Lula: «Il Brasile ora gioca a tutto campo» 10.11.2009
di Lionel Barber e Jonathan Wheatley
Luiz Inácio Lula da Silva è un fiume in piena. Raggiante, con in mano il suo sigaro preferito, il presidente brasiliano racconta con gusto di quel giorno in cui disse «no» al Fondo monetario internazionale. «Chiamai Rodrigo Rato, il direttore generale dell’Fmi, e gli dissi che non volevo i suoi soldi. Era sinceramente turbato – ride Lula -. Mi disse: “Ma prestare al Brasile è importante per me”».
Per il presidente Lula e i suoi 190 milioni di concittadini, il ricordo del Brasile che si presentava col cappello in mano all’Fmi brucia ancora. Soltanto un decennio fa, sull’onda delle crisi finanziarie di Asia e Russia, il Brasile era costretto a svalutare la sua moneta, il real, e a chiedere al Fondo prestiti d’emergenza. Ma ora la situazione si è rovesciata.
«Siamo stati uno degli ultimi paesi a essere colpiti dalla crisi globale, e siamo uno dei primi a uscirne», dice il 64enne ex operaio tornitore che è stato eletto presidente per la prima volta nel 2002.
Per il prossimo anno, che sarà il suo ultimo alla guida del Brasile, è fiducioso che l’economia possa crescere di un più che salutare 5 per cento. «Fino a non molto tempo fa, sognavo di accumulare 100 miliardi di dollari di riserve in valuta estera», dice continuando a sorridere a 32 denti. «Presto arriveremo a 300 miliardi».
Lula decanta le lodi di un Brasile trasformato da un miracolo economico. L’inflazione è sotto controllo, i tassi d’interesse, prima alle stelle, sono scesi a livelli più umani, e il rilancio dei mercati di capitale sta contribuendo a finanziare gli investimenti. I programmi di trasferimento del reddito hanno consentito a milioni di persone di entrare sul mercato dei consumi. Nel pieno della crisi globale, il governo ha sostenuto le vendite con sgravi fiscali per le auto, gli elettrodomestici e i materiali da costruzione. Un anno fa, il Brasile è stato scelto per ospitare i mondiali di calcio del 2014, e il mese scorso ha vinto la corsa per le Olimpiadi del 2016, facendo percepire a molti brasiliani che finalmente è arrivato il momento del loro paese.
L’interrogativo è se la ripresa del Brasile, che deve molto al boom dei prezzi delle materie prime, sia sostenibile. Molti analisti temono che l’inondazione di liquidità che sta tenendo a galla gli asset brasiliani (la valuta quest’anno ha guadagnato il 36% rispetto al dollaro e il mercato azionario è salito del 135%, calcolando in dollari) possa esaurirsi rapidamente se la crisi globale entrerà in una seconda fase. Inoltre, la crescita della spesa pubblica per programmi di welfare e per gli stipendi dei dipendenti pubblici, misure difficili da revocare, rischiano di rappresentare una bomba a orologeria per le finanze dello stato.
Lula cita la sua storia personale come dimostrazione della trasformazione irreversibile sperimentata da questo paese. Emigrante povero delle regioni nordorientali, cominciò la sua carriera politica a San Paolo come leader sindacale. Dopo aver fondato il Partito dei lavoratori (Pt), tentò tre volte in 12 anni l’assalto alla presidenza, prima di centrare l’obiettivo.
Fra il momento della vittoria elettorale e l’ingresso in carica, Lula scrisse una “lettera al popolo brasiliano” per assicurarlo che il suo governo avrebbe fatto onore a tutti i contratti e avrebbe evitato avventurismi. Il messaggio era indirizzato anche agli investitori esteri, e funzionò: i capitali stranieri, fuggiti dal paese per timore che il nuovo presidente di sinistra avrebbe speso a destra e a manca fino a portare al default le finanze pubbliche, tornarono.
L’amministrazione Lula ha anche rifiutato di rescindere i contratti o revocare le politiche ortodosse antinflattive lasciate in eredità dal presidente precedente, il centrista Fernando Henrique Cardoso. Alcuni militanti di sinistra sostenitori del presidente hanno impugnato in tribunale le privatizzazioni di Cardoso, ma la magistratura – che precedentemente aveva una reputazione di sentenze soggettive e imprevedibili – ha costantemente ribadito la legge.
Lula non cita Cardoso direttamente, anche se molti attribuiscono al suo predecessore il merito di aver portato stabilità nella tempestosa economia del Brasile. L’attuale presidente dice che Cardoso aveva governato per il 40% più ricco dei brasiliani, non per l’intera nazione. E chi temeva che la sua elezione, nel 2002, avrebbe segnato l’avvento di un populismo di sinistra, semplicemente non aveva capito nulla di lui. «Lavoravo in modo ossessivo con la convinzione di non potermi permettere nessun errore».
Un altro successo è stato il potenziamento dei programmi di assistenza sociale che erogano soldi ai poveri – generalmente alle madri – per garantire ai bambini la possibilità di andare a scuola e di accedere alle visite mediche. Le somme elargite da Bolsa Família sono limitate (da 22 fino a un massimo di 200 real al mese per famiglia) e costano meno dell’1% del Pil. Ma raggiungono qualcosa come 11 milioni di famiglie.
Come fa molto spesso, Lula ricorre a un aneddoto individuale per illustrare la tesi più generale sulla trasformazione del suo paese. Recentemente, nell’arido Nordest di cui è originario, ha incontrato una donna che un anno prima aveva preso in prestito 50 real da un amico per preparare pasteis (stuzzichini fritti tipici della cucina brasiliana) da vendere agli operai che lavoravano in uno dei grandi progetti infrastrutturali promossi dal governo. Da lì, la donna ha proseguito fino a mettere in piedi un servizio di catering grande abbastanza da versare 5.000 real (1.960 euro) di tasse.
Per il presidente, quella donna è un esempio tipico dei 30 milioni di brasiliani che sono usciti dalla povertà, e di quei 20 milioni che negli ultimi cinque anni sono andati a ingrossare le fila della borghesia carioca.
Lula non si è mai dimenticato delle sue radici, e ora che il suo secondo mandato si avvicina al termine, qualche detrattore vede segnali di un riemergere del suo istinto socialista. I progetti per lo sfruttamento di giacimenti petroliferi potenzialmente colossali, scoperti al largo delle coste brasiliane nel 2007, includono la creazione di una società al 100% pubblica con l’incarico di supervisionare gli appalti di produzione. Questo sarebbe il segnale di una presenza dello stato molto più forte. In certi ambienti, hanno suscitato allarme anche le recenti pressioni sulla Vale, il colosso dell’industria mineraria privatizzato nel 1997, per indurlo ad adattare i suoi piani d’investimento alle politiche dello stato.
Il presidente risponde a queste critiche con un atteggiamento insolitamente difensivo. «Dubito che ci sia mai stato un momento nella storia del Brasile in cui il settore privato ha goduto di così tanto rispetto da parte dello stato, o ha fatto così tanti soldi come oggi. Quello che chiedo alla Vale è di trasformare il minerale ferroso in acciaio in Brasile, e di comprare navi fabbricate in Brasile».
Il sedicente patriota economico si trova più a suo agio quando gli domandano del ruolo dello stato nell’economia. «Il consueto dibattito sul ruolo dello stato è finito, grazie alla crisi. Per molto tempo la gente ha detto che lo stato aveva fallito e che i mercati potevano governare ogni cosa».
«Io non sono favorevole a un’economia gestita dallo stato. Lo stato deve essere forte, ma come catalizzatore di sviluppo. E noi abbiamo applicato misure valide, in campo monetario e finanziario. Per questo il settore bancario non è crollato durante la crisi».
Lula lo scorso anno ha dichiarato che la crisi finanziaria globale era colpa di banchieri biondi e con gli occhi azzurri, a Wall Street e nella City londinese. Quando il Financial Times dice che forse il suo paese è scampato alla crisi perché ha carenza di ragazzi biondi e con gli occhi azzurri, i suoi collaboratori ridono. Lui però rimane serio.
«Era una reazione ai commenti di certi che davano la colpa della crisi ai migranti – dice -. I poveri dell’Africa e di tutto il mondo dovranno pagare la crisi, ma non sono loro che l’hanno provocata. I paesi ricchi dicono che non si possono permettere di finanziare la lotta alla povertà nei paesi poveri. Ma per salvare le loro banche hanno trovato migliaia di miliardi di dollari».
Nei rapporti col resto del mondo, Lula, invece di dedicarsi soltanto a curare le relazioni con i partner commerciali e gli alleati tradizionali come gli Stati Uniti e l’Unione Europea, si è concentrato su una diversificazione degli scambi e si è preoccupato di allacciare contatti con altre parti del mondo, come l’Asia, il Medio Oriente e l’Africa. La Cina è diventata il primo partner commerciale del Brasile.
Il presidente brasiliano ha portato avanti un approccio del tipo «voglio essere amico di tutti», incluso il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad e il venezuelano Hugo Chávez, due bestie nere di Washington. Chi lo critica dice che porta avanti una politica estera ingenua, ma lui contesta con decisione questa accusa. «Penso a quando Nixon concesse alla Cina lo status di nazione più favorita», dice Lula.
Il presidente crede molto nel futuro del Bric – Brasile, Russia, India e Cina – un concetto elaborato dalla banca d’affari Goldman Sachs. Ora i leader dei quattro paesi tengono regolarmente vertici fra loro, e il prossimo è in programma l’anno venturo a San Paolo. Molti però sono convinti che gli interessi dei paesi Bric siano troppo diversi, se non addirittura conflittuali, per rappresentare un gruppo significativo.
«È come quando incontri una ragazza – sorride Lula -. Se guardi solo i suoi difetti non arriverai da nessun parte. Ma se guardi il lato positivo finisce che te la sposi».
Il presidente brasiliano trova motivo d’ispirazione anche nel modello della Ue, osservando che appena due generazioni fa la Francia e la Germania erano in guerra. «È così che costruiremo un’alleanza forte fra i paesi Bric. Al nostro primo incontro ho suggerito di cominciare a commerciare fra di noi usando le nostre valute. Non abbiamo bisogno del dollaro. È solo un fattore culturale, e può cambiare».
Con le elezioni previste per ottobre dell’anno prossimo, a differenza di altri leader dell’America Latina, Lula ha evitato la tentazione di cercare di ottenere un terzo mandato consecutivo, una mossa che avrebbe comportato una modifica costituzionale. Dice che non gli è mai passata per la testa l’idea di diventare un altro caudillo.
In realtà, il presidente si sta già preparando a consolidare la sua eredità politica attraverso il successore prescelto, l’attuale capo di gabinetto del suo governo, Dilma Rousseff. La Rousseff, una giovane tecnocrate, cercherà di emulare Lula, in parte perché le manca il carisma che caratterizza l’attuale presidente e in parte perché deve tenere insieme un’ampia coalizione di partiti spesso in conflitto fra loro, che mostra già segnali di sfilacciamento. Un paio di altri possibili candidati del Pt hanno dovuto ritirarsi, invischiati in scandali di corruzione. Un’altra forte candidata donna, Marina Silva, ex ministro dell’Ambiente sotto Lula, è passata ai Verdi.
«La coalizione terrà e stiamo lavorando per rafforzarla – dice Lula – E abbiamo un’eccellente candidata… se sceglierò Dilma, il contributo maggiore che le darò sarà consentirle di creare un suo stile».
Durante l’intervista, e nei discorsi che ha pronunciato a Londra il giorno seguente, il presidente e i suoi colleghi hanno ripetutamente fatto riferimento a quella vecchia battuta secondo cui il Brasile era il paese del futuro e lo sarebbe sempre stato. Ora da loro traspira una sicurezza nuova. Il Brasile non è solo il paese del presente, dice Lula. «Sta davvero vivendo un momento magico».
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Marcegaglia in Brasile: «Chiederemo a Lula di abbassare i dazi» 9.11.2009
L’Italia chiede al Brasile «che si vada nella direzione di un graduale abbassamento dei dazi doganali che ancora sono molto alti, soprattutto sui beni di consumo». Lo ha detto il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, in Brasile per guidare assieme al ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, la missione di sistema delle imprese italiane.
«Proprio perché i nostri Paesi sono amici, con 30 milioni di abitanti in Brasile di origine italiana, chiediamo che si vada nella direzione di un calo dei dazi» ha detto Marcegaglia spiegando che ciò dovrebbe avvenire «nell’ambito degli accordi per il Doha Round o nelle trattative tra Mercosur e Unione Europea. Chiediamo – ha ripetuto – che si possa andare nella direzione della riduzione delle barriere doganali che limitano molto la possibilità di rendere le nostre due economie ancora più vicine».
La missione in Brasile è organizzata da Confindustria, Abi e Ice sotto l’egida del governo, con l’obiettivo di rafforzare i rapporti economici tra l’Italia e il paese carioca, incrementare le opportunità di investimento presentando alle imprese italiane e soprattutto alle piccole e medie aziende le prospettive di sviluppo del paese latino-americano e sostenere la partecipazione delle società italiane ai programmi di sviluppo industriale e infrastrutturale de Brasile, a partire da quelli che riguardano i mondiali di Calcio del 2014, alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016, fino al Pac, il programma di accelerazione della crescita del valore di 190 miliardi nel periodo 2007-2010.
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Da http://www.caffeeuropa.it/ del 10.11.2009
“Libero apre con il titolo “Più manette per tutti. Inchieste a raffica. Il tam tam che arriva dalle procure sembra quello di Tangentopoli. I pm napoletani chiedono l’arresto del sottosegretario Cosentino. Occhio, è solo l’inizio”. L’editoriale è di Maurizio Belpietro.”
Link a Libero: http://www.libero-news.it/articles/view/592150
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Il progetto finlandese ha ricevuto un contributo di 3 milioni di euro 5.11.2009
Porte girevoli per l’energia dalle onde
Ogni porta, posizionata da 6 a 23 metri sotto la superficie del mare, può generare 300 chilowatt
L’idea è venuta a un tuffatore che, dopo un volo plastico, per poco ha picchiato una testata contro la porta di una nave affondata. Un’idea che ha ricevuto ora un contributo di 3 milioni di euro. L’idea del finlandese Rauno Koivusaari è semplice: una sorta di porta girevole dal peso di 20 tonnellate che, posizionata a una profondità compresa tra 6 e 23 metri sotto il mare, bascula sotto l’azione delle onde, in modo da azionare un sistema idraulico che trasforma l’energia cinetica in energia elettrica.
MOTO ELLITTICO – Ogni porta è in grado di produrre 300 chilowatt, collegata in serie di tre arriva a una capacità di quasi un megawatt. E in un campo di produzione se ne possono aggiungere quante se ne vogliono, senza contare che, essendo sotto il mare non ci sono problemi di impatto ambientale. Sono quindici anni che Koivusaari sta sviluppando il progetto insieme alla sua società, la AW-Energy e ora ha posizionato un modello-pilota al largo del Portogallo. Il WaveRoller funziona sfruttando il fatto che il modo ondoso, avvicinandosi alla costa, prima che si rompa la cresta dell’onda e formi il classico «cavallone», sotto la superficie marina fa muove le particelle d’acqua con un moto ellittico. Quindi in avanti e all’indietro e questo movimento di andata e di ritorno è proprio quello che sfruttano le porte basculanti intorno a un perno per funzionare in entrambi i sensi.
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Alla scoperta partecipano astrofisici italiani 6.11.2009
Svelato il mistero dei raggi cosmici
Come nascono e come accelerano nel cosmo grazie agli studi sul cuore della galassia M82
MILANO – Nel cosmo scorrono fiumi talvolta impetuosi di raggi cosmici formati da nuclei atomici e protoni. Anche se gli astronomi hanno un’idea di come nascano e in che modo siano accelerati, sono ancora a caccia delle prove definitive. Un passo interessante è stato compiuto in questa direzione da un imponente gruppo di ricercatori americani, canadesi e irlandesi distribuiti addirittura in 25 istituzioni riunite nella collaborazione Veritas (Very Energetic Radiation Imaging Telescope Array System). E già questo dato offre la misura della complicazione del problema. Ma il risultato c’è stato ed è stato raccontato sulla rivista Nature.
Il soggetto che lo ha permesso è la galassia molto brillante M82 distante circa 12 milioni di anni luce dalla Terra nella direzione della costellazione dell’Orsa Maggiore. Questa galassia ha già di per sé una storia interessante perché per centinaia di milioni di anni ha interagito gravitazionalmente con le isole stellari del circondario, tra le quali c’è anche la famosa galassia a spirale M81. La continua interazione con i vicini, però, ha deformato la M82 creando nel suo cuore una zona molto attiva dove nascono stelle a profusione. E proprio da qui si è visto che arriva un fiume di raggi cosmici ben più intenso, ben 500 volte più elevato rispetto al flusso medio che si misura nella nostra galassia Via Lattea.
«Dunque – spiega Andrea Cesarini che con Victor Abelardo Acciari e Nicola Galante sono gli unici italiani del gruppo a condividere l’impresa – c’è un legame indiscusso tra la generazione di nuovi astri e i raggi cosmici. Finora si sapeva in generale come questi vengono poi accelerati. Le osservazioni su M82 forniscono una stima indipendente sulla densità dei raggi cosmici che pone nuovi vincoli sui modelli di emissione tra la banda radio e il lontano infrarosso». E questo è molto importante per le conseguenze, perché significa conoscere elementi preziosi per spiegare tanti altri aspetti della fisica cosmica, buchi neri compresi. Per le osservazioni si è utilizzato un gruppo di quattro telescopi ottici di 12 metri situati nel sud dell’Arizona, che hanno lavorato dal gennaio 2008 all’aprile 2009. Da qui si è compiuto un passo avanti importante nella foresta dei misteri che l’universo trattiene.
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Roald, architetto della foresta gli alberi invadono il salotto 8.11.2009
Piante e rami non lavorati al posto di travi lisce e piallate. Sono questi i materiali con cui un designer del Wisconsin costruisce e arreda le sue abitazioni ecologiche. “Qual è l’utilità di una casa se non c’è un pianeta decente in cui costruirla?” di LARA GUSATTO
DOPO lo stile liberty, il minimalista e il cyber moderno, l’architettura scopre una nuova tendenza: il bio-design. I profumi e le forme della foresta entrano in casa e ne diventano la struttura portante. Roald Gundersen, 49 anni, è l’eco-architetto che vuole rivoluzionare l’industria delle costruzioni. Vive nel Wisconsin (Stati Uniti) dove dirige la Whole Trees Architecture and Construction.
Un’azienda specializzata nel design verde e negli edifici naturali. E’ partito dalla sua casa, dove tuttora vive con la famiglia, per arrivare ad arredare ristoranti e centri studi.
La casa a chilometri zero. La materia prima è scelta con cura: solo alberi che hanno perso la loro corteccia, piante malate, la cui eliminazione andrà a tutto vantaggio del bosco in cui crescono permettendo agli altri esemplari di ottenere più luce, aria e sostanze nutritive. Il suo lavoro è simile a quello di un giardiniere che libera il roseto dalle erbacce, solo che in questo caso, le piante infestanti invece di finire al macero vengono riutilizzate per creare abitazioni resistenti, belle e a chilometri zero.
Un pioppo in cucina. La sua prima casa, la A-frame, costata 15 mila dollari e 12 mesi di lavoro, l’ha costruita 16 anni fa con gli alberi della foresta di fronte, così come la serra solare e la Book End, una piccola dependance edificata con i “morti in piedi” come li chiama Roald, nome macabro per indicare gli olmi uccisi dai coleotteri. Ma qual è la particolarità delle case di legno costruite da questo architetto della foresta? Roald non modifica la materia prima a sua disposizione, la lascia grezza: gli alberi non vengono trattati, ma utilizzati con tanto di imperfezioni, rami e curvature.
La Terra: un ecosistema delicato. Sostenitore dello slow food, delle risorse rinnovabili e di uno stile di vita semplice e sostenibile, Roald ha una visione coincidente con quella del poeta ottocentesco Henry David Thoreau: “Qual è l’utilità di una casa se non c’è un pianeta decente in cui costruirla?” E la sensibilità nei confronti della Terra Roald l’ha sviluppata da giovanissimo guardando le immagini inviate dagli astronauti dell’Apollo 11 in occasione dello sbarco sulla Luna. A nove anni ha compreso la fragilità del nostro Pianeta, un gioiello solitario sospeso nello spazio.
Alberi al naturale. L’utilizzo dell’albero intero nelle costruzioni offre più opportunità e ha molte più qualità delle travi di legno lavorate. “Un tronco curvo può sostenere una casa – spiega Roald al New York Times – le piante hanno testato e architettato la loro struttura per 200 milioni di anni rendendo la loro capacità di sopportare il peso simile all’acciaio”. Risultato confermato da una ricerca del Dipartimento dell’agricoltura americano: “L’albero non lavorato può sostenere il 50 per cento di peso in più rispetto alle travi tagliate e piallate”. Ecco quindi nascere le case di Roald con alberi incastonati nella struttura con tronchi come colonne portanti e travi curve a sorreggere il tetto. Forti e con una temperatura ideale: da non sottovalutare le proprietà isolanti del legno che grazie ad alcuni accorgimenti come le ampie vetrate con doppi vetri leggermente inclinate per catturare i deboli raggi invernali, permettono di conservare il calore riducendo al minimo i consumi per il riscaldamento a dicembre e rendendo inutile l’aria condizionata d’estate.
Natural style al GF. Bando allo stile artificiale anche nella casa del Grande Fratello. Un albero in salotto fa tendenza e crea un’atmosfera naturale. Per questo i designer della Endemol hanno deciso di introdurre in alcune delle stanze delle piante come pilastri. L’effetto giardino d’inverno post-moderno è assicurato. Chissà che aiutino i concorrenti a sentirsi meno reclusi e creino l’illusione di una radura nel bosco.
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Estratto dalla newsletter di http://www.movisol.org/ del 10.11.2009
LaRouche: nessuna pace possibile in Medio Oriente senza sconfiggere la Dottrina Parvus britannica
Il 7 novembre Lyndon LaRouche ha ammonito che per una genuina prospettiva di pace arabo-israeliana dovrà essere sradicato il fattore del “Great-Game”, ovvero il lascito dell’accordo Sykes-Picot del 1916 tra le potenze coloniali Francia e Gran Bretagna. “I britannici”, ha spiegato LaRouche, “gestiscono [gli affari della] regione dell’Asia sud-occidentale, meridionale e centrale da oltre un secolo, sulla base della dottrina di ‘guerra/rivoluzione permanente’ di Alexander Helphand, agente della Società Fabiana. Finché non sarà sconfitto il fattore manipolativo britannico su ambo le parti del conflitto, non sarà possibile alcuna svolta”.
LaRouche ha notato che il segretario di Stato Hillary Clinton e l’inviato speciale in Medio Oriente George Mitchell si sono impegnati seriamente, ma il recente fallimento dei negoziati non lo ha colto di sorpresa. “Non si potrà fare alcuna breccia significativa perché nessuno dei protagonisti regionali, e quasi nessuno degli aspiranti pacificatori, capiscono che la politica britannica è quella di Alexander Helphand, noto anche col nome di Parvus – l’agente britannico che era alleato di Vladimir Jabotinsky [fondatore del revisionismo sionista, ndr.] e controllò Leon Trotsky per un certo periodo. Il disegno di Parvus era quello di manipolare tutte le parti del conflitto mediorientale allargato, come se fossero gladiatori nell’arena romana. Alla fine della prima guerra mondiale, i britannici e i loro rivali francesi avevano stabilito, con Sykes-Picot, una divisione coloniale permanente della regione. Quella divisione non finì con la sconfitta di Hitler e Mussolini nella seconda guerra mondiale, ma cambiò semplicemente i contorni, in particolare con la spartizione della Palestina, che creò le circostanze in cui Londra e i suoi agenti sia nel campo arabo che in quello israeliano potessero scatenare un conflitto in ogni momento”.
LaRouche ha concluso: “Finché non elimineremo questo fattore britannico della ‘guerra/rivoluzione permanente’, cacciando i britannici – esemplificati dal cosiddetto capo del Quartetto dei negoziatori, Tony Blair – dalla regione e sconfiggendo il potere di questo apparato imperiale britannico, nessuna svolta significativa verso la pace sarà remotamente possibile. Dunque, finché non si prenderà atto di questa realtà, non aspettiamoci alcun progresso reale, non nei colloqui israelo-palestinesi, non in Afghanistan, non nella crisi libanese, in quella iraniana ecc. Semplicemente, non avverrà senza affrontare, a viso aperto, questa minaccia britannica. Senza capire che Alexander Helphand era un agente britannico chiave, che svolse personalmente un ruolo centrale a favore del gruppo fabiano britannico nell’imbastire un conflitto permanente in questa larga regione del mondo, nessuna soluzione chiara potrà mai materializzarsi”.
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera
Accordo Sykes-Picot
http://it.wikipedia.org/wiki/Accordo_Sykes-Picot
L’accordo Sykes-Picot del 16 maggio 1916 fu stipulato fra i governi della Gran Bretagna e della Francia per definire segretamente, dopo la fine della prima guerra mondiale, le loro rispettive sfere d’ influenza e di controllo sul Medio Oriente, in particolar modo sui territori fra la Siria e l’Iraq.
L’accordo fu negoziato nel novembre 1915 dal diplomatico francese François Georges Picot e dal rispettivo britannico Mark Sykes. Alla Gran Bretagna fu assegnato il controllo delle zone comprendenti approssimativamente la Giordania, l’Iraq ed una piccola area intorno ad Haifa.
Alla Francia fu assegnato il controllo della zona sud-est della Turchia, la parte settentrionale dell’Iraq, la Siria ed il Libano. La zona che successivamente venne riconosciuta come Palestina doveva essere destinata ad un’ amministrazione internazionale coinvolgente la Russia e altre potenze
L’accordo
Di seguito il testo dell’accordo:
16 maggio 1916
I governi francese e britannico concordano:
Che Francia e Gran Bretagna sono pronti a riconoscere e proteggere uno Stato arabo indipendente o una confederazione di Stati arabi sotto la sovranità di un capo arabo.Che nell’area A la Francia e nell’area B la Gran Bretagna avranno la preminenza su diritti d’impresa e sui prestiti locali. Che nell’area A solo la Francia e nell’area B solo la Gran Bretagna potranno fornire consiglieri o funzionari stranieri in caso di richiesta da parte di uno Stato arabo o di una confederazione di Stati arabi.
Che nella zona blu alla Francia e nella zona rossa alla Gran Bretagna verrà permesso di istituire un controllo o un’amministrazione diretta od indiretta a loro piacimento e a seconda se ciò possa armonizzarsi con uno Stato arabo o una confederazione di Stati arabi
Che nella zona marrone potrà essere istituita un’amministrazione internazionale la cui forma dovrà essere decisa dopo essersi consultati con la Russia ed in seguito con gli altri alleati ed i rappresentanti dello sceriffo della Mecca.
Che alla Gran Bretagna verranno concessi i porti di Haifa e San Giovanni d’Acri e garantito lo sfruttamento delle acque dei fiumi Tigri ed Eufrate; per l’area B da parte sua il governo di Sua Maestà si impegna a non aprire negoziati per la cessione di Cipro a favore di potenze terze senza il previo consenso del governo francese
Che Alessandretta sarà un porto aperto nei confronti dei commerci dell’impero britannico e che non ci saranno discriminazioni a proposito di tasse portuali o strutture nei confronti di navi o merci britanniche; che ci sarà libertà di transito per le merci britanniche attraverso Alessandretta e su ferrovia attraverso la zona blu o tra l’area B e l’area A; e che non ci sarà alcuna discriminazione diretta od indiretta contro le merci britanniche sulle ferrovie o contro le merci e le navi britanniche in qualunque porto delle aree suddette. Che Haifa sarà un porto aperto nei confronti dei commerci della Francia, i suoi dominion e protettorati, e non ci saranno discriminazioni a proposito di tasse portuali o strutturi nei confronti delle navi o delle merci francesi. Che ci sarà libertà di transito per le merci francesi attraverso Haifa e su ferrovia attraverso la zona marrone qualora tali merci siano destinate o provengano dalla zona blu, dall’area A o dalla area B e non ci sarà alcuna discriminazione diretta od indiretta contro le merci francesi sulle ferrovie o contro le merci e le navi francesi in qualunque porto delle zone suddette.
Che nell’area A la ferrovia di Baghdad non verrà estesa verso sud oltre Mosul e nell’area B verso nord non oltre Samara fino al completamento della ferrovia che collega Baghdad ed Aleppo passando per la valle dell’Eufrate e successivamente previo accordo dei due governi.
Che la Gran Bretagna ha il diritto di costruire, amministrare ed essere la sola proprietaria di una ferrovia che colleghi Haifa con l’area B e che ha il diritto di trasportare truppe lungo questa linea in ogni momento. I due governi concordano sul fatto che lo scopo di questa ferrovia è di facilitare il collegamento ferroviario tra Baghdad e Haifa e concordano inoltre che, nel caso in cui problemi tecnici o le spese che si dovrebbero sostenere per realizzare questa linea di collegamento attraverso la sola zona marrone possano rendere impraticabile questo progetto, il governo francese dovrebbe essere pronto a considerare che la linea in questione potrebbe attraversare anche Polgon, Banias, Keis Marib, Salkhad e Otsda Mesmie prima di raggiungere l’area B.
Per un periodo di venti anni l’esistente tariffa doganale turca rimarrà in vigore nelle zone blu e rosse e anche nelle aree A e B e nessuna tariffa verrà aumentata né ci sarà una conversione da una tassa ad valorem a tariffe specifiche senza previo accordo tra le due potenze. Non ci saranno barriere doganali interne tra le suddette aree. Le tasse sulle merci destinati verso
l’interno verranno riscosse al porto d’entrata e consegnate all’amministrazione dell’area di destinazione.
Il governo francese non parteciperà mai a negoziati per la cessione dei suoi diritti e non cederà tali diritti sulla zona blu a qualunque potenza terza, tranne lo Stato arabo o la confederazione di Stati arabi, senza il previo consenso del governo di Sua Maestà che, da parte sua, si impegna allo stesso modo nei confronti del governo francese a proposito della zona rossa.
I governi britannico e francese, in qualità di protettori dello Stato arabo concordano che non acquisiranno e non consentiranno ad una potenza terza di acquisire possedimenti territoriali nella penisola arabica né consentiranno ad una potenza terza di installare una base navale sulla costa orientale o sulle isole del Mar Rosso. Ciò, tuttavia, non impedisce eventuali ritocchi della frontiera di Aden che si potrebbero rendere necessari come conseguenza dell’aggressione turca.
I negoziati con gli arabi a proposito dei confini dello Stato arabo continueranno a seguire gli stessi canali di sempre da parte delle due potenze
Alcune misure per controllare l’importazione di armi all’interno dei territori arabi devono essere analizzate dai due governi.
Ho quindi l’onore di affermare che, al fine di completare questo accordo, il governo di Sua Maestà proporrà al governo russo un scambio di note analogo a quello scambiate tra quest’ultimo ed il governo di Vostra Eccellenza il 26 aprile scorso.
Alcune copie di queste note verranno inviate a Vostra Eccellenza al più presto.
Mi permetto inoltre di ricordare a Vostra Eccellenza che la conclusione di questo accordo solleva, per considerazioni pratiche, la questione delle rivendicazioni dell’Italia a partecipare alla spartizione o alla risistemazione della Turchia in Asia così come risulta dall’articolo 9 dell’accordo del 26 aprile tra l’Italia e gli alleati.
Il governo di Sua Maestà crede che il governo giapponese dovrebbe essere informato dell’accordo appena concluso.
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Un ministero franco-tedesco a Parigi, l’ultima trovata per rafforzare l’asse europeo 11.10.2009
Un ministero franco-tedesco a Parigi è l’ultima idea partorita dal prolifico Nicolas Sarkozy con un obiettivo: rafforzare con una decisione altamente simbolica l’asse tra i due paesi, il più forte nell’Unione europea. Finora le proposte a Berlino di coordinare le politiche industriali non ha dato grandi risultati. Sul piano delle politiche europee, però, la coppia franco-tedesca è piuttosto unita quasi su tutto, specialmente quando si tratta di lavorare ai fianchi l’Antitrust Ue per ottenere maggiore flessibilità e clemenza sui dossier nazionali bollenti (dall’industria automobilistica alle banche da salvare). Ultimamente, Sarkozy ha annunciato che sulle candidature per i vertici Ue Francia e Germania procederanno con una sola voce. Sono gesti che pesano e hanno molta importanza soprattutto in una Unione a 27 paesi in cui decidere è sempre molto complicato. C’è un rischio: sarebbe sbagliata, un vero azzardo politico, la convinzione che il proprio interesse nazionale (della coppia franco-tedesca, si intende) coincida sempre e comunque con l’interesse generale.
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Sarebbe la prima volta di un leader Usa nelle città devastate dall’atomica. E i sindaci aprono: «E’ il benvenuto» 10.11.2009
TOKYO
Barack Obama ha espresso il desiderio di visitare durante il suo mandato Hiroshima e Nagasaki, le due città giapponesi distrutte da bombe atomiche americane. Nessun presidente degli Stati Uniti in carica lo ha mai fatto prima. Durante un’intervista trasmessa dalla televisione pubblica Nhk, Obama ha dichiarato che non avrà «purtroppo la possibilità» di recarsi in queste due città durante la sua breve visita in Giappone, venerdì e sabato.
«Il ricordo di Hiroshima e Nagasaki è ancorato nella memoria del mondo e sarei onorato di avere l’occasione di visitare queste città durante la mia presidenza», ha detto. L’esercito statunitense sganciò la prima bomba atomica della storia su Hiroshima (ovest) il 6 agosto 1945, quindi un secondo ordigno tre giorni dopo su Nagasaki (sudovest). Il Giappone ha annunciato la sua resa il 15 agosto. Complessivamente 140mila morti furono accertati a Hiroshima e 75mila a Nagasaki.
Gli Stati Uniti non hanno mai presentato le loro scuse per le vittime innocenti e nessun presidente americano in carica si è recato in queste città. Jimmy Carter ha visitato Hiroshima ma dopo aver lasciato la Casa Bianca. Secondo un recente sondaggio, sei americani su dieci continuano a pensare che il loro Paese abbia avuto ragione a sganciare bombe atomiche sul Giappone.
Durante un discorso ad aprile a Praga, Obama ha invocato un mondo denuclearizzato, suscitando un’ondata di speranza fra gli abitanti di Hiroshima e Nagasaki, che lo hanno invitato a visitare la loro città. Secondo gli organi di informazione, il presidente americano potrebbe effettuare questo viaggio a margine del vertice della cooperazione economica Asia-Pacifico (Apec) che si terrà alla fine dell’anno prossimo a Yokohama (sud di Tokyo).
Hiroshima e Nagasaki danno il benvenuto «dal più profondo del cuore» al proposito espresso da Barack Obama di visitare le due città vittime dell’olocausto nucleare durante il suo mandato. In una nota congiunta, i sindaci di Hiroshima, Tadatoshi Akiba, e di Nagasaki, Tomihisa Tagami, auspicano che «la storica visita possa avvenire il più presto possibile».
«Diamo il benvenuto, dal più profondo del cuore, alle parole del presidente Obama. Hiroshima e Nagasaki – commentano i due primi cittadini – hanno finora sempre sperato che potesse fare la sua visita e vedere la realtà delle zone bombardate». L’auspicio è che il presidente americano «metta in campo la sua leadership per un mondo senza armi nucleari». Le due città nutrono «la speranza che la visita di Obama si possa realizzare il più presto possibile, perchè siamo certi che facendo questa visita storica potrà dare nuova luce allo spirito di riconciliazione delle persone sopravvissute, realizzando il grande passo per creare un futuro migliore».
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200911articoli/49262girata.asp
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Dalla newsletter di http://www.caffeeuropa.it/ dell’11.11.2009
“Arrestato a Parma, muore in cella. Dopo Cucchi (ora c’è un testimone, ma per me, potrebbe trattarsi di una manipolazione), un’altra inchiesta per omicidio”.
“Obama si appresta a fare in Asia nel prossimo week end: Giappone, Singapore, Cina e Corea del Nord sono le tappe di quello che viene considerato il viaggio più difficile dall’inizio del suo mandato. A Pechino avrà di fronte il secondo inquinatore del mondo, dopo gli Stati Uniti. A Tokio vedrà il nuovo leader che più si impegnato a ridurre le emissioni. Dal loro incontro dipende il destino del vertice sul clima di Copenhagen. All’86 per cento dei cinesi la visita non interessa e al 48 per cento Obama non piace. 1700 sono i miliardi di dollari di obbligazioni del Tesoro Usa nelle mani dei cinesi.”
“Obama parte per l’Asia anche per liberare Aung San Su Kyi”. Sul tavolo c’è il lancio, nel 2010, dell’Asean International Fund, cartello che dovrebbe fare dei dieci Paesi del sudest asiatico, tra i quali la Birmania, un player commerciale unico. Obama incontrerà pertanto il premier birmano: e si lascia trapelare l’intenzione di permettere alla leader dell’opposizione di partecipare alle elezioni del prossimo anno.
“Il ritardo su Kyoto costa 500 miliardi di dollari l’anno”. Le stime sono della agenzia internazionale per l’energia. Secondo l’Agenzia la mancanza di un accordo sul climate change per l’UE si tradurrà in un raddoppio della bolletta energetica. Per cui, se riusciremo a stabilizzare le emissioni di CO2, non soltanto eviteremo danni all’ambiente, ma potremo contenere i consumi di greggio.”
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evasione, immigrati, lavoro nero di Kaldor
Italiani clandestini e contribuenti stranieri 9/11/2009
Stranieri e conti pubblici: una ricerca Isae conferma che il rapporto dare/avere è ancora molto sbilanciato a sfavore degli immigrati
1. Qualche tempo fa, una mia amica, restauratrice, mi raccontava di un collega di simpatie leghiste che, durante il lavoro, si lamentava di come gli immigrati rubassero il lavoro a noi italiani, di come a loro andassero tutti i servizi pubblici finanziati con le sue tasse, insomma, il solito campionario di luoghi comuni. Il bello è che questo restauratore lavora in completa clandestinità: il suo laboratorio non è sulla strada e lui non esiste né per l’Inps, né per l’Inail, né, tantomeno, per il fisco. La mia amica, d’altra parte, che tasse e contributi li pagava, dovette, poco dopo la conversazione, chiudere l’attività perché non era in grado di reggere la concorrenza di quelli che lavorano in nero.
Di storie analoghe oggi se ne leggono parecchie sui giornali. Ma con una piccola differenza: l’artigiano leghista clandestino viene regolarmente sostituito dall’immigrato, nordafricano se lavora nei campi, cinese se nell’industria, romeno in edilizia. Durante una lunga nottata in treno giuro di aver ascoltato un “artigiano” delle false griffe nei bassi napoletani scagliarsi, invocando legalità e repressione, contro i cinesi che stanno rilevando i laboratori partenopei e vi producono le stesse borse e cinture a prezzi ancora più bassi dei locali.
Insomma, la causa delle difficoltà economiche degli italiani, tutti a parole lavoratori indefessi e ligi a leggi e norme fiscali, sarebbe da ritrovare negli immigrati, generalmente clandestini e privi di senso civico, che creerebbero economia sommersa, così sottraendo lavoro e gettando sul lastrico imprese e lavoratori locali, costretti ad adeguarsi per sopravvivere.
Basterebbe richiamare il carattere endemico del sommerso nell’economia italiana per dimostrare quanto strumentale sia questa tesi. D’altra parte, il fatto che siano spesso i segmenti del mondo del lavoro e delle imprese che già operavano nell’illegalità a lamentarsi di più dell’aumentata competizione segnala un disagio sociale al quale la destra è finora riuscita a dare rappresentanza, indicando appunto nell’immigrato la causa dei problemi, mentre la sinistra balbetta spesso risposte di scarso momento, quando non, ahimè, scimmiottanti le tesi del campo avverso.
2. Eppure, gli elementi per un’analisi e per una politica meno prona al razzismo nostrano si moltiplicano. Da ultimo, la recente ricerca ISAE Effetti dell’immigrazione sulla finanza pubblica e privata in Italia, della quale si può trovare sintesi nel nuovo rapporto Politiche pubbliche e redistribuzione, presentato qualche giorno fa nella sede dell’Istituto a Roma. Si tratta di un lavoro che cerca da un lato di ricostruire su dati di bilancio i rapporti economici di dare e avere degli immigrati con l’amministrazione italiana; dall’altro di studiare sul campo l’utilizzo dei servizi sociali pubblici e dei servizi finanziari privati, attraverso un’indagine basata su interviste a 800 stranieri che vivono nella capitale.
Per quanto riguarda i rapporti fra immigrati e bilancio pubblico, i ricercatori ISAE confermano quanto già emerso da altre indagini (cfr. ad esempio il capitolo di Grazia Naletto nel Rapporto sullo stato sociale 2008 o i rapporti INPS 2008 e 2009 su Rapporti fra immigrati e previdenza): a oggi, il saldo del dare e dell’avere è largamente positivo per lo Stato italiano. Di fatto, i 3,5 milioni di stranieri regolarmente presenti in Italia nel 2008 pagano annualmente 4,6 miliardi di contributi previdenziali e ricevono pensioni per 1,8 miliardi (peraltro erogate in massima parte a cittadini italiani nati all’estero); quasi non godono di ammortizzatori sociali (400 milioni la spesa); essendo generalmente giovani e sani, incidono relativamente poco anche sul sistema sanitario (600 milioni per ricoveri ospedalieri, comprese le maternità), senza contare che l’Istat ha segnalato che, quando si ammalano, tendono a tornare al loro paese. Solo nell’ambito dell’istruzione si segnala una spesa di un qualche rilievo (2,4 miliardi annui), a fronte di una presenza di studenti stranieri in forte crescita (0,5 milioni, pari al 5,6% del totale). D’altra parte, se l’INPS ha evidenziato come i redditi degli immigrati siano bassi (5.000 euro annui i domestici, 11.500 i dipendenti, 13.000 gli autonomi), sia perché operano nei settori più deboli del mercato del lavoro che perché molti dichiarano il minimo possibile, vero è anche che, complessivamente, le entrate fiscale generate da cittadini stranieri sono di rilevante ammontare: 4,5 miliardi di euro, il che porta il totale delle entrate fiscali e contributive ad oltre 9 miliardi, assicurando al bilancio pubblico incassi ben superiori alle spese.
A fronte di un significativo contributo economico da parte degli immigrati, le interviste evidenziano invece un quadro di notevole precarietà di vita e scarsissima integrazione, tanto nei rapporti col pubblico che col sistema finanziario. La mediana dei redditi mensili dei nuclei familiari intervistati non raggiunge mille euro, quasi il 50% non vive né in casa di proprietà né in affitto, bensì presso altri nuclei familiari o presso il datore di lavoro, più del 50% vorrebbe tornare nel paese di origine. Si conferma che i servizi pubblici più utilizzati sono quelli scolastici, mentre un terzo degli intervistati non ha avuto contatti col sistema sanitario neanche a livello di scelta del medico di famiglia. Praticamente nessuno riceve trasferimenti pubblici, mentre solo il 10%-15% ha seguito corsi di lingue o si è rivolto ai servizi informativi degli enti locali. Solo poco più della metà degli stranieri intervistati ha rapporti col sistema bancario (incluse le Poste) e, anche quando bancarizzato, lo straniero fruisce solo dei servizi di base: l’utilizzo di carte bancomat o di credito è raro, anche all’interno della minoranza che ne possiede una, mentre pochi chiedono o ottengono finanziamenti, molto più diffuso essendo la richiesta di prestiti a parenti e amici. Il sistema bancario e postale non è utilizzato neanche per trasferire le rimesse alle famiglie nei paesi di origine, essendo preferiti altri strumenti di più facile accesso, anche se più costosi e rischiosi.
Complessivamente, se varie sono le tipologie di immigrati e delle loro famiglie, emerge però una presenza molto significativa di soggetti quasi del tutto esclusi, con rapporti con l’Amministrazione e col sistema creditizio nulli o ridotti al minimo (quanto serve ad assicurarsi il permesso di soggiorno, l’occasionale corso di italiano), verosimilmente poco coscienti dei propri diritti e dei servizi di cui potrebbero beneficiare. Da questo punto, la maternità e la scuola per i figli sono forse le uniche vere occasioni di contatto con una realtà istituzionale che altrimenti tende a respingere.
3. Se questa è la realtà che va emergendo, vale allora la pena di segnalare tre capisaldi di quella che potrebbe essere una politica di sinistra sul tema.
In primo luogo, la legalità, non dell’immigrato, quanto del lavoro e dell’impresa. Il fatto che l’impresa sommersa o il lavoratore in nero siano italiani o stranieri non è in alcun modo rilevante nel determinare la natura sleale della competizione cui sottopongono coloro che operano nella legalità. Da questo punto di vista, la lotta all’immigrazione clandestina andrebbe semplicemente e in toto sostituita dalla lotta al lavoro nero e all’economia sommersa. Tanto più che non ha senso combattere gli immigrati clandestini quando sono le stesse imprese e famiglie italiane a cercarli. Meglio allora rafforzare, anziché smantellare (come si sta facendo), i controlli fiscali e degli ispettori del lavoro, e chiedere alle imprese un impegno concreto. Invero, quando si parla, gli amici di Confindustria sono veementi nel rivendicare che le imprese sarebbero le prime ad essere penalizzate dal nero; ma, all’atto pratico, essi fanno poco, perché, con l’affermarsi dei meccanismi di subfornitura, anche le imprese di maggiori dimensioni hanno trovato il modo di approfittare delle riduzioni di costo originate dall’economia sommersa. Degli stessi benefici, peraltro, usufruiscono le stesse amministrazioni pubbliche, sia direttamente (riduzione del costo degli appalti pubblici, in totale assenza di controlli), sia indirettamente (possibilità di non erogare servizi pubblici costosi – si pensi alla non autosufficienza – delegandoli alle famiglie che assumono badanti per buona parte in nero).
In secondo luogo, preso atto che l’utilizzo da parte degli stranieri dei servizi sociali e del welfare italiano è ancora limitato, se non altro per motivi anagrafici e di scarsa integrazione, è opportuno chiedersi se, in quegli ambiti ove una qualche competizione fra italiani e stranieri va manifestandosi, non vada evidenziata più la drammatica insufficienza dell’offerta pubblica che la “voracità” della domanda straniera. Ciò è talmente evidente per quanto riguarda edilizia popolare e asili nido, ambiti nei quali siamo agli ultimi posti fra i cosiddetti paesi sviluppati, da non richiedere ulteriori commenti. Ma anche in un ambito nel quale l’offerta pubblica sembrava adeguata, quale quello dell’istruzione primaria, viene da chiedersi se i tagli introdotti dalla signora Gelmini non finiranno per fomentare una lotta fra i più e i meno poveri di cui proprio non vi sarebbe bisogno. Insomma, è forse il caso di prendere atto che è preferibile una strategia volta a garantire una adeguata offerta di servizi pubblici (su alcuni dei quali l’Italia si trova peraltro a disattendere precisi impegni assunti in sede europea) all’introdurre bonus per pelle chiara e sangue italiano nelle graduatorie.
Infine, dobbiamo essere coscienti che il modo con cui stiamo gestendo l’immigrazione non solo penalizza gli stessi immigrati, ma fa anche perdere all’Italia un’opportunità. E’ noto che a emigrare sono spesso i più intraprendenti e acculturati. Disporremmo dunque di risorse umane che, se valorizzate e integrate nel nostro sistema, potrebbero dare un fondamentale contributo alla vita economica e culturale del paese. Invece ci siamo fatti regola di vedere nell’immigrato solo lavoro bruto a basso costo, che, anche quando regolare, cerchiamo di taglieggiare in qualche modo, fra bolli, tasse di rinnovo del permesso di soggiorno e contributi pensionistici arretrati nelle regolarizzazioni, che cercheremo in tutti i modi di non restituire mai più, secondo una logica di rapina non dissimile da quella degli scafisti che portano i clandestini. Di fatto, con le dovute eccezioni, siamo un paese che non integra e dal quale molti degli stessi immigrati, soprattutto quelli che più potrebbero dare al paese, scappano, se appena possono, per raggiungere altri paesi, più che contenti di offrire, ai “migliori” e selezionati la prospettiva di una normale vita e integrazione nella società.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Italiani-clandestini-e-contribuenti-stranieri
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Come licenziare 9.000 persone senza che nessuno se ne accorga 10.11.2009
Link al video: http://www.youtube.com/watch?v=pJaZWwXLwfM
L’Italia non è mai andata bene così come adesso secondo i leccaculo di regime e per lo psiconano più ricco del mondo. I nostri stipendi sono i più bassi d’Europa e licenziamo ogni giorno che è una bellezza. Pubblico un appello dei lavoratori di AGILE.
“E’ iniziato il licenziamento dei primi 1200 lavoratori di OLIVETTI-GETRONICS-BULL-EUTELIA-NOICOM-EDISONTEL TUTTI CONFLUITI in: AGILE s.r.l. ora Gruppo Omega. Agile ex Eutelia è stata svuotata di ogni bene mobile ed immobile. Agile ex Eutelia è stata condotta con maestria alla perdita di commesse e clienti.
Il gruppo Omega continua la sua opera di {blocked}er di aziende in crisi, l’ultima è Phonemedia 6.600 dipendenti che subirà a breve la stessa sorte. Siamo una realtà di quasi 10.000 dipendenti e considerando che ognuno di noi ha una famiglia,le persone coinvolte sono circa 40.000 eppure nessuno parla di noi. Abbiamo bisogno di visibilità mediatica, malgrado le nostre manifestazioni nelle maggiori città italiane (Roma – Siena Montepaschi – Milano – Torino –Ivrea – Bari – Napoli – Arezzo – ) e che alcuni di noi sono saliti sui TETTI, altri si sono INCATENATI a Roma in piazza Barberini, nessun giornale a tiratura nazionale si è occupato di noi ad eccezione dei TG REGIONALI e Dal 4 novembre le nostre principali sedi sono PRESIDIATE con assemblee permanenti”.
http://www.beppegrillo.it/2009/11/come_licenziare.html?s=n2009-11-10
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11/11/2009 – CLIMATOLOGIA. RICERCA DI UN TEAM INTERNAZIONALE: IL BOOM DI CO2 FECE «BOLLIRE» I MARI E NASCERE GIUNGLE RIGOGLIOSE
Quando i Tropici erano al Polo
“L’Antartide di 50 milioni di anni fa è l’emblema della Terra del futuro”
GIANNI PARRINI
Ieri, oggi, domani. Il riscaldamento globale è uno dei problemi impellenti per governi e scienziati, ma, studiando la storia del pianeta, si scopre che qualcosa di analogo – e di peggiore – è già successo in altre ere geologiche: per esempio tra 65 e 35 milioni di anni fa, dopo l’estinzione dei dinosauri, all’inizio del trionfo dei mammiferi e appena prima che nell’Antartide iniziassero a formarsi le regioni ghiacciate.
Questo intervallo di tempo, lungo 30 milioni di anni, è stato denominato «Greenhouse world» e fu segnato da un’elevata presenza di gas serra e da un clima molto più bollente dell’attuale. Adesso un team di studiosi dell’università di Utrecht, del Royal Netherlands Institute for Sea Research e dell’Università della California ha scoperto un fatto sorprendente: le temperature dei mari che bagnavano il circolo polare antartico superavano i 30 gradi e che le differenze rispetto alle acque della fascia equatoriale erano minime.
Questi dati derivano dall’analisi di alcuni sedimenti recuperati dal fondo dell’Oceano Indiano, vicino alla costa orientale della Tasmania, un’area che durante il primo Paleogene era vicina all’Antartico. Lo studio, pubblicato su «Nature», è un significativo passo avanti: fino a oggi, infatti, le temperature dei mari che in un tempo remoto toccavano il Polo Sud erano un mistero. «Sì, è vero – spiega il paleoclimatologo Peter Bijl, coordinatore della ricerca -: abbiamo dato il nostro contributo alla storia. Tuttavia non siamo ancora in grado di spiegare il perché. Alcuni meccanismi climatici di retroazione, probabile causa del fenomeno, oggi non sono più attivi e di conseguenza non siamo in grado di identificarli. Sappiamo però, che a quell’epoca l’Antartide era una regione umida e calda, con una costa ricoperta da foreste verdi e temperate, e bagnata da acque tropicali: probabilmente un magnifico posto in cui vivere».
L’apparizione di questo Eden fu dovuta proprio a un incremento dell’effetto serra, in parte causato da una maggiore attività vulcanica, che liberò nell’atmosfera grandi quantità di CO2. Avvenne in particolare tra il Paleocene (65-55 milioni di anni fa) e l’Eocene (55-33), quando la temperatura aumentò di circa 5 gradi in un tempo considerato rapidissimo, meno di 10 mila anni. E’ un periodo indicato con l’acronimo «Petm»: Paleocene-Eocene Thermal Maximum. «Scoprire le quantità di anidride carbonica all’epoca del “Greenhouse world” è difficile – spiega Bijl -. Sappiamo, però, che i livelli erano molto elevati: si stima un minimo di 1000 ppmv (parti per milione in volume), 3 volte di più di oggi, e un massimo di 3 mila, una cifra a dir poco inimmaginabile».
Elementi non trascurabili, visto che, secondo alcuni studiosi, il «Greenhouse world», e in particolare il «Petm», sono un esempio lampante di riscaldamento globale indotto dalla CO2. Di conseguenza, il periodo viene considerato l’emblema di ciò che potrebbe accadere sulla Terra nei prossimi secoli in seguito al boom dell’inquinamento. L’impatto antropico, infatti, rischia di riportare le lancette indietro, a 50 milioni di anni fa, in una sorta di eterno ritorno dell’uguale.
«Investighiamo un episodio della storia della Terra che mostra livelli di CO2 simili a quelli previsti in futuro dalle simulazioni – spiega Bijl -. Sappiamo che, poi, ci sono voluti milioni di anni perché le quantità di anidride carbonica del “Greenhouse world” si abbassassero. Così, il raffreddamento ha portato alla formazione di ampie regioni ghiacciate ai poli. Ma ora l’umanità sta rimettendo in circolo larga parte della CO2 “sedimentata” nel corso del tempo. Con l’aggravante che tutto avviene a una velocità elevata. Al momento il sistema climatico non ha ancora risposto in pieno a questa modificazione e, quindi, non siamo in grado di dire con certezza che cosa avverrà. Sappiamo solo che più CO2 emettiamo e maggiori cambiamenti climatici dovremo aspettarci».
La ricerca di Bijl, però, getta dubbi anche sull’attendibilità dei modelli predittivi dell’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, il foro nato sotto l’egida dell’Onu con il compito di studiare il riscaldamento globale. «I modelli usati per analizzare il futuro possono essere utilizzati anche per ricostruire il clima del passato. E’ stato fatto anche per il “Greenhouse world”. Il problema, però, è che questi modelli non hanno riscontrato le alte temperature dei mari polari che, invece, abbiamo desunto. Di conseguenza, come possiamo essere sicuri della loro attendibilità, se sono inadeguati a ricostruire ciò che è avvenuto milioni di danni fa?».
Ecco perché i cambiamenti climatici, secondo il team, potrebbero essere più gravi delle peggiori previsioni dell’Ipcc. «Quando il clima avrà completamente “reagito” al boom di CO2, i poli potrebbero essere più caldi di quanto finora ipotizzato», conclude Bijl. Con apocalittici effetti sullo scioglimento dei ghiacci e sull’innalzamento dei mari.
Chi è Peter Bijl Paleoclimatologo
RUOLO: E’ PROFESSORE DI PALEOCLIMATOLOGIA ALLA UTRECHT UNIVERSITY (OLANDA)
LO STUDIO: WWW.NATURE. COM/NATURE/JOURNAL/ V461/N7265/ABS/ NATURE08399.HTML
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Eyal Sivan ritira il suo ultimo film dal festival di Parigi in segno di opposizione alla politica israeliana di apartheid 28.10.2009
Un gran gesto di Eyal Sivan regista israeliano e co autore con Michel Khleifi di Route 181 e autore di molti film tra cui ricordiamo Lo Specialista sul processo a Eichmann. Una lettera lucida di grande spessore, ferma nel denunciare da un lato l’uso strumentale da parte israeliana della produzione culturale cinematografica per dimostrare l’esistenza di una democrazia in Israele; dall’altro l’opportunismo e il silenzio complice dei cineasti israeliani che, pur di ottenere finanziamenti pubblici, si guardano bene dal denunciare l’occupazione e i crimini di guerra a Gaza e in Libano. Grazie Eyal Sivan
Mme. Laurence Briot & Mme. Chantal Gabriel
Direzione del programma Forum des images
2, rue du Cinéma 75045 Paris Cedex 01 – Francia
Londra 6 Ottobre 2009
Care Laurence Briot e Chantal Gabriel
Vi scrivo in seguito alla richiesta che avete indirizzato ai miei produttori, Trabelsi e Eskenazi, di programmare il mio ultimo film “Jaffa, La meccanica del’arancia” nella retrospettiva ‘Tel-Aviv, il Paradosso’ da voi organizzata il mese prossimo al Forum des Images, nel quadro della celebrazione del centenario della città di Tel-Aviv.
Innanzitutto voglio ringraziarvi per la vostra offerta di partecipare a questo evento e vi chiedo di scusare il mio ritardo nel rispondere alle vostre calorose sollecitazioni. Sono sinceramente onorato che abbiate pensato di programmare il mio film “Jaffa, La meccanica dell’arancia” per chiudere la vostra retrospettiva. Tuttavia, dopo matura riflessione, ho deciso di declinare il vostro invito. Le ragioni di questa decisione sono complesse e di natura politica, e per questo vorrei, se siete d’accordo, spiegarvele dettagliatamente.
Come probabilmente sapete, l’insieme del mio lavoro cinematografico – più di 15 film – ha principalmente per oggetto la società israeliana e il conflitto israelo-palestinese. Opponendomi alla politica israeliana nei confronti del popolo palestinese, mi sono sempre sforzato di agire in modo indipendente affinchè non vi sia nessuna ambiguità sul fatto che io non rappresento la “democrazia (ebraica) israeliana”. Per questo, dall’inizio della mia carriera cinematografica, più di 20 anni fa, non ho mai beneficiato di alcun aiuto o di alcun supporto di una qualsiasi istituzione ufficiale israeliana. Ho sempre agito in modo di evitare che il mio lavoro possa essere strumentalizzato e rivendicato come una prova dell’atteggiamento liberale d’Israele; una libertà di espressione e una tolleranza che l’autorità israeliana accorda solo, ovviamente, a critiche ebraiche israeliane.
La politica razzista e fascista del governo israeliano e il silenzio complice della maggior parte dei suoi ambienti culturali durante la recente carneficina operata a Gaza come di fronte alla continua occupazione, alle violazioni dei diritti umani e alle molteplici discriminazioni nei confronti dei Palestinesi sotto occupazione o dei cittadini palestinesi dello Stato israeliano – tutte queste ragioni giustificano il mio mantenere le distanze rispetto ad ogni avvenimento che potrebbe essere interpretato come una celebrazione del successo culturale in Israele o una garanzia della normalità del modo di vivere israeliano. Poiché la vostra retrospettiva fa parte della campagna internazionale di celebrazione del centenario di Tel-Aviv e gode, a questo titolo, del sostegno del governo israeliano, non posso che declinare il vostro invito. D’altra parte, considerando gli attacchi offensivi, umilianti e continui di cui il mio lavoro è oggetto, in Francia come in Israele, e i rarissimi israeliani che si sono espressi per difendermi e manifestare la loro sincera solidarietà (non tengo conto delle dichiarazioni di principio in favore del privilegio egemonico della “libertà d’espressione”), non mi è possibile sentirmi solidale con un tale gruppo.
Non posso essere associato ad una retrospettiva che celebra artisti e cineasti che godono dì una posizione di privilegio assoluto e di una totale immunità, ma che hanno scelto di tacere quando crimini di guerra venivano commessi in Libano o a Gaza e che continuano ad evitare di esprimersi chiaramente sulla brutale repressione della popolazione palestinese, sul blocco di 3 anni e la chiusura di oltre un milione di persone nella Striscia di Gaza.
Ci tengo a smarcarmi da quei miei colleghi che utilizzano in modo opportunista, perfino cinico, il conflitto e l’occupazione come sfondo dei loro lavori cinematografici e come rappresentazione neo-esotica del nostro paese – pratiche che possono spiegare il loro successo in Occidente e in particolare in Francia – ed io rifiuto di essere associato a loro nel contesto della vostra manifestazione.
Anche se il vostro invito aveva suscitato in me qualche esitazione, questa è stata spazzata via dalla lettura, una quindicina di giorni fa, di un articolo firmato da Ariel Schweitzer, l’organizzatore della vostra retrospettiva, e pubblicato su Le Monde. In quest’articolo, che si oppone al boicottaggio culturale dell’establishment israeliano, egli dichiara: “Delle male lingue diranno che questa politica culturale serve da alibi, mirando a dare del paese l’immagine di una democrazia illuminata, una posizione che maschera il suo vero atteggiamento repressivo verso i Palestinesi. Ammettiamolo. Ma io preferisco francamente questa politica culturale alla situazione esistente in molti paesi della regione dove non si possono proprio fare film politici e certo non con l’aiuto dello Stato”. Su questo punto, devo ringraziare il vostro organizzatore M. Schweitzer per la sua ingenua sincerità e per le sue argomentazioni settarie che mi hanno permesso di articolare le ragioni per cui preferisco mantenere la distanza rispetto alla vostra retrospettiva e ad altri eventi simili. Infatti, come conferma M. Schweitzer, si tratta, in effetti, di celebrazioni della politica culturale israeliana e di una difesa dell’ideologia del ‘male minore’.
Sia la mia storia e la mia tradizione ebraiche che le mie convinzioni e la mia etica personali mi obbligano, nelle circostanze politiche attuali – mentre le autorità delle democrazie occidentali e le loro intellighenzie hanno fatto la scelta di stare al fianco della politica criminale israeliana – a oppormi pubblicamente con questo atto fermo e non-violento all’attuale regime di apartheid che esiste oggi in Israele.
Termino riprendendo le parole del mio collega ed amico, il famoso regista palestinese Michel Khleifi, che non cessa di ricordarci che la sfida che dobbiamo affrontare, in quanto artisti e intellettuali, è quella di proseguire i nostri lavori non GRAZIE alla democrazia israeliana, ma MALGRADO essa.
Per questo, sempre in modo non-violento, continuerò a oppormi, e a incitare i miei colleghi a fare lo stesso, contro il regime israeliano di apartheid e contro il “trattamento speciale” riservato nelle democrazie occidentali alla cultura israeliana ufficiale di opposizione.
Augurandomi che accettiate e comprendiate la mia posizione e sperando di avere l’opportunità di mostrare il mio lavoro in altre circonstanze, con sincera gratitudine e rispetto,
Eyal Sivan
Filmmaker Research Professor in Media Production School of Humanities and Social Sciences
University of East London (UEL) United-Kingdom
traduzione di Marianita
http://zeitun.ning.com/profiles/blogs/eyal-sivan-ritira-il-suo
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“Dall’inferno alla bellezza” – Speciale Che tempo che fa con Roberto Saviano
…Che tempo che fa torna in prima serata, mercoledì 11 novembre 2009, dalle h. 21.10 alle h. 23.30, su Rai Tre, con il primo speciale di questa settima edizione del programma: Dall’inferno alla bellezza di e con Roberto Saviano. Due ore con il trentenne scrittore napoletano, autore del best-seller Gomorra, tradotto in 50 paesi, caso letterario in tutto il mondo: con tre milioni e mezzo di copie diffuse dall’Australia all’Islanda, dalla Cina all’Arabia Saudita, ha ricevuto decine di premi in Italia e all’estero e da Gomorra è stato tratto uno spettacolo teatrale, insignito con gli Olimpici del Teatro 2008 e un film per la regia di Matteo Garrone, candidato per l’Italia agli Oscar, candidato ai Golden Globes, Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes e miglior film all’ European Film Awards 2008 oltre che Hessische Filmpreis alla Fiera del Libro di Francoforte come miglior adattamento cinematografico di un’opera letteraria.
Dello Speciale Dall’inferno alla bellezza , dice Roberto Saviano: Il titolo della serata vuole dire una cosa semplice, vuole ricordare che da un lato esistono la libertà e la bellezza necessarie per chi scrive e per chi vive, dall’altro esiste il loro contrario, la loro negazione: l’inferno che sembra continuamente prevalere. E’ possibile che ancora oggi, l’Uomo, nella sua accezione più ampia, debba passare necessariamente attraverso l’inferno per raggiungere la bellezza?
Al centro dello Speciale, ancora una volta, la forza della parola non nascosta né perduta, la parola scritta o detta che dà la possibilità di esistere e che vive attraverso le storie: Ken Saro-Wiva, autore nigeriano, impiccato a Lagos per la sua tenace opposizione alle compagnie petrolifere che spogliano di risorse e ricchezze la sua terra, lasciando solo povertà ed inquinamento; Anna Politkovskaja, uccisa perché non c’era altro modo per fermare la sua implacabile testimonianza sulla crudele guerra in Cecenia; Varlam T.Salamov che dai gulag siberiani è riuscito a fare arrivare i suoi scritti non svendendo l’anima né la dignità; Miriam Makeba, Mama Africa, la voce che ha cantato la libertà di un continente, morta a Castel Volturno dopo un concerto per ricordare sei fratelli africani uccisi dalla camorra.Tutto questo è Dall’infernoalla bellezza: ma – come scriveva Albert Camus – l’inferno ha un tempo solo, la vita un giorno ricomincia.
Dal 13 ottobre 2006, Roberto Saviano vive sotto scorta: l’11 novembre saranno esattamente 3 anni e 29 giorni di vita negata, 1125 giorni, 27.000 ore di vita blindata.
http://www.robertosaviano.it/documenti/10063
http://www.youtube.com/view_play_list?p=A6FBF790568D9DEF
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“NEL MUNICIPIO XI, DA OGGI, TUTTI I CITTADINI ROMANI POTRANNO DEPOSITARE IL PROPRIO TESTAMENTO BIOLOGICO” 9.11.2009
Comunicato stampa dell’Associazione LiberaUscita
La Giunta del Municipio Roma XI già il 21 maggio scorso ha istituito il Registro dei testamenti biologici e delle disposizioni di fine vita. A partire da questa data, ogni cittadino residente nel Municipio XI ha avuto la possibilità di depositare presso gli uffici anagrafici del Municipio, le proprie decisioni in ordine alla volontà o non volontà ad essere sottoposto a trattamento sanitario, inclusa l’idratazione e l’alimentazione forzate, nella eventualità di trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti. Con una ulteriore innovazione il Registro del Municipio XI ha previsto, oltre al testamento biologico, anche la possibilità di depositare le proprie volontà sulle forme (civili o religiose) di esequie funebri, sulla volontà in punto di morte di avvalersi o meno dell’assistenza religiosa, sulla volontà o meno di utilizzare il corpo per la donazione degli organi, sulla volontà o meno di essere cremati.
Ora, a partire da oggi, attraverso la modifica apportata alla precedente delibera, non solo i residenti locali, ma tutti i cittadini residenti nel Comune di Roma potranno depositare le proprie volontà presso il Municipio XI – dichiarano Andrea Catarci, Presidente del Municipio Roma XI e Andrea Beccari, Assessore Politiche Sociali del Municipio Roma XI.
Mentre il Parlamento discute la legge indecorosa licenziata dal Senato e approdata alla Camera, una legge contro e non per la libertà di scelta del cittadino dal momento che: riduce il testamento ad una semplice espressione di orientamento non vincolante per il medico, esclude l’idratazione e l’alimentazione forzati dal testamento e trasforma la figura del fiduciario in una sorta di secondino del testatore; il Municipio XI rilancia e mette a disposizione di tutta la cittadinanza romana il Registro dei Testamenti Biologici e di fine vita.
E’ importantissimo dare la possibilità al maggior numero di cittadini di depositare le proprie volontà – concludono Catarci e Beccari – prima che una nuova legge, voluta più dalle gerarchie ecclesiali e certamente in contrasto con la volontà popolare, espressamente anti-Costituzionale, limiti le volontà espresse dei cittadini e limiti la libertà di ogni individuo di autodeterminare il proprio destino.
LiberaUscita. Associazione nazionale laica e apartitica per la legalizzazione del testamento biologico e la depenalizzazione dell’eutanasia
Via Magenta, 24 – 00185 Roma
sito web: www.liberauscita.it
email: info@liberauscita.it
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“Pronti alla guerra con la Colombia” Chavez sfida Bogotà e Washington 9.11.2009
Il presidente venezuelano ammonisce Obama: «Ora siamo disposti a tutto»
CARACAS
Di fronte alle minacce formulate dal presidente venezuelano Hugo Chavez – che ha annunciato che il suo paese si sta prepararndo per un conflitto militare – il governo colombiano ha reso noto che si rivolgerà all’Organizzazione degli Stati Americani e al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. «La Colombia non farà un solo gesto di guerra nei confronti della comunità internazionale, e men che mai di paesi fratelli. L’unico interesse che ci muove è quello di battere il narcoterrorismo che per tanti anni ha colpito i colombiani», si legge in un comunicato dell’esecutivo di Bogotà.
Chavez aveva avuto parole molto dure nei confronti della Colombia, accusata di aver rinunciato alla sovranità del paese a vantaggio degli Stati Uniti con la firma lo scorso 30 ottobre di un accordo che prevede lo stazionamento di militari americani in alcune basi colombiane. Chavez aveva messo in guardia le autorità di Bogotà, ma anche il presidente americano Barack Obama, annunciando che il suo paese si sta preparando per un conflitto militare perchè «il modo migliore per evitare la guerra sta nel prepararsi a combatterla».
Nel corso del programma “Alò presidente” Chavez ha chiesto a militari e civili di tenersi pronti alla guerra, assicurando poi che i venezuelani «sono disposti a tutto».
Secondo gli analisti, il presidente venezuelano ha così implicitamente respinto l’offerta del presidente brasiliano, Luiz Inacio Lula da Silva, di un incontro chiarificatore con il colombiano Alvaro Uribe che ha firmato l’accordo sulle basi militari con gli Stati Uniti.
«Bisogna parlare con chi comanda -ha detto Chavez- e per questo dico a Obama: non ti sbagliare ordinando una aggressione aperta contro il Venezuela utilizzando la Colombia».
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200911articoli/49233girata.asp
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Berlusconi da solo nell’arena 13.11.2000
MARCELLO SORGI
La partenza – anzi, la falsa partenza – del disegno di legge sul processo breve in Senato, non lascia presagire niente di buono. Se doveva essere il modo per rimettere il governo in carreggiata, la maggioranza d’accordo e l’opposizione in condizione di riaprire un confronto non pregiudiziale, non ci siamo. Dentro e fuori il Parlamento, la situazione è diventata mefitica.
Visto il testo presentato a Palazzo Madama, con un punto non concordato, e molto probabilmente richiesto dalla Lega (l’inclusione dell’immigrazione clandestina tra i reati di grave allarme sociale, come mafia e terrorismo), Gianfranco Fini, per bocca della presidente della commissione giustizia della Camera Giulia Buongiorno, ha reso noto il suo alt. L’opposizione, per mano della presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro, ha sprezzantemente gettato per aria lo stampato del provvedimento, definito «devastante», intanto, dal sindacato dei magistrati Anm.
Di Pietro ha addirittura annunciato un referendum, prima ancora che sia approvata la legge. Il cui iter, a discussione non ancora cominciata, si annuncia già assai tormentato.
Berlusconi avrà pure avuto le sue ragioni, o forse non avrà avuto alternative – dopo la sentenza della Corte Costituzionale che annullando il lodo Alfano lo aveva privato dello scudo per i processi -, ma certo la decisione di trovare comunque un espediente per proteggersi, in attesa di una riforma complessiva, mirata al riequilibrio dei rapporti tra potere politico e giudiziario, si sta rivelando molto rischiosa. Non è una sfida e neppure una scommessa: la posta in gioco, in altre parole, non è la caduta di un governo che al momento non ha alternative. Ma il braccio di ferro interno alla maggioranza in sé e per sé. E questo gioco è diventato così logorante da portare al limite la tenuta del sistema.
L’immagine che viene in mente, guardando a quel che sta accadendo, è quella di una corrida. Al centro dell’arena c’è il toro – Berlusconi – che naturalmente non ha alcuna intenzione di farsi «matare». Tutt’attorno, una folla di «bandoleros» di ogni contrada, categoria e colore, che lo tormentano, e cercano di fiaccarlo, attaccandogli alla schiena le «banderillas». Nervoso, sofferente, con le narici che schiumano rabbia, il toro si aggira correndo, in attesa del torero che cercherà di «matarlo», sempre che lui non riesca a incornarlo. Il pubblico, sugli spalti, fa la «ola», con la ferocia dei momenti crudeli. Ma – ecco la sorpresa! – mentre tutti lo aspettano, il torero non spunta. E la corrida, non potendo cominciare, non si sa proprio come andrà a finire.
Non è neppure fondamentale conoscere il destino del provvedimento, che ha rivelato fin da subito limiti enormi e possibili conseguenze disastrose in termini di cancellazione di processi molto importanti. Tanto, alla fine, dopo un percorso estenuante, diventerà legge. Basta solo paragonare la velocità e l’assenza di discussioni con cui fu approvato il «lodo Alfano» all’inizio della legislatura, con l’attuale, faticoso, «stop and go» di trattative preliminari – vertici, premesse e conclusioni, firme, cancellature e ripensamenti -, che hanno accompagnato la fase preparatoria.
Per varare il «processo breve», se è davvero questo che vogliono, la stanno facendo fin troppo lunga. E se nel centrodestra, malgrado la marea montante, continuano a prendere tempo, una ragione ci deve pur essere. Che si aspettassero un’accoglienza diversa da parte dell’opposizione, o maggior collaborazione da parte della magistratura, è impensabile. Così come era imprevedibile – ancorché qualcuno ci avesse sperato – che Berlusconi, sconfitto dalla sentenza della Consulta, si rassegnasse a farsi processare dai giudici che tutti i giorni definisce «toghe rosse».
Le difficoltà di questi giorni si spiegano in un altro modo: anche se è duro ammetterlo, lo scudo antiprocessi per il premier era parte vincolante del patto di maggioranza del centrodestra: diversamente non sarebbe stato il primo punto all’ordine del giorno della legislatura alle Camere e una delle prime leggi approvate. Da allora ad oggi, è evidente, il clima è mutato. Gli oppositori interni del centrodestra potrebbero avere molte buone ragioni per non rinnovare quel patto, o almeno per imporne un rinnovo non automatico. Ma per non fare solo i «bandoleros» della corrida che ha paralizzato il governo, dovrebbero dirlo chiaramente. Insomma se il torero non si trova, e se il toro resta in campo, una via d’uscita va individuata. Che Berlusconi torni a governare, come può e finché può, potrebbe essere il male minore.
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Uniti per il mondo globale 13.11.2009
LUIGI LA SPINA
L’ultimo esempio è stata la reazione all’annuncio dell’alleanza tra il Politecnico di Torino e quello di Milano. Tutte le volte che si parla di una intesa tra le due grandi capitali del Nord-Ovest, i torinesi esprimono istintivamente un sentimento di timore, i milanesi un moto di sufficienza. Sono atteggiamenti sbagliati, ma comprensibili, se appena si conosce, almeno superficialmente, la storia di queste due città e si dà un’occhiata alla carta geografica. Rischiano, però, di non far cogliere, con anacronistici pregiudizi, sterili rivalse campanilistiche, lamenti, anche fondati, ma ora assolutamente inutili, tutte le opportunità, meglio, tutte le necessità che i cittadini di questa macroregione devono sfruttare per competere nel mondo del nuovo secolo.
Nei prossimi decenni, la partita della sopravvivenza economica e sociale nel primo girone dei paesi sviluppati non si giocherà certo nel confronto tra l’ombra della Mole e quella della Madonnina. Ma in un contesto almeno europeo, dove è impossibile pensare che due città, peraltro con strutture industriali e commerciali complementari, distanti tra loro poco più di 100 chilometri, possano pretendere di misurarsi, divise, contro i colossi di aree continentali fortemente avanzate, anche dal punto di vista tecnologico, come quelle che ci sono in Germania, intorno a Stoccarda, in Olanda, intorno a Rotterdam o nelle Fiandre, intorno ad Anversa.
Se si considera che 50 minuti, quanto ci vorrà tra un mese per andare in treno tra Torino e Milano, costituiscono la media del tempo impiegato dai pendolari europei per raggiungere i centri cittadini, si capisce che i parametri di giudizio si debbano riferire obbligatoriamente allo sviluppo dell’intera regione Nord-Ovest. Non basterà, perciò, un allargamento dello sguardo socioeconomico, ma si dovrà compiere una vera piccola rivoluzione culturale e caratteriale negli abitanti di questa area.
I torinesi dovranno cancellare quel nascosto senso di inferiorità rispetto a Milano che impedisce di credere di più in loro stessi e nella competitività di Torino. Una città con valori naturalistici, culturali, ma anche con capacità progettuali, artistiche, competenze industriali, insomma, con un tale capitale umano, come lo definiscono gli economisti, da non dover temere alcun confronto. Basta, quindi, con il solito ritornello torinese sugli «scippi» meneghini a danno della città della Mole, un atteggiamento tutto rivolto alla nostalgia del passato. Ma basta anche con la provinciale rivendicazione della cosiddetta «città laboratorio». I milanesi, invece, si dovranno accorgere che un certo borioso sentimento di autosufficienza non li aiuterà a conquistare un roseo futuro. Ma, osservando la loro città, molti se ne sono già accorti.
A mio parere, vedendo l’evolversi della situazione economica, basti vedere a titolo d’esempio la Fiat e le maggiori aziende mondiali, la partita non è da giocarsi unicamente in casa nostra, come ne sono convinti molti economisti e politici, occorre fare leadership e lavorare alla costruzione di poli ben più ampi, naturalmente comprendenti aree che vanno oltre i confini geopolitici, pensando anche alle aree industriali estere citate nell’articolo.
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“Io, in fuga dai mullah, vi racconto il vero Iran” 7.9.2009
Trent’anni, grandi ideali e soprattutto non musulmano. Bastano questi pochi requisiti in Iran per diventare vittima di discriminazioni sociali e della persecuzione del regime. Ne sa qualcosa Mahmoud Keyvannia. Ieri, agnostico ingegnere elettronico a Teheran. Oggi, lavapiatti a Milano e «fedele di unasola religione, quella della libertà».
Un anno fa, con un visto di studio, Mahmoud lascia il suo Paese. Presto, però, ne sente la mancanza. I problemi di salute della madre sono il pretesto, lo scorso gennaio, per tornare a casa. Decide di trattenersi fino alle elezioni presidenziali di giugno, quando viene rieletto al potere Ahmadinejad. A Teheran la gente si riversa per le strade. Mai se ne era vista tanta dai tempi della rivolta contro lo scià. «Sentivo che era un momento storico, sono sceso in piazza Vali Asr con i miei amici di sempre, gli stessi con cui avevo fatto attività politica, denunciando i crimini del regime con volantini scritti a mano e distribuiti di nascosto all’università». Ad un tratto Mahmoud vede un basiji avvicinarsi minaccioso, getta via la sua macchina fotografica e cerca di mettersi in salvo. Impossibile. Dietro di lui ne arrivano altri sette: «Mi hanno picchiato con bastoni e manganelli e portato in un posto sconosciuto. Eravamo decine in una stanza, ma nessuno osava parlare. Hanno continuato a picchiarmi e insultarmi per un giorno intero; dopo il rilascio ho avuto il braccio destro paralizzato per due settimane. All’ospedale, però, non potevo andare: sapevamo tutti che la polizia compiva arresti anche tra i feriti ricoverati».
Mahmoud decide, allora, di fuggire definitivamente. Ottiene un reingresso in Italia e ora vive ospite della Fondazione Fratelli San Francesco d’Assisi in attesa di avere risposta alla sua richiesta di asilo politico: «Se tornassi in Iran oggi, mi aspetterebbe quanto meno la tortura». Violenze e frustrazioni non riescono però a farlo desistere dal portare avanti la sua battaglia personale contro il regime islamico. «Ho contatti frequenti con gli amici rimasti a Teheran, ma solo per e-mail o via chat, perché al telefono è troppo pericoloso: vogliono continuare la protesta, stanno organizzando una grande manifestazione per i prossimi giorni. Nessuno vuole Moussavi al potere, semplicemente in questo momento rappresenta il male minore». Allora qual è l’obiettivo dell’Onda verde che da tre mesi dilaga a Teheran? «Abbattere Ahmadinejad, poi Khamenei e tutto l’intero sistema dell’islam di Stato». Dall’Italia, il contributo di Mahmoud a «realizzare il sogno della democrazia» è tutto nei post sul suo blog in farsi (hamhame.blogfa.com) – «oscurato in Iran» – e che un giorno vorrebbe tradurre in italiano «per far conoscere anche qui la verità».
L’Iran di Mahmoud è quello della generazione nata agli albori della Rivoluzione islamica, cresciuta durante il sanguinoso conflitto Iran-Irak, delusa dalle promesse riformiste di Khatami e poi maturata negli anni dell’ascesa al potere del fanatismo di Ahmadinejad. «Siamo una generazione bruciata: essere giovane in Iran è una colpa, perché chiedi libertà, divertimento e cultura. I film che puoi vedere nei cinema di Teheran sono vecchi e tutti censurati. Per una commedia di Hollywood devi rivolgerti al mercato nero. L’assurdità è che è più pericoloso comprare un dvd americano o una birra, che del crack o della cocaina». A riprova dell’ipocrisia che regge l’ideologia religiosa. «Hashish e oppio si trovano facilmente nei parchi della città e con tranquillità se ne fa uso in ogni festa privata, ma il governo non combatte il fenomeno. È come se gli facesse comodo per ucciderci tutti senza sporcarsi le mani».
Per tentare di sopravvivere al sistema repressivo dei mullah – dalla politica, alla religione, al costume sociale – «devi sdoppiare la tua personalità in una pubblica e una privata». Mahmoud lo dice per esperienza: «Ho visto amici convertiti dall’islam al cristianesimo, che per evitare l’impiccagione, nascondevano la croce sotto i vestiti o facevano finta di andare in chiesa solo per interesse culturale, come a un museo. Se passeggi con la tua fidanzata e ti ferma la polizia del buon costume, devi dire che la ragazza è tua cugina, pena il carcere. Se vuoi cercare lavoro in un ufficio pubblico, iscriverti all’università o ottenere un passaporto devi professarti musulmano, altrimenti per loro sei un nulla da eliminare».
Mahmoud rischia molto, ma parla a volto scoperto: «Ho scelto di non vivere più sotto la menzogna e la paura e ora non voglio tornare indietro».
http://hamhame.blogfa.com/post-201.aspx
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Video di Edgar Morin 11.11.09 Teatro Dal Verme
http://www.meetthemediaguru.org/index.php/11/edgar-morin-evento-11-novembre-video-dellevento/
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Stampa di venerdì 13 novembre 2009, pagina 19
Il Pacifico “di sinistra” attrae il presidente Usa
di Bardazzi Marco
Il Pacifico cli sinistra attrae il presidente Usa Le svolte in Giappone e Australia ribaltano lo scenario di Bush L’Europa ora conta meno . E spunta l’idea di un’alleanza oceanica Quattro Paesi chiave per gli Stati Uniti: le sfide e le opportunità in un oceano complesso GIAPPONE Yukio atoyama ha portato al potere la sinistra dopo 50 anni di governi conservatori. Un alleato con idee politiche vicine a Obama, ma che.chiede rapporti bilaterali diversi AUSTRALIA a svoltato a si,jstra dopo gli anni di John oward. Il premier Rudd propone un nuovo organismo di :0- operazione nella regone Asia-Pacifico che includa anche gli Usa CINA Tra Washington e Pechino aumenta la tendenza ad agire come un G2 mondiale. Ma i cinesi restano al fondo un awersario geopolitico, con seri problemi sui diritti umani COREA DEL SUD È un altro partner strategico nell’area, soprattutto per quanto riguarda il dossier Pyongyang. Ma ci sono difficoltà a trovare un accordo convincente sul libero scambio Analisi MARCO BARDAZZI Come cambia la geopolitica nell’era di Barack JJo sguardo di Barack Obama dalla Casa Bianca è rivolto sempre pi spesso a Ovest, oltre le pianure del Midwest e la California, per annusare l’aria che arriva dall’Asia. Una posizione che, inevitabilmente, lo porta a dare le spalle alPEuropa. Non sono solo motivi economici, ma anche fattori culturali a spingere il primo «presidente del Pacifico» – nato alle awaii e cresciuto in Indonesia – ad avere un’attenzio ne diversa dai predecessori verso la parte del mondo dove è in visita da oggi. E un’insolita congiuntura gli offre ora anche alleati sulla stessa lunghezza d’onda politica.
Con l’arrivo al potere a Tokyo a settembre di Yukio atoyama, il Giappone è andato ad affiancare l’Australia del premier Kevin Rudd nella coppia di alleati-chiave degli Stati Uniti ora guidati dal centrosinistra. Ne è nato lo scenario di un «Pacifico di sinistra» che è l’esatto opposto di quello degli anni scorsi, quan do dominava la «triplice alleanza» conservatrice di George W.Bush negli Usa, Junichiro Koizumi in Giappone e John oward in Australia. Le conseguenze della maggiore sintonia, insieme alla tendenza degli Usa a creare sui grandi temi un G2 con la Cina, minacciano di farsi sentire con forza in Europa, con una perdita di attenzione americana per l’Atlantico.
«Obama, atoyama e Rudd sono personaggi diversi, ma condivi- dono una certa visione del mondo», ha spiegato su «The Australian» Greg Sheridan, la principale firma di politica estera australiana. «anno tutti criticato quelli che definiscono gli eccessi del libero mercato. Tutti e tre hanno una forte base di sostenitori nel movimento sindacale. Sono impegnati a centrare obiettivi ambiziosi sul clima e condividono una comune apertura all’ Onu e al multilateralismo».
Nei due colleghi premier, così come nei leader di Cina e Corea del Sud – paesi che visiterà nei prossimi giorni – Obama vede interlocutori decisivi su temi come la crescita economica, il disarmo nucleare, l’Afghanistan. E i paesi del Pacifico non sembrano sgradire l’attenzione crescente che ricevono dalla Casa Bianca e dal segretario di Stato illary Clinton. A fine ottobre, in un summit in Thailandia dei leader dell’area AsiaPacifico, Rudd ha lanciato l’idea di nazionale che unisca i paesi della regione e gli Stati Uniti. Un organismo sul modello dell’Unione Europea che vada oltre l’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation), il forum economico alla cui riunione Obama prende parte nel fine settimana a Singapore. Già oggi l’Apec rappresenta una potenza economica enorme, riunendo paesi con il 40% della popolazione mondiale, il 54% del Pil globale e il 43% degli scambi commerciali del pianeta.
I segnali the arrivano dall’Asia spingono alcuni esperti a lanciare l’allarme su una progressiva perdita di importanza delle alleanze atlantiche, a favore di quelle nel Pacifico. «Obama riserva all’Europa solo occasioni per scattare belle foto insieme – afferma per esempio Joseph R.Wood, studioso delle relazioni Usa-Europa al German Marshall Fund, che ha lavorato nella Casa Bianca di Bush – ma questa amministrazione non prende sul serio gli europei:
l’attenzione è tutta per la Cina come i / dar vita a una nuova comunità inter *** :0operazione condividono partner economico decisivo, e da qui viene l’interesse per l’area dei Pacifico. Pur di tenere buona la Cina, l’amministrazione è pronta a chiudere entrambi gli occhi sulle violazioni dei diritti umani nel paese».
Un’analisi che non convince Peter Beinart, studioso di area liberai alla New America Foundation ed ex direttore della rivista «The New Republic». «Culturalmente, l’America resta orientata vérso l’Europa, mentre con la Cina o altri paesi asiatici non c’è questa sintonia», spiega. «Il fatto che ci siano pi governi di centrosinistra nel Pacifico – aggiunge – è un fattore che non cambia lo scenario. La politica asiatica negli Usa è la meno ideologica di tutte: c’è molto pragmatismo, contano gli interessi, a differenza di quello che avviene, per esempio, con la politica mediorientale». Invece, sostiene Beinart, «ci che l’Europa pensa di noi resta sempre il punto di riferimento implicito di ogni dibattito, in particolare sotto un’amministrazione democratica: ai repubblicani di Bush gli europei non interessavano per niente» Per ora, inoltre, dall’Asia sono arrivati soprattutto problemi per la Casa Bianca, dalle tensioni con il Giappone per il rinnovo degli accordi sulla base militare americana di Okinawa, alle difficili trattative per un accordo di libero scambio con la Corea del Sud.
Resta il fatto che Obama si pone di fronte allo scenario nella prospettiva del «primo presidente orientato verso l’Asia-Pacifico», come ha detto alla vigilia del viaggio il suo viceconsigliere per la sicurezza nazionale, Ben Rhodes. Obama capisce perfettamente, ha spiegato Rhodes, «che il futuro della nostra prosperità e della nostra sicurezza è legato a doppio filo a questa parte del mondo».
http://rassegnastampa.mef.gov.it/mefnazionale/View.aspx?ID=2009111314202548-1
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Medvedev: modernizzare economia russa 12.11.2009
di Vladimir Sapozhnikov
MOSCA – Nel suo tradizionale discorso sullo stato della Nazione, pronunciato al Cremlino di fronte ai deputati della Duma (il Parlamento russo), ai ministri, ai leader dei partiti politici e ai massimi gerarchi religiosi della Russia, il presidente, Dmitrij Medvedev, ha criticato per la prima volta l’operato del Governo, gestito dal suo predecessore, Vladimir Putin.
Le riforme economiche «stanno segnando il passo», mentre l’economia nazionale russa continua a dipendere in maniera esagerata dall’export di petrolio, di gas e di altre materie prime. Le decisioni che il Governo aveva finora preso per lanciare un processo di ammodernamento tecnologico del Paese erano «deboli e inadeguate». L’aumento delle partecipazioni dello Stato nell’economia nazionale, uno dei principali progetti di Putin, che aveva nazionalizzato una parte dell’industria petrolifera, non ha prospettive e dovrà essere ridimensionato.
Secondo Medvedev «alcune delle cosiddette “corporazioni statali” dovranno cessare di esistere, mentre altre saranno trasformate in società per azioni». Attualmente le corporazioni statali operano nei comparti dell’aeronautica, delle alte tecnologie. In questo contesto, ha sottolineato Medvedev, la Russia deve far tesoro delle lezioni dell’attuale crisi economica e finanziaria per accelerare lo sviluppo e diventare una grande potenza mondiale.
Per importare tecnologie moderne sarà gradualmente abolita la protezione statale delle società russe dalla concorrenza straniera, uno dei principali ostacoli che bloccano l’adesione della Russia all’Organizzazione mondiale del commercio. «Le alte barriere doganali, che attualmente difendono i produttori russi, non potranno durare per eterno», ha sottolineato Medvedev, secondo cui tra le prime iniziative da realizzare il Governo russo dovrà importare delle normative dell’Unione europea per gli elevati standard della costruzione edilizia. Sarà migliorato il clima per gli investitori esteri: il processo di approvazione dei progetti d’investimento dovrà essere ridotto a 3-4 mesi dagli attuali 1,5-2 anni.
Tra le priorità della politica interna nel 2010 il presidente Medvedev ha citato la lotta alla corruzione e la riforma del criticatissimo sistema elettorale. In particolare per poter partecipare alle elezioni legislative i partiti non dovranno più raccogliere 50mila firme dei propri sostenitori, un ostacolo che con il pretesto di “falsificazione delle firme” aveva escluso dall’ultima campagna elettorale tutti i partiti di opposizione democratica.
Infine sul piano internazionale Medvedev ha proposto la costituzione di un valido meccanismo che permetterebbe di elaborare un ampio trattato di Sicurezza europea.
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