Palikir/Praga, 27.05.2011
Stabilito un precedente nel diritto internazionale
La Micronesia porta in tribunale l’energia “sporca” dell’Europa
Per la prima volta un paese la cui sopravvivenza è direttamente minacciata dal cambiamento climatico ha intrapreso un’azione legale contro l’inquinamento di una nazione dall’altra parte del mondo
(Rinnovabili.it) – Gli Stati Federati di Micronesia (FSM), una nazione insulare sparsa per il Pacifico settentrionale, si sono già trovati costretti ad affrontare le maree del cambiamento climatico, che hanno divorato le coste e lasciato la sicurezza alimentare e l’approvvigionamento idrico nel caos. Quindi quando hanno sentito che la Repubblica ceca aveva intenzione di estendere la licenza alla sua più grande centrale elettrica a carbone, l’impianto di Prunéřov, i leader della federazione hanno deciso che non sarebbero rimasti a guardare, pronti a portare la nazione europea in sede legale con l’accusa di mettere in serio pericolo la sopravvivenza dell’arcipelago. Per la prima volta nella storia dell’umanità una delle prime vittime del Climate Change si fa avanti e punta il dito contro l’inquinatore, nonostante a dividerli ci siano oltre 11mila km. La storia in realtà comincia nel gennaio del 2010 quando la Micronesia era intervenuta nell’ampliamento dello stabilimento ceco chiedendo una Valutazione d’Impatto Ambientale Transfrontaliero in considerazione dell’incidenza del progetto sull’ambiente; la centrale di Prunéřov con i suoi 1.490 MW di potenza produce emissioni 40 volte superiori a tutte quelle emesse dall’intero arcipelago. La richiesta era una prima assoluta dal momento che la Valutazione d’Impatto Ambientale Transfrontaliero è stato uno strumento giuridico precedentemente utilizzato solo dagli Stati confinanti.
CREATO UN PRECEDENTE Il governo di Praga ha finito per concedere la propria approvazione alla centrale prolungando la vita dello stabilimento fino all’anno 2035 (la centrale si sarebbe dovuta chiudere nel 2020), ma ha concesso alla Federazione lo status di “paese colpito” e il Ministero dell’Ambiente ha richiesto a CEZ, la società di servizi statali, di compensare 5 milioni di tonnellate di CO2 nel tentativo di mitigare l’impatto ambientale del progetto. La Micronesia ha presentato in questi giorni il documento base dell’azione legale internazionale, avanzata in collaborazione con Greenpeace e con l’Associazione Environmental Law Service, nella speranza di incoraggiare altre nazioni a prendere un atteggiamento più proattivo. L’occasione, non a caso è stata quella della “Conferenza delle nazioni insulari minacciate dai cambiamenti climatici” tenutasi a New York e apre ufficialmente un nuovo fronte nel diritto internazionale e nei rapporti diplomatici tra le nazioni stabilendo a tutti gli effetti un precedente. “Questo passo avanti – ha fatto sapere il ministro della Giustizia della Micronesia, Maketo Robert – mostra che i paesi minacciati come il nostro hanno ormai il sostegno del diritto internazionale, per pesare in modo più efficace sulle scelte energetiche”.
http://www.rinnovabili.it/la-micronesia-porta-in-tribunale-lenergia-sporca-delleuropa-404315
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L’Economist riconosce l’antropocene…. un passo verso la scienza della sostenibilità? 03.06.2011
Gianfranco Bologna
Sono rimasto piacevolmente colpito nel vedere esposta all’edicola la copertina dell’ultimo numero della famosa rivista settimanale di economia e politica internazionale “The Economist”, dedicata all’ Antropocene, con il titolo “Welcome to the Anthropocene. Geology’s new age” – Benvenuti nell’Antropocene, il nuovo periodo geologico – ( si tratta del numero del 28 maggio-3 giugno).
Nell’interno della rivista al concetto di Antropocene, ritenuto un nuovo periodo geologico da autorevoli studiosi internazionali che hanno seguito la proposta fatta nel 2000 dal premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen e dall’ecologo delle acque interne Eugene Stoermer dell’Università del Michigan, è dedicato l’editoriale ed un servizio di approfondimento.
Finalmente il grande tema dello straordinario ed affascinante dibattito scientifico su questi ultimi 250 anni circa, profondamente segnati dall’intervento umano tanto da meritarsi un apposito termine e l’indicazione di un nuovo periodo geologico, l’Antropocene appunto, è apparso addirittura sulla copertina di una notissima rivista internazionale, nota e diffusa in tutto il mondo e letta soprattutto da politici, economisti, pianificatori e decisori. Gli ultimi eventi che avevo segnalato in questa rubrica un paio di settimane fa, e cioè il seminario della Geological Society of London dal titolo “The Anthropocene: a new epoch of geological time ?” (vedasi il sito www.geolsoc.org.uk/anthropoceneconference ) tenutosi l’11 maggio e il Terzo Simposio dei Premi Nobel sulla Sostenibilità Globale, organizzato da diversi istituti scientifici svedesi, tra i quali la Royal Swedish Academy of Sciences che ogni anno attribuisce i Premi Nobel nelle diverse discipline, dal titolo “Transforming World in an Era of Global Change” (vedasi il sito http://globalsymposium2011.org ), tenutosi a Stoccolma dal 16 al 19 maggio, sono stati all’origine della notizia giornalistica che ha fatto registrare questo forte interesse della redazione del “The Economist”.
La rivista che è un po’ il “regno” della cultura economica neoclassica, dedicata alle approfondite analisi degli andamenti economici e finanziari delle nostre società, fortemente contraddistinta da una cultura mirata al continuo perseguimento della crescita economica, ha ben illustrato le motivazioni che stanno conducendo la comunità scientifica internazionale ad accettare ormai il fatto che viviamo, addirittura, in un periodo geologico nuovo e brevissimo, l’Antropocene, causato dal profondo intervento umano sui sistemi naturali, paragonabili per intensità ed ampiezza agli effetti prodotti dalla grandi forze della natura che hanno plasmato, da sempre, l’evoluzione del nostro pianeta.
In una dimensione antropocenica è ormai diventato impossibile coniugare i nostri modelli di crescita economica materiale e quantitativa che continuiamo a perseguire, alla capacità dei sistemi naturali di reggere questo continuo e crescente impatto e di supportare quindi conseguentemente il benessere e la stessa economia delle nostre società.
Il termine Antropocene riguarda l’impatto umano collettivo sui processi biologici, fisici e chimici che hanno luogo attorno e sulla superficie della Terra. Come ricordano gli autorevoli geologi che registrano la storia del nostro pianeta e le sue diverse caratterizzazioni nell’arco dei 4.56 miliardi di anni della sua esistenza (questa è l’età ch dovrebbe avere il nostro pianeta, vedasi, tra gli altri, Ogg J.G., Ogg G. e Gradstein F.M., 2008, The concise geological timescale, Cambridge University Press), la geologia della Terra viene suddivisa in grandi ambiti, definiti eoni (che rappresentano centinaia o miliardi di anni) che sono poi a loro volta suddivisi in ere, periodi, epoche ed età che rappresentano unità di tempo più piccole.
Queste unità di tempo geocronologiche sono parallelamente registrate in una dimensione cronostratigrafica, o del tempo delle rocce, dove le unità stesse si caratterizzano per le formazioni geologiche formatesi in queste unità di tempo. Ma la dimensione geocronologica ed i relativi confini delle diverse unità del tempo geologico, dipendono non solo dal “tempo” delle rocce, ma anche dalle composizioni dei fossili riscontrati che registrano eventi di estinzione o radiazione evolutiva, dalle situazioni chimico-fisiche complessive che includono fattori estrinseci (come, ad esempio, gli impatti degli asteroidi o gli effetti orbitali ciclici della Terra) e fattori intrinseci (quali, ad esempio, le configurazioni continentali o le circolazioni degli oceani).
Quindi quello che avviene nella geologia terrestre, nelle rocce della nostra Terra, dipende da numerosi fattori che possono riguardare i loro caratteri fisici (quindi la litostratigrafia) , il contenuto dei fossili (la biostratigrafia), le proprietà chimiche (la chemio stratigrafia), le proprietà magnetiche (la magnetostratigrafia) e i pattern legati ai livelli dei mari (la stratigrafia delle sequenze). La somma totale di queste evidenze, registrate e riconosciute, consente alla comunità dei geologi di datare e correlare le varie unità di tempo ( la geocronologia) e di ridefinire continuamente la scala dei tempi geologici (il Geological Time Scale).
Da questo punto di vista sono interessantissime le ricerche che i geologi stanno facendo per individuare la stratigrafia dell’Antropocene (il noto geologo Jan Zalasiewicz, dell’Università di Leicester, guida un ampio gruppo di autorevoli geologi che stanno valutando l’accettazione formale dell’Antropocene nel Geological Time Scale nell’ambito dell’International Commission on Stratigraphy www.stratigraphy.org dell’International Union of Geological Sciences www.iugs.org ).
Diversi risultati di queste ricerche sono stati già presentati in numerose pubblicazioni scientifiche e danno conto di come l’intervento umano sia chiaramente discernibile nella litostratigrafia con le modificazioni dei pattern dei sedimenti. La somma degli effetti sin qui registrati, a livello delle terre emerse, per quanto riguarda i movimenti antropogenici di suolo, rocce e sedimenti, di diversione dei fiumi, di modificazioni dei corsi d’acqua e delle linee costiere, delle modificazioni causate dalle pratiche agricole e dalle strutture urbane e, a livello di aree marine, delle profonde modificazioni degli ecosistemi oceanici sono considerate superiori a qualsiasi processo naturale in atto.
Gli ambienti “costruiti”, i nuovi materiali (plastica, vetro, strutture di vari metalli) , la perturbazione umana provocata nei grandi cicli biogeochimici, in primis quello del carbonio che sta provocando effetti e conseguenze su tutto il sistema Terra (dalla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera all’ acidificazione degli oceani), nonché quelli dell’azoto e del fosforo. La produzione di sostanze chimiche antropogeniche industriali, dai pesticidi ai ritardanti di fiamma, i radionuclidi associati ai fall-out dovuti alle esplosioni nucleari, la mobilitazione di metalli e di prodotti di base dell’industria petrolifera ecc. costituiscono altre significative perturbazioni chimiche che possono essere registrate nei sedimenti a livello di chemio stratigrafia.
La dimensione straordinaria che l’intervento umano ha esercitato sulla biodiversità planetaria provocando il fenomeno che, da diversi autorevoli scienziati è stato definito la sesta estinzione di massa (che si aggiungerebbe alle cinque finora ben individuate dai paleontologi e dai geologi negli ultimi 500 milioni di anni) , può condurre anche ad eventuali registrazioni di tale fenomeno dal punto di vista della biostratigrafia.
Insomma il panorama fornito dalle più avanzate ricerche delle scienze del sistema Terra ci sta continuamente confermando l’eccezionalità dell’intervento di una singola specie, la nostra, come profonda modificatrice della naturale evoluzione dei sistemi naturali grazie ai quali esistiamo e sui quali basiamo il nostro benessere e le nostre economie.
E’ giunto il tempo che il mondo politico-economico prenda atto di tale conoscenza e avvii decisamente la strada per una nuova economia. Continuare così non ci fornisce alcuna prospettiva per il nostro futuro.
http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=10636
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Aids, 30 anni di lotta e un successo clamoroso 08.06.2011
La storia di Timothy Ray Brown, il primo uomo ad aver sconfitto il virus dell’Hiv
Sono passati ormai quattro anni e finalmente lo si può dire con sufficiente certezza: Timothy Ray Brown è guarito dall’Aids. Nei giorni scorsi si è celebrato il 30esimo anniversario dalla prima scoperta della malattia negli Stati Uniti e la storia di quest’uomo, raccontata per la prima volta qualche mese fa, sembra indicare che la speranza di sconfiggere radicalmente questo male esiste davvero.
Brown è un americano originario di San Francisco, ha 45 anni di età e fino allo scorso dicembre viveva a Berlino. La sua vicenda è davvero unica, tanto che è difficile pensare che possa essere utilizzata per trattamenti analoghi su altri pazienti. L’uomo, infatti, sarebbe riuscito a sconfiggere il virus dell’Hiv grazie a un trapianto di midollo osseo a cui è stato sottoposto dopo essersi ammalato anche di leucemia mieloide acuta.
La scoperta di essere sieropositivo risale al 1995, mentre quella di essersi ammalato anche di leucemia è del 2006. L’anno dopo, nel febbraio 2007, Brown è stato ricoverato alla Charite-University di Berlino per un trapianto di cellule staminali. A quel tempo i medici cercavano di contrastare la leucemia che lo stava aggredendo, senza aspettarsi, però, di ottenere anche una guarigione definitiva dal virus Hiv. In interventi di questo tipo, inoltre, il tasso di mortalità medio è pari almeno al 5%.
Statistiche a parte, comunque, sembra che abbia funzionato tutto alla perfezione (anche se nel 2008 ha dovuto affrontare la leucemia per la seconda volta, sconfitta ancora una volta con un trapianto dallo stesso donatore). La terapia applicata al paziente è nota. Nel dettaglio, Brown è stato sottoposto in prima battuta alla “distruzione” e alla “sostituzione” del sistema immunitario. Attraverso la radioterapia e alcuni farmaci, sono state eliminate le cellule malate attraverso. Infine è stato fatto il trapianto.
Gli scienziati hanno spiegato che il donatore rientra in quel numero estremamente esiguo di persone al mondo che è immune alla malattia (in tutto si calcola che questi soggetti siano l’1% di quelli di razza caucasica). Ad ogni modo, la vicenda non è ancora del tutto chiarita, tanto che le prime sperimentazioni sulla storia clinica di Brown dovrebbero partire il prossimo anno e i ricercatori stanno studiando come applicare quanto imparato da questa esperienza, mettendo a punto una terapia simile, anche se meno “violenta” (leggi tutti i dettagli).
La sola cosa certa è che oggi l’uomo non prende più alcun antiretrovirale, né alcune medicina in generale. I suoi unici problemi di salute sono legati a un’aggressione subita un paio d’anni fa, che l’ha costretto a una terapia per riprendere a camminare e a parlare, ma che non gli ha permesso di tornare al pieno utilizzo di un braccio.
Da quando sono stati individuate i primi casi di Hiv e Aids a Los Angeles, nel lontano 1981, circa 30 milioni di persone nel mondo sono morte a causa di questa malattia. Attualmente, inoltre, circa 34 milioni di persone sono infette dal virus dell’Hiv e due milioni muoiono ogni anno per complicanze legate alla malattia.
Per quanto riguarda i decessi, la situazione è molto più grave nei Paesi poveri, dove mancano le cure necessarie. Negli Stati Uniti, invece, l’aspettativa di vita di una persona affetta da Hiv è più corta solo di qualche mese rispetto a chi è in salute. Inoltre, la medicina si è evoluta in questo campo, tanto che oggi molti pazienti possono curarsi prendendo solo una pastiglia al giorno.
http://it.notizie.yahoo.com/aids–30-anni-di-lotta-e-un-successo-clamoroso.html
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di Andrea Fumagalli
UTOPIE CONCRETE
Una politica per il paradiso 08.06.2011
La nuova divisione del lavoro e le stigmate della precarietà in un saggio dello studioso inglese Guy Standing. E da domani un meeting internazionale a Roma sul reddito di cittadinanza
«Il 1 maggio 2001, quasi 5000 persone, per lo più studenti e giovani attivisti sociali, si riunirono nel centro di Milano per una parade che si voleva alternativa alle tradizionali dimostrazioni del 1 maggio. A partire dal 2005, la partecipazione alla MayDay parade si è ingrossata sino a interessare dalle 50.000 alle 100.000 persone …. ed è diventata pan-europea (EuroMayday), con centinaia di migliaia di uomini e donne, la maggior parte giovani, che si riprendevano le strade delle città dell’Europa continentale. Queste dimostrazioni furono il primo segnale dell’agitazione del precariato». Con queste parole, si apre il libro di Guy Standing The Precariat. The new dangerous class (Bloomsbury, pp. 198). Guy Standing, docente di Economic Security all’Università di Bath, è un profondo conoscitore della dinamica del mercato del lavoro globale, grazie anche ai numerosi anni nei quali ha prestato servizio presso l’Ilo (International Labor Office) a Ginevra, prima di essere allontanato per le sue posizioni non del tutto allineate.
In questo saggio (di cui si auspica la traduzione in italiano), si analizza la nuova composizione internazionale del lavoro, esito dei processi di trasformazione del sistema di accumulazione e valorizzazione degli ultimi decenni e della recente crisi economica globale. Per far ciò è necessario introdurre nella lingua inglese alcuni neologismi: precariat per indicare il soggetto sociale, precariousness per indicarne la condizione socio-economica.
Che cosa è oggi il precariato? A differenza dei lettori italiani, per i quali il lessico della precarietà è entrato a far parte del gergo corrente proprio grazie alla Mayday e per i quali esiste una saggistica avviata da tempo (basti pensare ai «Quaderni di San Precario»), per un lettore anglosassone, la domanda è invece, tutto sommato, nuova.
La risposta di Standing è, allo stesso tempo, semplice e complessa. Semplice, perché afferma che il precariato è una «una classe in divenire, non ancora una classe in sé, nel senso marxiano del termine»). Ne consegue che il tradizionale armamentario analitico-politico che è stato forgiato, sperimentato e innovato nel corso del Novecento a proposito della classe operaia e del proletariato come classe omogenea diventa inutilizzabile. Complessa, perché definire una «classe in divenire» implica una metodologia di analisi nuova, in grado di definire in modo rigoroso l’eterogeneità dei confini del precariato, coglierne appunto le differenze per ricomporle ad un livello superiore e diverso.
A tal fine si può procedere in due modi. Il primo è fornire una definizione per negazione. Fa parte del precariato colui o colei a cui mancano alcuni elementi di sicurezza economica e sociale. In proposito, Standing ne individua sette: la sicurezza di essere occupabile nel mercato del lavoro, la sicurezza dei diritti del lavoro contro discriminazioni, licenziamenti senza giusta causa, sicurezza del lavoro a partire dai livelli di professionalità o dagli infortuni e la salute, la sicurezza della formazione, in grado di favorire avanzamenti di carriera, la sicurezza di reddito in termini di continuità e decenza e, infine, la sicurezza della rappresentatività in termini sindacali e contrattuali. Se dovessimo definire la condizione precaria secondo questo schema, è possibile individuare diversi gradi di precarizzazione, che subiscono una brusca accelerazione dopo la crisi del 2008, sino a dire che a livello globale quasi tutti i segmenti di lavoro ne sono coinvolti. Al punto di arrivare a affermare che oramai, nessun lavoratore è esente da qualche forma di precarietà.
Il secondo modo è definire la precarietà sulla base di alcuni elementi che la caratterizzano in modo omogeneo. Standing ne individua quattro (le quattro A): acredine-rabbia, anomia, ansietà, alienazione. Essi rappresentano la frustrazione del precariato, all’interno di processi di individualizzazione del lavoro che ne favoriscono l’accentuazione. Ed è dall’analisi di questa componente psico-fisica che si può capire il sottotitolo del libro: «la classe pericolosa». Secondo Standing, infatti, le diverse componenti del precariato, dai migranti alle donne che svolgono lavoro di cura, ai contadini espropriati dalle terre, agli operai sfruttati nei sweatshops del l’ovest e dell’est del mondo, ai precari del terziario materiale (dal trasporto ai centri commerciali) e immateriale (dai call-center alle università e editoria) sono inseriti in contesto di forte concorrenza e di dumping sociale favorite da quella «politica dell’inferno» che i policy makers neoliberisti hanno fomentato come strumento di divisione e di controllo. All’interno di questi contesti, fenomeni razzisti, nichilisti, corporativi sono all’ordine del giorno e impediscono lo sviluppo di una presa di coscienza e di soggettivazione per far sì che la precarietà si trasformi in vera classe sociale.
Per opporsi alle «politiche dell’inferno», occorre promuovere ciò che Standing chiama una «politica del paradiso» fondata su alcuni obiettivi universali in grado di favorire quel processo di ricomposizione delle diverse soggettività precarie, oggi frammentate e spesso in lotta fra loro. Dai diritti sul lavoro si passa alla libertà di movimento e di occupazione, dalla critica ai processi di workfare e di smantellamento del welfare state alle politiche pubbliche di accesso ai servizi di base, dalla formazione e libertà di accesso alla conoscenza alla necessità di controllare e ridurre il tempo di lavoro. Tra questi due obiettivi meritano un breve approfondimento: la «riscoperta» dei beni comuni (commons) e la proposta di un reddito minimo incondizionato (basic income). Questi due obiettivi vengono analizzati in modo complementare. Standing, che è anche co-presidente della rete «Basic Income Earth Network» (Bien) individua basic income una sorta di risarcimento per l’espropriazione dei commons che la dinamica capitalistica ha effettuato nei secoli. Da questo punto di vista, il basic income è lo strumento più idoneo per riappropriarsi dei beni comuni naturali e immateriali.
A questo libro, ricco di suggestioni che non è possibile qui ricordare in modo compiuto, dovrebbero seguire altre ricerche tese ad approfondire i cambiamenti nei processi di creazione di ricchezza in un contesto di sfruttamento intensivo del bios umano, nonché delle nuove forme di divisione cognitiva del lavoro che, all’indomani della crisi del paradigma fordista, si sono dipanate nel processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia mondiale. Se il precariato è «una classe in divenire», anche l’analisi di tale condizione lo deve essere.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110608/manip2pg/12/manip2pz/304565/
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di Roberto Ciccarelli
Il diritto universale alla vita 08.06.2011
Dopo la politiche neoliberiste attuate da governi conservatori e progressisti, la sinistra deve tornare a proporre soluzioni che impediscano la riduzione del lavoro a merce
«La sinistra deve capire che il reddito base universale, anche se è difficile da realizzare, dovrebbe oggi rappresentare il principale obiettivo di una politica riformatrice da realizzare gradualmente in una o due legislature». È come sempre chiaro e netto Luigi Ferrajoli, che ha da poco pubblicato Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana (Laterza) la più aspra critica del berlusconismo che si ricordi degli ultimi tempi (Il Manifesto del 25 maggio) e domani interverrà al meeting sull’«utopia concreta del reddito» organizzato dal Basic Income Network a Roma. «La crisi non ci lascia alternative: bisogna arrivare ad un reddito per tutti che garantisca l’uguaglianza e la dignità della persona. Diversamente da altre forme limitate di reddito di cittadinanza, un reddito per tutti escluderebbe qualunque connotazione caritatevole e quindi lo stigma sociale che deriva da un’indennità legata al non lavoro o alla povertà. L’ho già sostenuto in Principia Iuris: il reddito è un diritto fondamentale».
Molti studiosi sostengono che il reddito di base è impraticabile perché costa troppo?
Certamente il reddito costa, ma i calcoli che sono stati fatti mostrano che esso comporterebbe anche grandi risparmi: un reddito ope legis per tutti riduce gran parte delle spese per la mediazione burocratica di almeno una parte delle prestazioni sociali, con tutti i costi, le inefficienze, le discriminazioni e la corruzione legati a uno stato sociale che condiziona le prestazioni dei minimi vitali a condizioni personali che minano la libertà e la dignità dei cittadini. Ma soprattutto è necessario sfatare l’ideologia dominante a destra, e purtroppo anche a sinistra, secondo la quale le spese nell’istruzione, nella salute, nella sussistenza sono un costo insostenibile. Queste spese sono al contrario gli investimenti primari ed economicamente più produttivi. In Italia, il boom economico è avvenuto simultaneamente alla costruzione del diritto del lavoro, all’introduzione del servizio sanitario nazionale e allo sviluppo dell’istruzione di massa. La crisi è iniziata quando questi settori sono stati tagliati. Sono cose sotto gli occhi di tutti.
Come si possono recuperare le risorse necessarie?
Dal prelievo fiscale, che tra l’altro dovrebbe essere riformato sulla base dell’articolo 53 della Costituzione che impone il carattere progressivo del sistema tributario. La vera riforma fiscale dovrebbe prevedere aliquote realmente progressive. Oggi la massima è il 43 per cento, la stessa di chi ha un reddito di circa 4.000 euro al mese e di chi, come Berlusconi o Marchionne o gli alti manager, guadagna 100 volte di più. È una vergogna. Quando Berlusconi dice che non vuol mettere le mani nelle tasche degli italiani pensa solo alle tasche dei ricchi. Occorrerebbe invece prevedere tetti e aliquote che escludano sperequazioni così assurde.
Cosa risponde a chi pensa che il reddito sia un sussidio di disoccupazione?
Lo sarebbe se fosse dato solo ai poveri e ai disoccupati. Il reddito di base universale, al contrario, sarebbe un’innovazione dirompente, che cambierebbe la natura della democrazia, e non solo dello stato sociale, della qualità della vita e del lavoro. È infatti una garanzia di libertà oltre che un diritto sociale. Provocherebbe una liberazione dal lavoro e, insieme, del lavoro. Il lavoro diventerebbe il frutto di una libera scelta: non sarebbe più una semplice merce, svalorizzata a piacere dal capitale.
Per riconoscere il reddito come diritto fondamentale è necessaria una riforma costituzionale?
No. Si può anzi affermare il contrario: che una simile misura è imposta dallo spirito della Costituzione. La troviamo nei principi di uguaglianza e dignità previsti dall’articolo 3, ma addirittura nel secondo comma dell’articolo 42 sulla proprietà che stabilisce che la legge deve disciplinare la proprietà «allo scopo di renderla accessibile a tutti». Questa norma, come ha rilevato un grande giurista del secolo scorso, Massimo Severo Giannini, prevede che tutti dispongano di una qualche proprietà, accessibile appunto con un reddito minimo di cittadinanza. E poi ci sono le norme del diritto internazionale, come l’articolo 34 della carta di Nizza, l’articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani. È insomma la situazione attuale del lavoro e del non lavoro che è in contrasto con la legalità costituzionale.
La sinistra crede in questa prospettiva?
No. Tuttavia, se la sinistra vuole rappresentare gli interessi dei più deboli, come dovrebbe essere nella sua natura, questa oggi è una strada obbligata. Il diritto al reddito è oggi l’unica garanzia in grado di assicurare il diritto alla vita, inteso come diritto alla sopravvivenza. Ovviamente occorrerebbe anche l’impegno del sindacato. Nella sua tradizione, sia in quella socialista che in quella comunista, si è sempre limitato alla sola tutela del lavoro. Oggi le garanzie del lavoro sono state praticamente dissolte dalle leggi che hanno fatto del lavoro precario a tempo determinato la regola, e del vecchio rapporto di lavoro a tempo indeterminato l’eccezione. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe comunque restaurare la stabilità dei rapporti di lavoro. Con la precarietà, infatti, tutte le garanzie del diritto del lavoro sono crollate perché chi ha un rapporto di lavoro che si rinnova ogni tre mesi non può lottare per i propri diritti. Tuttavia, nella misura in cui il diritto del lavoro non può essere, in una società capitalistica, garantito a tutti, e fino a che permangono forme di lavoro flessibile, il reddito di cittadinanza è anche un fattore di rafforzamento dell’autonomia contrattuale del lavoratore. Una persona che non riesce a sopravvivere accetta qualsiasi condizione di lavoro. Ad un dramma sociale di questa portata si deve rispondere con un progetto ambizioso.
Per quanto rigurda il lavoro e il reddito che cosa si dovrebbe leggere in un programma di sinistra per le prossime elezioni politiche?
Esattamente l’opposto di quanto è stato fatto finora, anche dai governi di centro-sinistra che negli anni Novanta hanno inaugurato, con i loro provvedimenti, la dissoluzione del diritto del lavoro. Bisogna tornare a fare del lavoro un’attività garantita da tutti i diritti previsti dalla Costituzione e conquistati in decenni di lotta, a cominciare dal diritto alla sua stabilità, che è chiaramente un meta-diritto in assenza del quale tutti gli altri vengono meno. Il lavoro, d’altro canto, deve cessare di essere una semplice merce. E a questo scopo il reddito di base è una garanzia essenziale della sua valorizzazione e insieme della sua dignità. Non è accettabile che in uno stato di diritto i poteri padronali siano assoluti e selvaggi. Marchionne non può ricattare i lavoratori contro la Costituzione, le leggi e i contratti collettivi e minacciare di dislocare la produzione all’estero. Una sinistra e un sindacato degni di questo nome dovrebbero quanto meno impegnarsi su due obiettivi: l’unificazione del diritto del lavoro a livello europeo, per evitare il dumping sociale, e la creazione di sindacati europei. Nel momento in cui il capitale si internazionalizza, perché non dovrebbero farlo anche le politiche sociali e i sindacati?
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di BenOld
PRECARI
Inafferrabili e indisponibili 08.06.2011
Fino a pochi anni fa, parlare di precarietà con uno studioso anglosassone comportava un lavoro preliminare di traduzione del termine, facendo riferimento a espressioni come «temps» o «flexible work», largamente usate nelle scienze sociali inglesi e statunitensi per sottolineare la crescita di lavori che ingrossavano le file dei cosiddetti «working poors». Oppure poteva essere spiegata citando testi di autori francesi, come Pierre Bourdieu, che avevano cominciato a discutere di precarietà, mutuando la parola dal lessico di teorici eterodossi e attivisti italiani. Lo ricorda bene Andrea Fumagalli nella pagina accanto, laddove scrive di «precariat» e «precariousness» come veri e propri neologismi. Sta di fatto che la precarietà è diventata una condizione che riguarda ormai tutto il lavoro vivo. È cioè diventata la condizione della maggioranza della forza-lavoro. I dispositivi giuridici che l’hanno legittimata possiedono anche una funzione preventiva rispetto ai conflitti che coinvolgono i lavoratori a tempo indeterminato. In altri termini, la precarietà svolge una funzione politica nel consolidare il potere sociale del capitale.
Mai la dimensione giuridica ha rivelato la sua funzione «governamentale» come nella gestione della precarietà. Le tassonomie dei contratti di lavoro previsti articolano infatti il come e il quando le imprese possono acquistare lavoro sul mercato secondo le loro necessità, riducendo così il lavoro vivo a merce. La precarietà è stata inoltre la risposta feroce e di «classe» a quell’indisponibilità del lavoro vivo a rimanere forza-lavoro massificata e omogenea com’era nella grande impresa. Il nodo da sciogliere, tuttavia, non è la definizione del profilo sociale del precario e della precaria. Sarebbe infatti un’operazione accademica, perché la precarietà è inafferrabile, cioè rende fallace ogni spiegazione univoca di quella condizione lavorativa, sociale, esistenziale. Più urgente, allora, è immaginare forme organizzative, parole d’ordine per uomini e donne che non si sentono classe e che spesso neppure ambiscono a essere tale, nonostante un regime di sfruttamento incardinato sulla sollecitazione continua a diventare, proprio perché precari, fonte di innovazione e di creatività.
Ci sarebbe da riflettere, e molto, sul fatto che per rappresentare la condizione del precario si mescolino promesse di lavoro creativo e evocazione di povertà premoderne, facendo quindi leva su un lessico che le culture del movimento operaio avevano consegnato alla critica roditrice dei topi. Cosa fare, dunque? Quello che hanno fatto in questi anni gli organizzatori della MayDay, arrivando a proporre di pensare collettivamente una forma di «sciopero precario» che interrompa, per usare un termine caro al geografo americano David Harvey, il flusso del capitale. Oppure quello che hanno fatto i ricercatori precari e gli studenti nelle strade di Londra, Parigi, Atene e Roma. Oppure quello che stanno facendo gli «indignados» spagnoli. Di sicuro sono tutte iniziative e forme di conflitto che potrebbero rafforzarsi se la proposta di «basic income» diventasse parte integrante del lessico politico dei gruppi di precari. L’incontro che inizia domani a Roma ha come asse proprio le proposte di un reddito minimo incondizionato. È tempo che le analisi più innovative su una possibile riforma del welfare incontrino chi ritiene che l’inferno della precarietà non sia una condanna a vita.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110608/manip2pg/13/manip2pz/304568/
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Joseph Halevi
Si avvicina la nuova crisi globale 08.06.2011
Una nuova ondata di crisi globale, separatamente dalla farsesca querelle europea sulla Grecia che sta affondando la Ue nelle sabbie mobili, appare vieppiù probabile. Il fulcro della possibile crisi risiede nel rapporto tra i prezzi delle materie prime e delle derrate alimentari da un lato e la crescita cinese ed indiana dall’altro e da come questi due fenomeni vengono integrati nelle scelte speculative dei mercati finanziari.
A metà aprile il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, riferendosi all’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, affermò che decine di milioni di persone nei paesi in via di sviluppo si trovano ad un passo dal precipizio. Inoltre l’inflazione stimola bolle speculative legate ai mercati a termine, cioè legate alla speculazione di oggi sui raccolti di domani. La crescita cinese, ed in misura minore quella indiana, costituisce il principale fattore dell’espansione della domanda di derrate così come di materie prime. Tuttavia i prezzi non stanno seguendo la dinamica della domanda reale dei prodotti in questione, bensì crescono sulla base delle aspettative di lucro che scaturiscono dall’acquisto di prodotti finanziari derivati emessi nei confronti delle commodities. Una componente crescente della domanda proviene dalle società finanziarie occidentali che collocano i denari che ottengono dallo stato in strumenti derivati. Ciò vale anche per i campi destinati alla coltivazione.
Una recentissima inchiesta della Bbc ha mostrato che il prezzo di un ettaro di terreno coltivato a grano nel Kansas, la cui produzione è ampiamente esportata, è passato in pochissimo tempo da 750 a circa 1300 dollari. Gli agricoltori sostengono che chi acquista un campo a tale prezzo non può attendersi dei profitti. Tuttavia la crescita dei valori dei terreni non è dovuta all’entrata di nuovi produttori, bensì ad investitori finanziari. Questi si attendono, grazie alla crescita cinese ed indiana, un’ulteriore inflazione nei prezzi dei cereali.
Concentrandoci sulla Cina, notiamo che l’inflazione delle materie prime industriali importate comprime i margini di profitto delle imprese, mentre quella dei prezzi agricoli taglia i salari in un contesto in cui la componente alimentare è una grossa fetta della spesa delle famiglie, molte volte superiore alla percentuale occidentale. Quindi l’inflazione delle derrate crea in Cina una cesura sociale pericolosissima, dato che in molte zone del paese ci sono situazioni di rivolta. Inoltre l’inflazione complessiva gonfia la già strabiliante bolla immobiliare che è assai più ampia di quella statunitense di quattro anni fa.
Questo stato di cose accelera la necessità di riorientare l’intero processo di accumulazione in Cina, rendendone però l’attuazione estremamente difficile, tanto più che Pechino non sembra capace a cambiare regime di crescita senza passare da una crisi. In ogni caso, la Cina può mitigare l’impatto inflazionistico dei prezzi delle derrate e delle materie prime solo riducendo sensibilmente il suo tasso di crescita economica, altrimenti non farebbe che rinvigorire le aspettative speculative circa un eccesso di domanda strutturale riguardo i prodotti primari.
Da Pechino torniamo ora a Chicago e a New York ma anche a Londra, Zurigo e Francoforte. Da quando i prezzi delle materie prime e della derrate si sono messi a salire sistematicamente, una vastissima quantità di prodotti derivati è stata emessa sul loro conto. Le operazioni sui mercati a termine sono planetarie e non possono essere facilmente incapsulate nei regolamenti varati a Basilea 3. Sfuggono ad ogni supervisione. La speculazione sui mercati a termine e, per le stesse ragioni, sui campi di grano del Kansas, è resa possibile sia dalla grande liquidità fornita dagli stati alle banche a tassi di interesse quasi nulli, sia dal fatto che il mercato immobiliare occidentale non tira più, per non parlare degli stagnanti investimenti industriali. Le società finanziarie che investono in derivati del cacao e in campi di grano del Kansas lo fanno perché dalla rivalutazione dei terreni possono finanziarie i dividendi nonché, cosa importantissima negli Usa, i fondi di pensione e la capacità di erogare i pagamenti.
Nel caso la Cina riuscisse a controllare l’inflazione l’intero meccanismo dei mercati a termine volgerebbe al ribasso con una deflazione dei prezzi delle materie prime, delle derrate, dei campi di grano e via dicendo. I fondi di pensione si troverebbero scoperti come nel caso dei mutui subprime ma su scala mondiale, passando per l’Australia, il Brasile ed altri paesi latinoamericani. Il peso della Cina sui prezzi e mercati futuri delle materie prime e delle derrate è tale che anche l’ipotesi di una piccola riduzione del suo tasso di crescita comporta pesanti ribassi nei corsi delle materie prime e svuoterebbe nuovamente i derivati dal loro supposto valore sui cui poggia, oggi più che mai, la finanza mondiale. L’altra alternativa è la continuazione della bolla dei mercati a termine e dei campi del Kansas che porterebbe in breve tempo alla convalida del pronostico di Zoellick.
Ps. Alle lettrici e lettori devo una spiegazione: la prolungata assenza dalle colonne del giornale è dovuta ad un mio esilio volontario che nasce con la crisi libica. Su questo punto mi trovo in totale accordo con le idee espresse da Rossana Rossanda.
joseph.halevi@sydney.edu.au
http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/06/articolo/4799/
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di Giannina Mura – PARIGI
Focus sulla Normandia dove si vive all’ombra dell’atomo «La mia generazione è una vittima della propaganda di stato» 08.06.2011
PARLA ESTHER HOFFENBERG, REGISTA DEL DOCUMENTARIO «AU PAYS DU NUCLÉAIRE»
Dopo un primo documentario nel 1980, Esther Hoffenberg si consacra alla distribuzione e alla produzione. L’urgenza di fare un film sulla madre, scomparsa nel 2001, la spinge di nuovo alla regia, con il film Les deux vies d’Eva (2005). Da allora non si è più fermata: «Ho sempre seguito il mio impulso: senza progetti di carriera, né scuole di cinema, mi sono creata il mio mestiere strada facendo», dice. Emblematico di questo percorso indipendente Au pays du nucléaire (2009), il suo terzo film, è un’inchiesta d’autrice su cosa significa vivere all’ombra dell’atomo nella regione più nuclearizzata del pianeta, il Nord-Cotentin (Normandia). Con spiazzante semplicità rovescia i miti che hanno imposto il nucleare in Francia, rivelando, sotto il tabù che lo circonda e la comunicazione «senza complessi» che lo promuove nel mondo intero, una realtà inquietante «invisibile quanto irreversibile». Trasmesso da France 2 nel novembre del 2009 (e selezionato al festival Cinemambiente di Torino), il film sta trovando un nuovo pubblico nella Francia post-Fukushima.
Come è nato questo film?
Sembra molto diverso, ma in fondo il filo conduttore di tutti i miei film è sempre un segreto o un tabù della nostra società. E il nucleare è un tabù francese. Nel 2007, mi aveva colpita l’autorizzazione per la costruzione del nuovo reattore Epr à Flamanville data da Chirac, senza alcun dibattito pubblico. Intuendo che ci fosse materia per un film, ho cominciato una lunga inchiesta che mi ha portata a prendere coscienza della gravità del problema nucleare. La mia generazione è stata cieca, ci siamo lasciati addormentare dalla propaganda dello stato e adesso ne misuriamo le conseguenze…
Prima non si era mai posta domande?
No. Il nucleare fa parte della nostra cultura. Sono nata nel 1950 da genitori traumatizzati dalla guerra, animati da una grande fede nella ricostruzione, nel progresso, nella scienza, e in questa fede sono cresciuta. Credo che valga per tutti i francesi, la compagnia elettrica, Edf, fa parte della nostra identità nazionale: ci siamo fidati dello slogan che senza il nucleare saremmo tornati alle candele. Ho sempre votato a sinistra, il sostegno del nucleare dal Pcf al Partito socialista, sindacati inclusi, non mi dava motivi per dubitarne. Solo nel corso delle indagini ho scoperto gli accordi con la destra e il tradimento di Mittérrand che, nonostante la promessa di diversificare le fonti di energia, ha accresciuto l’impegno nucleare del paese.
Paese che detiene oggi il record mondiale del numero di centrali per abitante, il Nord-Cotentin è una metafora della Francia?
Sì. Non mostro questa regione per stigmatizzarla, ma per far prendere coscienza del problema nazionale. Tanto più che il periodo delle riprese, nel 2008, ha coinciso con la presidenza europea della Francia, vivevo quindi in diretta il divario tra la comunicazione e la realtà. Mostrando la capillare campagna pubblicitaria di Areva, sponsor ufficiale della serata d’apertura alla Tour Eiffel, ho voluto sintetizzare quel periodo che ha rilanciato in grande stile la promozione francese del nucleare in Europa e nel resto del mondo.
Lei sostiene che in Francia essere pro o contro il nucleare, è una questione sorpassata: cosa intende?
Dichiararsi pro o contro il nucleare implica avere la scelta, come se potessimo pronunciarci con un voto che mai ci è stato concesso. Adesso che siamo tutti dentro «il fatto nucleare», queste posizioni sono sorpassate da questioni più impellenti : a) Come convivere con quello che esiste; b) Come uscirne e in quanto tempo; c) Quali sono i problemi da affrontare in priorità. Col film mi rivolgo al 90% dei francesi che sostiene il nucleare, perciò la neutralità è stata la mia strategia durante le riprese e il montaggio, assumendo il ruolo di una libera cittadina che non rinuncia a fare domande. Il tabù nucleare lo si riconosce dalla sensazione di rigetto che si avverte negli interlocutori quando si pongono certe questioni. Ma per la prima volta durante tutte le riprese ho avuto paura di non poter terminare il film. Una paura talmente umiliante, che la voglia di vincerla ha rinforzato la mia determinazione di andare avanti.
Il denaro sembra determinante per l’accettazione del nucleare, i sindaci nel film parlano addirittura di «manna»…
Nel film i sindaci che descrivono la ricchezza che traggono dal nucleare per il loro territorio, in impieghi e infrastrutture, sono come il coro di un’orchestra… La chiave economica è fondamentale per capire la predominanza del nucleare nel nostro paese e i suoi stretti legami con la politica.
Lei dice che la vita sociale è possibile solo con una forma di rinuncia alla libertà di parola su questi temi…
Se si è contro il nucleare si appartiene a una minoranza marginale, il prezzo sociale da pagare è molto elevato. Per evitare il conflitto permanente, la gente sceglie il comfort di oggi, nega il pericolo e non vuole interrogarsi sul futuro. D’altra parte, le autorità e l’industria, molto attive nel rassicurare e minimizzare il pericolo, portano la gente a celare i timori e i dubbi dentro di sé, alimentando il tabù.
Le associazioni locali hanno optato per la misura della radioattività nell’ambiente, ma questa azione, pur sempre di protesta perché sfiducia i dati ufficiali, serve davvero?
È molto importante. Per questo mostro le attività di Greenpeace e dell’Associazione per il Controllo della Radioattività dell’Ovest (Acro). Se Greenpeace è apertamente antinucleare, quelli dell’Acro dicono «non siamo né pro, né contro, siamo semplici cittadini e vogliamo sapere cosa sta succedendo nel nostro territorio». Con i loro prelievi e le loro misure portano la gente a conoscenza del pericolo, e quindi alla critica.
Il film evoca i rischi che il nucleare fa pesare sull’ambiente e sulla salute, soffermandosi sulla gestione della scorie. Perché?
Perché dà tutta la misura dell’impatto irreversibile del nucleare e dei costi incredibilmente sottostimati di questa gestione, che chiama in causa la nostra responsabilità verso le generazioni future. Nel film mostro che le soluzioni di stoccaggio sono ancora allo studio e che le scorie più radioattive dell’industria nucleare francese degli ultimi quarant’anni sono tutte concentrate nel centro Areva di La Hague. Areva, che ha elaborato una comunicazione molto aggressiva, tanto sul «nucleare pulito» che sul «riciclaggio» delle scorie, sta trasformando queste scorie in migliaia di «pacchetti vitrificati» che, assicura, bloccheranno la radioattività per migliaia di anni. Mentre nel vicino Centre de la Manche, il rischio di contaminazione delle nappe freatiche impone la sorveglianza costante per i prossimi 300 anni. Sono pretese di gestione mostruose, se si considera che solo cinquant’anni fa s’ignorava tutto della vita odierna, per non dire 300 anni fa, all’epoca di Luigi XIV! Uno dei grandi mutamenti imposti dall’era nucleare è che per la prima volta nella storia, lasciamo alle generazioni future un’eredità catastrofica. Anche questo fa parte del tabù, non vogliamo che i nostri figli vivano nel terrore, eppure, con il nostro consenso tacito da più di quarant’anni, trasmettiamo loro questo lascito disperante.
Cos’è cambiato dopo Fukushima ?
Il trauma ha certamente incrinato il consenso monolitico e c’è molta più attenzione alle questioni poste dal film. Ma l’urgenza di come uscirne sarà difficilmente affrontata a breve termine, vista la capacità dell’industria di riassorbire anche gli incidenti più gravi. Manca una forte volontà politica, per questo è importantissimo il lavoro di sensibilizzazione delle associazioni. Il dibattito sta cominciando adesso.
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GRECIA
La Germania compra tlc. E l’aeroporto di Atene? 08.06.2011
Il programma delle privatizzazioni varato dal governo greco con la «troika» – Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea e Banca Centrale Europea – si è messo in moto partendo da una società dalle più facili da privatizzare visto che in pratica si tratta di una società già privatizzata, la Ote, la compagnia greca della telefonia, leader del settore nei Balcani. La società tedesca Deutsche Telecom ha annunciato in un comunicato la sua decisione di acquistare il 10% delle azioni dell’Ote che attualmente sono di proprietà dello Stato greco. Nel comunicato la compagnia tedesca afferma che, nell’ambito dell’accordo raggiunto nel maggio del 2008 (quando acquistò circa il 30% delle azioni dell’Ote), il governo greco ha informato la Deutsche Telecom che intende fare uso del diritto alla vendita del 10% delle azioni che ancora possiede. In base al prezzo attuale delle azioni dell’Ote, il costo finale per i 49 milioni di azioni che corispondono al 10% del capitale azionario della compagnia raggiungerà i 400 milioni di euro. Una volta trasferite le azioni alla Deutsche Telecom, la compagnia tedesca sarà proprietaria del 40% dell’Ote. Ma la Germania vuole comprare molto in Grecia. Secondo il Wall Street Journal, Fraport, la società che detiene e gestisce l’aeroporto di Francoforte (uno dei primi hub europei), ha espresso interesse per acquisire la quota pubblica nell’aeroporto di Atene, pari al 55%.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110608/manip2pg/04/manip2pz/304533/
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I Paesi Bassi impongono la Net Neutrality per legge 09.06.2011
Bandita l’ipotesi di una Internet a due velocità. Gli ISP non potranno discriminare servizi e applicazioni.
Mentre il dibattito sulla neutralità della Rete è tutt’altro che concluso, il Parlamento olandese ha approvato una legge che obbliga provider e compagnie di telecomunicazione ad applicare i principi della Net Neutrality.
L’Unione Europea, tramite il Commissario Neelie Kroes, si è già espressa a favore di una rete libera e neutrale e contro l’ipotesi di una Internet a due velocità, ma i Paesi Bassi sono il primo Stato europeo a fare qualcosa di concreto a livello di normative.
Il voto in Parlamento è stato pressoché unanime nonostante all’esterno gli operatori premessero affinché la legge non passasse, avendo in programma di fornire certi servizi su rete mobile – come il VoIP – quali parti di un’offerta premium, dal costo ovviamente superiore rispetto alla connessione base.
Le compagnie telefoniche si stanno accorgendo di come certi servizi via Internet erodano, lentamente ma costantemente, quelli tradizionalmente offerti dalla telefonia mobile: è il caso, per esempio, degli SMS, l’uso dei quali è calato sensibilmente (l’8% in meno nei primi tre mesi del 2011, secondo l’operatore KPN) a causa del diffondersi delle app di messaggistica.
Perché la legge possa dirsi definitivamente approvata ora deve ottenere un ultimo voto presso la Camera dei Rappresentanti, fissato per la prossima settimana; tuttavia questo passaggio è ormai considerato una pura formalità.
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=15025
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Nuove supernovae: fari per illuminare l’Universo 09.06.2011
Scoperta una nuova classe di stelle in esplosione: sono 10 volte più luminose del normale e brillano molto più a lungo. Le potremmo usare per fare luce negli angoli remoti dello Spazio
di Martina Saporiti
Sei esplosioni stellari mai viste prime, inclassificabili, inspiegabili e 10 volte più brillanti e potenti delle supernovae di primo tipo. Quelle che, fino a questo momento, si pensavano essere le detonazioni più luminose dell’Universo.
Si tratta di un tipo completamente diverso dalle supernovae conosciute, tanto da meritarsi una categoria a parte, creata da Robert Quimby e dal suo gruppo di astronomi del Californian Institute of Technology, cui va il merito della loro scoperta, raccontata su Nature.
Le supernovae sono esplosioni di stelle morenti o il risultato dello scontro tra due soli. Non passano inosservate perché liberano nell’Universo un’enorme quantità di luce, così intensa da eguagliare (anche se per poco tempo) la luminosità dell’intera galassia che le ospita. Gli astrofisici le classificano in diversi gruppi, a seconda del tipo di radiazione che emettono, rivelatore della composizione chimica. Questa carta di identità dipende dal decadimento radioattivo degli elementi generati durante l’esplosione, dello shock termico interno alla stella o dell’interazione tra la polvere stellare liberata durante l’esplosione e il materiale circostante. Il tipo Ia, per esempio, si ha quando vi è traccia di idrogeno e si verifica quando i resti di un sole morente succhia materiale da una stella compagna; il tipo II, che contiene idrogeno, si ha quando il core di una stella massiva collassa su se stesso. Al momento sembra che nessuno dei processi elencati possa però spiegare la formazione di queste nuove sei supernovae, che contengono ossigeno (e niente idrogeno) e liberano fasci di raggi ultravioletti per un tempo molto lungo. Secondo i ricercatori, questi dati si spiegherebbero solo in presenza di supernovae a grande raggio che si espandono ad altissima velocità.
Quimby ne ha individuate 4 tra il 2009 e il 2010, grazie al Telescopio Oschin sull’ Osservatorio californiano del Monte Palomar. Le loro caratteristiche – la grande luminosità nonché la durata – gli avevano ricordato altre due strane esplosioni, osservate nel 2005 e nel 2006.
Dal momento che questa nuova classe di stelle in esplosione continua a emettere radiazione anche per anni, i ricercatori vogliono sfruttarle come fossero dei fari per illuminare gli angoli più remoti e primitivi delle galassie.
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Risveglio italiano
di Riccardo Petrella*, da il manifesto, 10 giugno 2011
La battaglia dell’acqua in corso da alcuni anni nel nostro Paese ha già prodotto due risultati di grande importanza storica sul piano politico-culturale. Il primo riguarda l’affermazione in seno alla società italiana di milioni di persone che pensano che le nostre società, per funzionare in maniera giusta e corretta, devono essere fondate su una reale partecipazione dei cittadini al governo della res publica. Il notevole successo popolare, spontaneo, della campagna di raccolta delle firme per la legge regionale toscana sull’acqua di iniziativa popolare, poi per la legge nazionale e infine per i referendum, insieme alle lotte dei No Tav, contro il nucleare, del movimento viola, del movimento 5 stelle, dei Gas, di Altraeconomia, Altrafinanza, dei Comuni virtuosi, dimostrano che i cittadini italiani vogliono cessare di essere trattati come dei sudditi da mantenere tali grazie a un sistema nazionale di media asserviti e di proprietà dei potenti. Non vogliono più essere ridotti a consumatori beati, a degli indivualisti profittatori (evasori, abusivi…), ma vogliono (ri)diventare cittadini nel pieno senso della parola.
La battaglia per l’acqua pubblica rivela che gli italiani non desiderano affatto ritornare allo Stato di prima, ma vogliono partecipare alla costruzione di un altro Stato, di una maniera differente di vivere e far funzionare i comuni, le province, le regioni. Vogliono un altro pubblico, giusto, efficace, trasparente, dove i cittadini sono partecipanti attivi. Quel che nei referendum (nucleare ed impedimento inclusi, ovviamente) è fonte di paura per i gruppi al potere (anche della sinistra autodefinitasi moderata) è proprio questo gran desiderio di voler essere cittadini.
Dopo quarant’anni di politiche che hanno deliberatamente distrutto il welfare non clientelare, in Italia soprattutto, il senso dello Stato e della comunità «cittadina»; dopo quasi tre generazioni di giovani educati a considerare le istituzioni pubbliche – i comuni, le regioni, lo Stato – come degli enti inutili, dilapidatori delle risorse pubbliche; e dopo l’enorme propaganda ideologica che per anni ha fatto credere che solo l’impresa privata possiede le competenze e i saperi adeguati per gestire tutti i servizi pubblici detti «locali» e che solo la finanza privata dispone delle risorse per fare gli investimenti necessari, la voglia di essere cittadini rappresenta un fatto notevole, esplosivo. Si può dire che i referendum rappresentano il momento simbolico di una «rivoluzione dei cittadini» dal basso, come è accaduto nel mondo arabo, in Spagna, in America latina.
Negli ultimi anni, a partire dalla difesa dell’acqua pubblica, centinaia di migliaia di italiani sono scesi nelle strade e nelle piazze di centinaia di città con i loro banchetti, le marce, gli spettacoli, i dibattiti per dire «non vogliamo né più Stato, né più Stato corrotto, né più privato, né più privato corrotto e predatore (prendi e scappa), né potentati finanziari, partitici o sindacali, né istituzioni politiche inefficaci, né parlamenti composti da persone che non meritano di essere rappresentanti dei cittadini. L’acqua pubblica significa non solo l’acqua dei cittadini, ma anzitutto l’acqua ai cittadini, per i cittadini e dai cittadini». L’acqua pubblica diventa uno degli strumenti più importanti per ricittadinare la città del vivere insieme.
Centralità dei beni comuni
Il secondo risultato non è da meno. Concerne la (ri)scoperta della centralità dei beni comuni in una società che pretende di essere efficace, di ottimizzare il vivere insieme in termini di «progresso» economico, sociale e civile. Chi mai l’avrebbe detto solo pochi anni orsono che i «beni comuni» sarebbero diventati un’idea cosi popolare nel nostro Paese? Una moda? Un fuoco di paglia? Per il momento, la realtà è che si contano a centinaia, in tutte le regioni d’Italia, i gruppi territoriali «acqua bene comune» nati spontaneamente.
Senza alcun dubbio, l’acqua è all’origine del fenomeno. Chi dice «beni comuni» dice beni essenziali ed insostituibili per la vita, dice beni cui corrispondono intrinsecamente diritti (e doveri) individuali e collettivi, beni che esprimono la ricchezza comune messa al servizio del diritto ad una vita decente per tutti, beni che richiedono la responsabilità di tutti i cittadini. Quando si parla di beni comuni ci si inserisce in un visione del mondo e della società profondamente diversa da quella imposta negli ultimi quarant’anni. Con i beni comuni si afferma il primato del vivere insieme sulla logica di sopravvivenza individuale, dei più forti, dei più prepotenti, dei più furbi. In Italia la battaglia per l’acqua bene comune ha largamente contribuito a (ri)dare il loro titolo di nobiltà di bene comune anche al sole, all’aria, alla conoscenza, alla terra, all’informazione, all’educazione, alla salute, la cui mercificazione e privatizzazione si sono affermate con forza, e con la condiscendenza di tutte le classi dirigenti, a partire dagli anni ’80. Molto verosimilmente è grazie all’acqua che i beni ora menzionati sono nuovamente, in quanto beni comuni, all’ordine del giorno dei dibattiti e dell’agenda politica concreta nazionale e soprattutto delle collettività locali.
Una spallata al liberismo
Per concludere, il vivere insieme è diventato un nodo centrale della politica italiana tout court. In questo senso i referendum rivelano problemi, sfide e scelte non imprigionabili in sacchetti per uso immediato. Leggere i referendum nei termini di una nuova spallata contro il governo Berlusconi è una tendenza facile cui molti non hanno resistito. In realtà essi debbono essere letti contemporaneamente come simbolo e sintomo di un rigetto, sempre più diffuso in Italia, del sistema economico capitalista di mercato, che ha condotto alla mercificazione di ogni forma di vita, alla privatizzazione del potere politico e alla confisca del ruolo di cittadini.
Voler (ri)diventare cittadini per la propria dignità e anche per vivere insieme agli altri nel contesto di una umanità da inventare è il secondo risultato della battaglia per l’acqua in Italia. La vita è un diritto per tutti. L’acqua, in quanto elemento essenziale e insostituibile per la vita, è anch’essa un diritto per tutti. È tempo di concretizzare i principi. La vittoria aprirà le vie a nuovi percorsi di rinnovamento, d’innovazione e di sviluppo di nuove «città».
* Fondatore del Comitato italiano per il Contratto mondiale dell’acqua, Presidente dell’Institut européen de recherche sur la politique de l’eau (Ierpe) a Bruxelles
http://temi.repubblica.it/micromega-online/risveglio-italiano/
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Ricordare per giudicare: il caso Battisti, la disinformazione brasiliana e la menzogna italiana. 10.06.2011
di Franco Piperno
Partiamo da alcuni fatti, per poi, attraverso l’esercizio del dubbio, pervenire ad una certezza che si conclude con un “caveat”.
Primo fatto. Battisti è stato condannato dai magistrati milanesi, oltre trenta anni fa, per gravissimi reati; in particolare la sentenza definitiva gli addebita quattro omicidi. Per due di questi crimini è ritenuto responsabile morale. Lui si proclama innocente. L’autorità politica del Brasile, paese retto da un regime considerato ”democratico” dalla diplomazia occidentale, gli ha accordato lo status di emigrato in considerazione della natura politica dei delitti di cui è accusato e delle vicende successive che lo hanno coinvolto; in altre parole, il governo brasiliano ha giudicato che lo svolgimento dei processi negli anni settanta, quando erano in vigore le ”leggi speciali contro il terrorismo”, abbia gravemente risentito delle procedure emergenziali adottate dallo stato italiano per far fronte ad una rivolta sociale, una “insorgenza di massa”, senza precedenti nella storia del paese.
Secondo fatto. Questo giudizio negativo non è certo una sorpresa, una inattesa ed irresponsabile offesa alla dignità del nostro paese dovuta alla cattiva conoscenza della storia italiana, in particolare di quella più recente. Infatti, in questi trenta anni, è accaduto più volte che delle richieste d’estradizione, avanzate dalla nostra magistratura per delitti riferiti agli “anni di piombo”, siano state formalmente respinte, dall’autorità straniera, con motivazioni del tutto analoghe a quelle formulate, qualche settimana fa, dal brasiliano presidente uscente Lula do Silva. E’ accaduto così per il Canada, la Svizzera, la Germania, la Gran Bretagna, la Svezia, il Nicaragua, l’Argentina,il Giappone per non parlare della solita Francia. La possibilità, che le autorità di tutti questi paesi difettino di giudizio e scarseggino d’informazioni sul nostro paese, è poco probabile. Più probabile appare, al contrario, che vi sia nel sistema politico italiano una coazione a ritrovare le sue origini, una sorda volontà di continuare a legittimarsi sulla repressione dei moti rivoluzionari degli anni settanta; o, per dirla con la vulgata mediatica, sul merito di aver salvato la repubblica democratica dal terrorismo rosso– omettendo, forse per modestia, quello di aver potentemente contribuito a generarlo. Sicché, qualsiasi episodio che getti dubbi sulle misure liberticide adottate in quegli anni, o anche solo sulle sentenze giudiziarie di quel periodo, viene vissuto dal ceto politico con emozione trasversale, non priva d’isteria, maggioranza ed opposizione insieme; quasi si fosse in presenza di un subdolo attentato alla credibilità del potere. Insomma, sarà il presidente Lula a sbagliare giudizio sulla tragedia italiana degli anni settanta o il presidente Napolitano a rimuovere inconsapevole le gesta del compagno Pecchioli ,ministro ombra di polizia e attore protagonista in quella tragedia?
Terzo fatto. Risulta paradossale che il presidente del consiglio ed il ministro di giustizia si lamentino della scarsa considerazione in cui è tenuta la nostra magistratura presso le autorità brasiliane, quando entrambi, all’unisono e quotidianamente, denunciano la”malattia italiana”, l’uso politico della giustizia da parte dei giudici. Dopotutto, può darsi che Lula legga, di tanto in tanto, il “Giornale” di famiglia o ascolti il notiziario del TG1… Forse Berlusconi e Alfano credono, in buona fede va da sé, che questo stravolgimento del ruolo dell’ordine giudiziario, questa malattia istituzionale sia stata contratta solo recentemente, quando lo stesso Berlusconi, Previti e dell’Utri sono rimasti impigliati nella rete. Forse, sembrano credere, negli anni settanta la situazione era diversa, allora sì che la magistratura era affidabile ed imparziale ed i giudici non si candidavano a deputati. Purtroppo possiamo testimoniare, alcuni tra noi per diretta esperienza, che non era cosi, il vizio è vecchio per non dire antico. Anzi, a vero dire, i metodi giudiziari erano certo più sommari e crudeli allora che oggi; e la stampa, tutta la stampa, al minimo, mentiva per omissione. Dobbiamo tuttavia, a questo proposito, per onestà intellettuale, notare che, allora, non si trattò solo di pulsioni forcaiole di un buon numero di giudici quanto della pochezza del potere politico che incapace di mediare, di svolgere il suo ruolo, finì col trattare quell’aspro scontro sociale come un problema d’ordine pubblico, affidandone la soluzione, attraverso la legislazione d’emergenza, a polizia e magistratura. Questa delega è ancora in vigore oggi, in questa seconda repubblica allo stato nascente, quando si rievocano, per un motivo od un altro, quegli anni; e questo con ragione proprio perché la seconda repubblica è una conseguenza non tanto della scomparsa della Unione sovietica e ancor meno della corruzione di tangentopoli, che continua più vigorosa di prima; ma piuttosto, l’insurrezione armata di studenti ed operai la ha generata nel senso di provocare, per così dire,la rottura del ramo e la scoperta del verme: l’emersione nella coscienza collettiva del paese della consapevolezza sulla vera natura delle istituzioni repubblicane nate dalla Resistenza, quel grondare di lacrime e sangue scatenato dalle leggi liberticide e dalla licenza d’uccidere conferita alla macchina repressiva dello stato.
Il dubbio. Noi nutriamo più di un dubbio sulle sentenze imperniate attorno al nebuloso strumento giuridico della responsabilità morale – e questo vale per Battisti come per Sofri, per quanto grande possa essere la differenza di spessore intellettuale ed umano tra i due. Infatti, a sostegno della ragionevolezza delle nostre perplessità, potremmo sciorinare qui centinaia e centinaia di casi d’ordinaria iniquità accaduti in quegli anni, quando la responsabilità morale veniva irrorata con una certa generosità a destra e a manca; e di conseguenza, la “migliore parte” del paese, oltre cinquemila giovani e meno giovani, ha conosciuto l’esilio, il carcere, la tortura, in decine di casi la morte; giunta qualche volta perfino nella forma bizzarra del “malore attivo”, per defenestrazione dai piani alti della Questura durante un interrogatorio di polizia, come a Milano; o in modo vile, esecuzione sommaria mentre ancora il sonno del primo mattino rendeva inermi, come a Genova. A noi appare evidente che la responsabilità morale è una circostanza difficile da accertare; e averne sollecitato l’uso ha suonato come un ordine di servizio impartito all’apparato repressivo perché menasse fendenti nel mucchio, ne colpisse cento pur di educarne uno. Per inciso, l’analogo della “responsabilità morale” degli anni settanta è, ai nostri giorni, il reato di “associazione esterna” alla mafia, fattispecie di recente apparizione nella giurisprudenza ma sconosciuta ai codici – anche in questo caso, l’indeterminazione intrinseca del reato, congiunta all’uso del carcere speciale, consente alla repressione di esercitarsi non tanto sui criminali quanto di terrorizzare il tessuto sociale nel quale la criminalità trova il nutrimento delle sue radici, alimenta un consenso che proviene dalla appartenenza alla stessa cultura.
La certezza. Ma supponiamo pure che i processi ai quali è stato sottoposto Battisti si siano celebrati nella rigorosa osservanza delle garanzie che la legge ordinaria assicura all’imputato; e che le prove offerte dall’accusa siano risultate di una evidenza lampante – il che è, appunto, contro fattuale o almeno del tutto improbabile che sia avvenuto. Anche così resta un argomento forte a favore di Battisti; nel senso che, malgrado i crimini commessi, conviene che sia restituito alla vita civile o almeno lasciato in pace, coi suoi turbamenti e rimorsi, nel paese che ha deciso di accoglierlo. Questo argomento proviene a perpendicolo dalla Carta Costituzionale, tanto spesso retoricamente invocata e troppe volte tradita. Nella nostra legge fondamentale l’espiazione della pena non è concepita come primitiva afflizione del reo volta a lenire l’irreparabile dolore ed il comprensibile rancore delle vittime, dei familiari e dei loro amici. Piuttosto, la funzione civile della privazione della libertà, e delle altre sanzioni accessorie, è quella di redimere il colpevole; in modo che la fine della pena coincida con la realizzazione del suo fine e l’espiazione si concluda con il recupero di un essere umano alla comunità degli uomini. Sicché ci sembra di poter concludere che, secondo la carta fondante della repubblica nella quale ci è capitato di vivere, Battisti ha terminato il suo periodo d’espiazione; infatti, negli ultimi trenta anni, vivendo ora in un paese ora in un altro, non ne ha mai violato le consuetudini e le leggi; inoltre, i suoi libri, con il loro discreto successo, attestano che il processo di reinserimento nella vita civile si è già positivamente concluso. Per altro, come già notato, le sentenze contro Battisti comportano addirittura più ergastoli; e solo il clima giustizialista, che avvelena il dibattito italiano sul tema, può spiegare l’oblio in cui è caduta la voce, ragionevole ed appassionata, di quei giuristi democratici che da tempo avanzano pesanti dubbi sulla coerenza di tale pena con lo spirito e la lettera dell’ordinamento costituzionale. Sicché, quello che la nostra migliore tradizione giuridica non riesce ad accettare, difficilmente potrebbe essere condiviso dalle autorità di un paese, come il Brasile, dove l’ergastolo è sconosciuto – per inciso, occorrerà pur dirlo, questa pena è considerata in molte parti del mondo un’eccezione disumana, anche se, proprio da noi, sembra essersi dileguato il senso della sua intrinseca ed inutile crudeltà. Insomma, per concludere su questo punto, la richiesta italiana di estradare un condannato all’ergastolo da un paese dove il “fine pena mai” è ritenuto una “tortura giuridicamente legittimata” risulta con ogni evidenza irricevibile. Eppure, in Italia, i mezzi di comunicazione pressoché unanimemente non solo ritengono che l’estradizione sia dovuta, ma giudicano un’offesa alla dignità nazionale il fatto che il Brasile non si sia ancora risolto a concederla.
Rispetto e pietà. Va da sé che la nostra analisi del caso Battisti non può ignorare la tragica sofferenza alla quale sono state consegnate – qualche volta, occorre pur dirlo, per caso, per fuoco amico – le vittime ed i loro parenti. Ma poiché il male inferto non è reversibile, l’unica possibilità di riscattarlo è trarre partito da esso, insomma imparare dagli errori, per quanto tragici possano essere. Questo vuol dire che il solo rispetto che dobbiamo alle vittime è di ricostruire la comune verità racchiusa negli anni di piombo, quel formidabile periodo quando v’è stata un’insorgenza di massa contro gli aspetti tirannici del potere, le sue menzogne e ipocrisie. Non v’è verità comune se viene negata o peggio rimossa la qualità di quella esperienza, la inebriante passione civile che ha portato centinaia di migliaia di giovani e meno giovani a prendere la parola in pubblico, a togliersi le umilianti maschere di suddito per divenire cittadini attivi, protagonisti del loro destino, artefici della loro realizzazione. Anche se questo ha comportato, come è accaduto altre volte nella storia, che si arrecasse e si ricevesse distruzione e morte. Dire la verità vuol dire prima di tutto respingere la riduzione blasfema dell’insorgenza di massa a pratica terroristica, del ribelle a deviante criminale. Solo a partire dal riconoscimento del fatto che in Italia, negli anni settanta c’è stata una piccola guerra civile; e, come in tutte le guerre civili, tanto le vittime che i carnefici stavano da una parte e dall’altra; solo a questa condizione, è possibile intravedere un percorso di verità, di crescita interiore del nostro paese che lo porti a liberarsi dal senso di colpa che lo opprime. Infatti, che in Italia il potere politico sia posseduto da una coazione a ripetere la pubblica menzogna risulta evidente dall’uso cinico del sentimento di pietà verso le vittime, quelle addebitabili agli insorti – sentimento che viene deformato e rappresentato impudicamente nella forma di rivendicazione teatralizzata; e, ad un tempo, dal silenzio, rotto solo per propalare calunnie, dentro il quale viene sigillato il dolore per le altre vittime, cadute sotto il fuoco dei tutori dell’ordine quando non per mano dei mercenari della reazione – questi ultimi intenti , in quegli anni, più o meno segretamente, all’eversione della repubblica, mentre oggi siedono meritatamente sugli scanni del parlamento repubblicano.
Caveat. Il caso Battisti, proprio perché non si può dire che il suo protagonista meriti il titolo d’eroe, è l’occasione, il tempo giusto per fare i conti pubblicamente col passato , strappando la verità al futuro. Ed è per questo che noi, consapevoli delle responsabilità che ci assumiamo, concludiamo ricordando – agli smemorati eredi del ceto politico degli anni settanta, alti funzionari della repressione, ex-mercenari – un antico dictum magnogreco che risuona come un appello ed un avvertimento insieme: “solo se rispetteranno l’onore e gli Dei dei vinti i vincitori saranno salvi”.
FONTE: Loop
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Per la Grecia mai ci fu pietà 10.06.2011
Prevale la linea dura sulle misure da adottare per la Grecia da parte degli europadroni della troika ed ora la situazione si fa davvero pesantissima dal punto di vista politico. Dal Fondo monetario internazionale alla Banca centrale europea è un coro di no alla ristrutturazione del debito, una decisione che costringe di fatto il governo allo show down definitivo con una manovra finanziaria durissima in cambio di nuovi aiuti, che dovrebbero aggirarsi sui 90 miliardi di euro, miliardo più miliardo meno. L’ammontare del piano inoltre dipenderà anche dal grado di coinvolgimento delle banche private che potrebbero entrare nel piatto con propri finanziamenti. Un’ipotesi questa che però trova pochi estimatori dato che le banche come ben sappiamo di responsabilità ne hanno poca a meno che non si tratti di speculare.
Atene intanto corregge al ribasso il Pil del primo trimestre e il premier Papandrou sottolinea che il Paese è ad un «crocevia definitivo», lui lo sa bene visto che in questa crocevia senza uscita la Grecia c’è arrivata proprio per le scelte del governo socialista che di fatto ha venduto la propria sovranità economica alla Troika BCE FMI e Commissione Europea. Un trio che ha legato al collo del paese il cappio dell’austerity. L’altro giorno sembrava si fosse registrata una possibilità reale per la proposta di una ristrutturazione ‘soft’ del debito, ma oggi la Bce ha invertito rotta: l’istituto non farà sconti a nessuno «non è a favore di una ristrutturazione, di un ‘haircut’ e via dicendo», ha detto il presidente Jean Claude Trichet, escludendo «ogni concetto che non sia volontario» e chiedendo di «evitare ogni evento creditizio o default selettivo». Insomma le banche tedesche e francesi che detengono la maggior parte del debito greco non intendono mollare nulla. Questo in fin dei conti spiega il perchè la BCE è letteralmente terrorizzata dalla crisi greca, e non s più a che pesci prendere dato che in due giorni ha detto tutto ed il contrario di tutto. Se ristruttura il debito le banche tedesche perdono profitti e la crisi rischia di espandersi in Europa come un virus, se non lo fa la Grecia rischia di esplodere socialmente portandosi con se l’Europa in caso di incapacità di ripagare le rate di scadenza del debito. Cosi dopo la Bce, anche l’altro socio di maggioranza, il Fmi ha fatto sapere che tutte le parti coinvolte nelle discussioni su un nuovo programma di aiuti internazionali alla Grecia sono contrarie ad una ristrutturazione del debito pubblico del Paese, quindi non solo le banche tedesche e francesi ma anche quelle americane e inglesi non mollano nulla. Contrario a ipotesi di ristrutturazione è anche l’ad di Unicredit Federico Gihizzoni, che evidentemente ha qualche interesse nella partita: «Credo – ha detto all’ansa – che se per ristrutturazione s’intende un taglio del debito, quindi uno sconto, sostanzialmente sono d’accordo con Draghi: ciò sarebbe estremamente pericoloso»… per i nostri interessi soprattutto (ndr). Sembra ormai inevitabile allora un nuovo piano di aiuti internazionali per Atene, aiuti che però arriveranno se si privatizzerà il privatizzabile ed anche oltre. Jean Claude Juncker presidente dell’eurogruppo precisa che l’ammontare dipende dal grado di coinvolgimento e dall’entità del contributo che verrà dal settore privato, che come detto precedentemente sarà ben poca cosa. Secondo fonti citate dall’agenzia Bloomberg, i governi europei e l’Fmi potrebbero concedere nuovi aiuti per 45 miliardi di euro, nell’ambito dell’ultimo piano di salvataggio triennale. Si avete capito bene, dovremo fare finanziarie per prestare i soldi alla Grecia che finiscono di fatto per rassicurare le banche tedesche.
Secondo una fonte diplomatica citata dall’Afp il nuovo piano di aiuti dovrebbe aggirarsi attorno ai 90 miliardi di euro per coprire i bisogni della Grecia almeno fino a metà 2014. Intanto ad Atene, anche oggi i lavoratori sono scesi in piazza contro la Troika, il 15 giugno è previsto un’altro sciopero generale, ed il movimento degli indignados ha portato in piazza nuova energia giovane che non aveva fino ad oggi partecipato alle manifestazioni. Sempre oggi il pacchetto di misure di austerità da 78 miliardi per i prossimi 5 anni ottiene l’ok del Consiglio dei Ministri e arriva in Parlamento, dove tutti chiedono responsabilità . L’istituto di statistica ha rivisto oggi al ribasso le stime sul Pil; sale la pressione sui tassi dei titoli di Stato (il rendimento dei titoli decennali è salito al 16,58% con lo spread rispetto al corrispettivo bund tedesco che si è ampliato a 1.353,6 punti, mentre il tasso dei titoli biennali ha di nuovo superato il 25%); sempre oggi è salito a nuovi massimi il rischio debito con i credit-default swap sul debito greco che segnano un aumento di 30 punti base al record di 1.522. Ieri inoltre il tasso di disoccupazione è arrivato al suo massimo storico.
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Clonazione: mucca argentina produce latte umano 10.06.2011
La notizia è vera e anche se è una mucca non è una bufala. Anzi è il primo esperimento al mondo che vede l’inserimento di due geni in un unico animale clonato, pratica per ora bandita in Europa.
L’annuncio è stato fatto nientemeno da Cristina Kirchner Presidente dell’Argentina. Rosita, questo il nome dato alla mucca razza Jersey, è stata clonata il 6 aprile scorso e le sono stati impiantati 2 geni umani che le consentiranno di produrre un latte simile a quello delle mamme. Ha detto la Kirchner:
Potrebbe essere molto utile per quei bambini che, per qualche ragione non hanno accesso al seno. Questa innovazione è un vero e proprio orgoglio per gli argentini.
L’esperimento è stato condotto da Germain Kaiser, Nicola Mucci (Gruppo Biotecnologie Balcarce INTA) e Adrian Mutto tre ricercatori che lavorano per l’Istituto Balcarce dell’INTA.
Per migliorare il latte i ricercatori hanno inserito attraverso un vettore, nel genoma di Rosita ISA due geni poiché producono proteine dalle caratteristiche specifiche: il lisozima antimicotico, antibatterico e antivirale e la lattoferrina che consente una migliore sintesi del ferro.
Le reazioni sono state durissime. Scrive la Lav nel suo comunicato stampa:
Negli ultimi dieci anni gli esperimenti di clonazione animale sono stati numerosissimi e perlopiù fallimentari, con bassa efficienza delle procedure, ovvero con perdita di vite animali: un dato che molti scienziati si guardano bene dal dichiarare pubblicamente. Infatti la maggior parte degli embrioni animali clonati muore nei primi mesi di gravidanza o, nel caso si concluda il periodo gestazionale, in molti casi nasce morto o con deformità incompatibili con la vita. Più di uno studio, infatti, riferisce risultati allarmanti in materia di clonazione animale: sia quelli dell’Efsa (“ogni 100 animali clonati, 40 presentano problemi di salute, una percentuale che può essere ancora superiore per i cuccioli di meno di sei mesi”), che il precedente studio basato su dati INFIGEN (una delle multinazionali clonatrici) e su studi di Atsuo Ogura del National Institute of Infectious Diseases di Tokyo, secondo cui il 75% degli embrioni animali clonati muore entro i primi due mesi di gravidanza e il 25% nasce morto o con deformità incompatibili con la vita; da 100 cellule di partenza, mediamente una sola diverrà un animale “adulto e sano”.
Via | La Segunda
Foto | La Segunda
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Computer al DNA, radici quadrate per crescere 10.06.2011
Un team di ricerca californiano ha predisposto un sistema formato da componenti biologiche capace di calcolare la radice quadrata di alcuni numeri. Ma l’obiettivo è creare la migliore interazione uomo-macchina
Roma – Dopo il gioco del tris, i problemi matematici di una certa complessità, ora le radici quadrate. Un sistema informatico composto da 74 sequenze di DNA è riuscito a calcolare la radice quadrata dei numeri fino al 15. Sebbene l’operazione sia stata compiuta con una certa lentezza, gli scienziati sostengono che l’obiettivo sia quello di realizzare dei computer che possano interagire direttamente con le cellule umane e, magari, combattere le malattie.
L’operazione è stata compiuta dai ricercatori del California Institute of Technology (Caltech), i quali hanno composto 74 sequenze formate dall’acido biologico che, a loro volta, formano 12 porte logiche in grado di competere con quelle in silicio dei normali PC. L’unico incoventiente, al momento, è la lentezza con la quale il sistema compie le operazioni: 10 ore per ottenere ciascun risultato.
Le nuove scoperte tracciano un progresso sognificativo nell’ambito del cosiddetto DNA computing che vede impegnati scienziati e ricercatori da circa un ventennio. Secondo Erik Winfree, bioingegnere del Caltech, arrivati a questo punto non si tratta più di competere con i chip in silicio, bensì di far interagire le macchine direttamente con le cellule biologiche.
Per Winfree, infatti, l’obiettivo del progetto non è raggiungere velocità avanzate, bensì evolvere l’obiettivo originario fissato dal papà del DNA computing Leonard Adleman: quello, cioè, di sfidare i chip in silicio per risolvere problemi matematici. Ora invece, prosegue Winfree, l’asticella si è alzata dal momento che il fine è diventato quello di “migliorare i sistemi affinchè possano sondare gli ambienti molecolari, elaborare i segnali chimici, prendere delle decisioni e agire a livello biologico”.
L’idea più grande, dunque, è che il computing fondato sull’acido desossiribonucleico sia in grado di compiere funzioni logiche in maniera migliore delle comuni macchine in silicio. Il vantaggio risiede nella grandezza minima e nelle migliori prestazioni in relazione con il corpo umano, dal momento che un circuito formato da componenti biologiche è in grado di interagire in maniera migliore con le cellule e i tessuti umani al fine di rintracciare e curare le malattie.
Cristina Sciannamblo
http://punto-informatico.it/3180853/PI/News/computer-al-dna-radici-quadrate-crescere.aspx
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Carlo Rubbia: “Geotermico: energia sicura e subito” 11.06.2011
Carlo Rubbia, Nobel per la fisica, torna a parlare di energie rinnovabili indicando come fonte potente e immediata quella geotermica. Nell‘intervista rilasciata a La Repubblica spiega che prima che le rinnovabili brillino per produzione sono necessari ancora 10-15 anni. Nella fase di transizione conviene puntare su un mix di gas e geotermia, energia ancora troppo poco usata.
Spiega Rubbia:
Innanzitutto il gas, che è arrivato al 60 per cento di efficienza e produce una quantità di anidride carbonica due volte e mezza più bassa di quella del carbone: il chilowattora costa poco e le centrali si realizzano in tre anni. E poi c’è la geotermia che nel mondo già oggi dà un contributo pari a 5 centrali nucleari. L’Italia ha una potenzialità straordinaria nella zona compresa tra Toscana, Lazio e Campania, e la sfrutta in maniera molto parziale: si può fare di più a prezzi molto convenienti. Solo dal potenziale geotermico compreso in quest’area si può ottenere l’energia fornita dalle 4 centrali nucleari previste come primo step del piano nucleare. Subito e senza rischi.
Foto | Scienze-naturali
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No al nucleare? Ecco un nastro che sfrutta Sole, vento e pioggia 13.06.2011
Il quorum per i referendum è stato raggiunto. E addio all’atomo. Resta il limite delle rinnovabili: la dipendenza dal meteo. Ma ci sarebbe una soluzione
di Tiziana Moriconi
Oltre la maggioranza degli italiani è andata a votare per il referendum su energia atomica, privatizzazione dei servizi idrici e legittimo impedimento, e per la prima volta dal 1995 si è raggiunto il quorum. Prevedibilmente per la maggior parte delle schede grigie – quelle sul nucleare – la croce sarà stata messa sul Sì. E così si dirà no a tutta una serie di questioni problematiche (come quella, spinosa, della gestione delle scorie) ma, com’è noto, anche a notevoli vantaggi. L’energia nucleare, infatti, ha un rendimento molto più alto di quello delle fonti rinnovabili e, ovviamente, ha il grande beneficio di essere costante.
Indipendentemente dal destino dell’Italia, in tutto il mondo gli ingegneri stanno lavorando per abbattere entrambi i limiti delle energie alternative. Certamente, l’affrancamento dal dio meteo è di là da venire, ma qualcuno sembra aver trovato un modo di sfruttare, con un solo dispositivo, sole, vento e pioggia.
Il suo nome è Elias Siores, ricercatore e docente dell’Institute for Materials Research and Innovation, presso l’Università di Bolton (Gb), e la sua invenzione è un ibrido in grado di catturare l’energia dai tre elementi. Si tratta di una sorta di nastro flessibile costruito con un materiale piezoelettrico (in grado, cioè, di trasformare l’energia meccanica delle sollecitazioni in energia elettrica). In particolare, è stato scelto un materiale ceramico rivestito con fluoruro di polivinilidene (PVDE): quello che ha dato i migliori risultati nel tunnel del vento e nei test di simulazione della pioggia. Ogni volta che il nastro è scosso dal vento o colpito da una goccia di acqua, genera elettricità.
Il nastro è stato poi ricoperto con un film fotovoltaico flessibile. L’opera è stata completata con due elettrodi alle estremità del dispositivo. Il rendimento? 10 centimetri quadrati possono generare 1-2 watt in condizioni di pieno sole, come riportato nello studio di Siores pubblicato su Smart Materials and Structures.
Il sistema funziona, ma per ora fornisce energia sufficiente solo per piccoli dispositivi, come i cellulari. Ciò non toglie, però, che in futuro si possa applicare l’idea su una scala più grande; come riporta un articolo del New Scientist, lo stesso Siores immagina una grande centrale con una struttura a cono e ricoperta dei suoi speciali nastri.
(Credit per la foto: Getty Images)
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Obama mette Internet in una valigetta 13.06.2011
Il progetto di una ventiquattrore capace di funzionare da hotspot e superare i blocchi della Rete imposti dai regimi. Questo il piano Usa per aiutare i dissidenti
di Martina Pennisi
Per un bottone che la spegne, uno che la riaccende. L’amministrazione Obama, secondo quanto ricostruito dal New York Times, sta studiando un serie di escamotage per garantire il collegamento alla Rete laddove i Governi filtrano, censurano e bloccano l’accesso ai contenuti. L’intenzione è quella di dare un sostegno tecnologico agli oppositori dei regimi – il Nyt cita Iran, Cina, Corea del Nord, Afghanistan e Libia – che, come la recente storia dimostra, possono contare su Web e social media per organizzare la protesta internamente e comunicare oltre i confini ciò che sta accadendo. Trovare il modo di aggirare la censura, che si tratti di Internet o delle Reti mobili, è in molti casi l’unica possibilità che i dissenti hanno per far rimbalzare un messaggio e gli States hanno preso a cuore la questione: ” Vediamo sempre più persone che fanno sentire la loro voce contro le ingiustizie e cercano le realizzare le loro aspirazioni tramite Internet, telefoni cellulari e altre tecnologie. E’ un’opportunità storica, un cambiamento positivo, che l’America sostiene. Stiamo facendo di tutto per aiutarli a comunicare fra loro”, ha dichiarato il segretario di Stato Hillary Clinton alla testata a stelle e strisce, confermando di fatto l’esistenza dei progetti citati.
Uno di questi, per esempio, conta sugli oltre 15,5 milioni di telefoni cellulari presenti in Afghanistan ed è relativo alla creazione di una rete mobile indipendente e alternativa all’interno del paese. Dipartimento di Stato e Pentagono hanno previsto per questo progetto un budget di 50 milioni di dollari. A fare notizia, con uno sforzo economico di 2 milioni di dollari, è anche la soluzione ribattezzata Internet in valigia. Si tratta di un kit trasportabile in una 24 ore che garantisca a chi è in suo possesso l’accesso a una Rete wireless fai da te completamente esterna a quelle locali. La soluzione in questione, alla quale sta lavorando il gruppo di ricerca New American Fondation, intende sfruttare la creazione di reti mesh per garantire a diversi soggetti lo scambio di dati sfruttando il Wi-Fi. Ogni valigetta agisce in sostanza come hot spot e fa rimbalzare il segnale all’altra, permettendo allo stesso tempo la condivisione di contenuti e informazioni. Non c’è quindi bisogno di una Rete centralizzata, e controllabile.
Questa soluzione è già utilizzata da anni in ambito militare e nel caso in esame potrebbe far sorgere prima di tutto problemi di distribuzione: a chi, come e quando do la valigetta, trattandosi di rivolte e non di operazioni pianificate? C’è poi, come ha fatto notare a Wired.it l’esperto di telecomunicazioni Stefano Quintarelli, la questione di limiti di spazio. Con il Wi-Fi posso coprire un’area, pur facendo rimbalzare il segnale, ridotta e ho comunque il problema di superare i confini del paese.
Usando il satellite, sottolinea Quintarelli, incapperei nuovamente nei controlli governativi. Esiste la possibilità di agire in totale anonimato, ha spiegato Quintarelli, sfruttando per esempio il sistema The Onion Router. Come il nome – a cipolla – suggerisce, la soluzione permette di eludere i controlli procedendo a strati e impedendo che venga individuata la fonte originaria.
(Credit per la foto: Mark Weiss/Corbis )
http://daily.wired.it/news/internet/2011/06/13/obama-internet-ombra.html#content
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Gas, sole e vento alimenteranno la prima centrale ibrida 14.06.2011
Nascerà in Turchia la prima centrale elettrica che unisce tre tecnologie per massimizzare l’efficienza.
Grazie a General Electric nascerà a Karaman, in Turchia, Ircc FlexEfficiency 50, la prima centrale elettrica ibrida al mondo.
La definizione centrale ibrida significa che unirà diverse tecnologie: solare, eolico e gas.
La General Electric spiega dove stia il vantaggio nell’unire i tre sistemi: «Accoppiare una turbina a gas con un generatore eolico può abbattere i costi di quest’ultimo, perché i due sistemi possono condividere una parte dei sistemi di controllo e delle connessioni alla rete elettrica».
«Inoltre» – continua l’azienda – «il gas può compensare le variazioni del vento; la torre solare, con i suoi 25.000 specchi, concentra l’energia termica del Sole e produce vapore a 200 gradi che può essere inserito nel ciclo della turbina a gas per aumentarne la potenza».
L’impianto, che dovrebbe diventare operativo nel 2015 e avrà un’efficienza del 69%, permetterà di ridurre della metà i costi del solare termico e avrà una potenza di 530 MWatt.
Per la sua realizzazione General Electric ha investito 500 milioni in ricerca e sviluppo, ma il risultato finale, secondo l’azienda, è economicamente vantaggioso anche senza contributi statali.
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=15058
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Dalle meduse e dai reni umani arriva il laser “vivente” 14.06.2011
Realizzato il primo laser emesso da una cellula: servirà alle telecomunicazioni e migliorerà le tecniche di imaging biomediche.
Il laser ha circa 50 anni: in questo lasso di tempo ha trovato una molteplicità di impieghi ma, quando si tratta di scegliere un mezzo amplificatore, si è sempre scelto un materiale non biologico, come il cristallo o il gas.
Grazie alle ricerche di Malte Galther e Yun Hyun del Massachusetts General Hospital’s Wellman Center for Photomedicine tutto ciò sta per cambiare: gli scienziati sono infatti riusciti a ottenere il primo laser prodotto usando materiale biologico.
Modificando geneticamente alcune cellule di rene umano hanno prodotto una proteina che in natura si trova nella medusa Aequorea Victoria, la GFP (Green Fluorescent Protein) che può essere indotta all’emissione di luce senza necessità di utilizzare degli enzimi.
Hanno costruito un dispositivo costituito da un cilindro lungo due centimetri e mezzo con uno specchio a ogni estremità e l’hanno riempito con una soluzione di GFP in acqua.
Così hanno scoperto che la soluzione poteva amplificare l’energia in impulsi di luce laser verde, e hanno potuto sviluppare una linea di cellule che producesse la quantità di GFP necessaria.
Da qui è derivata la possibilità di dare vita a una singola cellula, inserita in una piccola cavità tra due specchi distanti tra loro 50 nanometri, in grado di emettere laser verde.
Galther e Hyun si sono poi accorti che la cellula stessa poteva fungere da lente, generando il laser a livelli energetici più bassi rispetto a quelli richiesti dal dispositivo che utilizzava la soluzione.
«Sebbene i singoli impulsi laser durino per pochi nanosecondi appena, sono sufficientemente brillanti da venire individuati e possono trasportare informazioni molto utili, che ci potranno fornire nuovi modi per analizzare le proprietà di un gran numero di cellulre» spiega Hyun.
La scoperta, nata da una curiosità scientifica (capire se fosse possibile utilizzare materiale biologico per produrre un laser) apre ora diverse possibilità, da nuovi metodi di diagnostica per immagini alle terapie fotodinamiche, in cui i farmaci sono attivati dall’applicazione di luce: tutto ciò potrà diventare realtà perché si potrà avere una sorgente biocompatibile di luce laser direttamente all’interno del paziente.
Inoltre questa tecnologia potrà trovare applicazioni anche nel settore delle comunicazioni ottiche e nell’informatica, che si unirà così alle biotecnologie.
Galther e Hyun, intanto, pensano già alla prossima sfida: riuscire a inserire l’equivalente della struttura a specchi all’interno di una cellula.
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=15051
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Cronaca di un ballo mascherato
Giorgio Cesarano, Piero Coppo, Joe Fallisi
Varani Editore, Milano 1983
1. Cuore di tenebra
Il capitale, pervenuto al dominio reale di ogni forma di produzione e riproduzione dell’esistente, riassume in sé l’intiera storia delle società di classe, e transcrescendo oltre l’ambito specifico dell’economia politica, sussume alla propria valorizzazione autonomizzata tutte le sfere un tempo discrete dell’essere individuale e sociale, divenuto in toto il prodotto della sua organizzazione. Definisce il capitale oggi dominante il carattere fittizio: l’essenza virtuale e creditoria di ogni «proprietà». «Nel credito, al posto del metallo e della carta è l’uomo stesso che diviene l’intermediario dello scambio, non certo come uomo, bensì come esistenza di un capitale e degli interessi […]. Nel sistema creditizio, non è il denaro ad essere abolito, ma è l’uomo stesso che si converte in denaro, in altri termini, il denaro si personifica nell’uomo.» (Marx.) Generalizzandosi il carattere fittizio, l’«antropomorfosi» del capitale è un fatto compiuto*. Si disvela qui l’arcano sortilegio grazie al quale il credito generalizzato, sotto cui corre ogni scambio (che costantemente è scambio di parvenze dilatorie: dalla banconota, alla tratta, al contratto di lavoro e nuziale, ai rapporti «umani» e familiari, agli studi e relativi diplomi e carriere, alle promesse di ogni ideologia), stampa a immagine del suo vuoto uniforme il «cuore di tenebra» di ogni «personalità» e ogni «carattere». Si produce così l’omologazione del popolo del capitale, là dove sembrano scomparire requisiti specifici ancestrali, peculiarità di classi e di etnie; fatto che tanto meraviglia qualche ingenuo rimasto a «pensare» con occhi persi nel passato. Il vuoto dilatorio è il contenuto reale di ogni forma del fittizio. Il capitale dominante è capitale fittizio: il suo dominio è il potere del vuoto dilatorio su ogni forma di esistenza umana, incatenatavi dalla coazione a sperare di riscuotere, «domani», il senso e il pieno promesso in cambio della prestazione totale della sua «vita». La sopravvivenza in credito permanente di vita è divenuta la dimensione in cui si realizza la valorizzazione autonomizzata dell’essere-capitale: la valorizzazione del fittizio.
Dinanzi alla crisi reale del suo sviluppo materiale, il capitale fittizio accentua bruscamente lo scollamento del valore autonomizzato dalla produzione concreta: sempre più si valorizza producendo forme «immateriali» e «rappresentative», colonizzando in profondità e capillarmente il «tempo libero» di una esistenza sociale ridotta a oblazione generalizzata. La Civiltà della Carestia è il «nuovo modello di sviluppo» più sincero: la nuova diapositiva introdotta nel proiettore del planning, in sostituzione dell’obsoleta «civiltà dei consumi».
In essa, l’essere capitale sempre meno si identifica con l’universo delle merci, e sempre più con la comunità del capitale antropomorfo; l’«uomo» quale essere del capitale fittizio, agente incarnato di una valorizzazione che ne assume ogni forma di «vita». Solo accrescendo la valorizzazione di prodotti «immateriali» il capitale * L’uso di questo termine non deve trarre in equivoco: fino alle sue ultime metamorfosi, il capitale resta pur sempre un prodotto dell’attività umana, e non viceversa. Il soggetto, per quanto alienato, del processo capitalistico è ancora l’uomo stesso (che perciò ha la possibilità di rovesciarlo e di cambiare rotta alla propria storia). può sperare di superare indenne la crisi delle risorse – carattere finito delle fonti energetiche e saturazione planetaria da scorie –, e di realizzare lo «sviluppo zero», predicato dagli economisti d’avanguardia, senza interrompere il processo di accumulazione. Questa l’«inversione di tendenza» giocata dietro le quinte delle crisi congiunturali.
2. Messa nera
Le intermittenti restrizioni congiunturali del credito sul terreno delle misure anti-inflazionistiche, al di là del loro carattere demagogico e della loro specifica funzione selettivamente discriminatrice dei quanta di capitale non recuperabili all’«inversione di tendenza», denunciano la consapevolezza crescente dello scollamento avvenuto fra valorizzazione autonomizzata (capitale fittizio) ed economia reale (costi di produzione computati in unità di misura energetica). In questo senso testimoniano l’autonomizzazione del valore fittizio rispetto alla comunità materiale a esso sottesa ormai come una sorta di referenza virtuale e simbolizzata. Rispetto alle strutture vigenti della valorizzazione autonomizzata, questi esorcismi del fittizio, ad opera dei suoi stessi sacerdoti, non mostrano più che la cattiva coscienza e il terrore di un’economia in cui l’irrazionalità è profondamente intrinseca alla struttura, e il suo delirio irreversibile. Persino nei suoi tratti tecnici, l’amministrazione della «crisi» di copertura evidenzia aspetti liturgici e penitenziali: spettacolari. Ogni messa nera ha sempre ribadito la sacralità del feticcio.
3. «Vuoto di potere»: il potere del vuoto
Il rapporto fra potere politico e potere economico è sostanzialmente mutato, sotto il dominio reale del capitale fittizio. Lo Stato, da «rigido e autoritario gestore dell’espansione della forma di equivalente nei rapporti sociali» (Marx), si trasforma in mediatore di quella produzione di vuoto dilatorio che è l’equivalente generale cui si ordinano le forme nelle quali si realizza la valorizzazione del fittizio. Il potere politico deve disfarsi di ogni rigidezza e di ogni parvenza di sacralità immanente, già propria delle tirannie del passato.
Esso diviene mera funzione del despotismo del capitale flttizio, e deve condividerne il carattere sostanzialmente illusionistico. Il contenuto costante trasmesso dalle ideologie anche scientifiche sussunte al capitale fittizio è l’illusionismo problematico: nulla viene più prodotto e venduto come mediatamente certo, tutto viene propagandato e «svenduto» (a prezzo inflazionato) come immediatezza del «problema». La gestione di un esistente minato dalle contraddizioni strutturali di un modo di produzione autodistruttivo, non può guadagnar tempo e spazio se non chiamando il «popolo» – beninteso il popolo-capitale, la comunità materiale prodotta da quel modo – a spartirne le responsabilità fallimentari. Il «vuoto di potere» è la forma
che la gestione politica assume, rendendosi per così dire trasparente agli imperativi immediati del trasformismo di cui abbisogna un despotismo capitalista sempre più realizzantesi nella mimesi di una partecipazione collettiva.
Il «vuoto di potere» è la forma in cui il capitale istituzionalizza, con la coerenza della mistificazione assurta a metodo, il potere del vuoto su ogni forma di esistenza sussunta alla valorizzazione del fittizio. L’artificio formale con cui il despotismo del fittizio vuole mascherare il prefigurarsi della sua fine reale, (la fine della preistoria, la realizzazione della comunità-specie) è l’amministrazione stessa della crisi: una gestione controllata della bancarotta economico-politica. Resa permanente, la «crisi» nasconde il collasso reale: sommatorio, irreversibile e ultimativo. Al potere politico, forma epifenomenica del despotismo capitalista, non resta più da gestire che il decorso di una serie di «crisi congiunturali» dietro lo schermo delle quali si tenta di occultare e di frenare un collasso di dimensioni planetarie. Nessuna promessa può essere mantenuta (né mai lo fu); ma nemmeno proposta: unica, quella di dilazionare la catastrofe. In questo modo se ne perpetuano le premesse, celandone in realtà le scadenze effettive. Ma chi si fa il soggetto di tale intrapresa?
Meglio un «nessuno» in cui si riconoscano tutti i gestori delle spoliazioni particolari, e tutti i sudditi accecati abbastanza da accettarne il perdurare.
4. I bisogni eternati
Da tempo il connotato saliente del potere, nei paesi del «primo» e «terzo» mondo, è la crisi permanente in cui versano i governi. La crisi non è un accidente, ma un istituto essenziale della democrazia rappresentativa, parodia sempre più sfrontata della «sovranità del popolo». Esibendo al vertice dell’apparato politico il carattere problematico della gestione dell’esistente, la crisi istituzionalizzata, forma spettacolare del «vuoto di potere», riflette sui sudditi le contraddizioni che minano ogni potere. Grazie a tale riflesso, funzionante come un automatismo «istintivo», il suddito obbediente si sente chiamato a spartire con gli istituti del potere, partecipandovi formalmente, inadempienze e irrazionalità. Il «vuoto di potere» riesce così a giustificarle e a eternizzarle: «socializzandole». (Quanto al «secondo» mondo, vi si perpetua un despotismo anacronistico, dal punto di vista delle forme di sudditanza, e avveniristico, dal punto di vista della omologazione economico-politica – in Cina fittiziamente mediato dalla «rivoluzione culturale», istituto sui generis della crisi permanente funzionalizzata alla tirannia.) La crisi degli istituti del potere maschera la crisi reale di ogni potere: nessuna delle forme storiche di dominio e di oppressione può ormai sperare di resistere a lungo all’emergenza della possibile emancipazione degli uomini da qualsiasi sudditanza, dietro alla quale è il loro sfruttamento che si maschera, funzionalizzato all’eternizzazione dello stato di bisogno.
Le condizioni materiali per tale emancipazione sono sotto i nostri occhi. Le forze produttive stanno scoprendo di lavorare per la perpetuazione dei loro bisogni, anziché per il loro soddisfacimento, e di riprodurre le condizioni arcaiche della sopravvivenza nella penuria, quando già ora è matura la possibile e irreversibile conquista della libertà dalla penuria e dall’alienazione del lavoro, eternate dal capitale.
5. Ballo in maschera
Il collasso dei modi di sviluppo del capitale mondiale è il punto senza ritorno in cui tutte le contraddizioni tra il capitale e il vivente si assommano e interagiscono catastroficamente. In esso si stampa con chiarezza inaudita il destino degli uomini: liberarsi dall’oppressione o morire del suo cancro. Perciò ogni sorta di oppressori lavorano a mistificare l’aspetto totalizzante e la gravità del collasso, in cui rischia di trovarsi coinvolta l’umanità intiera. Di luogo in luogo e di volta in volta, la bancarotta dell’esistente viene spacciata come la crisi settoriale di questo o quell’apparato, rimediabile grazie ai prodigi di ma partecipazione popolare. Con o senza versamento di sangue, il potere alterna le sue forme nutrendo nel suo seno opposizioni nominali: là dove il «golpe» non interviene a gestire apertamente la guerra anti-proletaria, essa viene realizzata ventilandone e favorendone la minaccia. Ogni vuoto dilatorio è inseparabilmente minatorio.
6. L’anguria meccanica
In Italia, la «sorpresa» del referendum1 è esemplare di una tecnica della manipolazione giunta a un’efficacia mai veduta. Mentre in Francia gli strumenti previsionali avevano saputo pronosticare uno scarto dell’uno per cento, in Italia «miracolosamente», non riescono a preannunciare all’«opinione pubblica» uno scarto del venti.
Da trent’anni al potere, la DC procura e trova, nel referendum, quella «sconfitta» apparente di cui ha bisogno per ristrutturarsi e ammodernarsi. Si allea con la destra-«storica», ne riverbera nel proprio seno la sconfitta (storicamente sancita da decenni), unisce la sua pubblica penitenza al coro di trionfo simulato dagli «ignari» riformisti. Mentre la «sinistra» esibisce la sua maturata idoneità a co-gestire la bancarotta fraudolenta, dietro il paravento della quale il capitale allestisce la propria ristrutturazione d’emergenza, il partito di maggioranza restaura la propria facciata arcaica addebitandone i costi di demolizione a un fascismo fin qui protetto, e spiccando tratta, per il rifacimento, al riformismo di «opposizione». La crisi prepara con gesuitica cautela il terreno per una realizzazione del «compromesso storico» che si attui giocando sul «vuoto di potere»: alla DC e ai suoi intimi la gestione della «crisi» del potere formale, essenzialmente a livello delle istituzioni centrali di Stato (con la prospettiva di possibili rimpasti costituzionali); al PCI e ai suoi la gestione della «crisi» del potere economico: giustificazione socializzata della carestia e curatela fallimentare delle forze produttive a livello di amministrazioni «periferiche».
Ai sindacati il ruolo di affossatori storici della «coscienza di classe»: tutti più che mai ai remi affinché la galera del capitale non si schianti sulla grande secca, affinché i proletari non si avvedano che la secca è il limite toccato dal loro nemico mortale, è il principio della terra che può essere la loro, liberata. Mentre alle clientele «borboniche» si sostituiscono gli organigrammi dei nuovi rackets mafiosi, i lavoratori allineati alle catene (produrre di più) si vedono sottratta la carota della «civiltà dei consumi». Ricompare il bastone: il «nuovo modello di sviluppo», camuffamento risibile del collasso incombente, esige costi altissimi. Come sempre, a pagarli sono i proletarizzati, ma i costi salgono al passo vertiginoso delle contraddizioni che si moltiplicano. I grassatori di Stato hanno la mano pesante, ora che si tratta di abrogare il divorzio dalla povertà, e impongono una taglia su ognuno dei feticci del consumo che appena pochi mesi avanti imponevano come simboli di Stato.
7. L’estremismo vuoto: opposizione militante e opposizione «militare»
La partecipazione militante al referendum traccia una linea di demarcazione nell’«ultra-sinistra». È qui che un primo nodo viene al pettine: mentre LC, AO, ed altri si allineano con la «politica» istituzionale nel mistificare la mistificazione, e parlano di «vittoria proletaria», mostrando così di occupare il vuoto storico già ricoperto dal PCI (l’opposizione fittizia), le BR ed altri irrompono sul mercato come l’anticipazione creditizia
1 Sul divorzio (giugno 1974).
della futura opposizione «reale» per la gestione «alternativa» dell’esistente in nome dell’ideologia del contropotere (preliminare alla «dittatura del proletariato»). Le formazioni militanti si distinguono dalle formazioni militari dell’«ultra-sinistra» – prendendo reciprocamente le distanze – soprattutto nel loro modo di definirsi in rapporto alla crisi del sistema. Le prime, essenzialmente socialdemocratiche, giocano il ruolo immediatistico delle istanze razionalizzatrici, moralizzatrici e demagogicamente populiste, negano l’evidenza della crisi strutturale denunciando l’apocalittica capitalista come una messa in scena, senza volere o saper riconoscere in essa il travestimento di una realtà sostanzialmente esplosiva; le seconde, neo-leniniste, vedono nella crisi la disgregazione del sistema capitalistico borghese, quasi si trattasse ancora e solo di quest’ultimo, e ne evidenziano, con le loro azioni di manageriale efficienza, gli aspetti più spettacolarmente scandalosi, ma ponendosi nell’ottica delle «teorie rivoluzionarie» terzomondiste, anticipando nei metodi e nelle analisi il ruolo che si attribuiscono di eredi del potere, in nome di una dittatura del proletariato parodiata, e comunque vincolata all’ideologia corrente della «transizione» non riformista. Il ritardo teorico consente loro di ammantarsi di tutto il fascino romanzesco e filmico nostalgicamente emanante dalle ideologie del passato, sconfitte e sussunte dalla controrivoluzione e superate dal movimento reale. Le distanze prese dai «militanti» rispetto ai «militari» tradiscono d’altronde, proprio nei loro circospetti «distinguo», il segreto di un’invidiatimore, odio-amore nel quale si prefigura un possibile travaso di forze, a mano a mano che l’eversione puramente verbale lascerà più che mai insoddisfatte le nostalgie «eroiche» dei militanti, e i sogni proibiti di una falloforia micidiale prometteranno di barattare una mortificazione da trappista con un’immolazione da kamikaze.
8. I magistrati
L’integrazione delle formazioni militanti nello spettacolo in cui il vuoto di potere socializza le sue problematiche fittizie produce una banalizzazione sempre più evidente della loro funzione «eversiva»2. Per riflesso, e in prospettiva, l’altro spettacolo, il «futuro migliore» anticipato dalle «avanguardie armate dell’esercito popolare», potrebbe garantirsi un credito crescente. A tradirne il carattere di alternativa illusoria, è la scelta dei metodi, quali già oggi vengono da quella parte prospettati come paradigmatici.
Costrette dalla collocazione che si sono scelte, le BR non possono, per mimare la loro presa di potere, che farsi prendere dalla logica di tutti i poteri, adottando le forme da sempre intrinseche all’oppressione che pretendono di combattere: la doppia vita auto-«gratificante», le gerarchie, gli schedari, la prigione, infine, il tribunale: oggi giudica un servo dello Stato, in prospettiva si prefigura (quantomeno come possibile modello operativo) quale il tribunale «rivoluzionario» pronto a giudicare chiunque lotti contro qualsiasi forma di «gestione politica» del furore proletario. Di fatto, le BR filmano in primo piano la disgregazione del sistema, perché ne sono, anche, la cattiva coscienza: attori stalinisti della disgregazione, nulla hanno a che spartire con l’irriducibile differenza, se non il rifiuto violento della «pace sociale». Ma la loro apparizione armata contrassegna il più disarmante spettacolo possibile: la guerra civile in vitro; ed è proprio sulla loro pelle che si attua la forma estrema del controllo tentato dal capitale sull’esplodere delle sue ultime contraddizioni.
9. La «vita» è sogno
«La gente tenderà fortemente a farsi trascinare in società segrete il cui risultato è sempre negativo.
D’altronde questo tipo di organizzazione contrasta con lo sviluppo del movimento proletario, poiché tali
2 “(…) Malgrado la stamburata liquidazione della logica degli ‘opposti estremismi’, resto ovviamente convinto che il bersaglio reale (a medio termine) della manovra siano le frange non immediatamente integrabili dell’ultrasinistra. Non tanto in sé, quanto in previsione dell’autunno critico, per la loro funzione catalizzatrice (così si presentano, anche, agli occhi del potere) nei confronti del proletariato messo alla frusta: un milione di disoccupati in preventivo, nuove prevedibili restrizioni e torchiature, carestia montante, ecc. Quanto viene asserito dall’ideologia dominante, anche spicciola, da quotidiano, è immancabilmente falso, come ben sappiamo, e in modo finalistico.
La pompatura del fronte antifascista, oltre alla funzione già indicata nello scritto, prepara un attacco alla frangia ultrasinistra non disponibile al disarmo totale. Le tensioni inevitabili dell’autunno, peraltro, ‘produrranno’ l’acconcia aneddottica, c’è da giurarci. Tanto più la militarizzazione del controllo verrà fatta apparire come una necessità di forza maggiore, quanto più ora si sceneggia la battaglia monolitica contro i fascisti. Innestandosi sulle spinte spontanee della rabbia proletaria, le frange ultrasinutre tenteranno di recuperarle e di gestirle in proprio, ma appariranno così quali fomentatrici di guerra civile, rompendo ‘di sorpresa’ la tregua oggi regnante in quell settore. Ogni emergenza radicale suscitata dalla crisi, verrà fatta passare come frutto di macchinazioni eversive ultra-sinistre: la repressione metterà fatalmente in scena capri eiatori ideologici, mentre colpirà duro in profondità. E’ probabile che il PCI si ponga all’avanguardia dell’operazione, conducendo una campagna contro i ‘provocatori’ più dura e più spregiudicata che mai: potrebbe essere il prezzo di un ruolo d’ordine assunto molto al di là della mera schermaglia ideologica, e solennizzato dalla scadenza storica della crisi mondiale. Occorre stare in guardia, insomma, verso il trasformismo delle campagne ideologiche agitate dalla stampa e non pensare che l’integrazione dell’ultra-sinistra militante avvenga macchinalmente, senza contraddizioni. La critica radicale deve saper smascherare, insieme con le menzogne dell’ideologia, l’uso che ne viene fatto, spettacolarmente, per incrementare la falsa guerra (…)” (Da una lettera di G. Cesarano del 23 agosto 1974) società, invece di educare gli operai, li assoggettano a leggi autoritarie e mistiche che ostacolano la loro autonomia e indirizzano la loro coscienza in una direzione sbagliata.» (Marx)
La cattura in ostaggio, nelle forme della fantasticheria «eroica», della collera proletaria, risulta doppiamente castratrice: in quanto riduttiva agli stilemi del beau geste e della temerarietà gratificante; e in quanto diversiva rispetto all’emergere critico, nella dimensione quotidiana della falsa vita, dei termini soggettivamente riconoscibili nei quali l’alienazione viene interiorizzata. (Così gli stessi proletari esercitano in prima persona la produzione del vuoto dilatorio in cui il desiderio di vita si neutralizza nella fascinazione del fittizio.) In questo senso svia gli «operai» della sopravvivenza da quella educazione radicale che è la lotta contro l’organizzazione delle apparenze ingaggiata a partire dall’eteronomia della propria «soggettività» apocrifa; e, indirizzando la loro coscienza in una direzione sbagliata, ne impedisce l’esplosione nella certezza della loro alterità, negatrice dell’esistente e della «coscienza» quale suo riflesso idealizzato. La scelta falsamente qualitativa del cospiratore, spingendolo a «evadere» la comune condizione di non-vissuto per costruire, contemplare e vivere di sé l’immagine fantasmatica dell’«eroe», dell’«avanguardista», del «nuovo partigiano», non soltanto, cristallizzandosi, surgela la sua latente passione, ma ne stravolge il senso vivo in «significato» liturgico, in simbologia. La vera rivoluzione sarà sempre per lui dopo morto: salvazione cristiana. E le «masse», il «popolo», le sognate «maggioranze» cui la personalità del cospiratore (ambiguamente divenuta quanto più clandestina tanto più pubblicata) si rivolge come un elettrizzante messaggio pubblicitario, o dovrebbero orientarsi a seguire affascinate le sue orme nel tentativo dell’ultima auto-valorizzazione possibile, disertando a loro volta la vera guerra quotidiana, oppure, e nella maggior parte, dovrebbero vivere in sogno le sue «avventure», ribadendo quella condizione di impotenza cui si sarebbe voluto, così a buon mercato, farle sfuggire.
10. Un terrorismo in cerca di due autori
Poiché l’insolvenza promossa a metodologia ha i tempi corti, al capitale occorre accelerare la militarizzazione del controllo. Le bombe di Brescia, il «giallo» di Padova, il seguito alle prossime puntate: la sceneggiatura incalza. Ecco aggiunto al prezzo della «sconfitta», conquistata sul campo col referendum, il peso del sangue operaio, messo in conto al fascismo dal volto di zombi. Il rompicapo è perfetto: chi riconosce, tra arditi della morte, «triplogiochisti», polizie separate, giornalisti specializzati in trame, la mano del SID e della CIA? Che ci sia ciascun lo vede, ma sembra uscire da tutte le maniche. Il coro degli altoparlanti vocifera che il terrorismo fascista ha gettato la maschera; ma usando a rovescio lo smascheramento popolare della trappola di piazza Fontana, si proiettano sulle frange «ultra-sinistre» ombre sufficienti a un rilancio più drastico della lotta contro gli «opposti estremismi». Il fine è doppio, o triplo, come i mezzi: 1) con l’esporre alla pubblica esecrazione il volto sanguinario dei fascisti, già alleati nel referendum «perduto», e incoraggiati a ogni sorta di manovra golpista, la DC ottiene lo scopo di liquidare, apparentemente, il suo passato recentissimo, licenziando sicari e compromessi finanziatori; 2) alla vigilia della più pesante grassazione di Stato perpetrata nel trentennio, si canalizza la rabbia proletaria verso un nemico già storicamente liquidato, e tenuto in vita grazie al suo potere di polarizzazione diversiva; 3) si approntano gli apparati polizieschi e militari contro l’emergenza eversiva, giocando d’anticipo su una temuta risposta proletaria. Il terrorismo di Stato, organico al terrorismo del capitale multinazionale, spera di esorcizzare la guerra civile in vivo, manovrando in vitro qualche sensale di cadaveri.
11. La peste
A un capitale che gioca d’anticipo, mistificandone i termini, su una crisi irreversibile, le sue ultime chances di sopravvivenza, non resta alcun margine, nemmeno ideologico, per proporsi di amministrare un ordine apparente. Solo un disordine controllato gli prospetta qualche respiro. Una guerra civile pilotata è il tipo di realtà quotidiana che meglio gli consentirebbe di estremizzare il proprio terrorismo. La «società dello spettacolo» non paga più i costi di una sua gestione pur fittiziamente «idilliaca»: la fine dello sviluppo indefinito segna la fine del consumismo «ebbro». La tragicommedia della grande abbuffata vede uscire dalla buca del suggeritore lo spettro della carestia. Per scritturarlo quale suo attor giovine, lo spettacolo deve cambiare copione. Il furore monta ovunque, al passo col disvelarsi della realtà nascosta dietro le «crisi» manovrate: non rimane ormai che deviarlo. L’antico artificio della rappresentazione è il solo capace di restituire alla «politica» un resto di potere illusorio, che freni la coscienza emergente delle dimensioni totali dello scontro, per la vita della specie. La guerra civile in vitro è l’espediente con cui si vela a se stessa tale coscienza, riducendola ancora una volta alla gestualità e alla verbalità sceniche degli scontri separati. La vera guerra è appena al di là di queste estreme finzioni.
La «questione irlandese» già si pone come primo abbozzo operativo di questa strategia del capitale. Ipotizzandone una generalizzazione opportunamente diversificata, è agevole prefigurare i vantaggi che il capitale sarebbe in grado di trarne. Stato d’assedio permanente; congiunturale riduzione dei consumi ma iper-valorizzazione delle industrie di guerra meno vincolate ai fattori energetici; selezione coatta, «per cause di forza maggiore», della piccola e media industria e del parassitismo terziario; iper-sviluppo della burocratizzazione militarizzata; centralizzazione funzionale del planning; uniformazione dei «bisogni primari»; arruolamento dei proletarizzati in una condizione di emergenza permanente diversiva; polarizzazione della carica eversiva su obiettivi fittizi; schermatura, dietro le esigenze eccezionali, di una ristrutturazione profonda della produzione e della distribuzione; proletarizzazione ed emarginazione brutalmente accelerate; emergenza di una casta ristretta economico-militare, monopolizzatrice del potere reale. Un «modello di sviluppo» perfettamente consono all’inversione di tendenza predicata dagli economistid’avanguardia, sfrondata da ogni décor umanistico.
12. Norimberga, leur affaire
A Norimberga fu seppellita per sempre, ammantata nella sua mostruosità, una forma estrema del modo di produzione capitalista, quella che sintetizzava nella morte il sapone con cui lavarsene le mani. Nel lager, concentrazione di tempo-spazio-denaro, il genocidio degli «inferiori» ricapitolava, ostentandone efferatamente l’orrore, la logica del dominio individuato (nazione, razza, bandiera, religione), in nome della quale da secoli il lustro degli imperi riverberava dal sangue delle stragi. Il nazifascismo aveva accorciato tempi e modi, con efficientismo scientista, purgando nel fulgore del destino di Stato ogni residuo senso di colpa. L’«individuo» borghese vi ritrovava il carisma perduto della signoria, imponendosi come agente di destini superiori su una plebe di reietti. Un capitale apertamente schiavista avrebbe massimizzato il profitto sulla morte dei non-uomini; di lì avrebbero tratto la loro «umanità» i super-padroni. Le leggi che giudicarono quei carnefici emergevano da un passato a sua volta denso di eccidi, ma coperto sotto la mistificazione storica del progresso avanzante e sotto l’ideologia del liberalismo egualitario. Norimberga rappresenta il nodo storico in cui il capitale abbandona l’opzione apertamente genocida, conservandola come ultima ratio ideologicamente non più giustificabile, per abbracciare una forma di dominio fondata sulla interiorizzazione del mortuum nella «vita» eucaristicamente distribuita ad ogni suddito-partecipe.
Ma Norimberga non chiuse il conto: da allora i regimi democratici rappresentativi hanno allevato nel loro seno le sette di cadaveri incaricate di eternizzare, nelle forme pietrificate del «fascismo», il mostro destinato a canalizzare la rabbia dei proletarizzati, mortificandola nella strettoia dell’antifascismo, e di perpetuare l’ideologia arcaica della «signoria fondata sulla schiavitù» per poter far meglio passare quale suo effettivo superamento il progetto della distruzione di ogni signoria nella Società dei tutti schiavi.
In questo movimento, il mito eccentrico della razza eletta si neutralizza nel mito, centrale all’Occidente, del progresso; il mito del super-uomo in quello della scienza; quello del carisma e dell’«individuo» diviene il mito della meritocrazia nell’ambito della mondanità spettacolar-mercantile. Intorno a questa specularità del fittizio si armano gli attori della guerra civile in vitro; ma non e solo contro di essa che si muove già ora – e sempre più la vera lotta armata. Essa riconosce, negli operatori dell’ultimo sfruttamento – l’estrazione dal furore eversivo della forza viva da trasformare in organizzatrice di morte –, i nemici reali dell’affermazione della soggettività in divenire e del suo movimento per la realizzazione comunista. Essa si muove contro tutti coloro che, operando il recupero del rifiuto della partecipazione e dell’identificazione in «delirio schizofrenico», della rabbia totale in contestazione parcellare, della critica in cultura (ideologi «rivoluzionari»; psichiatri e psicanalisti «in» e «out»; magistrati democratici; artisti della «rivoluzione»; leaders gruppuscolari), concorrono a che l’ideologia si materializzi immediatamente in istituzioni riformate e in avanguardie sperimentali: dal gruppo politico alla «comunità» terapeutica, dalla comune «psichedelica» alla famiglia matriarcale riformata, e così via.
13. La vera fame La critica radicale è il movimento stesso in cui i proletarizzati lottano contro il dominio del fittizio, smascherando l’organizzazione delle apparenze. Da quando il fittizio e la sua avvelenata promessa si insinuano in ogni esistenza, svuotandola di ogni senso vivo e presente, vengono a cozzare contro il furore crescente di una fame di vero e di senso, che parte dal corpo stesso della specie. A mano a mano che in ogni forma dell’esistente si realizza un momento del valore autonomizzato, a mano a mano che l’antropomorfosi del capitale mette in scena un’«umanità» di automi, insorge a combatterla ciò che le è irriducibilmente alieno. La lotta in processo è innanzi tutto smascheramento e denuncia del falso, rottura violenta degli schermi frapposti tra il fine reale della rivoluzione e il furore degli oppressi deviato in falsi scopi. Al punto estremo di contraddizione tra capitale e vivente, il fine reale della rivoluzione non può essere che la distruzione del capitale e la realizzazione della specie umana quale comunità vivente in un rapporto di coerenza organica coll’universo naturale. Il dominio del capitale su una collettività sotto-umana e su un pianeta avvelenato, sempre più si rivela come l’ultimo ostacolo che separa l’auto-genesi creativa della comunità-specie dal suo mondo latente. È quanto la critica radicale, attaccando ogni forma di rappresentazione fittizia, indica nel suo muoversi. Perciò da sempre essa suscita l’odio infallibile dei gestori della finzione. Ogni sorta di amministratori fraudolenti di «crisi» parcellari, di «politiche» alternative, di «battaglie» immaginarie, trova in essa il nemico irriducibile. Essi si provano a combatterla con i mezzi che sono loro congeniali: la calunnia, la deformazione della storia, sino al ripudio di quanto, nel passato, la loro «cultura» indica come anticipazione dello stesso movimento.
14. Fantasmi & sicari
Ciò contro cui si lanciano oggi i topi di fogna, snidati dalla carestia, sono proprio le spoglie abbandonate dalla critica radicale nel suo procedere: essa per prima se le è lasciate alle spalle rifuggendo la sclerosi di forme involutesi in ideologia. Non potendo frenare il suo movimento presente (né denunziarlo delatoriamente, poiché la critica radicale non si annida in nessuna «organizzazione» o racket, né ufficiale né clandestino), contro i suoi fantasmi si scatenano gli avvoltoi della «cultura» e del giornalismo.
Il «vero» che mosse le occupazioni e gli scontri del ’68 fu essenzialmente lo smascheramento del progetto riformista che tendeva a ridurre l’insurrezione a rivendicazione, riaprendo così il baratro tra la domanda e il desiderio che la sottende, baratro che potrà chiudersi solo nella loro coincidenza. Quel movimento agitò nel suo vortice, insieme con momenti di effettiva emancipazione, frammenti di ideologia emersi dal passato storico, animandoli di una rinnovata «modernità». In breve, il tessuto dell’ideologia si irrigidì sul movimento, paralizzandolo nell’auto-contemplazione. La critica radicale non evitò, in parte, la morsa regressiva dell’ideologia. Il «Consiliarismo», fin lì trattenuto come una reliquia nei tabernacoli dell’anarchismo accademico e della sinistra comunista tedesco-olandese, ruppe quei gusci per presentarsi come un modello di democrazia reale, diretta, di base, immediatamente alternativo tanto alla democrazia rappresentativa quanto alle tirannie orientali. Nella lotta, talune assemblee d’occupazione e nuclei rivoluzionari ne incarnarono lunghi istanti di verità operante, ma spezzandone il canone e riconoscendolo non già come il primo e nuovo, ma come l’ultimo dei vecchi modi di combattere. Il «consiliarismo» radicale (in Francia essenzialmente l’I.S. e organismi non altrettanto radicali, in Italia la sezione italiana dell’I.S., il gruppo «Ludd – Consigli Proletari» e in seguito la più ingenua e immediatista O.C.4 – poi trasformatasi in «Comontismo») ha criticato praticamente i limiti del «consiglio» quale ideologia operativa. In altri paesi il consiliarismo ebbe sviluppi analoghi, e, analogamente, quanto ne resta è un precipitato. Nessuno può comunque negare quanto di radicale si è espresso al di là del «consiliarismo» quale sigla: la passione di conquistare la signoria senza schiavitù criticando praticamente ogni potere e ogni separazione. Dagli aspetti «formali» e ideologici del consiliarismo la critica radicale, nel suo muoversi, si è separata per sempre: essi restano, vuoti e morti, in preda agli sciacalli. Da parte sua «Comontismo» si autocriticò con lo scioglimento, mentre da altri radicali l’apologia della criminalità come modello eversivo e l’ideologia della critica della vita quotidiana, in esso espresse, vennero puntualmente e pubblicamente criticate. Nessun comportamento illegale è di per se stesso eversivo, come, per converso, nessuna «linea rivoluzionaria» può dimenticare che cosa e di chi sia la legge, senza svelarsi come finzione politica.
3 “Alle squadre politiche delle polizie e dei partiti sempre più piacerebbe capire chi siamo. Giacché noi stessi possiamo riconoscerci solo nella critica che ci chiarisce ciò che non siamo e ciò che non vogliamo; giacché noi stessi parliamo la lingua di chi vive la trasformazione e l’inidentità; giacché esistiamo come soggetto plurale solo a condizione di sperimentare collettivamente la nostra contraddizione in processo con le forme stesse delle nostre realizzazioni, a mano a mano che esse soggiacciono ad ogni sorta di recupero; lo sforzo di identificarci secondo le logiche collaudate da due secoli di controrivoluzione si ritorce risibilmente e ignobilmente su chiunque vorrebbe imprigionarci in una formula, per consegnarci più agevolmente alle mura del carcere. ‘Provocatori’ è il termine che ricorre identico nelle prose ammorbanti della stampa di regime, con significativa coralità che accomuna nella stessa trincea giornalismo ‘democratico’ e stampa ‘militante Accettiamo, capovolgendolo, il termine.
Se provocatori significa uomini e donne che non accettano le miserie del gioco politico; se significa nuclei informali che sfuggono ad ogni schema di racket gerarchizzato; se contrassegna esperienze mai riducibili ai precetti delle teorie ‘rivoluzionarie’ sconfitte dalla storia e fatte proprie dalla controrivoluzione; se distingue chi non subisce l’interiorizzazione del capitale e combatte ogni forma d’autovalorizzazione; se qualifica lo sviluppo di un pensiero e di una pratica che rifiutano di costituirsi in sfere separate dal vissuto individua le come collettivo; se provocatori’ significa tutto questo, allora noi siamo provocatori!
Siamo provocatori di quel processo di demistificazione che costringe poliziotti, politici del regime e capi-racket dell’opposizione fittizia, a smascherare la loro so stanziale identità, alleandosi pubblicamente contro di noi, praticando le stesse tecniche di delazione, di terrorismo, di calunnia, usando lo stesso linguaggio e la stessa logica, ricorrendo alle stesse bassezze e alle stesse triviali menzogne.
Siamo i provocatori di quel processo di superamento che conduce i rivoluzionari sinceri a rompere col loro passato e a congiungersi con l’altezza storica e la tensione radicale del tempo, a uscire dalle strettoie delle arcaiche ideologie restrittive, per fondersi in quella tendenza verso il punto di vista della totalità che, sola, guida la critica delle forme attuali di dominio capitalistico a riconoscervi la sintesi d’ogni alienazione parcellare e particolare, la summa e il punto di esplosione d’ogni trascorsa oppressione separata. Siamo e saremo fino in fondo, infine, i provocatori del processo rivoluzionario.” (Articolo di G. Cesarano, dal titolo Provocazione, apparso anonimo su “Puzz” n. 19 di aprile-maggio 1975)
4 “Organizzazione Consiliare”.
5 “(…) non sopporto più il discorso sulla ‘vita quotidiana’ fatto alla lettera, cioè, appunto, alla giornata, ridotto in spiccioli; la rivoluzioneschiacciata sull’io come su una pentola a pressione fa un minestrone di viscere e di frustrazioni così denso che non si riesce più a distinguere nemmeno i contorni della cucina (come vedi, il gastronomo non si smentisce). Questo brodo di bili e di fieli in cui finisce di stufarsi il gauchisme è l’ultima ‘coltura’ (in senso di coltura di bacilli) che impedisca all’io di far esplodere la pentola e riconoscere la propria dimensione in quella, altrimenti surcaricata e propellente, del movimento reale. Il quale è – lo si dimentica sempre troppo facilmente – l’antagonista ‘naturale’ dell’esistente, ma non è un altrove dall’esistente, ne è incorporato come un innesco in un esplosivo,
L’autogestione generalizzata dell’universo trasformato è il fine cui punta il movimento reale; e non può tradursi in autogestione dell’inerzia dell’esistente, senza convertirsi in autogestione della schiavitù. Nel suo farsi in processo, l’autogestione generalizzata è essenzialmente auto-genesi creativa: negazione determinata e rivoluzionaria dell’esistente quale organizzazione del fittizio, e trasformazione attiva dell’esistenza in luogo d’origine reale della comunità – specie umana, e del suo mondo. La verità è il frutto vivo di una lotta in atto: chiunque proclami moralità ideologiche come via di salvezza, spaccia droga politica in forma di verità. Del pari, nessuno può giocare d’anticipo modelli «alternativi», senza perciò stesso prefigurare mitologicamente il futuro, inquinandolo così sin d’ora con gli archetipi del passato: condannandolo a eternare il dominio del morto sul vivo.
15. Contro la speranza
Non si tratta di togliere alle lotte ancora prigioniere della separazione ogni senso vivo, si tratta, liberandole dalla loro schiavitù al senso morto, di scoprire ciò che le sottende, ma che esse non arrivano ad esprimere nella sua interezza e totalità. Il movimento reale non è l’esercito rivoluzionario annidato in una latenza ineffabile, ma l’articolarsi vivente, nelle contraddizioni dell’esistente e nell’inganno delle lotte fittizie, di una emergenza che le trapassa senza morirvi, che si rinnova e rafforza al di là delle tagliole allestite per catturarla e deviarla.
A emergere, è una certezza senza precedenti storici: la consapevolezza di un comunismo realizzabile senza «transizione», sulla base materiale conquistata dalle forze produttive7; strappato che sia il mondo degli uomini alle mani di chi sta devastandolo pur di perpetuare una rapina secolare. L’umanizzazione del pianeta e dell’universo naturale, e l’umanizzazione dell’uomo stesso, è il possibile che traspare al di là dei diagrammi del collasso capitalista, al di là della mostruosità imposta al mondo e agli uomini da un modo di produzione necrotizzante, fondato sulla valorizzazione del falso storpiando il vero sin dal seme e sin dalla culla. La produzione di profitto mortifero e di sotto-uomini a esso incatenati deve aver fine, o finirà ogni progetto umano. Questa certezza realizza e incarna, nel movimento reale, il contenuto delle «teorie rivoluzionarie» del passato, superando la loro forma ancora idealisticamente coscienziale. Il passaggio in armi dalla speranza alla certezza, dalla «coscienza» alla esperienza vivente, alla vera gnosi, è la transizione necessaria. La certezza fatica a liberarsi dalle forme vuote in cui l’ideologia la trattiene; a mano a mano che la falsa guerra sceneggiata dall’ideologia mostra ai rivoluzionari la corda con cui strozza il loro furore, la certezza avanza, la vera guerra procede. È questo il compito della critica radicale. Con le parole di Marx: «Noi illustreremo al mondo nuovi princìpi traendoli dai princìpi del mondo. Noi non gli diciamo: abbandona le tue lotte, sono è, ‘semplicemente’, l’altra faccia divorante dell’esistente, la vita abolita al livello delle forme ma che preme dentro ogni forma per farla esplodere. Altro che meticolose e sicarie poetiche della salvezza personale o di racket, come se l’alienazione fosse uno stile e la libertà lo stile contrapposto. (…)” “(…) sorprendente [A.A.A. Cercasi letterati, indiscussa fede proletaria, quinquennale esperienza non militante, possibilmente logorati in pratiche gruppuscolari, attualmente in preda a profonda disperazione, referenze poliziesche controllabili, fama di provocatore gradita, per la stesura di scritti concernenti i momenti nodali della vita quotidiana. Inviare curriculum penale, circolare di Valerio Bertello e PierFranco Ghisleni del dicembre 1971 – nel periodo di transizione dall’O.C. a Comontismo]. Chi può averla scritta? Non ha nulla dei modi pomposi e tromboni di ‘Acheronte’ [organo dell’O.C.}, è tempestiva, lucida. Solo nella parte ‘terroristica’, quando vuole prefigurare uno stile, rifà strada all’indebellabile poetica della virtù & bellezza (come se davvero fosse il caso di fare gli schizzinosi, quando ci si propone di ri-capire l’ingegneria della macchina: purché mi si dia un qualche ragguaglio utile, mi è del tutto indifferente che si tratti di un epitaffio o di un trattato!). (…)” (Da due lettere di G. Cesarano, rispettivamente del 28 settembre 1971 e del 22 gennaio 1972)
6 “Il MOVEMENT è crollato (si respira disfatta ad Amsterdam, dove le stars hippies hanno lasciato il posto alle invisibili stars del terrorismo). Ma è crollato sulla sua debolezza: riformismo della vita quotidiana stile dell’essere. Le debolezze erano insite nella superficialità tutta epidermica ed estetica dello slancio iniziale, idiosincratico al livello dei modi di apparire, e ottusamente ‘alternativo’ giusto su quel terreno, come se il capitale non fosse automaticamente predisposto a qualsiasi ‘colpo di stato’ quando si tratti di stato delle apparenze, degli stili. II movement ha mancato di riconoscere i fondamenti del processo di valorizzazione, cadendovi dentro come in una trappola per daini. Il nihilismo astioso e disperato che adesso impera non è che la conseguenza lineare di quello slancio proiettato su falsi scopi: quando ci si muove per opposizioni semplici e a livelli degli stili, non si fa che infondere spinta al movimento pendolare delle ‘poetiche’ per cui dopo ogni vitalismo si ha un nihiismo, ecc. Il terrorismo è la conseguenza estremizzata del ressentiment che scaturisce dalla dis-illusione (è finita, ‘il terribile è già accaduto’, ‘si torna indietro’ ecc.): visto che non si può vivere, allora si deve morire, e muoia Sansone con tutti i fihitei. Il prossimo futuro sarà dominato dalla poetica nera della morte. Ma per le oscillazioni insite nella dinamica delle spinte idiosincratiche (la devalorizzazione degli ‘stili’), è prevedibile, al di là del terrorismo, la comparsa di un nuovo slancio vitalistico. La dialettica radicale vi saprà cogliere tempestivamente quanto vi sarà di positivo superamento dei giochi fin qui messi in scena nella misura in cui a fondamento dei modi d’apparire (di ‘realizzarsi’) dei ‘movimenti’ sarà visibile il superamento in atto della realizzazione di ogni sé a livello esclusivo di ‘stile’. (Amsterdam 26 sett. 1972 )” (Appunto inedito di G. Cesarano allegato a un quaderno di Critica dell’Utopia Capitale)
7 “Fattori emergenti dallo sviluppo delle forze produttive ‘Immediatamente ‘ convertibili in un’economia reale: gestione comunitaria del mondo liberato.
1) – Automazione: abolizione del lavoro socialmente inutile.
2) – Cibernetica (informatica): centralizzazione e socializzazione capillare di strumenti conoscitivi per conoscere immediatamente’ risorse e bisogni, e valutare le condizioni del loro rapporto.
3) – Parametro energetico anziché monetario o comunque simbolico: abolizione della mediazione del valore astratto.” (Annotazione di G. Cesarano, scritta dopo Cronaca di un ballo mascherato) sciocchezze; (…). Noi gli mostreremo soltanto perché effettivamente combatte, perché la coscienza è una cosa che esso deve far propria, anche se non lo vuole». Dal tempo in cui queste parole furono scritte, fatica e lotte di uomini hanno strappato ai princìpi del mondo il segreto di un mondo finalmente possibile, hanno fatto propria la coscienza di una speranza, il «sogno di una cosa»: si tratta oggi di infrangere l’ultimo diaframma, di fare proprio il mondo stesso. «Noi non temiamo le rovine» dice Buenaventura Durruti: «Erediteremo la terra, questo è certo. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo proprio adesso che sto parlando con voi».
Giorgio Cesarano, Piero Coppo, Joe Fallisi8
8 La prima edizione di Cronaca di un ballo mascherato è apparsa, ciclostilata, nel luglio del 1974. Questa seconda versione contiene varie modifiche, un nuovo paragrafo (9.- La “vita” è sogno), scritto nell’autunno del 1974, e un’Appendice. Le note sono a cura di J.
Fallisi.
APPENDICE
CIÒ CHE NON SI PUÒ TACERE*
1 –
Se la “libertà” di cui si parla in prigione è solo il sogno di una cosa; se il sogno riflette la prigionia nella quale, per negarla, si forma, esso è quanto non può ridursi né alla prigionia né al suo capovolgimento soltanto illusorio: l’insurrezione, la sortita, la distruzione della prigionia è il fatto che traduce in vero la qualità reclusa nell’affabulazione progettuale. Le “teorie rivoluzionarie”, tradite dall’impazienza, hanno sempre allestito, nella precarietà, teoremi di copertura su quanto l’ordine carcerario vieta di pensare. Ma il tasso d’errore, brutalmente sciolto nella storia in tracce sanguinose, non testimonia la fatalità di uno scacco precostituito nella debolezza del pensiero separato da ciò che invoca. Se l’impazienza non surcaricasse il dolore della prigionia, allora non resterebbe che sognare, ammutoliti, la parola magica annunziante il fatto puro, la rivoluzione remota da noi. Quanto il “discorso” rivoluzionario esprime, non può acquietarsi nell”esattezza” di cui s’illude da sempre lo sguardo scientifico: nell’impazienza si manifesta una critica pratica del discorso esaustivo in cui l’urgenza del desiderio trapassa le proprie cadute nella botola del logos.
2 –
Ciò che il desiderio non invera, il dolore della mancanza denuncia. A cadere, sono le illusioni. Né il desiderio di comunismo garantisce a priori congruenza al momento teoretico, né questo può smemorarsi disastrosamente delle sue drastiche esigenze senza tradirle. La fame di ciò che non viene dato non si consegna agli chef dell’ideologia; d’altro canto costoro, che se ne dimenticano, presentano piatti vuoti: come essi stessi vicendevolmente si rinfacciano. Ciò che accomuna i comunisti non può vedersi come racchiuso, oggettivato, in alcun testo; nondimeno ogni testo eversivo vi è connesso per un rapporto non già di corrispondenza lemmatica, ma di coerenza con la passione. L’atomizzazione del contesto sociale promuove l’idiosincrasia a sindrome generalizzata: di qui l’acume fobico con cui ogni “teorico”, e ogni cerchia di testori, ravvisano in primis nel “prodotto” altrui i termini dell’insolvenza.
L’acribia lemmatica, il culto maniacale dell'”esattezza” chirurgica, colgono così nella parola eversiva ciò che suona dalla parte del potere, mentre tacciono il timbro profondo del sound and fury comuni. E, per contro, l’intimismo delle cerchie accalorate attorno al fornello della rivista, del ciclostilato, del beau geste quotidiano, si prospetta come la qualità del differente, quando temerariamente non si spaccia come la colmatura in vitro del vuoto sociale contro cui si sforza di spiccare, per meglio nascondersene l’ossessione angosciosa, per medicarne il dolore.
3 –
Come la prassi è pur altro che mera verificazione dell’errore teorico, così l’esigenza di inveramento che vi si incarna prova, anche nelle sue cadute e nei suoi errori, la comunione insieme d’intenti e di condizioni, la forza insieme della fatticità che imprigiona, e del desiderio che sopravanzandola la nega. L’errore non si situa nel momento progettuale del processo rivoluzionario, né l’esperienza vivente che lo riconosce può mai accettare di subirlo come intrinseco all’eversione: l’errore insinua nelle vicissitudini della lotta quanto di falso è connesso a ogni rivendicazione della soggettività, là dove pretende d’essere immediatamente senza potersi che avere nella mediatezza della prefigurazione. Nel disfarsi di quella mediatezza, è il farsi del movimento reale, il superamento delle illusioni, della speranza e della “coscienza” fideistica, residuo della fascinzione soteriologica. La negazione dell’esistente non ne è mai stato il mero ribaltamento speculare: si esprime in essa una tensione verso il possibile la quale marca un’irriducibilità costitutiva. Il processo rivoluzionario non può acquietarsi nella rozza critica, calco del negativo, senza sacrificare all’esser-così del “mondo” la propria qualità, senza rinunziare a ciò che la sostanzia: il desiderio di un mondo vero. Questa la differenza che rende il discorso rivoluzionario irriducibile all’errore che paga nel proprio costituirsi come discorso; questa l’opposizione eccessiva che rende l’eversione inidentica a ciò che nega e non in esso comprensibile.
4 –
L’errore dei teoremi rivoluzionari storici rimasto insepolto dall’errance della prassi, allunga la sua ombra sulla mutilazione che, nell’immediato oggi, priva la critica di una prassi coerente sul terreno della violenza.
La teorizzazione per eccesso (fino alle cosiddette “utopie concrete”), là dove la mancanza del “soggetto rivoluzionario” sembrò pressare la teoria dell’allestimento di sistemi compensativi, non rispecchiò l’eccesso
* Testo pubblicato da “Puzz” (n. 20, giugno-agosto 1975).
dell’opposizione (il superamento violento dell’identità imposta dal dominio del senso morto) ma, al contrario, affondò le sue radici nel terreno dell’identità costituita, giacché prospettò l’avvenire come il verificarsi di un progetto intellettuale. La violenza dei rapporti di produzione ha divelto ogni illusione sistematoria, realizzando de facto l’egemonia del loro spirito come “soggetto” del sociale e confermandovi il mancarsi di ciascuno, ridotto a rispecchiare, nella propria dimidiazione, la composizione organica del capitale dominante: l’antagonismo e la sua violenza interiorizzati come identità problematizzata. A fronte della totalizzazione materiata operantesi nel dominio del capitale, il momento teoretico è forzato a rappresentare la mancanza del soggetto rivoluzionario e della sua violenza nella forma di distanza dalla “totalità”, concepita come prefigurazione “astratta” (in positivo o in negativo) del comunismo realizzantesi senza transizione. In questo movimento la violenza o è “rinviata”, o appare del tutto integrata ai modi di produzione dell’esistente: tolta alla classe, prestata al rivoluzionario professionale, lascia queste presenze in campo come rappresentazioni di ciò che deve riprodursi come identico, nell’identità di una transizione eternata.
5 –
Nessuna teorizzazione di copertura può restituire le forme storicizzate della violenza, espressione diretta della critica dell’economia politica, all’eversione contemporanea, armata contro il dominio trans-economico del capitale. Non siamo gli eredi delle “rivoluzioni sconfitte”. La nostra eversione scatta da una discontinuità.
La rottura col passato è quanto nel presente ne combatte ogni sopravvivenza, giusto così riscattandone la pretesa non morta. Non parliamo con la voce dei morti, giacché essi non possono correggersi. Il modo migliore di riconoscerli, è contraddirne le contraddizioni. Rifiutare la violenza drammaturgica dei brigatisti, questi rivoluzionari che la “professione” rende clandestini a se stessi, non equivale a una simmetrica professione di pacifismo. Il momento critico non può nascondersi la mutilazione infertagli dalla storia con la privazione di una violenza coerente, non accecata al proprio senso. Troppo a lungo i radicali ne hanno lenito il dolore bilanciando il rifiuto del terrorismo con l’ipervalorizzazione di gesti derelitti e intermittenti, emersi dalla sindrome idiosincratica divenuta lo stile della vita corrente. Né quella aneddottica della “violenza” esprime più che una sintomatologia della percezione immediata, ma inconseguente, del negativo, né la sua decantazione eteronoma la colma dell’autocoscienza di cui manca, la percezione della propria insufficienza.
Così la combustione resta senza fuoco.
6 –
Se la separazione dalla violenza non fosse, com’è, un vuoto doloroso, allora ciascuno non si troverebbe, come si trova, a cercare in sé e negli altri il momento della coerenza eversiva: allora non saremmo, come siamo, certi soltanto di dover superare, combattendo, i termini concreti di una insufficienza intollerabile. Solo
quando il momento prammatico includa in se stesso la critica della propria insufficienza, esso partecipa alla tensione con cui il momento teoretico include in se stesso la critica della propria precarietà. Nessuna favola “teorica” ci ingannerà più sulle nostre condizioni reali. Ma nessun dramma “pratico” ci re-imporrà più le condizioni della nostra caduta “fatale”. Solo da chi non intende soccombere nemmeno all’assillo terribile della propria impotenza, c’è ancora tutto da aspettarsi, e il superamento dell’impotenza in primo luogo.
7 –
La pretesa sistematoria (conciliante) della teoria fu coerentemente attaccata dalla “teoria critica” (Adorno, i suoi amici), la quale nondimeno mai protestò di disfarsi della precarietà inerita allo sguardo teoretico col semplice gesto di additarla, ma ne sfidò il rischio combattendolo al proprio interno, riproponendo la filosofia ma rendendola cosciente della propria dannazione. Nella temperia fobica succeduta agli spasmi sessantotteschi, la disperata apologia della “prassi” mostrò presto d’essere il riflesso d’una idiosincrasia per il momento teoretico. L’accento esasperato sulla gestualità ribelle occultava ai suoi recensori la mutilazione avvenuta: mai tanta precettistica dell’azionismo e dell’avventura venne agitata a mascherare le disavventure dello spontaneismo, là dove si postulò come il corto-circuito capace di abolire magicamente il mancarsi reciproco di teoria pratica e di autocoscienza critica. Lo sforzo di imprimere al movimento l’accelerazione della critica, e le sue illusioni (Internazionale Situazionista, Ludd: “Le nostre idee sono nelle teste di tutti”), bastò appena a indicarla come la qualità dell’insufficienza non disposta ad autoaccecarsi.
8 –
Quando la prassi insufficiente non riesce a sciogliere in sé, inverandola, la teoria separata, allora questa è sospinta a rifuggirla assumendo in modo consolatorio e rassicurante i “tempi lunghi”, rifugiandosi nelle sette ereticali. Se Bordiga e se Adorno, ammantellati nel loro sdegnoso avventismo, non hanno riconosciuto l’avventarsi, pur cieco, del Maggio, oggi un carattere del tutto nuovo ci consente di sortire dall’impasse (né illudersi, né accecarsi) che era innanzitutto contenuta nella totalizzazione operata dal Dominio, nel carattere eterodiretto degli individui, privati, secondo Adorno, del Super-Io, nell’assenza di ogni possibile prassi se non come “resistenza” caricata di tensione per il futuro, ma sostanzialmente regressiva. Allora, la teoria come “pensiero che si pensa” poteva sforzarsi di riaffiorare, di distanziarsi dal Tutto che è il Falso (o sperare di integrare nei termini dell’invarianza e del suo restauro il “Filo del tempo” smarrito nella riduzione della prassi della classe operaia a momento interno del capitale). Oggi noi, pressati dal carattere di aut-aut raggiunto dal Dominio (sulla natura, esterna e interna all’uomo), riconosciamo non tanto il massimo della disgregazione, dell’impoverimento giunto alla sua forma più completa (il che, falsando il senso della “crisi”, ci renderebbe simili ai bianquisti e ai leninisti, pronti a costruire nel loro “essere” l’alternativa, e soddisfatti di ereditare le macerie), quanto l’insorgere di ciò che sempre rimase irriducibile, il suo presentarsi nello stato di emergenza come una certezza, il suo profilarsi, nel carattere ultimativo della lotta, come forza che si afferma e si mostra proprio al limite in cui la negazione assoluta e l’omologazione assoluta ci restituiscono rovesciato il senso di secoli di errance de l’humanité, come la soglia che fa scattare la differenza quale motore della discontinuità, del Nuovo. Noi definiamo corporeità della specie quanto è irriducibile al popolo del capitale, certi di indicare il farsi in processo di una materialità in cui si supera l’angustia di ogni predicazione, inclusa la nostra, per quanto vi si trattiene di discorsivamente imperfetto, giacché siamo della specie che da sempre ha parlato di “libertà” da dentro i muri della prigione..
9 –
La critica che si lascia annichilire dalla sua riproducentesi precarietà, di fronte alle dimensioni ultimative dello scontro preferisce liquidarsi, accontentandosi di enunciare quel minimo che ogni radicale conosce come la condizione d’insufficienza contro la quale combatte il suo desiderio d’inveramento: “Il superamento della politica non lascia dietro di sé un vuoto, ma lo sviluppo pratico della critica che è tutto da scoprire.”1 La rivoluzione diventa allora la cosa “di cui non si può parlare”, fatto puro per eccellenza, perfetto togliersi di ciò che, ineffabile, non potrà mancare di rivelarsi misticamente alla fede neo-avventista, di là dagli accidenti della storia, di là persino da quella bolla di energia in cui la pazienza del “pensiero che si pensa”, accanita a combattere la com-prensione del negativo, inscrive il suo potere di comprenderlo quale anticipazione, non terrorizzata, dell’affermarsi in processo d’una dimensione che lo eccede. La critica terrorizzata non ha scampo che ripiegando su se stessa. Ogni “oggetto” scotta la sua fobia a misurarsi, o le risulta infetto dal vizio triviale d’accadere. La polizia critica sgombera al confino passione e specie, esalazioni impure di quel succedere che, trapassato il sogno di una cosa, non somiglia in nulla a una cosa di sogno.
Solo il suo stesso fiato le è respirabile, e solo di sé può arrischiarsi a parlare. Parlerà a lungo, la metacritica, come da lungo parlano i metalinguaggi del modernismo artistico e “filosofico”, ferma nel suo sito tolto al correre della storia e già lontana, mosca presa nell’ambra dello spettacolo, reperto da museo.
1 Cfr. Gianni-Emilio Simonetti: Contro l’ideologia del politico, ecc., Milano 1974: libello redatto in polemica con Cronaca di un ballo mascherato di G. Cesarano P. Coppo G. Fallisi, Livorno 1974. La nota che segue, esaurisce quanto per parte sua Cesarano, che ne è l’estensore, avverte la necessità di puntualizzare in proposito.
Indossatore professionale di concetti altrui, starlet di atelier dove il bizzarro, divenuto domestico, serve détournements serigrafati numerati e firmati dall’artista, G.-E. Simonetti, come i suoi pari, è preda di compulsioni che lo obbligano a strip-tease, repentini al punto da trasformarsi in streaking. Eccolo, adamitico, fuggire a precipizio il luogo dove s’è strappato di dosso gli abiti, per lui troppo spinosi, della critica radicale, sempre rivelatasi intollerabilmente scomoda a chi se ne addobbi sperando l’applauso. Con una foglia di fico fraudolentemente strappata ad Arno – il vizio suo non muore – s’illude di coprirsi le terga. Il fatto non sarebbe degno di una nota se questa fuga non si mascherasse, tanto per cambiare, come l’avvento di un nuovo corso, e se il protocollo con cui si pubblicizza non abbondasse di falsificazioni da baro.
A fronte del terrorismo guerrigliero, nessuno che si definisca radicale può defilarsi nel salotto della neutralità affascinata e contemplativa. O con noi o contro di noi è il criterio minimo che le azioni dei brigatisti sollecitano alla coerenza di ogni rivoluzionario.
Proprio perché il terrorismo è lo spettacolo del politico che si stravolge in “atroce dramma”, l’atrocità del dramma non è quella, scontata dalla liturgia, del sacrificio di sé, quanto quella, davvero tragica, dell’accecamento alle ragioni autentiche della vera guerra, l’asservimento umiliato della collera eversiva all’eternizzazione di battaglie fittizie. In Cronaca di un ballo mascherato, Coppo, Fallisi ed io abbiamo responsabilmente assunto una presa di posizione radicale: contro il terrorismo, per un superamento definitivo dell’ideologia politica, per una evidenziazione dei termini reali, non più mistificabili, in cui emerge la vera guerra. Simonetti apre il suo “testo” giustapponendo una frase del delatore Girotto, detto “fratello nutra”, a un passo del nostro scritto. Ogni Cristo trova il suo Giuda, ogni Giuda trovi al più presto il suo albero, ma ogni evangelista trovi la sua vergogna storica di mentitore. Se i brigatisti rappresentano il momento più estremo dello spettacolo politico, il delatore Girotto innesca il momento più sordidamente fatale, quello in cui lo spettacolo viene inquadrato dalla polizia. Con l’antico e infame gioco delle equazioni “obbiettive”, patrimonio per eccellenza dei calunniatori politici, Simonetti vorrebbe schiacciare la critica sul terreno della delazione. Chiunque abbia avuto a scontrarsi con l’arroganza poliziesca dei partiti e dei gruppi politici, riconoscerà in questa pratica giusto quella tendenza all’attribuzione di “colpe indirette” che assimila tribunali comuni e tribunali “rivoluzionari”, comunione che il nostro scritto ravvisa, per altri versi, nella condotta dei brigatisti, esattamente al passo scelto da Simonetti come “oggettivamente” omologabile alla delazione di Girotto.
L’infamia gli si ritorce contro: dove la sua impazienza di ri-piacere a tutti i clienti spinge Simonetti giustificare l’apologia dei terroristi, là deve spacciarli per morti (“ieri, la critica delle armi dei compagni delle Brigate Rosse o della Rote Armee Fraktion esprimeva il meglio dello strumento del politico come conclusione della politica”, ecc.) ed ecco al contrario verificarsi nell’oggi ciò che il nostro scritto ha individuato come la potenzialità più tossica del terrorismo quale modello operativo generalizzabile: il proliferare, in Italia e in Germania, di epigoni votati, dall’ingenuità stessa della loro passione catturata, a un dramma che non cessa di incrementare l’atrocità. La medesima vocazione alla politica della calunnia spinge impudentemente Simonetti ad equiparare il concetto di specie (Gattung) con quello di razza (mai sfiorato, ovviamente, in alcuno dei nostri scritti se non nella congrua denotazione negativa). In Hegel, Marx, Engels, Adorno, Korsch, Luckacs e soprattutto in Bordiga si troverà a questa stregua un “razzismo” identico al nostro. “La deformazione di un testo”, scrive Freud, “è simile, sotto un certo punto di vista, a un omicidio. La difficoltà non sta nella perpetrazione del delitto, ma nella dissimulazione delle sue tracce”.
G.C.
Gennaio 1975
10 –
L’ombra delle incastellature allestite dalla teoria per non lasciarsi ammutolire dalla coscienza della propria precarietà disegna lo spazio dove più pesantemente opera la cancellatura della metacritica: della rivoluzione si deve tacere è la menzogna con cui il discorso rivoluzionario copre le feci fossili ma fetenti di troppa congettura. Poiché il presente o incide negli sviluppi a venire o già sanziona l’impossibile, il pensiero che si vieta di leggere nel presente il divenire del possibile sanziona la propria impotenza come una maledizione ontologica. Non temiamo di comprometterci con le incertezze che sin d’ora sabotano la certezza della specie e del suo farsi, se parliamo del processo rivoluzionario come del movimento reale che punta verso l’autogenesi creativa: l’autogestione generalizzata che non può tradursi in autogestione dell’inerzia dell’esistente senza convertirsi in autogestione della schiavitù. Quanto in queste formulazioni si trattiene delle congetture elaborate nel passato, non si nasconde né si ostenta, ma si pone allo sguardo della critica pratica perché essa si renda consapevole di quali rischi la dialettica armata a non dileguare sia ancora costretta ad assumere, quando non si illuda di liberarsi dal peso della storia simulando un’intimità da alcova con ciò di cui “un gentiluomo non può parlare”. A mano a mano che la carestia impone all’economia politica il conto dei propri limiti, si prospetta una disgregazione dell’eccesso economico in cui cancerosamente transcresce un eccesso del politico: in tendenza, l’amministrazione socializzata della penuria materiale arresta l’arcaica rissa attorno alla distribuzione dei “beni”, mentre promuove un autonomizzarsi del politico quale forma “culturale” (illuministica) della determinazione e del controllo d’una “condizione umana” regressiva. Una sopravvivenza suntuaria e contingentata promette a ciascuno la prossima denotazione eteronoma dei suoi “bisogni primari”, e questo è destinato a verificarsi con la partecipazione “consiliare” d’ogni oppresso, nell’ambito di un’autogestione della miseria improntata alla interiorizzazione del mancare come riproporsi definitivo del fato originario.
11 –
La vera fame è millenaria: già carica della sapienza di sé che le consente d’insorgere contro ogni eteronomia tesa a ricarcerarla in un limite designato come l’insuperabilità della “condizione umana”. Questo il senso dell’autogenesi creativa: l’autogestione generalizzata come abbattimento reiterato d’ogni barriera al farsi umano, all’origine in divenire della specie signora di sé; lotta a oltranza contro ogni riprodursi aggiornato della ristrettezza politica; abolizione violenta di ogni potere delle contingenze amministrate sulla pelle degli oppressi e a loro nome; riconoscimento e rigenerazione, contro il “bisogno”, del desiderio; inverarsi della passione di vivere contro ogni retorica del limite e ogni poetica del sacrificio. Le condizioni di questa lotta sono inscritte nel desiderio di comunismo come il desiderio di comunismo è inscritto nell’iter preistorico: quale senso avversativo eccedente ogni identità imposta dal potere del mortuum sul vivente; quale differenza fra concatenazione meccanica di eventi (la “storia” degli storiografi e il suo alibi, il pensiero lineare) e coloro che ne vissero la passione di mutare il mondo; quale discontinuità capace di spezzare il reiterarsi e mandarne a fondo la modellazione cibernetica; quale movimento reale.
12 –
Già ora l’omologazione del Dominio si fa specchiante, affinché il terrore del mutamento stronchi gli sguardi contro il riflesso nostalgico dei “paradisi perduti”. Alla carestia si accompagna la regressione, che ne è lo stile, nella sfera degli inferni individuali così come in quella della socialità resa autocritica. Come la psichiatria d’avanguardia si dispone a “guarire” la sopravvivenza legando ciascuno al mistero svelato della sua nascita-morte, così la sociologia modernissima prepara la resurrezione di “comunità”, etnie, “razze”, dopo che il capitale ha finito di svellerne le radici e di cancellarne la specificità. Tutto lascia prevedere un’estensione dell’apologetica che eternizza l”io diviso” alla dimensione della specie ri-divisa in “comunità”.
Agli ideologi del capitale autocritico non è sfuggita la sostanza eversiva dell’emergere, debolmente esorcizzato nelle modellazioni cibernetiche, di una totalità reale, vivente, già di fatto in pressione contro la superficie blindata della totalizzazione operata dai modi di produzione capitalistici. È questa la realtà materiale che informa il “concetto” di specie. E contro questa – l’internazionale realizzantesi oltre i suoi schemi ideologici ed arcaici, economico-politici – ancora una volta si arma la mistificazione scientifica. Come l’apologetica dell’io diviso adorna di “poesia” i momenti autonomizzati in cui l’individuo spezzato (schizo-frenia, cuore spezzato) realizza il valore di sé quale agente del capitale, così il riproporsi delle “comunità” separate adorna d’eticità modernista i resti emarginati di un passato irriproducibile. Nel cuore delle società immobili, sussunte al dominio del sacro, e fermate alla reincarnazione reiterata del Simbolo e del Verbo, si esprimeva una specificità qualitativa inconciliabile con l’omologazione violenta d’ogni forma d’esistenza a mero momento d’apparizione, del valore di scambio. Analogamente, nell'”eccezionalità” della condizione schizofrenica, si esprimeva una resistenza contro la generalizzazione violenta dell’intercambiabilità fra gli individui come forma esclusiva dell’adeguanza all’identità socialmente imposta.
In entrambe le riproposizioni strategiche, ciò che oggi viene disseppellito è la forma ormai vuota della “resistenza” particolare all’identità: affinché il suo superamento davvero universalizzato, fatto della specie e in questo senso specifico al di là del particolare, movimento comunista sovra-individuale e sovra-particolare, attardi il suo slancio e si insabbi – essi sperano – in un nuovo labirinto. Se mai fosse stato necessario, questa strategia difensiva messa in campo dal capitale mostra fino a che punto l’emergere della comunità globale, il profilarsi minaccioso della specie quale soggettività in processo irriducibile alle tagliole della mancanza eternata, terrorizzi insieme i gestori di ogni potere e gli amministratori delegati di ogni rafforzamento della “polizia” politica, mistificato sotto l’alibi delle “necessità della lotta”.
Giorgio Cesarano, Paolo Faccioli
http://www.progettorizoma.org/uploads/materiali/cronaca-di-un-ballo-mascherato.pdf
Reperito il 16.06.2011
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CRISI, LA BCE LANCIA L’ALLARME CONTAGIO DOPO AVERLO PROVOCATO 15.06.2011
Come in uno di quei film di ultima generazione in cui un virus flagella l’umanità, la crisi rischia di espandersi in tutto il vecchio continente. La BCE, che non sa più che pesci prendere, dopo aver fatto di tutto per infettare le nostre economie con politiche dissennate che di fatto hanno lasciato immutato il meccanismo che l’ha crisi provocata, oggi lancia l’allarme contagio. In un comunicato l’istituto di Bruxelles ci ricorda che esiste una stretta interconnessione fra il settore pubblico e le banche, che queste hanno ampie fette di titoli di Stato periferici in portafoglio, e che ora il rischio principale per la stabilità finanziaria nell’area euro e “il potenziale per creare effetti di contagio” è proprio questo fattore. In poche parole, la crisi dell’area Euro è ancora agli inizi. Prima la BCE ha con politiche di austerity salvato le banche private con soldi pubblici, poi ha lasciato pascolare liberamente le banche private con operazioni speculative sui titoli sovrani degli stati. Oggi a distanza di anni la BCE si accorge che le sue ricette sono state peggio del male, dato che gli stati non sono in grado di reggere il modello imposto da Bruxelles assieme al FMI e alla commissione europea. Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna sono i focolai di un’infezione che è stata alimentata dalle classi dominanti per utilizzare la crisi come clava per aumentare la competitività a scapito di diritti e servizi sociali. Nell’Europa della finanza conta più un giudizio di un’agenzia di rating che un parlamento, conta più un indice numerico che la volontà di un popolo. Ancora una volta ribadiamo un concetto di fondo, dalla crisi non ne usciremo fin quando non modificheremo a fondo il sistema che la produce.
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La rassegna di http://caffeeuropa.it/ del 16.06.2011
Le aperture
Il Corriere della Sera: “Ricatti, arrestato Bisignani. La rete segreta del consulente per condizionare la politica. Inchiesta P4, richiesta di cattura anche per il Pdl Papa. Letta e Bocchino citati nelle carte”. Non mancano “i verbali”, in un altro articolo: “Jaguar, Rolex, soldi e posti alle amanti”. A centro pagina la situazione della maggioranza: “Maroni: non so se si va avanti. Vertice tra Lega e Tremonti. Sfogo di Berlusconi con gli amici su possibili ‘grane’ finanziarie”. Sotto, una intervista a Fini: “Nuovo governo con agenda Draghi”.
La Repubblica: “Spiavo i pm, e informavo Letta”. “Inchiesta P4, arrestato Bisignani. Era un uomo chiave di Palazzo Chigi”. Il faccendiere costruiva dossier e ricatti. Nelle carte Verdini, Bocchino, Tremonti. Chiesto il carcere per il deputato Pdl Alfonso Papa”.A centro pagina la Grecia che “spaventa l’Ue: proteste e scontri a Atene. La crisi precipita, allarme della Bce: rischio contagio”.
La Stampa: “Dossier P4, trema la politica. Manette all’imprenditore Bisignani. Ha detto ai pm: informavo Letta. Il premier: puntano a Gianni? Ci hanno già provato. Chiesa la custodia cautelare anche per il deputato Pdl Papa”. A centro pagina la “rivolta in piazza ad Atene, paura per l’euro”. In alto. “La Lega attacca: ‘Basta soldi per la Libia’. Maroni: al Viminale serve un miliardo”.
Il Giornale: “Pattume anche su Letta. Il tritacarne giudiziario. Il Pm Woodcock arresta il lobbista Bisignani, ma punta in alto. Il Gip: mancano le prove. Ma intanto le carte girano e contengono nomi illustri. Coinvolto anche un deputato Pdl”. Di spalla la politica: “Berlusconi ha pronto un nuovo piano per tagliare le tasse”.
Libero: “500 idee taglia-tasse. Al ministro dell’Economia è sbagliato chiedere miracoli. Ma i margini per recuperare risorse ci sono. Si possono risparmiare miliardi abolendo decine di agevolazioni fiscali ad personam”. A centro pagina. “Adesso tocca a Letta. Inchieste segrete sul sottosegretario”.
Il Riformista: “Crepuscolo. Il centrodestra e il suo capo si incamminano verso un mesto finale. Berlusconi e Bossi: vertice aereo per siglare una tregua priva di Pontida. Ma l’accordo non c’è. Grande paura del Cav per le inchieste. ‘Vogliono farmi fuori con ogni mezzo. Se cade Letta cado pure io”.
Il Foglio: “Elogi di opposizione e mormorii confindustriali per il piano del Tesoro. Rep incornicia il manifesto fiscale e rigorista di Tremonti, l’Udc si adegua. Ma ai commercianti l’Iva non va giù. La tentazione delle rendite”. Di spalla: “Papandreou chiede la fiducia per salvare la Grecia da se stessa”.
Il Sole 24 Ore: “La crisi greca minaccia l’Europa. Scontri ad Atene contro l’austerity. Papandreou cambia il governo e oggi chiede la fiducia. Giù Borse ed euro sui timori di effetto domino. Il Fondo Monetario valuta un piano per l’erogazione di prestiti straordinari”. Di spalla. “Inchiesta loggia P4: arrestato Bisignani, richiesta per Papa (Pdl)”.
Su molte prime pagine anche la notizia che riguarda il ministro Brunetta, che martedì è stato protagonista di una reazione irritata ad una contestazione di precari della pubblica amministrazione durante un convegno. Brunetta ha detto “siete l’Italia peggiore” a coloro che lo contestavano, e ieri ha spiegato con un video e un post sul suo sito che non si scusa, perché vittima di alcuni che hanno “usato la rete come un manganello”. Parlano della vicenda Merlo sulla Repubblica (“Quell’insulto di Brunetta, il ministro dei peggiori”), Sergio Rizzo sul Corriere della Sera (“Brunetta antiprecari, un doppio errore”), Massimo Gramellini su La Stampa (“Il ministro in fuga dalla realtà”).
P4
Scrive il Corriere della Sera che la Procura di Napoli sta indagando su un sistema ribattezzato P4 e volto alla “acquisizione illegale e alla gestione di notizie riservate e secretate inerenti tra l’altro anche delicati procedimenti penali in corso”. I titolari dell’inchiesta, Curcio e Woodcock, hanno chiesto e ottenuto ieri gli arresti domiciliari per Luigi Bisignani.
Richiesta di arresto, che sarà esaminata dalla Giunta per le autorizzazioni della Camera, anche per il deputato del Pdl Alfonso Papa. Destinatario di una terza ordinanza di custodia cautelare il sottufficiale dei carabinieri Enrico Giuseppe La Monica, che era all’estero quando finì sul registro degli indagati, e non è mai tornato. Bisignani viene indicato dal Gip come “dirigente d’azienda, mediatore e procacciatore di affari”, ma soprattutto come “ascoltato consigliere dei vertici delle più importanti aziende controllate dallo stato, di ministri della Repubblica, sottosegretari e alti dirigenti statali”. Un personaggio “più che inserito in tutti gli ambienti istituzionali e con forti collegamenti con i servizi di sicurezza”. I magistrati hanno contestato agli indagati 19 capi di imputazione. Il Gip non ha accolto la tesi dell’associazione a delinquere. L’accusa per il deputato Papa è di aver offerto protezione giudiziaria a imprenditori e finanzieri finiti nel mirino della magistratura. In cambio della protezione otteneva “molteplici utilità”.
Gli articoli dei quotidiani sono basati sulle “carte” dei magistrati, che conterrebero anche una “confessione” di Bisignani ai Pm. E sulla base delle confessioni di Bisignani, scrive La Stampa, che “pur di non essere arrestato”, ha cercato in questi mesi di convincere i pm napoletani della sua volontà di collaborare alle indagini, come quando ha ammesso candidamente: “Mi chiedete se io informassi Letta delle notizie e delle informazioni riservate di matrice giudiziaria comuncatemi da Papa. A tal riguardo, vi dico che sicuramente guardavo e informavo il dottor Letta delle informazioni comunicatemi e partecipatemi dal Papa, in particolare di tutte le vicende che potevano riguardarlo direttamente o indirettamente come la vicenda riguardante Verdini o il procedimento che riguardava lui stesso”, cioè Letta.
Anche su La Repubblica si sottolinea che era il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Letta il referente principale del faccendiere Luigi Bisignani. A Letta “Bisignani riferiva tutte le informazioni che Alfonso Papa, deputato Pdl, ex magistrato e componente della commissione antimafia riusciva ad avere grazie alle ‘talpe’ (esponenti delle forze dell’ordine) di cui disponeva nella Procura di Napoli che indagava su politici, imprenditori e faccendieri, compreso lo stesso Bisignani.
Scrive il quotidiano che i Pm Henry John Woodcock e Francesco Curcio, configurano una associazione per delinquere finalizzata al procacciamento di notizie segrete e riservate. La procura aveva ipotizzato anche l’associazione segreta, vietata dall’articolo 18 della Costituzione. Su questo il Gip non ha ritenuto ci fossero sufficienti indizi.
Secondo Il Giornale su 19 capi di accusa, al momento sarebbero rimasti in piedi soltanto la violazione del segreto istruttorio e il favoreggiamento.
Anche Il Fatto quotidiano conferma che il Gip ha disposto gli arresti solo per le contestazioni inerenti gli episodi di favoreggiamento agli indagati, ma è “parso perplesso” sulla associazione segreta. E riferisce le parole del Gip: “Il giudicante ritiene che detto materiale non debba essere particolarmente approfondito ed illustrato, avendo gli stessi pubblici ministeri precisato che l’ipotesi accusatoria non è ancora supportata da gravi indizi di colpevolezza”. Per quanto riguarda le sollecitazioni di una candidatura di Alfonso Papa, i pm hanno ipotizzato la corruzione, ma la contestazione è stata respinta dal Gip.
Il Corriere della Sera dà spazio alla “reazione” di Gianni Letta. Non so cosa Papa possa aver acquisito su di me, cado dalle nuvole”. “Non ho mai parlato con lui di presunte inchieste a mio carico, non sapevo nemmeno che esistessero, non so neppure se davvero esistano”, dice.
Su La Repubblica è Alberto Statera a ricostruire la storia e il percorso personale di Luigi Bisignani, considerato una specie di “federatore” di associazioni come P2, P3 e P4. Portò decine di miliardi di tangenti Enimont alla Banca vaticana nella Prima Repubblica, le sue ambizioni vennero sostenute da Giulio Andreotti, avrebbe fatto parte della P2 di Gelli, ha stretti legami con manager del calibro di Paolo Scaroni (ENI), Gianfranco Guarguaglini (Finmeccanica) o Cesare Geronzi.
Politica
Gianfranco Fini viene intervistato dal Corriere della Sera. Parla del referendum e sottolinea che “anche milioni di elettori del centrodestra hanno bocciato 4 leggi del governo, compresa la legge ad personam per antonomasia”. Prevede che il 22 giugno alla Camera Berlusconi “dirà che bisogna ripartire dal programma”: ma “dovrebbe riconoscere che il programma del 2008 non c’è più”. Berlusconi dovrebbe “passare la mano” ma “non lo farà”. Servirebbe “un esecutivo imperniato nel centrodestra che ha vinto le elezioni, ma capace di parlare a tutti gli italiani, che puntasse sulle cose che uniscono anziché sulle tante che dividono le forze politiche. Penso all’agenda Draghi, alle priorità indicate dal governatore”. Futuro e libertà sosterebbe un simile governo? Fini: “Tutte le opposizioni sarebbero in difficoltà a dire no a un governo che chiudesse il libro dei sogni cui gli italiani hanno mostrato di non credere più, e affrontasse l’ emergenza economica e morale che ormai è vicina”.
L’Esecutivo Berlusconi – secondo Fini – “collasserà come un mobile pieno di termiti”.
Politica internazionale
Il Corriere della Sera dedica due pagine alla situazione in Libia, offrendo ai lettori una intervista in esclusiva con il figlio di Gheddafi, Saif Al Islam. Presenta il suo piano per uscire dal conflitto, propone di tenere in Libia elezioni: entro tre mesi, al massimo a fine anno. E la garanzia della loro trasparenza potrebbe essere la presenza di osservatori internazionali (“Accettiamo l’Ue, l’Unione africana, le Nazioni Unite, la stessa Nato”). E conferma: “Non ho alcun dubbio: la stragrande maggioranza dei libici starà con mio padre, e vede i ribelli come fanatici integralisti islamici, terroristi sobillati dall’estero, mercenari agli ordini di Sarkozy. Alla nostra gente non sfugge che lo stesso presidente del governo fantoccio a Bengasi, Mustafa Abdel Jalili, come del resto il loro responsabile militare, Abdel Fatah Younes, sono, al pari di tanti altri, uomini della vecchia nomenklatura, gente che è saltata sul carro delle rivolte all’ultimo minuto”, “ministri con Gheddafi che ora vogliono giocare la parte dei leader contro di lui”. A Sarkozy, che ha insistito per l’intervento, Saif Al Islam chiede di aiutarlo a trovare una via d’uscita. Ribadisce che anche se le elezioni venissero vinte dai dirigenti di Bengasi Gheddafi non se ne andrebbe, non accetterebbe l’esilio, perché intende essere sepolto in Libia. L’Italia potrebbe avere un ruolo nel processo di ricostruzione democratica? “Non ora, non sino a quando ci sarà Berlusconi al governo. Da quello che possiamo capire qui a Tripoli, il vostro premier è in difficoltà, pare inevitabile la sua prossima sconfitta elettorale. Bene, non possiamo che gioirne”, visto che tanto lui che il ministro Frattini, fino a tre mesi prima lo scoppio della ribellione, venivano a inchinarsi e baciavano le mani a Gheddafi.
Lo stesso quotidiano intervista Romano Prodi, che presiede il gruppo di lavoro Onu-UA per le missioni di peacekeeping. Esclude che sulla Libia vi siano spazi di mediazione, e la prima a non volerla è la Nato. Bisogna evitare che la crisi faccia saltare l’unico organismo multilaterale del continente nero, ovvero l’Unione Africana. E dobbiamo prepararci al dopo Gheddafi, che sarà complicato per l’Italia, visto che probabilmente nell’area crescerà il peso della Francia, della Gran Bretagna e della Cina.
Anche La Repubblica intervista Prodi, che a Washington presiede la seconda conferenza internazionale “Africa: 53 countries, 1 union”. Parla della perdita di influenza dell’Italia in un’area strategica come il nordAfrica, “l’ondeggiare non ci aiuta”, “il governo italiano dovrebbe farsi promotore di una nuova visione europea, perché solo un approccio multilaterale ci può salvare”.
Due giorni fa si sono scontrati frontalmente l’Amministrazione Obama e il Congresso: la legge federale denominata “War Powers resolution” statuisce che il presidente Obama avrebbe dovuto ricevere l’autorizzazione del Congresso per l’intervento in Libia. La legge stabilisce i poteri del presidente in caso di interventi militari: deve essere il Congresso, informato dalla Casa Bianca entro 48 ore, a varare una risoluzione per ratificare un intervento militare. Senza uno suo via libera le forze armate non possono restare in territorio straniero per più di sessanta giorni e Obama, pur informando senatori e deputati con una serie di briefing, non ha mai chiesto l’autorizzazione formale, come previsto dalla Costituzione. A complicare le cose, è un compagno del partito di Obama, il deputato Dennis Kucinich, che assieme al collega repubblicano Jones ha presentato a un tribunale federale una denuncia formale contro di lui sottoscritta da un gruppo bipartisan di parlamentari per aver
ordinato l’intervento in Libia senza aver ricevuto l’autorizzazione del Congresso.
Un articolo anche sul Sole 24 Ore: “Guerra in Libia, denuncia bipartisan contro Obama”. “La Casa Bianca presenterà un rapporto sulla missione”.
E poi
La Repubblica ha un inviato a Pechino, per raccontare la rivolta in Cina nella regione del GuangDong, dove migliaia di lavoratori sono scesi in strada: salari bassi, corruzione, sfruttamento; chiedono più diritti, Pechino manda l’esercito. Simbolo di queste rivolte o sommosse di massa, le cui ragioni non sono esattamente politiche, è il villaggio di Xintang, epicentro mondiale delle industrie tessili (“La capitale dei blue jeans”). Se ne occupa anche Europa: “Anche la Cina torna in piazza”. L’inflazione e la corruzione rendono meno accettabili le disuguaglianze e le ingiustizie, in un Paese in cui la crescita economica ha anche visto accrescersi nuove disuguaglianze. E i fermenti coincidono con una delicata transizione generazionale all’interno del partito. Quale linea seguirà la prima generazione di dirigenti “senza grandi vecchi”, quali riforme politiche e sociali sposerà.
La Stampa intervista la nipote del Mahatma Gandhi, Tara (“Un arcolaio per tutti. Era il sogno di mio nonno Gandhi”. “Per lui il lavoro al telaio era uno strumento di parità tra i sessi”). A Ludina Barzini, che gli chiede se esistano nel mondo figure simili a Gandhi, risponde che “ogni tanto in India ne compare qualcuna”, come quella di Anna Hazare, attivista dei diritti umani ottantenne, che ha iniziato un digiuno contro la corruzione. “Ne ho sentito parlare, e allora ho deciso di incontrarlo. Ho trovato attorno a lui tantissima gente, ministri, capi dei partiti, governatori, industriali, persone ricche e povere. Hazare stava gettando le basi per una rivoluzione, perché tutti hanno cominciato a dire che era necessario promulgare una legge contro la corruzione. Il governo lo ha fatto. Tara si ribella all’abuso che si fa della figura di Gandhi nella pubblicità, a Bollywood eccetera.
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L’autostrada per le biciclette 16.06.2011
Nascerà in Germania la prima autostrada dedicata alle bici. Il governo ha già approvato il progetto.
L’autostrada, 60 km tra Dortmund e Duisburg, sarà larga 5 metri, non avrà incroci, né pendenze, né curve strette. Negli autogrill venderanno sostanze dopanti.
(Fonte: Ecquologia)
http://www.jacopofo.com/germania-prima-autostrada-delle-biciclette-dortmund-duisburg
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Nanocavi batterici per l’energia di domani 16.06.2011
Ricercatori britannici avrebbero individuato un elemento fondamentale per lo sfruttamento dei batteri come fonte energetica in un futuro non molto lontano. Anche la bonifica dei disastri ambientali potrebbe trarne vantaggio
Roma – I ricercatori della University of East Anglia nel Regno Unito hanno scoperto il sistema per mezzo del quale i batteri “scaricano” energia in eccesso sotto forma di corrente elettrica. Si tratta di un elemento fondamentale per lo sviluppo di fonti bio-energetiche e non solo, promettono.
Per evitare che l’eccesso di energia accumulata blocchi ogni attività cellulare, dice l’autore della ricerca Tom Clarke, i batteri si servono di peculiari “nanocavi” proteici che fuoriescono dalle pareti cellulari per scaricare tale energia nell’ambiente circostante.
Clarke dice che “dovremmo essere in grado di usare questa scoperta per raccogliere una maggiore quantità di elettricità dai batteri”, e che “finora è stato un po’ come provare a costruire una radio quando non sai che tipo o dimensione di batteria ci infilerai dentro”.
I nanocavi elettrici scoperti da Clarke dovrebbero servire per la creazione di batterie biologiche dotate di elettrodi specificatamente progettati per interfacciarsi con le microscopiche caratteristiche dei batteri, ma anche per ingegnerizzare i microbi in modo da servire scopi “altri” rispetto al fabbisogno energetico come la bonifica di chiazze di petrolio riversate in mare o persino la separazione di acqua e uranio radioattivo.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3174768/PI/News/nanocavi-batterici-energia-domani.aspx
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Bitcoin, imprevedibile come le monete vere 16.06.2011
Agli albori del crescita della crittovaluta il suo “primo” venerdì nero e il primo furto informatico. La sua natura di denaro dal basso la metterà al sicuro dalle speculazioni?
Roma – Bitcoin, la crittovaluta nata tra il 2008 e il 2009 basata sul principio Peer-to-Peer, sta subendo le variazioni e le speculazioni tipiche delle monete ufficiali. Non riuscendo a districarsi da determinate logiche pericolose. La sostituzione degli intermediari istituzionali (banche ecc) con strumenti p2p e la crittografia, insomma, permette di avere una serie di vantaggi, tra cui transazioni invisibili, non tracciabili, anonime, non tassate e una gestione decentralizzata, ma non una solida stabilità.
Dei rischi connessi alla crittovaluta si era iniziato a parlare sul social network di domande e risposte Quora: qui una delle risposte arriva a definirla una vera e propria truffa (anche se in realtà l’autore ha poi ritrattato l’utilizzo di una parola così forte) portata avanti ignorando completamente le secolari leggi dell’economia e destinata per questo a fallire miseramente, in quanto più vulnerabile rispetto alle monete ufficiali a previsioni, inflazione, problemi tecnici e congiunture negative.
Se questa risposta rappresenta solo la visione più “buia” sul futuro di Bitcoin, rappresenta idealmente l’apertura del dibattito online sulla crittovaluta, arrivata anche sulle pagine dei giornali generalisti italiani.
D’altronde, se da un lato rappresenta il sogno anarchico dei primi hacker, quella valuta Internet indipendente dal mondo e basata principalmente sulle competenze tecnologiche degli utenti dall’altro è uno strumento economico pensato da informatici digiuni della materia.
Ai lati del dibattito più strettamente tecnico, poi, si sono accumulati episodi peculiari e leggende che, nella migliore tradizione di Internet, stanno contribuendo ad accrescere la fama creatasi intorno a bitcoin: è nato un sito dedicato agli incidenti avuti durante “l’estrazione”, ovvero produzione digitale, di Bitcoin, che colora gli early adaptor dei colori seppia della corsa all’oro, e personaggi illustri in rete come il cofondatore di ThePirateBay, Rick Falkvinge, hanno dichiarato di aver messo tutti i propri risparmi in Bitcoin.
Ora, poi, da moneta di una stretta cerchia informatica sta raggiungendo una modesta diffusione, tanto che dovrebbero esserci 6.539.450 crittomonete in circolazione e una delle più grandi transazioni recenti ha visto passare di mano fino a 2 milioni di dollari, fino a superare un valore di scambio di 33,11 euro.
A questo estemporaneo successo, tuttavia, è seguita anche la prima improvvisa crisi già rinominata “il Venerdì Nero digitale”, che l’ha vista cadere in un giorno solo di più del trenta per cento, fino a farla arrivare a stazionare nei giorni successivi intorno ai 14 dollari.
Accanto a questi problemi economici, poi, sul forum dedicato alla crittovaluta trova spazio la testimonianza di almeno un caso che sembra essere di cracking e furto dei risparmi Bitcoin di un utente che si è visto scippato di circa 500mila dollari da un ladro che ha sfruttato la crittografia stessa della transazione per non lasciare traccia. Questione non del tutto chiarita, ancora.
Claudio Tamburrino
http://punto-informatico.it/3190681/PI/News/bitcoin-imprevedibile-come-monete-vere.aspx
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Pressione: nuova tecnica per misurarla 16.06.2011
Addio ai vecchi manicotti per misurare la pressione. Grazie a una tecnica messa a punto in Olanda sarà possibile usare gli ultrasuoni, con una procedura del tutto simile all’ecografia che permetterà di avere dati su tutti i vasi sanguigni più importanti.
Il metodo pubblicato dalla rivista Ultrasound in Medicine and Biology consiste nell’applicare il dispositivo alle varie parti del corpo, soprattutto nella zona della carotide, in modo da ottenere un’immagine nitida.
Un’elaborazione matematica risale dall’immagine al valore della pressione, che in determinati punti è indicativa dello stato di salute dei vasi sanguigni, oltre che della persona in generale come le misure ‘tradizionali’.
Il metodo è stato sperimentato sui maiali, e ora sono in corso test su alcuni volontari: “Con questo scan si possono trovare precocemente problemi vascolari – spiegano gli autori dell’Università di Eindhoven – e iniziare prima i trattamenti“.
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Milano, nasce il centro per le nanotecnologie 17.06.2011
Ricercatori già al lavoro su celle solari innovative e retina artificiale. L’obiettivo è diventare un punto di riferimento nazionale.
È nato ufficialmente ieri, quale parte dell’Istituto Italiano di Tecnologia al Politecnico di Milano, il nuovo Center for Nano Science and Technology.
Un nome inglese per una realtà italiana che vuole offrire opportunità a scienziati e ricercatori e ha già permesso il rientro di cinque “cervelli in fuga” che avevano abbandonato il nostro Paese per Harvard, Oxford, Cambridge, Chicago e Groningen.
Coordinato da Guglielmo Lanzani, il Centro avrà a regime uno staff di una cinquantina di ricercatori.
Le prime aree di ricerca su cui si concentrerà il lavoro andranno dalla creazione di celle fotovoltaiche più efficienti ed economiche di quelle attuali alla progettazione di una retina artificiale.
Per quanto riguarda il fotovoltaico, l’obiettivo è «produrre celle a base di polimeri con un’efficienza energetica attorno al 7% il cui costo di produzione sia pari a 20-30 centesimi a Watt» (contro i 2,5 euro per Watt delle moderne celle al silicio) come ha spiegato in un’intervista al Sole 24 Ore Roberto Cingolani, direttore dell’IIT.
Le celle solari basate sui polimeri saranno molto più versatili di quelle a base di silicio e potranno essere impiegate in nuovi luoghi, per esempio integrandole nelle facciate degli edifici o anche nelle finestre.
Per la retina artificiale gli studi sono ancora all’inizio, anche se i primi risultati ottenuti con l’impiego di materiali organici fotosensibili e neuroni di ratto si sono dimostrati promettenti.
Il CNST è dunque già in piena attività, in linea con il proprio obiettivo di fondo: «diventare un bastione posto alle frontiere della ricerca nel campo della nano-opto-elettronica per contribuire allo sviluppo dell’industria ad alta tecnologia».
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=15107
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Moody’s: “Possibile taglio rating Italia” tra le cause debole sviluppo e deficit 17.06.2011
Sotto revisione i titoli di stato italiani: lo fa sapere l’agenzia di rating statunitense con una nota. Sotto accusa il pesante debito pubblico, le difficoltà strutturali della nostra economia e la situazione dei paesi europei come la Grecia
WASHINGTON – L’agenzia statunitense Moody’s ha collocato il rating Aa2 dell’Italia sotto revisione in vista di un possibile downgrade. Lo fa sapere l’agenzia statunitense in una nota. Moody’s ha anche riaffermato il rating di breve termine al livello prime -1. Una nuova tegola sull’economia italiana dopo l’outlook negativo assegnato al rating italiano da Standard & Poor’s.
Meno di un mese fa, infatti, S&P aveva tagliato l’outlook citando le deboli prospettive di crescita e l’incerto impegno politico per attuare riforme che stimolino la produttività. E di sviluppo torna a parlare anche Moody’s, citandolo come primo fattore dietro alla messa sotto revisione del rating: sotto accusa i rischi per la crescita economica dovuti alla “debolezza macroeconomica strutturale e alla probabile risalita dei tassi d’interesse nel tempo”. Debolezza strutturale che per Moody’s ha a che fare con “bassa produttività e importanti rigidità nel mercato del lavoro e dei prodotti”. L’Italia ha recuperato finora “solo una frazione dei sette punti di prodotto interno lordo che ha perso durante la crisi globale”.
Al secondo punto tra i motivi della messa sotto revisione i rischi legati alla messa in pratica dei “piani di consolidamento fiscale richiesti per ridurre il debito pubblico e tenerlo a livelli gestibili”. Potrebbe rivelarsi difficile generare l’avanzo primario di bilancio necessario a dare inizio a “una solida tendenza al ribasso”, secondo Moody’s, che cita la recente bocciatura
delle proposte sull’acqua ai referendum come prova del fatto che il governo ha difficoltà a fare approvare politiche di riforma.
Terzo punto “i rischi legati alle mutate condizioni per gli emettitori sovrani europei fortemente indebitati”, con il mercato sempre più pronto a punire i paesi con “peso del debito più alto della media, come l’Italia”.
Nel caso dovesse arrivare un taglio, sarebbe il primo per l’Italia da parte di Moody’s da oltre quindici anni, visto che le ultime due azioni (nel 1996 e nel 2002) avevano portato ad un aumento del rating.
Ora l’attenzione del mercato si sposta a lunedì, per valutare la possibile reazione delle borse, che avevano registrato freddamente il taglio dell’outlook da parte di S&P. Occhi puntati soprattutto sulle aste dei titoli di Stato, con quelle di Bot e Ctz, a cui faranno seguito martedì quelle di Btp e Cct.
http://www.repubblica.it/economia/2011/06/17/news/moody_taglio_rating-17855310/
La situazione potrebbe farsi esplosiva
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