Quando si spensero le luci 14.09.2009
MARIO CALABRESI
«Due mesi prima che nascesse nostro figlio mia moglie mi convinse a lasciare il fondo speculativo per cui lavoravo da anni per trovarmi finalmente un posto sicuro. Per questo al compimento dei 36 anni sono arrivato a Lehman Brothers: non volevo più correre rischi». Il broker che un anno fa, la mattina di lunedì 15 settembre, mi raccontava la sua storia mentre teneva in braccio la scatola con i pochi oggetti che aveva portato via dalla scrivania, non poteva credere che il mondo gli fosse caduto in testa. Era attonito, parlava con un filo di voce, eppure non aveva idea del crac che avrebbe investito il mondo.
Il giorno dopo vennero disattivati i megaschermi a cristalli liquidi che coprivano il palazzo della banca d’affari, sull’angolo tra la Settima Avenue e la Cinquantesima Strada, e che fino a quel momento avevano trasmesso a ritmo continuo balene megattere che saltavano fuori dal mare, iceberg polari, prati d’Irlanda e montagne rocciose. Fu un gesto simbolico: in quel momento si spensero davvero le luci di Manhattan.
Si svuotarono i negozi di lusso, i ristoranti e i grandi magazzini, ma chi cercava conforto cominciò a riempire le chiese o i bar. Gli americani cominciarono a pensare che un nuovo modello di consumo fosse possibile e la parola risparmio tornò nel vocabolario. Il Natale fu all’insegna della frugalità, ma se i bambini americani finalmente furono meno viziati gli operai cinesi del distretto del giocattolo rimasero a casa a migliaia. La crisi era diventata mondiale, milioni di disoccupati e di fabbriche chiusero e dall’Asia all’Europa nessuno venne risparmiato.
Cominciarono i vertici internazionali globali, i G20, a cui trovarono posto anche Cina, India e Brasile. Prima Washington, poi Londra e dagli Stati Uniti al Giappone, passando per Pechino, vennero varati giganteschi piani di stimolo all’economia.
Ora le Borse hanno recuperato, si vedono segnali di stabilizzazione ma la perdita di posti di lavoro continua. La responsabilità maggiore per il grande crollo, un anno dopo, è ancora sulle spalle del ministro del Tesoro di George Bush, Henry Paulson. Fu sua la decisione di lasciar fallire Lehman Brothers, era sicuro che il sistema avrebbe retto, che era più importante concentrarsi sul salvataggio del colosso assicurativo Aig – con cui erano assicurati milioni di cittadini americani che stavano per essere chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente – e che fosse fondamentale dare un segnale forte a Wall Street: bisognava punirne uno per educare tutti gli altri a darsi una calmata e a mettere freno alle speculazioni. Paulson sbagliò drammaticamente i suoi conti e la crisi sistemica arrivò puntuale. In questi mesi non ha mai spiegato le sue ragioni, non ha raccontato i retroscena di quel drammatico fine settimana, né le responsabilità di George W. Bush. Lo abbiamo contattato questa settimana, in uno scambio di e-mail ci ha risposto che le sue ragioni le potremo conoscere solo all’inizio del prossimo anno: sta scrivendo un lungo libro con le sue verità.
Cinquanta isolati più a Nord del palazzo dove abitava Lehman Brothers, in una bellissima casa con vista sul fiume Hudson, abita l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, critico feroce di Paulson – uomo che veniva da Goldman Sachs, storica banca rivale di Lehman – e dell’attuale amministrazione Obama. Siamo andati a trovarlo e abbiamo raccolto il suo sfogo per un sistema che non si è ancora dato nuove regole per evitare un altro crac.
Dopo di lui abbiamo incontrato giornalisti e banchieri, industriali ed economisti, politici e sindacalisti, per capire se quella che appare alla fine del tunnel è davvero luce. Per capire come, nel crac globale, Cina, India e Brasile abbiano trovato il modo per continuare a crescere. Ma in un anno non è cambiato solo il nostro modo di consumare, come ci raccontano tra gli altri Vittorio Colao di Vodafone e Andrea Guerra di Luxottica, ma anche quello di immaginare il futuro. Perfino Hollywood ha cambiato la sua testa e ha cancellato la parola rischio dai suoi copioni, mentre il mercato dell’arte, dopo anni di eccessi e quotazioni record, ha visto dileguarsi i nuovi collezionisti russi e arabi.
Ora bisogna sperare in nuove regole, in un ritorno della fiducia e in politiche sagge di investimenti. Questa sera Barack Obama parlerà al suo Paese dalla Federal Hall di New York, annuncerà che il peggio è passato e chiederà al Congresso di varare nuove leggi per impedire che un nuovo crollo possa avvenire. Ma nulla è certo e allora abbiamo voluto tradurre in uno slogan scaramantico la foto di copertina del settimanale americano Time della scorsa settimana: incrociamo le dita.
Nel frattempo il mio broker è tornato a lavorare in quello stesso palazzo sulla Cinquantesima Strada e a fare colazione da Starbucks all’angolo: è stato assunto dalla Barclays, che ha rilevato il palazzo e una parte delle attività di Lehman. Un anno fa mi aveva detto che il fallimento era stato un atto catartico e che era giusto così, perché la furbizia non può vincere sempre. Oggi i soldi e i bonus però hanno ricominciato a girare vorticosamente intorno a lui.
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Quella rete che spaventa il premier 14.09.2009
RICCARDO BARENGHI
Il problema a questo punto è piuttosto chiaro: non è Ballarò, non è Vespa o Floris, non è un giornale «sovversivo» che fa domande, non sono le inchieste o le interviste o i commenti della stampa e della televisione che danno fastidio al nostro premier, e che lui spesso e volentieri taccia di calunnia. Il problema è molto più profondo: Berlusconi appare allergico a qualsiasi mezzo e messaggio di comunicazione che non sia allineato con la sua realtà. Che poi sarebbe il suo governo, la sua «politica del fare», le cose che sostiene lui presentandole come verità assolute. Il caso esploso ieri, ossia lo spostamento del programma di Giovanni Floris (non certo un programma estremista) per lasciare spazio a un’edizione speciale di Porta a Porta che documenti la consegna delle prime case ai terremotati d’Abruzzo, ovviamente da parte del premier, è solo l’ultimo di una serie infinita di pressioni, querele, avvertimenti che in queste ultime settimane si sono talmente moltiplicati da far sorgere in una parte dell’opinione pubblica il timore che in Italia sia a rischio addirittura la libertà di stampa. Fesserie, hanno risposto in coro tutti gli esponenti del governo e della maggioranza, in Italia non c’è alcun rischio per l’informazione.
Se così fosse, e noi saremmo felici di crederci, qualcuno ci dovrebbe spiegare perché il capo del governo decide di querelare Repubblica e l’Unità (una mossa che suona come un avvertimento anche per tutti gli altri. Perché i programmi non allineati non riescono a cominciare, chi non viene garantito nella tutela legale (Report di Milena Gabanelli), chi non ottiene la squadra di tecnici storicamente dedicata (AnnoZero di Michele Santoro), chi non sa che fine farà (Parla con me di Serena Dandini e Che tempo che fa di Fabio Fazio). E infine perché viene improvvisamente cancellata la prima puntata di Ballarò per lasciare spazio a una sorta di celebrazione agiografica del premier che ricorda i cinegiornali di un’epoca remota.
Attenzione, qui nessuno pensa (almeno non noi) che alle porte ci sia un nuovo fascismo, tuttavia la sensazione che l’informazione sia sotto pressione è netta. Una sensazione, anzi ormai un’evidenza, che preoccupa eccome. Tanto più quando è ormai chiaro che la maggioranza politica che ha stravinto le elezioni non è più una falange macedone, unita e coesa, forte e determinata, che quindi non ha nulla da temere. L’impressione invece è che ci troviamo di fronte un governo forte sulla carta ma con una coalizione che va avanti in uno stato di permanente fibrillazione. Con un premier sempre più nervoso e preoccupato, che non tollera critiche e distinguo. E allora viene quasi da rimpiangere quel Berlusconi sicuro di sé, che non aveva paura di niente: tantomeno di qualche programma televisivo.
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Hubble torna a stupire 11.09.2009
Ecco le prime immagini inviate dal telescopio spaziale dopo l’upgrade della strumentazione effettuato lo scorso maggio
http://www.flickr.com/photos/34146259@N04/sets/72157622213190991/show/
Il caro vecchio Hubble è di nuovo in gran forma. Lo dimostrano le prime immagini inviate dal telescopio spaziale dopo l’aggiornamento delle apparecchiature di ripresa, diffuse ieri dalla Agenzia spaziale statunitense.
Il telescopio spaziale è stato rimesso a nuovo da una missione Nasa che ha visto all’opera sette astronauti lo scorso maggio (vedi Galileo). Nel corso di cinque passeggiate spaziali l’equipe ha istallato la nuova telecamera Wide Field Camera 3 (WFC3) e il nuovo spettrografo Cosmic Origins Spectrograph (COS), le batterie e un giroscopio (necessario a mantenere le direzioni di osservazioni), oltre ad aver riparato alcuni strumenti un po’ su con l’età: l’Advanced Camera for Surveys e lo Space Telescope Imaging Spectrograph (STIS).
Il nuovo Hubble è in grado di riprendere l’Universo in una fascia dello spettro luminoso decisamente ampia, dai raggi ultravioletti al vicino infrarosso, attraverso miliardi di anni luce. Tra i compiti che lo aspettano c’è lo studio dell’atmosfera di pianeti alieni e dell’Universo giovane, quello di 500-700 milioni di anni dopo il Big bang. Aspettando gli esiti delle sue future fatiche, ecco i primi scatti della sonda dopo il restyling – catturati in lunghezze d’onda multiple – di galassie estese dalla forma di dragoni e farfalle, o di gruppi di stelle strettamente impacchettate. (t.m.)
http://www.galileonet.it/multimedia/11831/hubble-torna-a-stupire
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contratti di disponibilità, Gelmini, tagli di Fiorella Farinelli
Scuola statale, supplente regionale 14.09.2009
Con la norma “salvaprecari” i supplenti licenziati vengono messi, di fatto, a carico delle Regioni. Che dovranno scegliere se destinare parte del Fondo Sociale Europeo per ammortizzare i tagli della politica scolastica. Uno scempio istituzionale, alla faccia dei proclami sul federalismo, che non tutela chi ha perso il lavoro ma impedisce il buon uso dei fondi europei
Un pasticcio davvero immangiabile la norma cosidetta “salva precari” introdotta qualche giorno fa in tutta fretta nel decreto Ronchi dal ministro Gelmini. Immangiabile prima di tutto per i 18.000 insegnanti e i 7.000 tra tecnici,ausiliari,amministrativi che nel 2008-2009 hanno lavorato tutto l’anno e che oggi si ritrovano senza lavoro a causa dei tagli operati dal governo (42.500 solo per gli insegnanti, ed è solo la prima tranche dei 130.000 previsti per il 2011-2012 ).
Ma l’intervento si configura anche come una clamorosa forzatura sulle Regioni, anzi un vero e proprio ricatto considerata l’ormai prossima scadenza delle elezioni amministrative: non meno grave, nel suo profilo istituzionale, per il fatto che alcune tra le più allineate (a partire dalla Lombardia) hanno già ingoiato il rospo e che altre si apprestano a farlo.
Ma come si salverebbero, secondo Gelmini, i 15-16.000 insegnanti precari di lungo corso di cui si parla nelle stanze di viale Trastevere? La soluzione sarebbe in contratti definiti “di disponibilità” che implicano l’accettazione di ogni possibile supplenza breve – indipendentemente, sembra, dalla distanza dal luogo di residenza – pena la decadenza dal godimento di un’indennità di disoccupazione costituita da un contributo Inps e – questa è la novità – da un’integrazione eventualmente erogata, appunto, dalle Regioni: a carico, ovviamente, del solito Fondo Sociale Europeo che sta diventando la bisaccia a cui attingere per gli obiettivi più diversi. In sintesi, una bufala dal punto di vista di chi ha perso il lavoro: perché l’indennità di disoccupazione Inps (860 euro per 8 mesi, che salgono a 12 per gli over 50 ) è un dispositivo già previsto e perché i precari che l’anno scorso hanno lavorato tutto l’anno sono già in pole position nelle graduatorie di istituto da cui pescano i presidi per le supplenze brevi. E per di più una bufala peggiorativa perché i punteggi che tradizionalmente derivano dalle supplenze non dovrebbero più avrebbero valore – e questa è l’altra novità – ai fini della collocazione nelle graduatorie esistenti o di nuovo conio per la stabilizzazione in ruolo di quelli che ne hanno titolo. Un provvedimento, dunque, di ulteriore precarizzazione – di definitiva epurazione ? – di chi, secondo la finanziaria 2007, avrebbe già dovuto ottenere l’incarico a tempo indeterminato .
Non è assolutamente scontato, d’altra parte, che tutte le Regioni vogliano/possano attingere da un Fondo Sociale Europeo già pesantemente defalcato di oltre 2 milioni di Euro, in base all’accordo Stato-Regioni del febbraio scorso, per integrare il sostegno al reddito dei lavoratori in cassa integrazione con incentivi per la partecipazione a corsi di sviluppo e riconversione professionale. E’ probabile che potrebbero farlo di più le Regioni del Mezzogiorno, che ricevono una quota maggiore delle risorse comunitarie e assai meno invece quelle del Centro-Nord, e che la cosa risulti comunque tecnicamente impraticabile per quelle più efficienti che hanno già impegnato i fondi a vantaggio del sistema scolastico. Una regione come il Piemonte, per esempio, che ha già destinato 40 milioni di euro alle scuole del suo territorio dovrebbe, a questo punto, revocare i bandi, sospendere i programmi, interrompere i progetti già avviati? Il rischio concreto è che il finanziamento dei contratti di disponibilità per le supplenze tolga fondi ad altri impieghi del Fse: gli interventi di contrasto della dispersione scolastica, di potenziamento dell’insegnamento della lingua italiana per gli allievi stranieri, di sostegno economico a istituti scolastici ridotti dalle politiche del governo a non disporre più neppure del necessario per le fotocopie o per i materiali di laboratorio.
E’ evidente, inoltre, che una soluzione di questo tipo porterebbe a trattamenti dei “disponibili” fortemente differenziati sul piano territoriale: un personale statale, impiegato in funzioni necessarie alla scuola statale, può essere retribuito in modo diversificato secondo che operi in Lombardia o in Campania? Sono questi i primi frutti del federalismo nel campo dell’istruzione? E’ così che ci si avvia a quella gestione regionale del personale scolastico a cui anni fa ha dato un via – tutto teorico – la solenne pronuncia della Corte Costituzionale ? Non è un caso che da diverse Regioni venga, in questi giorni, la richiesta di un tavolo nazionale per una definizione dell’intera materia. Anche per quelle più disponibili, o comunque più interessate a non disturbare il manovratore, infatti, deve risultare evidente il rischio di trovarsi sul collo anche per gli anni a venire – perché come è noto i tagli non finiscono qui – un numero imprecisato di insegnanti, e forse anche di altri tipi di personale scolastico, da supportare economicamente e da utilizzare in qualche modo.
Non vi è dubbio che, se non fossimo ormai diventati un paese in cui diritto e buon senso vengono quotidianamente calpestati, una norma come quella inserita nel decreto Ronchi porterebbe inevitabilmente a terremoti politici e istituzionali. Ma ci stiamo abituando a tutto, e perfino il mondo sindacale di fronte a questo mix inaudito di improvvisazione politica, cinismo sociale, prevaricazione istituzionale è riuscito nella splendida impresa della consueta divisione tra le diverse sigle. Gelmini, intanto, va avanti per la sua strada. E in un’intervista al Corriere della Sera nel giorno della riapertura delle scuola si produce nell’ennesimo attacco ai dirigenti scolastici e agli insegnanti che non condividono le sue decisioni. Un altro oltraggio alle regole democratiche – e anche a molto di altro- quando si confonde l’autonomia organizzativa e didattica degli istituti scolastici sancita dal testo costituzionale, con la sovversione politica.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Scuola-statale-supplente-regionale
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Da Laura Sponti per http://www.globalproject.info/
08.09.2009
Argentina: indigeni reclamano l’inclusione nella legge sui mezzi di comunicazione audiovisuali
Il controllo del territorio ideologico dell' opinione pubblica Argentina e' senza dubbio la discussione di fondo che sta alla base delle dure lotte che si stanno affrontando per modificare una legge dittatoriale della radiodiffusione che racchiude dentro di se potenti e pericolosi interessi.
Le grandi corporazioni non sono disposte a lasciare quel potere che per decenni hanno utilizzato per manipolare il contesto affinchè ne beneficiassero i loro interessi economici e politici. Questo stesso monopolio informativio e’ quello che presenta la realtà dei popoli originari e la loro stessa esistenza come “problematica indigenta” o conflitto indigeno”affermando quindi che la sola esistenza dei popoli originari sia un problema. Oggi, le popolazioni preesistenti del paese stanno generando un processo storico perchè abbandonano l’idea di vedere i mezzi di comunicazione come strumenti di “altri” ma al contrario come strumenti per esercitare il loro diritto alla comunicazione con “identità” e accedere cosi alle nuove tecnologie. I media gestiti dai popoli originari non pretendono di lucrare sulla loro identità ne di ossequiare il governo di turno. L’obiettivo non e’ solo informare sulla propria realta’, ma sentono anche la responsabilitaà di promuovere e difondere la loro cultura,come un popolo vivo che ha una storia che deve essere raccontata
Quando i Media Indigeni staranno sullo stesso piano di uguaglianza nello spettro radioelettrico ,con i privati,lo stato e le organizzazioni comunitarie allora si potrà parlare di democrazia nel settore della comunicazione argentino,perche’ ci saraà la vocedella terra che informerà.
Con l’esigenza dell’ inclusione del “Diritto alla comunicazione con identità”, di questa legge, e’ evidente che i popoli originari attraverso i loro strumenti di comunicazione audiovisuale rompano il mantello di invisibilizzazione che li ha messi a tacere dalla stessa crazione dello stato argentino.
Durante le udienze che si terranno la prossima settimana e’ prevista una presentazione di più di 25 popolazioni originarie che avverrà in ciascuna delle lingue parlate, fino ad oggi si calola che siano 16 quelle ufficiali.
COMUNIDADES ABORIGENES DE SANTA FE –OCASTAFE; CONSEJO DE
CACIQUES DE LA NACIÓN MBYA-GUARANÍ; ASAMBLEA PUEBLO GUARANÍ- APG;
FEDERACIÓN DEL PUEBLO PILAGA; PUEBLO KOLLA DE LA PUNA DPTO. YAVI;
INTER-TOBA; CONSEJO DE LA NACIÓN TONOKOTE LLUTQUI; KEREIMBA IYAMBAE;
UNIÓN DE LOS PUEBLOS DE LA NACIÓN DIAGUITA – UPND; CONFEDERACIÓN MAPUCE
DE NEUQUÉN; ONPIA; COORDINADORA DEL PARLAMENTO MAPUCHE RIO NEGRO; MESA
DE ORGANIZACIÓN DE PUEBLOS ORIGINARIOS DE ALTE. BROWN; ORG. MALAL
PINCHEIRA DE MENDOZA; COMUNIDAD HUARPE GUENTOTA; ORGANIZACIÓN
TERRITORIAL MAPUCHE-TEHUELCHE DE PUEBLOS ORIGINARIOS SANTA CRUZ;
ORGANIZACIÓN RANQUEL MAPUCHE DE LA PAMPA; QULLAMARKA; ORGANIZACIÓN 12
DE OCTUBRE YOFIS WICHI; CONSEJO DE CACIQUES WICHI DE LA RUTA 86;
COORDINADORA AUDIOVISUAL INDIGENA ARGENTINA; CONSEJO MOQOIT DEL CHACO;
ORGANIZACIÓN INDIGENA NAPALPI
Tratto da: http://www.servindi.org/actualidad/16209
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Chi ha paura di Alitalia?
Felice Saulino*, 14.09.2009
La verità è che il giocattolo di Cai è sull’orlo del baratro: manager arroganti e senza esperienza di settore, mezzi inadeguati, mancanza d’organizzazione e di coordinamento. Dopo un’estate da incubo, i media sono tornati ad occultare il flop di Cai e della “cordata patriottica” voluta da Berlusconi dopo aver scaricato sui contribuenti qualcosa come 3,2 miliardi di euro
Le attese e le proteste per le valigie che non arrivano mai, per gli aerei che partono e atterrano in ritardo e per disservizi d’ogni tipo ci sono ancora. Certo, non toccano più i livelli dell’estate, però il traffico non è nemmeno più quello dei picchi di agosto.
Quello che nel cuore delle vacanze estive trapelava dalle scarne cronache dei quotidiani era comunque niente rispetto alla situazione reale. Ma un’informazione ormai largamente militarizzata, generalmente vicina agli interessi di Governo o controllata dagli stessi azionisti della berlusconiana “cordata patriottica”, non poteva occuparsi del disastro Cai. Anzi. Doveva cercare di nasconderlo.
Non era facile. L’ex compagnia di bandiera ce la metteva tutta per far parlare di sé. Come martedì 25 agosto, quando aveva realizzato un autentico record, con tutti i voli in partenza da Roma per Milano in ritardo.
Soltanto l’amministratore delegato Rocco Sabelli adesso ha il coraggio di sostenere che sta andando tutto bene, che i conti del terzo trimestre chiuderanno in pareggio e che questo consentirà alla compagnia di non incrementare il deficit (ufficiale) accumulato nel primo semestre: 273 milioni di euro. Ma Sabelli cerca solo di salvare la faccia e la poltrona.
Probabilmente il Napoleone d’Agnone ce la farà anche questa volta e resterà al suo posto. Almeno fino alla fine dell’anno. Comunque fino a quando Berlusconi continuerà ad assicurare la sua copertura politica a Cai e al vertice Alitalia.
Eppure, a fine agosto Sabelli, in assenza di qualsiasi iniziativa dell’opposizione, viene investito da fuoco amico. Su qualche giornale cominciano a uscire le cifre di agosto sui voli Alitalia ed Air One. Un disastro. Secondo la relazione messa a punto dall’Enac, il tasso di puntualità in partenza sarebbe precipitato al 46,5 per cento. Insomma, tre voli su cinque in ritardo. Quanto ai bagagli, “i tempi più alti di riconsegna si riscontrano a carico di Alitalia ed Eas (i due handler di Cai ndr). Le procedure organizzative e la supervisione sono risultate carenti…” Il presidente dell’Enac Vito Riggio era arrivano a minacciare di esercitare i suoi poteri revocando la licenza agli handler responsabili del caos bagagli.
Berlusconi va su tutte le furie. Riggio va fermato. E subito. Con tutti i macigni che gli sono caduti addosso negli ultimi mesi, il Premier non può permettersi anche il danno d’immagine (e non solo) che subirebbe dal disastro aereo di Cai e dal fallimento della “cordata patriottica”.
La pratica viene affidata ad Altero Matteoli, ministro dei Trasporti, uno degli ex colonnelli di An che hanno abbandonato Fini per schierarsi senza esitazioni con il presidente del Consiglio. Detto, fatto. Matteoli convoca Enac, Adr e Alitalia “per affrontare la vicenda dei disservizi”. L’appuntamento è per il 3 settembre.
Ma il messaggio è stato già consegnato: Alitalia non si tocca. Berlusconi e il governo continuano a coprire Cai.
Riggio è costretto a fare marcia indietro. Il 2 settembre l’ufficio stampa dell’Enac manda in rete un imbarazzante comunicato: “Con riferimento ai numerosi dati pubblicati negli ultimi giorni dagli organi di stampa”… l’Enac “precisa” che “a volte sono attendibili, ma per la maggior parte non rispondenti al vero”.
La strigliata di Matteoli deve essere stata particolarmente energica. Riggio è finito a cuccia. L’Enac è costretto ad assicurare pubblicamente che “le informazioni elaborate sono contenute esclusivamente nel rapporto che le nostre strutture hanno predisposto per il ministro Matteoli e non sono state anticipate né direttamente né indirettamente ad altri soggetti…”.
Si arriva così al vertice del 3 settembre. Matteoli fa sua la smentita che aveva imposto a Riggio: “La relazione dell’Enac è sostanzialmente distante rispetto alle notizie che sono trapelate su alcuni organi d’informazione… Comunque oggi è stato appurato che non esistono i presupposti per provvedimenti di revoca delle licenze”. Fine.
Di revoca delle licenze non si deve parlare mai più. Alitalia continua a godere della piena copertura politica di Berlusconi e del governo. Adesso, recita ecumenico il Ministro, le parti si metteranno attorno a un tavolo per “lavorare insieme” e “superare i disservizi…”
Più realista del suo re, Matteoli arriva a mettere nero su bianco un autentico falso: “I tempi di riconsegna dei bagagli presso lo scalo di Fiumicino sono stati migliori rispetto ai mesi di luglio e agosto del 2008”.
Nessuno gli contesta un’affermazione così avventata e smentita da tutti i dati disponibili, nessuno gli chiede di fornire i suoi numeri, nessuno dice niente. E nessun giornale gli fa le pulci.
E adesso? La decisione sul futuro di Sabelli è nelle mani del consiglio di amministrazione Cai convocato per il 16 settembre.
Fra i “patrioti” il nervosismo è ormai evidente. L’immagine di Alitalia non è ancora completamente sfigurata solo grazie al complice silenzio dei media. La gestione Colaninno-Sabelli si sta rivelando disastrosa. I conti vanno male e le prospettive sono pessime. Al punto che Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, a otto mesi dall’annuncio dell’uscita da Cai non è ancora riuscita a vendere la sua quota. E così tornano a circolare voci su un esonero o su un ridimensionamento dell’amministratore delegato Sabelli, mentre Air France sta a guardare.
Intanto per chi non può fare a meno di volare “made in Italy”, lo spettro di un inverno difficile rappresenta già una certezza. I sindacati annunciano scioperi e la compagnia ha già fatto capire che da ottobre ridimensionerà i collegamenti.
La verità è che il giocattolo di Cai è sull’orlo del baratro: manager arroganti e senza esperienza di settore, mezzi inadeguati, mancanza d’organizzazione e di coordinamento.
La storia della nuova Alitalia è comunque la storia di un disastro annunciato. Un disastro occultato per almeno sei mesi dall’ottimismo dei vertici, dalla complicità del governo, dall’assenza di qualsiasi dato ufficiale e dal silenzio dei media.
Ma il crac dei “patrioti” è anche lo specchio d’un fallimento più grande: le privatizzazioni di tante aziende pubbliche italiane. Fatte in nome delle superiori virtù del “libero mercato”, grazie all’incapacità e alla complicità della politica, troppe cessioni (dai telefoni alle autostrade) si sono risolte in un saccheggio. Il tutto approfittando di Tangentopoli, della decapitazione di un’intera classe dirigente, della fine dei partiti della Prima Repubblica.
E Cai? Le foto degli azionisti “patrioti” sembrano prelevate da un album di famiglia. Dentro ci sono quasi tutti i big del capitalismo finanziario e tariffario emerso in dieci anni di privatizzazioni “made in Italy”. A cominciare dal presidente Roberto Colaninno, l’indimenticabile “capitano coraggioso” dalemiano della scalata Telecom…
*Tutto il “Dossier Alitalia: Cronaca d’un disastro annunciato” è visibile online sul sito www.felicesaulino.it
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=12868
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Un saluto ad un uomo gentile
Jan van der Tas è morto il 10 settembre all’età di 81 anni. Jan era stato ambasciatore per l’Olanda; dopo il suo pensionamento, si era impegnato nel movimento di riforma della politica delle droghe, diventando così “ambasciatore” dell’approccio tollerante olandese. Jan è stato un collaboratore di Fuoriluogo e più volte ci ha sollecitato a creare una versione internazionale in inglese del giornale e del sito, per uscire dal circuito locale italiano. Durante la carriera diplomatica, aveva contributo alla costruzione dell’Unione Europea: ci credeva molto, nonostante la sua insoddisfazione per come l’istituzione europea si era venuta sviluppando.
Per ricordarlo, riproponiamo una sua intervista del 2006: Jan sostiene il ruolo guida dell’Europa delle politiche “miti” per sconfiggere la war on drugs.
Jan van der Tas era un politico colto e acuto e un uomo gentile. Lo salutiamo con riconoscenza ed affetto.
Una partita aperta
L’ONU, l’Europa e le politiche globali. Parla Jan G. Van Der Tas
Da Fuoriluogo, di Grazia Zuffa – 28 aprile 2006
Antonio Costa è appena stato riconfermato alla guida dell’Unodc, l’agenzia Onu per le droghe. Tra i suoi compiti vi sarà quello di organizzare la prossima sessione speciale dell’Onu sulle droghe prevista nel 2008, quando andrà in scadenza il piano decennale lanciato da Pino Arlacchi a New York con lo slogan “un mondo libero dalla droga entro il 2008: possiamo farcela”. Ne parliamo con Jan G. Van Der Tas, dell’organizzazione olandese Netherlands Drug Policy Foundation ed ex diplomatico.
A tuo parere, qual è la ragione della riconferma di Costa? Si tratta semplicemente di manovre politiche all’interno della burocrazia Onu, oppure Costa è stato premiato per il suo approccio “duro”, e perché rappresenta una garanzia che alla sessione speciale dell’Onu nel 2008 non vi sia alcun dibattito vero né alcun cambiamento?
Negli ultimi mesi erano circolate voci secondo cui gli americani ne avevano abbastanza di Antonio Costa e si sarebbero opposti alla sua riconferma. Ora sembra che si sia trattato di disinformazione, o quantomeno di un tentativo di intimidirlo per farlo allineare ancora più rigidamente all’approccio “proibizionista” americano. Non sarebbe la prima volta, come dimostra tutta la discussione sulla “riduzione del danno” di un anno fa, quando Costa ritenne opportuno confermare la sua lealtà a Washington in una lettera al Dipartimento di Stato. Naturalmente, tutto ciò minaccia di portare a un ulteriore blocco di qualunque dibattito ragionevole sulle droghe, a livello di Nazioni unite. Fortunatamente questo dibattito si svolge ugualmente in molte parti del mondo, ed anche in Europa. Possiamo solo sperare che nel corso del suo secondo mandato Antonio Costa, un europeo, possa essere spinto a fermare la deriva verso l’irrilevanza dell’agenzia di cui è alla guida e dei trattati Onu su cui essa si basa. È troppo sperare che il suo senso di integrità intellettuale o forse, semplicemente, il suo senso dell’onore, possano fargli scorgere la luce prima che sia troppo tardi?
Torniamo al 2003, quando a Vienna si svolse la cosiddetta “valutazione di medio termine” del piano decennale per eliminare le coltivazioni di droghe illegali, varato all’assemblea generale dell’Onu del 1998, a New York. All’epoca, il movimento di riforma delle politiche sulle droghe sperava in una valutazione seria del piano, che avrebbe portato a riconoscere il fallimento dell’approccio dell’Onu. Inoltre, i riformatori si aspettavano che quasi tutti i paesi europei chiedessero un cambiamento delle politiche sulle droghe a livello globale, rivendicando l’efficacia delle politiche “miti” adottate in Europa. Invece è accaduto il contrario: l’approccio morbido (in particolare sulla canapa) è stato fortemente attaccato da Costa, con l’appoggio degli Usa. I paesi europei si sono limitati a stare sulla difensiva, invece di spargere i semi della riforma. In vista dell’appuntamento del 2008, pensi che questo evento possa essere una reale opportunità di cambiamento (anche piccolo) nelle politiche globali?
L’obiettivo dichiarato dei nostri amici americani è impedire che nel 2008 (o 2009) abbia luogo una vera valutazione del piano decennale lanciato nel 1998. Ricordiamo che anche nel 1998 gli Usa riuscirono a bloccare il piano messicano di fare dell’assemblea generale sulle droghe di New York (Ungass) un momento di valutazione delle politiche Onu. All’ultimo meeting della Commissione sulle droghe narcotiche (Cnd), che si è tenuto a Vienna lo scorso marzo, l’Unione Europea ha proposto una risoluzione sulla valutazione per il 2008, che è stata adottata solo in una forma adulterata: infatti il termine stesso, “valutazione” (evaluation), era inaccettabile per gli Usa (e i loro pochi alleati in questo campo). Il termine “valutazione” implicava che potesse esservi qualcosa di sbagliato nelle attuali politiche e nei trattati Onu, e questo naturalmente era un punto di partenza inaccettabile! Quando si dice l’integrità intellettuale!
E tuttavia è di grande importanza che un drappello di funzionari europei (il cosiddetto “gruppo orizzontale sulle droghe”) abbia presentato una proposta simile, sostenuta anche dalla Commissione europea. Ciò che ancora manca è la volontà dei nostri politici di pronunciarsi più chiaramente sulla inefficacia e sulla improprietà morale delle politiche proibizioniste dei nostri amici americani. I cittadini e i riformatori dovrebbero fare più pressione sui politici locali e nazionali perché questi mettano apertamente in agenda la modifica della politica sulle droghe.
Al di là dei timidi tentativi che tu citi, l’Europa può davvero giocare
un ruolo sulla scena mondiale? Oppure l’unico obiettivo realistico per i paesi europei sarebbe il “rimpatrio” delle politiche sulle droghe, come ha scritto Cindy Fazey su Fuoriluogo nell’aprile 2003? Di più: possiamo ancora affermare che l’Europa è la roccaforte dell’approccio “morbido” sulle droghe?
Sì, penso che l’Europa abbia un ruolo importante da giocare da qui al 2008. I nostri amici francesi lo definirebbero “le rayonnement de la culture europeenne” (l’ascendente della cultura europea). Tuttavia, dobbiamo sapere che anche in Europa troppe forze proibizioniste sono ancora al lavoro. Perciò è rischioso puntare direttamente a una politica comune di tutta l’Unione Europea, perché potrebbe risolversi al momento solo in una forma un po’ più attenuata di proibizione, con tutti i difetti fondamentali che questa implica. Nell’Ue, c’è anche la questione basilare del principio di “sussidiarietà”. Le politiche sulle droghe debbono davvero essere uguali a Napoli e a Maastricht, e debbono essere decise a Bruxelles? Penso che l’idea di Cindy Fazey di un “rimpatrio” delle politiche sulle droghe sia valida; non dobbiamo ripetere l’errore dei trattati Onu, di una “misura che va bene per tutti”, anche a livello dell’Unione europea.
Nonostante tutto, i fautori della riforma non possono ignorare l’appuntamento Onu del 2008. Quali possono essere gli obiettivi più opportuni? Ad esempio: è realistico (e utile) chiedere la revisione delle convenzioni Onu? Oppure i trattati internazionali sono destinati a diventare sempre più irrilevanti, via via che le politiche sulle droghe cambiano nei fatti? Prendendo a prestito una espressione di Alex Wodak: le convenzioni Onu sono solo delle “tigri di carta”, e i riformatori non dovrebbero spenderci più di tanto?
Fortunatamente i fautori della riforma sono molti, e lavorano a vari livelli. Alcuni di noi preferiscono lavorare dal basso, altri hanno accesso diretto ai politici e ai media. Altri ancora possono cercare di far crescere la consapevolezza negli ambienti accademici o nel mondo degli operatori delle tossicodipendenze, dove molto spesso la falsa modestia, l’elitarismo (o gli interessi acquisiti) e l’apatia portano alla non partecipazione al dibattito più ampio sulla politica delle droghe. Possiamo scegliere i nostri obiettivi di conseguenza, ma non dobbiamo escludere nessuno di questi approcci. I trattati Onu sulle droghe costituiscono un ostacolo formidabile nel dibattito sulla riforma della politica sulle droghe. Perciò vanno attaccati. D’altra parte, di solito Alex Wodak ha ragione e dunque i trattati Onu potrebbero rivelarsi effettivamente delle tigri di carta. La cosa essenziale è fare in modo che queste questioni entrino a far parte del dibattito pubblico. Non per nulla, i proibizionisti cercano di impedire o sopprimere la discussione! Alcuni potrebbero scegliere, in un primo tempo, di concentrare il dibattito sulla cannabis. Se guardiamo al fanatismo con cui i nostri amici americani (e l’agenzia antidroga dell’Onu) tendono ad attaccare, ad esempio, l’approccio dei coffeeshops in Olanda, è evidente che lo considerano il punto più debole della loro armatura.
D’altra parte, gli argomenti a favore del fatto che i governi si assumano le loro responsabilità regolando i mercati delle droghe, invece di lasciarli in mano alla criminalità… questi argomenti sono certamente convincenti sia per le droghe obiettivamente più pericolose (le cosiddette droghe pesanti), sia per la cara vecchia marijuana. Perciò c’è un sacco di lavoro da fare, e serve tanto coraggio. Non da ultimo, anche in Italia!
http://www.fuoriluogo.it/blog/2009/09/15/un-saluto/
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Fast Flip, Google volta pagina
Il nuovo servizio di BigG permetterà una lettura delle news online più vicina a quella offline. Mountain View pare suggerire che sfogliando si impara. Come risollevare le sorti degli editori
Roma – “Non penso che Google sia parte del problema, ma al contrario parte della soluzione”. Questa sibillina dichiarazione è stata recentemente rilasciata da Marissa Mayer, vice-presidente a Mountain View, che ha parlato di una nuova maniera di leggere i contenuti sul web, ultimo risultato di una serie di ricerche dei Google Labs per spingere la fruizione di news online. Il servizio si chiama Fast Flip ed è stato sviluppato per offrire ai lettori una diversa esperienza di navigazione tra le pagine, più vicina a quella reale a base di carta stampata consultata con il primo caffè.
“Fast Flip – ha annunciato un post sul blog ufficiale di Google – è una nuova esperienza di lettura che combina i migliori elementi della carta stampata e degli articoli online. Come una rivista stampata, Fast Flip permette una navigazione sequenziale attraverso una serie di notizie e feed provenienti da singoli editori”. Sfogliare, in altre parole, un vero e proprio giornale online finché l’attenzione non vada a cadere su un argomento di particolare gradimento.
“Abbiamo cercato – ha continuato Mayer presso la TechCrunch 50, conferenza dedicata alle start-up – di sviluppare piattaforme e strumenti per costruire un ecosistema online ricco e in buona salute, che fosse d’aiuto ai contenuti”. Il riferimento è apparso chiaro, verso quegli editori che avevano più volte accusato BigG e altri aggregatori di news come Yahoo di comportarsi come parassiti, vampiri succhia-soldi attaccati al collo di chi scrive e pubblica articoli. Da questo punto di vista, Google ha ribadito una disponibilità all’accordo, per essere effettivamente “parte della soluzione”.
Fast Flip, infatti, permetterà l’inserimento di pubblicità tra le pagine, condividendo il ricavato con gli editori che decideranno di entrare nel servizio come fornitori. “Siamo elettrizzati – ha detto Mayer – all’idea di unirci con tutti quegli editori che guarderanno a questa nuova possibilità di consumo e conseguente monetizzazione di news online”. Il vice-presidente Google ha spiegato di non avere la bacchetta magica per risolvere velocemente i problemi che affliggono l’industria delle news, a parte suggerire un trend che Fast Flip spera di spingere verso l’alto: più tempo dedicato alla lettura su web significa più pagine visitate, quindi più contatti da vendere agli inserzionisti.
Per il primo periodo, il servizio offerto da Fast Flip sarà disponibile soltanto per la versione statunitense di Google News, con alcuni colossi dell’informazione ad aver già aderito, tra cui The New York Times, Washington Post e Cosmopolitan. Unica presenza europea, BBC, grazie alla grande popolarità di cui gode sul territorio a stelle e strisce.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2708725/PI/News/fast-flip-google-volta-pagina.aspx
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Le nuove prospettive del caso Carlo Giuliani
Ezio Menzione
Fonte: Il Manifesto, 4 settembre 2009
04.09.2009
La lunghissima sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo pronunciata a seguito del ricorso di Haidi e Giuliano Giuliani contro il governo italiano per la morte del figlio Carlo quel fatale 20 luglio 2001 durante il G8 genovese merita qualche considerazione più approfondita. Non ci se la può cavare con il giudizio “politico” per cui un altro giudice ha inteso mettere una pietra sopra quell’omicidio. Si potrebbe concludere che a Strasburgo non c’è un giudice e la Cedu si è mossa nella stessa linea del giudice genovese che archiviò invocando per Placanica la legittima difesa e l’uso legittimo delle armi solo se si parte dal presupposto che i genitori di Carlo ed il loro tenace difensore avessero messo al primo posto delle loro richieste il riconoscimento della colpa di Placanica. Il che non è e, del resto, non avrebbe potuto essere. La Cedu non è mai chiamata a decidere sulla colpevolezza di un soggetto, ma se in questo o quel caso il processo si è svolto con tutte le dovute garanzie e se l’indagine che precede il processo è stata carente o lacunosa. Il ricorso Giuliani proprio questo lamentava: che l’indagine sull’omicidio di Carlo era stata svolta male, affrettatamente e con troppi punti oscuri. Sarebbe occorso, invece, un pubblico dibattimento. Proprio su questo punto la complessa sentenza da ragione ai Giuliani.
Fin dall’inizio dell’indagine (mancato tempestivo avviso ai congiunti dell’autopsia da effettuarsi e quindi impossibilità per loro di nominare periti; nulla osta alla cremazione della salma di Carlo a meno di 72 ore dall’evento), e poi nei risultati sommari e tutt’altro che convincenti degli accertamenti tecnici; continuando nella mancata indagine sulle modalità con cui si intese tutelare l’ordine pubblico in quei giorni a Genova e quindi sul non avere indagato se vi fossero state responsabilità nel mandare un inesperto psicolabile come Placanica con una pistola armata di pallottole letali e via continuando; tutti questi elementi fanno ritenere che non è stata condotta un’indagine seria, approfondita ed esaustiva.
Ciascuno di questi elementi citati va a colpire dati che in tutti questi anni sono stati da molte parti censurati, anche nelle aule giudiziarie; ma che di fronte ai giudici genovesi hanno sempre trovato poco ascolto. Eccetto la contraddittorietà degli ordini e la gestione complessiva dell’ordine pubblico quel venerdì 20 luglio, specie in via Tolemaide e dintorni, che già avevano trovato un riconoscimento significativo all’interno della, peraltro durissima, sentenza di primo grado contro i manifestanti. Ora tutto ciò trova una sanzione ulteriore a livello internazionale. Non è poco.
Ma la sentenza di Strasburgo pone anche questioni non da poco sulla dinamica stessa dell’omicidio, pur attestandosi poi sulla legittima difesa. Come si è potuto non indagare sul frammento di metallo rilevato nel cranio di Carlo? Come mai fu ferito con un sasso quando era già agonizzante? Come mai il defender su cui era Placanica non aveva reti di protezione ai finestrini e quindi un asse poté entrare all’interno e così impaurire il carabiniere fino a provocarne la sproporzionata reazione? Come mai Placanica, al pari degli altri operativi, fu dotato di proiettili letali invece che di proiettili di gomma antisommossa, come prescrivono le norme internazionali in questa materia e in casi come questi? I giudici di Strasburgo si sono spinti ben oltre le facili spiagge su cui si era attestata la magistratura genovese. «Deplorevole» per alcuni aspetti, l’operato della Procura, «troppe questioni cruciali sono state lasciate senza risposta», per concludere che «le autorità non hanno condotto un’adeguata indagine sulle circostanze del decesso di Giuliani». Non lo si era mai letto in una sentenza italiana, e la censura non riguarda solo la magistratura ma anche investigatori e politici.Non è un caso che i giudizi politici di parte governativa (Gasparri) si sono affrettati a dire che ora la partita è veramente chiusa. Al contrario, oggi la partita si riapre. Può essere che Placanica si senta rafforzato nell’esimente della legittima difesa. Ma vi sono responsabilità ben maggiori in capo a chi operò perché quel momento si verificasse con quelle caratteristiche.
La sentenza Cedu, quindi, non solo apre alla possibilità che i genitori di Carlo agiscano in sede civile per un risarcimento adeguato, sempre ammesso che esista un possibile risarcimento per la barbara uccisione da parte dello Stato di un figlio ventenne. Ma potrebbe riaprire anche le porte dell’indagine penale, magari non necessariamente o solo contro Placanica, ma contro chi in quei drammatici giorni pose i presupposti perché la sua mano sparasse contro Carlo. Per non dire di una possibile commissione parlamentare d’inchiesta, tante volte invocata (da pochi) e sempre rigettata (da molti), che ora troverebbe una sua ulteriore legittimità proprio nella pronuncia dell’alta Corte internazionale.
http://www.reti-invisibili.net/carlogiuliani/articles/art_14066.html
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Da collegarsi (volendo) a “Energia alternativa grazie all’osmosi” qui: https://adrianaemaurizio.wordpress.com/mediattivismo/mediattivismo-3/
Energia generata dal mix di acqua dolce e salata
Settembre 2009
Doriano Brogioli, fisico e ricercatore presso il dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università di Milano-Bicocca, impegnato col gruppo di lavoro del professor Mantegazza a sviluppare farmaci antitumorali e contro l’Alzheimer, si è imbattuto nell’intuizione del potenziale energetico che può essere ricavato dal contrasto tra soluzioni di acqua con diversi gradi di salinità; una scoperta casuale se si considera l’ambito medico della ricerca cui stava lavorando.
«Nel 2008 stavo lavorando sul DNA nell’ambito di uno studio sull’Alzheimer, quando ho notato uno “strano” aumento di energia», spiega Brogioli. Alla base dell’Alzheimer ci sono dei fenomeni elettrostatici che aggregano frammenti di proteine. «Abbiamo notato che la salinità aumenta l’elettrostatica – continua – e per la prima volta abbiamo sperimentato questo anomalo aumento di energia come fenomeno a sé».
In un anno di lavoro Brogioli ha, quindi, messo a punto una metodologia efficace per la produzione a costi vantaggiosi di energia elettrica estraibile dal mix di acqua dolce e salata, o dal mix di acqua con diversi gradi di salinità. Ci vorrà ancora un anno, o forse anche due, per avere un impianto di prova presentabile alle aziende, ma intanto il suo studio su un nuovo prototipo di supercondensatore a doppio strato, formato da due elettrodi di carbone attivo, è stato pubblicato dalle autorevoli riviste Physical Review Letters e Nature e ha già ricevuto manifestazioni d’interesse da parte del Centro di ricerca olandese Wetsus e da uno spin-off della Sgl group, multinazionale che si occupa di prodotti basati sul carbone, con sede anche a Milano; interesse motivato dalla singolarità e convenienza di questo progetto: infatti, se il principio secondo il quale la miscela di acqua dolce e acqua salata rilascia una quantità di energia è un fatto noto al mondo scientifico sin dagli anni Settanta del secolo scorso, l’estrazione di questa energia è sempre stata ragionevolmente considerata troppo onerosa e, oltretutto, non realizzabile in modo costante.
Questo sistema può essere vantaggioso in alcune singole situazioni dove ci sono risorse inutilizzate a disposizione, senza fare danno all’ambiente; non si può certo pensare di sviluppare questa tecnologia per produrre energia pulita e alimentare tutto il pianeta, sostiene Brogioli.
I supercondensatori a doppio strato
Spiegando le tecniche di funzionamento dei superconduttori, messe a punto negli anni Settanta, Brogioli evidenzia come fossero antieconomiche perché basate sull’osmosi e perché richiedevano l’impiego di membrane costose e facili a sporcarsi che permettevano il funzionamento degli impianti solo per poche ore. Negli ultimi anni si è tornati a fare ricerca su questo argomento ma i risultati sono ancora lontanissimi dall’essere praticabili, soprattutto perché i costi di realizzazione degli impianti restano alti. La tecnica da lui proposta è basata sull’elettrocinetica e sulla tecnologia dei supercondensatori a doppio strato, formati da due elettrodi di carbone attivo. Il carbone attivo è un materiale che viene usato nella depurazione dell’acqua, ma essendo molto poroso si presta per la realizzazione di elettrodi con grandissima superficie, fino a mille metri quadri per ogni grammo. Grazie a questa enorme superficie, i due elettrodi, quando vengono messi nell’acqua salata e vengono caricati, assorbono gli ioni e possono contenerne notevole quantità. Ora la tecnica di costruzione di questi condensatori è già nota ma nessuno aveva mai pensato – dice Brogioli – a cosa succede quando, dopo aver caricato il condensatore con acqua salata, si immette acqua dolce: gli ioni vengono rimossi dal condensatore sviluppando un potenziale di energia maggiore rispetto a quello iniziale; il funzionamento a ciclo continuo permette, dunque, di ottenere quantità interessanti di energia pulita e gratuita.
Alla richiesta di quanta energia si possa ottenere con un impianto di questo tipo, Brogioli spiega che il l ciclo continuo, basato su quattro fasi con carico e scarico di acqua salata e dolce, con un flusso di acqua di un litro al secondo, permette di estrarre circa 1 kW di energia netta, cioè l’equivalente del consumo giornaliero di una casa. Se, per ipotesi, l’impianto fosse alimentato dall’intera portata d’acqua di un fiume come il Po, l’energia che si potrebbe ottenere è nell’ordine del mezzo GW, cioè pari a quella prodotta da un impianto nucleare di ultima generazione.
Le applicazioni possibili
La localizzazione ideale di impianti di questo tipo è lungo la costa nei pressi di foci ed estuari, per soddisfare i bisogni energetici di piccoli centri urbani. Ma la realizzazione potrebbe avvenire anche in zone desertiche dove, canalizzando l’acqua del mare verso una salina, è possibile ottenere acqua con diversi gradi di salinità e impiegare parte dell’energia prodotta anche per dissalare l’acqua e immetterla nelle reti idriche là dove c’è carenza di acqua dolce.
I costi di produzione
La produzione di energia mediante l’impianto a supercondensatore potrebbe costare intorno ai 10 centesimi di euro per kWh, mentre il costo di realizzazione di un impianto di dimensioni
“domestiche” si aggira tra i mille e i duemila euro, con costi di gestione intorno ai duecento euro all’anno.
Schema di funzionamento del superconduttore
Fonte: Università degli Studi Milano-Bicocca
http://www.scienzaegoverno.org/n/067/067_01.htm
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Idrogeno in un solido cristallino
Settembre 2009
La rivista “Angewandte Chemie” annuncia la nascita di un nuovo metodo per l’immagazzinamento dell’idrogeno, realizzato da un gruppo di ricercatori dei Los Alamos National Laboratory e dell’Università dell’Alabama all’interno del Chemical Hydrogen Storage Center of Excellence del Department of Energy degli Stati Uniti: si tratta di un passo che potrebbe essere decisivo sulla strada allo sfruttamento commerciale dell’idrogeno quale vettore energetico per l’alimentazione dei veicoli.
Una delle sfide da affrontare per utilizzare l’idrogeno come carburante per autotrazione, oltre a produrlo da una fonte economicamente ed ecologicamente sostenibile, riguarda – infatti – il suo stoccaggio in sicurezza e una rapida reversibilità nel conservarlo senza occupare troppo spazio. L’idrogeno ha una bassa densità, che va quindi limitata o impone di porre il gas sotto pressione, necessità che rappresenta un pericolo per la sicurezza e che richiede di identificare opportuni materiali assorbenti, chiamati anche depositi chimici.
A tal proposito la ricerca si è focalizzata su una classe di materiali noti come idruri metallici noti per la loro capacità d’immagazzinamento dell’idrogeno.
Un deposito chimico efficace per lo stoccaggio dell’idrogeno è costituito dalle molecole dell’ammonio borano (o borano d’ammonica). Si tratta di un solido cristallino, stabile a temperatura ambiente, che inizia a rilasciare idrogeno se scaldato a 120-130 °C. La sua percentuale in peso di idrogeno, superiore al 19%, lo rende uno dei materiali con la più alta capacità teorica d’immagazzinamento.
Uno dei vantaggi dell’ammonio borano e di altri depositi chimici per l’idrogeno è che l’idrogeno può essere facilmente rilasciato per essere utilizzato dalle celle a combustibile, ma hanno anche un grande limite: far assorbire loro l’idrogeno e farlo rilasciare richiede una grande quantità di energia.
Lavorando a questo problema, i ricercatori di Los Alamos e dell’Università dell’Alabama hanno scoperto che una particolare forma di combustibile deidrogenato, denominato poliborazilene, potrebbe essere riciclato con un modesto dispendio di energia. Tale circostanza potrebbe consentire di compiere rilevanti passi nell’utilizzazione dell’ammonio borano come possibile vettore energetico nel campo del trasporto.
Fonte ScienceDaily
http://www.scienzaegoverno.org/n/067/067_02.htm
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Padova: impianto fotovoltaico da record
Settembre 2009
Un anno di lavoro per circa 450 persone, per posizionare 67.500 moduli fotovoltaici su 250 mila metri quadri, per una potenza installata complessiva di 15 MWp: 17 milioni di kilowattora annui che consentiranno di risparmiare l’emissione in atmosfera di 9 mila tonnellate l’anno di anidride carbonica, pari a circa 3.200 tonnellate di petrolio.
Sono “i numeri” del più grande impianto fotovoltaico del mondo realizzato su un tetto. E il tetto è quello dei fabbricati a uso logistico dell’Interporto di Padova.
L’azienda prescelta da Interporto di Padova S.p.A. per questo nuovo step nelle strategie di sviluppo dei propri asset societari, la Solon S.p.a, con sede a Carmignano di Brenta, è il leader italiano nella produzione di sistemi fotovoltaici, facente parte del gruppo SOLON SE di Berlino, uno dei principali produttori europei di moduli fotovoltaici in silicio mono e policristallino. Uno dei vantaggi maggiori del nuovo impianto di Padova sarà proprio la produzione dei moduli fotovoltaici realizzati praticamente a “chilometri zero” nello stabilimento Solon di Carmignano di Brenta.
“In questo delicato momento dell’economia – afferma Sergio Giordani, Presidente di Interporto di Padova SpA – è estremamente importante per le imprese sviluppare attività ed iniziative che, sia pur migliorando le proprie prestazioni aziendali, contribuiscano anche ad una crescita sostenibile del sistema produttivo e sociale”. “Questo impianto – continua Giordani – produrrà in un anno tanta energia quanta quella comunemente consumata da 5000 famiglie. E, passando ai numeri a favore dell’ambiente, risparmierà l’emissione nell’atmosfera di ben 9 mila tonnellate l’anno di CO2, pari a circa 3200 tonnellate di petrolio”.
L’impianto dell’Interporto di Padova – i cui lavori inizieranno entro il mese di settembre 2009 – supererà di 3 MW quello della General Motors di Saragozza ed è stato definito il più potente del mondo, anche se, una volta terminato, il primato spetterà a quello da ben 18 MW che sarà installato sui tetti della Fiera di Milano.
Fonte: Interporto di Padova
http://www.scienzaegoverno.org/n/067/067_03.htm
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LETTERE DAL CARCERE DI PAVIA SETTEMBRE 2009
di Doriana Goracci
Allego il testo da me personalmente trascritto, di due lettere autografe che mi sono pervenute per posta privata e con mailing list ma che non ho capacità tecnica di allegare e sicuramente qualcuno l’avrà già fatto o lo farà. La prima è la testimonianza dei detenuti della Prima Sezione di Pavia, compagni di cella di Sami Mbarka Ben Garci, l’altra già ieri circolata sulla stampa, parzialmente o integralmente. Per finire l’articolo dettagliato della Provincia Pavese.
Vi prego di diffondere. Non “scendiamo nel gorgo muti”.
Verrà la morte e ha avuto i loro occhi.
Doriana Goracci
p.s. ho trovato ora dei “dettagli” in proposito su CNR MEDIA
Egregio signor Avvocato! noi detenuti della 1a abbiamo assistito alla lunga agonia del suo povero cliente, una morte lenta e umiliante. Sicuramente non pagherà nessuno per questa morte, ma le assicuriamo che si poteva evitare benissimo, bastava un pizzico di umanità in più.Era diventato come un prigioniero nei campi di concentramento vomitava acidi e sveniva davanti agli occhi di tutti veniva aiutato da noi detenuti per fare la doccia altrimenti poteva morire nel suo vomito!
Ma non è stato fatto assolutamente niente tranne che lasciarlo morire nella sua cella sotto gli occhi del compagno che più di tutti ha visto spegnersi un essere umano!! La preghiamo vivamente di non arrendersi alle falsità che le verranno dette perchè il suo povero cliente è stato lasciato morire sotto gli occhi di tutti noi!
Prima di lui si è impiccato un altro ragazzo seminfermo e invalido al 75% dopo averlo riempito di sedativi e spedito a San Vittore. Il padre di questo povero ragazzo ha denunciato la sua storia su Rai 3 nel programma di Tirabella accusando il carcere di Pavia di aver lasciato morire il proprio figlio!! La preghiamo di andare fino in fondo con la speranza che non succeda mai più che delle vite umane diano uno spettacolo di un campo di concentramento finchè non si spengono nella più totale indifferenza. Sarebbe una bella e giusta cosa se l’Indagine che verrà fatta si arricchisse anche delle testimonianze dei detenuti della 1a sezione. Le porgiamo i nostri più sinceri saluti
I detenuti della 1a sezione di Pavia!
Ciao Amore speriamo che tu stia bene tanti auguri x il Ramadan speriamo che ti porta fortuna e tanti auguri alla tua famiglia per il ramadan e tanti auguri a tutto il mondo mussulmano x il Ramadan, io sto morendo sono dimagrito troppo, credimi non riesco neanche ad alzarmi dal letto, spero Dio che fai presto Amore mio ma no dirlo a mia madre, bisogna accettare il destino, io ho ricevuto la tua lettera ti dico che mi dispiace iolosciopero non lo tolgo di questa vita a me non me ne frega niente STO MORENDO!!! SAMI
PAVIA, LO SCIOPERO DELLA FAME FATALE AL DETENUTO TUNISINO
Detenuto morto, ultimi giorni dentro e fuori dall’ospedale
Novantasei ore di odissea prima di morire. Lo psichiatra lo aveva rimandato in carcere
PAVIA. Cinque giorni sospeso nel limbo della burocrazia, in attesa che si trovasse la forma di ricovero e di
cura più adeguata. Nel frattempo Sami Mbarka Ben Garci, il tunisino di 42 anni detenuto a Torre del Gallo,
che aveva ingaggiato da un mese e mezzo uno sciopero della fame estremo, è morto. Tre giorni dopo che il
sindaco di Pavia aveva firmato il trattamento sanitario obbligatorio. L’inchiesta avviata dalla Procura di Pavia
dovrà fare luce sugli accadimenti dei suoi ultimi giorni di vita. E sulle eventali responsabilità. Gli atti sono
ancora coperti da segreto, ma tra le carte ci sono parecchi punti da chiarire.
La richiesta di aiuto. Alla fine del mese di agosto, il medico del carcere, Pasquale Alecci, segnala il
problema al magistrato di sorveglianza, Marco Odorisio, e all’amministrazione penitenziaria. Il detenuto non
mangia cibi solidi da quasi 40 giorni. Beve, da quanto riferisce lo stesso detenuto, solo acqua e zucchero. E’
dimagrito 21 chili e non si regge in piedi, ma è lucido e determinato nella scelta di portare avanti una forma di
protesta contro una condanna ritenuta ingiusta. Anche a rischio della propria vita. Il medico prima, e il
magistrato di sorveglianza poi, chiedono al Ministero di intervenire, disponendo il ricovero del tunisino in una
struttura adeguata. Per la precisione, un centro diagnostico terapeutico attrezzato per il ricovero dei detenuti.
L’ospedale San Paolo, ad esempio, che ha un reparto apposito. E anche l’istituto penitenziario di Opera è
attrezzato.
La visita psichiatrica. Il primo settembre, in attesa che si chiarisca la faccenda del ricovero, il detenuto
tunisino viene portato in ospedale d’urgenza. Sta molto male, e Torre del Gallo non ha un presidio sanitario
adeguatamente attrezzato. Tanto più che, a quanto pare, da un paio di settimane mancano nel carcere sia il
cardiologo che lo psichiatra. Il tunisino arriva in ospedale ma rifiuta le cure. Viene visitato da uno psichiatra,
che lo trova lucido e capace di intendere e volere. Per il medico non esistono gli estremi per un trattamento
sanitario obbligatorio. Il detenuto torna in carcere a Pavia.
La risposta del Ministero. Il 2 settembre il Ministero risponde alla richiesta del magistrato di sorveglianza,
ma non ritiene necessario trasferire il detenuto in un centro diagnostico terapeutico dell’amministrazione. Il
“rifiuto” è motivato dal fatto che non esisterebbero, in Italia, centri clinici penitenziari adatti a curare un
detenuto che sia in sciopero della fame. Il Ministero invita a tenere sotto controllo il detenuto, per evitare che
commetta gesti estremi, valutando anche la possibilità di un trattamento sanitario obbligatorio. Il giorno
stesso il sindaco di Pavia Alessandro Cattaneo firma il Tso.
La decisione del magistrato. E’ sempre del 2 settembre il provvedimento del magistrato che, dopo la
risposta del Ministero, dispone il ricovero in una struttura esterna all’a mministrazione penitenziaria. Nel caso
specifico, il Policlinico San Matteo. Il magistrato, che agisce con tempestività, dice anche di non condividere
la decisione del Ministero, visto che l’o biettivo del ricovero di un detenuto che è in sciopero della fame non è
tanto quello della cura, secondo il magistrato, bensì la possibilità di intervenire subito nel caso di un
aggravamento delle condizioni cliniche del paziente.
I ritardi. Il detenuto entra in ospedale, al San Matteo, il 3 settembre. Se vi sia stato un ritardo (lo sciopero
della fame inizia il 17 luglio, ma a metà agosto le condizioni del tunisino sono già preoccupanti) sarà la
magistratura ad accertarlo. Fatto sta che il 4 settembre le sue condizioni invece di migliorare si aggravano. Il
paziente è sottoposto a terapia medica (il diario clinico è sotto sequestro, quindi non è possibile sapere i
dettagli della cartella) e sorvegliato. Ma nella notte del 5, alle 3,45, il detenuto muore. Dopo cinque giorni
frenetici. Una fretta che non è bastata a salvargli la vita.
(15 settembre 2009)
http://laprovinciapavese.gelocal.it/dettaglio/detenuto-morto-ultimi-giorni-dentro-e-fuori-dall’ospedale/1721237
http://www.reset-italia.net/?p=17189
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È cominciata la rivolta dei debitori 14.09.2009
La signora che appare nel video è una specie di moderna eroina. Accortasi che Bank of America aveva alzato in sordina il tasso d’interesse della sua carta di credito fino al 30% (dal quasi 13%) ha protestato, ma si è scontrata con l’indifferenza della banca.
Ha così deciso di ritirare i suoi risparmi da BoA e di non pagare il suo debito, pur potendo, se BoA non recederà dalle sue pretese sugli interessi. Si tratta di un atto di coraggio, perché la signora da oggi diventa una “cattiva debitrice” e non potrà più ricorrere al credito, ma in fondo non è che avere pagato puntualmente per anni le abbia portato grandi vantaggi, nonostante avesse sul conto oltre 50.000 $ e avesse sempre pagato puntualmente i suoi conti, BoA non ci ha pensato un attimo ad imporle interessi da usura.
Nel video, -nel link sotto- che sta circolando furiosamente in rete, la signora si rivolge alla controparte dicendo: “You are evil, thieving bastards” e non è che si possa darle torto.
Il fenomeno è ben noto, da quando i grandi gruppi finanziari statunitensi sono falliti e sono stati salvati con i fondi del Tesoro americano, si sono tutti più o meno lanciati nel recupero delle perdite alle spalle dei clienti, a cominciare da quelli più solvibili, imponendo tassi d’interesse stellari e condizioni draconiane. Ben diverso il comportamento su ltri fronti, visto che i manager continuano a incassare stipendi di giada e a dre milioni di dollari ai lobbisti che a Washington stanno cercando di proteggere la loro libertà di manovra come se nulla fosse successo. Come se nulla fosse successo i grandi player della finanza americana (diventati ancora più grandi dopo aver assorbito i concorrenti falliti) stanno aumentando il rischio sistemico e ricorrendo massicciamente alla leva finanziaria, esattamente quello che ci vuole per provocare velocemente un nuovo crack globale.
Se l’esempio della signora Ann Minch si dovesse diffondere, saranno tempi duri per le aziende che gestiscono le carte di credito negli Stati Uniti, questo genere di “disobbedienza civile” mette infatti le banche creditrici in grosse difficoltà e rischia di far collassare l’intero sistema del credito al consumo, insieme ai loro bilanci.
http://mazzetta.splinder.com/post/21309834/%C3%88+cominciata+la+rivolta+dei+d
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Ogni tanto l’idea ritorna
Reddito base e disoccupazione
LUCIANO GALLINO
Sul fronte dell’occupazione la crisi ci consegna uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d’accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare. Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenteràil numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.
Dinanzi a un tale scenario, che riguarda milioni di persone, la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla equivale a proporre a un malato il cui stato si aggrava giorno per giorno di prendere un’aspirina in più. Quale sistema di sostegno al reddito detti ammortizzatori, concepiti quarant’anni fa, appaiono oggi del tutto inadeguati. Occorre sostituirli con un sistema completamente diverso, capace di generare effetti benefici in diversi ambiti della vita sociale che il sistema in vigore non sfiora nemmeno. Un sistema di sostegno al reddito che dopo una lunga eclissi sta riprendendo posto nell’agenda politica di diversi paesi, dal Brasile alla Germania, è il reddito base, denominazione internazionale che si è ormai affermata in luogo di “reddito garantito”, “reddito di cittadinanza” e altri.
In sintesi l’idea di reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato. Poiché il lavoro tende a scomparire, ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma ideale il reddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo stato o un ente locale o altra “comunità politica” al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importa se sia povero o no, se possa dimostrare – quando sia disoccupato – di cercare attivamente lavoro, e nemmeno se lavori o no. Nel caso in cui lavori il reddito base si aggiungerebbe al salario, ma la somma dei due comporterebbe ovviamente un maggior onere fiscale, o l’impegno a svolgere un certo numero di ore di volontariato. Uno dei benefici del reddito base incondizionato, su cui insistono spesso i suoi proponenti, va visto nella libertà che conferisce alla persona disoccupata di cercare a lungo un lavoro, senza doverne accettare per disperazione uno con una paga da fame e al disotto del proprio titolo di studio. Questo è anche un vantaggio per l’economia in generale. Infatti il laureato in fisica che in mancanza di meglio fa il bagnino, o la biologa che lavora da commessa in un outlet, rappresentano un investimento di decine di migliaia di euro in formazione gettato al vento. Ma soprattutto il reddito base viene vistocome un mezzo efficace per combattere insieme sia la povertà, sia il più insidioso nemico della stabilità e della democrazia nelle società contemporanee: l’insicurezza socio-economica.
In realtà l’idea di reddito base ha più di due secoli. È stata proposta tra i primi da Thomas Paine, lo scrittore politico inglese trasferitosi in America, in un saggio del 1795. È comparsa e scomparsa ripetutamente nel dibattito interno dei partiti di sinistra europei per tutto il Novecento. In Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto in cui raccomandava di sostituire gran parte delle leggi anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. Non si trattava propriamente di un reddito base incondizionato, poiché era subordinato al bisogno economico. Tuttavia gli argomenti della commissione, a partire da quello per cui non si possono dividere i poveri tra coloro che vogliono lavorare e coloro che non lo vogliono, erano assai prossimi a quelli che da sempre adducono i fautori del reddito base. La legge sul reddito garantito venne bocciata al Senato per pochi voti, dopo essere stata approvata dalla Camera. In Francia ampie discussioni hanno sollevato dagli anni 80 in poi le proposte di André Gorz, dal “reddito sociale garantito” sino all’ultima di un “reddito incondizionato d’esistenza”.
Ma è nell’ultimo decennio che si sono moltiplicati, in tema di basic income, i testi dovuti a studiosi di differenti paesi e istituzioni. In primo piano quelli pubblicati da dirigenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel cui consiglio siedono, va ricordato, i rappresentanti di governi, imprenditori e sindacati.
La massa di studi oggi disponibili ha allungato l’elenco di argomenti a favore del reddito base, che due studiosi ispanici hanno compendiato di recente in una battuta: il reddito base va bene durante il boom, ma diventa essenziale con la crisi. Soprattutto ha tolto peso a molti argomenti contro, pur non facendoli sicuramente scomparire. Essa mostra che di tale forma di sostegno al reddito esistono molti modelli diversi, alcuni proposti in passato addirittura da economisti liberali come Milton Friedman, Fredrich Hayek, Herbert Simon; altri invece più vicini al pensiero socialista in tema di sicurezza socio-economica. Le ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso – quando il suo ammontare sia congruo – favorisce l’offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un’aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore – da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità – che costano comunque miliardi l’anno. Infine nessuno pensa di proporre l’introduzione secca del reddito base come fosse un nuovo articolo del codice della strada. Occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Soprattutto occorrerebbe un’ampia discussione in sede politica.
In Germania un simile compito lo sta svolgendo Die Linke, il partito nato da pochi anni a sinistra dello Spd che ha conseguito un notevole successo alle ultime amministrative. Die Linke ha fondato una comunità federale di lavoro sul tema del reddito base incondizionato che conta migliaia di aderenti, e lo ha inserito a pieno titolo nel programma per le prossime elezioni politiche. La 2a settimana del reddito base (14-20 settembre 2009), che essa appoggia, ha riscosso il consenso di 223 organizzazioni non governative, comprese alcune svizzere e austriache. Da noi, ad onta del meritorio impegno del Basic Income Network Italia, nato da vari anni, la discussione è circoscritta a pochi addetti ai lavori. Se quel che resta dei partiti di sinistra, o del centro-sinistra, volessero proporre ai propri elettori di discutere di qualche autentica riforma, l’idea di reddito base come forma di sostegno al reddito resa necessaria dalla crisi e dalla moltiplicazione delle persone che diventano economicamente superflue, potrebbe essere un buon candidato.
la Repubblica 16.09.2009
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INFORMAZIONE. Auser aderisce alla manifestazione del 19 settembre
di Maurizio Regosa 10.09.2009
L’associazione in una nota spiega le ragioni
Ecco il testo del comunicato con il quale l’Auser ribadisce la sua piena adesione alla manifestazione del 19 settembre a Roma, a difesa della libertà d’informazione, promossa dalla Fnsi.
“E’ venuto il momento di dire basta, di reagire. Basta con il disprezzo, le battute volgari. La difesa della libertà di stampa, d’informazione e opinione, la difesa dei giornali e dei giornalisti che vogliono mantenere la ‘schiena dritta’, significa difendere i pilastri della nostra democrazia, della Costituzione. E’ in gioco il futuro di tutti i cittadini. La manifestazione del 19 sarà per dire No ad un’informazione manovrata dall’alto, o al peggio imbavagliata, ma ci auguriamo che arrivi a scuotere tante coscienze ancora sopite, soprattutto di coloro che hanno responsabilità istituzionali e politiche.
Il presidente nazionale dell’Auser Michele Mangano, a nome di tutta l’associazione, nei giorni scorsi, aveva espresso piena solidarietà all’Unità, e a tutte le testate libere per i continui e ripetuti attacchi strumentali e intimidatori, subiti dai giornalisti e dai direttori”.
http://beta.vita.it/news/view/95283
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L’Arte degenerata del Dr. Caligari
Govoni & Ameruoso, 16.09.2009
Cinema e musica Disegni viventi ad effetto allucinatorio al Festival di Castel dei Mondi per una serata evocativa con uno dei più alti ed esemplari film dell’Espressionismo tedesco che contribuì in maniera decisiva all’affermazione della corrente artistica nella cinematografia: “Das cabinet des Dr Caligari”
Un cineconcerto ospitato nel centro storico di Andria, provincia di Bari, all’interno del Festival di Andria di Castel dei Mondi: possiamo così rivedere “il gabinetto del Dr. Caligari”, arricchito dal lavoro di Paolo Cipriano e Valentina Mitola, i Supershock, compositori ed esecutori delle musiche interpretate dal vivo durante la proiezione della pellicola, nella versione restaurata con la collaborazione del Goethe Institut. La rock band che ne cura l’accompagnamento sonoro, nata a Torino nel 2002, divulga una musica indie-rock che in originare accompagna piece teatrali, e successivamente avvia un percorso di sonorizzazione con performance di supporto a pellicole come “Nosferatu” del 1922 di Murnau, e di recente questo “Das cabinet des Dr Caligari” di Wiene del 1919, la cui sceneggiatura è stata, come tutti sanno, rivisitata da censure che costrinsero il regista a modificarne l’assetto drammaturgico. In origine il “Così è, se vi pare” pirandelliano, non era celato ma esposto dichiaratamente: il folle omicida, protagonista del racconto, coincideva con il medico direttore di una clinica psichiatrica. Successivamente alla restrizione, la storia fu identificata con le fantasie di uno psicotico ricoverato nell’ospedale aiutato dallo stesso dottore a cui Wiene aveva invece attribuito la didascalia del colpevole. Così il fautore di una serie di efferati delitti non risulterà il sonnambulo Cesare, paziente che funge da attrazione fieristica di Caligari, ma il giovane psicopatico Franz che racconta ad un anziano le sue fantasie vaneggiatrici.
Il capolavoro del maestro Wiene con le sue creature misteriose, gli spazi scenici angoscianti come quadri di Kubin, e le ambientazioni claustrofobiche, ha dato vita ad atmosfere chimeriche. Wiene impiegò tutti i mezzi in suo possesso per accentuarne l’inverosimilità, dalla concezione estetica dei personaggi, Werner Krauss con cilindro ed occhialoni o Conradt Veidt scheletrico ed impassibile, allo scenario ed ai costumi appositamente commissionati agli espressionisti del gruppo Der Sturm, rivista pubblicata a Berlino dal 1910 al 1932 e voce ufficiale di opere innovative ed inconsuete (come i lavori di Braque, Picasso, de Vlaminck e del gruoppo dei Die Brücke) appuntate come “Arte degenerata” dal totalitarismo nazista, che costrinse molti di questi artisti ad emigrare e molte opere ad essere distrutte.
Dal punto di vista musicale i bassi armonizzano suggestive evocazioni e la visione onirica, distorta e deformata di chiara derivazione teatrale e pittorica, permettono l’empatia con gli stati d’ansia descritti nel soggetto. La chitarra incalza e con l’effettistica, suono e voce si modulano in un ritmo crescente fino a distorcersi: angoscia racchiusa dalle linee diagonali e verticali, dalle forme alle immagini, rapporto biunivoco dall’impressione visiva a livello inconscio.
Anche se l’organizzazione della serata ha avuto qualche travaglio (un’attesa di quasi un’ora, per l’inconveniente del cambio di location, comunicato poco prima dell’inizio dello spettacolo, e, il nuovo sito individuato, con un numero di posti insufficienti rispetto al numeroso pubblico accorso all’evento) un grande plauso va comunque alla rassegna per questo evento, per la proposta di musiche differenti dal solito, sonorità rock davvero peculiari, congiunte al valore di una pellicola di alto valore storico cinematografico. L’accoppiata fra capolavori della filmografia, purtroppo fruibili soltanto in saltuarie apparizioni televisive e in orari improbabili, e ricerca musicale diventa occasione unica di confronto. Notevolissimo.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=12894
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ENERGIA. Fotovoltaico: l’analisi e lo studio di fattibilità li paga la banca
16.09.2009
E’ l’innovativa proposta di Energy, il prodotto creato dalla Bcc di Busto Garolfo e Buguggiate per incentivare l’energia pulita a casa e in azienda
Il primo passo per installare un impianto fotovoltaico è fare un’accurata analisi costi-benefici. Da oggi l’analisi e lo studio di fattibilità lo paga la banca. La Banca di Credito Cooperativo di Busto Garolfo e Buguggiate, dopo l’esempio del “Mutuo Verde”, totalmente rivolto agli investimenti in energie sostenibili, ha lanciato Energy, un finanziamento a tasso agevolato per incentivare l’uso dell’energia pulita sia per i privati che per le aziende. Il mutuo finanzia fino all’intero costo del progetto e delle spese tecniche. Energy è destinato a coloro che vogliono installare un impianto fotovoltaico, impianto che può essere collegato alla rete pubblica. Per i privati l’importo finanziabile va da un minimo di 5mila euro a un massimo di 30mila, per le imprese da un minimo di 10mila euro fino ad arrivare a 750mila. La durata del finanziamento varia da un minimo di 24 mesi a un massimo di 180 per i privati.
«Noi della Bcc di Busto Garolfo e Buguggiate», spiega Luca Barni, direttore generale dell’istituto di credito, «siamo convinti che la qualità della vita del nostro territorio dipende anche dalle scelte che facciamo a difesa dell’ambiente. Per questo nasce mutuo Energy, il primo finanziamento che offre a imprese e privati un pacchetto chiavi in mano per dotarsi di una fonte di produzione di energia pulita e conveniente. L’industria fotovoltaica è impegnata a offrire tecnologia e prodotti sempre migliori, come banca noi vogliamo fare la nostra parte e abbiamo deciso di pagare a chi accede ai nostri finanziamenti l’analisi e lo studio di fattibilità per installare i pannelli fotovoltaici che permettono di produrre energia pulita. Parlando da un punto di vista prettamente economico, il solare è un ottimo investimento. Si tratta da una parte di un fattore determinante per la competitività delle nostre imprese, che possono così avere a disposizione energia a costi contenuti, dall’altra di un sicuro risparmio sul bilancio familiare dei privati».
L’energia del sole, è notizia di questi giorni, è stata adottata dalla Cina, dove è stata progettata la costruzione del più grande impianto fotovoltaico del mondo, ed è arrivata anche nello stato del Vaticano, dove sono stati installati 2.700 pannelli per climatizzare ed illuminare la Sala delle Udienze. «È giunto il momento di incentivare l’uso dell’energia del sole. Circa un terzo dei nostri consumi termici ed elettrici viene speso per riscaldare ed illuminare case, scuole ed aziende», ricorda Lidio Clementi, presidente della Bcc di Busto Garolfo e Buguggiate, «è ora di cambiare e di trasformare gli edifici in cui viviamo in organismi altamente efficienti, che non divorino energia, ma la creino. Per questo, come banca, abbiamo deciso di aiutare chi investe nell’ambiente».
In Italia si contano circa 39mila impianti e da poco è stata superata la soglia di produzione di 500 megawatt l’anno, e si continua a crescere soprattutto grazie ai privati. Si stima che a fine 2010 si possa arrivare a 2mila megawatt l’anno. Il 25% degli impianti è concentrato in Lombardia ed in Puglia, dove è già in vigore l’iter autorizzativi semplificato, che prevede, tra l’altro, che non deve essere richiesta nessuna autorizzazione se il luogo dove verrà posizionato l’impianto ad energia solare è esente da vincoli per la tutela dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, a meno che non siano in vigore dei vincoli locali.
http://beta.vita.it/news/view/95397/
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hello,I’m from Chulalongkorn University
My thesis cited your post, if that violated your copyright, like send an email to with me.