TASHAKOR, MR. SBANCOR
Rattus, 28.04.2010
Un raccontino breve scritto in fretta e senza alcuna pretesa, per ricordare insieme aspetti, affetti & effetti di un grande uomo e pensatore nel secondo anniversario della sua scomparsa. La scelta della forma narrativa serve anche a evitare interpretazioni troppo severe di quelle che sono soltanto delle rapide congetture intorno ad alcune tematiche ricorrenti nei lavori e negli interventi di Sbancor.
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«Là fuori» disse Joseph K. «c’è l’Africa, là fuori c’è l’oscurità in attesa di…. triturarci tutti. Là fuori il fiume Congo è un serpente pericolosamente arrotolato, con la testa nel mare e il corpo in un inferno di febbri, e se c’è un senso nel consacrare questo viaggio all’integrazione di realtà diverse, è soltanto perché là fuori non ci sono linee ben definite. Là fuori c’è solo il grande oblio. Sì, è nell’incontro con questa nerezza che nella nostra anima vengono strappate alcune strisce, e dalle ferite, per alcuni di noi, sgorga la coscienza di chi siamo e la coscienza che la solitudine in un certo senso fa parte dell’esistenza, che viviamo come sogniamo, ovvero completamente soli.» (Peter Hoeg)
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Renato restò immobile qualche attimo nel cortile di ingresso del padiglione del San Michele. Gli parve ancora una volta che il cortile del padiglione “C”, costruito negli anni ’30, richiamasse vagamente nella struttura delle volte e nei disegni del pavimento il museo di Attanasio Kircher al Collegio Romano. Una generica sensazione di antropologismi improvvisati e di sincretismi religiosi d’accatto che gli era stata di conforto nel corso di quei tre mesi di lavoro presso il centro emergenza freddo. Il lavoro era finito da una settimana. Precisamente da quando, alla scadenza prevista, l’ente pubblico preposto aveva smontato letti e armadi, computer e scrivanie, lasciando i rifugiati afghani in mezzo alla strada. Un’associazione di volontari aveva provato a organizzare un resistenza. Per qualche settimana erano riusciti a resistere nel padiglione. Ma ormai la direzione del San Michele aveva parlato chiaro: non erano più disposti a tenerli. Aveva quell’appuntamento con Mohamed fissato da qualche giorno. Ne avrebbe approfittato anche per comunicargli che la settimana seguente sarebbe venuta la polizia a cacciarli dal centro.
«Siedi pure, sahib.»
Renato pensò che quell’espressione affettuosa e confidenziale, quel “sahib”, che in persiano vuol dire “amico” e che fino al giorno prima aveva sentito solo sulla bocca degli hazara, stesse ad indicare un’intesa che ormai andava oltre qualsiasi razza o identità tribale o etnica. Un pashtun che esprime in “farsi” la sua amicizia dimostra di voler superare molti degli antichi steccati e pregiudizi etnici. Renato non conosceva né il farsi né il pashto, ma aveva dovuto imparare a riconoscerne le parole principali. Dare il buon giorno in “farsi” a un afghano di etnia pashtun poteva essere sconveniente.
«Nazionalità umana, nevvero?» chiese soridendo mentre si toglieva le scarpe per accovacciarsi sulla coperta grigia distesa sul pavimento.
«Yes, of course» rispose Mohammed mentre riempiva due tazze di tè, proprio quel “chai” forte e nero che aveva ricevuto da Kabul qualche settimana prima e che amava servire bollente e carico di zucchero.
Bevvero un lungo sorso fissandosi reciprocamente con serena attenzione. Renato fece qualche rapido cenno di apprezzamento del té con la testa, poi si appoggiò con la schiena al muro e disse quel che doveva dire: «Tra qualche giorno vi manderanno via, Mohamed.»
«L’avevo capito, sahib agha.» L’aggiunta di “agha” a sahib indicava che la stima e l’amicizia di Mohamed non venivano meno nonostante quel che stava accadendo.
Dei rifugiati afghani che aveva conosciuto in quei tre mesi di lavoro all’emergenza freddo ciò che l’aveva più colpito era questa loro dignità solenne, quasi ieratica. Il “namus” l’orgoglio pashtun, era letteralmente mortificato dall’inospitalità degli indigeni, dall’arroganza degli italiani. Ma proprio per questo, nobili di una nobiltà del tutto illegibile all’umanità volgare e frenetica della metropoli, gli afghani si sforzavano di non dare minimamente a vedere il loro disagio e il loro imbarazzo. In questo Hazara e Tagichi non erano diversi dai Pashtun. In un certo senso, per tutti loro era più dolorosa l’umiliazione di essere cacciati in quel modo che la tragedia di dover dormire in strada.
Mohamed capì i pensieri dell’amico e sospirò un tenue «Mashallà» che a Renato suonò come una sorta di “tira a campà” consolatorio, nemmeno fosse Mohamed a dover consolare lui e non viceversa. Mashallà: “Così ha voluto il Signore”.
In quei mesi di lavoro al Centro d’accoglienza Renato aveva dato prova di grande equilibrio, conquistando la loro fiducia soprattutto nei momenti difficili, bilanciando sapientemente intelligenza e cuore. Ma adesso l’empatia iniziò a sembrargli una trappola. Il guaio era che mentre Mohamed faceva di tutto per nascondergli il suo malumore, lui, Renato, riteneva invece di avere il diritto/dovere di fare esplodere quello che da giorni stava covando nella sua testa. E tanto più l’amico afghano minimizzava, tanto più lui imbufaliva.
«Vuoi sapere una cosa, Mohamed ? Beh, io mi vergogno ! Mi piacerebbe poter dire che non sono italiano, che sono un’altra cosa, “un cittadino del mondo” o balle del genere. Mi piacerebbe dire che la colpa è del governo o del testa di manzo che abbiamo come sindaco. Ma la verità è un’altra. Mi piaccia o no io sono italiano, r-o-m-a-n-o, Mohamed.»
Stava urlando: «Io sono responsabile come tutti di quello che sta accadendo a voi rifugiati. E tu avresti il sacrosanto diritto di insultarmi e sputarmi addosso. Altro che Mashallà!».
La risposta di Mohamed fu tanto pacata quanto difficilmente prevedibile. Fissò a lungo il suo tè, come se cercasse di vedere sul fondo la forma esatta dei suoi pensieri. Poi alzò gli occhi verso Renato atteggiando un sorriso mesto: «A volte mi chiedo anch’io che razza di uomini siete. In questi mesi, fin quando c’è stata l’emergenza freddo, c’erano alcune persone che mi chiavano “fratello”. Bene: quando è finito il finanziamento, passati i tre mesi previsti dall’emergenza freddo, tutte le persone che lavoravano qui, compresi i cosiddetti volontari della Croce Rossa, sono andate via. Ho perso i miei fratelli?
Solo tu sei tornato. E proprio a te dovrei sputare? Ma, in questo comportamento, non lo nego, c’è qualcosa di difficile da comprendere per noi. E’ un po’ come se la vostra amicizia seguisse un andamento a tempo, un po’ come se fosse un lavoro a scadenza.
Io non dubito del fatto che la vostra costituzione prevede che i rifugiati siano accolti. Ma non mi sento in diritto di strillare per questo. Non chiedermi di fare una barricata per questo motivo. E’ la “vostra” costituzione. Cerca di intendermi, Sahib. Non ti sputerei mai per il fatto che il tuo paese non mi da un tetto per dormire, come ospite e come afghano, proprio non potrei farlo. Se devo essere sincero fino in fondo forse una persona che smette di considerarmi suo amico appena termina il suo contratto di lavoro a tempo determinato mi fa un po’ impressione, ma non le sputerei per questo, no».
Fu a quel punto che Mohamed estrasse il pacco di fogli che Renato gli aveva portato la settimana precedente. Un paio di centinaia di cartelle stampate con una laser. Il titolo: “American Nightmare”. L’autore: “Sbancor”. Poggiò una mano sul fascio di fogli mentre con l’altra scuoteva dolcemente la tazza di tè.
«Ho letto con attenzione,Sahib Agha. Il tuo amico vedeva molto lontano. Non mi stupisce che sia morto in circostanze poco chiare. Sul mio paese aveva capito l’essenziale. Naturalmente come musulmano non posso condividere tutto quello che ha scritto.
Ma, ecco: c’è qualcosa di questo scrittore che sento molto vicino ma che riesco appena a intuire. Vorrei chiederti sahib, cos’era davvero per lui l’orrore ? Chi era veramente Kurtz?»
Renato sentì un vago senso di vertigine. Era come se Mohamed gli stesse porgendo la chiave per aprire uno scrigno che lui non aveva mai pensato seriamente di aprire: lo scrigno di Sbancor. E tutto per rispondere a quella maledetta domanda: “che razza d’uomini siete?”.
Adriano Sofri, qualche settimana prima, aveva realizzato un suo personalissimo riadattamento poetico di “se questo è un uomo” di Primo Levi. E qualcuno aveva appeso un foglio con la poesia di Sofri all’ingresso del centro di accoglienza. Cominciava così:
Di nuovo, considerate di nuovo
Se questo è un uomo,
Come un rospo a gennaio,
Che si avvia quando è buio e nebbia
E torna quando è nebbia e buio,
Che stramazza a un ciglio di strada,
Odora di kiwi e arance di Natale,
Conosce tre lingue e non ne parla nessuna,
Che contende ai topi la sua cena,
Che ha due ciabatte di scorta,
Una domanda d´asilo,
Una laurea in ingegneria, una fotografia,
E le nasconde sotto i cartoni (…)
Mentre cercava di scorrerla mentalmente Renato capì che Mohamed in realtà aveva rovesciato del tutto quella domanda: “Che uomini siete?” chiedeva. Ben altra questione.
E non era forse questa la domanda che Sbancor aveva riproposto ogni giorno con pacata insistenza negli ultimi anni della sua vita? Quella domanda così orgogliosa, fiera gli diveniva finalmente intelligibile attraverso il codice pashtun, attraverso il “namus”: «Di nuovo, considerate di nuovo se VOI siete uomini…».
Che in realtà voleva dire: considerate (uomini o donne che siate) se siete “umani”. Se potete ritenervi tali.
Mohamed non conosceva Joseph Conrad, come del resto Renato non aveva mai conosciuto Rumi. Ma quando, mesi addietro, Mohamed gli aveva spiegato Rumi e il sufismo, si erano presi tutto il tempo di cui avevano bisogno. Renato, su cui era discesa una calma olimpica, iniziò a parlare lentamente scandendo le parole meglio che poteva:
«Kurtz è un personaggio di un famosissimo romanzo, “Cuore di tenebra”, di un grandissimo scrittore, Joseph Conrad. Sei stato abile nel cogliere l’importanza che questo romanzo ha avuto nella vita e nel pensiero di Sbancor. E’ citato più volte nei suoi libri, compare, quasi immancabilmente, nei suoi scritti pubblicati in rete, anche nell’ultimo. Mi dici che ti piacerebbe capire per quale motivo Sbancor abbia tanto insistito su quel personaggio. Me lo sono chiesto anch’io e posso provare a dare un primo abbozzo di risposta.
Conrad passò la gioventù sulle navi, diventando un abilissimo marinaio. “Cuore di tenebra” è il racconto di un viaggio di esplorazione nell’Africa profonda alla fine dell’Ottocento.
Il protagonista del racconto affronta il viaggio da uomo di mare, alla guida di un battello belga che risale il fiume Congo. In quel viaggio incontra gli uomini delle compagnie commerciali, i trafficanti di avorio, gli avventurieri. Kurtz, tra le personalità di spicco di quell’avventura coloniale era l’uomo che si era spinto più avanti nell’esplorazione. Aveva costruito una sorta di piccolo impero personale muovendosi con abilità e intelligenza. Il racconto è imbevuto dell’attesa e della speranza del protagonista di raggiungere Kurtz: l’uomo che deteneva la verità profonda e segreta del colonialismo belga nell’Africa Centrale. Ebbene: quando il protagonista del racconto giunge alla stazione in cui viveva Kurtz lo trova morente. Riesce però a cogliere le sue ultime parole: “l’orrore !!”
Ora arriviamo al punto difficile del ragionamento, Mohamed. Cos’era l’orrore ? Cosa intendeva per “orrore” Joseph Conrad ? Cosa aveva visto Kurtz ? Non erano solo le ingiustizie del colonialismo, lo sfruttamento degli schiavi, le violenze. L’orrore era la pretesa che tutto questo avesse una giustificazione morale, che avvenisse, per così dire, “nel segno del bene”. Conrad aveva orrore delle guerre umanitarie, della doppiezza morale con cui si mandavano le persone ad uccidere e si continuava a fingere di operare nel nome del progresso. Questo stesso orrore, a un certo punto della sua vita, ha attanagliato Sbancor. C’è di più. Conrad, proprio come Sbancor, inorridiva di fronte a un determinato tipo di uomo, che somiglia terribilmente al tipico uomo politico occidentale: all’allievo delle Business School o delle Scuole di Pubblica Amministrazione. Kurtz era l’antesignano di tipi di questo genere: scriveva saggi sull’educazione dei selvaggi mentre gli spezzava la schiena a furia di carichi d’avorio. Intendiamoci mohamed: quando dico uomo intendo essere umano, maschio o femmina che sia. So bene che non ti piace, ma ti ci devi abituare.»
Mohamed sorrise amaramente «Anche da noi sono i fiumi le vene aperte della nostra terra, e perdono sangue ogni giorno. Pakistan e Iran sfruttano le nostre risorse esattamente come i vostri coloni sfruttavano quelle dell’Africa. L’orrore, purtroppo, non è una vostra esclusiva, sahib.»
«Certo, Mohamed. E se è per questo anche la vostra gente ha una responsabilità terribile per come si è comportata con gli hazara nel corso dei secoli. Ma l’orrore di cui parla Conrad non sta solo nello sfruttamento o nell’odio, ma nel calcolo che si abbarbica dietro all’odio e riesce a farlo crescere per ricavarne nuove forme di sfruttamento. Il gioco dei piccoli mercanti d’armi, solo per fare un esempio».
Scorse i fogli del libro di Sbancor fino a trovare un punto: «Leggi qui» disse indicando con il dito. L’afghano lesse ad alta voce quelle poche righe: «C’è qualcosa di perverso però, qualcosa che rimanda verso l'”orrore” perché resuscita e usa qualcosa che proviene dalla parte non umana dell’uomo. Qualcosa di arcaico e di terribile. Qualcosa che la nostra “civilizzazione” ha tentato da sempre di segregare. Questo “lato nero” della geopolitica proviene in via diretta dalle scuole di etnologia della CIA. Sono le identità di sangue, le etnie, che marchiano la terra di confini labili ma pericolosi.»
Mohamed, contrariamente a ciò che temeva Renato, lasciò che le parole di Sbancor lo attraversassero. Era un pashtun sunnita e come tale non gradiva che venissero intaccate la sua identità etnica e le sue tradizioni. Ma cominciava a sospettare che il suo orgoglio identitario era un comodo punto d’appoggio per i faccendieri dell’orrore, per uomini capaci di scatenare faide interminabili al solo scopo di vendere fucili mitragliatori o di appropriarsi di qualche tonnellata d’oppio. E questo era solo il livello più basso e visibile dell’orrore: c’erano livelli più alti e più complessi, difficilissimi da individuare ai comuni mortali e legati alle rotte delle risorse energetiche, le grandi pipeline, alla geopolitica delle grandi potenze e a quella delle economie emergenti. Questo era il territorio in cui si muovevano le analisi di Sbancor.
«Per Sbancor» riprese Renato «le cose erano assai più difficili che per Conrad. Lui non era un marinaio, lavorava nell’alta finanza ed era un analista geoconomico di professione. L’orrore lo leggeva in punti percentuali sui grafici. Le domande che per lavoro doveva porsi per capire chi avesse interesse a far scoppiare quella guerra o ad organizzare quell’attentato, erano diventate per lui domande di carattere etico e politico.
Probabilmente l’orrore per lui era soprattutto l’uso strategico della asimmetria delle conoscenze. Già Kurtz nel racconto di Conrad aveva abilmente approfittato della sua conoscenze e della sua abilità nelle relazioni con gli indigeni per farsi venerare da quella gente come una specie di divinità. E mentre quelli lo veneravano lui mandava tonnellate di avorio verso l’Europa. A distanza di centoventi anni dai viaggi di Conrad sul Roi des Belges l’asimmetria nella conoscenze rimane una delle chiavi privilegiate per interpretare i fenomeni di sfruttamento che proliferano sulla superficie del pianeta. Nelle università finanziate dagli industriali dominano concetti come quello di “teoria della razionalità limitata” che gratta gratta altro non sono che modelli teorici del raggiro e dello sfruttamento su scala planetaria. Parlare di razionalità limitata (Simon) o di informazioni parziali (Hayek) significa parlare di asimmetria nelle conoscenze e dei vantaggi che ne possono derivare.
Lo chiamano “libero mercato” ma in effetti da quando gli olandesi riuscirono a farsi dare l’isola di Manhattan per pochi dollari di cianfrusaglie dagli indiani, il confine tra libero scambio e imbroglio tecnicamente e scientificamente organizzato è divenuto sempre più sottile e quasi impalpabile. Anche questo è l’orrore, lo era per Conrad come per Sbancor.»
«Pensi l’abbiano ucciso, sahib ?»
«Non lo so. Ma per venire alla tua domanda principale, bachem: lui era un uomo. Meglio: era umano. Quanto a noialtri qui, francamente non lo so. Me lo chiedo da diverso tempo anch’io….».
La sera era scesa sul centro d’accoglienza e i rifugiati, appena saputo del prossimo sgombero, avevano cominciato a ritirare dai loro armadietti gli effetti personali. A dispetto di ogni intenzione Renato e Mohamed non si sarebbero incontrati più. Ma “American Nightmare”, qualche giorno dopo, prese la rotta per Kabul.
http://www.babelteka.org/btiki/tiki-read_article.php?articleId=33
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Il cipresso, un efficace pompiere, 28.04.2010
Per limitare gli effetti degli incendi boschivi l’Istituto per la protezione delle piante (Ipp-Cnr) ha proposto in sede europea un progetto per la costituzione di barriere verdi di cipresso. L’innovativa proposta di contrastare gli incendi (fino a quelli di media intensità) con una specie arborea ha già dato prova di efficacia in occasione di alcuni eventi in Turchia.
“È un approccio paesaggisticamente molto valido, economico (per la produzione di legno che ne deriva) ed ecologico, perché il Cupressus sempervirens è una specie autoctona del bacino mediterraneo”, aggiunge Paolo Raddi, ricercatore associato dell’Ipp-Cnr, che spiega i dettagli dell’idea: “Prevediamo la realizzazione di fasce verdi costituite con 50 cloni di cipresso della varietà a chioma espansa, resistenti al cancro, disposti su 17 file con un sesto d’impianto di 3mx3m. Il cipresso ha una bassa infiammabilità rispetto ad altre specie mediterranee e l’aspetto largo della varietà horizontalis, insieme all’elevata acidità della lettiera (le sostanze organiche morte che si raccolgono alla base) ostacolano la germinazione dei semi e quindi lo sviluppo delle piante di sottobosco. La stessa lettiera si mantiene umida e compatta grazie alla sua capacità di ritenzione idrica e il tronco liscio ostacola la progressione dell’incendio. Il cipresso, poi, si ‘autopota’ negli anni, allontanando da terra la massa infiammabile”.
U un albero ideale, insomma, per impedire il propagarsi di una delle maggiori problematiche ambientali del bacino mediterraneo. L’idea dell’Ipp-Cnr è stata presentata al ‘Programme Operationnel Med’ con partner portoghesi, spagnoli, francesi, maltesi, greci, turchi, tunisini ed israeliani, superando con merito la prima selezione.
L’Ipp-Cnr ha una lunga esperienza scientifica sul cipresso. Spiega Raddi: “L’attività sul miglioramento genetico è iniziata nel 1975 e nel tempo ha ottenuto dalla Comunità europea il finanziamento di sette progetti quadriennali. I risultati ottenuti hanno riguardato l’incremento delle conoscenze scientifiche sulla biologia e sulle principali avversità, oltre all’ottenimento di una larga base genetica di selezioni resistenti al cancro, da utilizzare per realizzare impianti di tipo ornamentale, protettivo e per frangivento”.
Claudio Barchesi
Fonte: Paolo Raddi , Istituto per la protezione delle piante, Sesto Fiorentino, tel. 0039-055-5225582, email p.raddi@ipp.cnr.it
http://www.almanacco.cnr.it/reader/cw_usr_view_articolo.html?id_articolo=662&giornale=618
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Con tiglio e biancospino, smog e Co2 la piantano, 28.04.2010
Per contribuire a contenere il riscaldamento globale è stato istituito dall’Accademia Kronos, in collaborazione con l’Associazione italiana cultura e sport (Aics) e il Comune di Roma, il premio ‘Un bosco per Kyoto’, che nel 2010 ha visto premiata Rita Baraldi dell’Istituto di biometeorologia (Ibimet) del Cnr di Bologna per i suoi studi sulla funzione benefica degli alberi per l’ambiente e la salute umana.
La ricerca, partita nel 2007, ha fornito precise informazioni sull’interazione pianta-atmosfera e sulle specie vegetali più adatte alla mitigazione ambientale. “Durante la fotosintesi, le piante non solo accumulano CO2 dall’atmosfera e liberano ossigeno in modo direttamente proporzionale alla superficie fogliare”, spiega Baraldi, “ma rilasciano anche nell’aria i Voc, che impartiscono il caratteristico profumo alla pianta e l’aiutano a sopravvivere, attraendo gli insetti impollinatori e proteggendola da condizioni ambientali sfavorevoli, quali temperature e intensità luminose eccessive”.
Lo studio ha evidenziato proprio che “i Voc hanno un ruolo determinante nella chimica dell’atmosfera, contribuendo alla formazione e/o alla rimozione di ozono troposferico, presente negli strati più bassi dell’atmosfera in funzione della concentrazione di sostanze inquinanti antropogeniche (traffico veicolare, processi industriali, riscaldamento degli edifici), in particolare degli ossidi di azoto (NOx)”, prosegue Baraldi. “Una corretta progettazione delle coperture verdi in città richiede dunque un’opportuna scelta delle essenze vegetali da impiantare”.
La ricerca ha permesso di classificare le alberature in base all’impatto ambientale “Decisamente adatti per l’elevata capacità di assorbimento di CO2 e una bassa emissione di Voc si sono rivelati l’orno (Fraxinus ornus), il biancospino (Crataegus monogyna) e il tiglio selvatico (Tilia cordata)”, precisa la ricercatrice dell’Ibimet-Cnr, le cui schede stanno concorrendo a creare la banca dati più importante d’Europa nel suo genere, con il fine di creare un modello adottabile da comuni e privati.
Nella stessa direzione si inserisce il progetto CarboItaly, nato da una collaborazione tra Cnr, università e rete meteorologica nazionale, che ha realizzato 20 stazioni di controllo della quantità di anidride carbonica assorbita da agricoltura e foreste. Tra i siti selezionati vi è il bosco della Partecipanza di Nonantola (Mo), già incluso nel progetto europeo Carbo-EuroFlux per il monitoraggio dell’assorbimento di CO2: una ‘Kyoto forest’, in quanto la sua attività di rimozione dell’anidride carbonica è rendicontabile ai sensi del protocollo omonimo.
“La capacità del bosco di Nonantola è stata quantificata attraverso una tecnica micro-meteorologica (Eddy Covariance) che permette di calcolare lo scambio netto dell’ecosistema, cioè quanto biossido di carbonio viene sottratto dall’atmosfera al netto dei processi respirativi delle piante e degli organismi eterotrofi, quali i batteri del terreno”, spiega Marianna Nardino che ha coordinato il progetto dell’Ibimet-Cnr. “Dal suo impianto a oggi, questo bosco ha fissato circa 6000 t di CO2“.
Le misure condotte hanno però evidenziato come la capacità di assimilazione delle piante dipenda fortemente dalle condizioni meteo-climatiche. “Durante il 2003, quando un’anomala onda di calore ha investito il sud dell’Europa per diversi mesi”, sottolinea Nardino, “il bosco ha assimilato quantità minori di CO2 a causa dello stress idrico che ha ridotto la traspirazione fogliare e di conseguenza modificato il processo di fotosintesi”.
Le riforestazioni previste da Kyoto possono dunque rappresentare un valido contributo alla diminuzione di CO2, tenendo però presente che la fisiologia dei boschi e la bioclimatologia richiedono ricerche più approfondite per comprendere i meccanismi di funzionamento di questi ecosistemi.
Giuseppe Di Eugenio
Fonte: Rita Baraldi, Istituto di biometeorologia, Bologna, tel. 051/6399014, email r.baraldi@ibimet.cnr.it
Fonte: Marianna Nardino, Istituto di biometeorologia, Bologna, email m.nardino@ibimet.cnr.it
http://www.almanacco.cnr.it/reader/cw_usr_view_articolo.html?id_articolo=635&giornale=618
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Fiumicino. L’aeroporto mangiatutto, 28.04.2010
Scandaloso consumo di risorse pubbliche e patrimoni comuni, di cui nessuno parla. Articoli di Alessandro Ferrucci, Luca De Carolis e Chiara Paolin, da il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2010
Fiumicino, 10 miliardi con danno ambientale
di Alessandro Ferrucci
Tre nuove piste per il Leonardo da Vinci, un’opera più costosa del Ponte di Messina, al centro la famiglia Benetton. Ma nessuno ne parla
TERRA. ARIA. ACQUA.
Manca il fuoco, per completare i quattro elementi. Ma ci sono i soldi. Tanti, tantissimi, forse come non se ne sono mai visti prima. Anche oltre i 6,3 miliardi stanziati per il “Ponte di Messina”. No, quelli non bastano per raddoppiare l’Aeroporto di Fiumicino. Ce ne vorranno almeno 10. Eppure nessuno ne parla. Silenzio. Dagli imprenditori coinvolti, agli organi di Stato, fino a gran parte della politica. Zitti tutti. Gli unici pronti ad alzare la voce sono uno sparuto gruppo di cittadini di Maccarese e Fregene, frazioni di Fiumicino, alle porte di Roma. Sono loro a gridare “aiuto, vogliono cementificare le nostre vite”.
Quindi ecco la terra: per realizzare l’opera sono necessari 1.300 ettari; aria: la motivazione data da Aeroporti di Roma è che il traffico aereo sulla Capitale raggiungerà, da qui al 2044, i 100 milioni di passeggeri, rispetto agli attuali 36. Acqua: la zona prescelta è a un chilometro, in linea d’aria, dal litorale, zona bonificata negli anni ’20 da contadini veneti e ora dedita ad agricoltura.
LA “MACCARESE SPA”E GLI IMPRENDITORIDI TREVISO
Agricoltura specializzata. In mano, per oltre il 98 per cento, alla “Maccarese spa”, società nata negli anni ’30, di proprietà prima della “Banca Commerciale” e poi del gruppo “Iri”, ma nel 1998 acquistata dalla famiglia Benetton per circa 93 miliardi “con l’impegno di mantenere la destinazione agricola e l’unitarietà del fondo”, come recita l’accordo. Già, a meno di un esproprio. “Se l’Enac (il braccio operativo del ministero dei Trasporti, ndr) dovesse decidere che quella zona è necessaria per realizzare un’opera fondamentale per la collettività, allora verrebbero avviate le pratiche per ottenere le terre”, spiega una fonte di AdR. Tecnicismi, che nascondono ben altro. Proviamo l’equazione: la “Maccarese spa” è di Benetton. Gemina possiede il 95 per cento di Adr. Gemina è di Benetton. Cai, quindi la nuova Alitalia, sta concentrando sulla Capitale quasi tutto il suo traffico aereo nazionale e internazionale. I Benetton, dopo Air France, il gruppo Riva e Banca Intesa, sono i quarti azionisti di Cai con l’8 e 85 per cento. Insomma gli “united colors” rivenderebbero allo Stato, quello che dallo Stato hanno acquistato, per poi ottenere i finanziamenti utili a realizzare un qualcosa da loro gestito e sul quale lavoreranno direttamente quanto indirettamente. “Questione di lobby, di business sulla testa delle persone – spiega Enzo Foschi, consigliere regionale del Lazio per il Pd –. Perché vede, non c’è alcuna necessità di raddoppiare, nessuna. Basterebbe organizzare meglio l’aeroporto e nell’attuale sedime. Anche così il ‘Leonardo da Vinci’ sarebbe in grado di sopportare il raddoppio di passeggeri”. Invece “si uccideranno le prospettive di un territorio – continua Foschi – vocato all’agricoltura, al turismo e all’archeologia, per le necessità di pochi, di pochissimi. È una vergogna”. Una vergogna “silenziosa”. Come detto, il Fatto ha più volte contattato gran parte della politica laziale per avere delle risposte. Dai big, come il neopresidente Renata Polverini, il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, fino a consiglieri e assessori. Niente da fare. O al massimo un “sì, leggiamo e vedremo se intervenire. Grazie”. “Sono mesi che poniamo interrogativi, sempre inevasi – spiega Marco Mattuzzo del ‘Comitato fuoripista’ –. Siamo choccati da tanto silenzio, ci sentiamo soli e inermi. Abbiamo interpellato tutti, compreso l’Enac per capire. Risultato? Non volevano darci neanche le informazioni di cui abbiamo diritto”. Almeno per capire dove e quando.
Tutto nasce nell’ottobre del 2009. Conferenza stampa convocata da AdR. Toni pacati, sorrisi grandi. Pacche sulle spalle e l’atteggiamento di chi dice: siamo alla svolta, chi non lo capisce è fuori dal mercato. È fuori tempo. L’occasione è presentare a governo ed Enac il piano di sviluppo. Il presidente di AdR, Fabrizio Palenzona, spiega: “Sono previsti investimenti per 3,6 miliardi di euro fino al 2020, nell’ottica di un progetto che punta a una capacità di 55 milioni di passeggeri nel 2020 e di 100 milioni nel 2040”. Attenzione alle cifre: i 3, 6 miliardi sono solo per arrivare ai 55 milioni; per toccare quota 100 c’è chi osa sparare quel numero iperbolico: 10 miliardi (“Basta moltiplicare il costo per il numero di passeggeri” ci spiega la nostra fonte in Adr). E per questo è necessario “un grande patto tra investitori e istituzioni – continua Palenzona – attraverso un quadro certo di regole e tariffe per consentire un così ingente piano di investimenti privati: un piano che ha il sostegno di imprenditori che rischiano, mettono soldi nel mercato, ma hanno bisogno di certezze”.
“Tariffe”, la parola magica. Come conferma Gilberto Benetton: “Il tutto è vincolato nella prima fase all’ottenimento di un aggiornamento delle tariffe, nella seconda fase a una nuova convenzione che preveda anche un ritorno sugli investimenti futuri”. Dichiarazione rilasciata sempre a ottobre, poco prima di un incontro ufficiale a Villa Madama, Roma. Presente anche il responsabile divisione corporate e investment banking di Intesa Sanpaolo, Gaetano Miccichè. Guarda caso “Intesa” è il terzo socio di maggioranza in Cai.
LA PREOCCUPAZIONE DELLE BANCHE E LE CONDIZIONI
I soldi ci sono. Eccoli. Loro chiedono un adeguamento. L’adeguamento c’è. Dalla legge finanziaria presentata il 23 dicembre del 2009, si legge: “È autorizzata, a decorrere dall’anno 2010, e antecedentemente al solo periodo contrattuale, un’anticipazione tariffaria dei diritti aeroportuali per l’imbarco di passeggeri in voli all’interno e all’esterno del territorio dell’Unione europea, nel limite massimo di 3 euro per passeggero, vincolata all’effettuazione di un autofinanziamento di nuovi investimenti infrastrutturali urgenti”. Più urgenti di un raddoppio? C’è un “però”: AdR ha ottenuto un incremento di imbarco pari all’inflazione programmata del 2009 (l’1,5 per cento, quindi da 5,17 euro a 7,57). Ma secondo quanto riportato il 6 aprile da il Sole 24 Ore a firma Laura Serafini, AdR non ritiene di essere in grado di finanziare l’opera con le norme attualmente vigenti sulle tariffe. “Lo potrà fare solo con un nuovo sistema, tutto da negoziare con l’Enac entro la fine del 2010, che secondo quanto già dichiarato dai vertici di AdR dovrebbe riconoscere allo scalo la stessa convenzione data ad Autostrade, che dunque garantirebbe aumenti per i prossimi 34 anni (la concessione AdR scade infatti nel 2044)”. Da qui lo scoglio: manca la garanzia che il ministero dell’Economia, chiamato ad approvare quel contratto assieme al ministero dei Trasporti dia il via libera a questo tipo di contratto. E le banche non vogliono rischiare. Vogliono vedere “nero su bianco”. Per questo AdR pretende che il calcolo dell’inflazione parta dal 2001. “Quindi il raddoppio lo paghiamo noi cittadini – interviene Marco Mattuzzo –.Eppoi c’è qualcuno che vuole venderci la storia che conviene a tutti avere un aeroporto del genere. Anche a chi vedrà la propria casa rasa al suolo. Lo sa una cosa? Ora nessuno comprerebbe una casa ‘condannata’. A meno che non sappia niente del piano. Quindi il danno lo subiamo già ora”. Non solo case, anche aziende. Nella zona interessata (nella pagina accanto c’è la piantina) vivono duecento famiglie e operano venti aziende, alcune delle quali affittuarie della “Maccarese Spa”. Gente che da anni lavora la terra, investe, cresce, offre primizie al mercato romano. Percorrere le tante stradine che costeggiano i campi è come fare un viaggio nelle “quattro stagioni”: da una parte i prodotti dell’inverno, poi ecco i primi frutti della primavera. E così via. “Noi siamo qui dal 1987 – interviene il signor Caramadre, dell’omonima cooperativa –, e ci occupiamo di orticoltura biologica. Se sono disposto ad andarmene? Ma lei si rende conto quanto tempo ci vuole per mettere in piedi un’azienda del genere? Cosa vuol dire piantare e aspettare i frutti? Non siamo mica una fabbrica che compra i componenti e li mette in funzione. Per noi i periodi diventano anni, dai dieci ai quindici”. Quindi di vendere non se ne parla “anche perché non ci darebbero mai la cifra necessaria per aprire una nuova attività – continua –. Così siamo all’interno di una forma ricattatoria: o cedi alla cifra che decidiamo, o vai in giudizio civile. Quindi 7-8 anni per arrivare a sentenza. E nel frattempo mi hanno raso tutto al suolo”.
WWF, VASCHE,NATURA E INQUINAMENTO
Secondo il master plan presentato a ottobre da AdR simile se non identico a quello studiato dall’Iri negli anni ’60, dei 1300 ettari, l’8,2 per cento verrebbe destinato a hotel, centri commerciali, uffici, congressi e ancora. Ben 106,6 ettari, “1.066.000 metri cubi di nuove costruzioni” come denunciano dal comitato. E non importa se nella zona esistono due riserve del Wwf, un Parco Romano, se sotto alcune “zolle” sono stati ritrovati degli importanti reperti archeologici. Non importa se non lontano, in linea d’aria, incide una delle discariche più grandi d’Europa, quella di Malagrotta. Non importa se già adesso la qualità della vita è complicata per gli abitanti della zona, investiti da alti livelli di inquinamento acustico, elettromagnetico, oltre che ambientale. Secondo uno studio realizzato dalla dottoressa Antonella Litta, referente per la provincia di Viterbo dell’Associazione italiana medici per l’ambiente, “esistono evidenze sempre più consistenti, legate al traffico aereo, di come numerosi inquinanti, introdotti nel corpo umano, inducano processi infiammatori cronici che determinano uno stress cellulare progressivo a carico di organi e tessuti, aprendo la strada a patologie gravi come aterosclerosi e cancro”. Sarà un caso, le due persone che ci hanno guidato tra i campi di Maccarese, sono sotto chemioterapia. E la Asl competente non ha ancora realizzato uno screening specifico per valutare la situazione della zona. Interpellati i responsabili, ci hanno spiegato che esistono solo dei dati ricavabili da altri studi, quelli di routine.
“Sì, è tutto molto sconcertante – afferma Filiberto Zaratti, ex assessore all’Ambiente della giunta precedente –. Emerge con chiarezza il classico investimento immobiliare, nel quale potranno intervenire i soliti ‘paperoni’. A prescindere dalla reale utilità, che non c’è. Inoltre parlano di aumento dell’occupazione. Ma siamo seri, prenda quanti sono attualmente impiegati al Leonardo da Vinci e li rapporti al traffico passeggeri. Poi veda”. Bene, ecco qui: “A 36 milioni di traffico, corrispondono 2623 dipendenti, di cui circa 635 a tempo determinato – spiegano da Fuoripista. Quindi 80 occupanti ogni milione di passeggeri. Al contrario AdR parla di mille addetti ogni milione. Al 2044 sarebbero 100 mila posti di lavoro diretti”. Il Fatto ha cercato di sentire tutte le parti. Ha chiamato Gemina, ha interpellato l’Enac. Per capire. Anche con loro, niente da fare. L’Ente nazionale ha risposto che i “tecnici stanno ancora valutando, quindi è presto”. Gli uomini di Benetton si sono chiusi dietro un inespressivo no comment. E chi lavora con loro ci ha parlato a voce bassa e sotto una promessa: “Mi raccomando, io non vi ho detto niente. Non fate mai il mio nome altrimenti mi licenziano”. Già, l’importante è tenere la voce bassa. Anche se in ballo ci sono 10 miliardi di euro.
Il primo volo, Andreotti e il Vaticano Montanelli: “Una rapina”
di Luca De Carolis
IL RITRATTO di questo scandalo fatto di miliardi sprecati e intrecci oscuri lo dipinse Indro Montanelli sul Corriere della Sera: “Il caso dell’aeroporto di Fiumicino è molto peggio di un furto, di una rapina a mano armata o di un’incursione di briganti”. Era il 27 dicembre 1961, oltre un anno dopo l’inaugurazione dello scalo romano: tardiva. Fiumicino doveva essere pronto per il 1950, l’anno del Giubileo. E invece venne inaugurato nell’agosto 1960, per entrare davvero in funzione nel gennaio 1961. Erano trascorsi 14 anni di lavori, per una spesa complessiva attorno agli 80 miliardi di lire: quasi 50 miliardi in più di quanto preventivato. Un fiume di denaro persosi nei mille rivoli del sottopotere democristiano. La vicenda inizia nel 1947, quando il ministro dell’Aeronautica, Mario Cingolani, istituisce un comitato per la costruzione del nuovo aeroporto di Roma. I tecnici vogliono realizzarlo nell’area di Casal Palocco, vicino Ostia. Ma il comitato, presieduto dal generale Matricardi, dirotta la scelta su un’area paludosa a Fiumicino, porto della Capitale. I terreni appartengono ai Torlonia, ma a gestirli è un ex gerarca fascista, Nannini, in ottimi rapporti con l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti. Poco tempo prima, un privato aveva comprato un appezzamento attiguo per 60.000 lire all’ettaro. Il comitato Matricardi paga ogni ettaro 754.000 lire. Finisce il 1950, l’Anno Santo: prima scadenza non rispettata. A dirigere l’ufficio progetti per l’aeroporto arriva il colonnello Giuseppe Amici: sodale di Nannini, con eccellenti entrature in Vaticano. In sette anni, Amici spende oltre venti miliardi per Fiumicino, ma sui terreni non compare neppure un muro. “Chi fa osservazioni gravi contro Amici non è tra le persone oneste” tuona Andreotti. Nel 1957, Giuseppe Togni diventa ministro dei Lavori pubblici, con l’incarico di occuparsi di Fiumicino. Per gli appalti è battaglia, con minacce incrociate. Nel febbraio 1959 il presidente della commissione tecnica per Fiumicino, il generale Fernando Silvestri, si spara un colpo di pistola alla tempia. Andreotti è serafico: “Caso ereditario, suo padre si uccise alla stessa età”. Si annuncia che l’aeroporto sarà pronto per le Olimpiadi del 1960, ma i lavori vanno a rilento. Per salvare la faccia, il 20 agosto del ’60 Togni e il ministro della Difesa Andreotti inaugurano Fiumicino. Ma lo scalo diventa operativo solo la notte tra il 14 e il 15 gennaio 1961. Tre mesi dopo, la pista numero uno sprofonda. Il fondo in calcestruzzo e cemento ha ceduto di schianto. Sull’onda dello scandalo, si forma una commissione d’inchiesta parlamentare. Socialisti e comunisti chiedono le dimissioni di Andreotti, senza esito. La commissione non prende provvedimenti, mentre Amici viene promosso generale. Nel 1963, la Procura di Roma archivia tutto. “Chissà quanti altri Fiumicino ci aspettano” commenta Montanelli: profetico
Sulla pelle dei viaggiatori quella “tassa” da 3 euro
di Chiara Paolin
Per sapere cosa succede in Italia basta leggere BusinessWeek. Già lo scorso 4 febbraio la rivista economica raccontava come i Benetton stessero muovendo terra e cielo per far finalmente decollare il progetto AdR, la società Aeroporti di Roma che gestisce il nascente hub capitolino. Franco Giudice, direttore generale AdR, annunciava serafico: “Intendiamo raddoppiare utili e ricavi entro il 2019 incrementando il traffico e le concessioni commerciali”. Ma come? Finora lo scalo romano per i trevigiani è stato un affare a metà. Entrati nel 2005, si sono accollati 70 milioni di spese per il rinnovo della stazione (intonsa dagli anni ‘60) e altri 170 per nuove strutture. Hanno tentato di convincere gli altri soci di Gemina, società che controlla AdR al 96%, a una forte ricapitalizzazione. Solo qualche mese fa Luciano, gran patron della casa veneta, parlò apertamente di 500 milioni di euro da sborsare, ma Mediobanca (che ha il 13%), Silvano Toti (che vanta un 12%, in pegno però a Unicredit e Intesa) e gli altri piccoli azionisti (Premafin, Generali, Unicredit, Fassina) fecero spallucce. Così i Benetton, che non amano perder tempo né denaro (specie dopo la batosta Telecom), si sono rimboccati le maniche. La megaholding di famiglia Edizione Srl (11 miliardi di euro il fatturato), azionista di maggioranza in Gemina (31%), ha deciso di coinvolgere nuovi soci tramite la controllata Sintonia, società lussemburghese che fa da ponte tra Edizione e Gemina: è lì, nel comodo paradiso fiscale, che il fondo sovrano cinese Gic e la nota banca d’affari Goldman Sachs hanno deciso di prender parte al gioco romano dell’AdR. E vai col primo risultato: potenziare la cordata. Ma per cambiare rotta serve denaro. L’ultimo bilancio AdR segna un utile netto di 5,2 milioni di euro: un bel miglioramento sul -8,3 milioni dell’anno scorso, ma briciole per l’impero dei veneti. I quali, subito dopo aver approvato i conti 2009, hanno votato il nuovo Cda: dentro un rappresentante cinese e presidenza a Fabrizio Palenzona, che ricopre la stessa carica anche in Gemina. Perché il doppio incarico? Palenzona è l’uomo di fatica dei trevigiani: sarà lui a dover sbrogliare la questione del cosiddetto adeguamento delle tariffe, ovvero una nuova tassa da 3 euro che pagheranno tutti i passeggeri per foraggiare nuove opere a Fiumicino (e Malpensa). L’accordo dei Benetton con il governo è di investire 3,6 miliardi da qui al 2020, ma solidi introiti devono giungere dalla tassa viaggiatori, oltre che dai diritti pagati dalle compagnie aeree. A decidere l’introduzione dell’obolo sarà il Cipe: oggi il bonus varrebbe oltre 100 milioni l’anno visto che nel 2009 sono passati da Fiumicino 34 milioni di viaggiatori. I quali diventeranno però il triplo nei prossimi vent’anni (secondo AdR). Per ora, l’incarico di Palenzona è sbloccare la richiesta dei veneti. Lui il piglio sicuro ce l’ha, e dichiara: “Per l’adeguamento delle tariffe aeroportuali c’è un iter in corso. Dovrebbe essere convocato un Cipe per la seconda lettura, dopo la prima avvenuta a novembre. Poi ci sono state le elezioni e penso che al prossimo Cipe se ne parlerà”. Del resto Palenzona è un pezzo d’uomo capace di conquistarsi nel tempo cuori poco teneri come quello di Enrico Cuccia e amicizie pericolose come quella di Giampiero Fiorani, che lo accusa di aver trafficato con lui all’epoca della Banca di Lodi. Accuse rispedite al mittente e schiacciate da una fantastica ascesa al potere con conseguente accumulo di mille incarichi: da presidente della Federazione padroni e padroncini di tir, business cui venne introdotto dal suo mentore Marcellino Gavio, fino all’ingresso come consigliere in Mediobanca via Crt-Unicredit. Insomma, un mastino dei trasporti lanciato dai Benetton prima sulle autostrade e adesso sulle piste di Fiumicino. Anche perché Palenzona, studiando Economia a Pavia, fece amicizia con quel giovane assistente universitario di nome Giulio Tremonti che nemmeno sognava di diventare un giorno ministro dell’Economia (e vicepresidente del Cipe).
http://www.eddyburg.it/article/articleview/15059/0/162/
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Una brutta figura che si doveva evitare, 30.04.2010
LUIGI LA SPINA
Una sconfitta clamorosa e insensata per tutta la classe dirigente torinese. L’irritato ritiro della disponibilità di Domenico Siniscalco alla sua nomina come presidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo è stato l’inevitabile sbocco di una vicenda cominciata male e condotta peggio. Con il risultato di un pesante danno per la credibilità di Torino nei confronti del partner milanese della banca, ma anche per l’immagine della città rispetto a tutta la comunità finanziaria nazionale.
Fin dall’inizio, la mancata conferma di Enrico Salza era apparsa più una sorta di punizione dettata da ragioni personalistiche che l’approdo di una scelta anche comprensibile, ma che riconoscesse, comunque, il suo ruolo e il suo apporto per lo sviluppo di Torino negli ultimi decenni. L’esigenza di rafforzare l’influenza torinese rispetto allo strapotere di Milano negli indirizzi della banca poteva anche essere opportuna. L’«operazione riequilibrio» tra i due poli geografici di Intesa Sanpaolo, però, avrebbe richiesto almeno il rispetto di due condizioni.
La prima è quella dell’unità e il sostegno di tutta la classe dirigente torinese su un nome di indiscusso prestigio. La seconda una paziente, silenziosa e accorta politica di alleanze con le forze che avrebbero potuto condizionare la designazione del presidente del Consiglio di gestione. Il modo, invece, con il quale, sia Chiamparino sia Benessia, hanno gestito la candidatura dell’ex ministro Siniscalco è stato, purtroppo, maldestro.
Il sindaco l’ha promossa in maniera negativa, con una ingerenza politica tanto ingenua quanto controproducente. Tra l’altro, in un momento in cui i proclami di Bossi sull’ingresso della Lega nel mondo bancario suscitavano inquietudini e sospetti. Il presidente della Compagnia è riuscito nell’ardua impresa di dividere i membri del comitato di gestione sulla scelta di Siniscalco, di vedersi contrapposto un altro nome come quello del professor Beltratti e, per di più, di assistere al sorpasso, nella conta dei voti, di quest’ultimo rispetto al candidato presidente che lui aveva proposto. Ciliegina finale è stata la dura polemica, a suon di interviste, tra Chiamparino e Guzzetti.
I cocci di questa Waterloo diplomatica, politica, finanziaria, comunicativa saranno difficili da comporre per tutti i protagonisti torinesi della vicenda. Chiamparino, molto isolato nel suo partito, sia a livello nazionale sia a quello torinese, rischia di dilapidare quel capitale di credibilità politica e di autorevolezza personale accumulato negli anni della sua permanenza a palazzo di Città. Siniscalco subisce una ingiusta umiliazione. Salza, a meno di un sorprendente e clamoroso ripescaggio, appare come la vittima di una altrettanto ingiusta punizione. Beltratti, senza alcuna colpa, teme di essere usato come strumento di una faida politico-accademica.
Benessia, infine, sembra persino sfiduciato dallo sponsor che lo ha promosso alla presidenza della Compagnia, il sindaco Chiamparino. Dal caso Siniscalco il centrosinistra torinese esce più spaccato di prima, registrando una sconfitta storica rispetto ai poteri milanesi. Non sono davvero le condizioni migliori per riconfermarsi, tra un anno, alla guida della città.
San Paolo, Siniscalco si sfila: “Ritiro la mia disponibilità”
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Il Piemonte: stop agli ipermercati, meglio le botteghe, 28.04.2010
Meno ipermercati, più spazio alle piccole botteghe. E’ la svolta annunciata dalla Regione Piemonte, guidata da Roberto Cota: mentre cresce la piccola distribuzione di prodotti a chilometri zero e si moltiplicano i negozi “tutto sfuso”, con merci che costano meno (e non inquinano) perché non confezionate né imballate, il Piemonte sembra interpretare le nuove tendenze d’acquisto mettendo un freno ai grandi supermercati: blocco delle istanze in corso e revoca dei procedimenti già avviati. Secondo la Regione gli ipermercati, tanto comodi per il consumo di massa, in realtà degradano la qualità sociale.
Ne è convinto l’assessore al commercio William Casoni, che ha firmato il provvedimento: «L’eccessiva proliferazione di grandi centri commerciali –sostiene Casoni – negli ultimi anni ha segnato con profonda negatività il piccolo commercio e la vita sociale dei centri storici in tutto il Piemonte, dalle grandi località fino ai più piccoli paesi delle nostre provincie». Dieci anni fa, scrive il quotidiano “La Stampa”, in tutto il Piemonte esistevano 52 medie strutture di distribuzione e 32 della grande, per una superficie complessiva di 370.281 metri quadrati. Nel 2008 il numero delle grandi strutture ha superato quello delle medie: 101 a 97, per 862.651 metri.
Se il consumatore trova tutto quello che gli serve, a portata di carrello lungo le corsie dell’ipermercato, la grande distribuzione è una fabbrica di anonimato, massificazione e inquinamento: trasporti di grandi quantità di merci, imballaggi ingombranti e inquinanti, tonnellate di cemento e chilometri di asfalto: per i grandi parcheggi e, spesso, per le piste di accesso riservate che modificano la viabilità di servizio. Lo stop della giunta regionale colpisce otto Comuni piemontesi: Rivalta, Orbassano e Moncalieri nella prima cintura torinese, quindi Alba in provincia di Cuneo, Valdegno e Quaregna nel Biellese, Crescentino e Vercelli città.
Una sospensione che varrà nel futuro (a breve sarà predisposta una legge ad hoc) e che nell’immediato comporta un’attenta verifica delle otto domande di ampliamento o costruzione già pervenute agli uffici regionali. Due richieste sono legate a licenze per generi alimentari e le altre 6 per l’extra-alimentare. Esaminate le istanze, a breve si conoscerà il verdetto: la sospensione potrebbe scattare per 3 o 4 domande. Ma lo stop è rivolto soprattutto al futuro: «Abbiamo voluto inviare da subito un segnale chiaro del cambio di rotta e di una maggiore attenzione della nuova amministrazione nei confronti del commercio», spiega l’assessore Casoni.
Se gli esponenti della grande distribuzione (cooperative di consumo e Federdistribuzione) si dicono preoccupati per i contraccolpi occupazionali in piena crisi, e se la Regione a guida leghista è intenzionata a tutelare il commercio al minuto (Casoni ha ascoltato le proteste di commercianti e ambulanti), il cambio di rotta del Piemonte lancia un segnale di significato nazionale: disincentivare i supermercati premierà sicuramente l’offerta al dettaglio, qualificatasi sempre di più nella promozione di prodotti territoriali, a filiera corta. Fino ai negozi “tutto sfuso”, che vendono prodotti non confezionati: più economici ed ecologici.
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Pedofilia, dal Vaticano un sabba di menzogne
di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2010
Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che il Papa voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso? Padre Federico Lombardi, infatti, non agisce di testa propria, è il portavoce della Santa Sede, e inoltre è persona di squisita gentilezza. Se dunque non ha risposte alle “quattro domande cruciali” che con una mia lettera aperta questo giornale gli ha rivolto una settimana fa non è perché non ha voluto, è perché non poteva: non aveva la “licenza de’ superiori”.
Avesse potuto, infatti, avrebbe dovuto confessare quanto segue: la frase chiave “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte” contenuta nelle famose “linee guida” sulla pedofilia, messe online sul sito ufficiale del Vaticano lunedì 12 aprile, e presentate da padre Lombardi come “disposizioni diramate fin dal 2003” (sito dell’Avvenire, quotidiano della Cei) non risale affatto al 2003 ma è stata coniata nuova di zecca nel weekend del 10-11 aprile.
Al responsabile dell’autorevolissima agenzia internazionale “Associated Press”, Victor Simpson, che chiedeva lumi sulla posizione della Chiesa in fatto di pedofilia, padre Lombardi inviava infatti il venerdì 9 aprile un documento in inglese identico a quello messo online il lunedì successivo, tranne la frase chiave di cui sopra, che non compariva. E che perciò è stata partorita durante il weekend.
Come altro si può chiamare in buon italiano una manipolazione del genere se non un “falso” (“falso: non corrispondente al vero in quanto intenzionalmente deformato”, Devoto-Oli)? Perché tutto l’interesse di quel documento si concentrava nella famosa frase chiave, che non a caso è stata sbandierata come la dimostrazione di una volontà della Chiesa – da anni – di collaborare con le autorità civili, rispettandone le leggi anche quando esse impongono a un vescovo di denunciare alla magistratura inquirente il suo prete sospetto di pedofilia.
E’ dunque falso, assolutamente falso, che la Chiesa cattolica gerarchica avesse già nel 2003 fatto obbligo ai suoi vescovi e sacerdoti di “dare seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. All’epoca era vero, anzi, il tassativo obbligo opposto: tacere assolutamente alle autorità civili, in ottemperanza al “segreto pontificio”, che comporta addirittura un giuramento al silenzio fatto solennemente sui vangeli, la cui formula terribile abbiamo riportato in un precedente articolo (cfr. Il Fatto del 10 aprile).
E’ perciò altrettanto falso quanto ha sostenuto mons. Scicluna nei giorni scorsi, secondo cui “accusare l’attuale pontefice [per quando era cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede] di occultamento è falso e calunnioso (…) in alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria”.
Questa non è la dichiarazione di un carneade qualsiasi, perché, come spiega il suo intervistatore Gianni Cardinale “monsignor Charles J. Scicluna è il ‘promotore di giustizia’ della Congregazione per la Dottrina della Fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del Tribunale dell’ex sant’Uffizio”. Che l’affermazione di monsignore sia falsa lo prova ad abundantiam la testimonianza dei giorni scorsi del cardinale Dario Castrillon Hoyos, tuttora tra i più stretti collaboratori di Papa Ratzinger, che ha ricordato come fosse stato Giovanni Paolo II in persona a fargli scrivere una lettera di solidarietà e sostegno a un vescovo francese che per il rifiuto a testimoniare contro un suo prete pedofilo era stato condannato a tre mesi con la condizionale.
Padre Federico Lombardi ha opposto un “no comment” alle affermazioni (palesemente inoppugnabili) del porporato colombiano, ma ha aggiunto che l’episodio “dimostrava e dimostra l’opportunità della unificazione delle competenze in capo alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Non rendendosi conto che tale “unificazione” avviene nel maggio del 2001, mentre la lettera del cardinale, per volere di Papa Wojtyla, è del settembre dello stesso anno, dunque è successiva, e conferma l’unica interpretazione che di quella “unificazione” si può dare: il più assoluto segreto era assolutamente centralizzato per renderlo ancora più catafratto.
Perché perciò tutto questo sabba di menzogne, visto che Benedetto XVI sembra davvero intenzionato a cambiare atteggiamento, e a non occultare più alle autorità secolari i casi di pedofilia ecclesiastica (il vescovo di Bolzano e Bressanone ha inviato in procura le prime denunce)?
Perché scegliendo la Verità dovrebbe riconoscere che il suo predecessore aveva ribadito come dovere sacrosanto l’omertà rispetto a magistrati e polizia, e difficilmente dopo tale ammissione potrebbe elevare Karol Wojtyla all’onore degli altari.
Perché dovrebbe confessare Urbi et Orbi che la svolta è di questi giorni, e che egli stesso, come cardinale Prefetto (e in larga misura anche nei primi anni del Pontificato) non ha trovato il coraggio di chiedere coram populo (non sappiamo cosa pensasse in interiore homine) una politica della trasparenza e della denuncia ai tribunali, contribuendo con ciò all’impunità di un numero angoscioso di pedofili, che se prontamente messi in condizione di non nuocere avrebbero risparmiato la via crucis di migliaia di vittime.
Perché dovrebbe ammettere che a tutt’oggi il suo portavoce si è prodigato in un lavoro di raffinata disinformacija, e consentirgli (o intimargli: non sappiamo se padre Lombardi soffra per quanto ha dovuto manipolare) di cambiare registro. Perché…
http://temi.repubblica.it/micromega-online/pedofilia-dal-vaticano-un-sabba-di-menzogne/
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Insieme si studia meglio, 28.04.2010
Un progetto della Commissione Europea portato avanti in Spagna mostra che coinvolgere i genitori nelle classi con bambini immigrati migliora l’inclusione sociale delle famiglie e i risultati di tutti gli studenti
di Caterina Visco
Il successo dell’educazione scolastica non dipende dalla composizione etnica delle classi. Esistono infatti azioni educative che, attraverso il coinvolgimento delle famiglie nell’ambiente scolastico, possono trasformare le difficoltà della diversità in vantaggi per tutti gli studenti. È quanto dimostrano i risultati ottenuti da un gruppo di ricerca spagnolo all’interno del progetto Includ-ed della Commissione Europea, presentati ieri dall’Università di Barcellona in occasione della conferenza “Social Inclusion in Europe: an Educational Challenge”, tenutasi nella stessa città catalana.
I ricercatori hanno identificato e applicano da diversi anni quattro “azioni educative”- gruppi interattivi, gruppi di lettura di classici per tutti gli alunni e per le mamme dei piccoli immigrati, lezioni di lingua per le mamme e per i papà – che sono state applicate con successo in una trentina di scuole in Catalogna, sia primarie sia secondarie, e in un centinaio in tutta la Spagna. Una di queste è la scuola elementare Mare de Déu de Monserrat, A Terrassa, nei dintorni di Barcellona. Qui ci sono 220 alunni di cui l’80 per cento figli di genitori immigrati, soprattutto dal vicino Marocco, e 19 maestri. Grazie all’impegno di tutta la comunità – insegnanti, genitori, studenti e volontari – sono state avviate tutte e quattro le azioni identificate dai ricercatori.
I gruppi interattivi sono lezioni che si tengono una volta a settimana per quattro materie: catalano, castigliano, inglese e matematica. Durante queste lezioni gli alunni sono divisi in piccoli gruppi, ognuno coordinato da un adulto che può essere un insegnante, un genitore o un volontario. L’adulto mette a disposizione le proprie competenze, per esempio aiuta i bambini immigrati traducendo i compiti nella loro lingua madre. I gruppi non sono divisi per livello: gli alunni più bravi aiutano chi ha più difficoltà. Dopo 15-20 minuti i bambini cambiano gruppo e passano a un’altra attività. in questo modo in un’ora gli alunni svolgono quattro compiti diversi, allenando quattro competenze diverse.
Anche l’educazione familiare può contribuire al successo scolastico degli alunni. Questo principio ha ispirato i ricercatori a formare un gruppo di lettura per le mamme immigrate, che permettesse loro di migliorare lo spagnolo. Anche per gli alunni maestri e volontari hanno dato vita a un gruppo di lettura collettiva. Il libro scelto è l’odissea: proprio come le mamme, leggono e discutono del libro e, prendendo spunto dagli argomenti, parlano per esempio degli dei e delle loro diverse religioni. Oltre a perfezionare il vocabolario e la comprensione dei testi di mamme e alunni, questa azione educativa migliora notevolmente i rapporti sociali delle madri e soprattutto quelli tra genitori e figli: in famiglia si parla dei libri, si legge, si studia e insieme. Le mamme riescono a inserirsi meglio nel tessuto sociale circostante e i bambini migliorano i risultati scolastici. Basta pensare che nel 2001 solo il 17 per cento degli alunni presentava le competenze minime necessarie per la comprensione di un testo. Nel 2007 dopo un anno di gruppo di lettura per i bambini la percentuale è passata all’85 per cento.
Un’ultima iniziativa realizzata dalla scuola sono lezioni di catalano dirette alle madri immigrate, spesso analfabetizzate o che comunque non parlano la lingua della regione in cui si trovano a vivere. Le lezioni si tengono in orario scolastico e chi ha bambini non in età scolare li può portare in aula, in questo modo le madri non hanno bisogno di una baby-sitter. Convinti dai risultati ottenuti, anche i padri hanno chiesto lezioni di catalano e di informatica e i corsi dovrebbero cominciare presto.
“La forza di queste azioni educative è che sono esportabili ed efficaci in ogni scuola a prescindere dal ciclo scolastico o dalla composizione etnica delle classi”, ci spiega Ramon Flecha coordinatore del gruppo di ricerca spagnolo e docente presso l’Università di Barcellona. All’interno del progetto europeo Includ-ed lavorano anche ricercatori di altre nazioni come Malta, la Finlandia e la Lettonia che propongono le stesse azioni e altre simili che prevedono il coinvolgimento familiare nelle classi e nella vita scolastica.
Al progetto Includ-ed lavora anche l’Università di Firenze (sito in costruzione), che per ora si è occupata e si occupa di tre sotto-progetti: il primo, realizzato nel 2006, ha riguardato un’indagine sullo stato dell’arte delle buone pratiche di integrazione tra popolazione immigrata e popolazione locale in Italia e in Europa; il secondo, nel 2009, ha valutato l’impatto dell’educazione nella vita sociale degli immigrati (accesso alla salute, inserimento abitativo e così via); infine è partita da poco una mappatura delle associazioni che in Italia si occupa di immigrati e di inserimento sociale.
http://www.galileonet.it/primo-piano/12666/insieme-si-studia-meglio
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Piccoli ma importanti: la Repubblica di Moldavia in bilico tra il futuro ed i fantasmi del passato, 30.04.2010
Come ben sappiamo, i Paesi sorti in seguito al crollo dell’Unione Sovietica hanno dovuto affrontare tutta una serie di sfide politiche, economiche e militari al fine di mantenere e/o rafforzare il proprio ruolo geopolitico e garantirsi, di conseguenza, la sopravvivenza nell’arena internazionale.
La Repubblica di Moldova è uno di questi Stati impegnati in una difficile transizione verso un modello politico più stabile ed efficace e un assetto economico più trasparente, efficiente e soprattutto prospero.
Come avremo modo di vedere tra poco, le sfide che attendono la Moldova sono molte e dalla loro risoluzione dipenderà il futuro di questo piccolo ed importante Stato situato nell’Europa sudorientale incastonato tra Romania ed Ucraina e pienamente integrato nelle altamente instabili dinamiche politiche che connotano la regione del Mar Nero.
Se, come cercheremo di mostrare tra breve, la pace e la stabilità dell’Europa dipende anche dalla stabilità interna di questo piccolo Paese, allora è probabile che la risoluzione del conflitto con la secessionista Transnistria sia la sfida più complessa ed importante che attende i policy-maker di Chisinau. Chiaramente la ricomposizione di quel conflitto dipende in larga misura dalla volontà delle Grandi Potenze i cui interessi passano anche per quel territorio. Detto questo è bene precisare che sarebbe sbagliato pensare alla Moldova come una semplice vittima delle volontà altrui. Seppur angusti, i politici moldavi mantengono un certo spazio di manovra sia nella politica interna sia in quella internazionale (teatro regionale) che deve essere sfruttato con intelligenza e lungimiranza, spazio che può essere ampliato se si decidesse di procedere verso riforme volte da un lato a rafforzare il sistema politico e dall’altro a combattere le sacche di corruzione che si annidano nell’economia e nella burocrazia nazionale.
Anche nel caso moldavo politica interna ed internazionale si intrecciano senza soluzione di continuità.
La Moldova oggi: un Paese in bilico tra difficoltà economiche e crisi politica
La Moldova è una Repubblica Parlamentare. E’ uno degli Stati più piccoli d’Europa, sia sotto il profilo territoriale (circa 34000 km²), sia sotto il profilo del numero di abitanti (poco più di 3,5 milioni).
Sebbene durante il periodo sovietico abbia conosciuto una certa prosperità oggi la sua economia si trova a fronteggiare enormi difficoltà. Non è quindi casuale se il Paese viene spesso definito il più povero d’Europa a causa del suo reddito pro-capite ben al di sotto della media europea.
L’attuale crisi economica non ha fatto che rendere più complessa una situazione già abbastanza delicata caratterizzata da un’economia che presentava molti squilibri, primo fra tutti la pesante dipendenza dalle rimesse degli immigrati moldavi. Infatti, dal 2000 al 2008 il Paese ha registrato una buona crescita media del PIL pari al 6%. Tale trend è stato alimentato soprattutto dai consumi sostenuti dalle rimesse dall’estero.
La crisi in Moldova è arrivata più tardi ma ha colpito molto duro: nel 2009 si è assistito ad un crollo delle rimesse dall’estero del 29%, una flessione del PIL pari al 6.5% ed un rallentamento dei consumi del 12%. Si tenga inoltre presente che il debito pubblico moldavo si aggira pericolosamente attorno al 116% del PIL. Queste difficoltà economiche hanno costretto il governo moldavo a prendere seri provvedimenti che nell’ottobre del 2009 si sono concretizzati in un programma di stabilizzazione economica e a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale che nel febbraio 2010 ha deciso di mettere a disposizione di Chisinau 574 milioni di dollari. Oltre a questo, una Conferenza dei donatori (a cui hanno preso parte la Banca Mondiale, il FMI, l’Unione Europea e molti Paesi come USA, Giappone e Cina) tenutasi a Buxelles lo scorso 25 marzo ha promesso di stanziare 2.6 miliardi di dollari a favore della Moldova.
Chiaramente i dati macroeconomici da noi presentati sono sufficienti per capire che il modello economico moldavo ha bisogno di una serie di riforme necessarie a renderlo più forte, trasparente, competitivo ed efficiente sotto il profilo del consumo energetico.
Tuttavia, a destare più preoccupazione in questo momento non è tanto l’economia quanto la difficoltà che il sistema politico stà fronteggiando da poco meno di un anno. Nell’aprile del 2009, a seguito di elezioni parlamentari, vinte dal Partito comunista dell’allora Presidente Voronin, duramente contestate dall’opposizione, si verificarono violenti scontri di piazza (la cosiddettaTwitter revolution) e veri e propri attacchi contro il Parlamento. L’opposizione accusava il governo di aver commesso brogli pesantissimi che rendevano inaccettabili i risultati. In realtà la presidenza dell’ UE ha definito le elezioni, sulla base del rapporto della International Election Observation Mission inviata in Moldova, libere e pluraliste.
Poichè il Partito comunista ottenne 60 seggi, 1 in meno rispetto a quelli necessari a securizzare l’elezione del Presidente, Voronin fu nominato Presidente della Camera ed assunse la Presidenza della Repubblica ad interim.
Nel giugno dello stesso anno si procedette a nuove elezioni poichè la Costituzione prevede che si ritorni al voto se non si riesce ad eleggere un Presidente entro 30 giorni. I 4 partiti ‘pro-occidentali’ alleati tra loro (sotto il nome di Alleanza per l’Integrazione Europea) raccolsero abbastanza voti (53) per creare un governo (guidato dal liberale Vlad Filat) e cominciarono ad implementare il loro programma di governo enfaticamente chiamato ‘Ripensare la Moldova’ che presenta una linea politica marcatamente pro-occidentale e orientata ad indebolire il potere dei comunisti.
Un evento importante si verifica poi l’11 settembre 2009 quando il Presidente ad interim Voronin decide di rassegnare le dimissioni. Il nuovo governo propone alla carica di Presidente Marian Lupu ma, mancando dei numeri necessari previsti dalla Costituzione (non si dimentichi che serve una maggioranza di 61 parlamentari) e osteggiati dai comunisti che non votano per il candidato proposto dal governo, fallisce ripetutamente obbligando il Paese ad avere un Presidente ad interim (Mihai Ghimpu, Presidente del Parlamento).
In un certo senso a partire dal settembre 2009 Il governo porta avanti una partita, pericolosa per la stabilità del Paese e per la credibilità del governo, che viene giocata su due tavoli: da un lato prova, e fallisce, a far eleggere il proprio candidato entro i termini temporali stabiliti dalla Costituzione per evitare nuove elezioni. La Corte Costituzionale in marzo ha stabilito che bisogna tornare alle urne entro il 16 giugno 2010, cioè entro un anno esatto dalle precedenti elezioni. Dall’altro mette in cantiere l’ipotesi di una profonda modifica della Costituzione, in particolare si propone l’idea di modificare tramite referendum l’articolo 78 al fine di rendere diretta l’elezione del Presidente della Repubblica (non del tutto casualmente tale idea ha preso forza soprattutto quando i sondaggi hanno mostrato che Lupu aveva sorpassato Voronin nell’indice di gradimento).
Ciò che ci preme sottolineare è che questa fase di stallo e tensioni reiterate si verifica nel momento in cui il Paese avrebbe avuto bisogno, a causa della situazione economica di cui abbiamo già parlato, di un largo consenso e non di uno scontro logorante a livello istituzionale. Inoltre non può passare inosservato il fatto che il governo, che ama presentarsi come campione della democrazia liberale, abbia messo mano ad azioni che in realtà contraddicono molto quel modello e che, al contrario, assomigliano più a metodi autoritari. Per capirci vediamo rapidamente qualche esempio significativo: innanzitutto la volontà di cambiare la Costituzione di fronte ad una fase di stallo al fine di favorire l’elezione del proprio candidato senza curarsi troppo degli effetti laceranti che potrebbero avere sulla vita politica sembra un atto poco lungimirante che potrebbe ritorcersi anche contro la stessa coalizione di governo. Inoltre, il governo stà evidentemente forzando il dettato costituzionale con interpretazioni poco ortodosse. Infine, i processi aperti contro il Ministro degli Interni del precedente governo e del Capo della Polizia hanno più il sapore della vendetta che non della volontà di fare chiarezza sui fatti dell’aprile 2009, quando ci furono scontri di piazza guidati dall’opposizione a cui il risultato delle urne non piaceva per niente.
Tornando alla questione della riforma costituzionale i comunisti si sono espressi favorevolmente sull’elezione diretta del Presidente a patto che si torni a votare per un nuovo Parlamento così come ordinato dalla Corte Costituzionale.
Nonostante questa apertura ci sembra che la strada migliore sia quella di lasciar cadere il nome di Lupu e trovare un candidato che sia accettato anche dai comunisti e solo dopo aprire il confronto per apportare le necessarie modifiche alla Costituzione al fine di metterla al passo con il Paese.
Ci sembra evidente che ciò che i cittadini moldavi si aspettano dalla politica in questo momento siano delle risposte serie ai mali che affliggono lo Stato e spingono migliaia di persone ad emigrare in cerca di condizioni di vita più dignitose. Al contrario, un cambiamento della costituzione come quello proposto dal governo non farebbe altro che allontanare ancor di più i cittadini dalla politica e dalle istituzioni.
Come mostreremo nel seguente paragrafo, se esiste qualcosa di cui la Moldova non difetta sono proprio le sfide geopolitiche. Se le elite politiche moldave vogliono essere all’altezza della situazione devono invece recuperare i cittadini alla politica al fine di utilizzare tutte le energie e le capacità racchiuse in quel piccolo Stato. Questo può essere fatto se e solo se le istituzioni vengono rispettate e non piegate alle necessità contingenti di chi governa.
Il nodo geopolitico della Transnistria…
Quello della Transnistria è un vero e proprio nodo geopolitico in grado di destabilizzare l’Europa intera e che merita dunque un’attenzione particolare. Le prime nubi nere che preannunciavano il conflitto tra Repubblica di Moldova ed i separatisti della Transnistria cominciarono ad addensarsi nell’ultima fase della storia sovietica quando grazie alla politica di Gorbaciov fu permessa l’istituzionalizzazione della lingua rumena e dell’alfabeto latino per poterla scrivere. Questo chiaramente spaventò molto la popolazione slava (Ucraini e Russi) che fino a quel momento avevano avuto un ruolo assolutamente preminente. Nella parte orientale del Paese (cioè la Transnistria), in cui gli slavi erano la maggioranza nelle aree urbane, la protesta sfociò nella proclamazione di una Repubblica nel settembre 1990. Un anno dopo, nell’agosto dell’anno successivo, proprio nel momento in cui Gorbaciov era vittima di un fallito golpe, fu dichiarata l’indipendenza. Anche la Moldova compie lo stesso atto dopo qualche giorno e la dichiarazione d’indipendenza riguarda, ovviamente, tutto il territorio della Repubblica socialista di Moldova.
La tensione sale settimana dopo settimana ed esplode quando l’allora Presidente moldavo Mircea Snegur, dopo aver incassato lo status di membro ONU (2 marzo 1992), ordina di sconfiggere le truppe ribelli della Transnistria che avevano da poco attaccato una stazione di polizia fedele a Chisinau.
Questa escalation mette in mostra tutte le contraddizioni del ‘progetto Moldova’ voluta da Stalin che la creò nel 1940 accorpando la Bessarabia, sottratta alla Romania grazie al Patto Molotov-Ribbentropp, con l’industrializzata regione del Dniester che fino ad allora aveva goduto di uno status autonomo all’interno dell’Ucraina.
La guerra dura poco e si conclude con il cessate il fuoco stipulato il 21 luglio 1992, che sancisce il fallimento del tentativo moldavo, la stabilizzazione del frozen conflict in Transnistria (dove si consolidano le strutture statali) ed il dispiegamento di truppe di peacekeeping russe, moldave e della Transnistria.
Quel conflitto ancora oggi non ha trovato una soluzione e continua a rappresentare una minaccia per la sicurezza e la stabilità europea. A causa di visioni geopolitiche differenti e spesso contrastanti sia tra i due diretti contendenti, Chisinau e Tiraspol, sia tra questi e le Potenze esterne coinvolte, ci sembra che una soluzione politica della questione non sia in vista.
…. ed il ruolo delle potenze esterne, grandi e piccole
Fin dal principio le influenze esterne hanno giocato un ruolo decisivo in Moldova ed in Transnistria creando dei pesantissimi condizionamenti ai decisori di Chisinau. Per i motivi che presto vedremo ci sembra di poter affermare che, sebbene non siano gli unici, Russia, Romania ed Unione Europea svolgano il ruolo più importante.
Il ruolo della Russia in Transnistria è difficilmente sottovalutabile. Sebbene molti amino dipingere la presenza russa a Tiraspol (capitale della autoproclamatasi Repubblica di Transnistria, non riconosciuta giuridicamente da nessun Paese al mondo ad eccezion fatta per Abkhazia ed Ossezia del Sud, che hanno anch’esse qualche problema ad essere riconosciute) come l’esempio lampante dell’imperialismo russo e della malafede del Cremlino, la questione è in realtà molto più complessa. La popolazione della Transnistria, soprattutto quella di origine slava, vede la presenza delle truppe russe come una garanzia contro la possibilità di diventare cittadini della Romania. Ancora oggi Bucarest è vista con grande sospetto in questa Repubblica autoproclamatasi.
Le truppe russe hanno avuto un ruolo chiave fin dall’inizio: non si dimentichi infatti che è grazie alla presenza della ex 14° armata sovietica al comando del generale Alexander Lebed che l’offensiva moldava del 1992 è stata respinta con successo. Da quel momento la presenza russa si è consolidata, non solo a livello militare ma anche a livello economico. In un certo senso la Russia potrebbe ritirare le proprie truppe anche domani senza perdere la possibilità di giocare un ruolo preponderante in Transnistria grazie alla sua massiccia presenza nell’economia locale. Chi invece non vuole il ritiro russo sono le elite della Transnistria: il ritiro delle truppe russe cominciò infatti nel 2001 grazie ad un accordo internazionale ma fu ben presto interrotto a causa del rifiuto di Tiraspol a lasciar partire le armi di proprietà dell’esercito russo bloccando quindi il ritiro. E’ chiaro da questo esempio che Tiraspol vede nella massiccia presenza russa sul suo territorio l’unica vera garanzia di soppavvivenza e preme affinchè le proposte di risoluzione del conflitto presentate dal Cremlino tengano conto della volontà di rimanere un’entità politica a se stante. La Transnistria ha mostrato la sua volontà di confluire nella Federazione Russa con un Referendum tenutosi nel settembre 2006 e non riconosciuto nè da Chisinau nè dalla comunità internazionale.
Il rapporto che Mosca ha con la Moldova non è altrettanto idilliaco. Non lo è ora che a Chisinau siede un governo dichiaratamente pro-occidentale che potrebbe mettere in discussione la propria neutralità a favore di un avvicinamento sostanziale alle strutture politiche e militari occidentali (UE e NATO), mentre sappiamo che Mosca vede in tale neutralità una barriera all’espansione dell’Alleanza Atlantica ritenuta pericolosa per la propria sicurezza nazionale. In realtà i rapporti non erano perfetti anche quando c’erano i comunisti di Voronin a governare, i quali avevano certo verso Mosca un occhio di riguardo ma mai al punto da compromettere quelli che erano ritenuti essere gli interessi nazionali: ad esempio, Voronin non ha mai accettato il piano Kozak presentato da Mosca e volto a creare una Federazione tra le due entità.
Detto questo è bene comunque sottolineare che l’asso nella manica di Mosca si chiama gas. La dipendenza della Moldova dal gas russo è pesantissima e sia nel 2006 che nel 2009 si sono verificate interruzioni ai flussi di gas (nel primo caso a causa del rifiuto moldavo a pagare un prezzo più alto, nel secondo a causa del contenzioso russo-ucraino). E’ chiaro che se vogliono godere di una posizione geopolitica più salda i policy-maker moldavi devono diminuire questa dipendenza incrementando l’efficienza dell’economia nazionale. Non partecipare con le proprie truppe alla parata sulla Piazza Rossa per celebrare la vittoria sul nazismo sarà pure un gesto simbolico (anche se sono state addotte ragioni economiche) ma non intacca la debolezza moldava nei confronti di Mosca.
La Romania gioca chiaramente un ruolo importante nelle vicende moldave. Sotto il profilo etnico, culturale e linguistico i due Paesi sono vicinissimi e questo non può non avere delle ripercussioni geopolitiche. Bucarest ha sempre cercato di attrarre a sé Chisinau al fine di intensificare i rapporti e di promuovere i propri interessi in una terra che è vista come appartenente all’universo rumeno.
Fin dall’inizio del conflitto la Romania è stata percepita da Tiraspol come un pericolo al punto che il generale russo Lebed, durante la guerra del 1992, rassicurò i rumeni sul fatto che la sua armata era in grado di raggiungere Bucarest in un paio d’ore!
L’attuale governo moldavo, nel tentativo di avvicinarsi il più possibile all’Unione Europea, ha intrapreso una serie di passi verso la Romania che potrebbero avere conseguenze geopolitiche importanti. Come ben sappiamo, la lingua è un fattore identitario fondamentale che influenza la rappresentazione geopolitica di un Paese. Ora, la Costituzione moldava stabilisce che la lingua ufficiale dello Stato è il moldavo, tuttavia poco tempo fa il Presidente del Parlamento ha pubblicamente dichiarato che Moldavi e Rumeni condividono le stesse origini etniche e parlano la stessa lingua: il rumeno. Si dice inoltre che sempre lo stesso Presidente Ghimpu abbia proposto di cambiare il nome della lingua ufficiale dal moldavo al rumeno e rivedere l’idea di neutralità al fine di avvicinare Chisinau all’Unione Europea.
Se tali proposte fossero implementate si verificherebbe un allineamento moldavo sulle posizione di Bucarest ed un ennesimo allontanamento tra Chisinau e Tiraspol, magari quello definitivo, visto e considerato che come abbiamo detto la popolazione della Transnistria non vuole avvicinarsi a Bucarest. Si avrebbe inoltre una più che comprensibile reazione da parte della Russia spaventata da un così importante mutamento. Ad innalzare il livello d’allerta russo contribuisce anche il fatto che i due Paesi hanno incrementato i loro rapporti militari stipulando da poco un’accordo sulle priorità della cooperazione tra i due eserciti per i prossimi anni ed un Protocollo di collaborazione tra le forze aeree della Romania e le forze aeree militari della Moldova e che la Romania ha deciso di incrementare le spese militari al fine di modernizzare le forze armate.
Infine l’Unione Europea che ha un interesse strategico nel favorire e mantenere la stabilità nel suo confine sudorientale favorendo fin dove è possibile, attraverso certe politiche ad hoc, l’acquisizione del cosidetto aquis communitaire, ritenuto a Bruxelles come la conditio sine qua non verso la realizzazione di una forma di stato democratica secondo i parametri occidentali e l’acquisizione del benessere economico.
Chiaramente nella sua politica verso la Moldova l’Unione Europea è fortemente influenzata da Bucarest.
Gli strumenti politici messi in campo da Bruxelles sono molti. Probabilmente i più importanti, soprattutto per consistenza finanziaria, sono la European Neighborhood Policy e la Eastern Partnership in cui la Moldova è coinvolta attivamente e da cui riceve aiuti consistenti per la realizzazione di una serie di riforme e progetti. Basti dire che per il periodo 2011-2013 la Moldova riceverà 273 milioni di euro, circa il 75% in più di quanto ha ricevuto la volta precedente. Inoltre si discute della possibilità di stipulare un Accordo di Associazione i cui pilastri saranno (o dovrebbero essere) un accordo di libero scambio e l’abolizione del regime dei visti per i cittadini moldavi che vogliono entrare nell’UE.
L’Unione Europea ha definito le elezioni dell’aprile 2009 come libere e pluraliste e ha condannato la violenza: nonostance ciò appare chiaro che Bruxelles sia portata a vedere nel governo di Filat e nella sua retorica ultra-europeista un interlocutore con cui discutere a tutto campo di una collaborazione ampia volta ad un avvicinamento della Moldova all’UE, sebbene nessuno parli dell’ingresso nell’Unione. Allo stesso modo, si tende a chiudere gli occhi sugli aspetti meno piacevoli di quel governo.
Per quanto riguarda la Transnistria, l’UE ha attuato delle misure restrittive imposte contro la dirigenza di Tiraspol a partire dal 2003 e con la Missione EUBAM, creata nel 2005, sostiene gli sforzi ucraini e moldavi volti a migliorare il controllo della frontiera tra le 3 entità politiche e a scoraggiare i traffici illeciti che in quella parte di mondo trovano terreno fertile.
Conclusioni
Come abbiamo visto la Moldova è uno Stato piccolo che presenta tutta una serie di debolezze politiche ed economiche a cui si somma la presenza di un frozen conflict sul proprio territorio (o meglio, su un territorio su cui ambisce ad esercitare la propria sovranità) che non rende certo le cose più facili. Le debolezze e le incongruenze che affliggono le istituzioni politiche ed economiche del Paese sono una sfida che le elite moldave possono e devono assolutamente vincere se vogliono rafforzare la capacità del Paese di promuovere autorevolmente i propri obiettivi geopolitici in un’area alquanto turbolenta, e permettergli di avere un ruolo più attivo nello scacchiere Regionale.
Un rafforzamento del genere si rivelerebbe utile anche a rinvigorire la posizione moldava nella complessa e delicata partita che si sta giocando sulla Transnistria, dove gli interessi di Chisinau devono fare i conti non solo con quelli di Tiraspol ma anche e soprattutto con quelli di Mosca, Bruxelles, Bucarest e Washington.
I policy-maker moldavi dovrebbero capire però che le debolezze e le incongruenze del Paese non dovrebbero essere risolte perseguendo politiche che spaventano le elite della Transnistria e preoccupano Mosca in quanto si rivelerebbero profondamente controproducenti per gli assetti interni e regionali.
* Alessio Bini è dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna)
Sullo stesso tema vedi anche il saggio “L’importanza geopolitica della Transnistria di fronte all’accerchiamento atlantista della Russia” di Stefano Vernole, pubblicato nell’ultimo numero di “Eurasia”
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L’agricoltura africana ha invertito la rotta, 04.05.2010
WILLIAM A. MASTERS*
Dopo decenni di cattive notizie, almeno tre tendenze decisive stanno cambiando il cammino dell’Africa: le politiche agricole, la demografia rurale, e la produttività delle fattorie. Tutte e tre promettono opportunità accresciute per le famiglie contadine in tutto il Continente. Queste tendenze di muovono troppo lentamente per conquistare i titoli sui giornali, ma cumulativamente offrono enormi vantaggi per gli investimenti pubblici e privati nell’agricoltura e nello sviluppo rurale.
Il primo punto di svolta è politico. Gli ultimi dati di uno studio della Banca mondiale, che mette a confronto le politiche agricole mondiali dal 1955 a oggi, mostrano per la prima volta quanta strada hanno fatto i governi africani nel ridurre i costi per gli agricoltori derivanti dalle tasse sulle esportazioni, e da altri interventi imposti dai regimi passati. Le politiche africane hanno indotto distorsioni che hanno raggiunto il loro picco alla fine degli anni Settanta, mentre le riforme portate avanti da quella data hanno rimosso due terzi del fardello, favorendo la produttività e la riduzione della povertà. Ulteriori riforme porteranno nuovi benefici, ma già adesso gran parte degli handicap lasciati in eredità dai regimi coloniali sono stati spazzati via.
Il secondo punto di svolta è demografico. I dati dei censimenti, rivisti recentemente dalle Nazioni Unite, rivelano l’emersione di un’implicazione mai detta nella storia africana. Le famiglie africane hanno avuto accesso alla medicina moderna molto più tardi e in maniera improvvisa. I tassi di mortalità infantile sono conseguentemente crollati, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, a un ritmo molto maggiore rispetto all’America latina o all’Asia meridionale. Le città africane stanno crescendo con i tassi più elevati a livello mondiale, ma la loro dimensione assoluta è così piccola che non possono assorbire se non una piccola frazione delle nuova forza lavoro. Di conseguenza la popolazione rurale africana è cresciuta più velocemente e per più lungo tempo che in ogni altro periodo della storia umana, con una diminuzione parallela della terra e delle altre risorse naturali a disposizione pro capite.
Il terzo punto di svolta è tecnologico: le statistiche mostrano che la produzione di cereali, dopo decenni di stagnazione proprio mentre l’Asia sperimentava la sua rivoluzione verde, nell’ultima decade è cresciuta costantemente e adesso le stime del raccolto pro capite sono uguali a quelle dell’Asia meridionale. Questa svolta è legata anche all’arrivo degli aiuti internazionali, che in realtà non hanno inciso fortemente sulla crescita della produzione fino alla fine degli anni Settanta, e hanno raggiunto il loro picco alle fine degli anni Ottanta, producendo i loro effetti concreti qualche anno dopo. Messi assieme – le politiche agricole sbagliate, la demografia, il ritardo nell’arrivo delle nuove tecnologie – hanno pesato moltissimo nella crescita della produzione pro capite nell’ultimo quarto dello scorso secolo. Ma ora che cominciano a svanire questi elementi negativi, una maggiore crescita e un’efficace lotta alla povertà saranno molto più facili da raggiungere. Questi tre mega-trend pongono i contadini africani in una posizione favorevole come mai prima per approfittare dei cresciuti investimenti pubblici e privati.
Per gli investitori, adesso, i maggiori ostacoli sono legati all’informazione: che cos’è che funziona meglio, e a quali condizioni? Cominciano a essere disponibili nuovi dati, comparativi, sull’impatto delle politiche: ce n’è un bisogno disperato. Governi, donatori, e altri investitori possono ancora fare scelte sbagliate, ma ci sono opportunità senza precedenti per alti ritorni in termini di crescita. Se gli investitori prendono nota, gli agricoltori sono pronti a rispondere. E il 2010 potrebbe segnare l’inizio di una nuova, fulgida, era per l’agricoltura africana.
*Professore di Economia agricola alla Purdue University
Copyright: Project Syndicate, 2010 www.project-syndicate.org
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La Luna dei Robot, 03.05.2010
Vele solari e coloni robotici: il Giappone si prepara all’avventura spaziale
Roma – Entro il 2010 il primo volo con propulsione solare, per il 2015 robot umanoidi a muovere i primi passi sulla Luna, poi per il 2020 l’installazione di una base lunare robotizzata: il Giappone punta alla Luna. Che sembra davvero vicina.
La Space Oriented Higashiosaka Leading Association (SOHLA) di Osaka ha annunciato che entro il 2015 invierà un robot umanoide sulla Luna: dovrebbe chiamarsi Maido-kun e costare circa 10,5 milioni di dollari.
SOHLA è costituita da sei aziende private che si occupano di tecnologia spaziale collegate con le istituzioni governative di ricerca. Nonostante il costo elevato, l’iniziativa – se portata a termine – dovrebbe avere ricadute positive su tutta l’economia locale, in particolare perché consentirebbe la ricerca di risorse naturali sul satellite terrestre. E porterebbe il Sol Levante sulla Luna, a dimostrazione del primato nipponico nella robotica.
Maido-kun potrebbe incontrare nello spazio Ikaros: l’ambizioso progetto con cui la Jaxa (Japan Aerospace Exploration Agency) progetta di spiegare le vele dell’energia solare nello spazio.
L’acronimo “Interplanetary Kite-craft Accelerated by Radiation of the Sun”, che si rifà al poco propizio mito greco, intende infatti far volare (partenza prevista il 18 maggio 2010) la prima navicella spaziale ad usare l’energia solare come principale metodo di propulsione.
La tecnologia delle vele solari, già sperimentata in passato in camere a vuoto dalla NASA, ha permesso ora all’agenzia spaziale giapponese di costruire una vela più sottile di un capello umano, ma in grado di sfruttare la pressione delle particelle della luce solare che collidono contro la vela per dare propulsione e fornire energia elettrica all’astronave. Dovrebbe contribuire a mandare sulla Luna una squadra giapponese di robot destinata a costruire una stazione giapponese stabile.
Claudio Tamburrino
http://punto-informatico.it/2870709/PI/News/luna-dei-robot.aspx
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Vulcani, la cenere “buona” che fertilizza gli oceani, 30.04.2010
Uno studio californiano spiega che l’eruzione del Eyjafjallajökul islandese avrà effetti positivi sull’ambiente. Secondo i ricercatori, rafforzerà l’ecosistema dei mari, favorità il rilascio di ossigeno e l’assorbimento di CO2
di SARA FICOCELLI
NON tutta la polvere vulcanica viene per nuocere. O almeno questo è ciò che sostengono gli scienziati del Monterey Bay Aquarium Research Institute, in California, secondo i quali “nel lungo periodo gli oceani trarranno un enorme beneficio dall’eruzione del vulcano islandese”. Con queste parole Ken Johnson ha commentato i risultati di una ricerca che dimostra come, tra una decina d’anni, le distese azzurre del pianeta dovranno dire grazie proprio al fenomeno naturale che per settimane ha paralizzato gli aeroporti di tutto il mondo. Questo perché, spiega lo scienziato, circa il 30% degli oceani è povero di ferro, sostanza contenuta in abbondanza proprio nella polvere del vulcano Eyjafjallajökul. Nei prossimi anni, quando la polvere si sarà depositata del tutto, mescolando nel bene e nel male le sue sostanze a terra e mari, la sua azione fertilizzante sarà, è proprio il caso di dirlo, una “manna dal cielo”.
Il contributo in ferro secondo gli studiosi permetterà agli ecosistemi marini di rigenerarsi: introducendo la sostanza nello strato più superficiale degli oceani aumenterà infatti la quantità di fitoplancton (plancton vegetale) e ciò a sua volta farà aumentare la quantità di cibo nel mare e, soprattutto, favorità il rilascio di ossigeno e l’assorbimento di CO2. Nel 2001 un altro studio aveva riscontrato che i livelli di ossido di carbonio nell’atmosfera erano costantemente aumentati tra il 1963 e il 1965, dopo l’eruzione del vulcano Mount Agung di Bali, in Indonesia, e fra il 1991 e il 1993, dopo quella del Mount Pinatubo nell’isola di Luzon, nelle Filippine. Questa ricerca, pubblicata sulla rivista Geology, conferma la relazione tra cambiamenti climatici globali ed eruzioni vulcaniche e dimostra inoltre che la polvere del vulcano islandese è in grado di rilasciare fosfato, ferro, silicio e magnesio molto rapidamente, appena entratata a contatto con l’acqua. “Tanto velocemente – continua lo studioso – da provocare una immediata utilità per piante ed ecosistemi”. Già nel 2007 uno studio pubblicato su Geophysical Research Letters aveva testato direttamente gli effetti della polvere vulcanica (prendendo come punto di riferimento alcune eruzioni verificatesi in Costa Rica, Giappone e Alaska), concludendo che le sostanze in essa contenute avevano contribuito alla crescita del fitoplancton nei mari.
Ovviamente il rilascio di queste sostanze negli oceani è solo una delle conseguenze che la dispersione della polvere avrà sul pianeta, ma non tutte saranno positive. Secondo Vincenzo Ferrara, esperto di clima dell’Enea, “se le polveri avranno quantità e soprattutto energia termica tale da “bucare” la tropopausa e finire nella stratosfera, potrebbero restare lì anche anni e determinare cambiamenti climatici significativi”. Lo studioso precisa anche che “le conseguenze di un’eruzione particolarmente ricca di composti attivi dal punto di vista dell’interazione con la radiazione solare (solfati), vengono osservate solitamente durante i due anni successivi all’evento”. Il riscaldamento della stratosfera può superare (come nel caso dell’eruzione del Pinatubo nel giugno del 1991) gli 0.5 gradi centigradi a scala planetaria, provocanzo conseguenze imprevedibili su tutta la circolazione atmosferica. Non dimentichiamo infatti che l’eruzione dell’aprile 1815 del Monte Tambora in Indonesia provocò un tale abbassamento della temperatura da trasformare il 1816 in un anno senza estate.
Ma al di là di questi catastrofismi è opportuno concentrarsi sugli effetti positivi di questa eruzione. Anche se, come precisa Johnson, “l’oceano nord-atlantico, dove la maggior parte della polvere vulcanica andrà a depositarsi, non è esattamente il luogo ideale per testare la teoria della “fertilizzazione vulcanica”, poiché non si tratta di un mare carente di ferro come altri”. Potrebbe tuttavia aver bisogno di fosfati, conclude il ricercatore californiano. Nessuno, in fondo, può stabilire con certezza quanto è vasto il panorama delle interazioni tra i fenomeni della natura.
http://www.repubblica.it/scienze/2010/04/30/news/vulcano_cenere_oceani-3738213/
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Il nuovo fotovoltaico nasce nell’Etna Valley, 04.2010
Un modulo fotovoltaico da collegare agli elettrodomestici di casa che li alimenta senza bisogno di un convertitore. È anche dotato di un sistema di controllo che ne adatta la produzione alle condizioni meteo e non disperde energia nelle fasi di “trasferimento” della corrente da continua ad alternata.
Lo ha realizzato la StMicroelettronics di Catania e la sua caratteristica fondamentale è quella di avere un circuito di dimensioni minime già dotato di un miniconvertitore, detto “junction-box”, all’interno del modulo stesso: un dispositivo che converte l’energia prodotta dalle celle, a tensione continua, direttamente in corrente alternata, permettendo così di collegare l’energia prodotta direttamente alla rete elettrica domestica senza macchinari e passaggi ulteriori.
Innovazione che, senza l’ingombro degli inverter tradizionali di grosse dimensioni, rende il pannello fotovoltaico simile a una sorta di batteria, capace di alimentare qualsivoglia dispositivo.
Grazie al suo sistema di controllo, inoltre, il pannello si adatta alle condizioni esterne, così da massimizzare la produzione di energia elettrica anche quando l’irraggiamento solare è più scarso per la nuvolosità, ombreggiamenti o sporcizia depositata. Anche la dispersione di energia è minima: riuscendo a funzionare alla temperatura di 40° anziché di 70 così come avviene per i circuiti standard, i circuiti del nuovo modulo non si surriscaldano eccessivamente e riescono a ottimizzare l’energia normalmente impiegata in calore, arrivando ad ottenere un’efficienza media del 97%. Il sistema di controllo, infine, può funzionare anche da antifurto perché, in caso di disconnessione, invia in automatico un segnale a una centrale dedicata. Ed è utile anche per prevenire danneggiamenti, perché può automaticamente disconnettere il pannello dalla rete in caso di eventi meteo pericolosi come terremoti o trombe d’aria. Spiega Matteo Lo Presti, direttore di System Lab della St: “In un sistema standard da 3 kw collocato sul tetto, la quantità di energia prodotta in più va dal 5% al 12%.” Meno preciso è riguardo ai costi dell’impianto, che ritiene ancora prematuro quantificare, dal momento che l’azienda ha appena cominciato a promuovere la soluzione, che è pronta per l’industrializzazione. Però annuncia: “stimiamo che l’extra-costo venga ripagato al primo anno di esercizio”.
“La nostra azienda – precisa Carlo Marino, direttore dello stabilimento – da tempo svolge attività di ricerca sui componenti dedicati per applicazioni di conversione dell’energia prodotta dai campi fotovoltaici. Lo scenario dell’accordo con St, Sharp ed Enel per la produzione di pannelli fotovoltaici, una volta siglato definitivamente, porterà un’ulteriore ventata di innovazione sul territorio”. Accordo in base al quale, entro i primi mesi del 2011, presso la StMicroelettornics di Catania entrerà in funzione la più grande fabbrica di pannelli solari dell’Italia meridionale, sede scelta anche perché usufruisce pienamente dell’impianto esistente per la produzione di semiconduttori e di una significativa forza lavoro specializzata nella lavorazione su silicio. La città di Catania ospita, inoltre, anche Conphoebus, centro ricerche di Enel interamente dedicato alle fonti rinnovabili, solare in particolare, e al risparmio energetico. E se si ricorda anche che la Sicilia è una regione “chiave” nell’area del Mediterraneo per lo sviluppo di campi fotovoltaici, perché fornisce una collocazione unica rispetto a tutte le rotte necessarie a raggiungere i mercati limitrofi, allora sui può decisamente affermare che quella che è stata ribattezzata “Etna Valley” diverrà sempre più protagonista del fotovoltaico made in Italy.
Fonte: Il Sole 24 Ore
http://www.scienzaegoverno.org/n/080/080_01.htm
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Catturare energia con una nuova ottica, 04.2010
Abbattere i costi del fotovoltaico è uno dei principali obiettivi della ricerca sull’energia solare. E secondo Jason Karp e suoi colleghi dell’University of California di San Diego, alla realizzazione d’impianti fotovoltaici “economici” potrebbe contribuire in modo decisivo una nuova concezione di design che sappia sfruttare adeguatamente la fisica ottica.
I ricercatori californiani hanno, infatti, ideato un nuovo concentratore che utilizza un minor numero di celle fotovoltaiche, ma con performance invariate o addirittura incrementate grazie a una gestione della luce solare ottimizzata.
Il sistema ha come obiettivo principale quello di abbattere i costi del fotovoltaico a concentrazione, offrendo ulteriori potenziali vantaggi rispetto ai concentratori solari a elevata efficienza, già presenti nella tecnologia fotovoltaica a livello mondiale, che incorporano l’ ottica per focalizzare il sole centinaia di volte e fornire il doppio della potenza dei moduli fotovoltaici piani.
Il team di Karp ha utilizzato moduli di lenti individuali collegati a singole celle a loro volta allineate e connesse elettricamente, impiegando migliaia di piccole lenti impresse su un foglio e accoppiate a una “guida d’ombra” piatta Si tratta di una struttura lineare che convoglia e confina le onde elettromagnetiche, e dunque anche i raggi luminosi, all’interno di un preciso percorso, esattamente come un imbuto, su di una singola cella.
È stato così possibile realizzare un prototipo funzionante con solo due principali componenti ottici, riducendo in tal modo i materiali, l’allineamento e il montaggio che richiederebbero i normali concentratori.
Parallelamente, gli studiosi stanno cercando di sviluppare un processo di produzione a basso costo utilizzando le attuali tecniche di lavorazione roll-to-roll per la fabbricazione di televisori di grandi dimensioni.
Fonte: Università di California a San Diego
http://www.scienzaegoverno.org/n/080/080_03.htm
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La caldaia del futuro fornirà calore ed elettricità, 14.04.2010
Un’ulteriore possibilità di utilizzare moderni e efficienti sistemi di risparmio energetico in casa potrebbe giungere dall’Istituto materiali per l’elettronica e il magnetismo (Imem) del Consiglio nazionale delle ricerche di Parma. Allo studio, la costruzione di un prototipo di caldaia utile a produrre simultaneamente energia elettrica e termica mediante opportune celle fotovoltaiche, che riassorbono e trasformano in elettricità gli ‘scarti’ della caldaia.
Un obiettivo ambizioso, che potrebbe segnare una svolta nel campo della cogenerazione (la generazione simultanea di energia termica ed elettrica o meccanica). Tali sistemi, infatti, solitamente prevedono l’uso di microturbine o motori a combustione interna e mai, finora, sono state sfruttate a tale scopo le tecnologie fotovoltaiche.
“Il nostro progetto è realizzare una caldaia termofotovoltaica per sfruttare al 100% tutti i prodotti di un generatore termico”, spiega Claudio Ferrari, responsabile della ricerca. “Attualmente, una caldaia converte in calore fino a oltre il 95% dell’energia del combustibile, mentre i rendimenti elettrici dei generatori arrivano al massimo fino al 40% circa: il restante 60% è calore che spesso viene disperso nell’ambiente. In una caldaia termofotovoltaica si può produrre il 10% di energia elettrica e circa l’85% di energia termica utilizzando interamente l’energia del combustibile”.
Va sottolineato che nel rapporto tra energia elettrica prodotta ed energia ‘primaria’ non è necessario avere valori alti: una quota del 10-15% basta, poiché nel fabbisogno di una piccola unità domestica le bollette registrano una quantità di energia usata per produrre calore pari proprio a 8-10 volte l’energia elettrica assorbita.
Il progetto della caldaia termo-fotovoltaica è finanziato da una convenzione Cnr-Regione Lombardia nell’ambito del progetto ‘Nuove tecnologie e strumenti per l’efficienza energetica e l’utilizzo delle fonti rinnovabili negli usi civili’. Compito dell’Imem è realizzare la caldaia ingegnerizzando celle fotovoltaiche, mediante la trasformazione di quelle convenzionali – adatte per lo spettro solare, caratterizzato da una temperatura di circa 6000 °C – in celle idonee per temperature dell’ordine dei 1000-1200 °C, quelle raggiunte appunto dalle caldaie tradizionali.
“L’energia radiante dissipata dalle caldaie cade nella regione spettrale della luce visibile e dell’infrarosso”, continua Ferrari, “quindi la ricerca punta a ottimizzare celle fotovoltaiche in grado di raccogliere questo intervallo di lunghezze d’onda. Il materiale principale su cui stiamo lavorando è il germanio, semiconduttore utilizzato per la produzione dei primi transistor, le cui proprietà strutturali consentono di ‘catturare’ quelle bande dello spettro elettromagnetico. Il nostro obiettivo è raggiungere un’efficienza del termofotoconvertitore del 10-11%”.
Scopo finale della ricerca è ottenere una caldaia innovativa che costi come una tradizionale o il cui eventuale costo aggiuntivo venga ripagato dall’energia elettrica prodotta.
Marco Milano
Fonte: Claudio Ferrari, Istituto dei materiali per l’elettronica ed il magnetismo, Parma, tel. 0521/269222, email ferrari@imem.cnr.it
http://www.almanacco.cnr.it/reader/cw_usr_view_articolo.html?id_articolo=544&id_rub=32&giornale=588
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AL VIA UN CONCORSO DI IDEE INTERNAZIONALE
PER LE ISOLE MINORI ITALIANE
Le Isole Minori Italiane diventano laboratori di sperimentazione
per la produzione di energia da fonti rinnovabili nel rispetto del paesaggio.
MAREVIVO lancia il primo concorso internazionale “L’energia solare per le isole minori italiane” e sigla, nel corso della conferenza stampa che si è svolta il 13 aprile presso la sede di Marevivo, un protocollo di intesa triennale con CITERA – Sapienza Università di Roma (Centro di Ricerca Interdisciplinare Territorio Edilizia Restauro Ambiente), ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), GSE (Gestore Servizi Energetici), il Ministero per i Beni e le Attività culturali – Direzione generale per la qualità e la tutela del paesaggio, l’architettura e l’arte contemporanee – e il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.
L’intesa è nata per promuovere un Concorso d’idee Internazionale per la realizzazione di progetti innovativi che siano in grado di integrare l’uso di sistemi energetici per la produzione di energia da fonti rinnovabili con la tutela e la valorizzazione del paesaggio delle Isole Minori.
Oggi è stata presentata la prima edizione del Concorso dedicata al tema: “L’energia solare per le isole minori italiane”.
Questo evento si inserisce nel più ampio progetto di Marevivo “Sole, vento e mare per le Isole Minori Italiane: energie rinnovabili e paesaggio” che l’associazione porta avanti dal 2007 con l’obiettivo di promuovere nuovi modelli di gestione e fruizione in questi territori, luoghi ideali per lo sviluppo di politiche ispirate alla sostenibilità.
Il risparmio energetico e la ricerca di fonti alternative è uno degli obiettivi indicati dall’Unione Europea. Entro il 2020 la produzione di energia da fonti rinnovabili dovrà coprire il 20% con la riduzione della medesima percentuale del consumo energetico: questa necessità è indicata come obiettivo prioritario nella strategia di Lisbona.
Sarà possibile partecipare al concorso inviando i progetti dal 13 aprile 2010 fino al 6 settembre 2010
Al concorso possono partecipare, divisi nelle categorie Studenti, Professionisti, Industrie, studenti di architettura, di ingegneria o di industrial design; architetti, ingegneri, industrial designer, studi o gruppi professionali, società di progettazione; imprese industriali.
Ai premi in danaro per i primi e secondi classificati delle categorie studenti e professionisti, si aggiunge la possibilità, per i primi classificati tra gli studenti, di uno stage di 6 mesi presso il GSE a Roma, mentre un’ulteriore rilevante opportunità sarà offerta dall’ENEA che valuterà la possibilità di ingegnerizzare presso i suoi laboratori di ricerca l’idea vincente.
La Direzione PaBAAC del Ministero dei Beni Culturali, inoltre, pubblicherà i progetti vincitori sul proprio sito web, quali esempi di buone pratiche.
Al termine del concorso la premiazione si terrà nella città di Capri, dove il progetto ha preso il via, che si candida pertanto a diventare città promotrice dello sviluppo tecnologico eco-sostenibile.
http://www.marevivo.it/sole_vento_2010.php
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Infanzia finanziaria. 02.05.2010
Un tempo era costume raccontare strane storie ai bambini. Se non si voleva che facessero la tal cosa, si raccontava di terribili conseguenze nel caso avessero disobbedito. Si tratta di un espediente molto usato anche dalle religioni, al punto che il timore delle terribili conseguenze identificava persino la brava persona: “timorato di Dio”, si diceva. Eppure, la stragrande maggioranza di queste “terribili conseguenze” erano pure menzogne.
Come abbiamo imparato da grandi, masturbandoci non diventiamo ciechi. Come abbiamo imparato da grandi, non c’e’ nessun babau, uomo nero, non c’e’ nessun inferno se guardo un bel culo.
Perche’ ci veniva raccontato tutto questo? A raccontarci queste cose era un sistema che temeva la disobbedienza. LA temeva perche’ sapeva benissimo che possedere alcuni punti chiave del comportamento umano avrebbe mantenuto la struttura sociale, politica, economica, del periodo.
Ogni sistema di potere che intenda essere vessatorio alimenta, per forza di cose, un sistema di simili bugie. Compreso il sistema finanziario attuale. Tali bugie, che servono a tenere in piedi il sistema stesso, hanno come scopo quello di non lasciarci fare quello che vorremmo, o meglio, cio’ che il sistema stesso teme.
Prendiamo il caso della Grecia. Che cosa sarebbe successo che anziche’ richiedere il “prestito” UE lo avesse rifiutato categoricamente? Sarebbe andata in default? No, in default c’e’ gia’: il loro primo ministro ha gia’ ammesso di non avere liquidita’ per onorare le scadenze. La grecia, quindi, E’ in default.
E allora cosa sarebbe successo? Sarebbe successo che le sarebbero stati negati ulteriori prestiti dai mercati. Aha. E invece, adesso che arriva il prestito UE, pensate davvero che i mercati finanzieranno ancora la Grecia?
Un tizio mi dice che, fallendo senza pagare i creditori, la Grecia non avrebbe piu’ trovato alcun finanziatore e quindi avrebbe dovuto mantenere il disavanzo allo 0%. Invece cosi’, dovra’ accettare le condizioni dei turboliberisti di FMI, e il disavanzo dovra’ essere addirittura negativo, ovvero dovranno fare anche dei tagli.
Insomma, alla fin fine che cosa sarebbe mai successo se il governo greco avesse detto “ciao ciao, stupidi voi che non avete controllato i nostri conti, e due volte stupidi perche’ ci avete aiutati a falsificarli”?
NIENTE.
Se la Grecia non pagasse il debito, mandando in culo i creditori, non le succederebbe NIENTE di peggio di quanto le succedera’ gia’. Non c’e’ alcuna ragione per la quale i greci dovrebbero accettare il prestito. Non c’e’ alcuna ragione per la quale dovrebbero chiederlo.
Ma c’e’ di piu’: le banche proprietarie del prestito potrebbero addirittura rivolgersi ai certificatori dei bilanci greci, e alle agenzie di rating, chiedendo loro per quale motivo un rating cosi’ alto sia stato dato ad una nazione dai bilanci palesemente falsi.
Non solo i greci potevano fregarsene e tirare dritto senza peggiorare la gia’ critica situazione di una virgola, ma potevano farla pagare cara proprio agli speculatori.
Circolano in giro terribili anatemi, simili ai babau ed all’uomo nero, sulla serie di bibliche disgrazie che accadrebbero se le nazioni occidentali dichiarassero default. Volete sapere cosa succederebbe?
NIENTE.
Tempo fa, quando inizio’ il credit crunch, si diceva che alcune aziende andassero salvate perche’ erano “Too Big to Fail”. Alcune erano cosi’ grandi che si scopri’ come alcuni stati non potessero nemmeno aiutarle: “Too Big to Bail”. Bene, signori, cosa dire delle nazioni del G8?
Sapete cosa dire? “Too Big to Fuck With”.
Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, potrebbero semplicemente dichiarare sin da ora che non pagheranno i debiti e non restituiranno i bond. E che rifiuteranno qualsiasi prestito, aiuto, qualsiasi cazzo di cosa.Sapete cosa succederebbe?
NIENTE.
Si dice che cosi’ facendo le nazioni mancherebbero ad un loro dovere verso i propri cittadini. Ma non e’ esattamente cosi’ che stanno le cose.
Prendiamo per esempio il debito italiano. Esso e’ spalmato in titoli che vanno dai pochi mesi a 30 anni. Dove si trova la speculazione? Ovviamente, nei titoli a breve termine, quelli che hanno un rientro entro pochi mesi.
La media dei nostri titoli ha scadenza a 7.6 anni. Il genio di Tremonti ha consolidato il debito alzando la media delle scadenze OLTRE la durata di un governo. Trappola micidiale.
Questo governo ha ancora, nella migliore delle ipotesi, 3 anni di vita. Supponiamo che Tremonti annunci che non restituira’ il capitale dei titoli in scadenza, per tutti i prossimi tre anni. Sapete cosa succedera’?
NIENTE.
Tutti coloro che hanno titoli che scadono DOPO il governo attuale, infatti, sceglierebbero una via prudente, e se li terrebbero in tasca sperando che il prossimo governo decida diversamente. Verrebbero colpiti solo coloro che hanno comprato CDS e buoni del tesoro a breve, cioe’ gli speculatori. Chi ha investimenti che scadono a lungo termine, per esempio, continuerebbe a sperarci.
Voi direte: ma isolerebbero il paese. Ma ci butterebbero fuori dai circoli finanziari. Davvero? Se riuscissero a convincere tutti quelli che hanno titoli a piu’ di tre anni, per esempio, potrebbero. Ma Tremonti potrebbe dire, che so io, “quest’anno non paghiamo nessuno, dal prossimo anno ricominceremo”. Poiche’ si tratta di debito storico, di per se’ non ci sarebbe bisogno di rinnovarlo.
Possiamo anche uscire dal caso italiano, e supporre che una decina di nazioni (Belgio, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, UK, Austria) decidano di non pagare il debito, se non ai propri cittadini risparmiatori, identificandoli attraverso il canale di vendita. Nel globale, il debito si ridurrebbe a meno della meta’.
Che cosa succederebbe?
Ancora niente.
Non esiste il babau. Non esiste l’inferno. Non si diventa ciechi a masturbarsi. Non succede niente a mandare in culo i creditori, a patto di farlo bene. Questo e’ il punto.
La cosa che nessuno vuole sentir dire, e che nessuno vuole dire, e’ che se una qualsiasi delle nazioni del G8, o un qualsiasi gruppo di nazioni del G20 manda a ranare i creditori, non succede assolutamente niente: “Too Big to Complain”.
Guardate che cosa ha fatto Dubai. Dubai ha dichiarato che avrebbe mandato in culo i fornitori un venerdi’ prima della chiusura delle borse. Per tutto il weekend, l’emiro ha ricevuto baciaculi che sono andati ad elemosinare due spiccioli da lui. Dopodiche’, non solo ha “ristrutturato” il debito (ristrutturato significa “ti devo dieci ma di restituiro’ 4”) , ma nessuno ha protestato particolarmente.
Questa e’ la fifa blu che oggi hanno i mercati finanziari. La fifa blu degli speculatori e degli assicuratori: che qualche nazione del G8 decida “ehi, fottetevi tutti. Di aziende che vogliono il mio mercato ho la coda fuori”. Il che e’ la verita’.
Prendiamo il paese nelle condizioni piu’ disperate in Europa, cioe’ gli UK. Se compilassero i bilanci secondo gli standard UE, il loro deficit sarebbe al 170% del PIL. Supponiamo che vadano in default. Che cosa succederebbe? Succederebbe che il buon primo ministro, chiunque sia, dira’ “ehi, cocchi, se volete continuare a mettere piede nella City fatemi gli applausi, che di aziende che vorrebbero entrarci ho la coda fuori dalla porta”. Questa e’ la verita’: moltissime nazioni hanno dimensione tale per cui non solo sono “too big to fail”, e anche “too big to bail”, ma sono persino “too big to fuck with”. Troppo grosse per rompergli i coglioni.
Questo e’ il concetto principale: era cosi’ urgente “salvare” la Grecia(1) perche’ si tenesse in piedi la menzogna secondo la quale il default sarebbe un evento terrificante , catastrofico, simile a quello che avvenne in Argentina. Ma attenzione, perche’ non e’ vero: l’ Argentina al momento del deault usciva proprio da un tentativo di salvataggio dell’ FMI!
Quello che secondo me dovrebbero fare i PIGS, o PIIGS, insieme a tutti gli altri che hanno problemi di debito pubblico, e’ di riunirsi e dichiarare default tutti insieme, con la sola eccezione dei propri privati cittadini, cioe’ per quantita’ di titoli tipiche del risparmio privato.
Cosa succederebbe? Niente. I PIIGS sono nazioni che nel bene o nel male sono proprietarie di ottimi mercati, finanziari e mercantili. Nessuno degli speculatori vorrebbe esserne cacciao via. Nessuno dei creditori vorrebbe esserne cacciato via. Nessuno al mondo vuole la recessione globale che arriverebbe se i PIIGS fossero oggetto di embarghi o sanzioni.
Questa e’ la ragione principale per la quale i PIIGS vengono affrontati uno ad uno. La Grecia prima , il Portogallo e la Spagna dopo, e poi chissa’. Contemporanetamente, tutti i giornali ci spiegano di quale catastrofe sarebbe se la Grecia andasse davvero in default: la UE e la BCE perderebbero “prestigio politico”. Ommioddio! Ommioddio!Moriremo tutti !
Ehm. Di quale cazzo di “prestigio politico” stai parlando, fra’?
I mercati, si dice, diverrebbero instabili. Aha. E quando mai sono stati stabili? Qual’e’ la novita’? Ci divertiamo a scrivere oroscopi? “scorpione: mercati finanziari instabili”. Fico, e’ facile prenderci cosi’.
Quello che l’opinione pubblica deve fare e’ di divenire adulta. Smettere di credere nel Babau. Smettere di credere che a toccarselo si diventera’ ciechi. Smettere di credere all’uomo nero. Fare una bella riunioncina, e dire “ehi, ci avete chiamati PIIGS? Fantastico. Perche’ adesso i PIIGS vi prestano un dito, e vi mandano affanculo. E se non volete piu’ fare business sui nostri mercati, beh, abbiamo la coda , fuori dalla porta”.(2)
Ovviamente, questo produrrebbe il panico. Tutti sono come bambini, convinti che arriverebbe l’uomo nero. Tutti sono come bambini, e hanno paura del babau.
Beh, diventate grandi: non succede niente.
Semplicemente, qualcuno perderebbe il suo potere,e probabilmente moltissimi dei suoi soldi.
Per quanto riguarda l’euro, se i PIIGS decidessero di uscire in questo modo, Trichet verrebbe a baciare culi per convincerli a restare dentro l’euro.
PIIGS di tutto il mondo, unitevi. Anzi: PIIGS di tutto il mondo, fallite.
Il fallimento, oggi, e’ rivoluzionario.
Chi ci rimetterebbe? Se tutti i PIIGS decidessero di fallire insieme, semplicemente a lasciarci le penne sarebbero queste entita’ qui:
Barlkays Bank PLC
BNP Paribas
Citi Group Global Markets
Commerzbank AG
Credit Agricole
Credit Suisse
Deutsche Bank
Goldman Sachs
HSBC France
ING Bank NV
JP Morgan Securities
Merryl Lynch INT
Morgan Stanley CO
Nomura INT
Royal Bank OF Scotland
Societe’ Generale INV Bank
UBS Ltd
Capite per quale motivo i PIIGS vanno affrontati uno ad uno: se fallissero tutti insieme, non li si potrebbe buttare fuori dall’ Euro, e come se non bastasse sarebbe la fine del sistema finanziario speculativo cosi’ come lo conosciamo.
E no, il babau non esiste.
Chissa’ cosa succederebbe se qualcuno proponesse , via internet, una riunione dei governi dei PIIGS che mandino a ranare il debito pubblico e gli speculatori tutti insieme.
Uhm… quasi quasi ci faccio un gruppo su Facebook 🙂
Uriel
(1) In che cosa sia consistito il “salvataggio” lo sanno solo loro: le “cure” imposte alla Grecia sono molto piu’ dolorose delle conseguenze del default. Non si capisce bene che cosa ci abbiano guadagnato, i greci, a prendersi dei soldi e poi fare tagli al bilancio uguali se non peggiori di quelli che avrebbero dovuto fare uscendo dai mercati finanziari.
(2) Vi siete mai chiesti perche’ non vedete in giro marche di auto cinesi? Perche’ non vedete sportelli di banche islamiche? Perche’ non vedete catene di benzinai di petrolieri russi? Ecco: sono tutti dietro alla porta, ad aspettare.
http://www.wolfstep.cc/2010/05/infanzia-finanziaria.html
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Patricia Lombroso
Gli Usa diventeranno come la Germania di Weimar? 02.05.2010
Abbiamo incontrato Noam Chomsky reduce da una serie di conferenze al Left Forum dal titolo significativo «Il centro non può reggere». L’occasione è l’uscita negli Stati uniti del suo ultimo libro – Hopes&Prospects, presso la casa editrice Haymarket. Nel saggio analizza, insieme alle «Speranze&Prospettive», i pericoli e le possibilità ancora aperte del nostro XXI secolo, il crescente divario fra Nord e Sud, i miti e le delusioni dell’eccezionalismo americano inclusa la presidenza di Obama, i fiaschi delle guerre in Iraq e in Afghanistan, l’assalto israelo-americano a Gaza, la nuova divisione internazionale del terrore nucleare e la natura dei recenti salvataggi finanziari. «La situazione che viviamo in America oggi fa paura. Il livello di rabbia, frustrazione e disgusto nei confronti delle istituzioni ha raggiunto livelli impressionanti senza che ci sia un’organizzazione di questa rabbia in modo costruttivo. Le somiglianze con la repubblica di Weimar dopo il 1925 sono strabilianti e molto pericolose». È con queste gravi considerazioni di Chomsky che si apre l’incontro.
Quali sono i paralleli economici e sociali della realtà americana odierna rispetto al periodo della repubblica di Weimar del l925 che aprirono la strada a Hitler?
L’appoggio di base della popolazione tedesca che abbracciò l’ascesa di Hitler al potere era costituita essenzialmente dalla piccola borghesia e dalla grande industria che utilizzò il nazismo come arma politica per la distruzione della classe operaia in Germania. La coalizione di governo venne formata molto prima della Grande Depressione del ’29. Per conseguenza, con le elezioni del 1925 la Germania di Hindenburg – e la coalizione governativa formatasi – era sociologicamente e quasi demograficamente molto simile a quella che appoggiò l’ascesa al potere nel 1933 di un oscuro personaggio come Hitler. Ma già fin dai primi anni Venti in Germania dilagava questo malessere originale composto di disillusione e risentimento nei confronti del sistema parlamentare. Meno attenzione viene riposta in genere ad un fattore di grande importanza e cioè che il nazismo, a parte la distruzione dei comunisti e dei socialdemocratici, riuscì nell’intento di distruggere i partiti tradizionali dei conservatori e dei liberali al potere, già in declino durante la Repubblica di Weimar degli anni Venti. È questa l’impressionante somiglianza storica per quanto sta maturando in America. I sondaggi di opinione pubblica recenti indicano che il consenso della popolazione per come è governata dai democratici e dai repubblicani è sceso al 20%. L’odio nei confronti del Congresso e della direzione che ha preso il governo del paese supera l’85%. Come per il periodo di Weimar in Germania, la popolazione americana è disgustata dal patteggiamento fra i due maggiori partiti per salvaguardare soltanto i propri interessi. La mentalità diffusa che pervade la middle class americana è che i membri del Congresso debbano essere combattuti come «gangster» ed eliminati. La composizione demografica di coloro che abbracciano queste idee è formata da bianchi della middle America, uomini senza particolare identità e soprattutto senza idee di prospettiva politica, se non in chiave antigovernativa. Questi gruppi, come il «Tea party» e altre frange che sono nate nel vuoto politico di direzione, sono stati mobilitati e strumentalizzati dall’estrema destra con seri rischi. Le classi industriali americane utilizzano quelle che sono legittime istanze economiche e sociali della piccola borghesia per criminalizzare l’immigrazione e il surplus di popolazione in prevalenza afroamericana che riempie le prigioni, come una nuova risorsa di manodopera a infimo prezzo o a livello statale o delle carceri private.
Perché lei utilizza il parallelo con la Germania di Weimar in particolare per quello che avviene negli Stati uniti e non altrove, come in Europa, dove i principi del neoliberismo conservatore sono stati ampiamente globalizzati?
Perché l’Europa è riuscita ancora a mantenere in vita una struttura socialdemocratica. Sottolineo anche che solo l’America Latina, e già da un decennio, ha rifiutato il modello dettato da Washington. Qui, negli Stati uniti, le conseguenze dei principi del neoliberismo selvaggio stanno – insisto – chiaramente e visibilmente crollando. Il capitalismo è fallito, ma il disastro irreparabile viene pagato essenzialmente dalla maggioranza della popolazione. Qui i progetti corporativi collusi con il governo hanno scaricato ai margini sociali intere comunità ora allo sbando, solamente per portare a termine la finanziarizzazione sociale ed economica degli «executives» dei sistemi bancari. Allo stesso tempo la classe imprenditoriale americana utilizza la rabbia ed il disgusto della maggioranza della popolazione per fomentare l’odio antigovernativo, anche se è consapevole dei rischi di un trionfo elettorale dell’estrema destra del partito reubblicano. La situazione è preoccupante. Perché il danno irreparabile provocato dal liberismo conservatore ha prodotto il risultato di un debito pubblico assorbito dalla Cina e dal Giappone. Ora metà del deficit del bilancio americano è dovuto al bilancio della Difesa. Nel contesto globale questo equivale al totale di tutti i bilanci di Difesa del resto del mondo. L’altra metà del deficit è causata dall’esplosione della spesa sanitaria dovuta ad un inefficiente sistema assolutamente privatizzato.
Ma ora c’è stata l’approvazione della riforma sanitaria di Obama…
La riforma sanitaria di Obama approvata dai democratici non è un cambiamento profondo del sistema sanitario americano, l’industria privata della sanità alla fine la vive come una sua vittoria politica. E sullo sfondo la realtà resta ben più drammatica, perché la disoccupazione e la ripresa economica non accennano a cambiare.
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/05/articolo/2691/
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05/05/2010 – ASTRONOMIA. GLI STUDIOSI: “CI ASPETTANO SCOPERTE STRAORDINARIE CHE CAMBIERANNO LE NOSTRE IDEE SULL’UNIVERSO”
C’è casa per il maxi-telescopio
Sorgerà su una montagna del Cile l’occhio più grande del mondo
MARIO DI MARTINO
OSSERVATORIO DI PINO TORINESE – INAF
Guardare il cielo con un occhio la cui pupilla ha un diametro di 42 metri, contro gli 8 millimetri di quella umana! Un evento rivoluzionario che, in meno di 10 anni, ci permetterà di avere una nuova e spettacolare visione dell’Universo. E’ il progetto European Extremely Large Telescope (E-ELT), avviato dall’Osservatorio Australe Europeo (ESO), l’organizzazione di 14 nazioni che rappresenta la punta di diamante della ricerca e che ha appena scelto il sito dove realizzarlo: si tratta di Cerro Armazones, una montagna di 3060 metri nel deserto cileno di Atacama.
E-ELT è in fase avanzata di progettazione e l’inizio delle osservazioni è previsto per il 2018. L’«occhio» avrà un diametro pari a quasi la metà della lunghezza di un campo da calcio e raccoglierà una quantità di luce 15 volte superiore a quella dei più grandi telescopi ottici oggi in funzione.
Lo specchio principale sarà composito – 42 metri di diametro – e avrà un campo visivo pari a circa 1/10 della grandezza apparente della Luna. Lo strumento si basa su uno schema ottico a 5 specchi che permetterà di ottenere immagini di qualità eccezionale, mentre sono previsti dei sofisticati specchi adattivi (controllati al computer) per correggere la sfocatura delle immagini degli oggetti celesti prodotta dalla turbolenza atmosferica.
Il telescopio verrà dotato di diversi apparati scientifici e durante le sessioni di osservazione sarà possibile passare da uno all’altro in pochi minuti. L’abilità di osservare su un ampio spettro di lunghezze d’onda – dall’ottico al medio infrarosso – consentirà di sfruttare al meglio potenzialità che sono portentose. E-ELT, infatti, affronterà i maggiori interrogativi scientifici del momento e non c’è dubbio – sostengono gli studiosi – che potrà effettuare scoperte straordinarie, tra cui quella di pianeti simili alla Terra e situati nelle «zone abitabili», dove potrebbe esistere qualche forma di vita. Ma fornirà anche contributi fondamentali alla cosmologia, misurando le proprietà delle prime stelle e delle galassie formatesi poco dopo il Big Bang, investigando la materia e l’energia oscura. Inoltre ci si prepara all’inaspettato: nuovi quesiti sorgeranno dalle osservazioni via via realizzate. L’avvento di questo strumento – in poche parole – rappresenterà per l’astronomia del XXI secolo un salto di qualità paragonabile a quello di 4 secoli fa, quando Galileo iniziò a studiare il cielo con il suo telescopio.
E-ELT, il cui costo previsto è di 1 miliardo di euro, surclasserà i maggiori telescopi e sarà molto più grande dei 2 altri strumenti giganti in fase di progettazione, il «Thirty-Meter Telescope» e il «Giant Magellan Telescope». La scelta del Cerro Armazones come sito è avvenuta dopo un’estesa analisi meteorologica: il luogo si trova a 20 km dall’Osservatorio di Cerro Paranal, dove sono ospitati i 4 telescopi da 8,20 metri di apertura che costituiscono il Very Large Telescope dell’ESO.
Per realizzare il gigantesco specchio principale – la cui area sarà di 1300 metri quadrati – si ricorrerà a un migliaio di «tasselli» esagonali. Questo «trucco» per realizzare superfici riflettenti di grandi dimensioni – noto anche come tecnica a «occhio di mosca» – in realtà non è nuovo: fu proposto negli Anni 30 da Guido Horn d’Arturo, direttore dell’Osservatorio di Bologna, e l’idea, via via migliorata, si ritrova oggi in almeno 3 moderni strumenti: il «Multi Mirror Telescope» in Arizona, i telescopi «Keck» da 10 metri di diametro delle Hawaii e l’«Hobby-Eberly Telescope» dell’Università di Austin in Texas.
Sarebbe significativo se ora il più grande telescopio del mondo – che verrà realizzato a partire da questa intuizione geniale e il cui progetto è sotto la responsabilità di un italiano, Roberto Gilmozzi – fosse battezzato con il nome «Guido Horn d’Arturo».
Chi è Mario DiMartino Astronomo
RUOLO: E’ RICERCATORE ALL’OSSERVATORIO DI PINO TORINESE
RICERCHE: CARATTERISTICHE DI ASTEROIDI E METEORITI
IL SITO : WWW.OATO.INAF.IT/ INDEX.PHP
http://www3.lastampa.it/scienza/sezioni/news/articolo/lstp/206602/
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Regalo? PECché e PECchì? 04.05.2010
di G. Scorza – Il Ministro Brunetta tesse le lodi della CEC PAC, ma l’attuale procedura di assegnazione suscita perplessità. Chi vuole rinchiudersi in un domicilio informatico?
Roma – Secondo il Ministro dell’Innovazione Renato Brunetta la sua iniziativa di “regalare” ad ogni cittadino un indirizzo di Posta Elettronica Certificata (n.d.r. in realtà il Ministro ci regalerà una CEC PAC ovvero una PEC utilizzabile solo per comunicare con la PA) è “la più grande rivoluzione culturale mai prodotta in questo Paese” nonché “la migliore riforma italiana dal dopoguerra ad oggi”.
Sarà anche vero, ma si tratta di una “rivoluzione” che minaccia di travolgere la libertà di domicilio (informatico) e le più elementari regole del mercato e della concorrenza.
Andiamo con ordine.
La nostra Costituzione – al pari delle carte costituzionali di ogni altro Paese democratico o aspirante tale – riconosce a tutti i cittadini – ed in realtà anche ai non cittadini purché legittimamente presenti sul territorio italiano – tra gli altri, il diritto a fissare liberamente il proprio domicilio. Nel 2010 una casella di posta elettronica, al pari del nostro PC o, piuttosto, del nostro account su Facebook, costituiscono naturali proiezioni informatiche del nostro domicilio con la conseguenza che spetta a ciascuno di noi, in assoluta autonomia, decidere se e quale indirizzo di posta elettronica utilizzare, chi ammettere al nostro profilo su Facebook o, piuttosto con chi condividere i dati sul nostro PC.
Tale libertà è costituzionalmente garantita ed ammette di essere limitata nelle sole ipotesi previste, appunto, dalla Carta Costituzionale.
L’elezione di domicilio – sia esso informatico o geografico – ovvero la manifestazione con la quale si porta a conoscenza di un soggetto terzo – privato o pubblica amministrazione – la volontà di ricevere tutte le comunicazioni relative ad un determinato affare o procedimento presso un certo indirizzo, costituisce una forma di esercizio di tale libertà.
È, dunque, fuor di dubbio che manifestare alla pubblica amministrazione la volontà di ricevere comunicazioni elettroniche – via PEC, CEC PAC o semplice mail – presso un determinato indirizzo rappresenta, appunto, esercizio dell’insopprimibile libertà di domicilio costituzionalmente garantita.
Proprio muovendo da tale presupposto, d’altro canto, il D.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68 attraverso il quale è stata introdotta nel nostro Ordinamento la Posta Elettronica Certificata prevedeva – e prevede tuttora – all’art. 4 che “Per i privati che intendono utilizzare il servizio di posta elettronica certificata, il solo indirizzo valido, ad ogni effetto giuridico, è quello espressamente dichiarato ai fini di ciascun procedimento con le pubbliche amministrazioni o di ogni singolo rapporto intrattenuto tra privati o tra questi e le pubbliche amministrazioni. Tale dichiarazione obbliga solo il dichiarante e può essere revocata nella stessa forma“.
Opportunamente, inoltre – con riferimento specifico alle comunicazioni tra PA e cittadini – l’art. 16 dello stesso D.p.r. 68/2005, chiarisce che “Le pubbliche amministrazioni garantiscono ai terzi la libera scelta del gestore di posta elettronica certificata“.
Non vi era e non vi è, infatti, alcuna ragione per limitare – ammesso anche che ciò possa ritenersi costituzionalmente legittimo – la libertà di domicilio nelle nuove dinamiche delle comunicazioni elettroniche che, anzi, semmai, abilitano ciascun cittadino ad un più ampio ed autonomo esercizio di tale libertà giacché cambiare indirizzo di posta elettronica e/o decidere di utilizzare diversi indirizzi a seconda della natura dell’affare o del procedimento è assai più facile di quanto non sia nelle dinamiche delle comunicazioni cartacee tradizionali.
Non la pensa così, tuttavia, il Ministro dell’innovazione che, infatti, nel lanciare la sua “rivoluzione” con il DPCM 6 maggio 2009 ha stabilito che i cittadini che richiedano ed ottengano un indirizzo CEC PAC di Stato eleggono con ciò, automaticamente e coattivamente, il proprio domicilio, in relazione a tutte le comunicazioni con la PA, presso l’indirizzo loro fornito dal concessionario pubblico.
Ma c’è di più.
Lo stesso DPCM, prevede, infatti che “L’affidatario del servizio di PEC ai cittadini…renda consultabili alle pubbliche amministrazioni, in via telematica, gli indirizzi di PEC di cui al presente decreto“.
Come è noto, nei mesi scorsi, all’esito di una procedura di gara la cui legittimità è, peraltro, attualmente al vaglio dei Giudici amministrativi, il Ministro Brunetta ha assegnato – come peraltro ampiamente ed agevolmente già previsto da molti – la concessione ad un raggruppamento di imprese costituito da Poste Italiane e Telecom Italia. Il nuovo concessionario CEC PAC di Stato, nei giorni scorsi, ha quindi iniziato a distribuire i propri indirizzi di posta elettronica ai cittadini italiani e ad inserirli nel registro attraverso il quale le pubbliche amministrazioni potranno individuare i “domicili informatici” degli italiani.
Sembra, tuttavia, che in tale registro possano essere iscritti unicamente gli indirizzi targati “Poste” ovvero quelli rilasciati dal concessionario di Stato e non anche tutti gli equivalenti indirizzi di posta elettronica certificata di cui i cittadini italiani già dispongono o disporranno e sui quali, in ipotesi, potrebbero desiderare ricevere anche le comunicazioni da parte della PA. Si tratta di una gravissima limitazione della libertà di domicilio ingiustificata ed ingiustificabile e, in ogni caso, di un’evidente violazione della disciplina relativa all’utilizzo della Posta Elettronica Certificata tuttora vigente che continua a prevedere che il cittadino possa scegliere di utilizzare, nei rapporti con la PA, un indirizzo di Posta Elettronica Certificata ottenuto da un qualsiasi fornitore – e non solo dal concessionario di Stato – e utilizzare indirizzi diversi per ogni procedimento amministrativo. È, dunque, urgente che il Ministro imponga al concessionario pubblico di accettare l’iscrizione nel registro di qualsiasi indirizzo di Posta Elettronica Certificata, restituendo così a tutti i cittadini il diritto di esercitare la propria libertà di elezione di domicilio (informatica).
In tal modo, peraltro, le centinaia di migliaia di professionisti italiani che negli ultimi mesi sono stati “obbligati” a dotarsi di un indirizzo di Posta Elettronica Certificata, potrebbero decidere che la Pubblica Amministrazione utilizzi il medesimo indirizzo per le proprie comunicazioni, sottraendosi così al serio rischio di ammalarsi di una pericolosa forma di “schizofrenia domiciliare informatica”, dovuta al fatto di dover gestire – volenti o nolenti – tre o più indirizzi di posta elettronica.
Ma perché a Palazzo Vidoni avrebbero commesso un errore – se di questo si è trattato – tanto grossolano e, comunque, capace di limitare così gravemente la libertà dei cittadini? Temo che la risposta vada ricercata nelle regole del mercato o meglio nella violazione di queste regole che rischia di perpetuarsi se tale situazione non verrà rapidamente risolta.
L’attuale impossibilità per gli utenti dei servizi di Posta Elettronica Certificata erogati da fornitori diversi rispetto al concessionario di Stato Poste italiane, di inserire i propri indirizzi nel registro gestito dallo stesso concessionario, infatti, si traduce in ostacolo alla concorrenza specie sul mercato delle comunicazioni tra PA e cittadini, a tutto vantaggio del concessionario di Stato al quale si è, per questa via, riconosciuto una sorta di nuovo monopolio, almeno di fatto, nella gestione delle comunicazioni elettroniche tra PA e cittadino.
Se si tiene conto che, secondo le dichiarazioni rese a Panorama dallo stesso Amministratore delegato di Poste Italiane, ogni anno dalla Pubblica Amministrazione italiana partono 90 milioni di raccomandate che garantiscono alle Poste 265 milioni di euro, non è difficile comprendere perché l’attuale concessionario della CEC PAC di Stato – già primo concessionario del telegrafo – non abbia comprensibilmente nessuna intenzione di spartire la torta delle raccomandate del XXI secolo con i suoi potenziali concorrenti ovvero con gli altri fornitori di PEC.
Si tratta, tuttavia – almeno sotto il profilo della gestione del registro degli indirizzi dei cittadini italiani e dell’apertura di tale registro anche agli indirizzi forniti dai concorrenti – di una posizione non condivisibile. Il registro va aperto subito perché non vi è alcuna ragione che possa giustificare un trattamento palesemente discriminatorio in danno dei concorrenti del concessionario di Stato e dei consumatori.
L’apertura del registro è un’esigenza giuridica, di mercato e, soprattutto, di politica dell’innovazione: non si può consegnare ancora una volta il Paese ad un monopolista solo per indennizzarlo di una potenziale perdita figlia del progresso e dei tempi che passano.
L’era dell’accesso, come l’ha battezzata Jeremy Rifkin, è bella anche per questo: i monopoli legali e/o di fatto durano meno ed i concorrenti, sul mercato, possono alternarsi alla leadership più velocemente di un tempo.
Se PEC – o CEC PAC – deve essere, che almeno sia garantito il rispetto delle libertà fondamentali dei cittadini e delle regole del mercato.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it
http://punto-informatico.it/2874553/PI/Commenti/regalo-pecche-pecchi.aspx
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Le ridicole multe ai signori del petrolio, 05.05.2010
Di Guido Romeo
Il volume del greggio che si sta riversando nelle acque del Golfo del Messico potrebbe essere di addirittura 60 mila barili al giorno, una cifra 10 volte superiore a quella finora riportata, secondo il New York Times che riporta le conclusioni di un briefing a porte chiuse tra un dirigente della petrolifera BP e il Congresso.
Le immagini di Google che ha aperto una pagina dedicata e del Joint information center, il centro di crisi approvato da BP e dalle autorità Usa stanno aiutando a seguire l’estensione del disastro che è sempre più grave. L’incidente ha ormai i contorni di un’enorme catastrofe ambientale che rischia di trasformare il Golfo del Messico in una zona morta poiché molti esperti pensano che la falla potrebbe non essere arginata prima di tre mesi, quando BP avrà approntato una nuova perforazione in grado di drenare il greggio.
Ieri il governatore del Texas, Rick Perry, ha difeso l’attività di perforazione nelle acque del Golfo definendolo un atto di Dio impossibile da prevenire, ma le indagini di ProPublica, la non-profit per il giornalismo investigativo recentemente incoronata da un Pulitzer, getta tutt’altra luce sulle cause della vicenda. Sul blog di Propublica Marian Wang mostra come le multe comminate alle industrie petrolifere siano in realtà troppo basse per costituire un vero deterrente e spingerle a investire in sistemi di sicurezza più efficaci.
Il Minerals Management Service, l’agenzia statunitense incaricata del settore, commina fino 35mila dollari di multa al giorno in caso di sversamenti e danni ambientali. L’importo più alto mai pagato all’MMS da una petrolifera è stato di 810mila dollari, versati nel 2001 da Chevron. Decisamente poco per indurre dei cambiamenti sostanziali se si pensa ai profitti delle aziende del settore, BP, ad esempio, ha registrato 5,6 miliardi di profitti nel solo primo trimestre 2010.
Un altro restroscena svelato dalla testata statunitense diretta da Paul Steiger è la serie di problemi di sicurezza registrati dalla BP nei mesi precedenti la tragedia attuale. La lettera di due senatori Usa mostra che l’azienda aveva già sfiorato il disastro ambientale quattro volte negli ultimi anni per i problemi alle sue pipelines in Alaska.
http://www.wired.it/news/archivio/2010-05/05/le-ridicole-multe-ai-signori-del-petrolio.aspx
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CAFTA: libero scambio tra Cina e Paesi ASEAN
Con l’inizio dell’anno è entrato in vigore l’accordo di libero scambio tra la Cina e l’ASEAN che riunisce Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam. La Cina punta all’approvvigionamento di materie prime a basso costo, i Paesi ASEAN trovano un dinamico retroterra industriale per il commercio dei loro prodotti.
A seguito dell’accordo, denominato CAFTA (China – ASEAN Free Trade Area) è stata costituita la più popolosa area di libero scambio con circa due miliardi di abitanti e un volume di scambi commerciali di oltre 2 miliardi di dollari USA.
Un’area di libero scambio postula tra i Paesi associati la riduzione fino alla eliminazione dei dazi doganali e di ogni altra misura restrittiva di politica commerciale nello scambio dei prodotti originari dell’area.
E’ la forma più semplice di integrazione economica, che privilegia i prodotti originari dei Paesi aderenti, ognuno dei quali rimane libero di continuare a conservare i rapporti commerciali con i Paesi terzi.
Il nuovo accordo ha già determinato una sensibile riduzione dei dazi doganali fra i Paesi aderenti e tende alla loro esenzione nel giro di pochi anni (si parla del 2015).
L’accelerazione alla definizione dell’accordo, causata sia dalla volontà di ridurre le politiche protezionistiche adottate a livello mondiale sia dalla recente crisi economica mondiale, ha spinto i Paesi di quell’area a crearsi un proprio spazio, per rendersi più indipendenti dall’economia statunitense e giapponese.
In quest’ottica, dovrebbe essere adottata la moneta unica, che, nelle aspettative cinesi, dovrebbe essere lo yuan. Non mancano però le difficoltà, se solo si tiene conto che la divisa cinese non è convertibile.
La nuova realtà economica soddisfa interessi convergenti tra le parti contraenti:
la Cina punta all’approvvigionamento di materie prime a basso costo per alimentare la sua smisurata produzione
i Paesi dell’ASEAN trovano un dinamico retroterra industriale per il commercio dei loro prodotti (anche se esiste un rischio di subordinazione al colosso cinese di tutta l’economia dell’area).
L’accordo pone infatti di fronte due differenti realtà politiche: da una parte la Cina, che si presenta con una posizione statuale stabile e definita, dall’altra parte i Paesi dell’ASEAN, caratterizzati da Stati di differenti dinamiche e orientamenti politici spesso non convergenti.
Il nuovo quadro commerciale, venuto a delinearsi, merita attenzione anche da parte dei Paesi industrializzati per le ricadute sui rispettivi mercati, di cui alcune si sono già verificate, come, ad esempio, le trattative, in fase avanzata, tra l’ASEAN, l’India, la Nuova Zelanda, l’Australia e con la Corea del Sud, mentre la Cina ha incrementato i suoi rapporti con altri Paesi del sud est asiatico e sud americani e africani, favoriti anche da una certa contiguità geografica.
Trattamento preferenziale e cumulo regionale dell’origine
L’UE è direttamente interessata per gli scambi commerciali sino ad ora sviluppati, per effetto del sistema delle preferenze generalizzate di cui i Paesi ASEAN sono destinatari, con l’esclusione, al momento, soltanto di Myanmar.
Il Reg. (CE) n. 2454/1993 dedica la Sezione 1 del Capitolo 2 alle regole che disciplinano il trattamento preferenziale nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, per effetto del quale i prodotti sono considerati originari del Paese beneficiario, sia quelli ivi interamente ottenuti, sia quelli ottenuti utilizzando materiali originari degli altri Paesi del gruppo, le cui lavorazioni o trasformazioni, conferiscono l’origine.
E’ la regola del cosiddetto cumulo regionale dell’origine, finora in essere soltanto nell’ambito delle preferenze generalizzate.
I prodotti ottenuti possono essere esportati verso la Comunità e fruire del trattamento tariffario favorevole, anche se nella loro fabbricazione sono stati utilizzati materiali non originari sottoposti a lavorazione o trasformazione nel Paese esportatore. Si pensi ai prodotti ottenuti, ad esempio, nelle Filippine, di cui acquistano l’origine nell’ambito del CAFTA, pur avendo impiegato materiali cinesi per effetto del CAFTA.
In vista di paventate irregolarità, l’UE aveva effettuato il tentativo presso i Paesi ASEAN di rinegoziare nuove regole in tema di cooperazione, senza raggiungere alcun risultato, ad eccezione di quanto avvenuto con Singapore.
L’accordo CAFTA detta regole sostanzialmente analoghe a quelle delle preferenze generalizzate con i Paesi in via di sviluppo, considerando originari di uno dei Paesi aderenti i prodotti ivi interamente ottenuti oppure quelli ottenuti con l’utilizzo di materiali originari degli altri Paesi dell’accordo, nel rispetto essenzialmente di due condizioni:
il valore aggiunto del prodotto finito rispetto al valore dei materiali impiegati
il salto di codice, ovverosia l’attribuzione di una voce doganale diversa da quella dei materiali impiegati.
L’accordo ha elaborato un elenco delle lavorazioni minime idonee a conferire l’origine ai prodotti ottenuti in un Paese dopo l’esecuzione delle lavorazioni dei materiali non originari.
La prova, che consente l’agevolazione daziaria, è costituita dalla presentazione nel Paese d’importazione del certificato FORM.E, rilasciato dal Paese di esportazione.
Rispetto al sistema delle preferenze generalizzate adottate dall’UE, il CAFTA prevede anche che i prodotti originari possano transitare verso altri Paesi per subire ulteriori lavorazioni, a condizione che esse siano insufficienti a conferire l’origine, come, ad esempio, le semplici operazioni di imballaggio.
Conclusioni
L’accordo è partito in sordina, senza clamori o proclami propagandistici, ma sarebbe opportuno non sottovalutare l’avvenimento.
L’UE, direttamente interessata, deve attivarsi per porre in essere misure adeguate a prevenire il rischio di frodi commerciali ad opera dei Paesi della zona e, particolarmente, della Cina. Infatti, è fin troppo facile prevedere che molti prodotti, esportati come prodotti originari dei Paesi ASEAN, possano beneficiare del trattamento daziario favorevole, essendo originari di Paesi in via di sviluppo, ottenuti secondo le regole adottate dal CAFTA, sopra esposte, con l’impiego di prodotti cinesi.
I mercati comunitari possono essere inondati da questi prodotti, che scortati dal FORM A rilasciato dagli stessi esportatori, fruiscono dei benefici daziari con la conseguenza che i produttori comunitari potrebbero subire gravi pregiudizi economici, specialmente in un periodo in cui l’economia stenta ancora a riprendersi, in presenza di pratiche irregolari.
Di certo, una intensificazione delle regole sulla mutua assistenza amministrativa e la previsione di più accurati controlli potrebbero costituire una remora ad attività commerciali truffaldine, poste in campo da operatori con pochi scrupoli.
Occorre in definitiva una sinergia tra amministrazioni pubbliche e soggetti privati, supportati da un efficace ed efficiente fondamento normativo.
Alessandro Lomaglio
Esperto di Unioncamere Lombardia
http://www.newsmercati.com/Article?ida=4848&idl=2826&idi=1&idu=49647
prelevato il 06.05.2010
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Energia come internet. Per un nuovo sviluppo sostenibile, 22.04.2010
Emanuela Scridel
È già da qualche tempo che si è iniziato a parlare dell’avvento della “Terza rivoluzione industriale”, con ciò intendendo l’inizio di una fase in grado di condurre all’autosufficienza energetica e in cui sia possibile il trasferimento dell’energia in maniera simile a quanto avviene per il trasferimento dell’informazione (il meccanismo di trasferimento e scambio energetico avverrebbe in tempo reale attraverso modalità simili a quelle dello scambio di informazioni in internet) il che naturalmente costituirebbe un elemento rivoluzionario, tanto in termini di sviluppo economico quanto in termini di democrazia.
“…La creatività, gli ideali e il coraggio dei giovani di tutto il mondo devono essere mobilitati per forgiare una partnership globale idonea a garantire uno sviluppo sostenibile e assicurare a ciascuno un futuro migliore …” Così recita l’articolo 21 della Dichiarazione di Rio del ’92 delle Nazioni Unite, sull’ambiente e lo sviluppo, riaffermando quanto contenuto in quella adottata a Stoccolma nel 1972. E’ proprio a partire dagli anni ’70 infatti, che la progressiva presa di coscienza delle problematiche ambientali ha dato origine a un ampio dibattito sul futuro del pianeta. Dibattito che ha coinvolto organizzazioni internazionali, movimenti di opinione e studiosi, approdando al concetto di sviluppo sostenibile: “Lo sviluppo che è in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri” (Gro Harlem Brundtland, 1987).
Oggi, quando si parla di “sviluppo economico” rimane implicito che ci si riferisca ad uno “sviluppo sostenibile”. La relazione del 1987, cui sopra fatto cenno, aveva indicato tre caratteristiche indispensabili perché lo sviluppo possa dirsi tale: garantire la qualità della vita umana, assicurare un accesso continuo alle risorse ambientali, evitare danni permanenti all’ambiente. Il fenomeno della globalizzazione e di una sempre maggiore interdipendenza ha reso assai più complessa la sua gestione e, a più di vent’anni, la questione ambientale, insieme a quella energetica, è diventata sempre più “pervasiva”.
Il drammatico aumento delle emissioni di anidride carbonica derivante dai combustibili fossili bruciati sta elevando la temperatura della Terra e minacciando un cambiamento senza precedenti nella chimica del pianeta e nel clima globale e sta conducendo ad un deterioramento progressivo dell’ecologia della Terra. È dello scorso dicembre a Copenhagen, la quindicesima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP 15) cui hanno partecipato 193 Paesi e il cui risultato è stato un accordo senza cifre sulle riduzioni della Co2, con il riconoscimento dei dati scientifici che stabiliscono a 2 gradi il massimo di aumento della temperatura entro la fine del secolo e uno stanziamento ingente per il trasferimento delle energie pulite ai paesi meno sviluppati entro il 2020. Un aspetto interessante dell’Accordo è che oggi non solo i governi dei paesi “sviluppati”, ma anche quelli dei Paesi in via di sviluppo, sono consapevoli della necessità di una crescita economica sostenibile sostenibile: l’Accordo è stato infatti proposto dagli Stati Uniti e dal Basic – Brasile, Sudafrica, Cina e India – e appoggiato dall’Unione Europea, il che denota un bilanciamento del potere contrattuale fra “paesi emersi” e “paesi emergenti”.
La Cina è oggi la “prima potenza carbonica”, avendo superato gli Stati Uniti per l’emissione di CO2: ma fino a che punto è realistico attendersi che Paesi come Cina o India “possano tassare” il proprio sviluppo? Uno sviluppo che spesso coinvolge solo determinate fasce della popolazione e solo determinate aree del Paese in questione. Le cifre fornite dalla Banca Mondiale parlano di 1,6 miliardi di persone che non hanno accesso all’elettricità, per lo più in Asia e Africa. E assenza di energia equivale ad una impossibilità di sviluppo economico, oltrechè all’impossibilità che siano garantiti i bisogni primari della popolazione. La questione fondamentale è dunque: come far crescere un’economia globale sostenibile nei decenni del tramonto di un regime energetico i cui crescenti costi esternalizzati e svantaggi stanno cominciando a compensare in negativo quello che una volta era il suo vasto potenziale positivo? Oltretutto, in un’era in cui il petrolio va esaurendosi?L’unico sistema che pare garantire la sostenibilità ambientale e che viene generalmente riconosciuto dalla comunità economico-scientifica come tale è quello delle energie rinnovabili.
In particolare è già da qualche tempo che si è iniziato a parlare dell’avvento della “Terza rivoluzione industriale”, con ciò intendendo l’inizio di una fase in grado di condurre all’autosufficienza energetica e in cui sia possibile il trasferimento dell’energia in maniera simile a quanto avviene per il trasferimento dell’informazione (il meccanismo di trasferimento e scambio energetico avverrebbe in tempo reale attraverso modalità simili a quelle dello scambio di informazioni in internet) il che naturalmente costituirebbe un elemento rivoluzionario, tanto in termini di sviluppo economico quanto in termini di democrazia.
La Terza Rivoluzione Industriale, che Rifkin da tempo sostiene, si basa su tre pilastri fondamentali che devono essere sviluppati ed integrati pienamente affinché il nuovo paradigma economico diventi operativo: energia rinnovabile, tecnologie di accumulazione, reti energetiche intelligenti. Forme rinnovabili di energia – solare, eolico, idroelettrico, geotermico, moto ondoso e biomasse – costituiscono il primo pilastro che, proprio in virtù degli obiettivi obbligatori che i governi si sono dati, stanno crescendo. Il secondo pilastro consiste nel massimizzare l’energia rinnovabile, e minimizzare i costi grazie a nuovi metodi di accumulazione che facilitino la conversione delle forniture intermittenti di queste fonti energetiche (il sole non splende sempre, per es.) in un servizio continuo e affidabile. L’idrogeno è stato individuato come il miglior vettore e accumulatore di energia per tutte le fonti rinnovabili. In tal modo l’elettricità generata quando le energie rinnovabili sono abbondanti può essere utilizzata per i momenti in cui vi è scarsità. L’UE ha messo in piedi, grazie a due piattaforme tecnologiche di ricerca, i primi due pilastri. Il terzo pilastro è attualmente in fase di sperimentazione da parte delle società energetiche europee: si tratta della ri-configurazione delle reti energetiche europee secondo gli schemi di internet per permettere alla imprese e all’utenza privata di produrre la propria energia e di scambiarla. L’ “interconnettività” consentirebbe di re-indirizzare i flussi energetici durante i picchi o i crolli.
Alcuni esempi di autosufficienza energetica già esistono. Quest’anno, ad esempio, la Pepsi Cola scollegherà dalla rete di distribuzione elettrica una sua fabbrica già esistente per alimentarla unicamente con l’energia solare ed i rifiuti raccolti in sito. Acciona in Spagna ha già un edificio del genere, alimentato con l’energia solare e totalmente scollegato dalla rete. L’architettura dell’edificio è stata progettata in relazione al sole. Per recuperare il capitale investito ci vorranno dieci anni, dopo di che l’azienda potrà usufruire di energia gratis per 50 anni grazie al sole. Bisogna solo occuparsi della manutenzione dell’edificio. Per fare un altro esempio, in Aragona c’è la più grande fabbrica del mondo della General Motors: produce 500.000 Opel all’anno: stanno installando il più grande impianto solare su tetto di tutto il mondo. La regione Aragona e GeneralMotors hanno creato una partnership con la francese Veolia: GM dà in locazione il tetto alla società elettrica, che fornisce l’impianto del valore di 78 milioni di dollari. A regime verranno prodotti dieci megawatt di energia, sufficiente per alimentare 4.700 abitazioni e l’intera fabbrica. Il capitale investito verrà recuperato in dieci anni, dopodiché l’energia sarà gratis finché l’edificio verrà tenuto in buono stato. Adesso Gm e le altre aziende si sono trasformate in centrali elettriche.
Economista – Esperto in Strategie Internazionali e U.E.
http://www.resetdoc.org/story/00000021163
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Sostenibilità e sviluppo
Anche l’Italia ripensa il Pil, 06.05.2010
Nella Relazione sull’economia presentata da Tremonti, per la prima volta l’ipotesi di inserire nei documenti ufficiali altri dati rispetto ai puri risultati economici, con un occhio all’ambiente e alla qualità della vita. A settembre la prossima tappa
di ROSARIA AMATO
Sostenibilità e sviluppo Anche l’Italia ripensa il Pil
ROMA – Non è certo l’equivalente della commissione Stiglitz, nominata dal presidente francese Nicolas Sarkozy per “ripensare” il Prodotto Interno Lordo come misura che rispecchi anche il progresso sociale e il benessere, oltre alla rigida performance economica. Ma anche l’Italia fa oggi un primo passo ufficiale verso il superamento della mera “religione delle cifre”. Nella Relazione Unificata sull’Economia e la Finanza Pubblica, presentata dal ministro Giulio Tremonti, si annuncia infatti per la prima volta che “una integrazione alle tradizionali statistiche basata su queste muove misure che vanno oltre il Pil verrà proposta in futuro nei documenti ufficiali di programmazione”. In particolare, precisa un portavoce del ministro, indicazioni più precise su una riformulazione del Pil verranno date a settembre nell’ambito del DFP (Decisione di Finanza Pubblica).
C’era da aspettarselo, non solo perché i ‘cugini d’Oltralpe’ sono molto più avanti su questo terreno, ma anche perché lo stesso ministro Tremonti a metà gennaio in un intervento a un convegno dell’Aspen aveva sostenuto che, così com’è, “Il Pil non cattura in pieno la realtà italiana e quindi va ripensato”. Non solo: “Se fossero calcolati l’ambiente, la cultura, la bellezza, la storia e il clima, l’Italia si troverebbe in una imbarazzante prima posizione”. Detto, fatto: le prossime mosse in questa direzione sono indicate nella Ruef, in quattro paginette in corsivo dal titolo “Indicatori alternativi al Pil”.
I tecnici del ministero passano in rassegna le tre ipotesi alternative, e cioè: migliorare il Pil correggendo alcuni aspetti della contabilità nazionale; sostituire il Pil creando nuovi indicatori o indici con assunzioni innovative; integrare il Pil affiancando alla contabilità nazionale nuove informazioni, siano esse sociali o ambientali. L’approccio è comunque cauto: “Il Pil – si ricorda – presenta solidi punti di foza: è il calcolo più immediato e risponde a numerosissime applicazioni dal punto di vista macroeconomico, sia per politiche monetarie che fiscali”. E però è anche vero che “il Pil e i sistemi standard di contabilità nazionale non prevedono interventi per una serie di aspetti che possono essere raggruppati in tre macroaree: benessere economico, condizioni di vita e felicità”.
E quindi il Tesoro annuncia che, fra i tanti indicatori alternativi proposti, come integrazione del Pil, se ne prenderanno in considerazione quattro: lo HDI, l’ESI, l’ANS e l’EF. Il primo, lo Human Development Index, è basato su un’idea dell’economista indiano e Premio Nobel Amartya Sen, ed è stato adottato dal programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Unep), con l’obiettivo di “monitorare lo sviluppo sociale ed economico di una nazione”. Include, per esempio, la misurazione dell’aspettativa di vita alla nascita e il grado d’istruzione dei cittadini.
L’ESI (Environmental Sustainability Index) è stato messo a punto da alcune università statunitensi, tra le quali Yale e la Columbia. E’ un indice composito formato da 21 indicatori “raggruppabili in cinque macro aree, e cioè i sistemi ambientali, la riduzione delle pressioni sull’ambiente, la riduzione della vulnerabilità umana, la capacità sociale e istituzionale, la governarnance globale”.
L’ANS (Adjusted Net Savings) “è un indicatore di sostenibilità sviluppato e adottato dalla Banca Mondiale sulla base dei concetti di contabilità nazionale verde”, mentre infine l’EF (Ecological Footprint), “è stata definita nel 1994 per valutare la relazione tra consumo, crescita e pressione sulle risorse naturali”. Dal 2000, ricorda la RUEF, l’EF è uno degli indici utilizzati dal WWF per il Living Planet Report, ed è promosso in alcuni documenti della Commissione Europea.
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Maroni boccia il ddl Alfano; è “peggio di un indulto”, 05.05.2010
Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, boccia il ddl Alfano che prevede la possibilità di scontare l’ultima parte della pena ai domiciliari e la messa in prova osservando che il provvedimento, uno dei pilastri del piano-carceri del Guardasigilli attualmente all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio, sarebbe peggio dell’indulto. Esultano Idv e Pd che definiscono il testo “un grande bluff” mentre la radicale Rita Bernardini, da 21 giorni in sciopero della fame contro il sovraffollamento degli istituti penitenziari, definisce le parole del titolare del Viminale “sparate demagogiche”.
“A questo punto – commenta la capogruppo del Pd in commissione Giustizia alla Camera, Donatella Ferranti – non ci sono più scuse, le dichiarazioni del ministro Maroni dimostrano che il governo è spaccato sulle politiche della giustizia e della sicurezza e che il provvedimento sulla messa alla prova e sul carcere domiciliare è solo un grande bluff. Noi del Pd lo abbiamo detto dal principio che quel provvedimento contiene molti elementi di criticità e che così com’è non può andar bene. Adesso però servono interventi concreti per intervenire a fondo sullo stato di vera e propria emergenza umanitaria determinata dal sovraffollamento degli istituti di pena. Politicamente c’è da rilevare che ormai il ministro Alfano è isolato e che i suoi provvedimenti hanno sempre più il sapore dell’emendamento del singolo deputato piuttosto che del provvedimento governativo”.
Le fa eco il presidente dei deputati Idv, Massimo Donadi: “Ci fa piacere che anche Maroni se ne sia accorto. Il Ddl svuota carceri è una bufala perché è un indulto mascherato che svela il lassismo del governo sul tema della sicurezza e non risolve il problema del sovraffollamento nei penitenziari. Alle parole di Maroni ora speriamo che seguano fatti conseguenti”.
Attacca invece la radicale eletta nel Pd Bernardini: “Alle sparate di Maroni ci siamo abituati, ma il problema serio è che lui va a rete unificate su tutti i tg senza che nessuno possa replicargli. Sparate puramente demagogiche considerato che, comunque, quelle persone, che lui vuole inchiodare in carceri illegali per sovraffollamento e mancanza di personale e dove viene tolta ogni dignità, tra uno, due, cinque o dodici mesi uscirebbero avendo finito di scontare la loro pena. Inoltre, la sua “sicurezza” fa acqua da tutte le parti proprio perché l’unica risposta che viene data è il carcere e non si fa alcun uso dell’esecuzione penale esterna che in altri paesi europei viene usata venti volte più che in Italia. Basti pensare al Regno Unito dove sono ben 243.000 le persone sottoposte a pene non detentive o alla Francia dove sono 160.000. In Italia, siamo ad una media di 21.000 scesa ultimamente a circa 11.000 persone vista la paralisi dei Tribunali di sorveglianza”.
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Addaura, nuova verità sull’attentato a Falcone, 07.05.2010
Così lo Stato si divise. Nel commando non c’erano solo i boss di Cosa nostra ma anche presenze estranee: uomini dei servizi segreti
di ATTILIO BOLZONI
Addaura, nuova verità sull’attentato a Falcone La casa al mare di Falcone, teatro del fallito attentato del 1989
È tutta da riscrivere la storia delle stragi siciliane. Le inchieste sono partite con quasi vent’anni di ritardo per disattenzioni investigative e deviazioni, un depistaggio che ha voluto Totò Riina e i suoi Corleonesi come unici protagonisti del terrore. Tutto era riconoscibile già allora: bastava indagare su quelle “presenze estranee” a Cosa Nostra. Ma nessuno l’ha fatto.
Vent’anni dopo è stata capovolta tutta la dinamica del fallito attentato dell’Addaura. Ci sono testimonianze che rivelano un’altra verità e che irrobustiscono sempre di più l’ipotesi di un “mandante di Stato”.
La scena del crimine è da spostare di ventiquattro ore: la borsa con i candelotti di dinamite è stata sistemata sugli scogli non il 21 giugno del 1989 ma la mattina prima, il 20 giugno. E, da quello che sta emergendo dalle investigazioni, sembra che fossero due i ‘gruppì presenti quel giorno davanti alla villa di Falcone. Uno era a terra, formato da mafiosi della famiglia dell’Acquasanta e da uomini dei servizi segreti. E l’altro era in mare, su un canotto giallo o color arancio con a bordo due sub. I due sommozzatori non erano di “appoggio” al primo gruppo: erano lì per evitare che la dinamite esplodesse. Non c’è certezza sull’identità dei due sommozzatori ma un ragionevole sospetto sì: uno sarebbe stato Antonino Agostino, l’altro Emanuele Piazza.
Il primo, Agostino, ufficialmente era un agente del commissariato San Lorenzo ma in realtà un cacciatore di latitanti. Venne ammazzato insieme alla moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989, nemmeno due mesi dopo l’Addaura. Mai scoperti i suoi assassini. Anche Totò Riina ordinò una “indagine” interna a Cosa Nostra per capire chi avesse ucciso il poliziotto: “Anche lui non riuscì a sapere nulla”, ha riferito il pentito Giovanbattista Ferrante. “È stato ucciso perché voleva rivelare i legami mafiosi con alcuni della questura di Palermo. Anche sua moglie sapeva: per questo hanno ucciso anche lei”, ha raccontato invece il collaboratore di giustizia Oreste Pagano. Per l’uccisione di Antonino Agostino, la squadra mobile di Palermo seguì per mesi un’improbabile “pista passionale”.
Qualche mese fa i magistrati di Palermo hanno ascoltato un testimone – un funzionario di polizia – che ha raccontato di avere ricevuto una confidenza proprio dal giudice Falcone, andato a trovarlo una sera nel suo commissariato: “Questo omicidio l’hanno fatto contro di me e contro di lei”. Parlava dell’agente Antonino Agostino.
Il secondo sommozzatore, Piazza, era un ex agente di polizia che aveva anche lui cominciato a collaborare con i servizi segreti (il Sisde) nella ricerca dei latitanti. Emanuele Piazza è stato ucciso il 15 marzo del 1990. Una “talpa” avvisò i mafiosi che l’ex agente di polizia stava lavorando per gli apparati di sicurezza. I boss lo attirarono in una trappola e lo strangolarono. Anche per il suo omicidio, la squadra mobile di Palermo indirizzò inizialmente le ricerche su “una fuga della vittima in Tunisia, in compagnia di una donna”.
Un depistaggio nelle indagini sul primo omicidio, un altro depistaggio nelle indagini sul secondo omicidio. Sul fallito attentato dell’Addaura sta affiorando un contesto sempre più spaventoso: un pezzo di Stato voleva Falcone morto e un altro pezzo di Stato lo voleva vivo. Ma chi ha deviato le indagini sugli omicidi di Antonino Agostino ed Emanuele Piazza? Chi ha voluto indirizzare i sospetti verso la “pista passionale” per spiegare le uccisioni dei due poliziotti?
Un giallo nel giallo è nascosto fra altre pieghe del fascicolo sull’Addaura: si stanno cercando da mesi gli identikit dei due sommozzatori, ricostruiti attraverso le indicazioni di alcuni bagnanti che il 20 giugno del 1989 erano nella zona di mare dove volevano uccidere Giovanni Falcone. Quotidiani e agenzie di stampa avevano, al tempo, dato ampio risalto alla notizia di quegli identikit: oggi c’è il sospetto che non siano mai stati consegnati alla magistratura. Entrare nelle indagini dell’Addaura è come sprofondare nelle sabbie mobili.
Se l’affaire dell’Addaura è il punto di partenza di tutte le indagini sulle altre stragi siciliane, è un affaire con troppi morti. E molti interrogativi. Ad esempio, perché le indagini sull’attentato al giudice sono partite con vent’anni di ritardo? E chi ha ucciso tutti i testimoni dell’Addaura?
Morto è Francesco Paolo Gaeta, un piccolo “malacarne” della borgata dell’Acquasanta, che il giorno del fallito attentato aveva casualmente assistito alle manovre militari intorno alla villa del giudice. Qualche tempo dopo, Gaeta fu ucciso a colpi di pistola: il caso fu archiviato come regolamento di conti fra spacciatori.
Morto è il mafioso Luigi Ilardo. Era un informatore del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, e all’ufficiale aveva detto: “Noi sapevamo che a Palermo c’era un agente che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino”. Il mafioso Luigi Ilardo è stato assassinato qualche giorno prima di mettere a verbale le sue confessioni.
Morto Ilardo. Morto Falcone. Morto l’agente Nino Agostino. Morto il collaboratore del Sisde Emanuele Piazza.
È caccia aperta all’uomo con la faccia da mostro. Qualcuno dice che si è vicini a un riconoscimento, qualcun altro giura che quell’uomo non si troverà mai perché anche lui è morto da anni. Così come è caccia aperta ad altri “agenti dei servizi” legati ai boss di Corleone. Uno, in particolare, chiamato di volta in volta “Carlo” o “signor Franco”: un uomo degli apparati che per una ventina di anni è stato al fianco dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Trattava con lui e con Totò Riina nell’estate del 1992.
Sono due i livelli del coinvolgimento degli apparati di sicurezza all’ombra delle stragi: ci sono i servizi sospettati di aver trattato con la mafia e ci sono i servizi sospettati di avere avuto un ruolo attivo negli attentati. Se non si scopriranno queste trame, non sapremo mai chi davvero ha ucciso Falcone e Borsellino e perché. C’è puzza di spie in ogni massacro siciliano. Misteri di mafia che si confondono con misteri di Stato.
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/05/07/news/inchiesta_italiana_7_maggio-3876272/
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Quei dipinti che non vedremo mai, 30.04.2010
Le immagini rubate delle tombe policrome della Tenuta Mariani scoperte di recente vicino Sassari. Un ritrovamento eccezionale che la Sovrintendenza ha deciso di lasciare sotto terra
http://www.flickr.com/photos/34146259@N04/sets/72157623962025042/show/
Accontentiamoci di vederli in fotografia. Perché i dipinti che adornano le pareti delle tombe neolitiche della valle di Bonorva (Sassari) in Sardegna resteranno sepolti sotto uno spesso strato di terra fino a data da destinarsi. Così ha deciso la Sovrintendenza per i Beni Archeologici di Nuoro e Sassari dopo avere finanziato una campagna di scavi durata più di due anni e guidata dall’archeologo Francesco Sartor. Non è una prassi nuova per l’isola. Stesso destino hanno avuto nuraghi, domus de janas, pozzi sacri sparsi un po’ in tutto il territorio e altri ritrovamenti nella stessa zona. Un’area di 700 ettari denominata Tenuta Mariani che costeggia il Rio Santa Lucia nelle vicinanze del famoso sito archeologico di Sant’Andrea Priu.
E’ questo, secondo la Sovrintendenza, il sistema migliore e forse l’unico praticabile per tutelare rinvenimenti archeologici eccezionali come la “Tomba n. 7 di Sa Pala Larga. Che appare completamente dipinta, con sette spirali rosso e ocra che si rincorrono lungo le pareti per quasi un metro e il soffitto decorato in blu e bianco e con un motivo a scacchiera. A rivelarlo fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori è stato il gestore di un agriturismo della zona, Antonello Porcu, che ha fotografato l’interno della tomba prima che l’accesso fosse richiuso con un pietrone e coperto di terra. Le immagini che qui vi proponiamo sono state pubblicate su http://www.stonepages.com/, il portale dedicato ai siti megaliti curato da Paola Arosio e Diego Meozzi. I due giornalisti hanno anche lanciato un appello per convincere la Sovrintendenza a intervenire attivamente nella conservazione del sito – minacciato, secondo alcune segnalazioni, da infiltrazioni salmastre – e a renderlo fruibile al pubblico (sul sito internet l’indirizzo a cui inviare le proteste).
di Giovanna Dall’Ongaro
http://www.galileonet.it/multimedia/12672/quei-dipinti-che-non-vedremo-mai
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La “mano morta” del capitalismo all’attacco di Euro, dollaro e governi “amici”
Bankor*, 08.05.2010
C’è uno spettro che si aggira per l’Europa: non è il comunismo di marxiana memoria. E’ la “mano morta” del capitalismo di Adam Smith! Colpisce indistintamente governi “amici” conservatori, ma anche quelli progressisti; non risparmia il “popolo bue” delle Borse internazionali e, da oltre due anni, fa strage di banche, industrie, mercati finanziari e immobiliari…
Ovunque si posi, cresce la disoccupazione, si acuisce lo stato di miseria di milioni di persone, si spegne il futuro delle giovani generazioni, s’ingenera la violenza nelle piazze. Finora, la “mano morta” era stata la fedele alleata dei sistemi capitalistici più o meno maturi, aveva attratto a sé anche quegli stati che come modello in origine avevano scelto il comunismo (Cina e Russia) o un mix tra interventismo statale e rampantismo mercantile (come in India, Brasile e Messico).
Di fronte alla più grave crisi finanziaria dal 1929, tra il 2008 e il 2009 i maggiori governi capitalistici, a partire dagli Stati Uniti, hanno fatto ricorso al più massiccio indebitamento statale pur di arrestare la frana dovuta al crollo dei mercati finanziari, gonfiati con enormi soufflé dalla speculazione internazionale: le più antiche e principali banche d’affari mondiali, fondi d’investimento potentissimi che detengono i pacchetti azionari delle industrie di mezzo mondo, le temutissime agenzie di “rating”. E proprio quest’ultime sono sempre più sotto l’occhio del ciclone delle critiche degli esperti finanziari e degli economisti, oltre che di alcuni ministri economici.
Da tempo, le agenzie di rating (un intreccio di consulenti, economisti, banchieri, operatori finanziari che a loro volta speculano in Borsa) analizzano l’andamento dei conti delle grandi società quotate in Borsa e i bilanci meno sofisticati degli stati sovrani.
Hanno libero accesso ai conti e anche estrema discrezione di giudizio, in grado di far tremare i mercati e la stabilità delle nazioni, di volta in volta ritenute “a rischio”.
Eppure,dal secondo Dopoguerra in poi, gli stati capitalistici si sono dati come strumenti di controllo e analisi dei loro conti istituzioni “ufficiali”, pubbliche come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’OCSE e, più di recente, la BCE da quando l’Euro è diventata la moneta comune per 16 paesi dell’Unione Europea.
Forse perché le “intelligenze” di questi organismi provengono spesso dalle stesse istituzioni pubbliche o perché la “mano morta” del sistema capitalistico non ammette concorrenti ispettive, l’autorevolezza delle istituzioni internazionali non hanno mai determinato l’andamento dei mercati. Diversa, invece, la credibilità delle Agenzie di rating, dirette emanazioni della “mano morta”, dove il conflitto di interessi regna sovrano.
Ora, assistiamo ai danni sui mercati fatti proprio dai giudizi, spesso interessati, forniti da queste società (spesso però conosciuti in anticipo dai grandi fondi speculativi). Miliardi di dollari si spostano così nelle “tasche giuste” del mondo capitalistico, costringendo i governi dei paesi “bocciati” ad approntare manovre draconiane, piani di rientro dai deficit con “lacrime e sangue” per lavoratori, pensionati, giovani, donne e piccole aziende.
La Grecia è, in questo senso, il laboratorio che farà scuola nel prossimo futuro ravvicinato per il resto di altri paesi europei: Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia.
Ma anche Londra non se la ride! La capitale europea dei mercati finanziari, seconda solo a Wall Street, è l’altro caso da laboratorio di questa deriva dovuta alla “mano morta”.
Se la Grecia ha fatto il passo più lungo della gamba, truccando i conti pubblici (responsabilità del governo di destra dei conservatori di Karamanlis), pur di entrare e restare nell’Euro ( colpevoli i grandi “lord protettori” dell’UE, Francia e Germania!), pagando oggi un pegno esorbitante; la Gran Bretagna, d’altra parte, si trova ad affrontare in una decadenza cronica del sistema industriale, la crisi del suo sistema finanziario e immobiliare, senza per altro avere una prospettiva politica concorrenziale.
Le elezioni appena concluse hanno ratificato uno stato d’impasse che deve far riflettere: laburisti (al governo da oltre 17 anni), conservatori e liberaldemocratici non hanno “ricette” economiche e sociali realmente differenti tra loro: non hanno saputo offrire sul “mercato elettorale” prodotti alternativi, ma solo programmi fotocopia con quale lieve coloritura neo-liberista, pressati dalla terrore per l’elevato debito pubblico, il deficit di bilancio in continua espansione, la disoccupazione crescente, l’esosità del welfare state.
Ma cos’è questa “mano morta” che sembra decidere dei destini dei nostri governi e delle disgrazie delle masse popolari? Sono gli ambienti più ristretti del capitalismo internazionale, che orami detiene in mano i grandi mezzi di comunicazione, le TLC, e che ha interessi spalmati sui fondi d’investimento, le agenzie di rating e le banche d’affari. Sta qui il loro potere devastante! Dai loro consigli di amministrazione e dai loro panel di consulenti spesso escono i “civil servant” che poi operano ai vertici delle istituzioni di controllo e garanzia su banche, borse, ministeri economici. Questo intreccio perverso segna l’acme dell’era capitalistica matura e ne segna la sua decadenza.
Questa “mano morta” con i massmedia punta su questo o quel leader politico, su questa o quella coalizione di partito, pur di bloccare l’evoluzione riformista e progressista nelle competizioni elettorali. Murdoch ha fatto la fortuna del laburista Blair e in queste elezioni britanniche ha cercato di alzare lo share elettorale del conservatore Cameron e dello stesso liberaldemocratico Clegg. Ma ha anche osteggiato la democratica Hillary Clinton contro Obama, favorendo alla fine i repubblicani di McCain, per poi, una volta eletto Obama, favorendone le posizioni più realistiche (finanziamento pubblico delle banche in crisi) e osteggiandone quelle riformatrici, come sulla legge sulla sanità pubblica.
Questa “mano morta”, come la descrisse il padre del liberismo capitalistico Smith, agisce ora come il mitico Re Crono che divorava i suoi figli appena generati dalla dea sorella Rea: capitalismo e mercato iperliberista si sono finora sposati incestuosamente con i governi conservatori e quelli tiepidamente riformisti. Ma la voracità del sistema economico-finanziario sta pian piano divorando i governi figli e figliastri.
In questa coazione all’autodistruzione, al momento, a rimetterci sono gli stati e le masse popolari; ma anche i concetti stessi di democrazia e di sovranità. Le libertà fondamentali sono in pericolo! E non si vede all’orizzonte un progetto politico, forze sociali e movimenti politici in grado di differenziarsi dalla “palude ideale” nella quale affondano partiti di destra e di sinistra in Europa.
E l’Italia deve temere il peso di questa “mano morta” nei prossimi mesi, perché i suoi conti pubblici non sono a posto e nessuna ricetta per lo sviluppo è stata approntata dal governo Berlusconi/Tremonti dal 2008 ad oggi. Stiamo attraversando una deriva democratica, ma anche una crisi che da economico-finanziaria si trasformerà in sociale. Berlusconi non è più amato dal club internazionale dell’alta finanza e dei padroni dei massmedia. Il suo esempio autoctono, ruspante, tipicamente italico, ha messo radici nell’Est Europa, ma alla lunga non serve a rinnovare i sistemi messi in atto dalla “mano morta” del capitalismo.
Ecco allora che poco importa a Berlusconi l’andamento dei conti pubblici, se non per fornire posizioni ufficiali da spendere davanti ai teleschermi. Ecco perché sarebbe fondamentale che le forze di opposizione chiedessero una verifica “terza”, imparziale, da parte di una “commissione speciale” formata da tecnici dell’OCSE, del FMI, della BCE e dell’Eurostat, per esaminare a fondo l’andamento dei conti pubblici italiani, per non fare la fine della Grecia.
Chi si ricorda più del “tesoretto” del governo Prodi/Padoa Schioppa? Se allora i conti erano in ordine e c’erano miliardi di euro da poter spendere a favore delle classi sociali meno agiate, lavoratori e pensionati, che fine hanno fatto dunque quei soldi? E perché nel giro di neppure due anni i “lanzichenecchi” del Nord Italia, dalla Lega al PDL, hanno bruciato quel vantaggio, pur in presenza di una crisi che, comunque, ha colpito tutti i paesi concorrenti del G8 e del G20?
Avevamo preannunciato, il 13 aprile scorso, nell’editoriale “Economia. La stangata fiscale segreta di Berlusconi/Tremonti” che ormai si stava preparando una manovra di “aggiustamento” straordinaria da “lacrime e sangue”. Le parche smentite governative si stanno ora disvelando per ammettere che comunque una manovra andrà fatta, prima di quella da 25 miliardi di euro prevista per il 2011 e il 2012. Questa misura fiscale si dovrebbe basare, lo ricordiamo, su tre linee: Riscadenzamento dei Bond del Tesoro (i vari titoli di stato), allungandone le scadenze del doppio rispetto alle attuali; Tassazione sugli immobili sfitti e di proprietà di banche e società finanziarie (esclusa una reintroduzione dell’ICI); Aumento del prelievo fiscale sulle rendite finanziarie speculative, compreso il regime di doppia tassazione per le banche, più alto per quelle “d’affari”.
Il tutto con la bonaria assicurazione di impegnarsi da subito a riformare il sistema fiscale, riducendo a tre le aliquote e passando dal prelievo sulle “persone fisiche” a quello sui consumi e le “cose”: il che avverrà, forse, a fine legislatura, per accattivarsi i voti dei delusi e del grosso “partito degli astensionisti”.
Una stangata, insomma, quella ipotizzata da Berlusconi-Tremonti. Ma entrambi sanno che il nostro paese non potrà reggere al ciclone delle turbolenze finanziarie speculative, né risollevarsi dalla profonda crisi economica, dal crollo produttivo e dal declino sociale, che sta attraversando anche nel 2010 un altro “annus horribilis”, un’ altra Via Crucis per il regime mediatico autocratico.
Sempre che “la speculazione nemica” non faccia saltare anche i tempi e i modi studiati dal duo di Arcore Berlusconi/Tremonti, che, potrebbe anche prevedere un “prelievo forzoso” sui depositi bancari e sui titoli di stato, sulla falsariga di quanto fece il governo Amato nel 1992 di fronte alla disastrosa crisi della lira e del bilancio pubblico, eroso da Tangentopoli e dalle “finanze allegre” dei governi craxiani.
*Bankor era lo pseudonimo usato dal governatore di Bankitalia Guido Carli, autore negli anni Settanta su L’Espresso, diretto da Scalfari, di articoli critici sulla finanza pubblica e il sistema economico italiano. Viene ripescato per tutelare l’identità di alcuni operatori finanziari
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14839
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