Beni culturali? Me ne frego! 16.03.2011
Autore: Erbani, Francesco
Il rapporto del berlusconismo con il patrimonio culturale: puntuale e amaro bilancio di un’indifferenza devastante. Su MicroMega, 2, 2011 (m.p.g.)
Quanto contino i beni culturali nell’universo del berlusconismo è racchiuso nello scatto di nervi con il quale il ministro Sando Bondi ai primi di dicembre 2010 si è rivolto agli oltre settecento firmatari di una petizione a Giorgio Napolitano promossa d molte associazioni (da Italia Nostra a quella che raccoglie funzionari e tecnici del ministero, dalla Bianchi Bandinelli all’Associazione nazionale archeologi, dall’Associazione Silvia Dell’Orso alla rete dei comitati di Alberto Asor Rosa). Erano storici dell’arte, italiani e stranieri, direttori di musei, archeologi, archivisti, architetti, soprintendenti. Chiedevano le dimissioni del ministro, denunciando l’abbandono di Pompei, dove si era appena registrato l’ennesimo crollo, quello della Schola Armaturarum, e ricordando la tragedia dell’Aquila che sempre di più a Pompei andava e va assimilandosi. Per Bondi quell’appello «è l’espressione di un mondo che nulla ha a che fare con la vera cultura».
E, fin qui, lo sfogo del ministro, che è anche coordinatore del Pdl, fedelissimo e incrollabile interprete del berlusconismo, traballante sulla sua poltrona nonostante la Camera abbia respinto la mozione di sfiducia presentata contro di lui, si può incasellare nel generico disprezzo verso le critiche e le iniziative connesse all’esercizio dell’intelletto. Poi Bondi rivendica per sé il vero merito di un ministro dei Beni e delle attività culturali, un merito che i settecento denigratori ai suoi occhi disconoscono: aver evitato le “lungaggini”, le chiama così, dei ritrovamenti archeologici che impedivano la costruzione delle metropolitane di Roma e Napoli, e di aver spedito un commissario incaricato di snellire le procedure. Parlava come se lui fosse il ministro dello Sviluppo economico o delle Infrastrutture e non quello, appunto, dei Beni e delle attività culturali. Nell’orizzonte politico del berlusconismo i beni culturali e il paesaggio non hanno alcun rilievo.
Sono vissuti come una condizione limitativa, dalla quale si riscattano se non sono troppo ingombranti e se assumono un prezzo, cioè se possono diventare merce, oggetto da mettere a reddito o sulla quale fare affari. Oppure da vendere, come tentò di fare Giulio Tremonti nel 2002 inventando la Patrimonio Spa, un fondo nel quale collocare il patrimonio dello Stato, compreso quello storico‐artistico, in vista di una sua alienazione (il progetto poi si accartocciò miseramente su se stesso). Presi in sé, in questa logica che deforma e caricaturizza anche il liberismo più estremo, i beni cultuali appartengono a quella che appare come una nebulosa concettuale di ardita definizione. Seguono la stessa sorte che tocca ai beni comuni. Sono soggetti a una sublimazione retorica, estetizzante, sono opere‐icona, elemento di decorazione d’ambiente per un summit internazionale e per una fiera campionaria, componente d’arredo per un video‐messaggio, ma non avendo definita collocazione proprietaria, sono derubricati a terra di nessuno.
Giacimenti e miniere
L’antecedente di questa concezione mercantile si può rintracciare, come altri pezzi del mosaico berlusconiano, a metà degli anni Ottanta, quando il ministro del Lavoro del governo di Bettino Craxi, Gianni De Michelis, coniò la formula dei “giacimenti culturali”. Perché lui e non il suo collega dei Beni culturali? Perché i beni culturali non erano l’obiettivo di un’iniziativa politica, ma lo strumento per politiche d’altro genere (un po’ di lavori affidati a imprese informatiche per fumosi progetti di catalogazione). Di un bene culturale non interessavano conservazione e fruizione, ma la possibile – parola del ministro – “convenienza economica”. Anche quella vicenda si chiuse senza sostanziosi effetti. Ma da allora l’espressione tratta dal glossario industriale, “giacimento”, e i concetti che con sé trascinava hanno navigato sopra e sotto il pelo delle maree, bordeggiato a destra e a sinistra, e più volte sono riemersi. Un paio d’anni fa, a fine 2008, sono stati diversamente e più esplicitamente formulati: i musei italiani, i siti archeologici, le collezioni di monete, le quadrerie, i paesaggi e poi le biblioteche, gli archivi e quel diffuso reticolo di palazzi e di centri storici, di monumenti insigni, ma anche di piazze, di ricercati allineamenti stradali, di proporzioni architettoniche, di portali, di ringhiere in ferro battuto… ‐ tutta questa roba messa insieme, intrecciata da cordoni storicamente e culturalmente leggibili, scenario fisico e non solo in cui si sono formate identità collettive, sarebbe «una miniera di petrolio a costo zero».
Che attende di esser messa a fruttare. Parola di Mario Resca, cavaliere del lavoro, manager poliedrico –dal Casinò di Campione a McDonald’s Italia ‐ consigliere d’amministrazione Mondadori, Eni, Finbieticola e di altre aziende, amico personale di Silvio Berlusconi, appena nominato direttore generale per la Valorizzazione del patrimonio a 164 mila euro l’anno, più un cospicuo staff e un palazzetto in affitto a Roma, in via dell’Umiltà, al costo di 400 mila euro l’anno (prima ospitava la Direzione per i Beni librari).
Il pensiero di Mario Resca
La designazione di Resca e le mansioni affidategli (molto inferiori rispetto a quelle che gli si voleva attribuire in un primo tempo: direttore dei musei, responsabile dei prestiti, organizzatore di mostre…) hanno assunto un aspetto simbolico dell’ideologia berlusconiana in materia. I beni culturali hanno molto più rilievo se soggetti a valorizzazione. Valorizzazione è parola equivoca, può voler dire molto o nulla, ma nel vocabolario di Resca è la parola che schiude l’edificio polveroso dei beni culturali (“polveroso” è aggettivo adoperato da Renato Brunetta a proposito dei musei), spalancando le porte all’aria fresca del mercato, del pubblico di visitatori, di privati smaniosi di investire in cultura, delle tecnologie informatiche e di riproduzione virtuale.
Non lui direttamente, ma una sua competente sostenitrice, l’onorevole Gabriella Carlucci, di fronte alle gravi perplessità avanzate da molti e al voto contrario unanimemente espresso dal Consiglio superiore dei Beni ulturali, allora presieduto da Salvatore Settis, poi sostituito da Sandro Bondi con Andrea Carandini, disse che le opposizioni volevano impedire «che in Italia la ricchezza artistica si trasform[asse] da costo insostenibile in risorsa virtuosa». Che un museo o un sito archeologico fossero, in atto o in potenza, “risorsa virtuosa” è un’idea che ha circolato a lungo, non solo nei varietà televisivi, a dispetto delle evidenti smentite provenienti da tutto il mondo, dove non c’è struttura che si finanzi con i proventi dei biglietti o che addirittura produca reddito.
Non il Louvre, tantomeno i grandi musei americani ‐ lo ha ricordato più volte Settis ‐ che sono tutti privati, ma non sono affatto orientati al profitto. Al contrario. Sono nutriti da cospicue donazioni a fondo perduto e da lasciti che godono di agevolazioni fiscali e che sono investiti sui mecati finanziari. Molti di essi sono gratuiti. Ma non occorre varcare l’oceano per rendersi conto di come funzioni il privato americano che si interessi alla cultura, bensì prendere un treno e scendere a Ercolano. Nella città vesuviana da molti anni “investe” il magnate David Packard, uno dei giganti dell’industria e della finanza internazionale, ma lo fa senza aspettarsi un soldo di utili e neanche ritorni di immagine. Finora ha speso 16 milioni. Ma non per restauri e per piazzare dovunque il suo logo, bensì, per esempio, per realizzare grondaie in tutti gli edifici e per recuperare il sistema fognario antico, che ora agevola lo smaltimento delle acque. Evitando che le infiltrazioni facciano sbriciolare i muri. Da questi equivoci politici e culturali discendono una serie di conseguenze. La prima è di ordine quantitativo. Nel carnet delle immagini da piazzare sui mercati del turismo internazionale – altro perno del pensiero di Resca e di Bondi –, nei book da esibire alle fiere delle agenzie di viaggio non ci può entrare tutto il patrimonio culturale.
Non si può vendere quel sistema che dai musei e dalle pale d’altare rimanda ai territori circostanti, ai paesaggi che li nutrono di immagini, e che identifica uno dei maggiori pregi del patrimonio italiano. Occorre concentrarsi su poche, riconoscibili icone, quelle celebrate dalle classifiche internazionali: Pompei, il Colosseo, Brera, il Polo museale veneziano e quello fiorentino…, tutti luoghi che producono incassi elevati e che altri incassi possono garantire. Emblema di questo atteggiamento, che seleziona una cultura di serie A e lascia in malora il resto, è la costosa campagna pubblicitaria che raffigurava, afferrati da gru o da elicotteri, il Colosseo, il David di Michelangelo e il Cenacolo di Leonardo. «Se non lo visitate ve lo portiamo via», recitava la didascalia sotto ognuna di queste scene un po’ macabre, ma incuranti del fatto che quei tre capolavori sono oberati di visitatori, e che per essi sono in vigore e si invocano forme sempre più rigorose di contingentamento del pubblico.
Per ottenere questo potenziamento dell’offerta – e qui veniamo alla conseguenza numero due – le soprintendenze non vengono considerate il soggetto più adeguato. Troppo poco attrezzate nel marketing culturale, poco disposte a immaginare il bene amministrato come fonte di reddito e di sfruttamento spettacolare. Le soprintendenze vengono lasciate deperire. La tutela perde la centralità. Al suo posto subentrano la promozione, gli effetti scenici, l’uso e l’abuso di palazzi e di musei per convention e matrimoni, l’esibizione del numero di visitatori, una serie di atteggiamenti che ben si coniugano con la frenetica industria delle mostre, dell’evento, fino alla perversione dell’one painting show, l’esibizione di un solo quadro, e che alimentano una mitologia del privato che farebbe meglio del pubblico.
La terza conseguenza è il ricorso ai commissariamenti, di cui Resca è responsabile solo in parte, che mirano a due obiettivi e che in qualche modo “privatizzano” la gestione del patrimonio: esautorare ulteriormente il sistema della tutela praticato dalle soprintendenze e nominare persone che garantiscono affidabilià e che adottano criteri discrezionali per consulenze e appalti, aggirando tutti i passaggi burocratici – passaggi che rallentano anche i pochi interventi che si possono compiere ordinariamente, senza commissari, e che si potrebbero snellire, ridurre, ma che invece sono usati come alibi per agire sempre in deroga. È il modello della Protezione civile.
Le soprintendenze al collasso
Il sistema pubblico della tutela è in condizioni di grande sofferenza. E qualcuno è indotto a presagire il suo smantellamento. Un po’ per consunzione. Un po’ perché vissuto come un insopportabile ricettacolo di vincoli, di impacci, di asfissianti consuetudini intellettuali. È un sistema che ha fatto scuola in Europa ed è servito come modello in altri paesi. Ma ora arranca nel fronteggiare una lottizzazione edilizia, la costruzione di una linea ad alta velocità o anche nell’esercitare quel minimo di manutenzione che serve a frenare il naturale degrado. Il sistema è fondato, dalla legge Rosadi del 1909 in poi, sulle soprintendenze, alle quali è affidata la responsabilità di vigilare su beni archeologici, storico‐artistici, architettonici, demo‐etno‐antropologici e sul paesaggio. In esse è stato selezionato per anni un personale che alle competenze tecnico‐scientifiche (in storia dell’arte e dell’architettura, in restauro, ma anche in ingegneria statica o in urbanistica) ha affiancato quelle amministrative e giuridiche e quelle per meglio valorizzare il patrimonio (al fine, come si legge nel Codice approvato nel 2004, del miglior «sviluppo della cultura», cioè in linea con l’articolo 9 della Costituzione).
E in taluni casi si sono toccate punte d’eccellenza, sebbene da più parti si sollecitino correttivi. La Lega ha scritto nel suo programma elettorale di voler smantellare le soprintendenze, viste come un’odiosa diramazione centralistica, e questo disegno viaggia parallelamente alla trasformazione in senso federalista dello Stato, che potrebbe portare la tutela sotto il controllo di Regioni e di Comuni (lo si è tentato per Roma), di organi politici, dunque. Ma non esiste un progetto organico in materia. Se ci fosse, si sente dire, sarebbe possibile discutere e non è detto che tutte le ragioni stiano dalla parte dell’attuale sistema. In assenza però di un chiaro disegno di riforma, contro Gian Carlo Caselli, Ilda Boccassini e altri magistrati (prende 60 mila euro l’anno); la signora Marinella Martella (30 mila euro), una ricca carriera a Publitalia, segretaria di Berlusconi dal 2001 al 2010; Francesca Ghedini, pagata a rimborso spese, archeologa, sorella di Niccolò, l’avvocato di Berlusconi.
Ma che cosa accade in altri paesi? Le differenze sono abissali, in una logica inversamente proporzionale al patrimonio custodito. Nel 2010 il bilancio italiano è fermo a 1,710 miliardi, contro i 4,150 della Svezia, i 3,250 della Finlandia, i 2,900 della Francia. In Italia si taglia, ma in Germania aumentano gli stanziamenti del 3,5 per cento e negli Stati Uniti il pacchetto di provvedimenti anti‐crisi varato da Barack Obama prevede non tantissimo, ma pur sempre 50 milioni di dollari in più. E le cifre del disastro si rincorrono. Per la sola attività di tutela nel 2005 erano disponibili 335 milioni, nel 2009 sono stati 179. Meno tutela significa più degrado, più abbandono. Musei che non aprono il pomeriggio, che tengono chiuse le sale perché senza custodi. Restauri che si rimandano. Biblioteche che disdicono abbonamenti, che riducono il prestito.
Archivi storici che chiudono. Il 90 per cento delle spese sostenute dalle soprintendenze archeologiche sono per la sola manutenzione: pulizie, impianti di condizionamento, recinzioni che si rompono, bagni che perdono. Una cifra irrisoria è destinata per i restauri, e ancora meno si può spendere per nuovi scavi, che ormai si avviano solo se ci sono soldi di fondazioni bancarie, di università oppure se si fanno buchi per una metropolitana, per l’alta velocità e persino per un parcheggio interrato. Molte soprintendenze attingono ai fondi speciali per ripianare debiti o pagare bollette. Il personale addetto alla tutela è invecchiato (età media 52 anni e dieci mesi), il turn‐over è fermo e quando entro il 2014 andranno in pensione le leve entrate negli anni Settanta e Ottanta non ci sarà chi potrà sostituirle. Gli archeologi sono 350, gli storici dell’arte 490 e gli architetti 500, ma ne servirebbero – soprattutto archeologi e architetti – fra 1000 e 1500. I concorsi sono impantanati: tormentatissimo l’ultimo per soprintendenti archeologi, che ha visto chiudere solo di recente il suo travagliato iter fra Tar e Consiglio di Stato.
A ciò si è aggiunta la norma varata dal ministro Renato Brunetta che anticipa la pensione per i dirigenti del pubblico impiego con 40 anni di contributi. E così, dopo l’uscita di scena di alcuni grandi nomi della tutela, da Adriano La Regina a Pietro Giovanni Guzzo, mandati via allo scadere dei 65 anni, nonostante fosse possibile trattenerli in servizio, è stata falcidiata un’intera generazione di soprintendenti, più o meno sui sessant’anni. Via molti direttori regionali. E sorprendenti alcune sostituzioni: in Sardegna al posto dell’architetto Elio Garzillo, che si è battuto contro l’assalto cementizio alla necropoli fenicia di Tuvixeddu, arriva Assunta Lorrai, che non è né architetto né storico dell’arte né archeologa e proviene dai ranghi amministrativi. In pensione anche Stefano De Caro, direttore generale dei Beni archeologici. A questo si aggiunga il carosello vorticoso dei trasferimenti, degli incarichi ad interim che sfibrerebbe qualunque amministrazione. E che va avanti da anni. A Lucca in cinque anni sono cambiati cinque soprintendenti.
Dopo il pensionamento di Guzzo, nell’agosto 2009, a Pompei si sono alternati quattro soprintendenti e uno di loro, Giuseppe Proietti, aveva l’interim di Roma, amministrava cioè le due aree archeologiche più grandi del paese. Francesco Scoppola si è alternato in sei diversi incarichi dalla fine del 2004 al 2009: da direttore nelle Marche, dove è stato allontanato per aver osato mettere un vincolo su tutto il pregiato promontorio del Cònero, è passato al Molise e ora è in Umbria. Molti trasferimenti sono decisi per punire funzionari troppo rigorosi. Alcuni vengono attuati in maniera improvvida, scatenando ricorsi amministrativi, sospensive del Tar e reintegri. E qui si tocca uno dei tasti dolenti: quello della tutela di territorio e paesaggio incalzati dall’incessante procedere del cemento (3 milioni e mezzo di appartamenti costruiti negli ultimi dieci anni).
Gli insediamenti invadono i litorali e le colline e spesso intaccano zone vincolate, per le quali è necessario il parere della soprintendenza che, con il nuovo Codice dei Beni culturali, avrebbe l’impegnativo compito di partecipare con le Regioni alla pianificazione del territorio: ma, come ha documentato un rapporto curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi per conto di Italia Nostra, l’iniziativa è sostanzialmente fallita. In queste condizioni, si sente dire dappertutto, è un compito improbo per soprintendenti sul cui capo pende la spada di Damocle di un trasferimento o che sono minacciati da richieste risarcitorie contenere la forza esercitata dall’industria del mattone. Ormai si sono molto ridotti gli annullamenti di autorizzazioni a costruire in zone vincolate, a dispetto di chi continua a raffigurare le soprintendenze come delle conventicole di “signor no”. Inoltre una circolare ha ammesso il ricorso gerarchico ai vertici del ministero contro un soprintendente solo nel caso in cui questi apponga un vincolo. Non per il contrario. Come a dire: chi tutela rischia, chi ama il quieto vivere no.
Arrivano i commissari
Ha cominciato Pompei. Sono seguite l’area archeologica romana e la Domus Aurea, il cantiere fiorentino per i Grandi Uffizi, quello milanese di Brera. Quindi L’Aquila. Ordinanze e procedure diverse. Un punto in comune sostanziale: mettere fuori gioco o ai margini la struttura delle soprintendenze e affidare poteri eccezionali a un commissario, talvolta proveniente dai ranghi dei Beni culturali, più frequentemente da altre amministrazioni, in primo luogo la Protezione civile. Il circuito si chiude. Anche la gestione del patrimonio culturale diventa l’occasione per sperimentare forme di governo strette nelle mani di pochissme persone, sostanzialmente legibus solutae, in grado di agire in deroga a tutte le procedure, di affidare appalti e consulenze senza gare, scansando i controlli e operando in una zona al riparo da ogni forma di verifica.
E quando queste arrivano ‐ come nel caso della Corte dei Conti per Pompei ‐ l’atto d’accusa è esplicito, ma giunge in ritardo. In altre occasioni interviene la Procura della Repubblica. L’arrivo dei commissari è spesso motivato da ragioni di emergenza o addirittura evocando imminenti calamità naturali. È accaduto per Pompei, nell’estate del 2008, quando in seguito a un articolo sul Corriere della Sera, il ministro Bondi nominò commissario Renato Profili, una carriera nella polizia e poi prefetto di Napoli. Dopo Profili, è stato designato un commissario che agli occhi del ministro aveva un curriculum più affidabile: Marcello Fiori, laurea in Lettere, vice capo di gabinetto al Comune di Roma con Rutelli, esperienza con il Giubileo, poi alla Protezione civile (L’Aquila, G8). Fiori ha lavorato con una soprintendente, Maria Rosaria Salvatore, che a Pompei si vedeva pochissimo.
Ha avuto mano libera. A fine mandato (luglio 2010) si sono tirate le somme. Degli 80 milioni che vantava di aver sbloccato, la metà erano stati già impegnati dal precedente commissario Profili in iniziative al 95 per cento di restauro e messa in sicuezza avviati dal soprintendente Guzzo e incagliati nelle procedure di gara. Per valorizzazione e promozione si erano spesi appena 400 mila euro. Restavano gli altri 40 milioni, che da Fiori sono stati impegnati in percentuali completamente rovesciate: solo 10 per la messa in sicurezza e 18 per valorizzazione. Fra le spese, viene molto contestata (oltre quella per il restauro del Teatro, dove si è lavorato persino con le ruspe, che sono bandite in un luogo dove si deve scavare con massima cautela) quella di 8 milioni prevista da un contratto con Wind per un impianto di videosorveglianza fatto di circa cento pali alti quattro metri che sfigurano l’area archeologica e che sono il doppione di un altro impianto, perfettamente funzionante e sistemato invece sulla cinta esterna.
Il contratto prevede anche il Wi‐fi e un nuovo portale web, pure questo doppione di uno già esistente. Ora Fiori è balzato su una poltrona di dirigente generale del ministero. Compenso: 166 mila euro l’anno. Nel febbraio del 2009 si decise il commissariamento di tutta l’area archeologica romana e di Ostia. Il motivo? Il pericolo di crolli sul colle del Palatino. Venne incaricato Guido Bertolaso, sollevando le proteste di tutti gli archeologi della Soprintendenza romana, i quali sostenevano che sarebbe stato più logico dotare di soldi e mezzi il loro ufficio per fare manutenzione e restauro, anziché convocare la Protezione civile, che con l’archeologia non aveva alcunché da spartire. Vice di Bertolaso, nel progetto originario, era l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma, un soggetto istituzionale che con la soprintendenza deve avere un rapporto dialettico, senza confusioni di ruoli (poi Bertolaso non assunse l’impegno perché chiamato a L’Aquila).
A Brera, per snellire le procedure dei lavori di ristrutturazione, venne impegnato Resca. Dagli Uffizi, invece, si apre uno squarcio sulle vicende torbide messe a nudo dall’inchiesta della Procura fiorentina sulla “cricca” e sui rapporti con la Protezione civile. A rendere più veloce il cantiere fu chiamata Elisabetta Fabbri, architetta, molto legata a Salvo Nastasi. Nastasi è il potentissimo capo di gabinetto di Bondi, eminenza grigia del ministero, anzi il vero ministro, secondo alcuni, per la cui ascesa ai vertici del Collegio romano si è infilato un piccolo comma in un decreto legge per i rifiuti (194 mila euro il suo stipendio).
La Fabbri è stata rimossa da Bondi dopo che la magistratura fiorentina ha avviato l’inchiesta che nel febbraio del 2010 ha portato all’arresto di Angelo Balducci e di altri esponenti della “cricca”, fra i quali Mauro Della Giovampaola, soggetto attuatore proprio dei lavori per gli Uffizi. Direttore di quei lavori era stato nominato Riccardo Miccichè, ingegnere di Agrigento, che, si legge nel curriculum, aveva competenze «nella preparazione dei terreni per erbe e piante officinali», oltre che «nell’attività di parrucchiere per donna, uomo, bambino, di manicure e pedicure». Miccichè era stato anche collaboratore di cantiere, alla Maddalena, di Francesco Piermarini, il cognato di Bertolaso. Nastasi, trentasei anni, molto legato a Gianni Letta, è un professionista dei commissariamenti. Oltre a esserne il dominus al ministero è stato anche lui più volte commissario: per la ricostruzione del Petruzzelli di Bari, al Maggio Fiorentino e al San Carlo di Napoli.
Il suo nome compare in molte intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura fiorentina, dalle quali risulta una grande familiarità con Balducci e gli altri della “cricca”. Un commissariamento sui generis è quello praticato a L’Aquila dopo il terremoto. Tutto il patrimonio culturale è stato affidato a Luciano Marchetti, ingegnere, dirigente in pensione del ministero al quale, però, non doveva per nulla rispondere, essendo il suo unico interlocutore la Protezione civile, e dunque Bertolaso. Le conseguenze? Le soprintendenze territoriali e la direzione regionale sono state messe fuori gioco, creando una quantità di conflitti. Ma esemplare è anche la vicenda di Giuseppe Basile, ex direttore dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, che ha lavorato dopo i terremoti nel Belice, in Friuli e in Umbria, alla Basilica di San Francesco di Assisi. È uno dei nostri migliori restauratori. Ha offerto le sue competenze a Marchetti, ma non ha mai neanche ricevuto una risposta.
Nel frattempo le macerie di chiese e palazzi aquilani giacevano indistinte ‐ fregi, cornici, capitelli mischiati a polvere e calcinacci ‐ sotto la pioggia e la neve, preda di chiunque. In una posizione marginale è stato messo lo stesso Istituto fondato da Cesare Brandi nel 1939, che per altro nel marzo del 2010 è stato sfrattato dalla storica sede di piazza san Francesco di Paola a Roma, perché il ministero non è riuscito a trovare i soldi per adeguare il canone di affitto. Come quella di Basile, a nulla sono valse, sempre a L’Aquila, le offerte di collaborazione da parte degli storici dell’arte Valentino Pace e Fabio Redi, dei docenti di restauro Giovanni Carbonara e Marina Righetti e persino di Ferdinando Bologna, aquilano, anche lui storico dell’arte, maestro di generazioni di studiosi, fra gli allievi più prossimi di Roberto Longhi.
Per il dopo terremoto si è puntato su altro. Un po’ come sul progetto Case: invece che su una pianificazione corretta, che prevedeva di riparare subito gli edifici danneggiati, ma non inagibili, e di avviare il recupero del centro storico, si sono piazzati 19 insediamenti, volgarmente detti new town, che ospitano appena un terzo dei senzatetto aquilani, lasciando a tutt’oggi decine di migliaia di persone in sistemazioni precarie. Il patrimonio storico‐artistico della città è stato a stento messo in sicurezza, di progetti di restauro non si ha notizia, la sbandierata “lista di nozze” (un elenco di monumenti affidati alle cure dei partecipanti al G8) è stata molto più che un fiasco.
Ora il centro storico, di cui le chiese e i palazzi sono parte, ma che è integralmente un bene culturale, è chiuso, transennato, vigilato dalle camionette dell’esercito, stretto dai tubi dei puntellamenti e abitato da fantasmi (l’unico che ci vive è Raffaele Colapietra, ottant’anni, storico, professore universitario, che ha rifiutato l’ordine di sgombero). L’Aquila come Pompei, hanno detto anche i membri del Consiglio superiore dei Beni culturali. L’Aquila come prefigurazione di una città che non è più una città. E di cui il patrimonio culturale è elemento essenziale perché la città torni a essere il luogo in cui si forma e si riconosce una comunità.
http://www.eddyburg.it/article/articleview/16739/0/92/
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“Carte truccate e violazioni continue” Greenpeace svela la vera storia di Tepco 16.03.2011
L’associazione ambientalista pubblica un dossier in cui enumera incidenti e tentativi di eludere i controlli che hanno coinvolto il gigante dell’energia giapponese
“Il Godzilla del nucleare”. E’ questa la definizione che Greenpeace affibbia alla Tepco, la società energetica giapponese che gestisce la centrale di Fukushima in Giappone. Il ritratto che l’associazione ambientalista fa del colosso energetico del Sol levante è impietoso. Greenpeace ha diffuso su Internet un documento che, secondo gli ambientalisti, dimostra senza se e senza ma “storia orrenda” della compagnia: dai resoconti truccati sulla sicurezza alla mancata manutenzione degli impianti atomici.
Innanzitutto un po’ di numeri. La Tepco, Tokyo eletric power corporation, nasce nel 1951 e oggi si colloca come la quarta più grande multinazionale dell’energia del mondo. Fra atomo, carbonfossile e rinnovabili, ogni anno il gigante nipponico produce una quantità di energia pari a quella consumata (sempre in un anno) dall’Italia. Solo in Giappone possiede 17 reattori nucleari distribuiti in tre centrali atomiche: Fukushima I (6 reattori), Fukushima II (4 reattori), Kashiwazaki-Kariwa (7 reattori di cui 5 chiusi).
Un successo internazionale che, secondo Greenpeace, è frutto anche di una serie di violazioni e reati: “La Tepco ha falsificato per oltre vent’anni i dati sulle violazioni alle disposizioni di sicurezza nei suoi reattori, con decine di resoconti truccati presentati alle autorità di controllo”. Ma non solo: affianco alle truffe ci sono morti sul lavoro e incidenti agli impianti con conseguenti fughe di vapori e liquidi radioattivi nell’ambiente. Accuse pesanti che però l’associazione ambientalista dice di poter dimostrare colpo su colpo, anche avvalendosi di inchieste di autorevoli testate giornalistiche come Der Spiegel. E’ grazie anche al settimanale tedesco che nel 2002, dopo vent’anni di sostanziale impunità, l’azienda energetica nel 2006 viene obbligata a fermare i reattori per sottoporsi ai controlli delle autorità locali.
Greenpeace sul suo sito ha pubblicato una breve cronologia dei fatti che Tepco ha provato a nascondere. La riportiamo qui sotto.
2000. Un reattore della centrale di Fukushima – quella colpita dal terremoto dell’11 marzo – viene spento. Altri incidenti, con perdita di radioattività, erano stati già registrati nel 1994 e 1997.
2002. Sempre a Fukushima vengono individuate fessurazioni nell’impianto di raffreddamento.
2004. Secondo Der Spiegel, nell’agosto 2004 (il giorno del 59mo anniversario dell’esplosione atomica su Nagasaki), quattro operai muoiono per una fuga di vapore surriscaldato nella centrale di Mihama.
2006. Ancora Fukushima: viene registrata una fuga di vapore radioattivo.
2007. Un terremoto meno violento di quello dei giorni scorsi danneggia gravemente l’impianto nucleare di Kashiwazaki-Kariwa (sempre della TEPCO, il maggiore al mondo come capacità produttiva); l’impianto è composto da sette reattori in teoria a prova di terremoto (almeno, questo era quello che millantava TEPCO nella sua pubblicità). Invece, 1135 litri di acqua radioattiva finiscono nel Mar del Giappone durante il terremoto. In seguito, si scopre che la faglia responsabile del terremoto del 2007 non è mai stata “ufficialmente” identificata dagli approfonditi studi sulla geologia del sito di Kashiwazaki-Kariwa: infatti, la centrale è stata costruita proprio sopra la faglia!
2008. A Fukushima, un terremoto provoca la fuoriuscita di acqua da una piscina in cui erano stoccate barre di combustibile nucleare esausto.
2009-2011. La storia degli incidenti a Kashiwazaki-Kariwa continua. Nel 2009, quattro persone vengono ferite per un incidente nell’impianto. Nel 2010, a tre anni di distanza dal terremoto, dopo numerosi interventi per aumentare al sicurezza e dopo ben undici incendi, solo due reattori erano stati riattivati. Al momento del terremoto, l’11 marzo 2011, tre reattori erano ancora chiusi.
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Come si fa una rivolta 14.03.2011
Di Franco Berardi Bifo
Ecco il testo con cui Franco Berardi Bifo ha aperto stamattina la mia lezione nel cortile di Brera.
Anche l’amore nel tempo precario
è diventato una cosa per vecchi,
un privilegio di anziani amanti
che hanno del tempo da dedicarsi.
Noi eredi di un secolo feroce
che rispettava soltanto il futuro,
siamo il futuro promesso,
l’ultimo forse però, perché il profitto
non rispetta né il domani né l’adesso.
Il patto è stato cancellato
perché la regola non vale nulla
quando non c’è la forza per imporla.
Ora ciascuno è privato,
e solitario elabora segnali
sullo schermo mutevole che irradia
intima luce ipnotica. Riceve
ordini telefonici, e risponde
con voce allegra perché non è concesso
ch’altri conosca l’intima afflizione
che ci opprime.
Talvolta sul contratto di assunzione
è compresa una norma che ti impegna
a non suicidarti.
Questo non ferma certo l’espansione
dell’esercito immenso di coloro
che levano la mano su se stessi.
Nel solo mese di maggio
all’azienda trasporti di Bologna
si sono uccisi tre lavoratori.
Dieci anni fa erano tremila
i conducenti degli autobus cittadini,
oggi sono soltanto milleduecento
e il traffico non è certo meno intenso.
Alle officine Foxsson
si danno fuoco giovani operai.
A migliaia s’immolano
i contadini indiani,
alla Telecom France
si ammazzano a decine per il mobbing.
In molte fabbriche italiane
minacciano di buttarsi giù dal tetto.
E’ un sistema perfetto
razionale, efficiente, produttivo.
Chi s’ammazza è un cattivo
cittadino che non ha capito bene
come funziona il nuovo ordinamento.
Devi essere contento,
partecipi allo sforzo collettivo
che rilancia la crescita e impedisce
che il deficit sorpassi il tre per cento.
Brucia ragazzo brucia
brucia la banca centrale
e quella periferica.
A poco servirà, purtroppo
Perché i numeri che ti rovinano l’esistenza
Non sono conservati in nessuna banca,
neppure in quella centrale.
Vagano nell’infosfera
E nessuno li può cancellare.
I nemici nascosti sono numeri
Null’altro che astratte funzioni,
integrali, algoritmi e deduzioni
della scienza economica.
Ma come puoi chiamare scienza
questo sapere che non sa niente
questo assurdo sistema di assiomi
di tecniche che spengono la vita
per non uscire dalle previsioni
di spesa?
Non è una scienza, è una superstizione
che trasforma le cose in astrazione
la ricchezza in miseria
e il tempo in ossessione.
Meglio andarsene di qui, ecco come si fa.
Meglio lasciare vuoto
il luogo dell’obbedienza e del sacrificio.
Meglio dir grazie no a chi ti propone
sopravvivenza in cambio di lavoro.
Impariamo a essere asceti
che non rinunciano al piacere né alla ricchezza
ma conoscono il piacere e la ricchezza
e perciò non li cercano al mercato.
Come gli uccelli nel cielo
e come i gigli nei campi
non abbiamo bisogno di lavoro
né di salario, ma di acqua e di carezze,
di aria, di pane, e dell’infinita ricchezza
che nasce dall’intelligenza collettiva
quando è al nostro servizio, non al servizio
dell’ignoranza economica.
Se vuoi sapere come si fa
io posso dirti soltanto
quello che abbiamo imparato dall’esperienza.
Non obbedire a chi vuole la tua vita
per farne carcassa di tempo vuoto.
Se devi vendere il tempo in cambio di danaro
sappi che non c’è somma di danaro
che valga il tuo tempo.
E’ comprensibile che qualcuno pensi
Che solo con la violenza
Possiamo avere indietro
Quello che ci han sottratto.
Invece non è così,
– dispongono di armate professionali
che la gara della violenza la vincerebbero
in pochi istanti.
Quel che puoi fare è sottrargli il tempo della tua vita.
Occorre diventare ciechi e sordi e muti
quando il potere ti chiede
di vedere ascoltare e parlare.
L’esodo inizia adesso
andiamocene via
ciascuno col suo mezzo di trasporto.
Meglio morto
che schiavo dell’astratto padrone
che non conosce
dolore né sentimento né ragione.
Ma meglio ancora vivo
senza pagare né il mutuo né l’affitto.
Quel che ci occorre non è nostro
se non nel breve tempo di un tragitto.
Quando arrivi parcheggi,
lasci le chiavi e lo sportello aperto
per qualcun altro che deve spostarsi
nella città, sui monti o nel deserto.
Ecco come si fa.
Si smette di lavorare
ché di lavoro non ce n’è più bisogno.
Occorre svegliarsi dal sogno
malato della crescita infinita
per veder chiaramente
che c’è una bolla immensa di lavoro inutile
che si gonfia col nostro tempo.
Inventiamo una vita che non pesa,
Che non costa.
Una vita leggera.
E poi sai che ti dico?
Non ti preoccupare del tuo futuro
Che tanto non ce l’hai. E’ tutto destinato
A pagare l’immenso debito accumulato
Per ripianare il debito delle banche.
Il futuro di cui parlano gli esperti
è sempre più tetro ogni giorno
che passa. E’ meglio che diserti
e comunichi intorno
il lento piacere dell’essere altrove.
Ecco come si fa.
http://www.looponline.info/index.php/component/content/article/497-come-si-fa-una-rivolta
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Usa pronti a controllare l’opinione pubblica ondine 17.03.2011
Notizia shock: gli Stati Uniti starebbero lavorando a un sistema in grado di modificare l’opinione pubblica sfruttando i social network. Dici che è impossibile, che è esagerato? Eppure è assodato che la Centcom statunitense ha stipulato un accordo con Ntrepid, una società californiana, per lo sviluppo di un “online persona management service”. Vale a dire un sistema in grado di creare e assegnare il controllo di dieci account a una sola persona reale. Basta un centinaio di addetti e, in pratica, è possibile diffondere notizie e “opinioni” da parte di 1000 profili diversi. Falsi. Tranquillo, comunque, al momento la richiesta è avanzata per 50 operatori, per un totale di 500 profili. Sul “tranquillo” ero ironico.
La notizia è riportata dal Guardian, che parla di un vero e proprio servizio di creazione di account dal background credibile, e dunque in grado di esprimere valutazioni e opinioni e contribuire a campagne di vario tipo. Non è dato sapere quali, ma con un pizzico di fantasia si possono ipotizzare campagne pro reclutamento militare, oppure politiche, oppure per promuovere certe strategie economiche. Le possibilità sono infinite, anche perché la tecnologia commissionata non pone limiti ai social network sfruttabili, citando esplicitamente “personas must be able to appear to originate in nearly any part of the world and can interact through conventional online services and social media platforms”. In pratica, i profili fasulli devono sembrare creati da qualsiasi zona del mondo e attraverso qualunque tipo di piattaforma online. Non giriamoci intorno: un vero e proprio reclutamento di account falsi che diffondano notizie e opinioni, e ne controbattano altre, in modo credibile.
Questa “simpatica” iniziativa rientra nella Operation Earnest Voice (OEV), nata, guarda un po’, durante la guerra in Iraq, per contrastare la massiccia presenza online degli emissari di al-Qaida. In pratica, gli Stati Uniti puntano le armi di social engineering anche al di fuori del territorio arabo. E ciò che più preoccupa, come giustamente sostiene il Guardian, è che questo comportamento potrebbe essere preso come esempio anche da altre nazioni. Nel frattempo chi si sfrega le mani è Ntrepid, forte di un obolo di 2,76 milioni di dollari per eseguire i lavori. A noi, invece, il compito di distinguere tra le opinioni genuine dei nostri contatti e le panzane studiate a tavolino da esperti militari.
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Un robot soffice soffice 18.03.2011
La nuova frontiera della meccanica è un motore senza ingranaggi rigidi. Assomiglia alla ruota di una bicicletta e si muove grazie a muscoli artificiali capaci di estendersi sino a 300 volte la loro superficie
di Martina Saporiti
Il futuro della robotica è morbido. Nei laboratori di biomimetica dell’ Auckland Bioengineering Institute, in Nuova Zelanda, un gruppo di ricerca ha costruito un motore senza utilizzare ingranaggi, pistoni o cuscinetti. I ricercatori sono riusciti a eliminare tutti i componenti rigidi grazie all’impiego di muscoli artificiali flessibili, che donano al motore in movimento l’aspetto di una gelatina traballante. L’ideale per un robot.
Al link il video
Iain Anderson, capo ricerca del laboratorio, spiega su New Scientist come funziona il motore. Chiave del meccanismo sono i muscoli artificiali, cioè strutture costituite da due strati di carbonio che conducono elettricità, separati da una sottile pellicola di polimero isolante estremamente flessibile. Quando viene applicato un voltaggio, le cariche elettriche di segno opposto si accumulano ai due lati del polimero isolante. In questo modo, a causa delle forze di attrazione che si esercitano tra cariche positive e negative, il film che separa gli strati di carbonio viene schiacciato, riuscendo a estendersi anche del 300 per cento. Quando il voltaggio cessa, il film si rilassa e torna alla sua forma originaria.
Questi muscoli artificiali sono montati su una struttura simile alla ruota di una bicicletta, come fossero dei raggi piatti che si estendono tra l’estremità della ruota e un anello centrale fatto di una sostanza spumosa. Grazie all’applicazione del voltaggio, i raggi si comprimono e rilassano di continuo dando origine a un movimento di rotazione. Per la verità, ammette Anderson, non è la prima volta che muscoli artificiali vengono usati per generare un moto rotatorio, ma il nuovo motore è il primo a fare a meno di un qualsiasi elemento rigido.
Le potenzialità sono enormi. Chris Melhuish, direttore del Bristol Robotics Laboratory in Gran Bretagna, parla di nuove frontiere della robotica. Grazie all’innovativo motore, infatti, sarà possibile costruire robot che si muovono come un essere vivente e saranno così morbidi da ricordare in tutto e per tutto la pelle umana. Non solo. Possibili applicazioni sono anche nella chirurgia estetica, dove il motore potrebbe servire a costruire strumenti così flessibili da essere inseriti persino dentro piccolissime incisioni, ma comunque efficaci a svolgere il lavoro di normali strumenti meccanici rigidi.
L’appuntamento per gli appassionati di questo campo è alla Electroactive Polymer Actuators and Devices Conference che si terrà questa settimana a San Diego (Usa). Qui, Anderson e il suo gruppo di ricerca presenteranno il loro motore. C’è attesa anche per la presenza dell’azienda californiana Artificial Muscle, impegnata nello sviluppo di motori costruiti con polimeri elettro-attivi che si comportano come interfacce aptiche, cioè sensibili al tatto. Questi dispositivi potrebbero presto trovarsi su telefonini, touchscreens e mouse di computer. Il primo di questi motori è stato disegnato per l’iPhone e sarà in vendita a maggio. I produttori garantiscono prestazioni più veloci e un range di frequenze molto più esteso rispetto a un motore tradizionale.
http://daily.wired.it/video/robot-morbido.html
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Anoressia nervosa, pericolo sul Web 18.03.2011
Blog e siti internet promuovono questo disturbo alimentare, insegnando a diventare anoressici. Ecco come
di Fabiola de Clercq
Ana è la personificazione dell’ anoressia nervosa ed è la protagonista dei racconti di moltissimi blog pro-ana. La autrici di questi diari segreti on line parlano di Ana come di un’amica molto cara, la difendono se viene attaccata dagli estranei e si ispirano a lei come ad un modello di bellezza perfetto.
Ana in realtà è una malattia che può portare alla morte e questi blog sono pericolosissimi perché contengono le istruzioni per diventare anoressiche e le autrici si spalleggiano tra loro per arrivare all’obiettivo della perdita di peso.
Insegnano a vomitare, consigliano lassativi e diuretici, esortano e ammirano chi è capace di rifiutare il cibo, insultano chiunque faccia loro notare che Ana è una malattia da curare. Il problema è che questi siti sono alla portata di tutti, soprattutto delle adolescenti disorientate che cercano una risposta ai loro piccoli problemi dati dall’età.
Rebecka Peebles della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora ha monitorato 180 blog pro-ana e lancia un nuovo allarme.
La ricerca, pubblicata sull’ American Journal of Public Health, ha trovato nei diari pro-ana una miniera di pericoli di facile accesso a chiunque si colleghi a internet: l’80% dei siti pro-ana è dotato di applicazioni interattive (come i contatori di calorie), l’85% pubblica foto di donne scheletriche a cui ispirarsi (chiamati thinspiration), l’83% dà consigli per dimagrire velocemente e su come impegnarsi nell’obiettivo di avere il totale controllo del proprio corpo per arrivare a 45 chili o meno. Il 24% dei siti è stato bollato come molto pericoloso per i lettori.
Questi blog però devono essere considerati anche come delle urla di aiuto: ‘Per molte pazienti internet diventa un modo per esprimere i propri sentimenti – concludono gli autori – invece di gestirli attraverso tradizionali modelli di cura come la psicoterapia”.
È necessario spiegare alle giovanissime che non è nella magrezza che si trova la perfezione, in modo da promuovere un canone estetico in cui la salute sia parte integrante della bellezza.
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L’ Aba ( Associazione Bulimia Anoressia), fondata da Fabiola de Clercq nel 1990, è una delle realtà più affidabili per il trattamento delle ragazze che hanno capito di avere bisogno di aiuto. Per contattarli c’è un numero verde 800 16 56 16 .
http://daily.wired.it/news/internet/anoressia-nervosa.html
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Perché si ricomincia con la guerra 19.03.2011
Con la risoluzione ONU sulla Libia sembra finalmente emergere una parvenza d’incisività nella reazione americana alle recenti rivoluzioni arabe. Niente di politicamente troppo nuovo, nessun change obamiano, piuttosto un tentativo di contenere e influenzare il futuro politico dei paesi coinvolti, con l’evidente intenzione di assecondare la restaurazione non appena se ne presentino le condizioni.
Apro e chiudo subito la parentesi sul nostro paese. Grazie a un governo che ha rincorso l’attualità da una discreta distanza, senza mai riuscire ad afferrarla, può ben dire di essere stato umiliato e deriso come mai prima dai partner occidentali. E per motivi ben più rilevanti delle gesta erotiche di Berlusconi.
Rileggere le dichiarazioni di Frattini su Tunisia, Egitto e Libia dall’inizio dell’anno e paragonarle con la fresca cronaca di questi mesi, vuol dire assistere a una teoria di dichiarazioni contraddittorie, spesso già smentite dai fatti quando sono state pronunciate. Una postura tesa alla sfacciata difesa fuori tempo massimo delle autocrazie rovesciate dai moti popolari e tardive giravolte a prendere atto della realtà come se non ci fosse nulla di anormale o scandaloso.
Ora è chiaro che gli statunitensi hanno chiesto a Berlusconi la totale umiliazione e che questi non ha avuto grandi difficoltà a impegnare il paese anche per l’intervento militare in Libia, facendo ancora una volta buon viso a cattiva sorte e rilanciandosi come se niente fosse nella veste di protettore degli interessi italiani, costretto ad intervenire per il bene del paese e non per rimediare alle sue tragiche buffonate.
Poco importa se è evidente che siano state proprio la sua amicizia con Gheddafi e le dichiarazioni di Frattini a metterli in pericolo. Se qualcuno avesse dubbi sull’esistenza dell’umiliazione, basti la sequenza delle dichiarazioni ufficiali degli ultimi giorni sulla Libia. Da notare che il resto della comunicazione di governo sulle crisi internazionali dall’inizio dell’anno è coerente con questo bassissimo livello e ricca di simili inversioni a centottanta gradi.
Il 3 marzo Frattini (Esteri) dichiara: “L’Italia non prenderà mai parte a un’eventuale missione militare internazionale in Libia”.
Il 7 La Russa (Difesa) nell’offrire l’uso delle basi e dei porti ribadisce: “Escludo assolutamente che l’Italia abbia intenzione di usare le sue basi per motivi militari”.
Oggi La Russa: “…offrendo le basi, ma senza nessun limite restrittivo all’intervento, quando si ritenesse necessario per far rispettare la risoluzione Onu”, e Frattini: ”l’uso delle basi e non solo”.
Berlusconi_and_Gaddafi_by_matteobertelli2Entusiasta Bersani, FLI che festeggia l’umiliazione di Berlusconi chiedendo sbarchi a Tripoli e persino i sindacati entusiasti dell’idea. C’è stato persino qualche poverello chi ha espresso “schifo” verso i pochi che si sono detti contrari ai bombardamenti.
Una farsa alla quale c’è ben poco da aggiungere, se non la dpiegazione ufficiale di Alessandro Sallusti ai fedeli: “Non possiamo lasciare fare, né a Gheddafi di massacrare i suoi, né a Sarkozy e soci di mettere mano da soli sulla Libia, sui nostri interessi economici e sulle nostre strategie politiche.” Sallusti parla di una Libia che non c’è e di minacce inesistenti, a meno che non tema che la rivoluzione libica finisca per esporre affari e tangenti con i governi amici come già accaduto in Egitto e Tunisia, forse sono quelle le “strategie politiche” sulle quali teme che altri mettano le mani. Meglio chiudere la parentesi sull’Italia
La risoluzione dell’ONU segna un ritorno degli Stati Uniti, che tentano la difficile impresa di cogliere due piccioni con una fava. C’è l’occasione di rifarsi l’immagine cacciando un cattivo con il consenso di tutti, come per l’attacco ai talebani, consolidando allo stesso tempo numerosi governi amici che sono sulla graticola della rivoluzione generazionale che si è accesa con l’inizio dell’anno. Rispolverata la retorica dei volenterosi si riparte per un’impresa che sembra fattibile e tutti collaborano perché hanno tutti qualcosa da guadagnarci.
L’interesse maggiore degli Stati Uniti è però di natura decisamente più prosaica, insieme alla crisi del Giappone un Medioriente in rivolta, scosso da veloci cambi di potere e grandi spostamenti di capitali, potrebbe dare il colpo di grazia alla delicata architettura che ha permesso agli Stati Uniti di mascherare il fallimento della propria economia, guadagnando tempo prezioso per diluirne gli effetti nel tempo e soprattutto scommettendo su una ripresa che ancora non si vede. Obama continua le guerre di Bush e sembra aver sposato una robusta continuità politica con il suo predecessore in politica estera.
L’iniziativa statunitense rianima a questo punto l’interventismo umanitario armato, sacrifica Gheddafi e lo offre ai fan della libertà in giro per il globo, ma non può celare l’evidenza per la quale l’attacco a Gheddafi ha la stessa legittimità che avrebbe un attacco alla famiglia reale del Bahrein o al dittatorello dello Yemen.
Mentre il mondo s’indigna con la Libia e bastona Gheddafi, in questi due paesi va al contrario. Il regime yemenita gode del sostegno “alleato” contro i suo concittadini e la famiglia reale in Bahrain ha ricevuto aiuto sotto forma dell’intervento di truppe saudite e polizia dagli Emirati. Che è come se a soccorrere Gheddafi fossero intervenuti l’esercito di Mubarak e la polizia di Ben Alì, poco importa che abbiano invaso il Bahrein dietro richiesta dell’autocrate e quindi invitate. Il Consiglio di Cooperazione Del Golfo, che ha offerto l’ombrello legale all’intervento, è un’accordo di mutua assistenza tra autocrati che garantisce l’intervento anche per la repressione di proteste e rivolte interne.
Gli Stati Uniti hanno protestato, hanno chiesto la fine delle violenze e la libertà d’espressione, ma per ora è finita in Yemen con spari sulla folla e in Bahrein con spari sulla folla, carcerazione degli oppositori e addirittura la demolizione del monumento che decorava la “Piazza della Perla”. Il re si è ispirato al tradizionale abbattimento della statua del tiranno e ha fatto demolire il monumento (qui accanto prima e dopo) alla perla, antica ricchezza locale, che stava nella piazza occupata dai manifestanti. Esplicito, audace ed originale.
Il fatto che in Bahrein il re abbia sparato sulla folla, poi fatto retromarcia all’intervento americano e ora abbia ricominciato con più entusiasmo di prima grazie all’aiuto dei re vicini, testimonia che nel mezzo qualcosa è successo ed è facile identificare questo qualcosa nell’accordo per abbattere Gheddafi, che sembra proprio tradire l’intenzione di attirare l’attenzione lontano dal Golfo, dove i reali e il dittatore yemenita stanno dando sfogo alla repressione brutale.
Se anche il sultano dell’Oman ritirerà la concessione della monarchia parlamentare strappatagli dai manifestanti, si chiuderà il cerchio. I regimi arabi offrono la testa di Gheddafi e sperano che basti, la vera linea di difesa che non si può oltrepassare è la caduta della monarchia assoluta e l’avvento di monarchie costituzionali o ancora peggio di repubbliche. L’empatia delle opinioni pubbliche occidentali per le rivoluzioni nel Golfo è bassissima e non dipende solo dalla differenza fatta dai media (anche da al Jazeera) nel coprire i diversi contesti.
Il supporto politico, morale e materiale a queste monarchie è ancora ben saldo in Occidente, ma non deve stupire nemmeno vedere L’Iran, che è alle prese con contestazioni interne che hanno addirittura preceduto le rivolte arabe, incapace di prendere la parola. L’Iran ha fatto fatica a spendere una parola per i fratelli sciiti in Bahrein, che non sono nemmeno sembrati interessati, difficile che riesca atrovare da dire qualcosa di spendibile ai libici o all’audience internazionale. Così come non ha stupito vedere l’Autorità Palestinese insieme ad Israele nel sostenere Mubarak fino all’ultimo. Le differenze tra la realtà e le narrazioni di comodo risaltano proprio nelle situazioni di crisi e le rivolte arabe hanno esposto i limiti di tante strategie e di tanti streteghi, per non dire di quanto abbiano ridotto a zero la credibilità di certe analisi, da quelle partorite da chi vota sempre a favore delle guerre a quelle di chi è arrivato a disconoscere la natura genuinamente popolare delle rivoluzioni identificando in Gheddafi un paladino antimperialista.
Se si vuole rintracciare una parvenza di fondatezza giuridica nella risoluzione sulla Libia; al di là della sua espressione formale sotto le insegne dell’ONU; e qualche differenza significativa con i casi citati, occorre procedere per sottrazione e riconoscere proprio che il governo di Gheddafi è ormai privo di qualsiasi riconoscimento e legittimità, se non quella implicitamente riconosciuta nella parte della risoluzione ONU john-yoo-torture_thumbche si rivolge al governo libico. Una dittatura quarantennale, ormai disconosciuta da quasi tutti i paesi del mondo e del tutto priva di sostegno popolare, come testimonia la prima fase della rivoluzione libica, con i rivoltosi che si sono trovati in mano il paese senza sapere che farsene, mentre Gheddafi barricato a Tripoli organizzava una risposta che evidentemente non era preparato a dare e dava ordini ai quali nessuno ubbidiva.
Il diritto d’ingerenza umanitaria, creazione relativamente recente e giuridicamente incerta sulla quale si sono fondate le più tragiche guerre degli ultimi anni, fatica davvero ad essere credibile, non fosse altro per il fatto che il suo enforcement è riservato nei fatti a chi ha i mezzi per ingerire, che rimane giudice ultimo di qualsiasi iniziativa internazionale di questo genere.
Bisogna poi ricordare che non vale di fatto per i membri permanenti del Consiglio di sicurezza che hanno il potere di veto e nemmeno per i loro protetti, il massacro israeliano a Gaza nel 2008 è lì a dimostrarlo in tutta evidenza, gli Stati Uniti e i loro alleati “proteggono i civili” solo quando fa comodo. Le stragi in Repubblica Centrafricana, Ciad e la stessa tragedia del Darfur, non hanno provocato alcuna reazione “umanitaria”, nessuna caccia ai dittatori, se non un affollarsi di gente a fare le foto nei campi-profughi del solo Darfur, perchè le crisi gemelle nei due paesi vicini gestiti dalla Francia attraverso due dittatori sanguinari, non sono nemmeno mai arrivate sui nostri schermi. Eppure si parla di stragi e crisi umanitarie senza paragoni con i fatti di Libia. Di umanitario quindi c’è davvero poco, al massimo il sentimento di qualche milione di telespettatori che trepidano da lontano.
Troppe eccezioni perché l’istituto dell’interventismo umanitario, ancorché plausibile nella teoria, possa essere considerato qualcosa di più di un’aspirazione per un futuro diverso. Aspirazione che ha finito per legittimare con la sua esistenza parecchie azioni che di umanitario non hanno nulla e del diritto anche meno. Appena meno infondate delle guerre preventive, ma niente di veramente solido in presenza di standard così platealmente diversi. Obama, Sarkozy e Cameron non sono i buoni che combattono i cattivi.
Paradossalmente invece è proprio lo slancio umanitario, che ancora una volta ha fatto breccia nelle opinioni pubbliche occidentali, molto vicine ai popoli che si vogliono liberare dei tiranni quando l’infotainment ne propone le sofferenze. È questo slancio che ha dato linfa politica all’intervento. Sono state le stesse minacce sconclusionate di Gheddafi e rendere ragionevole una risposta armata al cavallo matto che minaccia di far scorrere fiumi di sangue e ai suoi figli che guidano la repressione minacciando rivoltosi e nemici esterni.
Lo scopo evidente è quello di ricucire velocemente la crisi libica, prima che diventi una crisi seria ed elemento di disturbo per i paesi arabi vicini, dove rivoluzione e restaurazione si stanno giocando il futuro dopo il dittatore, e lontani. Chi paventa un tentativo di colonizzazione della Libia evidentemente era distratto quando la riabilitazione di Gheddafi ha consegnato il paese alle compagnie occidentali. Le decine di migliaia di di lavoratori fuggiti dall’inizio della rivolta non erano lì per accudire i libici, ma gli investimenti occidentali.
Petrolio e gas sono già stati divisi tra Usa ed Italia in particolare e anche chi si allarma per le nostre forniture è fuori strada, l’intervento atlantico è volto proprio a conservare i patti sottoscritti con il regime e chiunque verrà dopo non potrà fare a meno di confermare le buone condizioni che le dittature offrono in cambio della complicità degli investitori nei loro arricchimenti personali. Che concorrenti occidentali ci possano estromettere dalla Libia è poco probabile, non fosse che i gasdotti dalla Libia all’Europa passano quasi tutti per l’Italia.
A questo proposito, è abbastanza chiaro che l’attivismo francese non è dettato da brame per gli idrocarburi, ma all’interesse più vasto nel riproporsi come paese credibile agli occhi dei poteri che si affermeranno dopo le rivoluzioni. Come e forse più di Berlusconi, Sarkozy deve inoltre rimediare a passi falsi quali l’aver offerto la polizia francese in aiuto a Ben Alì e un atteggiamento molto simile, anche se meno folcloristico, a quello del governo Berlusconi. Sarkozy però a un certo punto si è ripreso, ha cambiato il ministro degli esteri ormai compromesso e si è buttato ad interpretare con convinzione ed energia la parte del paladino dei democratici in rivolta, mentre Berlusconi continua a subire gli eventi e a mandare in giro Frattini che ormai ha perso qualsiasi credibilità.
La Francia ha una politica estera e un’immagine da difendere nel mondo e Sarkozy non è Berlusconi, anche se poco tempo fa era lì che cercava di vendere a Gheddafi gli aerei che adesso la Francia usa per bombardarlo. La caccia a Gheddafi rappresenta un’ottima occasione di redenzione per tutti quei paesi che hanno sostenuto le ultime guerre fallimentari e anche un’occasione di parziale riabilitazione agli occhi di quei popoli oppressi per decenni da dittatori sostenuti dall’Occidente. Non tutti credono a questa scommessa, il rifiuto della Germania e di altri paesi testimonia l’esistenza di intelligenze diverse.
Data la consistenza delle forze libiche è prevedibile che la cosa si risolverà in un tiro al piccione, quasi esclusivamente dall’alto, al quale parteciperanno pro-quota i paesi “volenterosi”. La risoluzione lascia ampia libertà di manovra, oltre a blindati e aerei e truppe, è prevedibile che si cercherà di colpire Gheddafi e di cacciarlo, anche se nella risoluzione ONU non se ne parla. Peraltro la risoluzione impone la difesa della popolazione e Gheddafi è la minaccia evidente e dichiarata alla popolazione. Come al solito la differenza la farà il tipo d’intervento e la disponibilità a rischiare la vita di soldati europei e statunitensi, perché come al solito all’aumento della sicurezza degli attaccanti corrisponde un aumento del numero di vittime (presto sui nostri schermi gli “scudi umani”) e distruzioni maggiori.
Il ritardo con il quale gli Stati Uniti si sono attivati, che li ha costretti ad abbandonare malamente un alleato storico come Mubarak per salvare il salvabile in Egitto, ha fatto correre un brivido lungo la schiena dei regimi più autoritari e soprattutto delle monarchie, che non possono nemmeno opporre l’esistenza di elezioni-farsa a legittimare un potere platealmente antidemocratico.
Per questo le monarchie dell’area, dal Marocco all’Arabia Saudita, hanno blindato le strade e vietato le proteste, tattica adottata anche in Algeria. Il sovrano saudita si è addirittura fatto scrivere una fatwa che dice che le manifestazioni sono contro il volere di Dio e quindi vietate dalla religione dei preti di corte. Niente male per il custode dei luoghi santi, i sauditi campano da sempre servendosi della religione.
Il terrore è quello di vedere materializzarsi una piazza Tahrir, la discesa in strada di un numero di persone incontrollabile dalle forze di sicurezza se non a prezzo di un bagno di sangue, che le monarchie sarebbero pure disposte a versare, ma che rischierebbe di privarli del privilegio che permette loro di non essere criticate e indicate dai media globalizzati come regimi antidemocratici da abbattere. E nessuno può dire che il regime dei Saud e vicini sia meno duro di quello di Gheddafi.
Privilegio che hanno condiviso a lungo proprio con Gheddafi, Ben Alì e Mubarak, trattati per decenni da rispettabili capi di stato e all’improvviso spogliati persino delle ricchezze che hanno accumulato all’estero. La sicurezza di certi loro depositi e investimenti si è rivelata simile a quella del sostegno americano e occidentale e questo non può che allarmare i loro colleghi detentori di patrimoni stellari, tutti leader con il consenso ai minimi storici, che ora vedono minacciati simultaneamente il potere e il portafogli, se non la vita.
Non dev’essere costato molto alla Lega Araba dare il suo consenso all’operazione in Libia e fornire qualche aereo in modo da togliere la sgradevole patina coloniale all’intervento. Più dura l’Unione Africana, ma l’Unione Africana conta tanto che alla fine si è adeguata, limitandosi a deplorare e a raccomandare moderazione. L’UE non è pervenuta, se non in ordine sparso, bruciata sul tempo dai protagonismi di Sarkozy e Cameron.
Dal grande summit della diplomazia americana tenutosi da poco è uscita appena una lieve variazione semantica a tracciare la nuova rotta. Se un tempo gli Stati Uniti predicavano il regime change come necessario passaggio a democrazie più evolute, adesso la parola d’ordine è regime alteration e si traduce in una postura da equilibrista, con il Dipartimento di Stato che offre comprensione morale ai manifestanti e solidarietà reale ai dittatori minacciati, mentre in teoria deve lavorare perché i governi contestati producano qualche riforma democratica e ne promettano altre che poi si vedrà.
Non sono più i tempi di Bush e Obama si trova alla guida di una paese che era centro e motore della scena internazionale ec che poi è rimasto in panne ed è stato superato dalla storia. L’accelerazione impressa dai popoli arabi ha lasciato fermi gli Stati Uniti e bruciato ogni residua credibilità di al Qaeda come minaccia. Gli appelli dei qaedisti ai rivoluzionri sono caduti nel vuoto o respinti tra gli insulti, lo stesso Gheddafi prima si è detto aggredito da al Qaeda (quando Frattini diceva che i ribelli avevano già costituito un emirato) poi alle minacce occidentali ha risposto che potrebbe allearsi con al Qaeda.
L’assenza di un nemico credibile si è già dimostrata un problemone per la superpotenza americana, che ha un apparato militare ipertrofico che necessita di nemici e missioni all’altezza per giustificare il suo peso sull’indebitamento degli States e sulle tasse degli americani.
Sembrano tutte cosine serie e grondanti etica e nobiltà, proprio come certe cosine di Berlusconi, ancora di più osservando che i paesi del Golfo parteciperanno attivamente alla caccia a Gheddafi. Così avremo i prodi liberatori mandati dalle democrazie rappresentative che combattono accanto agli eserciti di altri identici a Gheddafi che fanno le stesse cose che per le quali si sta dando la caccia a Gheddafi. E nessuno ci troverà niente da ridire. Miracoli dell’infotainment del mondo libero.
http://mazzetta.splinder.com/post/24321847/perche-si-ricomincia-con-la-guerra
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Global Mind Project. Lo Spettacolo della Mente a Melbourne 19.03.2011
Karen Casey – GLOBAL MIND PROJECT: Spectacle of the Mind from Leonardo Electronic Almanac on Vimeo.
Global Mind Project è un’interfaccia software e una performance che ha coinvolto quattro performer di fama internazionale: Jill Orr, Stelarc, Domenico De Clario.
Il tutto si svolge a Melbourne (Australia) circa un anno fa con la direzione artistica di Karen Casey, alla realizzazione dell’innterfaccia lavora invece Harry Sokol. Il risultato, come potete osservare nel video, è notevolissimo. Cerchiamo di capirci meglio qualcosa insieme. Il progetto lega la dimensione magica, in cui tipicamente vengono meno le distinzioni fra le sfere del vivente e del non-vivente, e quella scientifica, che rende questo confine una zona sempre più ibrida portandoci a nuove esperienze di un corpo tecnologicamente esteso. Per lo spettacolo, realizzato in uno spazio pubblico (Federation Square), sul grande schermo come potete vedere si formano in continuazione immagini: il flusso di dati è generato dal cervello dei performer. Una complessa strumentazione e l’interfaccia software consentono infatti di catturare le onde celebrali umane e di manipolarle.
In scena dunque non solo gli artisti, ma anche la loro mente (o meglio una rappresentazione generativa della loro attività celebrale), regalandoci un doppio livello di lettura di questo spettacolo.
http://www.artsblog.it/post/7049/global-mind-project-lo-spettacolo-della-mente-a-melbourne
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Eni dopo il condono tombale vuole lo sconto sui danni ambientali 21.03.2011
Eni rilancia e dopo aver ottenuto un condono tombale che chiuda per sempre il contenzioso con il MATT e gli italiani ora chiede che ci sia anche un maxi sconto. Un anno fa la conferma della condanna a Eni e la richiesta di risarcimento per l’inquinamento e danno ambientale dei siti di Mantova, Cengio (Sv), Pieve Vergonte (Vb), Avenza (Ms), Napoli Orientale, Brindisi, Crotone, Gela, Priolo Gargallo e Porto Torres.
Ne scrive Il Fatto quotidiano (17 marzo 2011, pag. 16) che racconta dell’offerta fatta da Eni al MATT: un maxi sconto per chiudere il contenzioso. Sul piatto Eni mette 450milioni di euro. Ma recentemente è stata condannata a pagare dal tribunale di Torino 1.833.475.405,49 (un miliardo ottocentotrentatremilioni quattrocentosettantacinquemila quattrocentocinque quarantanove) per il solo disastro ambientale nel lago Maggiore causato dagli stabilimenti ENI di Pieve Vergonte.
Scrive Eni nel suo comunicato stampa:
La proposta è volta a favorire gli interventi ambientali e la chiusura del contenzioso attualmente pendente in materia di bonifica e di danno ambientale.
Ma fa sapere il Ministro Stefania Prestigiacomo che a capo del dicastero dell’Ambiente vive lo sconforto della casse vuote:
Eni ci ha offerto 450milioni di euro. Una somma che sarà valutata dagli organi di del ministero competenti (Ispra e Covis NdR) ma sulla quale io ho già espresso un parere negativo per quel che concerne una prima valutazione politica. Non si arriverà in tempi brevi al condono tombale perché il procedimento è molto complesso e vale anche per le amministrazioni locali che dovranno adeguarsi una volta siglato: ma in questo momento gli unici che lucrano da questa situazione sono gli avvocati e francamente possiamo evitare questo spreco di risorse. Vorrei però ricordare che tutti coloro che hanno subito danni alla salute possono comunque continuare con le azioni legali a propria tutela. Questo accordo riguarda solo i danni all’ambiente.
Ma la vogliamo dire tutta? Io credo che sia davvero un insulto la misera offerta fatta da Eni a fronte di un condono tombale e credo anche che la Prestigiacomo non accetterà perché diversamente non riuscirebbe a sdoganare il nucleare in Sicilia, nella sua Siracusa (cioè a Priolo Gargallo o a Augusta) perché già troppo inquinata.
Via | Io amo l’Italia
Foto | MATT su Facebook
http://www.ecoblog.it/post/12282/eni-dopo-il-condono-tombale-vuole-lo-sconto-sui-danni-ambientali
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Missili Cruise all’uranio impoverito sulla Libia
Un primo studio di impatto ambientale e sulla salute 21.03.2011
Massimo Zucchetti
Politecnico di Torino, Italia
Introduzione
Le questioni che riguardano l’Uranio impoverito e la sua tossicità hanno talvolta, negli anni recenti, esulato dal campo della scienza. Lo scrivente[1] si occupa di radioprotezione da circa un ventennio e di uranio impoverito dal 1999. Dopo un’esperienza di pubblicazione di lavori scientifici su riviste, atti di convegni internazionali e conferenze in Italia, sul Uranio impoverito, questo articolo cerca di fare una stima del possibile impatto ambientale e sulla salute dell’uso di uranio impoverito nella guerra di Libia (2011). Notizie riguardanti il suo utilizzo sono apparse nei mezzi di informazione fin dall’inizio del conflitto.[2]
Per le sue peculiari caratteristiche fisiche, in particolare la densità che lo rende estremamente penetrante, ma anche il basso costo (il DU costa alla produzione circa 2$ al kg) e la scomodità di trattarlo come rifiuto radioattivo, il DU ha trovato eccellenti modalità di utilizzo in campo militare.
Se adeguatamente trattata, la lega U-Ti costituisce un materiale molto efficace per la costruzione di penetratori ad energia cinetica, dense barre metalliche che possono perforare una corazza quando sono sparate contro di essa ad alta velocità.
Il processo di penetrazione polverizza la maggior parte dell’Uranio che esplode in frammenti incandescenti (combustione violenta a quasi 5000 °C) quando colpisce l’aria dall’altra parte della corazzatura perforata, aumentandone l’effetto distruttivo. Tale proprietà è detta “piroforicità”, per fare un esempio, la caratteristica dello zolfo dei fiammiferi. Quindi, oltre alla elevata densità, anche la piroforicità rende il DU un materiale di grande interesse per queste applicazioni, in particolare come arma incendiaria (API: Armour Piercing Incendiary cioè penetratore di armature incendiario).
Infine, in fase di impatto sull’obiettivo, la relativa durezza del DU (in lega con il Titanio) fornisce al proiettile capacità autoaffilanti: in altre parole, il proiettile non si “appiattisce” contro la corazza che deve sfondare, formando una “testa piatta” – come fa ad esempio un proiettile di Pb – ma mantiene la sua forma affusolata fino alla completa frammentazione, senza quindi perdere le proprietà penetranti.
In battaglia il DU è sicuramente stato impiegato nella Guerra del Golfo del 1991, durante i bombardamenti NATO/ONU sulla Repubblica Serba di Bosnia nel settembre 1995, sulla Jugoslavia nella primavera 1999; in questo secolo, durante lattacco all’Afghanistan e successivamente ancora in Iraq nel 2003.
L’uso di dispositivi al DU nelle guerre in Somalia ed in Bosnia centrale e centro-orientale (soprattutto ampie aree intorno a Sarajevo) negli anni ‘90, in Palestina ed in poligoni di tiro di competenza delle forze militari NATO, è ancora incompletamente documentato[3].
Tra gli armamenti che usano DU, citiamo anche il missile Cruise Tomahawk il cui utilizzo durante la guerra nei Balcani della primavera 1999, pur non ammesso dalla NATO è stato confermato da ritrovamenti in loco e da fonti della Unione Europea[4].
D’altra parte, nel decalogo degli ufficiali, consegnato a tutti gli uomini in divisa spediti in Kosovo, vi erano delle raccomandazioni da seguire alla lettera, circa la presenza di Uranio impoverito sul territorio e in particolare nei missili Cruiese Tomahawk. L’introduzione recita così:
«I veicoli ed i materiali dell’esercito serbo in Kosovo possono costituire una minaccia alla salute dei militari e dei civili che ne dovessero venire a contatto. I veicoli e gli equipaggiamenti trovati distrutti, danneggiati o abbandonati devono essere ispezionati e maneggiati solamente da personale qualificato. I pericoli possono derivare dall’Uranio impoverito in conseguenza dei danni dovuti alla campagna di bombardamento NATO relativamente a mezzi colpiti direttamente o indirettamente. Inoltre, i collimatori contengono tritio e le strumentazioni e gli indicatori possono essere trattati con vernice radioattiva, pericolosa per chi dovesse accedere ai mezzi per ispezionarli». Seguono consigli su come evitare l’esposizione all’Uranio impoverito. Testuale: «Evitate ogni mezzo o materiale che sospettate essere stato colpito da munizioni contenenti Uranio impoverito o missili da crociera Tomahawk. Non raccogliere o collezionare munizioni con DU trovare sul terreno. Informate immediatamente il vostro comando circa l’area che ritenete contaminata. Ovunque siate delimitate l’area contaminata con qualsiasi materiale trovato in loco. Se vi trovate in un’area contaminata indossate come minimo la maschera ed i guanti di protezione. Provvedete a un’ottima igiene personale. Lavate frequentemente il corpo e i vestiti».
Le valutazioni sulla quantità di DU utilizzato nei missili Cruise divergono.
In particolare, essi variano, nelle diverse fonti, fra valori intorno ai 3 kg, per andare invece fino a 400 kili circa. In nota si ha una compilazione delle diverse fonti reperibili su questo aspetto, assai importante ai fini della stima dell’impatto ambientale.[5]
Le prevedibili smentite sulla presenza di Uranio in questi missili si scontrano con la pubblicistica sopra riportata, ed anche su fonti di origine militare[6]
Questa grossa variabilita’ nei dati puo’ essere facilmente spiegata. Alcuni Cruise sono con testata appesantita all’uranio impoverito, altri no. Anche quegli altri, tuttavia, hanno uranio impoverito non nella testata del missile, ma nelle ali, come stabilizzatore durante il volo.
Allora possiamo definire due casi
– worst case: Cruise all’Uranio nella testata. Assumiamo 400 kili di DU.
– best case: Cruise non all’Uranio nella testata. Assumiamo 3 kili di DU nelle ali.
Calcolo di impatto ambientale e sulla salute
Nell’ampia letteratura dedidcata dall’autore al problema Uranio Impoverito [7] era gia’ stato affrontato un calcolo di contaminazione radioattiva da Uranio dovuto ai missili Cruise, in particolare quelli lanciati sulla Bosnia nel 1995. Lo studio e’ reperibile anche su internet, oltre che sulla rivista scientifica Tribuna Biologica e Medica.[8], [9].
Riprendendo i modelli utilizzati nell’articolo citato, si puo’ dedurre quale è la situazione di teatro, sui luoghi di inalazione, con un calcolo inteso solo ad accertare se, in almeno un caso realistico, l’ordine di grandezza delle dosi in gioco non permetta di trascurare il problema.
Consideriamo l’impatto di un missile Cruise Tomahawk che porti 3 kg (best case), oppure 400 kg (worst case) di DU.
L’impatto produce una nuvola di detriti di varie dimensioni, dopo combustione violenta a circa 5000°C. Il pulviscolo è, come detto, composto da particelle di dimensioni nel range [0.5 – 5] micron. Tra 500 e 1000 metri dall’impatto si possono respirare nubi con densità sufficiente a causare dosi rilevanti, composte da particelle che hanno una massa da circa 0.6 a circa 5 nanogrammi (6-50×10-10 g). E’ stata effettuata una stima mediante il codice di calcolo di dose GENII[10], trascurando gli effetti dovuti all’incendio e considerando soltanto l’esposizione per una inalazione di un’ora dovuta al semplice rilascio del materiale, non considerando alcuni fattori che potrebbero far ulteriormente crescere l’esposizione. In un’ora si può inalare pulviscolo radioattivo proveniente dalla nube in quantità già notevoli.
Occorre tener conto che i moti fluidodinamici del corpo atmosferico (direzione e velocità del vento, gradiente verticale di temperatura, etc.) possono causare, in angoli solidi relativamente piccoli, concentrazioni dell’inquinante anche parecchi ordini di grandezza superiori a quelli che si avrebbero con un calcolo di dispersione uniforme, che non ha senso in questo scenario. Gruppo critico, in questo caso, sono proprio quelle persone “investite” dalla nube di pulviscolo.
Un missile che colpisce il bersaglio può prendere fuoco e disperdere polveri ossidate nell’ambiente, secondo la stima delle probabilità che verra’ in questo lavoro.
Circa il 70% del DU, contenuto nei missili che si suppone vadano sempre a segno, essendo “intelligenti”, brucia. Di questo, circa la metà sono ossidi solubili.
La granulometria delle particelle costituenti la polvere di ossido di DU appartiene totalmente alle poveri respirabili, e vengono anche create polveri ultrafini. In particolare, il diametro delle particelle è in questo caso più fine rispetto alle polveri di uranio di origine industriale, comuni nell’ambito dell’industria nucleare. Si parla delle grande maggioranza delle polveri contenuta nel range [1-10] micron, con una parte rilevante con diametro inferiore al micron.
Per quanto riguarda il destino delle polveri di DU nel corpo umano, la via di assunzione principale è – come noto – l’inalazione. Come detto, parte delle polveri sono solubili e parte insolubili nei fluidi corporei.
Date le caratteristiche degli ossidi di DU di origine militare, occorre rilevare come esse abbiano comportamento differente rispetto alle polveri industriali di uranio. Si può comunque ancora supporre, secondo ICRP[11] che circa il 60% dell’inalato venga depositato nel sistema respiratorio, il resto viene riesalato.
Si può assumere che circa il 25% delle particole di diametro intorno a 1 micron vengano ritenute per lungo periodo nei polmoni, mentre il resto si deposita nei tratti aerei superiori, passa nel sistema digerente e da qui viene eliminato per la maggior parte attraverso le vie urinarie, mentre piccole parti passano ad accumularsi nelle ossa .
Del 25% di micro-particelle ritenute nei polmoni, circa la metà si comporta come un materiale di classe M secondo ICRP, ovvero è lentamente solubile nei fluidi corporei, mentre il resto è insolubile.
Questo tipo di comportamento e di esposizione non è stato studiato in nessuna situazione precedente di esposizione ad alfa emettitori nei polmoni, riscontrate in ambito civile. La modalità di esposizione è quindi molto differente da quelle sulla base delle quali si sono ricavate le equivalenze dose-danno in radioprotezione.
Non è pertanto del tutto corretto – sebbene costituisca un punto di riferimento – estrapolare valutazioni di rischio per esposizione a questo tipo di micro-polveri radioattive dai dati ricavati per i minatori di uranio, e neppure ovviamente dagli alto-irraggiati di Hiroshima e Nagasaki. Gli standard di radioprotezione dell’ICRP si basano su queste esperienze, e pertanto possono portare a sottostime del rischio in questo caso.
Passando poi ad altro tipo di tossicità rispetto a quella radiologica, è poi plausibile che:
– vista la componente fine ed ultrafine delle polveri di DU d’origine militare,
– vista la tossicità chimica dell’uranio,
la contaminazione ambientale da ossidi di DU di origine militare abbia tossicità sia chimica che radiologica: deve essere valutato l’effetto sinergico di queste due componenti.
In altre parole, la radioattività e la tossicità chimica dell’uranio impoverito potrebbero agire insieme creando un effetto “cocktail” che aumenta ulteriormente il rischio.
Si mette poi in risalto il fatto che il clima arido della Libia favorisce la dispersione nell’aria delle particelle di uranio impoverito, che possono venire respirate dai civili per anni. Il meccanismo principale di esposizione a medio-lungo termine riguarda la risospensione di polveri e la conseguente inalazione.
La metodologia e le assunzioni relative a questo modello sono già state pubblicate in altri lavori dell’autore[12] ai quali si rimanda. Vengono messe in evidenza qui soltanto le rifiniture e variazioni rispetto al modello applicato e già pubblicato, ed in particolare:
– Il calcolo di impegno di dose è a 70 anni e non più a 50 anni, secondo quanto raccomandato da ICRP.
– Si sono utilizzati dati per ora approssimati sulla distribuzione della popolazione intorno ai punti di impatto, che tengono anche conto dell’utilizzo principale dei proiettili al DU in aree popolate.
I risultati del modello possono essere così riassunti:
– CEDE (Dose collettiva): 370 mSvp in 70 y, per 1 kg di DU ossidato e disperso nell’ambiente.
– CEDE annuale massima nel primo anno (76 mSvp), cui segue il secondo anno (47 mSvp) e il terzo (33 mSvp).
– La via di esposizione è tutta da inalazione di polveri. L’organo bersaglio sono i polmoni (97.5% del contributo alla CEDE).
– Fra i nuclidi responsabili, 83% della CEDE è da U238, ed il 14% da U234
Per quanto riguarda la quantità totale di DU ossidato disperso nell’ambiente, si parte per questa valutazione dai dati riportati dalla stampa internazionale: nel primo giorno di guerra, circa 112 missili Cruise hanno impattato sul suolo libico[13]. Quanti missili verranno sparati prima della fine della guerra? Non e’ dato saperlo, faremo un’assunzione di circa 1000 missili sparati, e in ogni caso i valori che verranno stimati saranno variabili con una semplice proporzione.
Se tutti i missili fossero “privi” di DU, si avrebbe comunque una quantita’ di:
1000 * 3 = 3000 kili = 3 Tonnellate di DU (best case)
Se tutti i missili fossero con testate al DU avremmo una quantita’ fino a
400.000 kili = 400 tonnellate di DU.
Si confronti questo dato con le 10-15 Tonnellate di DU sparate nel Kossovo nel 1999 per valutarne la gravita’.
Si supponga che circa il 70% dell’uranio bruci e venga disperso nell’ambiente, arrivando così ad una stima della quantità di ossidi di DU dispersa pari a circa 2,1 tonnellate (best case) e 280 tonnellate (worst case).
Questo permette di stimare pertanto una CEDE (dose collettiva) per tutta la popolazione pari a:
Best case: 370 mSvp/kg * 2100 kg = 780 Svp circa
Worst case: circa 6200 casi di tumore in più, previsti in 70 anni.
Ribadiamo come non sia del tutto corretto – sebbene costituisca un punto di riferimento – estrapolare valutazioni di rischio per esposizione a questo tipo di micro-polveri radioattive dagli standard di radioprotezione dell’ICRP, che sono quelli adottati dal codice GEN II.
Se tuttavia applichiamo anche qui il coefficiente del 6% Sv-1 per il rischio di insorgenza di tumori, otteniamo circa
Best case: circa 50 casi di tumore in più, previsti in 70 anni.
Worst case: circa 6200 casi di tumore in più, previsti in 70 anni
Conclusioni
I rischi da esposizione ad uranio impoverito della popolazione della Libia in seguito all’uso di questo materiale nella guerra del 2011 sono stati valutati con un approccio il più possibile ampio, cercando di tenere in conto alcuni recenti risultati di studi nel settore.
Questo tipo di esposizione non è stato studiato in nessuna situazione precedente di esposizione ad alfa emettitori nei polmoni, riscontrate in ambito civile.
Tuttavia, la valutazione fatta delle dosi e del rischio conseguente alle due situazioni (Cruise “senza uranio” o “con uranio”) permette di trarre alcuni conclusioni.
Nel primo caso (best case), il numero di tumori attesi e’ molto esiguo d assolutamente non rilevante dal punto di vista statistico. Questa difficoltà statistica – come è appena ovvio rimarcare – nulla ha a che vedere con una assoluzione di questa pratica, una sua accettazione, o meno che mai con una asserzione di scarsa rilevanza o addirittura di innocuità.
Nel secondo caso (worst case), invece, siamo di fronte ad un numero di insorgenze tumorali pari ad alcune migliaia. Queste potrebbero tranquillamente essere rilevabili a livello epidemiologico e destano, indubbiamente, forte preoccupazione.
Occorre, percio, che gli eserciti che bombardano la Libia chiariscano con prove certe, e non asserzioni di comodo, la presenza o meno, e in che quantita’, di uranio nei loro missili.
In passato, ci sono state smentite “ufficiali” della presenza di uranio nei missili Cruise[14], ma proveniendo esse da ambienti militari, l’autore si permette di considerarle, come minimo, con una certa cautela.
Sulla base dei dati a nostra disposizione, le stime sull’andamento dei casi di tumore nei prossimi anni in Libia a causa di questa pratica totalmente ingiustificata sono assolutamente preoccupanti. La discussione sull’incidenza relativa di ognuno degli agenti teratogeni utilizzati in una guerra (Chimici, radioattivi, etc.) ci pare – ad un certo livello – poco significativa ed anche, sia consentita come riflessione conclusiva, poco rispettosa di un dato di fatto: i morti in Libia a cuasa di questo attacco superano e supereranno di gran lunga qualunque cifra che possa venire definita “un giusto prezzo da pagare”.
E’ importante infine raccogliere dati e ricerche – e ve ne sono moltissimi – nel campo degli effetti delle “nuove guerre” su uomo e ambiente; bisogna mostrare come le armi moderne, per nulla chirurgiche, producano dei danni inaccettabili; occorre studiate cosa hanno causato, a uomini e ambiente che le hanno subite, le guerre “umanitarie” a partire dal 1991.
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[1] Professore di prima fascia in “Impianti Nucleari” presso il Politecnico di Torino, titolare dei corsi di “Sicurezza e Analisi di Rischio” e “Protezione dalle Radiazioni”.
[2] http://contropiano.dyndns.org/en/archive/archivio-news/item/296-uranio-impoverito-nei-tomahawk-sulla-libia
[3] Zajic V.S., 1999. Review of radioactivity, military use and health effects of DU: http://members.tripod.com/vzajic; Liolos Th. E.(1999) , Assessing the risk from the Depleted Uranium Weapons used in Operation Allied Forces, Science and Global Security, Volume 8:2, pp.162 (1999); Bukowski, G., Lopez, D.A. and McGehee, F.M., (1993) “Uranium Battlefields Home and Abroad: Depleted Uranium Use by the U.S. Department of Defense” March 1993, pp.166, published by Citizen Alert and Rural Alliance for Military Accountability.
[4] Satu Hassi, Ministro dell’Ambiente Finlandese, ha inviato una lettera ai suoi pari grado nella UE, comunicando che la maggior parte dei 1500 missili sparati sulla Serbia, compreso il Kosovo, contenevano circa 3 kg di DU ognuno. Tra le altre cose, il ministro, nella lettera, fa un appello alla Commissione europea e ai suoi colleghi ministri dell’ambiente a prendere iniziative in favore del bando del DU.
[5] Varie fonti sulla presenza e quantita’ di DU nei missili Cruise Tomahawk
http://www.eoslifework.co.uk/pdfs/DU2102A3b.pdf
http://www.nadir.org/nadir/initiativ/mrta/ipan22.htm
http://web.peacelink.it/tematiche/disarmo/u238/documenti/uranio_impoverito.html
http://www.bandepleteduranium.org/en/a/60.html
http://www.mail-archive.com/ news@antic.orgThis e-mail address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it
/msg01570.html
http://vzajic.tripod.com/3rdchapter.html
http://www.envirosagainstwar.org/know/read.php?itemid=1712
http://cseserv.engr.scu.edu/StudentWebPages/IPesic/ResearchPaper.htm
Zajic, Vladimir S. “Review of Radioactivity, Military Use, and Health Effects of Depleted Uranium” [1 August, 1999]. 2/27/2002. <http://vzajic.tripod.com>
[6] While the US Navy claims that they have replaced the MK149-2 Phalanx round with a DU penetrator by the MK149-4 Phalanx round with a tungsten penetrator (with the DU round remaining in the inventory), new types of DU ammunition are being developed for other weapons systems, such as the M919 rounds for Bradley fighting vehicles. Depleted uranium is also placed into the tips of the Tomahawk land-attack cruise missiles (TLAM) during test flights to provide weight and stability. The TLAM missile has a range of 680 nautical miles (1,260 km) and is able to carry a conventional warhead of 1000 lb. (454 kg). Older warheads were steel encased. In order to increase the missile range to 1,000 nautical miles (1,850 km), the latest Tomahawk cruise missiles carry a lighter 700 lb. (318 kg) warhead WDU-36 developed in 1993, which is encased in titanium with a depleted uranium tip
[7] M.Zucchetti, ‘Measurements of Radioactive Contamination in Kosovo Battlefields due to the use of Depleted Uranium Weapons By Nato Forces”, Proc. 20th Conf. of the Nuclear Societies in Israel, Dead Sea (Israel), dec. 1999, p.282.
M.Cristaldi, A.Di Fazio, C.Pona, A.Tarozzi, M.Zucchetti “Uranio impoverito (DU). Il suo uso nei Balcani, le sue conseguenze sul territorio e la popolazione”, Giano, n.36 (sett-dic. 2000), pp. 11-31.
M.Zucchetti, ‘Caratterizzazione dell’Uranio impoverito e pericolosità per inalazione’, Giano, n.36 (sett-dic. 2000), pp. 33-44.
M.Cristaldi P.Angeloni, F.Degrassi, F.Iannuzzelli, A.Martocchia, L.Nencini, C.Pona, S.Salerno, M.Zucchetti. Conseguenze ambientali ed effetti patogeni dell’uso di Uranio Impoverito nei dispositivi bellici. Tribuna Biologica e Medica, 9 (1-2), Gennaio-Giugno 2001: 29-41.
M. Zucchetti, “Military Use of Depleted Uranium: a Model for Assessment of Atmospheric Pollution and Health Effects in the Balkans”, 11th International Symposium on “Environmental Pollution And Its Impact On Life In The Mediterranean Region”, MESAEP, Lymassol, Cyprus, October 2001, p.25.
M. Zucchetti “Some Facts On Depleted Uranium (DU), Its Use In The Balkans And Its Effects On The Health Of Soldiers And Civilian Population”, Proc. Int. Conf. NURT2001, L’Avana (Cuba), oct. 2001, p.31.
M. Zucchetti, M. Azzati “Environmental Pollution and Population Health Effects in the Quirra Area, Sardinia Island (Italy)”, 12th International Symposium on Environmental Pollution and its Impact on Life in the Mediterranean Region, Antalya (Turkey), October 2003, p. 190, ISBN 975-288-621-3.
M.Zucchetti, R. Chiarelli ‘Environmental Diffusion of DU. Application of Models and Codes for Assessment of Atmospheric Pollution and Health Effects’, Convegno ‘Uranio Impoverito. Stato delle Conoscenze e Prospettive di Ricerca’, Istituto Superiore di Sanità (Roma) Ottobre 2004.
R. Chiarelli, M.Zucchetti, ‘Effetti sanitari dell’uranio impoverito in Iraq’, Convegno ‘La Prevenzione Primaria dei Tumori di Origine Professionale ed Ambientale’, Genova, Novembre 2004. Poster reperibile al sito: http://registri.istge.it/italiano/eventi/poster%20n°25.htm
R. Chiarelli, M.Zucchetti, ‘Applicazione di modelli e codici di dose alla popolazione alla dispersione ambientale di Uranio impoverito’, Convegno ‘La Prevenzione Primaria dei Tumori di Origine Professionale ed Ambientale’, Genova, Novembre 2004. Poster reperibile al sito: http://registri.istge.it/italiano/eventi/poster%20n°26.htm
M. Zucchetti, “Environmental Pollution and Population Health Effects in the Quirra Area, Sardinia Island (Italy) and the Depleted Uranium Case”, J. Env. Prot. And Ecology 1, 7 (2006) 82-92.
M. Zucchetti, “Scenari di esposizione futura In Iraq: convivere con l’uranio impoverito” in: M.Zucchetti (a cura di) “Il male invisibile sempre più visibile”, Odradek, Roma, giugno 2005, pp. 81-98.
M. Zucchetti, “Uranio impoverito. Con elementi di radioprotezione ed utilizzo delle radiazioni ionizzanti”, CLUT, Torino, febbraio 2006. ISBN 88-7992-225-4.
M.Zucchetti “Depleted Uranium”, European Parliament, GiethoornTen Brink bv, Meppel (Holland), 2009. ISBN 978-90-9024147-0
[8] http://web.peacelink.it/tematiche/disarmo/u238/documenti/uranio_impoverito.html
[9] Cristaldi M. et al., Conseguenze ambientali ed effetti patogeni dell’uso di Uranio Impoverito nei dispositivi bellici. Tribuna Biologica e Medica, 9 (1-2), Gennaio-Giugno 2001: 29-41.
[10] Si tratta di un codice elaborato da un laboratorio statunitense, riconosciuto ed utilizzato a livello internazionale. Si veda la referenza: B.A.Napier et al. (1990), GENII – The Hanford Environmental Radiation Dosimetry Software System, PNL-6584, Pacific Northwest Laboratories (USA). Può venire in questo caso utilizzato solo per una stima delle dosi da inalazione, vista la particolarità dello scenario in esame.
[11] ICRP, 1995. Age-dependent Doses to Members of the Public from Intake of Radionuclides: Part 3 – Ingestion Dose Coefficients. Publication 69 Annals of the ICRP. 25 (no 1).
[12] M.Zucchetti, ‘Caratterizzazione dell’Uranio impoverito e pericolosità per inalazione’, Giano, n.36 (sett-dic. 2000), pp. 33-44; R.Chiarelli, M.Zucchetti, ‘Applicazione di modelli e codici di dose alla popolazione alla dispersione ambientale di Uranio impoverito’, Convegno ‘La Prevenzione Primaria dei Tumori di Origine Professionale ed Ambientale’, Genova, Nov.2004. http://registri.istge.it/italiano/eventi/poster%20n°26.htm
[13] http://abcnews.go.com/International/libya-international-military-coalition-launch-assault-gadhafi-forces/story?id=13174246
[14] ME Kilpatrick, “No depleted uranium in cruise missiles or Apache helicopter munitions – comment on an article by Durante and Publiese,” Health Physics, June 2002; 82(6): 905; Chief of the Radiation Protection Division, Air Force Medical Operations Agency, e-mail message, Subject: “Cruise Missiles,” May 6, 1999; Head of Radiological Controls and Health Branch, Chief of Navy Operations, e-mail message, Subject: “NO DU in Navy Cruise Missiles,” August 4, 1999.
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Libia. Dalla guerra civile alla guerra del petrolio 21.03.2011
Perché è saltato l’equilibrio di potere di Gheddafi? Chi sono “quelli di Bengasi”? Questa è una vera guerra del petrolio, rivelatrice della competizione globale e piena di incognite
di Sergio Cararo *
“E’ una rivolta dei giovani. Sono loro che hanno iniziato la rivoluzione… noi ora la stiamo completando”. In questa breve considerazione che il colonnello Tarek Saad Hussein riferisce al settimanale statunitense “Time” a fine febbraio, è possibile comprendere gran parte del processo che è stato impropriamente definito come “rivoluzione libica” (1)
Il col. Hussein è uno degli alti ufficiali del regime di Gheddafi passato quasi subito con i ribelli di Bengasi. Insieme a lui c’è tutto un settore rilevante dell’apparato statale del regime che ha dato vita allo scontro mortale con Gheddafi per sostituirlo con una nuova leadership. E’ vero, hanno mandato prima avanti i giovani. A Bengasi il 15 febbraio erano stati i giovani e i familiari dei prigionieri politici della rivolta del 2006 nella capitale della Cirenaica ad essere scesi in piazza davanti al commissariato dentro cui era stato rinchiuso l’avvocato Ferhi Tarbel, difensore degli arrestati nella rivolta di cinque anni prima. La manifestazione del 15 febbraio era stata repressa duramente – come purtroppo è la norma in Libia e in tutti i paesi del Medio Oriente. Due giorni dopo, una nuova manifestazione, vedeva però i manifestanti, già armati, passare subito all’escalation sul piano militare contro i poliziotti del regime di Gheddafi (2)
Una tempistica rapidissima e bruciante che non ha avuto neanche il tempo di manifestarsi come rivolta popolare di piazza per diventare subito una guerra civile. E’ vero, hanno iniziato i giovani, esattamente come avevano fatto i loro coetanei in Tunisia, Egitto, Algeria o – in tempi e modi diversi – nelle strade di Roma o nelle banlieues francesi. Avevano tutte le ragioni per farlo, anche nella Libia di Gheddafi. Ma dietro i giovani libici, hanno preso subito la situazione in mano – piegandola ai loro interessi – gli uomini del vecchio apparato di regime in rotta con il leader e ansiosi di ridefinire gli equilibri interni sconvolti dalla crisi finanziaria del 2008/2009 e dalle misure “liberiste ma non liberali” introdotte da Gheddafi nel 2003.
La brusca e feroce escalation militare nella brevissima rivolta popolare libica, ci ha convinti che quella avviatasi era piuttosto una guerra civile e per alcuni aspetti con tutte le caratteristiche di una “guerra di secessione” come avvenuto negli anni Novanta in Jugoslavia o più recentemente in Sudan. Una guerra civile ed una possibile secessione della Libia alla quale non sono certo estranei gli interessi delle potenze europee e degli USA sul petrolio e il gas libico.
Su questa valutazione abbiamo introdotto una prima chiave di lettura sulla crisi in Libia che ci ha portato molti consensi ma anche numerose critiche in molti ambiti della sinistra, persino di quella più radicale.
Con il brutale e consueto intervento militare, con i bombardamenti sulla Libia da parte di Francia, USA, Gran Bretagna ed altre potenze della NATO, la discussione potrebbe dirsi conclusa attraverso la realtà dei fatti. I fatti spiegano la realtà meglio di mille opinioni. Eppure riteniamo che questa vicenda della Libia debba e possa prestarsi ad un lavoro di chiarezza, informazione, formazione di un punto di vista critico e rivoluzionario della realtà, che stenta enormemente a farsi strada tra tante soggettività della sinistra e degli stessi attivisti dei movimenti No war.
Perché è saltato l’equilibrio su cui si reggeva il potere di Gheddafi?
Uno splendido articolo del direttore del giornale arabo Al Quds Al Arabi, segnala la preoccupazione per uno scenario che spiani la strada a quello che l’autore definisce il “Chalabi libico”. Abd al Bari Atwan, direttore palestinese di questo autorevolissimo giornale in lingua araba, descrive perfettamente la trappola dentro cui Gheddafi è caduto – volontariamente – per mano dei suoi nuovi amici occidentali, i quali, secondo Atwan, “hanno utilizzato con il colonnello libico lo stesso scenario che avevano utilizzato con il presidente iracheno Saddam Hussein, con alcune necessarie modifiche che sono il risultato delle mutate condizioni e della differente personalità di Gheddafi”. Il colonnello si è disperato perché i suoi nuovi amici occidentali non lo hanno aiutato mentre i ribelli di Bengasi lo stavano accerchiando. Se l’alleanza occidentale era stata costretta a sbarazzarsi di Mubarak, afferma Atwan, perché mai sarebbe dovuta intervenire a salvare Gheddafi? L’illusione del leader libico derivava dalle concessioni fatte a USA e Gran Bretagna nel 2000 e che nel 2003 lohanno portato fuori dalla lista nera dei “rogues states” e quindi lontano dai bersagli della guerra infinita scatenata dall’amministrazione Bush nel 2001.
“Washington e Londra hanno utilizzato l’esca della “normalizzazione” e della riabilitazione del regime libico, che avrebbe aperto la strada al suo ritorno nella comunità internazionale in cambio della sua rinuncia alle armi di distruzione di massa” – osserva Atwani – “Ciò avvenne nel 2003, cosicché americani e britannici poterono dire che la loro guerra in Iraq aveva cominciato a dare i suoi frutti. Dopo averlo spogliato delle armi di distruzione di massa, lo hanno adescato spingendolo a porre le sue riserve di denaro nelle banche americane e ad aprire nuovamente il territorio libico alle compagnie petrolifere britanniche ed americane, ancora più che in passato”. (3)
L’analisi dell’analista palestinese è spietata ma pertinente: “L’errore più grave che Gheddafi ha commesso è stato quello di fare all’Occidente tutte le concessioni che quest’ultimo gli chiedeva, e di non fare invece alcuna concessione al suo popolo che gli chiedeva libertà, democrazia e una vita dignitosa”.
La storia degli ultimi dieci anni ci racconta di un Gheddafi che ha aperto agli investimenti stranieri in cambio del ritiro delle sanzioni economiche a cui la Libia era sottoposta da anni. Non solo, nel 2033 vara un pacchetto di misure che include la privatizzazione di 360 imprese statali. “La Libia dopo la svolta compiuta da Gheddafi nei primi anni 2000” si è aperta agli investimenti occidentali – scrive un autorevolissimo sito specializzato sul Medio Oriente – Nel paese sono affluiti capitali italiani, inglesi, americani, turchi, cinesi”. Nel 2003 la Libia era diventata una delle nuove frontiere della globalizzazione del continente” – riferiscono gli analisti dell’autorevole sito Medarabnews – “il nuovo Eldorado per molte società europee e americane” (4)
Mentre la produzione petrolifera è rimasta bloccata dalle quote imposte dall’OPEC (ma con significativi aumenti del prezzo del petrolio), tra il 2003 e il 2007 la produzione di gas naturale libico è praticamente triplicata. Non solo, la qualità e i costi di recupero del greggio relativamente bassi del petrolio libico, “rendono la Libia un importante attore del settore energetico globale” (5).
La Libia si è trovata così a disporre di una enorme liquidità finanziaria da investire – tramite il boom dei fondi sovrani sviluppatisi nei paesi petroliferi – in banche e attività nei maggiori paesi capitalisti. Da qui l’entrata in Unicredit, Finmeccanica, Eni o la permanenza nel capitale della Fiat.
Per il regime di Gheddafi sono dieci anni d’oro dopo anni di embargo e ostracismo. Incontri con Condoleeza Rice e l’amministrazione USA. Incontri favolosi con Berlusconi (ma anche con Prodi). Non solo. Vengono siglati dei Trattati bilaterali con i paesi europei che sono posti a guardia delle due maggiori vulnerabilità dell’Unione Europea: garanzie dell’approvvigionamento energetico e blocco delle ondate migratorie. Gheddafi diventa così il garante di entrambe.
Qualche giorno prima degli incidenti di Bengasi a febbraio, lo stesso Fondo Monetario Internazionale il 9 febbraio rilasciava una valutazione del nuovo corso libico quasi entusiasta: “Un ambizioso programma per privatizzare banche e sviluppare il settore finanziario è in sviluppo. Le banche sono state parzialmente privatizzate, liberati i tassi di interesse e incoraggiata la concorrenza” (6)
A sconquassare la “Belle Epoque” libica, così come del resto del mondo legato al ciclo economico del capitalismo euro-statunitense, è arrivata la crisi finanziaria e globale del 2008/2009. Secondo alcuni osservatori attenti a valutare le conseguenze della crisi libica sull’Occidente, il punto di rottura è stato proprio questo: “La crisi finanziaria tra il 2008 e il 2009, ha ridotto del 40% i ricavi dei pozzi di petrolio, intaccando il rapporto tra il capo e le tribù, che con la ribellione stanno rompendo il patto economico e d’onore” (7).
E’la crisi globale, dunque, la stessa crisi sistemica che sta squassando i capitalismi negli USA e in Europa a mettere in crisi l’equilibrio raggiunto tra Gheddafi e le varie componenti (economiche e tribali) su cui si è retto per 41 anni il regime libico. Ma non c’è solo questo.
La svolta panafricana di Gheddafi nel 1997, che porta alla rottura definitiva con l’ipotesi panaraba perseguita fino ad allora, apre le frontiere della Libia ad una enorme immigrazione dall’Africa che destabilizza gli equilibri nella popolazione, nel mercato del lavoro e nella distribuzione delle rendite petrolifere. Su una popolazione libica di 6,5 milioni di abitanti, si tratta di “circa un milione e mezzo (forse due milioni, nessuno conosce la cifra esatta) di lavoratori provenienti da paesi come il Mali, il Niger, la Nigeria, Il Sudan, l’Etiopia, la Somalia etc. forniscono manodopera a bassissimo costo per l’industria petrolifera, il settore edile, quello dei servizi, l’agricoltura” ma l’apertura delle frontiere libiche all’Africa sub-sahariana “suscita gravi tensioni nel paese a causa dell’enorme afflusso di immigrati” (8)
L’effetto di questa immigrazione nelle relazioni sociali in Libia, è anche la causa della vera e propria esplosione di episodi razzismo contro gli africani (additati come “mercenari di Gheddafi”) da parte dei ribelli di Bengasi, segnalati anche da Amnesty International e Human Rights Watch e da tutti i corrispondenti e inviati nelle zone controllate dai ribelli.
“La rivolta libica ha innescato la più vasta esplosione di violenza razziale registrata in un paese nordafricano….Lo stesso regime del Colonnello è corresponsabile di un’ondata di razzismo cos’ feroce. I nemici del colonnello stanno istigando sciovinismo e xenofobia contro i neri africani. Permettere che un simile, palese fanatismo razzista si diffonde all’interno delle aree “liberate” è rischioso” scrive un autorevole giornale arabo decisamente ostile a Gheddafi (9).
Chi sono “quelli di Bengasi”?
La domanda che in molti si pongono e alla quale pochi sanno o vogliono dare risposte è: chi sono i ribelli contro Gheddafi? Qualcuno la risolve con troppa semplicità definendoli come “il popolo libico” e dunque i nostri alleati morali e politici. Altri brancolano totalmente nel buio. Altri ancora li guardano con sospetto solo dopo averli visti inneggiare ai bombardamenti della NATO sulla Libia così come fecero i kossovari dell’UCK in Jugoslavia nel 1999. Conoscere serve per capire, e capire serve a definire la propria azione politica.
Secondo alcuni analisti dei think thank vicini alla NATO e ai suoi circoli in Italia, l’interrogativo è se la rivolta contro Gheddafi e nelle rivolte avvenute nei paesi del Maghreb “evolverà verso un nuovo sistema politico più stabile, in grado di soddisfare le esigenze delle nuove classi che hanno iniziato questo processo, oppure se, in mancanza di ciò, gli stati arabi continueranno a indebolirsi fino a fallire” (10).
La rottura del patto con Gheddafi, farebbe emergere in Libia “l’esistenza di una elite di funzionari civili e filo-occidentali che in queste ore sta prendendo le distanze dalla carneficina scatenata da “cane matto” sostiene l’Istituto Affari Internazionali (11).
Altri analisti preferiscono alimentare lo schema secondo cui la rivolta libica è stata in tutto simile a quelle della Tunisia e dell’Egitto, con un ruolo preponderante dei giovani e soprattutto di giovani interni alla modernità ed estranei alle eredità tribali della struttura sociale libica. “Il movimento ribelle ha dimostrato una maturità democratica insospettata e una stupefacente capacità di auto-organizzarsi e di coordinare le diverse città e le diverse componenti della rivolta. Anche in questo caso i giovani hanno giocato un ruolo di primo piano nella gestione delle proteste e della lotta contro il regime”. E a proposito di giovani gli estensori di questa analisi precisano: “I giovani libici si affacciano sul Mediterraneo e guardano all’Europa. Essi hanno formato la loro coscienza anche grazie a strumenti come internet e i social network che hanno favorito il fluire delle idee e l’abbattimento delle barriere solitamente presenti in un regime dittatoriale” (12).
Questa analisi della composizione dei “ribelli di Bengasi” opta decisamente per una visione generazionale, moderna e conseguentemente democratica della rivolta libica, offrendo un modello perfettamente coincidente con quanto le società civili europee potrebbero e vorrebbero desiderare per sentirsi in una sorta di comunità di destino con i ribelli libici.
Altri osservatori insistono invece molto sulla dimensione tribale dei rivoltosi contro Gheddafi. In alcuni casi la strumentalità di questa analisi è evidente cercando di alimentare il punto di vista sionista e neoconservatore statunitense. Secondo costoro i ribelli di Bengasi o già sono o possono diventare manovalanza per l’estremismo islamico. Le notizie sull’emirato islamico fondato a Derna dai ribelli anti-Gheddafi hanno circolato abbondantemente ma non hanno trovato finora conferme significative. Certo, la Cirenaica è la regione libica dove l’influenza dei gruppi islamisti – nonostante la repressione – è rimasta più forte. L’ultima rivolta – quella di Bengasi nel 2006 contro le provocazioni del ministro italiano Calderoli – era apertamente ispirata e sostenuta dai gruppi islamisti e fu repressa da Gheddafi con il consenso e il plauso di tutti i governi europei, arabi “moderati” e dagli Stati Uniti.
In altri casi, la chiave di lettura dello scontro tribale non indugia nell’alimentare il fantasma di Al Qaida, ma segnala come la struttura tribale della Libia abbia da un lato impedito la costruzione di uno Stato propriamente detto e dall’altra ne minaccia la precipitazione tra “gli Stati falliti” evocando lo spettro della Somalia. Secondo un esperto statunitense di un centro studi sul Medio Oriente ed ex agente della CIA nella regione, le tribù contano molto, anzi “sono decisive” nella guerra civile in atto in Libia. “Dopo essere state per quarant’anni obbligate a ubbidire ai desideri del colonnello e della sua tribù, che è molto piccola, ora vedono la possibilità di rovesciare l’equilibrio delle forze, prendendosi molte rivincite” (13).
Certo la struttura tribale in Libia non è affatto un dettaglio. Alcuni ne contano 140 alle quali apparterrebbero l’85% dei libici, di cui due/tre più importanti di altre. Gheddafi negli anni ’90, aveva rinnovato la propria alleanza con i leader tribali, le tribù diventarono di fatto i garanti dei valori sociali, culturali e religiosi del paese. In particolare strinse un’alleanza con la tribù Warfalla, la principale tribù della Tripolitania (circa un milione di persone). I posti chiave dei servizi di sicurezza vennero dati ai membri delle tribù Qadhafha e Maqariha, la prima è la tribù dello stesso Gheddafi, alla seconda appartiene l’ex delfino Jalloud defenestrato più di vent’anni fa. Entrambe erano il nucleo centrale della Rivoluzione del 1969.
Se è vero che con la crisi finanziaria del 2008/2009 c’è stata una severa riduzione della torta da spartire nel patto tra le tribù, l’ipotesi che questo abbia coinciso con lo scontro interno al gruppo dirigente libico e determinato la guerra civile, appare estremamente plausibile. Sicuramente il fattore tribale non è affatto rimovibile da una seria analisi della composizione dei “ribelli di Bengasi” e in qualche modo offusca l’idea di una rivolta fatta solo di giovani con l’Ipod e il computer che aspirano alla democrazia e che “guardano all’Europa”.
Ma sulla composizione dei ribelli di Bengasi e del Consiglio Provvisorio di Transizione , una struttura che è stato riconosciuta ufficialmente dalla Francia e che alcuni pacifisti guerrafondai o bellicisti umanitari vorrebbero far riconoscere anche dal governo italiano, ci sono ancora alcune cose da dire e non certo per importanza.
Non può non colpire il fatto – non l’opinione – che tra i membri più influenti del Consiglio Provvisorio di Bengasi ci siano tanti esponenti del vecchio apparto del regime di Gheddafi.
Il presidente è l’ex ministro della giustizia libico Mustafà Abdel Jalil, bengasino come lo è l’ex ministro degli interni, il generale Abdul Fattah Younes passato con i ribelli alla fine di febbraio. Praticamente due che hanno condiviso con il regime la repressione e la “giustizia”…fino a febbraio.
L’ex generale ed ex ministro Abdul Fattah Younes “è stato già individuato dagli osservatori internazionali come possibile attore del futuro della Libia; il ministro degli esteri britannico William Hague ha già parlato a lungo al telefono con lui” (14)
Ma tra i ribelli ci sono anche l’ ex ambasciatore presso la Lega Araba Abdel Monehim Al Honi, l’ambasciatore presso l’ONU Abdullarhin Shalgam (tra l’altro ex ambasciatore in Italia per moltissimi anni), gli ambasciatori in Inghilterra, Francia (guarda un po’), Spagna, Germania, Grecia, Malta e l’attuale ambasciatore libico in Italia. A Bengasi ci sono poi i militari come il colonnello Hussein citato all’inizio del nostro articolo e tanti altri ex alti ufficiali delle forze armate libiche. Alcuni fonti confermano che Gheddafi nel tempo aveva trascurato le forze armate regolari a vantaggio delle forze di sicurezza personali inducendo malumori, gelosie ma soprattutto riduzioni di prebende tra le gerarchie militari. Su questo hanno indubbiamente lavorato nei mesi precedenti la “rivolta” i servizi segreti britannici, statunitensi, francesi ma anche quelli italiani. “Intuiamo dietro i ribelli un agitarsi dei servizi segreti occidentali, specie anglosassoni, ma non abbiamo un’idea del loro reale livello di coinvolgimento” scrive un importante esperto di Medio Oriente (15).
Ma in questi giorni stanno ormai emergendo con maggiore precisione queste “presenze sul campo”dei corpi speciali delle truppe britanniche al fianco dei ribelli di Bengasi già nei primissimi giorni della “rivolta” contro Gheddafi: “centinaia di militari delle Sas, uno dei corpi più elitari del pianeta, sarebbero infatti in azione al fianco dei ribelli da un mese, con il compito di distruggere i sistemi di lancio dei missili terra-aria del colonnello” scrive il corrispondente da Londra de La Stampa (16)
Perché “quelli di Bengasi” non possono essere i nostri interlocutori o alleati
E’ ormai evidente come nel Consiglio Provvisorio di Bengasi sia preponderante una parte dell’ex apparato di potere del regime libico e che, come afferma sardonicamente il colonnello Hussein alla giornalista del Time…”hanno completato la rivoluzione iniziata dai giovani”. I giovani o quelli ispirati a oneste istanze di democratizzazione e autodeterminazione del popolo libico, sono stati immediatamente emarginati e ridotti al silenzio, esattamente come le voci o i cartelloni a Bengasi che si dicevano contrari all’intervento straniero in Libia per regolare i conti con Gheddafi.
Al contrario, il settore ormai prevalente nel Consiglio Provvisorio non vuole una rivoluzione, vuole solo sostituire il potere di Gheddafi con il proprio ed ha trovato nelle potenze europee e negli Stati Uniti, ma anche in certi correnti di consenso “democratico” in occidente, la leva giusta per scalzare dal potere Gheddafi, sostituirlo e dare vita ad una nuova spartizione della ricchezza derivante dal gas e dal petrolio della Libia.
Per fare questo hanno approfittato della congiuntura favorevole derivata dalle rivolte popolari in Tunisia ed Egitto (queste sì possiamo ritenerle tali), hanno mandato avanti i giovani, hanno tentato un colpo di stato e di fronte al suo fallimento hanno scatenato una guerra civile, forti del fatto che quest’ultima aveva maggiore possibilità di “internazionalizzare” la crisi interna libica e favorire l’intervento di agenti esterni. Le bombe della Francia e della Gran Bretagna, i missili statunitensi che stanno piovendo sulla Libia confermano che questo è lo scenario possibile.
Se tolgono di mezzo Gheddafi il cerchio si chiude e lo “scenario A” può realizzarsi.
Se Gheddafi resiste è pronto lo “scenario B”, quello secessionista, che porterebbe la Cirenaica (dove ci sono la maggioranza dei pozzi petroliferi e del gas) nelle mani della camarilla che controlla il Consiglio Provvisorio di Bengasi e gli consentirebbe di trattare direttamente le multinazionali petrolifere di una Francia affamata di petrolio e gas a fronte della crisi del nucleare, di quelle di una Gran Bretagna danneggiate dall’incidente nel Golfo del Messico (la BP), di quelle statunitensi alla ricerca di un petrolio meno caro da estrarre come quello libico rispetto ad altri giacimenti petroliferi costosi come sono le piattaforme in mezzo al mare.
Il terzo scenario – la cosiddetta “Somalizzazione” – per ora viene esorcizzato da tutte le componenti, ma non possiamo negare che le vecchie potenze coloniali cominciano ormai ad agire come apprendisti stregoni seminando in giro più sangue e destabilizzazione che stabilità (vedi Afghanistan, Iraq, Corno d’Africa, Medio Oriente).
No all’intervento militare contro la Libia… ma né Gheddafi né Bengasi!!
Vogliamo dirlo chiaro e tondo. Non abbiamo motivo di particolare simpatia per Gheddafi. Ha avuto un suo passato anticolonialista, ha subìto i bombardamenti USA nel 1981 e nel 1986 e gli attacchi militari francesi per le sue iniziative antiegemoniche e anticolonialiste contro gli Stati Uniti e la Francia, ma ha fatto anche volontariamente tutte le scelte che lo hanno riportato nella trappola dell’occidente. Ha firmato trattati bilaterali vergognosi con l’Italia e l’Unione Europea ed ha riportato gli interessi del proprio popolo e dell’economia della Libia dentro gli interessi strategici dei vari competitori imperialisti. Sulla sua sorte possiamo solo augurargli di non finire come Ben Alì e Mubarak fuggiti all’estero e di resistere o morire con dignità nel proprio paese.
Ma vogliamo dire anche chiaro e tondo che nessuno venga a proporre di sostenere o riconoscere “quelli di Bengasi”. Per moltissimi aspetti sono peggiori di Gheddafi. Non sono affatto “il popolo libico in rivolta”, sono solo un gruppo di potere in lotta contro il vecchio apparato di potere.
Il popolo libico, messo alle strette dalla realtà è stato costretto a schierarsi una parte con Gheddafi e una parte con quelli di Bengasi. Le sue legittime aspirazioni alla democratizzazione e alla redistribuzione della ricchezza derivante dalle risorse del paese, al momento non trovano spazio nella polarizzazione seguita alla guerra civile né, tantomeno, nelle priorità degli interessi strategici delle potenze occidentali impegnate nell’intervento militare in Libia.
Per questo abbiamo affermato che quella in Libia non era una rivolta popolare, come avvenuto in Tunisia e in Egitto, ma era una guerra civile via via resa sempre più funzionale agli interessi strategici delle multinazionali europee e statunitensi. Interessi che possono coincidere o divaricarsi rapidamente dentro il Grande Gioco della competizione globale sulle risorse energetiche oggi in una fase resa acutissima dalla crisi internazionale.
Quella in Libia è una vera guerra per il petrolio. Rivelatrice e piena di incognite
Emblematico di questa realtà della competizione ormai a tutto campo sul piano energetico, è ad esempio il ruolo giocato dentro la Lega Araba e contro la Libia dalle petromomarchie arabe del Golfo riunite nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Da un lato hanno ottenuto con questa collaborazione all’attacco militare che nessun membro della “comunità internazionale” mettesse becco sulla repressione contro le rivolte popolari in Yemen e Barhein (dove c’è stato addirittura l’intervento militare diretto dell’Arabia saudita nella repressione). Emblematico anche il ruolo dell’emirato del Qatar – azionista di riferimento della televisione satellitare Al Jazeera – che non solo ha inviato quattro aerei da combattimento a bombardare la Libia, ma che stavolta ha affiancato l’altra emittente satellitare Al Arabija (sotto controllo saudita) nel lavoro di manipolazione informativa e di legittimazione dell’attacco militare in Libia.
Dall’altro le petromonarchie arabe del Golfo hanno svolto il ruolo di garanzia sia alle forniture petrolifere per i paesi europei di fronte al buco apertosi con l’interruzione delle forniture libiche, sia di garanzia affinchè le transazioni petrolifere continuassero ad essere pagate in dollari (un enorme assist per l’economia USA alle prese con un debito pubblico stellare), sbarrando così la strada all’ipotesi che qui e là veniva emergendo, di pagamento in euro e yuan cinese nelle transazioni petrolifere da parte di diversi paesi petroliferi come l’Iran, il Venezuela, la Libia, la Russia e … la Libia, una sorta di nuova Opec diversa e separata da quella sotto stretto controllo saudita.
E’ evidente come la stessa crisi del nucleare esplosa insieme alla centrale atomica di Fukushima in Giappone, espone alcune potenze come la Francia a tutta la vulnerabilità di un sistema energetico fondato proprio sul nucleare. La fretta e l’oltranzismo di Sarkozy nello scatenare la guerra sulla Libia non è solo per recuperare l’immagine offuscata dalla vicenda Tunisia o un riequilibrio sul piano militare verso la Germania dominante sul piano economico nella gerarchia dell’Unione Europea (in questo agisce il solito gioco di sponda con la Gran Bretagna), ma è anche il diktat delle multinazionali del petrolio e del gas francesi al loro governo per assicurarsi almeno una parte dei molto vicini giacimenti libici e delle multinazionali del nucleare affinchè – a fronte di una impennata dei prezzi petroliferi dovuti alla guerra in Libia – l’opzione nucleare francese continui a rimanere ben presente sul terreno nonostante lo stop all’atomo che sta crescendo dopo la catastrofe nucleare in Giappone.
L’intervento militare delle potenze della NATO nel conflitto, a sostegno di una fazione (quella di Bengasi) contro l’altra fazione (quella di Gheddafi), conferma la validità della tesi della guerra civile e non di una rivolta popolare in Libia. Ma questa per noi non può essere una consolazione. E’piuttosto la consapevolezza della drammaticità della crisi globale dell’economia capitalista e della brusca ridefinizione dei rapporti di forza internazionali, cioè di quel piano inclinato del capitale che indicammo chiaramente all’inizio di questo decennio e che sembra portare la civiltà del capitalismo verso un baratro dove sta trascinando l’intera umanità.
O da questa crisi di civiltà del capitalismo o sapremo far emergere una nuova opportunità per le forze “rivoluzionarie” in grado di invertire la tendenza oppure, come diceva il vecchio Marx, rischia di concludersi “con la fine di tutte le classi in lotta”.
*direttore di Contropiano, giornale della Rete dei Comunisti
Note:
(1) Corrispondenza di Abigail Hauseloner sul “Time” del 26 febbraio 2011
(2) “Così è nata la rivoluzione. Per i soldi non per l’islam”, La Stampa del 2 marzo 2011
(3) Abd Al Bari Atwan. “Attenti al Chalabi libico” su Al Quds Al Arabi del 2 marzo 2011
(4) L’emirato libico e il letargo dell’Europa. In http://www.medarabnews.com febbraio 2011
(5) “Crisi libica e impatto energetico con l’Italia” in Affari Internazionali del 25 febbraio 2011. Affari Internazionali è una pubblicazione web dell’Istituto Affari Internazionali, un think thank italiano strettamente legato agli ambienti NATO e filo-atlantici.
(6) http://www.imf.org/external/mp/sec/pn/2011
(7) “E se il rais resta al potere? Tre scenario per l’Occidente”, Corriere della Sera, 4 marzo 2011
(8) Analisi redazionale di Medarabnews. com del 16 marzo 2011-03-20
(9) Al Ahram weekly del 16 marzo 2011
10) “Nord Africa, rivoluzione o Gattopardo?”; Stefano Silvestri su Affari Internazionali del 14 /2/2011
11) “Libia è il momento di interferire”, Roberto Aliboni su Affari Internazionali del 24 marzo
12) Analisi redazionale di Medarabnews.com del 25 febbraio 2011
13) Intervista a Frank Anderson, su La Stampa del 9 marzo 2011
14) Il Foglio del 5 marzo 2011
(15) Giuseppe Cucchi, coordinatore dell’area di politica e sicurezza internazionale di Nomisma. “Tre scenari per la Libia” Pubblicato in Affari Internazionali del 5 marzo 2011.
(16)”I Sas di Sua Maestà a fianco dei ribelli”, su La Stampa del 21 marzo 2011
http://www.contropiano.org/Documenti/2011/Marzo11/21-03-11LibiaVeraGuerra.htm
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Nel cuore di tenebra della Libia 21.03.2011
La via d’accesso a Kurtz era lastricata di così tanti pericoli quasi fosse una principessa addormentata sotto l’effetto di un incantesimo in un favoloso castello. (Conrad, Cuore di Tenebra)
La guerra di Libia del 2011, remake tecnologico dell’avventura coloniale italiana del 1911, può essere spiegata chiudendo con le metafore dell’impero e le categorie della governance delle relazioni internazionali che sono state utilizzate lungo tutto il decennio bushiano. Questo non certo per amore di polemica verso chi, a volte produttivamente altre meno, ha utilizzato queste categorie. Ma perché l’ibrido rappresentato dal tipo di guerra messa in atto dalla colazione dei volenterosi, tra modalità di intervento tipiche del periodo Bush e altre del periodo Clinton, ha delle peculiarità che marcano la fine di un’epoca. Quando c’è infatti una guerra in corso che a qualche giorno dall’inizio non ha ancora trovato una catena di comando, né un’alleanza definita, è impossibile parlare di impero. Manca la sovranità diretta, di fondo, immediatamente riconoscibile del potere imperiale (anche se trasfigurato e dislocato nelle costellazioni politiche odierne). Certo, c’è l’impatto dal cielo delle tecnologie belliche. Che però, in assenza di un potere riconoscibile, somigliano più ad una maledizione che al segno imperiale del comando. Non sono perciò meno sinistre ma esprimono un potere politico indeterminato. E la composizione del “chi comanda” in guerra è decisiva per le sorti di un conflitto. E se manca un simbolico imperiale, in una guerra la cui origine politica è l’assenza di comando (per rispondere immediatamente ad un’assenza di governo in Libia), non è presente però una strategia di governance del conflitto. Se prendiamo Governing as Governance di Ian Kooiman, che è un’ottima classificazione delle tipologie di governance specie quando si intrecciano con le categorie tattiche di governo, ci rendiamo conto di come la guerra in Libia non risponda neanche alle leggi di quel mondo. Nella confusa ed improvvisata alleanza dei volenterosi, formatasi per la guerra di Libia, sono saltate immediatamente quelle due caratteristiche fondamentali dell’intreccio tra governo e governance visto per quasi un ventennio come costitutivo per il superamento delle crisi. E’ saltata la credibilità della razionalità di governo ovvero la meta-norma di governo (secondo Kooiman) che fa riconoscere una istituzione come tale in qualsiasi frangente e soprattutto all’interno, là dove si manovra. Ed è saltata poi la gerarchia, che è un prerequisito irrinunciabile della governance. Ovvero della gestione di un terreno di interesse pubblico (in questo caso il militare) che tenga conto di una pluralità di interessi ma anche di precise gerarchie di decisione che la rendono possibile. Nel caso della guerra di Libia, nel momento in cui non è chiaro chi partecipa, e c’è confusione sulla gerarchia, la governance passa dall’essere una tecnologia di governo al definirsi come semplice caso da manuale. Il punto più intelligente delle tecnologie politiche capitalistiche del mondo globale salta quindi da solo sotto la spinta della velocità della crisi, degli interessi delle corporation dell’energia, nel ridefinirsi precipitoso e conflittuale delle alleanze. Separare la formazione del terreno della strategia politica (il governo) dall’atto che mette in pratica le decisioni (la governance) a partire dall’inizio degli anni ’90 era ritenuto il comportamento politico più complesso ed efficace da adottare in caso di crisi. Alla prova dei fatti di oggi entrambi i piani si dissolvono. Ed è il campo, là dove si fa la guerra, che si registranno gli effetti di questa mutazione. Già l’Afghanistan, più dell’Iraq, aveva messo in crisi le pratiche di governance militare. Ancora oggi non è chiaro quali siano i livelli di razionalità politica per il governo della crisi afghana e le gerarchie di governance militare. La Libia ratifica la crisi di un modello entrato in grande difficoltà in Asia. Le prime ore di bombardamento di Tripoli sono, dal punto di vista della governance militare, una sorta di anarchia creativa nei bombardamenti e nelle incursioni. Ciò che si temeva, e si teme, a Kabul si è imposto come prassi a Tripoli.
Nonostante si sia alla quinta guerra umanitaria in vent’anni siamo di fronte ad un fatto storico: dalla prima guerra del Golfo di Bush padre (1991), mossa esplicitamente in nome di un new worldorder successivo alla caduta del muro, hanno tenuto banco nel linguaggio della teoria politica la simbolica dell’impero e le categorie della governance. Sono entrambe saltate, la cosa fa sorridere se si pensa che James Rosenau, uno degli studiosi di punta di questo genere di categorie politiche, si era addirittura adoperato per la costruzione di una ontologia della governance. Ma radicalizzare fino alle categorie dell’Essere i concetti politici è sempre un sintomo della incombente crisi di questi ultimi. Ora ci penserano gli stregoni dello star-system internazionale delle scienze politiche, assieme a quelli del marketing, a costruire qualche nuovo rito teorico per l’esorcizzazione delle crisi.
Ma come leggere l’intervento della coalizione in Libia? Con quali categorie politiche? Se si danno risposte efficaci a queste domande allora si può prevedere quello che può accadere sul campo. E se gli eventi prendono una piega che prevede la mobilitazione della popolazione anche agire con una certa efficacia.
Qui in un punto dobbiamo prendere per vera la pesante retorica di Gheddafi. Quando, come un paio di giorni fa alla radio libica, parla di intervento dell’occidente come una nuova crociata. Dal punto di vista dell’antropologia politica si tratta proprio di questo. Ovviamente dobbiamo evitare inutili suggestioni sullo scontro tra civiltà. La civiltà capitalistica dei consumi ha unificato da tempo i mondi: lo scontro è sempre all’interno di questo genere di civiltà. Ma Gheddafi, pur utilizzando un simbolico utile per l’opinione pubblica araba, qualcosa ha indovinato. L’Onu non si muove, non determina potere politico secondo comportamenti da impero ma secondo logiche di papato. Precisamente con le modalità antropologico-politiche di creazione e di distribuzione del potere proprie della crociata. Ban Ki Moon ha infatti parlato della risoluzione 1973 del consiglio di sicurezza delle nazioni unite come di un “importante precedente”. Vediamo di quale tipo. La risoluzione autorizza qualsiasi nazione, organismo di cooperazione, coalizione ad agire immediatamente a difesa delle popolazioni libiche. Non fissa i requisiti degli organismi di cooperazione o delle coalizioni, quindi non ci sono metacriteri di governance, ma per accellerare l’intervento in Libia legittima chiunque sia in grado di intervenire. Ban Ki Moon ricorda quindi Urbano II dopo la prima vittoriosa crociata a Gerusalemme. Sotto la pressione di potenze politiche discordanti, ma unite dalla necessità di legittimazione per l’intervento, legittima una nuova crociata rendendo così politicamente possibile, a potenze alleate ma anche in conflitto tra loro, lo scatenarsi di un nuova guerra oltre i confini di Gerusalemme. In questo senso tra il Ban Ki Moon di oggi e il Kofi Annan del Kosovo c’è una forte differenza di ruolo politico. Annan fu ripescato da Clinton, e portato davanti alle telecamere, un paio di settimane dopo i bombardamenti umanitari sulla Serbia. Un gesto di concessione della governance militare alla forma legale del potere Onu. Ban Ki Moon legittima, e fa partire, una crociata tra interessi diversi e conflittuali. Un potere di legittimazione dell’intervento militare una volta saltati i livelli di governo e di governance. Dopo l’impero il simbolico della politica mondiale si volge così al papato. Molto più efficace come potere tra i poteri, che si specializza nel legittimare forze in contrasto tra loro, pur nella stessa azione, senza dover pagare il prezzo politico del logoramento sul campo. Una modalità di esternalizzazione dei rischi politici e militari, quella si erede della partizione tra governo e governance. Partizione che è stata alle radici della nascita della Ue, che viene definita un organismo di governance multi-livello, che infatti sulla Libia si è infatti evaporata su più piani.
Ma se la governance, con la Libia, salta come tecnologia politica di intervento militare, da cosa viene sostituita?
Nella sociologia delle organizzazioni, disciplina con minor spessore ontologico e cognitivo delle teorie della governance ma dotata di maggior agilità su un terreno operativo (quello del capitalismo che non ha alcuna nozione di valore), il caos non è un problema ma una modalità operativa. E il caos, all’apertura della guerra di Libia, è il dato fenomenico e politico più importante. Frutto della crisi di complessità contemporanea dei grandi organismi sovranazionali, come di quelli nazionali, dell’urgenza militare dettata dai tempi accellerati della crisi libica, della necessità di portare velocemente a bilancio la nuova situazione politica da parte delle multinazionali, delle merchant bank e delle borse globali. Nella sociologia delle organizzazioni il management, in questi casi di caos, deve essere consapevole di governare organismi imprevedibili. I cui difetti di funzionamento nel caos, pur opportunamente tenuti in conto, generano effetti a loro volta imprevedibili. Ecco la razionalità politica, in questo molto diversa dalla governance, con la quale si è entrati in guerra da parte dei volenterosi: con la consapevolezza logistica, diplomatica e militare di generare effetti imprevedibili, all’interno di alleanze variabili e non stabilizzate, naturalizzando il caos come modalità razionale implicita nella guerra moderna. E questo è possibile perché esiste un fattore di stabilizzazione dell’opinione pubblica, ovvero i media, che rende lineare, comprensibile ed accettabile il racconto sulla guerra neutralizzando i comportamenti della popolazione grazie all’egemonia che esercita nello svolgersi di questo racconto. Non a caso quindi siamo arrivati con la Libia al risultato, solo apparentemente paradossale, che ci rende il caos organizzativo come pratica di scatenamento del conflitto ed una uniforme tranquillità dell’opinione pubblica di fronte allo scatenamento della guerra. Il simbolico del papato e il caos organizzativo, a tattiche e alleanze variabili, sono le due categorie (antropologico-politiche e di tecnologia politica) che escono quindi dallo scoppio della guerra libica. Saranno sicuramente affinate. Le guerre accellerrano, per natura, le costruzioni del simbolico e le evoluzioni delle tecnologie, anche di quelle politiche.
Ma sul campo qual è il risultato politico-militare che, per quanto originato dal caos, porta a stabilità e quindi a profitti?
Sostanzialmente uno: quello che vuole Gheddafi colpito da un missile, o cacciato dagli insorti (opportunamente armati dalla coalizione), oppure neutralizzato fino all’eutanasìa politica da una forza di interposizione fatta dai paesi arabi, entro un quadro politico stabilizzato di alleanze tra volenterosi e soggetti che hanno peso nell’area. Una volta consolidatosi questo scenario può aprirsi la fase finale della guerra: quella che si svolge discretamente dietro le quinte per la ripartizione del potere e dei profitti generati dalla Libia (come accadde dopo la crociata del 1101, lanciata da Urbano II, per la ripartizione delle terre conquistate agli infedeli). E’ uno scenario dove tutti, a parte Gheddafi, vincono in diretta globale. Giocando il simbolico televisivo mondiale del ripristino dell’ordine. Anche chi, nelle segrete stanze di compensazione, di fatto ha preso meno di quanto calcolato all’inizio della guerra.
Fuori da questo scenario il caos originario della guerra di Libia non genererà stabilità ma aprirà al cuore di tenebra libico. Lastricato di così tanti pericoli, sul campo e in casa propria, da paralizzare governi, affari, azioni di guerra. Tanto più la Libia genererà effetti imprevedibili tanto più questi pericoli si faranno chiari. Sun Tzu ne L’arte della guerra diceva “in ogni conflitto le manovre regolari portano allo scontro, e quelle imprevedibili alla vittoria”. La scommessa dei volenterosi trova una razionalità nel rovesciamento di questo assunto: partire dal caos, da una imprevedibilità non voluta, per arrivare a stabilizzare le forze evocate e quindi vincere. Si vuole così arrivare, con altri mezzi, ad un Kosovo in poche settimane. Ma se questo non accade, se Sun Tzu ha ancora ragione, se la Libia da deserto si fa cuore di tenebra, si entra nel terreno dell’inedito e dell’inesplorato. Che è metodo di governo del conflitto, come abbiamo visto, materia da governare da parte dei media ma anche tema di forte inquietudine sociale (oltre che produttore di vittime). E, per dirne una, in questo paese si sono sovrapposte troppe tensioni per non pensare che non succeda qualcosa di serio se la guerra produce un effetto inedito e devastante. Il cuore di tenebra libico può essere quello che disintegra certezze morali e materiali di un paese moderno come avviene nella rilettura di Conrad da parte di Coppola. Che si chiama, appunto, Apocalypse Now.
Se così fosse arriveremo ad un rovesciamento dell’assunto politico di Schmitt che accompagna la filosofia politica da diversi decenni. Quello che vuole che sia sovrano il potere che decide in stato di emergenza. Ma davvero si tratta di una legge aurea dell’antropologia politica? Da Baghdad a Kabul chi ha deciso in stato d’emergenza si è trovato ad essere disarcionato come sovrano. Il cuore di tenebra libico può santificare questa tendenza, renderla a sua volta legge aurea. D’altronde Schmitt aveva una visione della politica che affondava, nonostante tutto, nella teologia cristiana e nel successo a lui contemporaneo delle guerre coloniali. Vedremo cosa accadrà nel mondo postcoloniale. Intanto un dato politico lo si può intravedere: se il cuore di tenebra libico farà valere la sua presenza, se la scommessa dei volenterosi sarà persa, si aprono scenari inediti per questo paese. E’ un soggetto politico quello che, eventualmente, saprà coglierli e portarli verso le rotte dell’eguaglianza.
per Senza Soste, nique la police
http://www.senzasoste.it/internazionale/nel-cuore-di-tenebra-della-libia
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Yes Fly Zone: Israele bombarda Gaza e le sue cliniche
Gaza – Ma’an, Pal-Info, InfoPal. 18 feriti, tra cui 8 bambini e 7 donne: è l’ultimo aggiornamento del tragico bilancio proveniente dalla Striscia di Gaza.
Ieri sera è tornato il terrore tra la popolazione palestinese assediata. L’aviazione israeliana è stata impegnata fino a tarda notte a bombardare numerose aree di Gaza, principalmente a Gaza City e nel nord.
F-16 israeliani hanno bombardato la postazione della polizia intitolata al leader di Hamas assassinato da Israele, ‘Abdel ‘Aziz ar-Rantisi, ubicata nell’area di at-Tuwam, a nord-ovest di Gaza City.
E’ stata colpita anche la clinica medica “Hijaz”, struttura ospedaliera già distrutta nel corso della vasta guerra israeliana su Gaza, tra il 2008 e il 2009, “Piombo Fuso”, e in seguito ricostruita. Fonti medico-ospedaliere hanno confermato il bombardamento della clinica e gli ingenti danni riportati dalle strutture nei reparti.
La clinica “Hijaz” fornisce assistenza in diversi settori medici a circa 10mila cittadini palestinesi.
Molto grave il bombardamento sferrato da Israele ad est del quartiere di ash-Shuja’yah, a Gaza City. Qui un garage per le riparazioni di autovetture è andato totalmente in fiamme. Al suo interno vi erano ammassati pneumatici e i due missili qui lanciati dall’aviazione israeliana hanno anche colpito una zona deserta sul retro del cimitero “Khaza’ah”. Nessun ferito.
Nella catena di bombardamenti israeliani anche una fabbrica di blocchi di cemento è stata colpita a nord della Striscia di Gaza. Per l’esattezza di tratta di un cantiere situato a Jabal ar-Ra’is (Jabaliya est).
Altri missili sono stati lanciati dagli aerei da guerra israeliana contro Gaza City: nel quartiere di az-Zaytun è stata distrutta una fabbrica metallurgica di proprietà della famiglia ad-Daya. Anche qui, non si sono riportati feriti.
Nel quartiere di at-Tuffaha, ad est di Gaza City, una fabbrica di plastica presso “Jabal as-Surani”, nella zona di Sha’ef, è stata bombardata.
A sud della Striscia di Gaza è stata colpita l’area della moschea “‘Ebad Rahman”, a est di Khan Younes. I due missili qui lanciati hanno fatto temere il peggio perché Khan Younes è una delle zone maggiormente popolate in tutta la Striscia di Gaza. Le abitazioni adiacenti alla moschea, tra cui quella della famiglia an-Najjar, sono state fatte evacuare. Via Jalal, altra arteria stradale particolarmente trafficata, non è tata risparmiata dall’aviazione israeliana.
Adham Abu Salmiyah, portavoce dei servizi medici locali ha fatto sapere che sui 18 feriti finora accertati, 8 sono bambini e 7 donne. Dieci sono stati condotti d’urgenza presso l’ospedale di Gaza, “ash-Shifa” e il resto presso quello di Kamal ‘Adwan, a nord. Non ci sarebbero casi critici.
Era intervenuto in pubblico già in seguito alla catena di attacchi e controffensive nel fine settimana scorso, e nelle ultime ore, il portavoce delle brigate al-Qassam, Abu ‘Obeidah, ha proposto nuovamente una tregua a Israele, ribadita questa volta in forma scritta.
“Qualora Israele decidesse di fermare gli attacchi contro la Striscia di Gaza, anche la resistenza si fermerà nel lancio di colpi di mortaio verso. In caso contrario, non avremo altra scelta se non rispondere”.
Per ulteriori informazioni:
http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=371003
Tratto da http://www.infopal.it/leggi.php?id=17846. – 22 marzo 2011.
http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/5865-israele-bombarda-gaza-e-le-sue-cliniche.html
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‘Trasportatori naturali’ raggiungono il cervello 21.03.2011
Il miglior modo per trasportare i farmaci nel cervello è usare alcuni ‘trasportatori naturali’ capaci di superare la barriera fra i vasi sanguigni e il cervello, che normalmente è molto difficile da oltrepassare.
L’idea è dei ricercatori dell’Università di Oxford, che l’hanno messa in pratica su una cavia. Lo studio, descritto su Nature Neuroscience, sfrutta gli esosomi, delle molecole che nel corpo umano e negli animali trasportano sostanze chimiche dentro e fuori le cellule.
I ricercatori hanno estratto gli esosomi dalle cellule dendritiche del sistema immunitario di una cavia, aggiungendo una proteina derivata dal virus della rabbia che ‘riconosce’ alcuni recettori cerebrali e un frammento di Rna che ‘spegne’ un gene che provoca l’Alzheimer. Dopo aver reiniettato gli esosomi nel topo i ricercatori hanno notato una diminuzione del 60 per cento dell’attività del gene.
“E’ un risultato eccitante – ha spiegato Matthew Wood, uno degli autori – è la prima volta che si sfruttano la natura per rilasciare farmaci. Ora stiamo lavorando al trasporto nei muscoli, ma in teoria ogni tessuto può essere raggiunto con questo sistema“.
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Svelata la struttura del colesterolo buono 21.03.2011
di Laura Nebuloni
Una gabbia che imprigiona i fattori protettivi e li difende dagli attacchi di altre sostanze. Appare così la struttura del cosiddetto colesterolo buono, identificata per la prima volta, grazie a sofisticate tecniche di spettroscopia, da un gruppo di ricerca del dipartimento di patologia e medicina di laboratorio presso l’Università di Cincinnati. Una scoperta che potrebbe avere importanti risvolti nella cura di malattie cardiovascolari, come attacchi di cuore e infarti, come scrivono gli stessi ricercatori in uno studio apparso sulla versione online di Nature Structural & Molecular Biology.
Spesso si sente parlare di colesterolo “buono” e colesterolo “cattivo”. Che cosa distingue queste due varianti? Il colesterolo è un insieme di proteine presenti nel nostro corpo, caratterizzate da diverse strutture che, pur facendo parte della stessa famiglia, determinano effetti opposti sulla salute umana. Il colesterolo “cattivo”, in termini scientifici definito LDL (Low-Density Lipoproteins), è responsabile di severe malattie cardiovascolari. Il colesterolo “buono”, o HDL (High-Density Lipoproteins), presenta proprietà anti-infiammatorie e anti-ossidative.
Sebbene si conduca molta ricerca su questo tema, poco si sa su cosa renda “buono” il colesterolo. “Il motivo principale è rappresentato dalla quasi completa mancanza di conoscenza della struttura delle HDL e di come questa interagisca con altri importanti fattori presenti nel plasma”, ha spiegato W. Sean Davidson, a capo della ricerca. A livello molecolare, funzione e struttura sono infatti due concetti strettamente collegati. Ed ecco la novità apportata dai ricercatori statunitensi: grazie a sofisticate tecniche di spettroscopia e spettrometria di massa, è stato possibile analizzare la struttura tridimensionale di HDL umane. I risultati hanno mostrato che queste proteine formano una struttura a gabbia, che incapsula il contenuto lipidico, in grado di adattarsi nel tempo grazie a meccanismi di torsione e ammortizzazione. I ricercatori hanno inoltre compreso che la maggior parte di queste interazioni fisiologiche avvengono sulla superficie delle HDL, che è quasi interamente occupata dalla proteina cardioprotettiva apolipoproteina A-I. Trovando tutta la superficie occupata, le altre proteine hanno poca possibilità di interazione con le HDL; in questo modo vengono accentuati i suoi effetti benefici.
Come sottolinea Davidson, lo studio della struttura delle HDL aiuta a svelarne i meccanismi di interazione. Comprendere il funzionamento del colesterolo “buono” è fondamentale per capire i suoi effetti cardioprotettivi e apre le porte per una migliore cura delle malattie cardiovascolari.
http://www.galileonet.it/articles/4d8760d372b7ab3f040000a3
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Usa, tempi duri per la fisica 21.03.2011
Si prospettano tempi duri per la ricerca made in Usa, soprattutto nel settore delle scienze fisiche. I tagli alla spesa pubblica previsti nel bilancio fiscale del 2012 alleggeriranno il budget di molti dipartimenti di ricerca, portando alla chiusura di strutture e progetti in corso, senza contare il licenziamento dei ricercatori coinvolti. Un articolo su Nature spiega chi e perché, nel mondo scientifico, risentirà maggiormente della finanziaria del Presidente Obama.
La National Science Foundation (NSF) è un’agenzia governativa degli Stati Uniti che sostiene formazione e ricerca scientifica. Con un budget annuale di quasi sette miliardi di dollari, finanzia progetti di ricerca in molti campi della scienza, dall’ingegneria all’economia. Ma la crisi economica l’ha costretta a tagliare i suoi fondi del 15 per cento, da cui la necessità di ripensare i futuri piani di finanziamento. Solo il settore della ricerca sulle energie alternative vedrà aumentare le risorse a disposizione. Al contrario, il mondo della fisica piangerà vittime illustri. Per esempio il Synchrotron Radiation Center dell’Università del Wisconsin–Madison, dove si studiano le proprietà di materiali come i superconduttori a elevate temperature. Qui, un terzo dei ricercatori potrebbe essere lasciato a casa. Oppure l’Holifield Radioactive Ion Beam Facility, il centro di ricerca sugli isotopi nucleari che rischia lo stop perché costa troppo: 10,3 milioni di dollari all’anno. Infine il Tevatron, l’acceleratore di particelle del Fermilab destinato a chiudere e a “traslocare” tutti gli esperimenti in corso a Ginevra, nei laboratori del Large Hadron Collider (vedi anche un altro articolo pubblicato su Nature lo scorso gennaio). Una mossa che farà risparmiare allo stato 35 milioni di dollari all’anno, ma fermerà l’attività di un eccellente centro di ricerca. E a farne le spese potrebbe essere la supremazia statunitense in molti campi della fisica.
Il futuro non sorride neppure all’astrofisica. La Nasa rischia di non ricevere abbastanza fondi per le sue missioni marziane, o di non potersi più permettere di mantenere Suzaku, il satellite in comproprietà con l’agenzia spaziale giapponese che studia i raggi X emessi da stelle, galassie e buchi neri. Le sue prestazioni sono eccellenti, ma la sua manutenzione costa alla Nasa ben 2,5 milioni di dollari all’anno. Troppi per il ristretto budget previsto nel 2012.
Riferimento: doi:10.1038/471278a
http://www.galileonet.it/articles/4d870b9272b7ab3f000000fe
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Ruggine verde contro le scorie radioattive 22.03.2011
È verde. Non solo per il suo colore ma anche per la sua possibile funzione di contenimento delle scorie radioattive. Si tratta di una forma di ruggine – green rust – altamente reattiva che, secondo lo studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Copenhagen e pubblicato sulla rivista Geochimica et Cosmochimica Acta, potrebbe essere impiegata per lo stoccaggio del nettunio, un sottoprodotto dell’uranio usato nei reattori nucleari.
Questa ruggine è un tipo di argilla contente idrossidi di ferro che si forma nelle falde freatiche o durante la corrosione dell’acciaio. Reagisce molto facilmente con le altre sostanze, soprattutto con un gruppo di 15 elementi chiamati attinidi (o attinoidi), di cui fanno parte anche uranio, plutonio e, appunto, nettunio.
Il nettunio è uno dei residui più scarsi e a bassa emissione di radioattività, ma ha un’emivita molto lunga: oltre i due milioni di anni (2,14×106). Quindi la sua mobilità rappresenterà un grave problema quando gli attuali contenitori per lo stoccaggio cominceranno a degradarsi. Attualmente, le scorie contenenti nettunio sono stoccate in recipienti di rame rivestiti di ferro che sono poi immersi in acqua. Secondo i ricercatori danesi, circondare questi contenitori con la ruggine verde potrebbe assicurare che le scorie non gocciolino via nell’acqua nel caso in cui i contenitori dovessero deteriorarsi. Oltretutto il nettunio è facilmente solubile in acqua, per questo motivo potrebbe diventare uno dei principali inquinanti radioattivi nelle falde e nei bacini acquiferi vicini ai siti di stoccaggio.
Quello delle scorie, oltre a quello della sicurezza delle strutture, rappresenta uno dei principali rovesci della medaglia dell’energia ottenibile attraverso la fusione nucleare. A oggi, infatti, non esiste una centrale che non produca rifiuti radioattivi, per nessuno dei quali è stata trovata una soluzione definitiva. Il nettunio ha un’emivita molto lunga ma non è il solo: il plutonio ha un tempo di decadimento pari a 250 mila anni e gli attinidi minori di circa 10.000.
Riferimenti: Geochimica et Cosmochimica Acta: doi:10.1016/j.gca.2010.12.003
http://www.galileonet.it/articles/4d88514d72b7ab3f040000a7
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