa è successo in Occidente negli ultimi ottant’anni di storia. In termini sociali ed economici, un vero e proprio disastro.
Sì, un piano perfido e criminale per il ritorno al potere assolutista delle élite finanziarie e grandi industriali, in particolare in Europa. Hanno tenuto milioni di persone in povertà o precarietà per puro calcolo di dominio e mai per necessità economica reale. Sto parlando dei cittadini occidentali, non del Terzo Mondo.
Difficile riassumere tutto in poche righe, ma ci provi.
Il “Vero Potere” ha pensato a come togliere agli Stati la possibilità di spendere a deficit. Il debito pubblico era in realtà un fantasma, gli Stati a moneta sovrana potevano gestire la propria economia semplicemente inventandosi il denaro sufficiente a ripagare il debito, ma questo era intollerabile per le élite economiche e industriali, che in tal modo avrebbero perso troppo potere. Da lì è partito tutto.
I cittadini e i lavoratori, la gente che ha perduto le più elementari garanzie, con chi deve prendersela? Chi è che ha venduto tutto e tutti? Chi non li ha difesi?
Se la devono prendere con le élite e i loro intellettuali, che descrivo nel saggio “Il più grande crimine”. Poi, in Italia, con il centrosinistra che è stato a tutti gli effetti il paggio in Italia del potere, del “Vero Potere”. Con i sindacati che non hanno capito niente di cosa il potere stava facendo e di come lo faceva, e si sono letteralmente venduti a esso. Infine con se stessi, per non voler agire con radicalismo né voler capire neppure quando gli viene detto cosa accade.
Nel saggio sottolinea che il progetto criminoso ha distrutto gli Stati sovrani e le leggi che li rendono tali e ha marginalizzato i cittadini attraverso alcuni “trucchi”. In che modo sono stati “vincenti” i vincitori e “perdenti” gli sconfitti?
I vincitori lo sono stati con una disciplina d’azione assoluta in tutto il mondo, con finanziamenti enormi, con un lavoro di creazione di cervelli omologati e messi in tutti i posti chiave della società che conta. I perdenti perché ammaliati dalla cultura della visibilità ed esistenza commerciale, incapaci di capire chi è il “Vero Potere” e come agisce, in più distratti da questo compito dai fasulli eroi dell’antisistema. In generale i perdenti hanno previlegiato le feste di piazza al lavoro serio, grigio, quotidiano che serviva per comprendere e combattere il potere.
Cosa sta realmente accadendo alla Grecia, al Portogallo, all’Irlanda, alla Spagna?
Vengono strangolati socialmente e sono obbligati a mantenere l’euro, che non possono permettersi. Questo consente a Germania e Francia, per conto di grandi industriali e gruppi finanziari, di costringere i Paesi a tagli selvaggi al settore pubblico e a una compressione dei salari da lacrime e sangue, con il fine ultimo di ottenere anche in Europa sacche di lavoratori pagati alla “cinese” per far profitti sull’export. L’Italia e tutti gli altri Stati dell’Eurozona sono destinati a questa fine.
I prossimi, quindi, siamo noi italiani? E l’Inghilterra? Gli inglesi sono a moneta sovrana, eppure i tagli alla spesa pubblica e la deregolamentazione del privato… Il primo ministro, David Cameron, usa spesso lo slogan “meno Stato, più società” sulla strada verso una “Big Society”. Quale “filosofia” si nasconde dietro?
Gli Stati dell’Eurozona hanno perduto le monete sovrane (lira, marchi eccetera) che permettevano teoricamente loro di gestire in modo sovrano la loro economia e la spesa dello Stato. Oggi l’euro non è più una moneta sovrana poiché non appartiene a nessuna nazione europea. Tutti gli Stati dell’Eurozona la devono prendere in prestito dalle banche e dai mercati privati, con conseguenza catastrofiche sui conti pubblici.
Fra l’altro, se avessimo ancora moneta sovrana, il governo potrebbe spendere tranquillamente per riedificare tutto l’Abruzzo terremotato senza limiti di budget. La Gran Bretagna ha ancora una moneta sovrana, la sterlina, ma il suo governo ha deciso per soli motivi ideologici di non usare la moneta per creare occupazione e servizi pubblici. Di fatto, stanno tagliando entrambi i settori selvaggiamente per conto degli stessi poteri industriali e finanziari di cui sopra, che sono i veri i padroni dei politici.
Lei ha vissuto per diverso tempo a Londra, una delle capitali “morali” del capitalismo mondiale. Quali momenti del progetto di cui si occupa nel saggio ha potuto vivere nella sua esperienza oltremanica?
È troppo lungo da raccontare qui, ma in sintesi ho visto con i miei occhi il risultato agghiacciante della compressione della spesa pubblica con la Thatcher, del mantenimento, su ordine delle élite finanziarie speculative, di una sterlina fortissima con bassa inflazione, che significava la morte delle aziende inglesi sui mercati dell’export e il crollo dei salari di milioni di lavoratori inglesi.
Ho visto il gonfiarsi della bolla speculativa immobiliare e la tragedia del suo crollo, con gli edili alla fame. Ma in parole povere, vedevo crescere ogni giorno per le strade i senza fissa dimora coi sacchi a pelo, ed erano tutti giovani delle periferie industriali ridotte alla fame da quelle politiche neoliberali. E con essi alcool e droga, disperazione.
Secondo un economista francese da lei intervistato, “pochissimi politici comprendono come funziona il sistema monetario e la vera natura della Banca centrale europea, per cui cascano facilmente nella trappola ideologica delle élite finanziarie. Per esempio Jean-Claude Trichet (oggi governatore della Bce, n.d.r.) quando era direttore del Tesoro francese ignorava del tutto le regole del sistema bancario moderno e dell’economia”. Com’è possibile una cosa del genere? Dove comincia l’infezione del rimbambimento sull’economia?
Non è difficile da capire. Chi è stato formato per tutta la vita su teorie economiche date per Vangelo, non potrà mai gettare alle ortiche tutto ciò in cui ha creduto e che gli ha dato carriera e potere per abbracciare una nuova verità. Il neoliberismo economico è divenuto il Vangelo di tutte le docenze di economia del mondo che conta, di ogni singolo master per manager, politici, tecnocrati e loro ci credono ciecamente. Ma è una teoria aberrante e di fatto sbagliata, che ovviamente avvantaggia solo le élite che l’hanno imposta.
Il primo medico ottocentesco che intuì che erano proprio i medici a spargere infezioni mortali in corsia a causa del fatto che non si lavavano le mani dopo le autopsie, fu cacciato e rinchiuso in manicomio. Erano medici, avevano studiato, eppure non capivano un accidente di infettivologia. Lo stesso accade fra gli economisti oggi, accecati dal dogma che hanno studiato.
Una tappa fondamentale del “crimine” porta il nome di Trattato di Lisbona. Cos’è in sostanza, in quale forma è stato proposto ai cittadini europei e quali effetti reali avrà sull’autonomia delle Nazioni?
È, di fatto, una Costituzione europea introdotta subdolamente dalla porta laterale della politica dopo la bocciatura di una simile Costituzione nel 2005 da parte di Francia e Olanda, intese come cittadini, non governi. Come ho scritto in passato “il sigillo a questo tradimento dei principi democratici fu messo dallo stesso Valéry Giscard D’Estaing (ex Presidente della Repubblica Francese, n.d.r.), in una dichiarazione del 27 ottobre 2007, raccolta dalla stampa europea: ‘Il Trattato è uguale alla Costituzione bocciata. Solo il formato è differente, per evitare i referendum’. I capi di Stato erano concordi questa volta: no al parere degli elettori, no ai referendum”. L’autonomia delle 27 nazioni della Ue non esiste più, poiché tutto il potere legislativo proprio dei parlamenti nazionali è oggi soggetto all’autorità superiore del potere legislativo della Commissione Europea, che nessuno di noi elegge.
Ha fatto l’esempio del leader dell’Italia dei valori, Antonio Di Pietro, uno dei tanti che si batte per difendere la Costituzione italiana e poi firma il Trattato che di fatto la abolisce. Semplice ignoranza o addirittura correità?
Di Pietro, con il suo codazzo dei soliti noti, si riempie la bocca ogni santo giorno di proclami disperati in difesa della Costituzione italiana, della quale lui e i suoi senatori e deputati hanno firmato l’abolizione il 23 e il 31 luglio del 2008. In quelle date un’Italia politica di ignoranti e/o in malafede, Idv compresa, ha ratificato il Trattato di Lisbona, depositato poi l’8 agosto, che di fatto sottomentte la nostra Costituzione del 1948 poiché, come sancito da una sentenza vincolante della Corte europea di giustizia “I trattati europei sono la carta costituzionale di una comunità legale, un nuovo ordine legale di fronte al quale gli Stati hanno limitato i loro diritti sovrani”.
Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha invocato una modifica del trattato di Lisbona proprio per bloccare le Corti Costituzionali tedesche che volevano bocciare le decisioni Ue sul salvataggio delle Grecia. Significa che il trattato è più potente delle Corti Costituzionali tedesche.
I veri “padroni del vapore” come pensano di gestire un periodo indefinito di crisi e disoccupazione di questa portata? Non si sta forse esagerando?
Certo che stanno esagerando. Ma loro non hanno mai avuto e mai avranno una visione sistemica dell’economia. Significa che sono divoratori di tutto ciò che possono sbranare ora, subito, senza assolutamente pensare alle conseguenze a lungo termine. La catastrofica crisi finanziaria del 2007-2010 è la prova lampante di quanto dico, hanno distrutto le finanze di tutto il mondo occidentale in due anni e nessuno di loro si è mai preoccupato del danno sistemico.
Le banche stesse hanno speculato come squali e poi molte di loro sono affondate mentre ancora banchettavano. Ma le grandi banche e i grandi istituti di speculazione sanno che possono distruggere a piacimento, tanto poi i politici che loro comandano useranno le casse degli Stati per salvarli. Quello che è accaduto in Italia (52 miliardi di euro sborsati per loro) e nel mondo (circa 12 mila miliardi di dollari sborsati).
L’Europa è destinata a essere una zona piuttosto povera, allora. Perché? Solo per competere sul mercato con le nuove realtà come Cina ed India, che producono a costi di manodopera praticamente inesistenti?
È destinata ad avere sacche enormi di lavoro pagato alla cinese, per quello scopo. Ma anche per impoverire tutti i mercati pubblici europei che poi saranno svenduti ai privati per pochi spiccioli, in particolare i servizi essenziali come sanità, acqua, assistenza sociale, anagrafi, cimiteri, istruzione eccetera. La gente, anche se impoverita, dovrà per forza pagare quei servizi, garantendo profitti certi a chi li possiede.
Studenti in rivolta in tutta Europa per gli aumenti all’Istruzione. Per essere gestibile, la massa deve restare ignorante?
La ragione è duplice: gli ignoranti si controllano meglio, certo, ma soprattutto si pagano di meno. Vogliono comprimere i salari a livelli cinesi e si capisce che comprimerli su milioni di laureati e più difficile che su milioni di appena diplomati o addirittura non.
Prodi, D’Alema, Amato, Veltroni e altri del centrosinistra hanno contribuito ad accelerare le privatizzazioni e le internazionalizzazioni delle aziende pubbliche italiane. Un lavoro in teoria affidato alle destre economiche, come è avvenuto in Inghilterra con i laburisti, di destra, di Tony Blair. Cosa non si è capito in questo processo? Per chi ha davvero lavorato il centrosinistra italiano?
Sono gli eredi del Pci, che fin dagli anni 60-70 si era già posizionato come interlocutore privilegiato degli Usa e del grande capitale, mentre nelle piazze faceva la retorica dei lavoratori. Il centrosinistra ha ereditato il più potente partito-azienda del mondo, per cui ha subito compreso cosa si doveva fare per mantenere i legami con la grande finanza internazionale.
Ma in Italia si parla da quasi due decenni solo di Berlusconi, o con lui o contro di lui, con tutte le forze in campo per difenderlo o per farlo fuori. Lei lo ha definito “un problema biodegradabile”, lo considera un politico di serie C con un potere limitato al suo orticello.
La destra di Berlusconi è una congrega di caciaroni, affaristi da quattro soldi, improvvisati, reduci da piccoli partiti scomparsi, nani e ballerine e del “Vero Potere” non capiscono nulla.
E perché il premier non è gradito ai famosi piani alti? Chi è che davvero non lo tollera più?
È odiato dalla finanza internazionale, che ha in Italia il suo sicario in Carlo De Benedetti (e Marco Travaglio, Amato, Prodi, D’Alema eccetera). Entrò in politica col loro appoggio, quando credevano fosse un liberista puro, ma quando si rivelò disobbediente nel ’94 lo silurarono, ordinando alla Lega di uscire dal governo. Ma non avevano fatto i conti con gli italiani, che lo rieleggono sempre. Dal 2004 al 2009 tutta la stampa finanziaria internazionale maggiore lo ha demolito come “nemico del libero mercato” con una ferocia unica. Vorrà dire qualcosa, no?
Lui non ha capito gli avvisi, le sgridate. Ha continuato a fare i fattacci suoi nel suo cortiletto di casa, fregandosene degli interessi dei padroni internazionali. Il caso Alitalia ha fatto infuriare le corporate rooms europee e la sua recente lettera al G20 di Seul, dove chiede di mettere le manette alla finanza speculativa mondiale, lo ha definitivamente condannato. Non sto dicendo che Berlusconi è un bravo statista, solo che non capisce a chi deve obbedire. Prodi e D’Alema lo capirono subito, infatti negli anni ’90 fecero il record europeo delle privatizzazioni.
Salto nel passato. Tangentopoli: è contro i complottisti e le teorie del complotto in genere, ma un dubbio su quell’episodio della storia d’Italia le è venuto quando Gherardo Colombo…
Non esattamente. La coincidenza di date fra l’esplosione europea del potere dei tecnocrati neoliberisti, i fanatici delle privatizzazioni selvagge, del libero mercato senza interferenze delle leggi dello Stato eccetera e, guarda caso, la sparizione attraverso Tangentopoli di una classe politica italiana statalista e poco incline a servire gli interessi Usa, mi ha fatto sorgere domande molto tempo fa. Ne parlai dopo a Gherardo Colombo, ex del pool di Mani Pulite, ma lui non andò oltre a semplici suppposizioni.
Craxi e la vecchia classe politica italiana, brutta, sporca, cattiva e corrotta, ma statalista, non erano graditi ai piani alti. I piani alti però non li conosce nessuno, quindi è toccato a Craxi scappare. Si è trattato di un bersaglio “quasi” giusto?
Non ci sono collegamenti diretti fra la latitanza di Craxi e il potere della finanza internazionale che ha beneficiato della sparizione della Prima Repubblica. Questi ultimi probabilmente hanno ben visto le indagini come mezzo per portare in Italia una politica a loro asservita, ma Craxi scappò da ben altro.
Viene fuori che gli sforzi della società civile per cambiare le cose sono inutili, visto che gli attori sul palco, anche quelli considerati di opposizione, coprirebbero registi e personaggi principali di questa “commedia”?
In Italia abbiamo un nutrito antisistema che è composto da falsari truffatori che per ottenere fama, privilegi e denaro, stanno deviando l’attenzione di milioni di italiani su temi secondari, e anzi, uno come Travaglio attivamente promuove i valori dei poteri che ci stanno distruggendo. Questa è una vera tragedia, perché solo lo 0,2 per cento degli attivisti italiani si rende conto di cosa ci sta accadendo, della tragedia del mondo del lavoro per opera delle élite finanziarie e industriali.
Ma come? Grillo fra le altre cose si batte contro il nucleare, Travaglio parla costantemente e dettagliatamente di Mafia e la Gabanelli, che lei conosce bene per averci lavorato per anni, “resiste” su Rai 3 insieme a Santoro. Non si impegnano abbastanza?
Leggete sopra, poi aggiungo che in nessun ‘regime’, cito Travaglio, al mondo, e mai nella storia, si sono visti ‘paladini’ dell’antisistema stare in prima serata tv. Non ho detto che certe loro denunce non siano meritevli, il dramma è che nascondono cose mille volte più gravi e di cui non parlano mai. È come un ospedale che cura solo ulcere o reumatismi ma ignora tumori, infarti e coma.
Stando a quanto sostiene, mentre Roberto Saviano spiega in tv nascita ed evoluzione delle mafie in Italia, qualcuno che mafioso almeno sulla carta non è fa più danni di Riina, Buscetta, Provenzano e Schiavone? Dura da spiegare a chi ha subìto e subisce la violenza delle cosche, o no?
Fa molti, ma molti più danni. La mafia sottrae alla Sicilia un miliardo di euro all’anno di ricchezza, in due anni la crisi finanziaria ha rubato all’Italia 457 miliardi. Beh, è dura anche spiegare a uno che ha fitte bestiali da ulcera che la sigaretta che fuma lo sta ammazzando. Non dico che le denunce di Saviano non abbiano valore, dico solo che tutti veniamo indirizzati a curare l’ulcera e non il cancro.
Saviano poi è un falsario morale della peggior specie, un uomo che denuncia i 4 mila morti della Camorra in 40 anni e loda sperticatamente Israele che in un solo anno fece 19 mila morti illegalmente, che nel 2008 a Gaza ne ha fatti 1.300 in una sola azione di poche settimane. Sempre illegalmente. I morti non sono tutti uguali? I crimini non sono tutti crimini? Poi non si capisce quali rivelazioni abbia mai fatto Saviano, io non le ho viste e i napoletani che mi scrivono confermano.
Altra sua citazione. “In Italia se non sei di una parrocchia appartieni inevitabilmente a quella nemica”. Lei non vuole appartenere a nessuna delle due, ma sa bene che per certe battaglie serve visibilità. Questione amletica. Come si risolve? Esiste una cultura della “buona” visibilità?
No. L’unica è rendere protagonista ogni singolo individuo. Io ci provo senza visibilità.
I media incatenati alle esigenze dei proprietari e i giornalisti senza protezione legale per poter scrivere liberamente. Se ne uscirà? E come?
Che ciascun cittadino usi la sua testa. Non importa conoscere i dettagli dei dettagli dei dettagli, sappiamo alla nausea cosa non va, basta sapere le cose fondamentali e muoversi, agire, cose che non sappiamo più fare. Chi ha portato l’umanità dalle barbarie alla modernità lo ha saputo fare sapendo molte meno cose di noi e con mezzi primitivi. Torniamo ad agire.
Un salto in Vaticano. In percentuale quanto conta in Italia?
Poco, rispetto ai danni dei poteri di cui parlo.
Grande crimine, distruzione degli Stati e delle leggi, marginalizzazione dei cittadini, depauperamento delle forze lavoro, grandi sacche di povertà, livello di istruzione generale da abbassare fino a livelli medievali, polverizzazione di ogni concetto legato al sociale. Dove andremo a finire?
In nazioni con due terzi della popolazione che sopravvive in una forbice che va dalla ricchezza oscena a una risicata classe media in bilico, e con un terzo assolutamente alla fame come negli Usa, dove oggi 40 milioni mangiano una sola volta al giorno e altri 45 milioni devono scegliere se curarsi o mangiare. Avremo in Europa sacche enormi di lavoro pagato alla cinese e la perdita completa di ogni sevizio pubblico. A meno che non ci svegliamo e ci ribelliamo. Questo è quanto.
DOCUMENTI CORRELATI:
LEGGI E SCARICA ”IL PIU’ GRANDE CRIMINE” DI PAOLO BARNARD
http://abruzzoweb.it/contenuti/barnardil-piu-grande-crimine-il-potere-demolisce-gli-stati/15114-308/
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L’accordo Mirafiori prevede
* 20 ore di straordinario obbligatorio, come a Pomigliano,
* un sistema di turnazioni che può portare il dipendente a fare sei giorni di lavoro con 10 ore per turno
* la riduzione di giorni di malattia pagati dall’azienda, che sono tre negli altri contratti di lavoro: a Pomigliano non ne viene pagato più neanche uno, a Torino solo uno.
* la cancellazione di dieci minuti di pausa: erano 40 minuti per 8 ore di lavoro, adesso sono 30.
* La mensa: l’azienda a differenza che a Pomigliano, spostata a fine turno, a Mirafiori si sono dichiarati disponibili a tenerla all’interno del turno.
* I lavoratori firmeranno un contratto individuale con delle clausole con le quali di fatto vengono di fatto dissuasi a scioperare, altrimenti sono “sanzionabili”.
* è fuori dalle regole dell’accordo interconfederale del luglio 1993, che consente a tutti i sindacati di presentare liste e avere rappresentanti nelle Rsu se ha il 5% dei lavoratori. Ora potranno presentare liste solo i sindacati che hanno firmato l’accordo. Quindi la firma degli accordi diventa un obbligo , una costrizione, una “conditio sine qua non”
considerazioni
* I rappresentanti RSU hanno avuto mandato per firmare tutto questo
e per trattare sui diritti sindacali? O il “senza vincolo di mandato” è obbligo anche per i rappresentanti sindacali?
* Ammesso che il referendum dia la maggioranza del 51% può questa maggioranza decidere sui diritti dell’uomo e della dignità di uomini e di lavoratori?
* Può un singolo padrone decidere di uscire da accordi costruiti in tanti anni di lotte e di conquiste sindacali che son diventati diritti universali?
* E tutto questo per produrre ancora SUV , cioè merce che distrugge l’ambiente, la salute, la vita di tutti e per solo il periodo della saturazione del mercato ( 5-6 anni ancora)
* E’ questo un accordo firmato più per la sopravvivenza dei rappresentanti sindacali “firmaioli” , che un accordo nell’interesse dei lavoratori.
Zag(c) <http://vecchia-talpa.blogspot.com/>
Prelevato il 24.12.2010
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Uniti e Diversi. Parte da Bologna la sfida alla casta 21.12.2010
“Uniti e Diversi”, questa è la denominazione di un progetto politico del tutto inedito che ha preso il suo avvio a Bologna, sabato 18 dicembre, nella Facoltà di Scienze della Formazione (gc) dell’Università di Bologna.
Come chiarito nella relazione introduttiva di Maurizio Pallante, comincia un percorso che, nella intenzione dei promotori, dovrà sfociare nella creazione di un nuovo soggetto politico, del tutto esterno ai partiti esistenti, capace di proporre un governo della transizione verso una nuova società non più costruita sul consumo insensato delle risorse e sulla devastazione dell’ambiente e della stessa natura umana, del tempo vitale degli individui.
I promotori concordano sulla impossibilità pratica, materiale, di proseguire lo sviluppo nelle forme e nei modelli degli ultimi due secoli. E’ necessario promuovere, a livello di larghissime masse popolari, nuovi stili di vita, di produzione, di consumo, basati sulla solidarietà e non sulla concorrenza.
Il nuovo soggetto politico non avrà connotati di destra o di sinistra, ma si rivolgerà alla gente di ogni ceto, per costruire un percorso di pace, di difesa dei territori, di democrazia partecipata, verso una nuova convivenza umana. I promotori vogliono un’Italia fuori da ogni guerra e da ogni alleanza militare.
I promotori del percorso sono la Rete Provinciale Torinese del Movimenti e Liste di Cittadinanza (RPTMLC, comprendente il Comitato di cittadinanza attiva e Lista Civica Rivalta Sostenibile, Lista Civica Alpignano, Per il Bene Comune Piemonte, Alternativa Piemonte, ANIMO Nichelino); Maurizio Pallante (MDF Movimento Decrescita Felice); Giulietto Chiesa (Alternativa); Monia Benini (Per il Bene Comune); Massimo Fini (Movimento Zero).
L’Assemblea di Bologna è stato il quarto momento di un percorso iniziato a Torino il 16 ottobre , con una assemblea a inviti promossa da RPTMLC , cui parteciparono circa 80 invitati in qualità di rappresentanti di organizzazioni e movimenti. Due successivi incontri ristretti, a Genova e Roma, hanno consentito di elaborare un ampio documento preliminare e programmatico comune, che l’Assemblea di Bologna ha ratificato.
Hanno partecipato all’evento oltre 130 presenti (provenienti da 12 regioni), tra cui alcune decine di osservatori, individuali e di gruppo. L’Assemblea, a differenza di quella torinese e dei successivi incontri, era infatti aperta alle partecipazioni esterne. Hanno preso la parola non solo coloro che avevano già sottoscritto il documento, ma anche da numerosi osservatori a titolo individuale e a nome di gruppi e movimenti.
L’Assemblea ha avuto una prima parte di discussione suddivisa in quattro gruppi generali e una seconda parte di discussione plenaria.
Le conclusioni sono state le seguenti: è stata ratificata la nomina di un Portavoce Nazionale che parlerà a nome di tutti i soggetti aderenti, nella persona di Maurizio Pallante.
E’ stata ratificata la nomina della Segreteria Nazionale Operativa di cinque membri, composta da Mauro Marinari (RPTMLC), Fabrizio Tringali (Alternativa), Monia Benini (Per il Bene Comune), Maurizio Cossa (MDF), Siro Passino (Movimento Zero).
Nel corso dei prossimi due mesi si svolgeranno in ogni regione le assemblee unitarie aperte, ciascuna delle quali eleggerà due suoi portavoce nel Coordinamento Nazionale di Uniti e Diversi.
La Segreteria Operativa collaborerà con tutte le realtà locali aderenti per promuovere un calendario di incontri locali, alla presenza dei fondatori del progetto.
La Segreteria Operativa varerà a breve, in base alle indicazioni dell’Assemblea, un calendario di incontri seminariali e di laboratori nazionali tematici che avranno l’obiettivo di arricchire, precisare i temi del documento programmatico comune.
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DOSSIER/ QUALE FUTURO PER I GIOVANI
Gli studenti saranno manager di se stessi 24.12.2010
Cresce la richiesta di giovani laureati e specializzati
Ma dovranno gestire un’esplosione di iniziative
IRENE TINAGLI
Il 2010 non è stato un buon anno per i giovani, con la disoccupazione giovanile che ha toccato picchi del 27% e un generale clima di sfiducia tramutatosi in proteste. Tuttavia è possibile captare qualche segnale positivo che aiuti a sfruttare al meglio le opportunità, che non capitano proprio a casaccio ma – come diceva Louis Pasteur – favoriscono le menti preparate. Dunque, è bene prepararsi, a partire dagli studi.
Nonostante in questi ultimi anni in Italia si parli tanto dell’inutilità della laurea, segnali recenti ci dicono invece che abbandonare gli studi non è una scelta vincente. Nonostante l’occupazione sia ancora in calo, la domanda di lavoro altamente qualificato è in espansione. Il problema è: quali studi? In preparazione per cosa? Stando alle previsioni Unioncamere, le opportunità maggiori si concentrano sulle figure tecnico-scientifiche nei settori chimico, farmaceutico, assicurazioni e servizi finanziari, informatica e servizi avanzati alle imprese. Ma la vera opportunità e sfida per i giovani sarà soprattutto rafforzare la loro capacità economico-imprenditoriale, da affiancare a qualsiasi tipo di specializzazione, scientifica o umanistica, tecnica o artistica. La capacità di organizzare e gestire risorse, di sviluppare e realizzare nuove idee sarà sempre più cruciale, perché le organizzazioni di ogni genere hanno sempre più bisogno di persone capaci di gestire processi complessi, di catalizzare e gestire risorse.
Persino nel settore sociale, artistico e culturale le capacità economiche ed imprenditoriali sono fondamentali, perché tutto il settore sta attraversando una fase di grande trasformazione: prorompente crescita (provate ad andare a Berlino o a Londra per farvi un’idea…), ma profonda riorganizzazione, con la riduzione di forme tradizionali finanziate dal pubblico ed un’esplosione di iniziative private e innovative.
Uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi anni è la diffusione della cosiddetta «imprenditoria sociale». Organizzazioni che operano come privati, ma che si pongono obiettivi di utilità sociale, di mobilitazione civile, di solidarietà attiva. Organizzazioni che operano su scala globale come avaaz.org, la rete di mobilitazione civile che in meno di tre anni ha creato un network di oltre sei milioni di attivisti nel mondo (e una capacità di fund raising imponente), o come ashoka.org, che raccoglie fondi per supportare iniziative di imprenditoria sociale. Anche nei settori artistici e culturali così come in quelli più tradizionali legati alla manifattura e al made in Italy cresce lo spazio per organizzazioni capaci di legare nuove tendenze e tecnologie e di competere a livello internazionale.
Non bastano però buona volontà, passione civile o creatività artigiana. Sono necessarie idee solide e competenze manageriali, relazionali, informatiche, finanziarie di altissimo livello, ancora prima dell’accesso ai capitali. Nonostante i luoghi comuni, infatti, le opportunità finanziarie internazionali non sono a zero: i «venture capital» internazionali sono ripartiti dopo la fase acuta della crisi e molte banche hanno più liquidità di prima, vista la maggiore avversione al rischio e propensione al risparmio di tante famiglie in tempo di crisi. È partita quindi la caccia al prossimo grande fenomeno tecnologico e commerciale su cui scommettere. Per questo negli ultimi anni si sono moltiplicate fondazioni e iniziative volte a promuovere e supportare l’imprenditorialità a 360 gradi, da quella tecnologica a quella sociale, attraverso laboratori, incontri, incubatori, bar camp, fondi speciali e concorsi di idee. Qualche opportunità, insomma, c’è. La vera sfida però è avere buone idee e le competenze per svilupparle nel mondo iper-competitivo e globale di oggi.
Queste si sviluppano attraverso corsi e approfondimenti universitari (un numero crescente di business school europee stanno raffinando la loro offerta, ispirandosi alle università californiane tradizionalmente più attive sul fronte della formazione imprenditoriale), ma anche attraverso percorsi meno ortodossi che aiutano a legare saperi teorici e pratici, a misurarsi con sfide reali. E quindi diventano sempre più importanti viaggi, esperienze all’estero, di studio, lavoro e anche di impegno sociale. Non è un caso se negli Stati Uniti sono esplosi programmi come «Teach for America», dove i giovani laureati delle migliori università lavorano come insegnanti per due anni nelle scuole più disagiate. Lì imparano a gestire situazioni difficili e a misurare il cambiamento. È ciò di cui ci sarà molto bisogno nei prossimi anni: imparare non solo ad adeguarsi al cambiamento, ma a guidarlo, plasmarlo e girarlo a vantaggio della società, unendo tecnologia e umanesimo, efficienza e solidarietà.
Un bisogno particolarmente urgente nel nostro Paese, dove l’unione tra le grandi tradizioni artigiane, creative e solidaristiche con le nuove tecnologie, competenze e prospettive internazionali potrebbe aprire scenari di crescita. Tirare fuori la grinta e la vena imprenditoriale non sarà facile per i giovani italiani, schiacciati da un sistema formativo ancora convinto di dover sfornare grandi pensatori o eccellenti funzionari, e da famiglie formatesi negli Anni Settanta e Ottanta, in piena espansione del settore pubblico, abituate al posto fisso e avverse al rischio. Riuscire a smarcarsi dall’influenza dei «grandi vecchi» sarà per loro l’unico modo per dispiegare energie e aprire nuove strade.
Ripresa e declino È l’America nuova
Decolla l’ottimismo nei Paesi emergenti
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201012articoli/61719girata.asp
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Buon lavoro 23.12.2010
Massimo Gramellini
Un artigiano veneto di quarant’anni, oppresso dai debiti, irrompe in una tabaccheria di Forte Marghera agitando la pistola. «Dammi i soldi!», intima al proprietario. Ma prima che l’altro possa aprire la cassa, il rapinatore scuote la testa: «Cosa sto facendo?». Esce dal negozio, monta in bicicletta e va a costituirsi al commissariato. Dove giustamente lo arrestano, perché così prevede la legge. Io, stupidamente, lo avrei un po’ abbracciato. È che è raro trovare dei galantuomini, ma ancor più raro è trovare degli uomini: gente disposta a non prendere le distanze dai propri errori, persino quando, come in questo caso, sono stati soltanto abbozzati.
Più o meno alla stessa ora, in una scuola di Torino va in scena il classico spettacolo di Natale alla presenza delle famiglie. Ogni bambino sale sul palco ed esprime un desiderio per l’anno nuovo. Il primo dice: «Vorrei essere più bravo coi nonni». Il secondo: «Vorrei un certo videogioco». Il terzo: «Vorrei ci fosse ancora il lavoro per mamma e papà».
Nella sala scende il gelo, la realtà è una pasta abrasiva e certe cose non si confessano neanche in tv. Un amico presente alla scena commenta: è un mondo al contrario, quello in cui sono i figli a desiderare un posto per i genitori, ma forse l’unica speranza che resta, a questo mondo, è proprio un bambino che al futuro non chiede un giocattolo ma un lavoro per mamma e papà.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41
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Hiv, un’arma arriva dall’organismo 22.12.2010
Al link la videointervista
Un possibile trattamento contro l’Hiv basato su un composto prodotto naturalmente dall’organismo umano. Lo hanno identificato e lo stanno sperimentando i ricercatori dell’Istituto di Virologia molecolare dell’Ospedale Universitario di Ulm e della Università Medica di Hannover, in Germania, guidati da Frank Kirchhoff.
Come riportato sulle pagine di Science Transaltional Medicine, si chiama VIR-576 ed è in grado di bloccare uno dei primi stadi dell’infezione, chiamato fusione dei peptidi, nel quale il virus fonde la sua membrana con quella della cellula ospite. È la prima volta che viene identificato un composto naturalmente presente nel corpo umano efficace nel contrastare l’Hiv; inoltre si tratta della prima evidenza a favore della teoria secondo la quale inibire la fusione dei peptidi può mettere in stand by la replicazione del virus nell’organismo.
Nel 2007, Kirchhoff aveva tenuto una conferenza a Boston sul composto, e i suoi studi avevano già avuto una forte risonanza tra la comunità di ricercatori che si occupano di HIV. Si aspettava con ansia la sua applicabilità farmacologica, ed è arrivata in fretta.
Nelle primissime fasi della sperimentazione, 18 pazienti sieropositivi sono stati trattati per dieci giorni con tre diverse dosi del nuovo composto. Sono state somministrate loro anche le normali terapie, ma il VIR-576 è stato il primo farmaco antiretrovirale da loro assunto. Secondo i risultati dello studio, il composto ha ridotto la carica virale del 95 per cento in quei pazienti ai quali era stata stata somministrata la dose più alta.
Ovviamente sono dati in vivo preliminari e da prendere con le pinze. Però, per un piccolo numero di pazienti con virus multi-resistente, rappresenta una speranza concreta per il futuro.
Il difetto principale del VIR-576 è che deve essere iniettato ed è quindi scomodo da usare autonomamente; soprattutto è molto costoso. Per questo motivo gli scienziati stanno cercando molecole più piccole che agiscano allo stesso modo, ma che siano più economiche e somministrabili per via orale.
Infine, secondo gli stessi autori, i risultati dello studio suggeriscono che, poiché la fusione dei peptidi è un meccanismo usato da molti altri virus – compresi quelli dell’influenza, delle epatiti B e C, della rosolia, degli orecchioni, dell’Ebola e della SARS – sarebbe possibile sviluppare inibitori simili al VIR-576 efficaci contro questi microrganismi.
Riferimenti: Science Translational Medicine
http://www.galileonet.it/articles/4d10969972b7ab6134000007
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Rinnovabili: la microgenerazione al centro del nuovo programma del Regno Unito 24.12.2010
Francesca Mancuso
Novità nel Regno Unito in materia di rinnovabili. Il ministero dell’Energia e del cambiamento climatico ha di recente annunciato l’avvio di un programma di promozione della microgenerazione diffusa di energia.
L’interesse della Gran Bretagna per l’energia pulita è sempre più in crescita. Dall’eolico offshore dove primeggia, il Paese è uno di quelli che si sta impegnando di più per diminuire le emissioni e allo stesso tempo garantire forniture energetiche sicure.
Le nuove tecnologie che il ministero intende promuovere riguardano impianti fino ad una potenza di 50 kw elettrici e 300 kw termici, riguardanti pompe di calore innovative, fotovoltaico, solare termico, biomassa, microgenerazione in generale ed eolica in particolare, mini-idro, celle a combustibile, recupero del calore dai fumi.
Ma non solo. La strategia promossa a favore dell’ambiente riguarderà anche la diffusione di contatori intelligenti, lo sviluppo di un programma nazionale per l’efficienza energetica e la produzione diffusa di energia ottenuta da impianti di piccole dimensioni. Obiettivi che, secondo il ministro dell’Energia e del cambiamento climatico, Greg Barker, saranno fondamentali per il raggiungimento della riduzione dei consumi energetici e il costo delle bollette a carico dei consumatori.
“Vogliamo piantare i semi – ha dichiarato Barker – per veder fiorire la piccola generazione nelle case, nelle aziende e nelle comunità“. Continua: “Abbiamo già promesso sostegni finanziari per incoraggiare la gente ad installare pannelli solari e pompe di calore. La consultazione varata di oggi dovrà servire a dare a dare all’industria e ai consumatori la fiducia necessaria ad investire“.
Francesca Mancuso
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Sarò sintetico
quasi telegrafico. Molte cose da dire poco tempo.
1. Uno sguardo al panorama alla fine del primo decennio. La speranza Obama si dissolve, e scoppia la crisi europea. Una nuova logica si istalla al cuore della vita europea, a partire dalla crisi finanziaria greca: Merkel Sarkozy e Trichet hanno deciso che la società europea deve sacrificare il suo attuale livello di vita, il sistema della scuola pubblica, la sua civiltà, per poter pagare i debiti accumulati dall’elite finanziaria. Una sorta di direttorio si è impadronito dell’Unione riaffermando i dogma fallimentari del monetarismo neoliberista: riduzione del costo del lavoro, tagli nella spesa sociale, privatizzazione della scuola, impoverimento della vita quotidiana. Proiettando l’ombra di una recessione di lungo periodo sul futuro dell’ultima generazione, l’Europa è divenuta un ricatto. Se l’orizzonte pare scuro, però, accadono eventi imprevedibili, inquietanti ed entusiasmanti al tempo stesso, sulla scena europea. Vedo i cavalieri dell’apocalisse e mi piace il rumore dei cavalli al galoppo.
2. Wikileaks ha mostrato la potenza dell’intelligenza collettiva. L’evento orchestrato da Assange è lo sprigionamento della forza creativa dell’intelletto generale. La lezione di Wikileaks non sta tanto nei contenuti rivelati, – già sapevamo che i diplomatici son pagati per mentire, e che i militari son pagati per sparare sui civili – quanto nell’attivazione di solidarietà, complicità e collaborazione indipendente tra cognitari, lavoratori cognitivi di vario tipo, tecnici dell’hardware, programmatori, giornalisti che lavorano insieme condividendo lo stesso scopo di destabilizzare il potere totalitario. Da questa lezione i nuovi ribelli troveranno la strada verso l’autorganizzazione dell’intelletto generale.
3. L’intelletto generale cerca un corpo
La rivolta si diffonde nelle strade d’Europa da Londra a Roma ad Atene, ma la strada non è il solo linguaggio di questo movimento. Cos’è in gioco nelle rivolta di massa di dicembre? I ribelli sanno bene che non si sta preparando una lotta militare contro la polizia e lo stato. Non gli interessa molto della polizia e dello stato. Quel che stanno cercando è una ricomposizione del corpo sociale e una riattivazione del corpo erotico dell’intelletto generale. Negli ultimi dieci anni la precarizzazione, l’isolamento e la competizione del mercato del lavoro hanno provocato una dissociazione dell’intelligenza collettiva in rete dal corpo sociale del lavoro ccognitivo. L’accelerazione dell’Infosfera (intensificazione del ritmo di sfruttamento cognitivo) ha messo in tensione la psicosfera sociale, provocando solitudine, panico, depressione, dis-empatia. Oggi nelle strade il cognitariato sta cercando un ritmo dell’empatia. La sensibilità e il desiderio vogliono riprendere il loro flusso. La prima generazione che ha imparato più parole da una macchina che dalla madre ricompone il suo corpo nelle strade.
4. Un processo di lungo periodo
Le lotte studentesche non sono un’esplosione passeggera, ma l’inizio di un processo di lungo periodo che segnerà il prossimo decennio, una sorta di insurrezione europea. Insurrezione significa alzarsi in piedi, ma anche pieno dispiegamento delle potenzialità dell’attore. L’attore che entra sulla scena storica è l’intelletto generale in soggettivazione. Il pieno dispiegamento delle potenzialità dell’intelletto generale si spinge molto al di là dei limiti del capitalismo, e implica una riattivazione della sensibilità. La sensibilità, facoltà di comprendere quel che non può essere verbalizzato, è stata devastata dalla precarizzazione e dalla frattalizzazione del tempo.
Per la riattivazione della sensibilità arte e terapia e azione politica tendono a fondersi.
Prozac, Ritalin, cocaina e competizione hanno prodotto effetti bipolari nell’economia: esuberanza irrazionale dei mercati, panico finanziario… e anche nella psicosfera sociale: depressione di massa, crisi di panico, epidemia suicidaria. La terapia è stata ridotta a riadattamento della mente depressa alla normalità dello sfruttamento mentale.
5. La fusione di arte e attivismo ha accentuato l’ineffettualità del gesto. Il movimento no global del decennio passato era un movimento puramente etico, privo di effetti politici, incapace di fermare le tendenze della deregulation capitalista, perché non entrava nella sfera della vita quotidiana, si limitava alla denuncia etica e all’azione simbolica. L’art-ivismo ha interiorizzato l’ineffettualità e la trasformazione dell’azione in pura denuncia.
Al suo meglio, l’arte del passato decennio è stata fenomenologia della sofferenza mentale. Penso ad artisti come Lisa Athila, Jonathan Franzen. Melinda July, Gus Van Sant, Kim ki Duk, che mettono in scena il corpo sociale frammentato e la frenetica percezione del tempo indotta dalla precarietà.
La sofferenza psichica è il campo principale di contatto tra arte e azione sociale, nel momento in cui l’intelletto generale si mette a cercare corpo. I ribelli di oggi stanno mettendo in opera un’azione poetica e auto-terapeutica. Stanno ricomponendo l’empatia dei corpi, ridiscoprendo una sfera comune di sensibilità.
6. Il cinismo è finito. Al cuore dell’insurrezione attuale c’è una forte motivazione etica. Nonpenso ad un’etica fondata su “valori”, che non so cosa siano. Penso all’etica in termini materialisti, edonisti e sensuali, come rispetto di sé e come amor di sé. La sfera concettuale dell’estetica deve ridefinire la sfera etica.
Il cinismo di massa, che secondo Sloterdjik era il sentimento prevalente del dopo-68, è fuori corso, perché non paga più. Le masse accettavano la tristezza del cinismo e dell’auto-sottomissione alle regole umilianti del potere, quando ciò garantiva reddito. Ma oggi il cinismo è appannaggio della sola classe dominante, e filtra sempre meno nella cultura di massa. La classe cinica ha perduto il suo glamour. Brutti, disgustosi, ripugnanti sono coloro che stanno ai posti di comando della finanza, della politica dell’economia, dal punto di vista della nuova generazione. E’ un giudizio estetico, prima di tutto. La scelta etica è fondata sul piacere di sé, non su valori universali, ma sul piacere della singolarità. Un’altra percezione della ricchezza, come godimento di sé e non come acquisizione, va facendosi strada nella sensibilità ancor prima che nella consapevolezza.
7. Dopo l’Europa
La patologia finanziaria ha devastato il corpo e l’anima della società europea, così ora l’Europa è uno zombie. Il movimento del lavoro cognitivo insorgente si assume il compito di inventare una nuova Europa, emancipata dai dogmi della competizione e dell’accumulazione. L’Europa rinascerà grazie all’emergere del corpo sociale ed erotico dell’intelletto generale, grazie all’insurrezione dell’intelligenza sensuale del movimento. Europa potrà essere allora un luogo di solidarietà e di bellezza.
19 dicembre 2010
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Marchionne, Usa 26.12.2010
Da gmagius@gmail.com per neurogreen@liste.comodino.org
(da un altra lista)
(…) cosa Marchionne, con i soldi di Obama, sta facendo a Detroit (Chrysler). Per lo più operai bianchi. I negri sono scappati da tempo. Detroit è una forma di delocalizzazione. Aveva quasi due milioni di abitanti nel 1950, ne ha novecentomila oggi. Anche lì Marchionne ha imposto coi soldi di Obama (che ripagheremo noi italiani… Obama è stronzo ma non scemo) una newco che fa scendere la paga oraria da 36 a 16 dollari l’ora. Eliminando l’assistenza sanitaria (che se passasse la riforma Obama gli operai saranno costretti a pagarsi sul mercato privato) e la copertura pensionistica. Lì i sindacati già erano spariti, ma Marchionne è riuscito ad imporre tra l’altro che per la produttività gli operai non possono bere birra a pranzo. Già 4 sono stati licenziati per averlo fatto. Sotto molti punti di vista il trattamento degli operai USA made in Marchionne è peggiore di quelli italiani.
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Se il binario produce elettricità 12.2010
Innowattech, azienda emergente israeliana, si è già guadagnata fama internazionale per la sua capacità di utilizzare energia che solitamente viene sprecata, grazie alla progettazione e sperimentazione di piastre piezo-elettriche, denominate IPEG PAD, da inserire sotto il manto stradale per catturare energia dal transito dei veicoli.
I primi risultati ottenuti qualche tempo fa sono lusinghieri: pare che un km di sola corsia di autostrada possa infatti fornire fino a 100kW di elettricità, sufficiente a dare energia a circa 40 case. Il condizionale è d’obbligo però, dal momento che questa tecnologia può raccogliere un’elevata quantità di energia solo da strade molto trafficate e può risultare problematico il posizionamento dei generatori sotto grandi tratti di strada.
Più promettente è sicuramente il nuovo progetto di Innowattech, avviato con la Technion University e l’Israel Railway Company: il traffico ferroviario è maggiormente controllabile e la frequenza delle sollecitazioni dovute al passaggio dei treni è più regolare per poter valutare i tratti dove è più opportuno catturare energia. Innowattech ha quindi deposto 32 IPEG PAD sui binari di alcuni tratti ferroviari per raccogliere le sollecitazioni meccaniche e convertirle in energia elettrica.
I primi risultati elaborati indicano che le aree soggette al passaggio di 10-20 treni l’ora sarebbero in grado di produrre fino 120 kWh nello stesso lasso di tempo. Questa elettricità potrebbe quindi essere utilizzata dallo stesso convoglio o per alimentare la segnaletica, misurare la velocità e il peso dei treni oppure per essere ceduta alla rete elettrica.
Fonte: www.innowattech.co.il
http://www.scienzaegoverno.org/n/094/094_01.htm
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Decrescere o morire? 27.12.2010
di John Bellamy Foster *
Nel paragrafo introduttivo del suo libro del 2009 Storms of My Grandchildren, James Hansen, principale climatologo USA e massima autorità scientifica mondiale sul cambiamento climatico, ha dichiarato: ‘Il Pianeta Terra, il creato, il mondo in cui la civiltà si è sviluppata, il mondo con i modelli climatici che conosciamo e linee costiere stabili, è in imminente pericolo… La sorprendente conclusione è che il prolungato sfruttamento di tutti i carburanti fossili sulla Terra minaccia non solo gli altri milioni di specie sul pianeta ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa -e i tempi sono più brevi di quanto crediamo’.
Facendo questa dichiarazione, comunque, Hansen stava parlando solo di una parte della crisi ambientale globale che attualmente minaccia il pianeta: precisamente la crisi climatica. Di recente, scienziati di primo piano (compreso Hansen) hanno proposto nove punti-limite planetari, che demarcano lo spazio operativo sicuro per il pianeta. Tre di questi punti-limite (cambiamento climatico, biodiversità e ciclo nitrogeno) sono già stati oltrepassati, mentre altri, come la disponibilità di acqua pulita e l’acidificazione degli oceani, sono falle planetarie emergenti. In termini ecologici, l’economia è ormai cresciuta a una dimensione e un’invasività tali che sta sia travolgendo i punti-limite planetari che facendo a pezzi i cicli biogeochimici del pianeta.
Quindi, quasi quarant’anni dopo che il Club di Roma ha sollevato il tema dei ‘limiti alla crescita’, la crescita economica idolatrata dalla moderna società sta nuovamente affrontando una sfida formidabile. Quella che è nota come ‘economia della decrescita’, associata in particolare con il lavoro di Serge Latouche, è emersa come un’importante movimento intellettuale europeo con la storica conferenza su ‘decrescita economica per la sostenibilità ecologica e l’equità sociale’ a Parigi nel 2008, e ha da allora ispirato una rinascita del pensiero verde radicale, così come si è articolato nella ‘Dichiarazione sulla Decrescita’ a Barcellona nel 2010.
Ironicamente la rapida ascesa della decrescita (décroissance in francese) come teoria ha coinciso negli ultimi tre anni con la ricomparsa della crisi economica e della stagnazione, che in queste dimensioni non si vedevano dagli anni ‘30. La teoria della decrescita ci obbliga perciò a chiederci se la decrescita è praticabile nella società capitalista “crescere o morire”, e se non lo è, cosa ci dice sulla transizione a una società nuova.
Secondo il sito web del progetto europeo per la decrescita (www.degrowth.eu), ‘La decrescita comporta l’idea di una volontaria riduzione delle dimensioni del sistema economico, che implica una riduzione del PIL’. ‘Volontaria’ qui mette l’accento su soluzioni volontaristiche, anche se non individualistiche e improvvisate nella concezione europea come nel caso del movimento per la ‘sobrietà volontaria’ negli USA, dove gli individui, (di solito agiati) scelgono semplicemente di uscire dal modello di mercato ad alti consumi. Per Latouche il concetto di decrescita implica un importante cambiamento sociale: un passaggio radicale dalla crescita come obiettivo principale dell’economia moderna al suo opposto (contrazione, riduzione).
Falsa promessa
Una premessa fondamentale di questo movimento è che di fronte all’emergenza economica planetaria la promessa della tecnologia verde si è dimostrata falsa. Questo si può attribuire al ‘paradosso di Jevons’, secondo il quale una maggiore efficienza nell’uso dell’energia e delle risorse non porta alla conservazione ma ad una maggiore crescita economica, e quindi a una maggior pressione sull’ambiente.
L’inevitabile conclusione -condivisa da un’ampia schiera di pensatori politico-economici e ambientali, non solo quelli collegati direttamente al progetto europeo per la decrescita- è che ci vuole un drastico cambiamento nelle tendenze economiche in atto a partire dalla rivoluzione industriale. Come l’economista marxista Paul Sweezy scriveva più di vent’anni fa: ‘Dal momento che non c’è modo di aumentare la capacità dell’ambiente di sopportare il carico [economico e demografico] che gli viene imposto, ne consegue che la correzione dev’essere operata interamente sull’altro lato dell’equazione. E visto che lo squilibrio ha già raggiunto proporzioni pericolose, ne consegue inoltre che per raggiungere l’obiettivo ciò che è essenziale è un’inversione di rotta, non solo un rallentamento, delle tendenze fondamentali degli ultimi secoli’.
Dato che i Paesi ricchi sono già caratterizzati dal sovraccarico ecologico, appare sempre più evidente che non c’è alternativa, come sottolineava Sweezy, a un’inversione di tendenza alle pressioni sull’ambiente da parte dell’economia. Questo è rafforzato dagli argomenti dell’economista ecologico Herman Daly, che insiste da molto tempo sul bisogno di un’economia a crescita zero. Daly traccia la sua prospettiva a partire dalla famosa discussione di John Stuart Mill sullo ‘stato stazionario’ nei suoi Principi di Economia Politica, dove sosteneva che se l’espansione economica si fosse arrestata (come si aspettavano gli economisti classici), lo scopo economico della società avrebbe potuto essere deviato verso gli aspetti qualitativi dell’esistenza, piuttosto che su un’espansione meramente quantitativa.
Un secolo dopo Mill, Lewis Mumford insisteva nel suo Condition of Man, pubblicato per la prima volta nel 1944, che non solo c’era uno stato stazionario, nel senso in cui lo intendeva Mill, ecologicamente necessario, ma che questo doveva essere legato a una concezione di ‘comunismo elementare… applicando all’intera comunità i criteri della famiglia’ e distribuendo ‘le risorse sulla base del bisogno’ (una visione mutuata da Marx).
Oggi si pensa che questo ricorso al bisogno per fermare la crescita economica nelle economie sovrasviluppate, e anche per restringere queste economie, abbia le sue radici teoriche in The Entropy Law and the Economic Process [La Legge dell’Entropia e il Processo economico] di Nicholas Georgescu-Roegen, che mise le basi della moderna ecologia sociale.
La decrescita come tale non viene vista neppure dai suoi proponenti come una soluzione stabile, ma come uno strumento per ridurre le dimensioni dell’economia a un livello di output che possa essere mantenuto indefinitamente in uno stato stazionario. Questo può comportare la restrizione delle economie ricche di almeno un terzo rispetto ai livelli attuali tramite un processo che porterebbe a investimenti negativi (per cui non solo cesserebbe l’investimento netto ma neanche tutto il capitale sociale esaurito verrebbe rimpiazzato).
Un’economia a stato stazionario, invece, comporterebbe il rinnovo degli investimenti ma azzererebbe il nuovo investimento netto. Come spiega Daly ‘un’economia a stato stazionario’ è ‘un’economia con stock costanti di risorse umane e mezzi di produzione, mantenuti ai livelli sufficienti che si desiderano tramite un basso tasso di “prestazioni” di manutenzione, cioè tramite i flussi più bassi possibile di materia ed energia’.
Viziato da contraddizioni
È superfluo dire che nessuna di queste cose potrebbe facilmente realizzarsi nell’ambito dell’esistenza dell’attuale economia capitalista. In particolare il lavoro di Latouche, che può essere considerato esemplare del progetto europeo per la decrescita, è viziato da contraddizioni, che derivano non dalla concezione della decrescita in sé, ma dal suo tentativo di svicolare dalla questione del capitalismo. Questo si può notare nel suo articolo del 2006, The Globe Downshifted, dove argomenta in modo contorto:
‘Per alcuni nell’estrema sinistra la risposta tipica è che il capitalismo è il problema, cosa che ci lascia nell’ansia impotente di muoverci verso una società migliore. La contrazione economica è compatibile con il capitalismo? Questa è una domanda chiave, ma una domanda a cui è importante rispondere senza ricorrere a dogmi, se si vogliono capire i veri ostacoli…
‘Il capitalismo eco-compatibile è concepibile in teoria, ma irrealistico nella pratica. Il capitalismo richiederebbe un alto livello di regolazione per gestire la riduzione del nostro impatto ecologico. Il sistema di mercato, dominato dalle enormi corporazioni multinazionali, non si adatterà mai di sua spontanea volontà al modello virtuoso dell’eco-capitalismo…
‘I meccanismi di contrappeso tra i poteri, così come sono esistiti nella regolazione keynesiana-fordista dell’era socialdemocratica, sono concepibili e desiderabili. Ma la lotta di classe sembra essersi interrotta. Il problema è: il capitale ha vinto…
‘Una società basata sulla contrazione economica non può esistere sotto il capitalismo. Ma il capitalismo è una parola di una semplicità ingannevole per una storia lunga e complessa. Liberarsi dei capitalisti e mettere al bando il lavoro salariato, la moneta e la proprietà privata dei mezzi di produzione farebbe sprofondare la società nel caos. Porterebbe il terrorismo su grande scala… Abbiamo bisogno di trovare un’altra via d’uscita dallo sviluppo, dall’economicismo (come convinzione della supremazia delle cause e dei fattori economici) e dalla crescita: che non significhi abbandonare le istituzioni sociali che sono state annesse dall’economia (moneta, mercati, anche i salari) ma inserirle in una nuova cornice secondo differenti principi’.
In questo stile apparentemente pragmatico, non-dogmatico, Latouche cerca di tracciare una distinzione tra il progetto della decrescita e la critica socialista del capitalismo: (1) dichiarando che ‘il socialismo eco-compatibile è concepibile’, almeno in teoria; (2) dicendo che gli approcci keynesiani e cosiddetti ‘fordisti’ alla regolazione, associati alla socialdemocrazia, potrebbero -se ancora praticabili- addomesticare il capitalismo, ricacciandolo sul ‘virtuoso sentiero dell’eco-capitalismo’; e (3) insistendo sul fatto che la decrescita non ha lo scopo di rompere la dialettica capitale-lavoro salariato o interferire con la proprietà privata dei mezzi di produzione. In altri scritti, Latouche chiarisce che consideraa il progetto della decrescita compatibile con la continuità della valorizzazione (per es. un aumento dei rapporti di valore capitalistici) e che nulla di ciò che va verso l’eguaglianza sostanziale è considerato fuori portata.
Ciò che Latouche sostiene più esplicitamente in relazione al problema ambientale è l’adozione a ciò che definisce ‘misure riformiste, i cui principi [di economia dello stato sociale] sono stati tracciati all’inizio del XX secolo dall’economista liberale Arthur Cecil Pigou [e] porterebbero a una rivoluzione’ internalizzando le esteriorità ambientali dell’economia capitalista. Ironicamente, la sua posizione è identica a quella dell’economia ambientale neoclassica e diversa dalla più radicale critica spesso sostenuta dall’economia ambientale, nella quale viene duramente attaccata l’idea che i costi ambientali possano essere semplicemente internalizzati nell’attuale economia capitalista.
Implicazioni di classe
‘La stessa crisi ecologica è descritta’ nell’attuale progetto per la decrescita, come ha osservato criticamente il filosofo greco Takis Fotopoulos, ‘nei termini di un problema comune che “l’umanità” affronta a causa del degrado ambientale, senza citare per niente le diverse implicazioni di classe di questa crisi, per es. il fatto che le implicazioni sociali della crisi ecologica sono pagate soprattutto in termini di distruzioni di vite e qualità della vita dai gruppi sociali inferiori -in Bangladesh come a New Orleans- e molto meno da parte delle élites e delle classi medie’.
Dato che si prende a bersaglio il concetto astratto della crescita economica piuttosto che la realtà concreta dell’accumulazione capitalistica, la teoria della decrescita -nell’influente forma articolata da Latouche e altri- trova naturalmente difficile affrontare l’odierna realtà di crisi economica/stagnazione, che ha prodotto i più alti livelli di disoccupazione e devastazione economica dagli anni ’30 ad oggi.
Latouche stesso ha scritto nel 2003 che ‘non ci sarebbe niente di peggio di una crescita economica senza crescita’. Ma di fronte ad un’economia capitalista chiusa in una profonda crisi strutturale, gli analisti europei della decrescita hanno poco da dire. La Dichiarazione sulla Decrescita, scritta a Barcellona nel Marzo 2010, diceva semplicemente: ‘Le cosiddette misure anti-crisi che cercano di stimolare la crescita economica, a lunga scadenza peggioreranno le disuguaglianze e la situazione ambientale’. Senza aspirare né a difendere la crescita, né a rompere con le istituzioni del capitale -neanche, quindi, a schierarsi con i lavoratori, il cui bisogno più grande oggi è l’occupazione- i principali teorici della decrescita rimangono stranamente silenziosi di fronte alla più grande crisi economica dopo la Grande Depressione.
A conferma di questo, di fronte all’‘attuale decrescita’ nella Grande Recessione del 2008-2009 e al bisogno di una transizione alla ‘decrescita sostenibile’, la nota economista ecologica Joan Martinez-Alier, che ha di recente abbracciato la bandiera della decrescita, ha offerto il palliativo di ‘un keynesianesimo verde di breve termine o un new deal verde’. Lo scopo, ha dichiarato, era quello di promuovere una crescita economica e ‘contenere l’aumento della disoccupazione’ tramite l’investimento pubblico in tecnologia verde e infrastrutture.
Questo è stato considerato compatibile con il progetto della decrescita in quanto questo keynesianesimo verde ‘non diventava una dottrina della crescita economica continua’. Ma come i lavoratori potessero collocarsi in questa strategia largamente tecnologica (fondata sulle idee di efficienza energetica che gli analisti della decrescita generalmente rifiutano) rimaneva incerto.
Infatti, piuttosto che affrontare direttamente il problema della disoccupazione -con un programma radicale che darebbe alla gente posti di lavoro diretti alla creazione di genuini valori d’uso in modi compatibili con una società più sostenibile- i teorici della decrescita preferiscono enfatizzare un orario di lavoro ridotto che separi ‘il diritto a ricevere una remunerazione dal fatto di essere occupato’ (attraverso la promozione di un reddito universale di base). Si pensa che questi cambiamenti dovrebbero permettere al sistema economico di restringersi e allo stesso tempo garantire un reddito alle famiglie -mantenendo nel frattempo intatta la struttura basilare dell’accumulazione del capitale e del mercato.
Ma guardando da un punto di vista più critico è difficile considerare l’attuazione di un orario di lavoro ridotto e di un reddito di base garantiti nelle dimensioni ipotizzate se non come elementi di una transizione a una società post-capitalista (quindi socialista). Come diceva Marx, la regola per il capitale è: ‘Accumulare, accumulare! Così dicono Mosé e i profeti!’
Per rompere con le basi istituzionali della ‘legge del valore’ del capitalismo o mettere in discussione la struttura basilare su cui si fonda lo sfruttamento del lavoro (che sarebbero entrambe minacciate da una drastica riduzione dell’orario di lavoro e da un reddito sostanziale garantito) si devono affrontare questioni più ampie di cambiamento di sistema -cosa di cui i principali teorici della decrescita non sembrano disponibili a rendersi conto per il momento. Inoltre un approccio significativo alla creazione di una nuova società dovrebbe assicurare non solo reddito e tempo libero, ma provvedere anche al bisogno umano di un lavoro utile, creativo e non alienato.
Decrescita e Sud
Ancora più problematico è l’atteggiamento dell’attuale teoria sulla decrescita verso il Sud globale. ‘La decrescita’, scrive Latouche, ‘deve applicarsi al Sud quanto al Nord se vogliamo che vi sia la possibilità di impedire alle società del Sud di percorrere il vicolo cieco dell’economia della crescita. Finché siamo in tempo, non dovrebbero puntare sullo sviluppo ma sull’uscita dal meccanismo -rimuovendo gli ostacoli che gli impediscono di svilupparsi in modo diverso… I Paesi del Sud hanno bisogno di uscire dalla loro dipendenza economica e culturale dal Nord e riscoprire le loro proprie storie’.
Mancando di un’adeguata teoria dell’imperialismo, e non riuscendo ad affrontare il profondo abisso di disuguaglianza che separa le nazioni più ricche da quelle più povere, Latouche allora riduce l’immensa complessità del problema del sottosviluppo a un fatto di autonomia culturale e soggezione al feticcio occidentalizzato della crescita.
Si può fare un confronto tra questo e la risposta molto più ragionata di Herman Daly, che scrive: ‘È un’assoluta perdita di tempo predicare moralisticamente le dottrine sullo stato stazionario ai Paesi sottosviluppati prima che i Paesi sovrasviluppati abbiano preso provvedimenti per ridurre la loro stessa crescita demografica o la crescita del loro consumo procapite di risorse. Quindi il paradigma dello stato stazionario dev’essere prima essere applicato neli Paesi sovrasviluppati… Una delle maggiori forze necessarie a spingere i Paesi sovrasviluppati verso il… paradigma dello stato stazionario dev’essere l’attacco del terzo mondo al loro sovraconsumo… Il punto di partenza nell’economia dello sviluppo dovrebbe essere il “teorema dell’impossibilità”… che uno stile di vita USA con un’economia ad alto consumo di massa per un mondo di quattro miliardi di persone [la cifra era questa nel 1975] è impossibile, e anche se si ottenesse qualche miracolo, questo avrebbe certamente vita breve.’
La nozione che la decrescita come concezione possa essere applicata essenzialmente allo stesso modo sia ai Paesi ricchi del centro che ai Paesi poveri della periferia rappresenta un errore tipico causato dalla semplice imposizione di un’astrazione (la decrescita) a un contesto nel quale è sostanzialmente privo di significato, come ad Haiti, nel Mali, o per molti versi anche in India. Il vero problema nella periferia globale è quello di superare i legami imperiali, trasformare l’esistente modo di produzione e creare possibilità produttive ugualitarie-sostenibili.
È chiaro che molti Paesi del Sud con redditi procapite molto bassi non possono permettersi la decrescita ma hanno bisogno di un tipo di sviluppo sostenibile, diretto ai bisogni reali come l’accesso all’acqua, al cibo, all’assistenza sanitaria, all’educazione, ecc. Questo richiede che nella struttura sociale ci si allontani radicalmente dai rapporti di produzione del capitalismo/imperialismo. È significativo che negli articoli largamente diffusi di Latouche non vi sia praticamente nessuna citazione di quei Paesi, come Cuba, Venezuela e Bolivia, dove sono in corso lotte concrete per spostare le priorità sociali dal profitto ai bisogni sociali. Cuba, come ha indicato il Living Planet Report, è il solo Paese del mondo che ha un alto sviluppo umano e un impatto ecologico sostenibile.
Co-rivoluzione
È innegabile che oggi la crescita economica sia il principale fattore del degrado ambientale planetario. Ma incentrare la propria intera analisi sul rovesciamento di un’astratta ‘società della crescita’ significa perdere ogni prospettiva storica e buttar via secoli di scienza sociale. Il valore in termini ecologici della concezione della decrescita è solo quello di apportare un genuino significato come parte di una critica dell’accumulazione capitalistica, e parte della transizione a un ordinamento sostenibile, egualitario, comunitario, -nel quale i produttori associati governino la relazione metabolica tra la natura e la società nell’interesse delle generazioni successive e della Terra stessa (socialismo/comunismo così come Marx lo definiva).
Quello di cui si ha bisogno è un ‘movimento co-rivoluzionario’, per usare il pregnante termine di David Harvey, che metterà insieme la critica tradizionale al capitale della classe lavoratrice, la critica dell’imperialismo, le critiche del patriarcato e del razzismo, e la critica della crescita ecologicamente distruttiva (insieme ai relativi movimenti di massa).
Nella crisi generalizzata dei nostri tempi, un movimento così ampio, co-rivoluzionario, è concepibile. Qui l’obiettivo sarebbe la creazione di un nuovo ordine nel quale la valorizzazione del capitale non governerebbe più la società.
‘Il socialismo è utile’, scriveva E F Schumacher in Piccolo è Bello, proprio per la ‘possibilità che crea per il superamento della religione dell’economia’, cioè, ‘la moderna tendenza verso la quantificazione totale a spese dell’apprezzamento delle differenze qualitative’. In un ordinamento sostenibile, le persone delle economie più ricche (specialmente quelle degli strati più alti) dovrebbero imparare a vivere con ‘meno’ in termini di prodotti per abbassare il peso procapite sull’ambiente. Allo stesso tempo, la soddisfazione dei genuini bisogni umani e la richiesta di una sostenibilità ecologica potrebbero diventare i principi costitutivi di un nuovo ordine più comunitario mirato alla reciprocità umana, che consenta lo sviluppo qualitativo, e anche la pienezza.
Questa strategia può assicurare alla gente un lavoro che abbia un valore, non dominato dal cieco produttivismo. La lotta ecologica, intesa in questi termini, deve puntare non solo alla decrescita in astratto ma più concretamente alla dis/accumulazione -nel senso di un processo di uscita da un sistema alimentato dall’accumulazione senza fine di capitale. Al suo posto dovrebbe mettere una nuova società co-rivoluzionaria, dedicata ai bisogni comuni dell’umanità e della Terra.
* professore di sociologia all’Università dell’Oregon, editorialista di Monthly Review e autore di un gran numero di libri su marxismo ed ecologia.
Fonte: http://www.redpepper.org.uk/degrow-or-die/
Leggi una risposta a questo saggio: ‘A constructive dialogue for change’ di Ted Benton
Traduzione per Senzasoste Andrea Grillo
http://www.senzasoste.it/le-nostre-traduzioni/una-critica-marxista-alla-teoria-della-decrescita
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Una rete di classe 28.12.2010
Fonte: Mazzetta* – il manifesto
La «Federal Communication Commission» statunitense ha stabilito che chi paga di più avrà connessioni più veloci. Una decisione che coinvolgerà chi accede al web via etere e con i telefoni cellulari, cioè le modalità sempre più usate tanto nel Nord che nel Sud del pianeta per navigare su Internet
Dopo il clamore e le aspre reazioni suscitate dalla proposta Google-Verizon sulla regolamentazione di Internet, i più ottimisti avevano sperato che le speranze delle grandi corporation sarebbero andate deluse. Invece è accaduto che la «Federal Communications Commission» americana (Fcc) ha abbracciato proprio quella proposta, delineando un doppio standard per l’Internet del futuro. (Ne ha scritto Giulia D’Agnolo Vallan il 23 Dicembre, n.d.r.)
Nel documento approvato dalla Fcc, il principio della neutralità della rete è salvaguardato per le connessioni fisse, ma compromesso per quelle mobili.
Il principio della neutralità della rete è di facile comprensione: tutto quello che viaggia in rete, dalla posta ai video in streaming, è composto da pacchetti di dati. Questi dati, per soddisfare il principio della neutralità della rete, devono viaggiare attraverso i server alla stessa velocità e alle stesse condizioni. Da tale semplicità ne deriva che in presenza di qualsiasi alterazione o gerarchizzazione del traffico determina la morte della neutralità della rete. Neutralità che, è bene ricordare, nei fatti ancora non esiste, posto che molti provider si fanno beffe del principio (che non è codificato e non ha forza di legge) e discriminano senza troppi rimorsi. Già oggi capita che per accedere ad alcuni siti attraverso uno smartphone si paghi, anche se l’accesso da rete fissa agli stessi siti è libero. In questo caso il provider della rete mobile fa pagare la connessione e anche un pedaggio verso siti che pure mettono online i loro contenuti gratuitamente.
Una confusione programmata
I lavori della Fcc intorno alla regolamentazione della rete assumono una grande importanza, proprio perché da più parti si chiede di mettere fine a questa anarchia: lo chiede chi pensa che privilegi gli attori più forti e lo chiedono sul fronte opposto i fornitori di servizi, che vogliono un quadro di riferimento certo che riconosca il diritto delle telecom ad organizzare e far pagare il traffico.
Le decisioni della Fcc potrebbero sembrare un problema esclusivamente statunitense, se non che gli Stati Uniti sono ancora oggi il principale motore dello sviluppo di Internet ed è negli Usa che risiedono i maggiori attori del Web contemporaneo. Quello che si decide a Washington è dunque inevitabilmente destinato a influenzare il futuro della Rete.
A complicare la faccenda ci sono però alcuni difetti mai sanati dalle amministrazioni americane, primo fra tutti il difetto di giurisdizione dell’Fcc, che sta scrivendo leggi per le quali non ha ricevuto alcun mandato dal Congresso e che non ha poteri per farle rispettare. Il «Telecom Act» del 1996, al quale la Commissione fa riferimento come fonte del suo potere, in realtà non prevede niente del genere. Una confusione che non sembra del tutto casuale.
Sia come sia, la proposta Google-Verizon ha fatto breccia e la discriminazione tra reti mobili e fisse è passata con un voto di tre a due grazie al commissario democratico Michael J. Copps, che l’ha sostenuta appellandosi alla cultura del compromesso. Un’ipocrisia plateale, perché l’accesso alla rete è ormai universalmente riconosciuto come un diritto e in tema di diritti non possono esistere compromessi e non possono esistere diritti solo parzialmente riconosciuti e protetti. A chiudere il cerchio c’è il clamoroso silenzio del presidente Barack Obama, che in campagna elettorale si era vestito da paladino della neutralità della rete e oggi tace di fronte al pateracchio. Pateracchio complicato dal linguaggio del testo uscito da questo strano compromesso, perché affermare che le compagnie potranno porre in essere discriminazioni del traffico (anche a pagamento) quando queste non siano «irragionevoli» lascia la porta aperta alla discrezionalità e alle interpretazioni, con le compagnie in posizione di forza perché potranno fare quel che vogliono fino a che qualcuno, citandole in tribunale, non dimostrerà che il loro comportamento è «irragionevole».
Il testo approvato pone quindi più problemi di quanti sia chiamato a risolvere, ma soprattutto proietta una minaccia sull’Internet del futuro, che viaggerà sempre di più attraverso le reti mobili. Alcuni siti diventeranno più accessibili di altri la discriminazione a pagamento privilegerà inevitabilmente gli attori più forti, chiudendo le porte alle start-up e all’innovazione da una parte e rischiando la censura dei contenuti sgraditi dall’altra.
Con queste regole non sarà più possibile l’emersione di nuove Google o YouTube, perchè a Google e a Youtube sarà sufficiente pagare per stroncare sul nascere le speranze di iniziative concorrenti, fossero pure migliori, relegandole così nel limbo della Rete a bassa velocità. Allo stesso modo alcuni servizi metteranno all’asta tali privilegi e potrà accadere che cambiando il fornitore del servizio si acceda velocemente al motore di ricerca della Microsoft Bing e lentamento a Google, o viceversa.
Leggi discriminanti
Esiste e persiste poi il pericolo di una discriminazione politica accanto a quella commerciale, ancora più rilevante tenendo conto che già oggi le minoranze e i meno abbienti accedono a Internet per lo più attraverso terminali mobili. Anche negli Stati Uniti questa differenza è rilevante: l’Internet mobile costituisce, ad esempio, il canale d’accesso preferito dai latini e dai neri. Così è nel resto del mondo, dove il digital divide è eroso dall’avanzare dei telefonini che nei paesi in via di sviluppo permettono l’accesso all’home banking e altri servizi fondamentali in zone non raggiunte dai cavi e utilizzando terminali meno costosi e più semplici dei tradizionali personal computer.
Un mercato enorme, che le regole previste dalla Fcc consegnano alla volontà degli attori più forti, che di regola coincide con la volontà di fare profitti senza andare troppo per il sottile. Un successo dei lobbisti che illumina ancora una volta gli stretti rapporti tra la politica americana e le corporation, che su questo esito hanno investito moltissimo e che possono offrire alla politica qualcosa di più dei finanziamenti, che pure spargono con generosità bipartisan.
Cosa possano offrire lo dimostra il recente caso di Wikileaks, oggetto di una vera e propria aggressione da parte di alcune major di Internet, che hanno tagliato in massa i ponti con il sito dietro le pressioni del governo americano. Un atto grave che con le regole proposte dalla Fcc diventerà legittimo, nonostante nessuna corte americana abbia stabilito che le attività di Wikileaks sono illegali. Per comprenderne l’enormità di questa aggressione e la minaccia che pone al diritto d’espressione, basta cambiare il soggetto di questa discriminazione e immaginare il sito del «New York Times» bandito dalla rete se e quando pubblicasse notizie sgradite al governo. Solo l’abitudine al doppio standard introdotto dall’amministrazione Bush insieme alla War on Terror può nascondere la follia di un approccio del genere, nel quale le leggi non sono più un riferimento universale, ma diventano un corpo mutevole nella loro applicazione a seconda che siano rivolte ad amici o nemici. L’abolizione dell’habeas corpus e dei diritti umani nel caso dei «combattenti nemici» ha fatto scuola e incrinato la legalità democratica, non solo negli Stati Uniti, aprendo la porta ad ogni genere di discriminazione. Ce n’è abbastanza da confermare i peggiori timori.
* è il nickname di un mediattivista che da anni si occupa di cultura dei media
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INTERNET
Un futuro marchiato a fuoco dal denaro
BenOld
È difficile dare una definizione puntuale della Rete. Il punto di partenza è sicuramente l’insieme di macchine, cavi e dispositivi tecnologici senza i quali sarebbe impossibile parlare di Internet. Ma sarebbe una definizione «povera», perché accanto alle macchine ci sono gli standard di comunicazione e il software che consentono il trasferimento e la gestione dei dati. Ma anche questa sarebbe un’approssimazione, perché sono altresì importanti anche le leggi che pretendono di regolare la «vita dentro lo schermo», da quelle sulla proprietà intellettuale a quelle che stabiliscono i criteri della competizione economica e i diritti dei «naviganti». Come ha scritto in uno dei suoi primi libri il giurista Lawrence Lessig, il web è un prodotto sociale in cui il codice (i programmi, ma anche le leggi) non è separabile dalle macchine che lo veicolano.
È però merito dei ricercatori che hanno sviluppato lo scheletro della Rete aver introdotto una regola – la neutralità della Rete, appunto – che ne hanno fatto un dispositivo teso a garantire eguali possibilità di accesso. Come per ogni regola, la sua applicazione dipendeva dai rapporti di forza presenti tanto nella sue gestione che in quello che avveniva tra i i naviganti. Così Google ha le stesse possibilità di veicolare i suoi dati di chi, ad esempio, scrive un lungo documento di critica al disegno di legge di Mariastella Gelmini, divenuto, ahimè, legge dello Stato italiano alcuni giorni fa.
Il principio della neutralità della Rete è stato più volte criticato, tanto dai mediattivisti che dalle imprese. Non si è mai però trattato di convergenze parallele per il suo superamento. I mediattivisti, infatti, in particolare modo quelli statunitensi, ne criticavano la fragilità, perché dal principio non si era mai arrivati mai a una legge, l’unico strumento che poteva interrompere le continue violazioni da parte di chi vuole fare affari con la Rete (i fornitori di accesso); o da parte delle imprese che rivendicavano una loro primazia nel far «viaggiare» più velocemente, in forma di dati, la materia prima e le merci delle loro attività produttive.
Allo stesso tempo, però, anche altre imprese chiedevano il rispetto della neutralità della Rete, perché questo presupponeva che non poteva formarsi una stabile barriera d’ingresso al business sul Web (ne parla diffusamente l’articolo qui a fianco).
Tutto ciò però apparterrà al passato, se il progetto della «Federal Communications Commission» diventerà operativo. Se per una manciata di minuti si mettono tra parentesi l’irresponsabile silenzio di Barack Obama e il voltafaccia del presidente della Fcc Julius Genachowski di alcuni mesi fa, quando solennemente affermava che la neutralità non sarebbe mai messa in discussione, l’elemento più grave della decisione dell’Authority statunitense è che non guarda al passato, bensì al futuro della Rete. Chi si collega alla rete secondo i «metodi tradizionali» (computer, modem e cavi più o meno «potenti») molto probabilmente non si accorgerà di grandi differenze. Certo, ci saranno un po’ di ritardi e di attese davanti al video, ma saranno attese e ritardi quantificabile in centesimi di secondo.
Diverso è il caso dei collegamenti wi fi (cioè usando l’etere) e per i telefoni cellulari di ultima generazione che consentono di navigare in rete, scrivere brevi testi, scaricare e caricare video e file musicali. In questo caso la neutralità della Rete diventerà un pallido ricordo del passato, perché la definizione di un doppio standard rappresenta la codificazione di una diseguaglianza di classe nell’accesso alla Rete, visto che il criterio per viaggiare veloci sarà dato dal portafoglio. Dimensione crudele, quella del denaro, che è equivalente generale e al tempo stesso unità di misura della ricchezza. Ed è certo che le imprese, proprio perché movimentano molte più informazioni dei singoli, pretenderanno di andare più veloci, in nome della ricchezza che produrranno.
Ma ciò che è ulteriormente crudele è di definire criteri di classe per l’accesso a Internet quando ci si collega senza fili, la forma sempre più usata nel Sud del mondo, ma ormai anche nel Nord del mondo, come testimoniava nel 2008 il pionieristico lavoro di indagine sulla «connessione mobile» coordinato dai ricercatori Manuel Castells, Fernàndez-Ardèvol Mireia, Jack Linchuan Qiu e Araba Sey (Mobile communication e trasformazione sociale, Guerini e Associati).
La linea di tendenza che vede nel wi-fi l’accesso nella Rete svela che la stragrande maggioranza dei «naviganti» userà della modalità di connessione al web. Il fatto che la Fcc apra le porte alla differenziazione del diritto di accesso in base a criteri economici pone un problema di democrazia, ma anche espressione del tentativo di cancellare quella cooperazione sociale dentro e fuori la rete che è l’oggetto del desiderio, ma anche la bestia nera delle corporations high-tech. Oggetto del desiderio perché luogo di innovazione; bestia nera perché altera rispetto la logica capitalistica che le imprese vorrebbero imporre alla Rete.
Finora, sono state poche le reazioni alla decisione della Fcc. Qualche articolo on-line, qualche presa di posizione da parte di questo o quel blogger o studioso, ma niente di più. Eppure la posta in gioco è alta, anche se spostata in là nel tempo. Come spesso accade nella realtà, il futuro può essere cambiato se si trasforma profondamente l’esistente. E il presente parla il linguaggio asettico e di classe della Fcc. Per avere un futuro migliore occorre quindi far i conti con questo presente, dove nulla è innocente. Compreso Barack Obama che è stato eletto grazie anche alla Rete e come già fatto in questi due anni di presidenza preferisce prendere le distanza dalle componenti più militanti della coalizione che lo ha portato alla Casa Bianca.
BenOld77@gmail.com
http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/57-scienze-a-tecnologie/8208-una-rete-di-classe.html
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Mirafiori? ”Non esportabile e censurabile” 28.12.2010
Secondo il segretario della Ces l’accordo è da censurare. Oggi vertice straordinario Fiom su Fiat Chrysler
“Marchionne? Questo dirigente planetario, molto americano, affronta la questione di Mirafiori con un approccio pragmatico e armato di una furbizia italica, direi napolitana”, risponde Walter Cerfeda segretario del sindacato europeo (Ces), che per la prima volta parla dell’accordo separato alla Fiat-Chrysler raggiunto alla vigilia di Natale.
“Questo accordo esula dal quadro della contrattazione europea e delle trattative in corso perché qui si sommano diversi contenuti che nella contrattazione europea vengono affrontati separatamente”. Ci sono quattro elementi mischiati insieme: lo scambio tra prestazione di lavoro e investimenti promessi, il diritto alla salute, il diritto alla rappresentanza e un nuovo modello contrattuale da applicare alla New Co Fiat Chrysler. “Mi occupo di contrattazione in europa da otto anni e un guazzabuglio così non si è mai visto”.
Cosa significa per la Ces questo accordo?
E’ un contratto non esportabile e censurabile. Molte imprese europee, pronte a lanciare nuovi investimenti produttivi, hanno prima sondato la possibilità di delocalizzare per aumentare la produttività. L’ha fatto Volkswagen e Daimler-Benz. Poi hanno deciso di rimanere in Germania a patto di uno scambio tra prestazioni di lavoro (modifiche dell’orario e dei turni) e promesse di investimenti, con concessioni anche più marcate di quelle richieste a Mirafiori. Ad esempio, in Germania ci sono operai che lavorano 43 ore la settimana, ma con una retribuzione che si ferma a 35 ore. I sindacati hanno definito questi accordi concession bargaining, accordo peggiorativo, indispensabili per il mantenimento del sito produttivo e degli investimenti.
Anche Marchionne ha promesso investimenti a Mirafiori.
La differenza è che Marchionne non ha presentato alcun piano industriale, c’è una promessa di investimento che non è supportata da numeri, progetti, volumi di investimento, tempi di realizzazione e via dicendo. In Germania sono state create cabine di vigilanza tra impresa e sindacato che verificano la concretizzazione dei patti siglati nell’accordo e ogni soldo promesso dall’azienda viene certificato e inserito nel contratto. In Germania non si mette insieme l’investimento con il diritto alla malattia e l’assenteismo. Questi sono problemi che devono essere affrontati dai sistemi ispettivi. I punti di Mirafiori hanno una dimensione aberrante e censurabile e il Ces cercherà di evitare una contaminazione.
C’è quindi il pericolo che altre imprese seguano la strada di Mirafiori con accordi separati?
L’accordo di Mirafiori riporta in auge un vecchio problema del sindacato italiano, la rappresentanza. In Francia è possibile firmare accordi con una sola parte del sindacato, a condizione che questi rappresentino il 51% dei dipendenti di un’azienda, perché esiste una legge per la rappresentanza sindacale. In Italia vige il principio di esclusione: chi c’è, c’è. In Germania è possibile che un’impresa esca dalla Confindustria perché il modello contrattuale tedesco consente molta più flessibilità. Ma quando un’azienda esce dalla sua associazione di rappresentanza, non applica più il contratto collettivo di lavoro e quindi non tratta con i sindacati confederali di categoria, che hanno firmato il Ccnl, ma con i sindacati aziendali, cioè con i consigli di fabbrica. E’ proprio questo che ci preoccupa a Mirafiori. Insomma la Fim e la Uilm firmando l’accordo di Mirafiori è come se disdicessero il contratto nazionale che avevano in precedenza firmato. Quindi siamo di fronte a sindacati culturalmente subordinati all’impresa. Potrebbero esserci imprenditori che decidono di trattare con altri sindacati e magari lo stesso Marchionne domani deciderà di sedersi al tavolo della trattativa con qualcun’altro.
Marcegaglia è pronta a creare un contratto per l’auto per riavere Fiat in Confindustria. Cosa ne pensa?
Va benissimo. Ma la decisione di creare il contratto di settore dell’auto non può nascere da un’azienda, semmai da Federmeccanica. Altrimenti chiunque potrebbe seguire lo stesso esempio.Il punto fondamentale è che Cisl e Uil non hanno più alcuna garanzia del rispetto degli accordi, che derogano al contratto nazionale che loro stessi hanno firmato. A Fim e Uilm auguro che vada tutto bene e che Marchionne sia di parola, anche se non c’è uno straccio di piano industriale che gli impone di mantenere le promesse fatte.
Gloria Riva
http://it.peacereporter.net/articolo/26060/Mirafiori%3F+%27%27Non+esportabile+e+censurabile%27%27
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Come ti manipolo il cervello 29.12.2010
L’informazione è una parte importante nella vita degli uomini moderni. Nella vita moderna l’informazione diventa un elemento sempre più significativo assieme all’istruzione; il modo in cui la gente interagisce con l’informazione definisce in buona parte il loro livello d’esistenza.
Nel XXI secolo il possesso di informazione e istruzione determina lo status di una persona moderna nella società. Assieme all’ambito dell’istruzione, l’informazione determina gli ambiti del lavoro e dell’economia ed influenza la sfera della politica statale. La manipolazione delle informazioni e della coscienza sociale nel nostro tempo stanno diventando tecnologie per programmare il comportamento delle persone. Manipolando la società si possono distruggere alcune idee dentro alla mente delle persone e su quelle rovine costruire nuove idee e nuove fondamenta, come ad esempio una nuova ideologia.
I sistemi di telecomunicazione, concepiti come importante raccordo per lo smistamento di informazioni, hanno un posto dominante sull’ambiente umano. “La manipolazione dell’informazione è simile alla disinformazione…” scrive lo studioso Vladimiri Volkov nella sua “Storia della disinformazione”. Scrive che la manipolazione intesa come distruzione ha tre scopi:
1. demoralizzare la nazione attraverso la disintegrazione dei gruppi che la conformano
2. screditare le autorità e i loro valori
3. neutralizzare le masse onde prevenire qualsiasi forma di comportamento spontaneo a favore dell’ordine stabilito e ad un certo punto portare al potere un piccolo gruppo di persone.
Un altro ricercatore, Sergey Kara-Murza, nel suo libro “Manipolazione delle coscienze” segnala tre caratteristiche principali della manipolazione:
1. La manipolazione è un tipo di influenza spirituale e psicologica quando le strutture mentali e spirituali dell’individuo sono bersagliate.
2. La manipolazione è un’influenza nascosta, fatto che deve restare sconosciuto a chi subisce la manipolazione.
3. Una manipolazione influente richiede considerevoli abilità e conoscenze specialistiche.
Nel suo lavoro “L’uomo manipolato”, il ricercatore Herbert Franke scrive quanto segue: “Quando subiamo una manipolazione nella maggior parte dei casi dobbiamo intendere un’influenza mentale esercitata segretamente, di conseguenza a scapito di coloro verso i quali è indirizzata”.
Secondo tutti questi studi, la manipolazione dell’informazione attraverso i mass media è indirizzata verso la società. Secondo l’opinione degli scienziati, la manipolazione si rende necessaria quando lo Stato è interessato a rendere popolari certe idee, cercando di creare delle fondamenta ideologiche per giustificare determinate misure d’influenza. Dunque la propaganda lavora direttamente al servizio delle necessità ideologiche dello Stato e di coloro che si trovano a guidare lo stato.
Con lo sviluppo dell’economia e della generale commercializzazione dei mezzi di comunicazione di massa, l’informazione è anch’essa diventata una merce, vale a dire un articolo di scambio e i proprietari dei media devono renderli appetibili al mercato, a prescindere dal fatto che i media siano in primo luogo un’istituzione sociale e solo in seconda istanza un’azienda privata. Molto spesso, utilizzando pratiche prese in prestito dal mondo degli affari, i proprietari di media privati cercano di migliorare il loro prodotto rendendolo più adatto alle necessità e alle richieste dei consumatori. E i consumatori di questo prodotto sono il pubblico.
I mass media indirizzano i propri servizi alla società e ogni servizio viene proposto per la persona a cui è indirizzato.
La natura della manipolazione
Di regola la manipolazione ha un doppio impatto, quando assieme ad un messaggio aperto, il manipolatore manda al destinatario un messaggio in codice che produce nella sua mente le immagini necessarie al manipolatore. La manipolazione come tecnologia basata sulla suggestione esercita la sua influenza sulla gente, e spesso riesce a farsi obbedire facendo ricorso non tanto alle loro menti bensì ai loro sentimenti. La suggestione è un sentimento profondo presente nella psiche, emerso prima ancora del pensiero analitico.
Al di là della nozione di suggestione c’è anche la nozione di persuasione e queste due nozioni sono piuttosto differenti. Qual è la differenza in linea di principio tra la suggestione e la persuasione? Di regola, la suggestione si raggiunge attraverso un metodo manipolativo. Si basa sui sentimenti umani. Al contrario, la persuasione si basa su fondamenta logiche. Durante la persuasione vengono usati fatti, argomentazioni e spiegazioni. Essi negoziano con la parte attiva dell’essere umano, a cui vengono offerti una serie di argomenti che lui può capire, accettare oppure rifiutare. La differenza, in linea di principio, tra suggestione e persuasione è che la suggestione penetra la coscienza umana nonché la sfera mentale, stabilendosi come qualsiasi oggetto della percezione passiva.
Dunque, la suggestione è l’intrusione di un’idea dentro alla mente umana, senza la partecipazione della sua parte attiva. La suggestione va a incidere sulla persona non attraverso la convinzione logica bensì influenzando direttamente la sfera mentale – impiantandovi idee grazie ai sentimenti ed alle emozioni. Un’altra differenza tra la suggestione e la persuasione è che, a livello dei processi psicologici, la percezione è collegata direttamente con l’immaginazione, la quale ricombina nuovamente gli oggetti una volta che vengono fissati nella memoria. Poiché l’immaginazione è meno collegata con la logica, essa è più vulnerabile e più sensibile agli influssi esterni, trasformando all’interno della mente quelle impressioni ricevute quando oramai l’immaginazione ha creato immagini mentali o percettive. A loro volta queste immagini creano emozioni. Mezzi così forti per influenzare la coscienza sociale, come il terrorismo associato alla televisione per esempio, si basano su un simile connubio tra immaginazione e sentimenti.
I legami tra il terrorismo e la tv
Osservando come avvengono gli atti di terrorismo e come vengono riflessi dai mezzi d’informazione, possiamo evidenziare alcune regolarità.
1. Atto terroristico
2. Televisione
3. Influenza sull’immaginario e sui sentimenti del pubblico.
4. Comportamento necessario programmato
5. Spegnimento del senso comune nel pubblico televisivo.
Esaminando, stadio dopo stadio, l’influenza dell’atto terroristico e il modo in cui viene riflesso dai programmi d’informazione televisiva, si può seguire cosa succede al fatto. Di regola, lo scopo principale del terrore è intimorire e creare una paura diseguale. La paura scende quando la tv fa un servizio su un atto terroristico o su un rapimento. Non è un segreto che tutti coloro che siedono di fronte alla tv in quel momento immaginano di trovarsi nei panni delle vittime degli attentati. Quindi questo porta alla naturale identificazione di uno con la persona vista in questa o quella situazione. In una situazione del genere, la coscienza e la mente sono in preda alle emozioni, che sovrastano la persona e riducono l’introspezione critica. Dunque, manipolando i sentimenti del pubblico attraverso la televisione, i terroristi, oppure coloro che sono interessati a trasmettere quel servizio, attirano l’attenzione sulle loro notizie. Hanno bisogno che la persona ricordi le notizie. A questo proposito, la notizia viene ritrasmessa ripetutamente come mezzo usato attivamente per trattenere l’attenzione. Caratteristiche come la stabilità e l’intensità della ripetizione dei servizi d’informazione vengono usate a questo proposito. Inoltre, vengono usate altre peculiarità tecnologiche della televisione, tra cui:
– le parole del presentatore
– musica
– immagini d’archivio.
Esaminando ancora una volta che cosa succede in realtà, ci rendiamo conto che quando una persona riceve un messaggio, il modo in cui interagisce con la sua memoria si divide due stadi. In un primo momento abbiamo una memorizzazione passiva nel subconscio e in seguito l’informazione viene processata dall’intelletto. Quando l’informazione ha forti tinte emotive, si “impianta” nella memoria ed inizia a influenzare la coscienza. Come risultato della ripetizione viene ricordata, per quanto questa memorizzazione sia involontaria, come la pubblicità che spesso viene ricordata rapidamente e senza farci caso.
Attualità dell’argomento
Secondo B.E. Kretov, nella comunicazione politica un posto speciale è occupato dallo scambio di informazioni tra governo e governati per avere il consenso necessario alle decisioni di governo mentre coloro che vengono governati cercano di far sentire i propri bisogni e di renderli pubblici. Queste due parti possono raggiungere il consenso grazie soltanto alla comunicazione – lo scambio di informazioni. Per raggiungere l’unità con il popolo, le autorità cercano mediante i mass media di impiantare nella gente le loro idee, concordanti con i loro interessi. I conflitti e le contraddizioni sono inevitabili in una simile struttura di società, perché la stampa democratica si concentra sulla libertà, sulla glasnost, sui dibattiti e sui diritti umani, mentre l’esercito e la polizia si concentrano sulla disciplina, la segretezza, la sicurezza e il patriottismo, oppure parlano della necessità dell’uso della forza.
Tornando alla questione, dopo l’11 settembre 2001, un’atmosfera di paura nei confronti degli attentati terroristici è stata diffusa lungo il pianeta attraverso i mass media. Come risultato, in tutti i Paesi del mondo il controllo statale sui mass media è aumentato come giustificazione dell’idea di “sicurezza nazionale”.
La manipolazione presume sempre un pubblico – i rappresentanti della società. I rappresentanti della società, influenzati da diversi servizi, diventano parte delle masse e durante il processo di trasformazione da individui separati a “folla collettiva”, aggregano caratteristiche tipiche delle masse:
1. La tendenza verso la spersonalizzazione – l’individuo viene annullato dalla coscienza della massa sotto l’influsso delle pulsioni.
2. Prevalenza dei sensi sulla coscienza – l’intelletto viene sopraffatto dai sentimenti e dagli istinti.
3. Si abbassano sia l’intelletto che i valori morali.
4. Il livello di responsabilità scende fortemente.
Tutti questi segni rendono il gruppo di persone particolarmente vulnerabile e sensibile alle varie manipolazioni da parte delle autorità.
Informazione estetica e semantica
Tutte le informazioni possono a loro volta essere suddivise in due gruppi: informazione estetica e informazione semantica. L’informazione estetica non viene sottoposta alla logica e sollecita un certo stato mentale – emozioni e reazioni invece di una riflessione della realtà.
Più stabile, crea un’atmosfera nella coscienza umana. Qualsiasi informazione estetica è indirizzata non alla comprensione bensì alla suggestione, di conseguenza può diventare facilmente uno strumento d’abuso.
L’informazione semantica, o nozionale come spesso viene chiamata, si basa sulla persuasione e l’interesse e viene indirizzata alla logica e al senso comune. Questa aveva un ruolo importante nella attività politiche prima del coinvolgimento attivo dei media in politica. Gli sviluppi vengono valutati da metodi d’informazione semantica, attraverso la percezione analitica – dicono gli esperti.
In senso pratico le autorità prediligono l’informazione estetica su quella semantica perché è in grado di preparare azioni che contraddicono la logica e il vero stato delle cose che qualche volta possono essere invisi all’élite che detiene il potere. E’ un tipo di fenomeno che dipende dal fatto che la l’informazione estetica non è mirata alla comprensione, bensì alla suggestione di simboli stabili grazie all’uso di svariati effetti.
Poiché i mass media come istituzione sociale hanno il prestigio di essere una fonte ufficiale d’informazioni, godono di un alto livello di fiducia da parte di un ampio pubblico e uno spera forniscano informazioni valutative. Queste informazioni valutative inducono alla creazione dell’opinione pubblica. Se in senso pratico la stampa si basa sull’onda semantica, la tv usa le sue potenzialità audio e video influenzando la percezione estetica della coscienza del pubblico. La televisione è il più importante strumento di influenza politica sul pubblico per via delle sue caratteristiche tecniche oggettive.
I principi dell’estetica televisiva
La televisione è composta da un mosaico di immagini che rappresentano l’intero pianeta sotto forma di servizi non collegati da un legame logico monosemantico. I servizi che arrivano nella mente del telespettatore rompono la dispersione generale del mosaico e questi cerca di unirli in un insieme semantico. Il testo letto dal presentatore viene preso come un verità ovvia, a causa del prestigio tutto speciale della tivù come istituzione mediatica. Se il presentatore legge un testo sullo sfondo di immagini video registrate sulla scena dell’azione, quel testo viene preso come verità assoluta.
In vista del fatto che la televisione gode della fiducia comune della gente, è difficile per una persona diversa valutare criticamente uno sviluppo. Questo succede anche perché l’informazione estetica sotto forma di flusso audio e video non è costruita logicamente. Non c’è sostanza, né argomentazione, né un contesto che abbia senso in quel flusso se non viene aggiunto dal testo del presentatore.
La codifica manipolativa del servizio passa inavvertita dal pubblico di massa perché la differenza tra la realtà e la sua interpretazione è quasi intangibile mentre la distorsione della realtà è inevitabile. In questo caso i servizi d’informazione vengono confezionati attraverso la ripetizione, lo spezzettamento, l’urgenza ed il sensazionalismo. Inoltre prevalgono l’assenza di fonti alternative di informazione, la presentazione univoca delle informazioni e l’occultamento delle notizie alternative. Conseguentemente si crea una realtà virtuale invece di riflettere la vera realtà.
La tecnica di isolare il destinatario dalle altre influenze viene usata spesso, assieme alla semplificazione della presentazione delle notizie e all’uso di stereotipi e metafore varie.
La lingua della manipolazione
Si presume che i giornalisti dei mass media usino una lingua “corretta”. Questo vuol dire che una lingua “corretta” per la tv è quella usata dal presentatore che legge il testo datogli da un editore, il quale a sua volta lavora sul materiale prodotto da un giornalista come suggerito dal capo. Quindi le notizie vengono “create” presso la stazione televisiva. Con l’aiuto di parole e del video viene sempre creato un contesto del servizio, che può essere cambiato, semplificato o reso più complicato. Una simile manipolazione è legata da vicino alla natura della percezione umana. Gli esseri umani sono attratti per natura dalle spiegazioni semplicistiche. C’è una certa caratteristica della coscienza umana che regola tutte le informazioni nuove secondo gli stereotipi esistenti. Il metodo per una tale semplificazione consiste nell’aiutare il manipolatore a dimostrare l’importante idea che deve essere suggerita al pubblico facendo uso di una forma concisa, forte e impressionante – l’asserzione. Di regola, il pubblico prende per buona la notizia senza pensare.
Un altro metodo importante per rafforzare gli stereotipi nelle menti è la ripetizione. La ripetizione dà alla notizia una caratteristica assertiva aggiuntiva, in altre parole la fa diventare un’idea fissa, un’idea che incita all’azione. La tecnologia propagandistica si basa proprio su questa tecnica ripetitiva. L’urgenza aiuta il servizio ad avere una forte influenza sul pubblico, aumentando le opportunità di manipolazione. La tecnica di spezzettare il servizio comporta la perdita di senso e d’integrità.
Un fatto presentato con maggiore importanza e originalità è artificialmente distorto dalla sua importanza. Alle notizie viene attaccato in maniera artificiale un tocco di sensazionalismo. Di solito viene fatto perché sotto la maschera del sensazionalismo si trova uno sviluppo nascosto, che il pubblico non dovrebbe sapere. Molto spesso il sensazionalismo viene usato per mettere fine ad uno scandalo o ad una psicosi quando c’è bisogno di distrarre l’attenzione del pubblico. In molti Paesi dove le sorti dello Stato vengono decise dalla vittoria di un partito piuttosto che di un altro, non dipende da quanto convincente sia il programma del candidato bensì da quanto lui sia stato bravo ad organizzare lo show mediatico. Le possibilità per un candidato di vincere le elezioni dipendono dal riuscire ad essere il punto focale della campagna mediatica.
Ci sono poi le notizie ufficiali e quelle non. Le notizie ufficiali di regola appoggiano la ripartizione di forze già esistente e riflettono le vedute delle strutture di potere in una data società in un dato momento. Le notizie non ufficiali sono quelle che vengono dalle forze d’opposizione. Radicalmente diverse dalle notizie ufficiali, quelle non ufficiali smuovono quel rapporto di forze. Per i propositi della propaganda un’asimmetria nell’informazione è usata perché in ogni società l’ideologia ufficiale si oppone a quella non ufficiale.
C’è anche un metodo di asimmetria nella copertura, quando un fenomeno viene seguito nella sua totalità mentre un altro viene taciuto. Nella vita quotidiana ognuno di noi può rendersi conto che un evento ha una copertura positiva e un’altra negativa. In questo senso vediamo che l’asimmetria nell’informazione scompare gradualmente e le persone si abituano ad un’interpretazione di parte: positiva o negativa. Come risultato di analisi qualitative e quantitative eseguite sulla stampa uzbeka, l’autore di questa ricerca ha svelato le principali tecnologie usate. In senso qualitativo, questo lavoro ha lo scopo di studiare le tecnologie per la manipolazione – l’uso di metafore, stereotipi e ripetizioni. In senso quantitativo, è stata calcolata la quantità di luoghi comuni precisi usati ripetutamente.
Per esaminare i siti d’informazione uzbechi sono stati scelti i siti delle agenzie stampa “Turkiston Press” e “UzA” e del quotidiano “Narodnoye slovo”. Questo esame ha mostrato come le notizie presentate siano di parte. I materiali scelti non hanno la moderazione adatta alla presentazione di notizie. Tutti gli sviluppi vengono trattati in maniera predominantemente positiva. Per causa della ripetizione si produce un effetto d’imposizione d’idee e di giornalismo di parte.
Inoltre, l’occultamento delle fonti d’informazione e l’uso della tecnica dell’accennare senza dare mai i nomi veri, ad esempio: “sostenitori stranieri” oppure “certi politici occidentali”. Vengono anche usate metafore come queste: “certe forze oscure”, “briganti che hanno svenduto la patria per una canzone”, “furfanti provocatori” “le forze oscure sono in agguato e attendono il loro turno”. Molto spesso totalmente polarizzate, metafore in apparenza positive vengono usate su altri. Tali caratteristiche diverse separano le persone in “buone” e “cattive” e mettono in evidenza l’orientamento propagandistico di una determinata pubblicazione. Ci sono più informazioni neutre sull’agenzia di stampa “Turkiston Press” perché la sua impostazione differisce da quella delle altre due pubblicazioni sopra citate. Si può dire che l’informazione viene presentata in maniera più professionale dal punto di vista dell’imparzialità.
Leggendo brani da diversi servizi stampa si può notare il tentativo di stereotipizzare, standardizzare e semplificare gli sviluppi. Tuttavia molto spesso le pubblicazioni che presentano opinioni e tendenze diverse le esprimono attraverso i loro giornalisti che le indirizzano al pubblico.
La professionalità dei giornalisti all’ora di verificare la qualità del materiale offerto dopo aver preso in esame l’autenticità e le sfumature degli eventi non sempre può garantire un alto livello di fiducia da parte del pubblico nei confronti delle fonti d’informazione.
La corrispondenza tra ciò che viene pubblicato e l’informazione crea dei criteri standard – tra cui l’efficienza, l’obiettività, l’autenticità e l’espressione della propria opinione, a prescindere dalle condizioni politiche fanno dei media un’istituzione di cui ci si può fidare, un ideale per cui lottare. Per il momento uno dei più grandi problemi è l’autocensura da parte dei giornalisti nel presentare un determinato fatto. Ci sono fatti su cui la pubblicazione dà una valutazione propria, basandosi sulle opinioni degli esperti e dalle labbra di questi esperti impone “un’interpretazione corretta” e presenta una finta obiettività al pubblico sfruttando il metodo dell’analisi falsata.
Il pubblico di solito si aspetta informazioni valutative da parte dei media. Questo è spiegato dal fatto che i mass media come istituzione sociale godono il prestigio d’essere una fonte ufficiale d’informazioni, di cui la masse si fidano. L’esame ha mostrato come ci siano anche citazioni provenienti da fonti anonime ed autorevoli le quali suggeriscono l’idea dell’occultamento di una notizia e quindi la creazione di una realtà virtuale invece di una riflessione della verità.
Conclusioni importanti
Esaminando le pubblicazioni di alcuni dei media in Uzbekistan, si può individuare quali sono le diverse tecniche manipolative usate con maggiore frequenza:
– Stereotipizzare
– “Polarizzare” il flusso d’informazioni
– Isolare il ricettore da altre influenze – mancanza di fonti d’informazione alternative;
– Parziale occultamento delle informazioni
– Servizi costruiti usando una terminologia professionale;
– Banalizzare
– Standardizzare
– Ripetere
Fra le tecniche manipolative speciali vi troviamo l’informazione asimmetrica e la copertura asimmetrica. In questo caso possiamo anche notare l’uso di metafore, il fissarsi sulle fonti autorevoli e spesso anonime, l’uso di metodi di contrasto e falsa analogia e servizi stereotipizzanti.
Il materiale usato dai media non è sempre professionale dal punto di vista delle passioni del singolo giornalista e il desiderio di esprimere il proprio punto di vista. Molto spesso, fidandosi delle opinioni degli esperti, una pubblicazione fornisce una valutazione parziale e di parte su di un determinato evento. Prendendo in considerazione il fatto che la tecniche per la manipolazione diventano sempre più raffinate, la società deve far appello al senso di responsabilità sociale degli stessi giornalisti e alla loro osservanza dell’etica del giornalismo come base della professionalità di un giornalista. Poiché i mass media producono informazioni, intrattenimento e educazione per il pubblico, essi devono cercare di combaciare con l’immagine rappresentata da un’istituzione sociale progressista ed innovativa, la quale fornisce informazioni che sono il più possibile obiettive ed efficienti. I giornalisti devono cercare di astenersi dal fare commenti a favore di questo o quest’altro partito, cercando di essere equilibrati ed evitando di dare valutazioni estreme su situazioni reali.
Evitare l’uso di espressioni estremistiche e di stereotipi propagandistici fa sì che la fonte d’informazione meriti fiducia. La presenza di fonti autorevoli e anonime esclude qualsiasi interpretazione alternativa della notizia. Di conseguenza, un determinato stereotipo si consolida nelle menti del pubblico.
Secondo analisi qualitative e quantitative, quanto più una pubblicazione cerca di attenersi agli standard internazionali, tanto meno è motivata ad usare tecnologie manipolative per attirare l’attenzione dei lettori.
Proporzionalmente alla crescita della responsabilità giornalistica nei confronti della società e non solo di fronte agli editori, cresce inoltre la richiesta di professionalità nel giornalismo.
Attualmente i mass media progressisti si considerano un’istituzione socialmente responsabile. Allo stesso tempo, quanto minori siano i legami dei media, tanto meno verrà usato come uno strumento d’influenza sulle menti del proprio pubblico. Quindi l’indipendenza economica dei media è di grande importanza. La società, nel proteggere i propri interessi, dovrebbe appellarsi di più alla responsabilità sociale dei giornalisti, alla loro professionalità e alla loro osservanza dell’etica del giornalismo come princìpi fondamentali della professionalità di un giornalista.
Saida Arifkhanova, giornalista e ricercatrice residente in Uzbekistan.
Fonte: http://onlinejournal.com
Link: http://onlinejournal.com/artman/publish/article_6485.shtm
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
www.lamiaeconomia.com
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la barbarie del test fallometrico 11.12.2010
di Delia Vaccarello | tutti gli articoli dell’autore
E’ successo a un cittadino iraniano. Entrato nella Repubblica Ceca ha chiesto asilo in quanto perseguitato perché gay. Gli hanno proposto di sottoporsi al test fallometrico. Che cos’è? Vengono mostrate alcune immagini hard etero mentre un macchinario misura l’irrorazione del sangue nel pene. Se avviene una erezione vorrebbe dire che il soggetto non è gay, In caso di mancata erezione invece la documentazione presentata a riprova della omosessualità e dunque della persecuzione viene accolta. Il cittadino iraniano però non si è detto d’accordo a sottoporsi a una prova degradante e irrispettosa. Si è rivolto a uno stato tedesco. Qui il giudice della corte amministrativa ha accolto la sua richiesta di asilo e ha richiamato l’attenzione della Fra, l’Agenzia dei diritti fondamentali europea, sul contrasto tra il test fallometrico e alcuni articoli della convenzione europea dei diritti umani. La stessa agenzia nel suo sito dichiara il test inefficace: inutile con le persone bisessuali. Non cita il caso delle donne lesbiche perseguitate che sfuggirebbero all’orrendo test . Di fatto la prova fallometrica contrasta con la convezione europea perché sottopone un soggetto a trattamento degradante e invade le sue parti intime. Si tratta di barbarie. Pagine tristi che ancora convivono con gli altri principi formulati in sede Ue. Sapevate dell’esistenza di questi test? C’è qualcuno che pensa davvero che possa essere un test verità sul proprio orientamento sessuale?
http://liberitutti.blog.unita.it/la-barbarie-del-test-fallometrico-1.259758
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Blog | di Beppe Giulietti
Contro la lapidazione della libertà 28.12.2010
Chi come noi, e come il giornale che ospita questo blog, si è battuto e si batterà contro ogni legge bavaglio e contro ogni editto bulgaro, non può che provare analogo orrore quando le manette cercano di arrestare la libera circolazione delle opinioni e della creatività artistica.
La decisione del parlamento ungherese di approvare una legge bavaglio che prevede carcere e sanzioni per i cronisti ci riguarda direttamente; in Europa, infatti, comincia a spirare il brutto vento della censura, e dopo l’Ungheria anche la Bulgaria potrebbe percorrere la stessa strada.
La pista è stata aperta dall’Italia che, non a caso, si ritrova insieme a paesi ex comunisti, guidati da solide maggioranze di destra che, tuttavia in materia di diritti civili e di libertà sono più vicini alla Russia di Putin che non alle grandi democrazie liberali.
Quello che è successo a Budapest avrà ripercussioni sullo stesso parlamento europeo dove cresce il fronte di chi vorrebbe mettere sotto tutela i media, a partire da quella rete che sembra essere oggi il vero oggetto del desiderio da parte di tanti governi.
Per queste ragioni come articolo 21 abbiamo chiesto alle organizzazioni internazionali dei giornalisti di promuovere una iniziativa comune in Ungheria affinchè sia evidente che alla internazionale della oscurità si oppone una internazionale della trasparenza che si impegnerà comunque ad aggirare i divieti e a favorire la libera circolazione delle notizie, magari cominciando ad offrire spazi e supporti di ogni genere proprio alla lotta dei giornalisti ungheresi.
Allo stesso modo dobbiamo fare nostro l’appello lanciato da decine di protagonisti del cinema internazionale per chiedere la revoca della condanna inflitta dal governo iraniano al regista iraniano Jafar Panahi, al quale non sono stati dati solo sei anni di carcere, ma anche l’interdizione per un ventennio a girare film e ad avere contatti con la stampa. Si tratta di una vera e propria lapidazione morale, di una condanna a morte della sua attività artistica, della possibilità di esprimersi, di dare segno alle ansie e alle tragedie del suo popolo. La condanna è arrivata perchè Panahi aveva solidarizzato con l’Onda Verde, perchè aveva reso omaggio alla giovane Neda, massacrata dalle guardie di regime, perchè il suo nome era stato gridato da migliaia e migliaia di giovani dentro e fuori l’Iran.
I suoi avvocati si sono rivolti alla pubblica opinione europea e alle istituzioni internazionali affinchè seguano il processo d’appello, facciano sentire la loro voce, non si distraggano magari per non turbare troppo le transazioni commerciali con Teheran.
Chi volesse aderire alla petizione internazionale potrà farlo attraverso il sito www.ipetitions.com/petition/solidaritè-jafar-panahi/, (io: link non funzionante) oppure sul sito di articolo 21 (io: metto il link diretto: http://www.articolo21.org/951/notizia/appello-per-jafar-panahi.html).
L’Italia, tuttavia, può e deve fare i più, perchè proprio da noi Panahi vinse nel duemila il Leone d’oro di Venezia con il film “Il Cerchio”. Spetta al governo italiano farsi interprete del disagio e della rabbia di tanti italiani altrimenti dovremo farlo noi con tutti i mezzi possibili.
Il regista Maurizio Sciarra, rappresentante italiano nella federazione europea dell’audiovisivo, riprendendo una proposta già avanzata dalle associazioni degli autori e dei registi, ha invitato i media ed in particolare il servizio pubblico a trasmettere i film di questo grande regista, a parlare delle sue opere, a promuovere una campagna di informazione contro questa sentenza oltraggiosa che colpisce i diritti fondamentali della persona.
Il bavaglio magiaro e la condanna di Panahi ci riguardano e ci offendono, spetta anche a ciascuno di noi, nei modi e nelle forme che riterrà, di alzare la bandiera della libertà anche per loro, perchè chi vorrebbe imbavagliare i cronisti e gli intellettuali in Italia, non avrà certo nè il tempo, nè la voglia, di battersi per i giornalisti ungheresi o per un regista iraniano.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/28/contro-la-lapidazione-della-liberta/83876/
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UN’IDEA PER EXPO: ASFALTIAMO IL BOSCOINCITTA’!!!
Solo a Milano, solo in Italia, può accadere che un Parco urbano, apprezzato in tutta Europa e da milioni di fruitori nei 36 anni di esistenza, sia messo in discussione. Questo accade con Boscoincittà, a Milano, la città di Expo, la città che vorrebbe nutrire il pianeta, salvandolo dalla catastrofe agro-alimentare. In discussione oggi non è solo la convenzione che gli attuali gestori (Italia Nostra) hanno con il Comune, e che ha consentito negli anni lo sviluppo di un’area verde, boschiva, umida, rifugio di specie animali, unica e d’inestimabile valore culturale, sociale e storico oltre che ambientale, a costo zero per chi la vive. In discussione è l’idea che si possa vivere il territorio, i parchi, il verde urbano svincolandolo dalle logiche del profitto e del consumo, senza attività commerciali o ludiche a impatto ambientale, senza il ginepraio di finte associazioni che mascherano clientele politiche. Ma si sa nella Milano che “cunta dumà i danè” questo è impensabile ed è altrettanto impensabile non soddisfare il sottobosco di clientelismo no profit in area Compagnia delle Opere che si sta divorando tutto ciò di pubblico, demaniale, Nostro, esiste in questa città. Quello che oggi accade a Boscoincittà è un film che abbiamo già visto con altri parchi, come Sempione o Trenno, sempre più occupati da attività private più o meno impattanti. Lo abbiamo visto con le piscine e gli altri impianti sportivi privatizzati, per non parlare dell’uso dello spazio pubblico urbano sempre più appaltato al business di turno e sempre più negato, vigilato, mal tollerato se frutto solo della spontanea aggregazione delle persone. Questa è la città ideale per chi ha pensato un PGT che del trionfo del privato, più o meno profit, fa la sua bandiera in ogni ambito possibile, dalle scelte urbanistiche e abitative alla gestione di servizi e strutture. E non è un caso che, a fronte di dichiarazioni di un presunto PGT ambientalista, oggi sotto attacco sia Boscoincittà, collocato in un contesto dove le residue aree agricole non edificate sono di proprietà di un tale chiamato Ligresti, che a 200 mt da Boscoincittà faceva atterrare elicotteri laddove c’era Cascina Melghera e le sue attività agricole ora dismesse. Sono anni che sulle aree che circondano Boscoincittà girano i peggiori avvoltoi della speculazione immobiliare. Far saltare il tappo, “riformando” le modalità di gestione del parco, è la prima garanzia per i signori del mattone, che in un futuro vicino avranno meno disturbi a rivendicare cambi di destinazione d’uso e diritti volumetrici (con Boscoincittà ottimo parco condominiale magari…). Allora diamo alla Moratti un suggerimento: getti il cuore oltre l’ostacolo, lasci che Expo sia si ricordato dai milanesi e dal mondo ed esca dagli indugi. Boscoincittà è incompatibile con la Milano dei grattacieli, dei tunnel, degli interessi del business: ASFALTIAMOLO. Non nutrirà il pianeta, ma sa quanti posti di lavoro per un bel po’ di mesi.
Comitato No Expo Milano, 28 dicembre 2010
http://www.noexpo.it/breve.php3?id_breve=225
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La repressione non ferma la rivolta
i giovani laureati sfidano il regime 31.12.2010
Centinaia di ragazzi sono in strada da giorni: la polizia ha risposto sparando. I disoccupati si danno fuoco. Settimane di scontri e ribellioni per una crisi economica che per molti significa la fame. E i media locali non ne parlano
di ALBERTO FLORES D’ARCAIS
TUNISI – Davanti al ministero degli Affari Sociali, a pochi minuti dalla Medina, il cuore di Tunisi, una cinquantina di persone discute animatamente. “Non faccia troppe domande, qui in giro ci sono diversi poliziotti, no, questa non è una manifestazione di protesta, stiamo solo chiacchierando tra di noi”. Solo uno dei più giovani accetta di allontanarsi per rispondere a qualche domanda, dice di chiamarsi Ahmed, “un nome molto diffuso”, quando lo dice ridacchia. “Si è vero, anche qui nella capitale ci sono state proteste e se continua così altre ce ne saranno. No, niente di organizzato, è che siamo stufi, la crisi colpisce tutti, ma noi giovani ne paghiamo il prezzo più alto. Non dia retta ai giornali, quelli sono tutti schierati con il governo, solo Al Jazeera racconta come vanno veramente le cose”.
Le cose non vanno bene nella Tunisia di Zin el Abidin Ben Ali, il presidente-autocrate che dal 1987 governa con pugno di ferro in guanto di velluto questo paese del Maghreb così vicino all’Italia. Due settimane di proteste e di scontri, manifestazioni di piazza e studentesche, ribellioni per una crisi economica che per molti significa fame. Prima nel centro del Paese, lunedì scorso anche nella capitale. Proteste piccole ma significative, un malcontento evidente visto che nella storia della moderna Tunisia azioni del genere sono molto rare.
Ahmed ha ragione, solo Al Jazeera (e qualche giornale occidentale) stanno raccontando quel che succede, tentando di capire
la rabbia che cova sotto le ceneri in un Paese che nel mondo islamico è senza dubbio tra i più moderni e laici. Una denuncia pubblica che il regime di Ben Ali non è disposto ad accettare. Martedì sera è stato lo stesso presidente, con un discorso televisivo, a dettare la linea contro “le minoranze di estremisti e mercenari che provocano violenze e disordini” e a denunciare la “drammatizzazione, fomentazione e diffamazione mediatica ostile alla Tunisia”. Subito gli fanno eco i media locali (controllati quasi completamente dal regime) che, dopo aver nascosto le notizie delle proteste, dedicano pagine su pagine a denunciare Al Jazeera e “il complotto mediatico calunnioso” di cui la televisione del Qatar si sarebbe resa responsabile.
Tutto ha avuto inizio il 17 dicembre, nel giorno festivo del venerdì. Mohamed Bouazizi un giovane laureato senza lavoro che prova a sopravvivere come ambulante vendendo frutta e legumi nelle strade viene fermato dalla polizia. Gli agenti sono bruschi, Mohamed non ha la licenza, gli viene confiscato tutto.
Inutile protestare. Anche in un Paese come la Tunisia, dove il turismo è la prima industria e i diritti dei turisti sono sacri, i diritti umani sono spesso un optional. Chi dissente dal regime è un nemico e del resto il laureato-ambulante sta violando la legge e i poliziotti sono lì per farla rispettare.
Mohamed si è laureato, come decine di migliaia di studenti tunisini, grazie alla grande riforma dell’istruzione varata con successo dal presidente Ben Ali e fiore all’occhiello del governo, ma come moltissimi altri non ha trovato lavoro. È la principale contraddizione del sistema sociale tunisino, a fronte di un numero di laureati sempre più alto (e con maggiori aspettative) la percentuale di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 29 anni) ha ormai superato il 30 per cento.
Avere una laurea e dover fare l’ambulante già gli sembra un’ingiustizia, che adesso gli tolgano anche quel misero lavoro che gli serve per sopravvivere è troppo. Disperato Mohamed va davanti al municipio di Sidi Bouzid, la cittadina nel centro del Paese dove abita (265 chilometri dalla capitale Tunisi), si cosparge di benzina e si dà fuoco. Viene trasportato all’ospedale in condizioni critiche, ustioni di terzo grado in tutto il corpo, ma riesce a sopravvivere. La notizia scatena un’ondata di rabbia.
Per una settimana centinaia di giovani scendono nelle strade, proteste e slogan contro il regime, qualche macchina della polizia assalita e bruciata, una repressione brutale, dozzine di feriti. Alla vigilia di Natale e nei giorni a seguire altri scontri, questa volta più gravi. Un giovane si uccide gettandosi contro i fili dell’alta tensione, un altro viene abbattuto mortalmente dai proiettili della polizia.
Come in tutti i regimi autoritari di fronte al malcontento della piazza che viene ufficialmente negato qualcuno deve però pagare. Mercoledì saltano le teste di due ministri, Comunicazione e Gioventù, come dire che anche Ben Ali prende atto che non si tratta solamente di un complotto e di qualche testa calda prezzolata da un nemico invisibile (“il punto di partenza di questi avvenimenti è un caso sociale”), ieri è stata la volta del Governatore di Sidi Bouzid – dopo che mercoledì sera altri due giovani disoccupati si erano dati fuoco per protesta – e di quelli di Jendouba (nel nord-ovest) e Zaghouan (nord-est).
Per Ben Ali si tratta della crisi più grave da quando 23 anni fa è salito al potere. Dal luglio 1957, anno dell’indipendenza, la Tunisia è stata governata solo da due uomini, Bourghiba che rimase al potere fino al 1987 (con una fase “socialista” e una successiva apertura democratica) e l’attuale presidente che depose il vecchio leader con un “golpe” incruento per “senilità”, modo elegante per definire l’Alzheimer che lo aveva colpito.
Mezzo secolo e due soli padri-padroni. Nei cable di WikiLeaks la Tunisia di Ben Ali è stata definita una Paese di “quasi mafia”, dove il presidente e i suoi uomini fanno il bello e il cattivo tempo. Lui vuole candidarsi ancora nel 2014, dopo che l’anno scorso ha ottenuto il quinto mandato con una percentuale che un tempo veniva definita bulgara (89 per cento dei voti). In questi giorni di “rivolta del pane” per la prima volta una piccola minoranza gli chiede pubblicamente di andarsene.
http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/31/news/tunisia_rivolta-10727276/
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Alla CNA Puglia non piace il fotovoltaico per tutti di Nichi Vendola 31.12.2010
Qualche giorno fa scrivevo dell’accordo tra la Regione Puglia, Enel.si e Beghelli per portare i pannelli fotovoltaici sui tetti pugliesi. Ebbene secondo la CNA impianti- Puglia, l’operazione non sarebbe altro che uno specchio per le allodole.
Le pesanti considerazioni le fa Michele Piccione, a rappresentanza di 2598 piccole imprese ed imprese artigiane che scrive nel comunicato stampa:
Tale comportamento della Regione agevola (magari involontariamente) lo sfruttamento delle imprese minori tramite contratti capestro di sub-appalto da parte dell’ENEL e di altre aziende delle stesse dimensioni. Ciò è grave se si considera che la scelta della micro generazione in Puglia è stata abbandonata a favore di impianti medio grandi nei quali il cittadino non ha voce in capitolo; e in cambio di un esiguo beneficio in bolletta con il conto energia, è poi destinato a vedere limitato il suo patrimonio, la sua privaci, il valore stesso dei suoi immobili sottoposti a vincoli per le installazioni. Tutto questo senza considerare che i benefici oggettivi per l’utenza sono nulli, dato che l’unico risparmio possibile potrebbe essere ottenuto con mezzi più semplici come l’utilizzo di lampade a basso voltaggio.
Insomma Nichi Vendola, non avrebbe centrato l’obiettivo. Conclude, perciò Piccione, esprimendo rammarico perché:
la firma dell’accordo pugliese è solo di poco successiva al finanziamento di 123 milioni (ottenuto dall’Enel e da altre società dal MSE lo scorso 13 dicembre) per l’ammodernamento delle reti nelle quattro regioni rientranti nei POI, per consentire la connessione degli impianti da energie rinnovabili. Sconcerta quindi come un governo regionale preferisca consolidare la posizione e aumentare il potere economico di importanti aziende a sfavore delle imprese locali, dei progettisti, dei produttori e dei cittadini pugliesi.
Via | CNA Puglia
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Presto il respiro rivelerà le malattie 30.12.2010
Un dispositivo in grado di analizzare il respiro delle persone e trovare in tempo reale i segni di diverse patologie, fra cui i tumori, è molto più vicino grazie a una scoperta dell’Università di Purdue, che ha realizzato un analizzatore in grado di trovare tracce di sostanze anche di poche parti per miliardo.
L’analizzatore, descritto sulla rivista IEEE Sensors Journal, riesce a rilevare grazie a sensori basati su nanoparticelle il cambiamento della conduttività elettrica dei gas, provocato dalla presenza di molecole biologiche, nei gas che vi passano attraverso.
“Da questa analisi potremo ottenere delle informazioni preliminari, come la presenza di una sostanza che può essere associata a un tumore – hanno spiegato i ricercatori – l’informazione poi può essere confermata da esami più approfonditi“.
Il prototipo è stato testato positivamente nella ricerca dell’acetone, una molecola che può indicare la presenza di diabete e che è stato trovato in concentrazioni molto basse in un gas che simulava il respiro umano.
“Il sistema deve essere ancora messo a punto – hanno concluso i ricercatori – ma essere riusciti a realizzare l’analisi in tempo reale è un grosso passo avanti“.
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Una marea radioattiva soffocata nel silenzio 29.12.2010
Dicembre volge al termine e come ogni anno i media italiani raccontano quanto faccia freddo d’inverno, che è arrivata la neve e che è iniziata la corsa all’ultimo regalo, possibilmente il più stupido e inutile possibile. Insomma, notizie di assoluto rilievo e poco scontate, che non lasciano spazio per vicende di poco importanza come lo sversamento di tre milioni di litri di fanghi radioattivi in un insignificante paese dell’Africa nera. Greenpeace Africa aveva infatti ricevuto il 17 dicembre un rapporto su uno sversamento di 200.000 litri di fanghi radioattivi avvenuto l’11 dicembre scorso, a causa della rottura delle barriere di contenimento di tre vasche dove venivano stoccate le scorie della miniera di Somair, gestita dal gigante del nucleare francese Areva. Il 21 dicembre però il disastro è risultato essere 10 volte peggiore. La società, controllata al 90% dal governo francese, ha dovuto ammettere che dalle vasche sono fuoriusciti per “troppo pieno” 30 milioni di litri di fango radioattivo e non 200 mila. Inoltre, l’area coinvolta è di 20 ettari e non 2 come era stato precedentemente comunicato. Ancora nessun dato ufficiale è stato fornito sui livelli di contaminazione. Una marea radioattiva nel cuore del Niger, soffocata nel silenzio in Italia, dove è appena partita la grande campagna mediatica del Forum Nucleare Italiano.
L’Ong Aghir in’Man ha pubblicato le foto che documentano il cedimento delle dighe dei bacini di stoccaggio degli effluenti liquidi provenienti dal processo di macinazione dell’uranio, i cosiddetti liquidi sterili, con la conseguente contaminazione di tutta l’area circostante. Almoustapha Alhacen, che ha effettuato un controllo sulla fuoriuscita per conto di Aghir in’Man, ha confermato a Greenpeace la contaminazione del terreno in seguito allo sversamento dell’11 dicembre. L’estrazione dell’uranio produce grandi volumi di scorie radioattive e industriali. Uno sversamento nell’ambiente come quello avvenuto dalle vasche degli sterili radioattivi può causare una grave contaminazione delle acque freatiche e dei pozzi locali. “Quando l’approvvigionamento idrico locale viene contaminato con materiali radioattivi ed altri materiali, questo pone gravi rischi sanitari per la popolazione locale – spiega Greenpeace Africa – Il fango che rimane dopo la rimozione dell’uranio dal minerale contiene l’85% della radioattività iniziale del minerale. Nelle miniere di uranio in Niger, queste scorie minerarie vengono stoccate in enormi mucchi, esposti all’aria aperta”.
Secondo Rianne Teule, responsabile energia di Greenpeace Africa, “questa nuova perdita dimostra che le cattive pratiche delle miniere di uranio di Areva in Niger continuano a minacciare la salute e la sicurezza delle persone e dell’ambiente. In contrasto con le dichiarazioni di Areva, che sostiene che le loro operazioni sono conformi alle norme internazionali per sicurezza, ambiente e salute, queste nuove informazioni dimostrano che Areva non ha fatto abbastanza per proteggere la popolazione del Niger”.
A maggio, il rapporto di Greenpeace “Left in the Dust” ha rivelato alti e pericolosi livelli di contaminazione nell’aria, nell’acqua e nel suolo nei dintorni delle miniere di uranio di Areva in Niger. La multinazionale atomica ha liquidato le analisi come «di parte», ma Greenpeace ha pubblicato alcuni giorni fa il rapporto definitivo che dimostra come le due cittadine minerarie di Arlit e Akokan, costruite di sana pianta da Areva, sino circondate da aria avvelenata, il suolo contaminato e l’acqua inquinata. Il rapporto svela anche il traffico di metalli e materiali radioattivi provenienti dall’interno degli impianti minerari, con rottami metallici e attrezzature radioattivi venduti direttamente nei mercati locali e riciclati nella costruzione delle poverissime abitazioni di Arlit e Akokan. Un traffico evidente ma anche questo negato da Areva.
Ancora una volta il nucleare dimostra di essere ben lontana da un’energia pulita e sostenibile, se si prende in considerazione, come spesso si evita di fare, l’intero processo produttivo dell’energia atomica, dall’estrazione dell’uranio in miniera, passando per la centrale fino ad arrivare allo smantellamento dei reattori e allo stoccaggio delle scorie. Non si può prendere in considerazione la sola produzione di energia senza contare il mondo che gravita intorno.
Intanto l’Uranio che si sta estraendo da queste miniere del Niger potrebbe presto finire anche nelle centrali che il governo Berlusconi, con il sostegno dell’esimio professor Veronesi, vuole costruire in Italia.
http://carloruberto.blogspot.com/2010/12/una-marea-radioattiva-soffocata-nel.html
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Salvare il mondo. Cosa puoi far da subito: dieci suggerimenti 29.12.2010
Dieci consigli di Harald Welzer, professore all’Istituto di scienze culturali di Essen
1) Pensa con la tua testa
2) Abbi fiducia, una buona volta, nella sensazione che provi di trovarti in un grande teatro delle illusioni. E’ vero che la scena simula stabilità, ma il pezzo è una farsa. Sul palcoscenico appaiono continuamente uomini grassi che gridano “Crescita!”, speculatori che giocano a domino con i Paesi, ragazze che con i loro balletti disegnano catastrofi. Il pubblico è irritato e magari arrabbiato, eppure rimane lì seduto fino alla fine dello spettacolo. Ma quando avverrà tutto questo?
3) Abbandona la recita e comincia a porti alcune domande semplici. Per esempio: Perché si dovrebbe lavorare sempre di più se già si lavora di più? Perché i debiti aumentano quanto più si risparmia? Perché l’economia cresce e tutto il resto diminuisce?
4) Cerca le risposte con i tuoi amici. Per esempio: Perché anche tutti gli idioti lavorano di più. Perché i risparmi finiscono nelle tasche altrui. Perché molte aziende quotate in borsa costituiscono società parallele all’estero.
5) Se queste risposte t’inquietano, puoi decidere di non volerne più sapere, fin da ora.
6) Inizia subito a smetterla. A smettere di credere agli europolitici, ma soprattutto agli Istituti di ricerche economiche. E, per l’amore del cielo, non ascoltare più, senza opporti, alla teoria che ogni altra decisione sarebbe stata senza alternative. In democrazia una cosa simile non può esistere.
7) Se sei arrivato al punto di non tollerare più qualsivoglia sciocchezza, usa i tuoi margini di manovra. Vivi in uno dei Paesi più ricchi della Terra, sei ben istruito, la vita ti piace e la trovi ottima. Perché mai dovresti fare ogni giorno le stesse cose e non qualcosa di diverso?
8) Come sfruttare il tuo margine di manovra? Semplicemente guardando ciò che altri fanno. C’è una miriade di spunti e di progetti fantastici: cooperative per la produzione d’energia; giardini in comune con i vicini; consumo equo; monete locali; Fondazioni generose; aziende che si sottraggono all’imperativo di ingrandirsi. Se sei un giornalista, scrivi in modo più politico. Se operi nel mondo scientifico, impegnati per un futuro diverso. Se sei alla catena di montaggio, proponi altri temi di discussione nelle pause di lavoro. Se hai un ristorante, acquista in un altro modo. Se mangi fuori casa, chiedi da dove viene il pesce. Se sei un insegnante, interessati del futuro dei tuoi allievi. Se dirigi una casa per anziani, cerca la fusione con una scuola materna. Se presiedi una delle quattro maggiori aziende energetiche, pensa alle fiamme dell’inferno. Se hai una fabbrica, produci cradle to cradle (“dalla culla alla culla” -visione di un ciclo continuo senza lasciare scorie, ndr). Se ti ritieni un intellettuale, rischia un po’.
9) Cerca di partecipare a qualcosa di cui puoi dire con orgoglio: “Noi lo facciamo in modo diverso!”. Per esempio sviluppare una cultura dell’attenzione; considerare più interessanti le idee dell’esperienza; non vivere a scapito degli altri, o qualsiasi altra cosa che ti venga in mente. Essere portati al futuro è esattamente il contrario del business as usual (“tirare a campare” o “gli affari sono affari”, ndr). Significa essere pronti a imparare, anche a sbagliare, a essere reversibili nel nostro agire.
10) Crea laboratori del futuro, divertendoti. Dimentica il film “L’undicesima ora”, il bla bla dei movimenti ecologisti e i discorsi sulla “comunità mondiale” o la necessità di soluzioni globali. Nessuno s’è avvicinato alla tua culla per dirti con voce cavernosa: “Caro, sei venuto da noi per salvare il mondo!”. E’ più che sufficiente se cominci a trattare la tua vita, i tuoi affetti e il tuo Paese con senso di responsabilità e guardando al futuro. Ma, per favore, da subito.
Annulla il prossimo stupido viaggio aereo (tanto non ci tenevi ad andare lì), non ordinare l’auto nuova (ti renderebbe infelice poiché speravi che ti avrebbe reso più felice), non comprare più nulla che sia troppo a buon mercato (giacché qualcuno avrà avuto troppo poco). In questi giorni di festa comunica ai tuoi figli o ai tuoi nipoti che d’ora in poi cambierai vita. Ti aiuterà a metterlo in pratica (non potrai più tirarti indietro).
(articolo pubblicato sul quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung del 27/12/2010. Traduzione di Rosa a Marca)
http://www.aduc.it/articolo/salvare+mondo+cosa+puoi+far+subito+dieci_18548.php
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