Estratto da http://www.caffeeuropa.it/ del 12.11.2010
“Da segnalare su La Stampa una intervista a Giuseppe Zamberletti, fondatore della Protezione civile, ex ministro. Parla anche di Bertolaso. Dice che negli anni la Protezione civile è stata “snaturata”, perché la sua forza era nella esaltazione del ruolo degli enti locali: “Il rischio, invece, è quello che con il processo di centralizzazione eccessiva delle decisioni, vi sia un parallelo processo di deresponsabilizzazione degli enti locali. I sindaci rischiano così di diventare soltanto i sindacalisti delle popolazioni”.
Sulla gestione Bertolaso: “Vedo il rischio che si scarichino sulla protezione civile competenze e attività improprie, come l’organizzazione dei grandi eventi sportivi, religiosi, internazionali”, mentre il compito istituzionale della Protezione civile è quello della prevenzione e della previsione. E su Bertolaso manager dei grandi eventi “ha fatto quel che la politica gli ha ordinato di fare”.
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L’ingovernabilità dell’economia mondiale
Stefano Rizzo, 11.11.2010
Il G20 di Seul si apre all’insegna del pessimismo. La crisi economica mondiale è tutt’altro che risolta, mentre le ricette dei singoli paesi e dei diversi blocchi continentali si sono venute sempre più divaricando. Stati Uniti, Europa (con l’eccezione parziale della Germania) e Giappone continuano ad essere afflitti da alti tassi di disoccupazione, da stagnazione della produzione e da consumi interni decrescenti. I paesi “emergenti” del BRIC (Brasile, India, Cina, ma anche Sudafrica e Vietnam) sono sempre più dinamici sui mercati internazionali e sostengono la crescita mondiale attraverso le loro robuste esportazioni. Il resto del mondo intanto sprofonda nella povertà e in un sottosviluppo economico e sociale sempre più intrattabile
Un anno fa al G20 di Londra Barack Obama era stato accolto con grande simpatia, se non entusiasmo. Era passato meno di un anno dall’inizio della sua presidenza e ancora si guardava al gigante americano — che dopotutto continuava a rappresentare il PIL di gran lunga più grande del mondo — come ad un interlocutore privilegiato da cui aspettarsi soluzioni per la crisi finanziaria che da due anni squassava le economie industrializzate.
Ma il G20 di Londra fu un fallimento, almeno quanto all’obbiettivo di definire una politica economica e finanziaria comune tra i paesi industrializzati e tra questi e quelli in via di sviluppo, che meglio stavano reggendo alla crisi economica mondiale. Obama cercò di spingere i colleghi europei a fare ciò che stava facendo lui nel suo paese: spendere in deficit per sostenere i consumi e attraverso i consumi rilanciare l’economia; ma da parte dell’Europa guidata dall’asse franco-tedesco si scelse invece di confermare la politica del rigore finanziario, dell’equilibrio dei conti pubblici, dei tagli alle spese statali. Unico elemento positivo di quel G20 fu l’impegno ad affrontare a breve il problema della speculazione finanziaria che aveva provocato il crollo dell’economia reale – cosa che avverrà qualche mese dopo a Pittsburgh.
Questo G20 di Seul si apre all’insegna di un ben maggiore pessimismo. La crisi economica mondiale è tutt’altro che risolta, mentre le ricette dei singoli paesi e dei diversi blocchi continentali si sono venute sempre più divaricando. Stati Uniti, Europa (con l’eccezione parziale della Germania) e Giappone continuano ad essere afflitti da alti tassi di disoccupazione, da stagnazione della produzione e da consumi interni decrescenti. I paesi “emergenti” del BRIC (Brasile, India, Cina, ma anche Sudafrica e Vietnam) sono sempre più dinamici sui mercati internazionali e sostengono la crescita mondiale attraverso le loro robuste esportazioni. Il resto del mondo intanto sprofonda nella povertà e in un sottosviluppo economico e sociale sempre più intrattabile.
Le differenze di strategia economica si sono intanto acuite. La sconfitta dei laburisti nel Regno Unito ha avuto come conseguenza l’adozione di drastiche politiche restrittive e di contenimento della spesa pubblica, che stanno provocando anche in quel paese (come già avveniva da mesi nel resto d’Europa) aspre tensioni sociali. La Germania ha alzato la voce, rivendicando un ruolo guida come principale economia del continente, imponendo al resto dell’Unione politiche di austerità ancora più rigorose. Governi di centrodestra (Francia, Italia), ma anche di sinistra e di centrosinistra (Spagna, Grecia) sono, volenti o nolenti, costretti a seguire le politiche economiche e finanziarie ispirate dalla Germania e dalla Banca centrale europea.
Del resto l’alternativa rappresentata dagli Stati Uniti non è più tra le opzioni percorribili. Per un verso la strategia dello sviluppo attraverso la spesa pubblica portata avanti da Obama è fallita – o perché insufficiente (come sostengono gli economisti liberal), o perché inadatta a modificare il trend economico (come sostengono gli economisti conservatori che da sempre favoriscono lo strumento fiscale): insomma il cavallo, pur provvisto di abbondante quantità di acqua, si è rifiutato di bere. Di fronte alla debolezza della domanda gli imprenditori non investono, quindi non assumono, con la conseguenza che la domanda ristagna ulteriormente. In ogni caso la sconfitta dei democratici alle elezioni di midterm ha posto fine all’ipotesi di un nuovo piano di rilancio basato sulla spesa pubblica che l’amministrazione stava studiando.
Nei mesi scorsi erano aumentate le tensioni tra i paesi del BRIC, particolarmente la Cina, che sostengono le proprie esportazioni anche grazie al basso valore della loro moneta, e i paesi occidentali, particolarmente gli Stati Uniti, che per questo stesso motivo non riescono a rilanciare la produzione interna. Di fronte al rifiuto della Cina di rivalutare il renmimbi, gli Stati Uniti hanno minacciato politiche protezionistiche e l’innalzamento dei dazi sui prodotti cinesi, con il pericolo di ulteriori azioni ritorsive cinesi, rappresentate dalla minaccia da parte dei suoi fondi sovrani di abbandonare i titoli di stato americano, agitando davanti agli esponenti politici americani lo spettro della catastrofe finanziaria.
Con il governo Obama e il congresso che si legano a vicenda le mani, è intervenuta la scorsa settimana la decisione della FED, la banca centrale degli Stati Uniti, di procedere all’acquisto di 600 miliardi di dollari di buoni del tesoro, ritirandoli dal mercato. Una decisione che ha avuto due conseguenze importanti: la prima, di immettere una massa di liquidità nell’economia di enormi dimensioni (due terzi dello stimolo voluto dall’amministrazione due anni fa) con l’intento di stimolarla rendendo i prestiti a lungo termine alle imprese più convenienti; la seconda, di indebolire il valore del dollaro sui mercati, di fatto rendendo più competitivi i prodotti americani all’estero. L’acquisto dei titoli di stato avverrà semplicemente stampando carta moneta, una decisione che solo la FED tra tutte le banche centrali del mondo può prendere grazie al fatto che il dollaro è, fin dagli accordi Bretton Woods (1944) e dall’abbandono dello standard aureo (1971), la moneta di scambio internazionale per eccellenza: di fatto l’unico “fiat money” la cui massa di liquidità, a differenza di qualsiasi altra moneta, non è legata (almeno nel breve-medio periodo) ai fondamentali dell’economia interna.
Naturalmente la Cina ha reagito malissimo alla decisione della FED e così anche la Germania e gli altri paesi del G20 che (correttamente) vedono in essa il tentativo di sostenere la produzione interna americana penalizzando le loro esportazioni. La tensione si è fatta altissima nei giorni scorsi tra tutti e contro tutti: sono volate accuse di volere destabilizzare i mercati e di impedire la crescita. Sono state avanzate proposte alternative, immediatamente rigettate, come quella del ministro del tesoro americano Geithner di contenere le esportazioni di ciascun paese al 4 per cento del suo PIL, o quella del presidente della Banca mondiale Zoelick di ritornare allo standard aureo. E alla vigilia dell’inizio dei colloqui gli Stati Uniti non sono neppure riusciti a stipulare un accordo commerciale con un alleato storico come la Corea del Sud. L’ingovernabilità dell’economia mondiale è destinata così a durare ancora a lungo e le tensioni ad aumentare pericolosamente.
L’unica consolazione è che – almeno per il medio periodo — questa volta la conseguenza non sarà la guerra, come avvenne in una situazione di analoga ingovernabilità dell’economia mondiale e di analoghe spinte protezionistiche nella seconda metà degli anni ’30. Tanto o poco, di questo dobbiamo contentarci.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16213
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Copertone selvaggio: i numeri e le storie del traffico e dello smaltimento illegale di pneumatici fuori uso (pfu) in italia.
Oltre 1.000 discariche illegali da nord a sud; 2 miliardi di Euro di danno economico per le finanze e l’imprenditoria onesta dal 2005 a oggi. Per la prima volta viene descritto il quadro dei traffici illegali di PFU, alla vigilia della partenza di un sistema nazionale di raccolta
100.000 TONNELLATE DI PFU DISPERSE OGNI ANNO – leggi il dossier
Ogni anno spariscono nel nulla – o si disperdono in canali poco chiari – fino a 100 mila tonnellate di PFU, circa 1/4 degli pneumatici immessi in commercio nello stesso arco di tempo.
Parte da questo dato il dossier presentato oggi a Rimini – dove è in corso la 14.a edizione della Fiera Ecomondo – e realizzato da Legambiente, l’associazione ambientalista che dal 1994 elabora e pubblica il Rapporto Ecomafie, ed Ecopneus, la società consortile costituita dai 6 principali produttori di pneumatici operanti in Italia, pronta a partire con un sistema di raccolta capillare su tutto il territorio nazionale, a seguito della imminente pubblicazione in G.U. del decreto che dà il via alla raccolta dei PFU (Pneumatici Fuori Uso) su tutto il territorio nazionale.
I dati elaborati evidenziano che dal 2005 a oggi sono state individuate ben 1.049 discariche illegali in tutta Italia, per un’estensione complessiva che supera ampiamente i 6 milioni di metri quadrati (per l’esattezza 6.170.537). Si va dalle discariche di ridotte dimensioni, frutto della smania di risparmiare qualche spicciolo da parte di piccoli operatori (gommisti, officine, trasportatori, intermediari), a quelle più grandi, dove appare evidente la presenza di attività organizzate per il traffico illecito, svolte sia in Italia che all’estero.
UNA PARTE IMPORTANTE DEI TRAFFICI INTERNAZIONALI DI RIFIUTI
I traffici illeciti riguardano ben 16 regioni italiane e hanno coinvolto, sia come porti di transito sia come meta finale di smaltimento, 8 Stati esteri: Cina, Hong Kong, Malaysia, Russia, India, Egitto, Nigeria e Senegal. Dalle indagini emerge chiaramente come i PFU siano tra i materiali più gettonati dai trafficanti: questa tipologia di rifiuti è stata al centro di oltre l’11% del totale delle inchieste svolte dal 2002 ad oggi.
UN DANNO ECONOMICO PER L’AMBIENTE, LO STATO, I CITTADINI
È possibile stimare le conseguenze economiche di “copertone selvaggio”, che vanno dal mancato pagamento dell’IVA per le attività di smaltimento, alla vendita illegale di pneumatici, dalle perdite causate alle imprese di trattamento, fino agli oneri per la bonifica dei siti illegali di smaltimento.
La perdita economica per lo Stato può essere quantificata in circa 143,2 milioni di Euro l’anno, di cui 140 milioni per il mancato pagamento dell’IVA sulle vendite e circa 3,2 milioni di euro per il mancato pagamento dell’IVA sugli smaltimenti; i mancati ricavi degli impianti di trattamento, costretti a lavorare a regimi ridotti a causa della fuoriuscita degli PFU dal ciclo legale, possono essere quantificati in almeno 150 milioni di Euro l’anno; i costi di bonifica delle discariche abusive di PFU sequestrate nel periodo 2005-settembre 2010, che solitamente sono a carico dei contribuenti, possono essere stimati in almeno 400 milioni di Euro.
Sulla base di queste stime non è azzardato ipotizzare un danno economico complessivo, sia alle finanze pubbliche che all’imprenditoria legale, accumulato sempre nel periodo 2005-settembre 2010, di oltre 2 miliardi di euro (esattamente 2,086).
LE DISCARICHE ILLEGALI
Le regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia), sono quelle più colpite dalla presenza di siti illegali: qui si concentra più del 63% delle discariche abusive, per una superficie complessiva pari al 70,4% di quella sequestrata in tutta Italia dalle Forze dell’ordine.
La prima regione per numero di discariche sequestrate, contenenti PFU, è la Puglia, con 230 siti, quasi il 22% del totale nazionale. Un primato riconducibile sia ad una diffusa illegalità nel settore – dovuta anche alla non piena efficienza dell’intera filiera di raccolta e recupero di PFU (scarsi sbocchi economici per i prodotti trattati) – sia all’intensa ed efficace attività d’indagine svolta dalle Forze dell’ordine (coordinate dal 2007 in una task-force ambientale sostenuta dall’Amministrazione regionale), che consente di raggiungere importanti risultati operativi, con numerosi sequestri e denunce.
Al secondo posto della classifica per regioni si colloca la Calabria con 159 siti illegali, seguita dalla Sicilia (con 141 discariche), e dalla Campania, con 131.Tra le regioni del centro, il Lazio è la più colpita con 77 siti illegali, per un’estensione che supera i 75 mila metri quadrati. Al primo posto tra le regioni del nord figura il Piemonte, con 37 discariche sequestrate, per un’estensione pari a 177.950 metri quadrati.
Aree che provocano un degrado paesaggistico e rappresentano un grave rischio per ambiente in caso di incendio.
LA MANCANZA DI UN SISTEMA DI GESTIONE SU TUTTO IL TERRITORIO NAZIONALE
L’Unione Europea ha vietato lo smaltimento in discarica di quelli interi nel 2003, e di quelli frantumati nel 2006. Dal 2010 anche in Italia è illegale smaltire in discarica i PFU, da qui una proliferazione del fenomeno di abbandono illegale.
Fino a oggi l’assenza di un sistema integrato di gestione a livello nazionale ha generato una situazione caratterizzata da alcune criticità: dal mancato controllo sui flussi globali di questo materiale attraverso tutti i passaggi della filiera, situazione che non permette oggi di avere una chiara visione complessiva di questa realtà; all’insufficiente utilizzo dei PFU e dei suoi derivati, fino all’assenza di una ottimizzazione tra le varie componenti del sistema (raccolta, trasporto, recupero e impiego).
LA GENERAZIONE DI PFU IN ITALIA
Secondo le stime più attendibili sono circa 350 mila le tonnellate di PFU prodotte annualmente nel nostro Paese. Una quantità importante, frutto della vendita di oltre 30 milioni di pneumatici per autovettura, 2 milioni per autocarro, 3 milioni per mezzi a 2 ruote e 200 mila per mezzi industriali ed agricoli, cui corrisponde, in linea di massima, l’uscita dal mercato di altrettante quantità di pneumatici usati.
Della quantità di PFU prodotti nel 2009, circa la metà è stata destinata al recupero energetico, il 20% è stata recuperata come materia prima seconda per utilizzi urbani e industriali (dato pari alla metà della media Europea) e la quota restante (circa il 25%) si è dispersa in traffici o pratiche illegali.
L’ATTIVITA’ DELLE FORZE DELL’ORDINE
Fino ad oggi sono state 19 le inchieste per traffico illecito di rifiuti, sanzionato dall’art. 260 Dlgs 152/2006 (ex art. 53 bis del Decreto Ronchi), che hanno riguardato i PFU. L’attività giudiziaria ha portato all’emissione di 58 ordinanze di custodia cautelare, alla denuncia di 413 persone e al coinvolgimento di 122 aziende. Le Procure che hanno indagato sui traffici illeciti di PFU sono state 14 e le inchieste hanno riguardato ben 16 regioni e 8 stati esteri. Fino ad oggi il 2010 è l’anno che ha registrato il maggior numero di indagini ex art.260 riguardanti i PFU, arrivate a quota 5, con il più alto numero di arresti, ben 14.
LE DICHIARAZIONI
“Il traffico illecito di pneumatici fuori uso rappresenta un settore consistente all’interno delle attività illegali legate al ciclo dei rifiuti – ha dichiarato Enrico Fontana, responsabile Osservatorio Nazionale Ambiente e Legalità di Legambiente – . Questa tipologia di scorie, infatti, è al centro di oltre l’11% del totale delle inchieste svolte dal 2002 ad oggi, determinando rilevanti problemi ambientali e ingenti danni economici per le casse dello Stato. Proprio per questo è fondamentale che lo stesso mondo delle imprese assuma tale questione come prioritaria per contrastare un consistente mercato nero che dall’Italia si dirama verso l’estero.”
“Chi opera nel settore dei PFU sa bene che le potenzialità del settore non sono pienamente espresse a causa di una mancata razionalizzazione complessiva che metta sempre più materiale a disposizione degli impianti che ne effettuano un recupero di materia. Un panorama di piccole aziende con esperienze interessanti e di qualità che il nuovo assetto derivante dal decreto potrà adeguatamente valorizzare e sostenere, attraverso anche il consolidamento degli impieghi a valle oggi già esistenti e lo sviluppo di nuovi mercati e nuove applicazioni.” – ha commentato Giovanni Corbetta, Direttore Generale di Ecopneus.
“Il dossier realizzato da Legambiente – ha concluso Corbetta – ha il merito di aver sistematizzato un insieme di informazioni e dati raccolti a partire dai contesti territoriali in cui situazioni di degrado o rischio ambientale legati ai PFU abbandonati sono ben noti; in questo modo diventano una realtà di dimensioni ed interesse nazionale, in cui il nuovo decreto potrà incidere efficacemente per una decisa inversione di rotta.”
http://www.legambiente.it/dettaglio.php?tipologia_id=3&contenuti_id=1869
Prelevato il 12.11.2010
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Perizia su Terzino “Contaminata la falda acquifera” 12.11.2010
Riparte lo scontro sulla discarica Cava Sari. Ordinata la chiusura dei pozzi artesiani
GUIDO RUOTOLO
ROMA
Il veleno è arrivato fin nelle viscere del Vesuvio. E’ un veleno che ha trasformato quella terra in una bomba ecologica. Altro che attesa dell’eruzione che prima o dopo potrebbe arrivare. I risultati dei prelievi nella discarica «Sari» di Terzigno sono devastanti. Scrivono i periti: «I dati relativi all’accertamento effettuato il 29 ottobre scorso, nonché quelli pregressi svolti dall’Asìa (l’azienda del comune di Napoli che gestisce la discarica Sari, ndr), evidenziano una contaminazione della falda acquifera profonda». E’ di nuovo emergenza rifiuti.
Ieri sera assemblea alla rotonda di Boscoreale. Animi più che surriscaldati e sono a rischio (nella notte) i compattatori dei 18 comuni del comprensorio che scaricano nella discarica contaminata. Ma la situazione sembra ancora più bloccata a Napoli. Depresso l’assessore comunale Giacomelli: «Eravamo riusciti a ridurre a 900 tonnellate i rifiuti non raccolti. Ma da domani (stamani, ndr) ne saranno di nuovo 1.500. Funziona solo la discarica di Chiaiano dopo la chiusura di Taverna del Re e gli impianti di trattamento dei rifiuti di Tufino e Giugliano sono saturi».
Sembra una congiura del malocchio, quello che si è abbattuta su Napoli. La discarica calabrese non accetta più rifiuti campani, la Puglia si è rifiutata perché ancora aspetta i fondi dell’emergenza del 2008. Regione, Provincia e uomini di buona volontà stanno cercando soluzioni alternative. Più che la Svezia, le ultime indiscrezioni parlano di possibilità di una Spagna accogliente e solidale.
Navigano a vista la Regione e la Provincia di Napoli. Speravano di aver trovato due nuove (micro)discariche a Nola e ad Afragola. Nulla da fare, i pareri tecnici sono negativi. Chissà se Berlusconi manterrà l’impegno assunto del decreto legge che cancella le discariche di Cava Vitiello (Terzigno), Andretta (Avellino) e di Valle della Masseria (Salerno).
In questo clima, i risultati delle analisi sull’inquinamento della cava «Sari» di Terzigno sono carburante di un incendio che rischia di divampare di nuovo. «La mancata acquisizione di controlli pregressi, necessari e dovuti, circa lo stato di qualità presistente della falda acquifera prima dell’apertura della discarica, non consente di formulare ipotesi precise sulla fonte della sua contaminazione».
La relazione tecnica è chiara, sul punto. «Anomala è la presenza di zinco, nichel, alluminio e boro che si rinvengono nei pozzi a valle della discarica, in concentrazioni superiori a quelli indicati». E ancora: «Si rileva una concentrazione elevatissima di zinco nel pozzo 3 mentre nel pozzo a monte della discarica i livelli sono al di sotto delle soglie minime». Gennaro Langella, sindaco di Boscoreale: «Ho disposto l’immediata chiusura di tutti i pozzi artesiani e ho inviato i risultati delle analisi che certificano l’inquinamento delle acque da metalli pesanti, alla magistratura. Temo che sia impossibile bonificare l’area. La discarica non andava aperta».
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/201011articoli/60375girata.asp
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Circa 5,2 milioni di euro
Brasile: multa record per il Comune dell’Amazzonia con più disboscamento 11.11.2010
Il municipio di São Félix do Xingu ritenuto responsabile anche per le azioni di privati sul suo territorio
SAN PAOLO – Per la prima volta in Brasile, un Comune è stato considerato responsabile per la distruzione di 1,9 milioni di ettari (19 mila km quadrati, pari alla superficie dell’intera Puglia) nel suo territorio, anche se dovuto al comportamento di privati. São Félix do Xingu, che da anni è ai primi posti nelle classifiche della devastazione dell’Amazzonia, è stato multato per 12,3 milioni di real (circa 5,2 milioni di euro), cifra record nel settore ambientale in Brasile.
RESPONSABILE – L’Ibama (l’ente ambientale brasiliano) e lo Stato del Pará, che a sua volta è lo Stato amazzonico con il maggior tasso di deforestamento, hanno comminato insieme la multa al Comune di São Félix, dopo una serie di avvertimenti. São Felix è uno dei Comuni più estesi del Brasile (quanto Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto e Trentino-Alto Adige messi assieme), ed è anche quello con il maggior numero di incendi dolosi, e non dispone di un corpo dei pompieri. Quest’anno gli incendi – quasi tutti dolosi – registrati dai satelliti di osservazione ambientale – sono stati 687, il dato più alto in tutto il Brasile anche a causa della forte siccità di quattro mesi che ha colpito l’Amazzonia. A fine estate il fumo era così denso che la gente circolava con le mascherine, le scuole sono rimaste chiuse per mesi, la Transamazzonica era intransitabile per scarsa visibilità e centinaia di persone sono state ricoverate per malattie polmonari. Così, di fronte al lassismo delle autorità locali, il governo di Brasilia ha voluto dare l’esempio e ha chiesto all’Ibama di intervenire in modo energico: a partire da adesso, le autorità comunali di tutto il Brasile saranno ritenute almeno in parte responsabili per il deforestamento e la devastazione dell’ambiente da parte dei singoli sul loro territorio.
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Geotermia. Banca Mondiale finanzia impianto da 72 mw in Nicaragua 10.11.2010
Coprirà il 20% del fabbisogno elettrico del paese
Roma, 10 nov. (Apcom-Nuova Energia) – L’International Finance Corporation (IFC), istituto della Banca Mondiale per il settore privato, fornirà 50 milioni di dollari e ne mobiliterà altri 140 per sostenere la realizzazione del più grande progetto geotermico presentato in Nicaragua negli ultimi 25 anni. I fondi saranno utilizzati dalla Polaris Energia Nicaragua SA per la costruzione di una centrale da 72 MW a San Jacinto, nel nord-ovest del Paese, per un costo complessivo stimato in 370 milioni di dollari. A regime, l’impianto coprirà quasi il 20% dell’attuale fabbisogno di energia elettrica del Nicaragua: contribuirà in misura significativa all’obiettivo del governo di ridurre la dipendenza del Paese dalle importazioni di fonti fossili, che oggi forniscono il 70% dell’elettricità. Inoltre, il nuovo impianto consentirà di accelerare il programma di elettrificazione del Nicaragua. Attualmente, infatti, solo il 66% della popolazione ha accesso all’energia elettrica e l’intenzione del governo, esplicitata nei giorni scorsi dal Ministero dell’Energia e delle Miniere, è di arrivare a una copertura dell’85% entro il 2014. “Il successo di questo progetto – ha dichiarato Bernie Sheahan, direttore del Dipartimento per le Infrastrutture IFC per l’America Latina – è estremamente importante per l’intera America Centrale: tutta la regione potrebbe aumentare sensibilmente la produzione di energie rinnovabili proprio sviluppando le risorse geotermiche, che sono le meno costose rispetto alle alternative esistenti”. Copyright APCOM (c) 2008
http://www3.lastampa.it/ambiente/sezioni/news/articolo/lstp/374562/
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Metti grafene e fluoro una sera a cena 11.11.2010
I ricercatori modificano il foglio di carbonio per dare origine a un nuovo materiale dalle applicazioni potenzialmente infinite. Il fluorografene sostituirà il Teflon, ma sarà anche usato in elettronica
Roma – Il professor Andre Geim ne ha combinata un’altra delle sue. Non contento di aver vinto il Nobel per la Fisica grazie alla scoperta del grafene, Geim e colleghi dell’Università di Manchester hanno modificato il succitato grafene dando origine al fluorografene. Alle qualità del grafene si somma dunque una capacità isolante senza precedenti, fatto che rende il nuovo materiale un candidato ideale alla sostituzione del Teflon e non solo.
Come già il Teflon, infatti, il fluorografene si distingue per la capacità di resistere alle reazioni chimiche, alle alte temperature e alle alte pressioni. Si tratta del più sottile materiale isolante mai realizzato, dicono i ricercatori, ed è altamente probabile che il fluorografene finirà per colonizzare molto più dei fondi nelle pentole da cucina nel corso dei prossimi anni.
Rahul Nair, che ha guidato la ricerca sul fluorografene, dice di essere già nella fase di pianificazione per l’utilizzo del nuovo materiale come una “barriera ultra-sottile per la realizzazione di dispositivi LED e diodi”. “Gli usi maggiormente mondani includono qualsiasi posto in cui è attualmente utilizzato il Teflon, come una copertura di protezione ultra-sottile”, continua Nair, “o come riempitivo per materiali compositi se si ha la necessità di mantenere la forza meccanica del grafene ma nel contempo occorre evitare qualsiasi conduttività elettrica od opacità ottica di un materiale composito”.
“Il mix delle incredibili proprietà del grafene e del Teflon è così invitante che non hai bisogno di sforzare molto l’immaginazione per pensare ad applicazioni di questo Teflon bidimensionale”, ha dichiarato il professor Geim. “La sfida è imparare a sfruttare questa unicità” ha continuato il premio Nobel. Sul medio termine la produzione industriale del fluorografene non dovrebbe essere un problema, visto che secondo i ricercatori si tratta sostanzialmente di adottare le stesse tecnologie usate per produrre grafene.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3033238/PI/News/metti-grafene-fluoro-una-sera-cena.aspx
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Dalle cellule staminali al trattamento delle lesioni spinali: la nuova frontiera della laser chirurgia 11.11.2010
Creazione di cellule staminali in provetta, trattamento di lesioni spinali e midollari, interventi sulle paralisi facciali: sono le applicazioni della laser chirurgia, presentate in occasione del recente congresso Laser Florence 2010.
L’equipe di Leonardo Longo, docente in Laser Chirurgia e Medicina presso le Università di Siena e San Marino, è riuscita a produrre cellule staminali in vitro grazie all’irradiazione laser. I risultati hanno mostrato che, in dieci casi su dieci, il laser favoriva la crescita, la differenziazione e la migrazione delle cellule create, che risultavano essere anche estremamente funzionali.
La stessa equipe ha anche condotto una sperimentazione su 78 pazienti tetraplegici, paraplegici, con fratture spinali e lesioni midollari, di età compresa tra i 14 e i 55 anni.
Lo studio, durato sei anni, ha mostrato l’efficacia della tecnica laser nel ridurre l’infiammazione e nel favorire un recupero (in tutti i pazienti) di funzioni essenziali (come la funzionalità sfinterico/anale e anche vescico/uretrale nella donna, delle attività sessuali, della sensibilità tattile e della termoregolazione) e in cinque casi addirittura è stato possibile per il paziente abbandonare la sedia a rotelle.
I benefici ottenuti dall’irradiazione laser sarebbero duraturi e permanenti e questa sperimentazione, spiega Longo, conferma i risultati ottenuti anche da precedenti studi che hanno dimostrato l’efficacia dell’impiego del laser nel trattamento di paralisi facciali.
Fonti
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Legge di Stabilità e risparmio energetico: salta la proroga alle detrazioni Irpef del 55% 11.11.2010
La manovra sulla Legge di Stabilità toglie i finanziamenti alle detrazioni Irpef del 55% sulle ristrutturazioni edilizie per migliorare l’efficienza energetica degli edifici. Dal 2011 niente più bonus, dunque.
Lo ha annunciato ieri Giuseppe Vegas, Viceministro all’economia che ha detto:
Non trova spazio nella legge di stabilità la proroga al 2011 della detrazione irpef del 55% sulle spese per l’efficientamento energetico degli edifici.
Commenta così Angelo Bonelli della Federazione dei Verdi:
Questa finanziaria è una vera e propria schifezza: è la peggiore degli ultimi 150 anni. Tra i tanti tagli spiccano quelli all’ambiente: dal Fondo sulla mobilità sostenibile alle detrazioni del 55% per le eco-ristrutturazioni e per l’efficienza energetica al fondo per Kyoto. Mentre affossano la green economy finanziano, invece i grandi studi di progettazione che potranno fare un ricco banchetto con i 470 milioni di euro destinati al Ponte sullo Stretto di Messina.
Via | LavoriPubblici
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Petizione
To: Tutte e tutti
Facciamo appello a tutte e tutti affinche’ si esprimano e si mobilitino in favore della scuola pubblica.
A fronte dell’assurdo aumento della spesa militare e della cifra esorbitante che costa alle finanze pubbliche comprare aerei da guerra e bombe, ci raccontano che per tutto il resto non ci sono soldi.
Vogliamo la cancellazione dei progetti faraonici e costosi che favoriscono la cooperazione tra scuole e aziende che producono armi.
Rifiutiamo i pericolosi programmi promossi da Gelmini e La Russa (in particolare Mini-Naja e Allenati per la Vita) che introducono insegnamenti para-militari paralleli o in alternativa alla scuola pubblica che non hanno intenzione di finanziare.
1) TROVARE I SOLDI PER LA SCUOLA TAGLIANDO LA SPESA MILITARE
A fronte di 8 miliardi di euro* tagliati con la finanziaria 133 del 2008 per la scuola, l’Università e la Ricerca, la spesa militare è di 29 miliardi di euro*, con una crescita di 5 miliardi di euro* nell’ultimo anno
2) SCUOLE, ASILI E ASSUNZIONE DEI PRECARI AL POSTO DI F35 E EUROFIGHTER
La spesa di 15 miliardi di euro per gli F35 basterebbe a realizzare 3000 asili nido oppure mettere in sicurezza di 1000 scuole**; i 12 miliardi di euro di spesa per gli EuroFighter sarebbero sufficienti per sostenere 2 anni di stipendio di 182.000 precari della scuola.
3) ABOLIRE LA MINI-NAJA PERCHE’
a) Corsi di addestramento militare diventano validi per il riconoscimento di crediti formativi scolastici.
b) 10.772.720 euro su 20 milioni di spesa*** arriveranno direttamente dai soldi risparmiati nelle scuole.
c) Lo status di militare assoggetta i partecipanti alla Mini-Naja al tribunale e alla giurisdizione militare che prevede reati quali disobbedienza, insubordinazione, manifestazioni o grida sediziose.
4) ANNULLARE IL PROTOCOLLO “ALLENATI PER LA VITA”
Introduce corsi paramilitari paralleli ed equivalenti al programma scolastico.
5) INVESTIRE NEI LABORATORI, NELLE MATERIE DI INDIRIZZO, NELLA RICERCA E NON NELLA COOPERAZIONE CON L’INDUSTRIA DELLA GUERRA
Ad esempio il progetto “Cosmo Skymed”, costa ai contribuenti 1 miliardo e 100 milioni di euro e vede gli studenti coinvolti in ricerche e studi per lo sviluppo delle tecniche militari e spaziali a beneficio di Finmeccanica.
COORDINAMENTO DEI COLLETTIVI STUDENTESCHI DI MILANO E PROVINCIA
Collettivi: Collettivo Itsos Stainer, Collettivo Rebelde Parini, Collettivo Roberto Franceschi Vittorio Veneto, Collettivo Rosa Luxembourg, Collettivo Cardano, Collettivo Majorana-Rho, Collettivo Iskra Manzoni Linguistico, Collettivo Erasmo da Rotterdam Sesto, Collettivo Varalli, Collettivo Gentileschi, Collettivo Primo Levi Bollate, Collettivo Carlo Porta, Collettivo Marie Curie.
Studenti di: Boccioni, Molinari, Ettore Conti, Ferraris, Severi, Besta, Giorgi, Benini Melegnano, Einstein Vimercate, Galileo Galilei, Pacle, Carducci, Dudovich, Vespucci, Capac, Falk Cinisello, Manzoni, Leonardo da Vinci.
Sincerely,
http://www.petitiononline.com/msnw/petition.html
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L’Unesco cancella finalmente la Giornata filosofica di Teheran 10.11.2010
La Giornata Mondiale della Filosofia patrocinata dall’Unesco non si celebrerà più a Teheran, dove era stata inizialmente prevista l’edizione del 2010. La protesta di Reset-Dialogues on Civilizations, che fin dall’inizio dell’anno aveva aperto il caso con una lettera sottoscritta da Giuliano Amato, Giancarlo Bosetti, Ramin Jahanbegloo è andata dunque a segno, nonostante lunghi mesi di esitazioni, rinvii.
Il segretario generale dell’Unesco Irina Bokova ha annunciato che la Giornata Mondiale della Filosofia patrocinata proprio dall’Unesco non si celebrerà più a Teheran, dove era stata inizialmente prevista l’edizione del 2010. Quest’anno, la capitale mondiale della filosofia sarà Parigi, il riconoscimento all’iniziativa di Teheran è ritirato, cancellato. La protesta di Reset-Dialogues on Civilizations, che fin dall’inizio dell’anno aveva aperto il caso con una lettera sottoscritta da Giuliano Amato, Giancarlo Bosetti, Ramin Jahanbegloo è andata dunque a segno, nonostante lunghi mesi di esitazioni, rinvii.
Che l’Iran di Ahmadinejad non garantisse decenti condizioni per un libero dialogo tra filosofi era chiaro fin da principio. Ancora più evidente dopo che si è saputo che il responsabile dell’iniziativa in Iran, Gholamreza Avani, direttore dell’Istituto Iraniano di Filosofia, era stato sostituito con Gholam Ali Haddad Adel, genero dell’Ayatollah Ali Khamenei, mentre le autorità diramavano direttive secondo le quali le scienze sociali e la filosofia occidentale non sono adatte all’Iran.
Il ritardo nell’assumere una decisione chiara sulla cancellazione dell’evento Unesco in Iran ha aumentato gli imbarazzi, che sono diventati insostenibili, quando le informazioni sullo stato delle cose sono state fatte rimbalzare da Reset-Doc in un incontro a New York alla New School of Social Research, lo scorso 27 settembre, e mentre venivano rese note le larghe adesioni alla protesta da parte di molti noti filosofi come Seyla Benhabib, Juergen Habermas, Michael Walzer, Axel Honneth, Alessandro Ferrara, Andrew Arato, Jean Cohen, e di intellettuali iraniani come Hamid Dabashi, Farzin Vardat, Ferzaneh Ganji.
Il sito http://www.resetdoc.org apriva le sue pagine al flusso delle proteste e si preparava intanto una iniziativa sul web per ospitare una giornata mondiale della filosofia alternativa a Teheran: www.philosophy4freedom.org. L’iniziativa di New York, ripresa dalla stampa americana e tedesca, ha mostrato tutta l’assurdità di un evento che si presentava come ormai imminente. La decisione della Bokova ha tolto finalmente dall’imbarazzo l’Unesco e ha reso ancora più evidente l’isolamento di Teheran. Qui l’organizzazione aveva da tempo aperto un sito con le insegne dell’Unesco, per celebrare e documentare la Giornata mondiale della filosofia in Iran: www.philosophyday.ir. Il logo dell’Unesco è stato immediatamente cancellato dalla homepage, ne rimangono per ora tracce nelle pagine interne. Si ignora se vi saranno reazioni ufficiali di parte iraniana.
http://www.resetdoc.org/story/00000021356
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Roberto Saviano col Risorgimento s’è dato la zappa sui piedi 12.11.2010
Da “Franci” fr_abbe@yahoo.it per ListaSinistra@yahoogroups.com
Ho letto sui giornali (non avendo visto la trasmissione) del roboante peana mazziniano pronunciato in tv da Roberto Saviano[1]. Mi perdonino i lettori se confesso un peccato imperdonabile: non ho letto Gomorra. Pur con questo handicap, una certa idea sul personaggio me la sono fatta. Sorvoliamo in questa sede sulla sua contraddizione di fondo (parlare contro i poteri criminali della propria terra e poi schierarsi con i poteri criminali del pianeta Terra[2]) che una certa indignazione l’ha purtuttavia suscitata[3]. Sorvoliamo sull’oleografia risorgimentale propinata domenica dal detto personaggio – “L’Italia nel sogno di Mazzini era un’unica patria indivisibile libera dallo straniero e repubblicana” (patetica, da parte di uno scrittore meridionale, rispetto ad una revisione storiografica ormai di dominio pubblico) – e concentriamoci su un punto specifico: è sicuro Saviano, esaltando quel Sud da cui “è partita la spinta risorgimentale”, di non darsi la zappa sui piedi proprio rispetto a ciò che ritiene di conoscere meglio, e cioè la camorra?
Eh sì, perché uno scrittore importante come Saviano dovrebbe sapere che la camorra, pur presente in Campania da tempo immemorabile, è proprio nel 1860 – durante la transizione tra l’uscita di scena di Francesco II e l’arrivo a Napoli di Garibaldi – che fa il salto di qualità e diventa uno degli innegabili protagonisti del “Risorgimento” partenopeo. Fu infatti l’allora ministro dell’Interno del Regno, Liborio Romano, il mazziniano Liborio Romano che, per sbarazzarsi dei poliziotti di Napoli – rimasti fedeli alla vecchia monarchia – penso bene di sostituirli direttamente con i guappi!
Questa storia incredibile è raccontata da Giuseppe Buttà[4] nel suo UN VIAGGIO DA BOCCADIFALCO A GAETA – memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861. Prima di passargli la parola mi sembra opportuno un ragguaglio su Liborio Romano. Padre Buttà lo definisce a ragione, oltre che mazziniano, anche massone. La prova certa della sua appartenenza l’ho trovata nello studio di Luigi Polo Friz LA MASSONERIA ITALIANA NEL DECENNIO POSTUNITARIO – Ludovico Frapolli[5]. A p. 137 del volume in questione troviamo il seguente riferimento:
“Nel 1867 morì Liborio, Ministro dell’Interno e della Polizia generale nell’ultimo governo borbonico. Su di lui esiste una non trascurabile letteratura. Amico di due grandi patrioti, Libertini e Stasi, della Mario Pagano, «divise con loro l’amore per i valori liberal-democratici». Il Bollettino[6] dedicò a Romano due pagine. L’Umanitario gli concesse uno spazio assai più modesto, sebbene il necrologio fosse dovuto: nell’agosto del ’66 lo scomparso era stato nominato «Presidente interino della Sezione Concistoriale all’Oriente di Napoli» ed aveva ringraziato con entusiasmo sia Dominici che Bozzoni”.
L’edizione da me utilizzata dell’opera di Buttà è quella Bompiani del 1985, prefata da Leonardo Sciascia (il brano in questione si trova alle pagine 117-122). Ecco cosa scrive lo storico siciliano:
In Napoli è la setta così chiamata de’ camorristi; e per quelli che non la conoscono è necessario che ne abbiano un’idea; imperocché di questa setta se ne servirono i liberali per far popolo, rumore, dimostrazioni e detronizzare Re Francesco II.
La setta de’ camorristi è molto antica in Napoli; ma alcuni sostengono che sia comparsa con la dominazione spagnuola. Difatti l’origine del nome Camorrista è da Camorra, che in ispagnuolo vuol dire querela. Altri poi dicono che Camorrista viene da Morra ch’è un giuoco ove si commettono soprusi e giunterie. Ed invero i camorristi traggono de’ guadagni sopra i giuochi leciti ed illeciti. Camorrista in Napoli suona ladro, giuntatore, galeotto, accoltellatore, usuraio guappo o sia spacconaccio.
I camorristi generalmente vestono giacca di velluto, calzoni stretti a’ ginocchi, larghi sul piede. Per cravatta usano un fazzoletto a diversi colori, annodato al collo, molto largo con lunghe punte; gilè aperto, berretto o cappello pendente sempre da un lato della testa, capelli lisci, canna d’India in mano e ben lunga, e sigaro in bocca, che chiamano siquario. Quando parlano e si vogliono atteggiare a guappi, o appoggiano un fianco sopra la canna d’India, o aprono e chiudono le gambe abbassando il corpo.
Per essere ammesso tra’ camorristi, è necessario, come essi dicono, essere onorato. Prima fanno il noviziato, ed imparano a maneggiare bene il bastone, il coltello, ed usar bene il linguaggio furbesco. Quando sono giudicati idonei dal Caposquadra, passano al grado di Sgarra, indi a quello di Contaruolo, ch’è una specie di contabile e di cassiere. Per essere Caposquadra un Contaruolo dovrà battersi col coltello con dieci persone separatamente, ferirne almeno tre e non aver mai rifiutata alcuna sfida.
Quando rubano si dividono il bottino secondo i gradi che occupano. Vi sono quelli destinati a fabbricare chiavi false, quelli a fare i borsaioli, i rapinatori, i manutengoli, e gli accoltellatori. Vi sono poi quelli destinati a fare il palo, cioè la spia per avvertire i ladri nell’atto che rubano, se mai occorresse pericolo di essere veduti o arrestati. Vi sono i pedinatori, i quali seguono colui che esce di casa o dal proprio negozio e che dovrà essere derubato: il pedinatore è destinato ad avvertire i colleghi che rubano, che già ritorna il padrone che si sta rubando, per farli scappare via con quello che han potuto sgranfignare.
I camorristi puniscono le trasgressioni, sfregiando col rasoio il trasgressore. Chiamano infame chi fa testimonianza contro qualunque ladro o assassino. Del resto tra loro si proteggono a maraviglia: soccorrono con particolarità i loro compagni carcerati e pagano l’avvocato per difenderli. Qualche volta i camorristi difendono i deboli contro i forti, e fanno da pacieri in qualche diverbio o rissa tra persone a loro non appartenenti.
La gente onesta teme i camorristi, non li accusa alle autorità, e per lo più si sottomette alle loro giunterie, per non essere accoltellata da coloro che restano in libertà.
Vi sono pure in Napoli e dapertutto de’ camorristi in frak e guanti gialli, che spesso si applicano qualche qualità e sono questi i più pericolosi, specialmente per la borsa; perché fanno debiti per non pagarli mai, vivono con lusso, facendo i cavalieri d’industria. Guai se loro domandate il vostro credito, vi dicono male parole, e vi minacciano. I liberali si servirono di questi camorristi aristocratici per creare la classe pensante, come essi dicono.
Questa esiziale piaga del camorrismo è stata e sarà sempre il terrore della città di Napoli. Tutte le dominazioni, che si sono succedute, hanno accusate le precedenti, perché non hanno distrutto la setta dei camorristi, e poi esse medesime han finito per tollerarla, e qualche volta se l’han fatta alleata.
Proclamata la Costituzione, il Ministero liberale fece Prefetto di Polizia Don Liborio Romano, nativo delle Puglie. Era costui un avvocatuccio infelice, o come suol dirsi, avvocato storcileggi: fu carbonaro, massone, mazziniano, e nel 1850 fu messo in carcere, ed in ultimo esiliato. Il 22 aprile del 1854, D. Liborio mandò da Parigi, ove si trovava allora, un’umile supplica al Re Ferdinando II, nella quale protestava: «Devozione e attaccamento alla sacra « persona del Re: e se mai l’avesse offesa inconsapevolmente, pro-« mettea in avvenire una condotta irreprensibile ». Re Ferdinando lo fece tornare nel Regno.
D. Liborio Romano, divenuto prefetto di polizia liberale, si circondò di tutta la Camorra napoletana, ed altra ne fece venire poi dal Regno, e dal resto d’Italia. Di alcuni di quei camorristi non so che novelli poliziotti ne abbia fatto; ad altri diede l’onorevole mandato di far la spia alla gente onesta, designata sotto il nome di borbonica, altri infine, ed erano i più facinorosi, destinò a soffiare nel fuoco della rivoluzione, in mezzo al popolaccio napoletano. Le prime prodezze dei camorristi – sempre diretti da D. Liborio, prefetto di polizia – furono gli assalti dati agli ufficii della vecchia polizia, essendo stata questa troppo curiosa di conoscere i fatti della gente poco onesta, e come intorbidatrice della pace de’ camorristi e de’ settari.
A dì 27 e 28 giugno, dopo tre giorni che si era proclamata la Costituzione, vi furono due assembramenti di camorristi, di lenoni, di monelli e di cattive donne, tra le altre la De Crescenzo e la celebre ostessa detta la Sangiovannara: tutti pieni di fasce e nastri tricolori, con pistole e coltelli, gridavano libertà ed indipendenza, a chi non gridasse in quel modo parolacce e busse.
Il 27 assalirono i due Commissariati di polizia, quello dell’Avvocata e l’altro di Montecalvario. Un certo Mele, capo di quelle masnade, che giravano in armi in cerca della vecchia polizia, ferì a Toledo l’ispettore Perrelli. Costui fu messo in una carrozzella per essere condotto all’ospedale: potea vivere, ma il Mele lo finì nella stessa carrozzella a colpi di pugnale. In compenso di quella prodezza, il Mele fu ispettore di polizia sotto la Dittatura di Garibaldi. Giustizia di Dio…! L’anno appresso il Mele fu accoltellato da un certo Reale, altrimenti detto bello guaglione; svenne, fu messo pure in carrozzella, ma prima di giungere all’ospedale morì.
Il prefetto Don Liborio, vedendo che tutto potea osare impunemente, il 28 riunì un grande assembramento di que’ suoi accoliti, e loro impose di assaltare gli altri Commissariati della vecchia polizia.
Le scene ributtanti e i baccanali di questa seconda giornata oltrepassarono di gran lunga quelli operati nella precedente. Quella accozzaglia assalì i Commissariati al grido di muora la polizia! Viva Carlibardi! – così alteravasene il nome dalla plebaglia – La truppa, che tutto vedeva e sentiva, fremea di rabbia, ed era obbligata da’ suoi duci a starsene spettatrice indifferente.
Gli assalitori de’ Commissariati gittarono da’ balconi tutte le carte, il mobilio, le porte interne, e ne fecero un falò in mezzo alla strada. Un povero poliziotto del Commissariato di S. Lorenzo si era occultato in un credenzone, e così, com’era, fu gittato da un balcone in mezzo alla strada. Intorno a quel falò si ballava, si bestemmiava, si cantavano canzoni le più oscene.
Il solo Commissariato della Stella non fu invaso e distrutto per quella giornata, perché i vecchi poliziotti di guardia si atteggiarono a risoluta difesa, e tennero lontani i camorristi e compagnia bella. Ma que’ difensori del Commissariato, vedendo che il Governo volea la loro distruzione, la sera abbandonarono il posto, che fu l’ultimo a essere distrutto.
Dopo che i camorristi fecero quelle prodezze, andavano attorno con piatti nelle mani a domandare l’obolo per la buona opera che avevano fatta. E i liberali, trovarono giustissimo quanto aveano operato i camorristi; poiché secondo la loro logica, la Costituzione proclamata importava uccidere i cittadini, che aveano servito l’ordine pubblico ed il Re.
Sarebbero state sufficienti queste prime scene inqualificabili, perpetrate da’ camorristi, capitanati da D. Liborio, prefetto di polizia liberale, per far conoscere anche agli sciocchi, e principalmente a chi potea e dovea salvare la Dinastia e il Regno, che la proclamata Costituzione serviva come mezzo sicurissimo per abbattere Re e trono. Ma si proseguì sulla medesima via de’ cominciati disordini, i quali si accrescevano giorno per giorno, ora per ora con selvaggia energia, ed a nulla si dava riparo. Ciò dimostra la tristizia e l’infamia degli uomini che allora aveano afferrato il potere, e la dabbenaggine di coloro che si dicevano, ed erano realmente, pel Re e per l’autonomia del Regno.
(…)
Il ministro della guerra, Leopoldo del Re, devoto e fedele al Sovrano, in vista dell’anarchia sempre crescente a causa de’ camorristi, diretti e sostenuti da D. Liborio, prefetto di polizia liberale, tolse dal comando della Piazza il generale Polizzy, il quale non avea fatto impedire da’ soldati quei baccanali e quegli eccessi perpetrati da’ camorristi, e dal resto della brunzaglia napoletana. In cambio nominò il duca S. Vito, il quale proclamò lo stato d’assedio. Si proibì ogni assembramento maggiore di dieci persone, e la esportazione d’armi e di grossi bastoni. S. Vito uomo risoluto, a norma dell’Ordinanze di Piazza, volea procedere al disarmo. D. Liborio però si oppose energicamente, conciosiaché disarmando i camorristi, egli, prefetto di polizia liberale, rimaneva senza armata e senza prestigio; e, sostenuto come era dalla setta e dai traditori che circondavano il Re, la vinse; ed i camorristi rimasero padroni di Napoli, cioè erano essi la sola autorità dominante.
D. Liborio non contento ancora di avere a sé i camorristi, volle pure che i medesimi fossero riconosciuti e pagati dal Governo; di fatti ottenne un decreto, in data del 7 luglio, col quale si aboliva l’antica polizia, e se ne creava una nuova di camorristi, con nuove uniforme e nuovi principii, già s’intende.
Fu uno spettacolo buffonesco quando si videro in Napoli i camorristi dalla giacca di velluto, vestiti da birri, o sia da guardie di pubblica sicurezza, e i loro caporioni da Ispettori. Quei custodi dell’ordine pubblico faceano paura agli stessi liberali, e molti di costoro si dolsero con D. Liborio; il quale rispose di aver fatto benissimo; dappoiché i camorristi doveano essere compensati e protetti a preferenza, per grande ragione de’ servizii che aveano resi, e di quelli che doveano rendere ancora: diversamente, si sarebbero messi dal lato dei reazionari. Disse pure, ch’egli si augurava di fare di loro tanti onesti impiegati governativi; essi, che fino allora erano stati negletti e perseguitati (che peccato!); e che era suo divisamento cavare l’ordine dal disordine[7]. – Queste massime antipolitiche e antisociali, specialmente pel modo come l’applicava D. Liborio, erano imitate dallo stesso Ministero negli altri rami amministrativi, cacciando via gli impiegati antichi ed onesti, e surrogandoli con gente o ignorante, o dubbia o disonesta.
[1] http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/09/saviano-il-tricolore-contro-la-macchina-del-fango/75912/
[2] http://www.fiammanirenstein.com/articoli.asp?Categoria=11&Id=2438
[3] http://guerrillaradio.iobloggo.com/1989/roberto-saviano-vieni-via-con-me
[4] http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Butt%C3%A0 . Una sommaria conferma del racconto di Padre Buttà la si trova anche su Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Camorra
[5] FrancoAngeli, Milano, 1998
[6] Si tratta del Bollettino massonico
[7] Si ricordi al riguardo il celeberrimo motto massonico ORDO AB CHAO.
Pubblicato da Andrea Carancini
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La dittatura della pubblicità 07.11.2010
Da quando vidi il film Il maschio e la femmina (1966) la prima volta avevo l’età dei suoi protagonisti e me ne colpì l’intelligenza nella descrizione dei disagi e speranze di una generazione. Ma quel che più ne ricordo è la scritta che, a bruciapelo e senza necessità evidente, interrompeva una scena per affermare che «la pubblicità è il fascismo del nostro tempo».
Si è governato e si governa, in gran parte del mondo occidentale, con gli strumenti del consenso e del consumo, riuscendo quasi sempre a evitare il manganello e la censura diretta. Col companatico al posto del pane, la televisione al posto dei giochi del circo (ultima variante i festival di letteratura e altra cultura) e con la pubblicità.
Pubblicità in senso lato – di uno stile di vita, di un modello di società propagandato come il migliore o l’unico possibile – ma che anche nel senso specifico e ristretto di un tipo di comunicazione che mira a far acquistare delle cose. Il potere della pubblicità è cresciuto enormemente, la stampa, per esempio, ne vive e ne è ricattata, le leggi che la limitavano sono state progressivamente abbattute e ci sono riviste dove le pagine di testo sono un terzo di quelle riservate alla pubblicità, senza considerare la pubblicità indiretta.
Fu Vance Packard per primo a denunciare questo attentato alla democrazia e alla libertà dell’informazione in un libro celebre, I persuasori occulti, a metà degli anni cinquanta. A noi poteva sembrare fantascienza, ma poi, come in molti altri campi, la fantascienza è diventata realtà, e come “genere” letterario è quasi scomparso (riprende oggi, mascherato, nella più accorta letteratura per ragazzi). Anche la battuta di Godard, che al suo tempo indicava una preoccupazione o una messa in guardia, è oggi una constatazione.
Un’idea moderna di pubblicità è esplosa in Italia negli anni sessanta, prima la pubblicità era secondaria, rozza, poco o niente mediata. Su un giornale degli anni trenta o quaranta la pubblicità di un lassativo si serviva dell’immagine celebre dell’incontro tra Dante e Beatrice lungo l’Arno accompagnata dal verso della Commedia «<Io son Beatrice che ti faccio andare». Poi, col boom, vennero le grandi agenzie e la leva dei professorini che avevano sulla scrivania dei loro uffici milanesi e torinesi (l’ho visto coi miei occhi, ho avuto molti amici che si sono dati a quel mestiere) le opere di Jung e altri studiosi di simboli e miti, di immagini archetipiche, di studi sull’inconscio. La pubblicità si faceva furba e intellettuale, un settore in enorme espansione. Non sembrava disdicevole farne una professione.
La fase successiva è il ’68: quando si trattò di trovare lavoro molti passarono dal movimento alla pubblicità, soprattutto a Milano (più assai di quelli che finirono nel giornalismo o nella politica istituzionale, ma ovviamente meno di quelli finiti nella scuola). Ne vennero una perdita di sottigliezza, messaggi sempre meno velati, una aggressività via via più volgare e diretta. I giornali sono brutti anche per i ricatti della pubblicità. E se sfogliamo un quotidiano di quelli importanti (che sono due, forse tre, in stretto legame con lotte e intrighi del potere, dominatori dell’informazione bacata e nemici giurati della riflessione e delle connessioni) vediamo che vi si fronteggiano pagine di cronaca raccapricciante e di pubblicità da mondo dei sogni. E colpisce il leit-motiv, il tormentone sessuale: chi compra un’automobile X o Y scopa meglio e di più, e questo vale per una scatola di piselli o una birra, un computer o un best-seller, e volti e corpi di giovani robot da film americano imbecille vi si offrono spudoratamente, come in un Eden ritrovato dove ogni albero, animale o nuvola serve solo a veicolare un unico messaggio: comprate, solo così sarete felici.
La sua logica è berlusconiana, ma chi protesta per altre forme di manipolazione trova questa normale, o meglio, la trovano normale i giornali e i giornalisti che se ne nutrono. L’elargizione della pubblicità Fiat, per esempio, è stato un modo di influire sui giornali della sinistra, anche quelli apparentemente più liberi. La manipolazione pubblicitaria incide in profondità sulla salute mentale e sulla morale dei destinatari dei loro messaggi, e su quelli della Repubblica. È espressione del fascismo del nostro tempo. Dopo la guerra, molti figli chiesero ai padri come si erano comportati sotto fascismo o nazismo. Accadrà anche in Italia, dopo il trentennio che muore? Sarebbe sano, ma non succederà.
http://www.unita.it/news/goffredo_fofi/105566/la_dittatura_della_pubblicit
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Russia, il massacro dei reporter scomodi
Già 8 giornalisti uccisi nel 2010. 15.11.2010
E i pestaggi sono sempre più frequenti
MARK FRANCHETTI
MOSCA
Il filmato offuscato girato da una telecamera di sicurezza mostra Oleg Kashin, stimato giornalista di uno dei migliori quotidiani russi, mentre rincasa a piedi. È sabato sera, il 6 di novembre. Un uomo che porta un mazzo di fiori improvvisamente si ferma di fronte a Kashin e gli sferra un pugno sulla faccia, facendolo cadere a terra. L’aggressore poi tira fuori una spranga di ferro nascosta tra i fiori mentre un altro uomo lo affianca e inchioda a terra il giornalista. Seguono almeno 40 colpi assestati selvaggiamente con la spranga. L’aggressore colpisce Kashin metodicamente e brutalmente su tutto il corpo. Priva di ogni possibilità di difendersi, la vittima viene abbandonata esanime in strada. (http://www.lifenews.ru/news/42779)
A una settimana dal feroce attacco, Kashin, che aveva apertamente criticato alcuni funzionari russi e aveva scritto in merito alla controversa proposta di abbattere una foresta per costruire una redditizia autostrada per San Pietroburgo, si trova in coma indotto da farmaci. Ha subito un grave trauma cranico e fratture multiple, alle mascelle, a una gamba e a diverse dita. In Russia il suo caso ha sconvolto molti ed è stato duramente condannato dal governo e dal Cremlino. Ma molto più inquietante della terribile sorte subita da Kashin è che nella Russia di oggi quello che è successo a lui sta diventando la norma. A quasi vent’anni dal crollo dell’Unione Sovietica, oggi la Russia è uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti.
Dal 2000, poco dopo l’ascesa al potere dell’attuale primo ministro russo Vladimir Putin, nel Paese ci sono stati 19 omicidi irrisolti di giornalisti, oltre a decine di brutali pestaggi. Solo quest’anno sono già stati ammazzati otto giornalisti. In quest’ultima settimana altri due sono stati ferocemente aggrediti. Le due vittime più famose di questa tragica caccia ai miei colleghi sono Anna Politkovskaya e Paul Klebnikov. La prima era una tra le più stimate giornaliste investigative russe, che aveva scritto molto sui crimini e sulle violazioni dei diritti umani in Cecenia. Fu uccisa quattro anni fa, il 7 ottobre, giorno del compleanno di Putin. Il secondo, il direttore americano dell’edizione russa della rivista economica Forbes, fu ucciso due anni prima.
Il Cremlino ha più volte promesso di consegnare gli assassini alla giustizia, ma nonostante due processi di alto profilo entrambi gli omicidi restano irrisolti. Conoscevo la Politkovskaya e incontrai Klebnikov per la prima volta a una lunga cena a Mosca appena cinque giorni prima che fosse ucciso. Non sta a me suggerire quello che potrebbero pensare, ma l’istinto mi dice che non sarebbero sorpresi di sentire che i loro assassini sono ancora liberi. Non c’è prova che il Cremlino abbia avuto un ruolo in uno qualsiasi di queste aggressioni o omicidi. Ma la leadership russa, non riuscendo mai a risolvere questi crimini, è responsabile per la cultura di impunità che ha creato.
Ogni delitto, ogni aggressione viene fortemente condannata. Vengono fatte promesse, aperte inchieste e persino vengono celebrati processi. Ma le condanne sono rarissime. Il messaggio per chi prende di mira i giornalisti non potrebbe essere più chiaro – si può dare la caccia ai reporter troppo curiosi. In fondo ricorrere alla violenza per farli tacere comporta un rischio minimo di essere arrestati. Qualsiasi forma di seria indagine giornalistica è diventata estremamente pericolosa per i giornalisti russi. Svelare la corruzione, rivelare traffici loschi, o anche criticare apertamente un funzionario statale è potenzialmente troppo rischioso. L’elenco delle persone e delle organizzazioni che i giornalisti fanno meglio a lasciare in pace non ha fine.
Il presidente russo Dmitry Medvedev ha promesso di portare gli aggressori di Kashin in tribunale «anche se venisse fuori che sono alti funzionari statali» – un chiaro riconoscimento di ciò che la maggioranza dei russi sa fin troppo bene: che molti funzionari in Russia dovrebbero essere dietro le sbarre e non al potere. Basta parlare con chiunque sia abbastanza al corrente delle indagini sul brutale omicidio, avvenuto 18 mesi fa, di Natalia Estemirova, un’impavida attivista e giornalista che si batteva per i diritti umani in Cecenia, che è stata rapita, uccisa e gettata in un campo. E sentirete che la giustizia viene ostacolata in quanto gli indizi portano alle autorità locali. Una delle piste nel caso di Kashin riguarda la grande battaglia su un bosco a Khimki, una cittadina alla periferia di Mosca, che dovrebbe venire raso al suolo per costruire un’autostrada.
Gli ambientalisti e molti altri gruppi critici del governo si sono aspramente opposti al progetto. In quella che appare una vittoria di Pirro, il progetto è stato temporaneamente sospeso da Medvedev. Data la grande corruzione che affligge il settore delle costruzioni e i governi locali in Russia, le somme in gioco sono enormi. L’attacco contro Kashin può essere o no stato provocato dalla sua attenzione alla polemica su Khimki. Ma con ogni probabilità non lo sapremo mai. La violenta aggressione a Mikhail Beketov, tuttavia, è quasi certamente collegata a Khimki dove il 52enne pubblicava un giornale locale di opposizione che accusò il sindaco di Khimki, Vladimir Strelchenko, di corruzione. Beketov è stato aggredito e picchiato brutalmente due anni fa.
Da allora ha subito otto operazioni, compresa l’amputazione di tre dita e della parte inferiore di una gamba, e un intervento per estrarre schegge del cranio frantumato dal suo tessuto cerebrale. Non può più parlare ed è condannato a vivere su una sedia a rotelle. E i suoi aggressori? Sono ancora a piede libero. Beketov invece? Con scioccante cinismo mercoledì 10 novembre l’ex giornalista è stato giudicato colpevole da un tribunale di Khimki per aver diffamato Strelchenko ed è stato multato di 120 euro.
Medvedev dirà pure tutte le cose giuste, ma il caso Beketov è la realtà russa. E fino a che le parole del Cremlino non saranno seguite da azioni, la Russia diventerà sempre più pericolosa per i giornalisti che cercano solamente di fare il loro lavoro.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201011articoli/60441girata.asp
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La Serbia nell’UE: implicazioni geopolitiche
Giacomo Petrella, 06.11.2010
Lo scorso 25 ottobre i ministri degli Esteri dell’Unione europea hanno scongelato la richiesta serba tesa ad integrare Belgrado nel sistema comunitario. La domanda di adesione era stata presentata dal governo Tadic lo scorso anno, quale primo passo di avvicinamento verso il percorso di piena integrazione. Sono dunque partite, a tutti gli effetti, le trattative diplomatiche fra la Commissione, i 27 membri e Belgrado. Due le questioni fondamentali sul tavolo: la prima, palese e dichiarata dall’Unione, è l’incondizionato appoggio serbo al Tribunale internazionale dell’Aja per la cattura e condanna dei generali nazionalisti Radko Mladic e Goran Hadzic. La seconda, posta sottobanco per via del veto spagnolo e greco, è il riconoscimento dell’indipendenza kosovara. Due questioni di enorme peso per un paese già umiliato e dilaniato come la Serbia.
Su entrambe il presidente Boris Tadic, leader della coalizione europeista, rischia di perdere il suo già lieve margine di consenso; infatti se da un lato, in parlamento, non può che tener conto della volontà del Partito Socialista Serbo, lo stesso che fu di Milosevic e che oggi è l’ago della bilancia della coalizione liberale, dall’altro, sul versante del riconoscimento dell’indipendenza kosovara, Tadic rischia una vera e propria sollevazione popolare e la definitiva sconfitta politica. Lo sa bene Tomislav Nikolic, leader del partito nazionalista, uscito perdente dalle presidenziali del 2008 per un pugno di voti, dopo un ballottaggio fra i più discussi nella recente vita ‘democratica’ del paese.
È in questo contesto che si devono inserire gli scontri dello scorso settembre, svoltisi a Belgrado in occasione del gay-pride e in Italia, a Genova, per la partita di qualificazione fra le due nazionali. In entrambi i casi, frange del nazionalismo serbo hanno apertamento manifestato la loro volontà di boicottare qualsiasi apertura ‘liberale’ ed europea fatta dal governo in carica.
Un governo che aveva vinto le elezioni presidenziali e parlamentari del 2008 sulla scia dell’invidia serba per gli storici “vicini”, Ungheria, Bulgaria e Romania, entrati da poco nell’Unione europea. Proprio il timore di subire un clamoroso ritardo economico rispetto all’area dell’Est Europa che si apriva agli aiuti di Bruxelles, aveva permesso a Tadic di raggiungere la Presidenza e imporre un governo di coalizione filo-europeista.
Ma le richieste di Bruxelles ora mettono Belgrado con le spalle al muro; per entrare davvero nel giro comunitario, Tadic deve spaccare il paese, isolare la metà serba che si riconosce nelle istanze conservatrici ed accettare ciò che per un serbo ortodosso risulta secolarmente inaccettabile: l’indipendenza unilaterale del Kosovo. Una scelta culturale, strategica e geopolitica assolutamente radicale, foriera di importanti conseguenze.
Fra Europa e Russia
La Serbia è da sempre una regione di faglia, è un confine fra Europa occidentale ed orientale, fra cristianesimo cattolico ed ortodosso, persino abituata al doppio uso dell’alfabeto cirillico e latino. E tuttavia, dalla dominazione ottomana giunta al termine della storica battaglia della Piana dei Merli (l’epica resistenza della cavalleria serba all’esercito islamico, nel 1389), la sua identità nazionale ha preso forma in termini eurasiatici, andando a rappresentare quel corpo di congiunzione fra mondo latino e mondo ortodosso, fra Europa e Russia, sacrificatosi a nord di Pristina per la libertà dal nemico esterno.
Per questo motivo la questione kosovara non può essere esclusivamente riferita ad uno scontro etnico e religioso, ad un mero retaggio nazionalista: la battaglia della Piana dei Merli, e dunque il Kosovo, è divenuta per i Serbi il simbolo di un’identità storica e perciò, fattualmente, geopolitica. Solo tenendo in considerazione questo elemento di continuità che rende la Serbia limes d’Europa, e non solo cerniera fra est ed ovest, è possibile analizzare le attuali problematiche internazionali legate a Belgrado.
Verso Bruxelles
Sono dunque facilmente comprensibili le relazioni che spingono le istituzioni serbe ad entrare nell’Europa che conta. Queste sono di tipo culturale, di legittimità identitaria, come detto; legate soprattutto alla comune battaglia civilistica che ha visto Vienna vincere laddove Belgrado aveva fallito.
Certo, sono anche storiche, essendo Belgrado legata a doppia mandata alle vicende imperiali austro-ungariche quale naturale area di interesse e controllo germanico; con tutti i sentimenti di rivincita e accettazione che questo elemento comporta.
Ma a tutto ciò si deve aggiungere il fattore fondamentale, quello economico. Come ribadito da molti analisti, l’Unione eruopea continua ad essere un fenomeno prettamente economico. Per nulla politico. Anzi, essa continua a rappresentare la vitalità produttiva tedesca (la vecchia area del Marco allargata), temperata dalle esigenze agricole e sceniche francesi.
È più che naturale che questo ultimo fattore, assommato ai precedenti, spinga la Serbia verso Bruxelles, senza grosse preoccupazioni per il fatto in sé, visto a Belgrado come un’ineluttabile contingenza macroregionale, priva di reali conseguenze geopolitiche ma ricca di opportunità di cassa. Lo testimonia anche l’atteggiamento politico di Nikolic, il leader nazionalista di opposizione, che verso Bruxelles non ha mai usato toni di netta ed irreversibile chiusura.
Verso Mosca
Ma la Serbia è anche la patria dei monasteri ortodossi. La resistenza serba alla dominazione ottomana fu resistenza ortodossa. L’identità serba, se riferita all’area interna dei Balcani è chiaramente slava. L’uso del cirillico, anche se accompagnato dall’alfabeto latino, ricorda quel tratto orientale che da Bisanzio giunge sino a Mosca. La stessa bandiera serba ripropone i medesimi colori della Federazione russa.
Come per altre regioni dell’Europa dell’est, dunque, anche la Serbia è legata culturalmente alla Russia. Ma ciò che più conta è legata ad essa politicamente e strategicamente. È la Russia che a livello internazionale sostiene le esigenze di Belgrado, ed è stata Mosca, nel 2008, in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ad imporre modifiche restrittive alla missione Eulex, sostenuta da Stati uniti ed Unione europea con l’intento di favorire l’indipendenza del Kosovo. Ed è sempre la Russia che, nel progetto originale del gasdotto South Stream, garantirebbe alla Serbia un ruolo economico di vitale importanza.
Da questo punto di vista è del tutto evidente quanto Belgrado non possa fare a meno del sostegno della grande madre dell’ortodossia, oggi potenza macroregionale.
Scenari geopolitici
I paletti della Ue all’ingresso serbo rivelano ancora una volta tutta l’inconsistenza politica del Vecchio continente. Più che tappe di avvicinamento, sono per Belgrado delle ulteriori prove di espiazione. Sia l’appoggio al tribunale dell’Aja, sia l’indipendenza del Kosovo, più che riferibili alle esigenze di pacificazione europee, sono tappe poste in continuità con l’intervento nordamericano ed alleato degli anni ’90.
Essendo questi i fatti, è chiaro che il futuro della Serbia resti strettamente collegato ai giochi internazionali in atto. Mosca non avrà nulla da obiettare all’ingresso di un suo alleato ‘civile e culturale’, come già accaduto per le altre realtà dell’est, sino a quando l’Unione europea manterrà la sua scarsa concretezza politica.
Cioè, fino a quando Bruxelles non sarà altro che un’unione doganale e monetaria incapace di sviluppare una sua identità politica e strategica. Anzi, la Russia di Vladimir Putin ha già dimostrato di saper cercare il dialogo con quelle realtà continentali maggiormente aperte allo scenario multilaterale. Si veda la Germania, per motivi strettamente economici. E l’Italia, attraverso una relazione politico-strategica già più strutturata, incentrata sul progetto South Stream, che potrebbe rivelarsi importante nell’equilibrio balcanico.
Due sono però gli aspetti che preoccupano Mosca. Il primo è appunto lo stretto rapporto fra UE e Nato. Dal 2004 al 2009, lo sviluppo del processo di integrazione europea è coinciso con gli ingressi nell’alleanza atlantica di gran parte degli stati dell’ex patto di Varsavia. Se ciò dovesse verificarsi anche per la Serbia, l’accerchiamento occidentale alla potenza russa diverrebbe non solo strategico-militare, ma quasi simbolico. Per Mosca significherebbe l’addio alle pretese egemoniche sul mondo ortodosso e la recisione, ancora una volta, del legame con il mito della Terza Roma.
L’altro punto si chiama appunto Ankara, o meglio Istanbul. In un’ottica multipolare, la Turchia era divenuta un obiettivo di partnership meridionale molto concreto per Putin. È opportuno ricordare che lo stesso progetto South Stream, opposto a quello euroamericano Nabucco, dal 2009 prevede proprio nella Turchia uno snodo essenziale. Qualora l’Ue, la Nato e le Nazioni Unite dovessero mai integrare a sé la Serbia, uno dei simboli delle difficoltà di relazione fra mondo europeo e musulmano, il preludio ad un riallinamento turco, auspicato da tutti gli ambienti istituzionali europei, sarebbe piuttosto chiaro. Con grande disappunto di Mosca, circondata ad est e a sud.
Da questo punto di vista, la perdita di Belgrado e l’indipendenza del Kosovo, rappresenterebbero per la Russia un precedente significativo teso alla disintegrazione dell’identità europea ortodossa e al definitivo inserimento delle realtà musulmane dell’Asia minore e centrale (Cecenia su tutte) nel quadro geopolitico statunitense. Ancora una volta, Belgrado sarà il centro di interessi globali pronti a scontrarsi.
* Giacomo Petrella è dottore in Scienze internazionali e diplomatiche (Università degli Studi di Genova)
http://www.eurasia-rivista.org/6666/la-serbia-nellue-implicazioni-geopolitiche
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Fine dell’Unione Europea? 17.10.2010
di TONI NEGRI
Or non è molto, Étienne Balibar esprimeva preoccupazione per la “fine dell’Unione Europea”, di quella costruzione la cui storia è cominciata cinquant’anni fa sulla base di una vecchia utopia ma le cui premesse non erano state mantenute. Aveva ragione. Si aggiunga che, quanto più continua la crisi economica, tanto più si approfondisce la crisi politica del progetto europeo. Le voci che richiedono il ritorno dello Stato-nazione non costituiscono un brontolio sordo che solo diviene coro assumendo toni estremisti, ma sembrano ormai costituire una polifonia di voci populiste ed identitarie che vanno oltre le nazioni stesse – dalla Cecoslovacchia alla Boemia e alla Slovacchia, e dopo il Belgio le Filandre e la Vallonia, dopo l’Italia e la Spagna, i Paesi baschi e la Padania… una balcanizzazione infinita. Qualcosa, nel processo della costruzione europea, non solo sembra essersi bloccato ma andare à rebours. Proprio quando, nella nuova fase della mondializzazione, di fronte alla crisi dell’egemonia americana sul mercato globale e l’emergere di altri blocchi continentali, dell’Unione gli europei hanno soprattutto bisogno. Ma, a rilanciare l’Unione, non basterà rivitalizzare il vecchio processo. Esso era basato, dal punto di vista dell’iniziativa politica su una governance equilibratrice delle dissimmetrie e delle eventuali emergenze dentro una gerarchia tradizionale di Stati; per le politiche economiche, sul coordinamento di uno sviluppo a geometria variabile, sempre tuttavia a dominanza neoliberale. Ed anche dal punto di vista giuridico le cose non sono diverse: è emersa una forma tecnocratica e giurisdizionale dello sviluppo costituzionale che esclude la partecipazione democratica e configura uno “statalismo senza Stato”, la forma peggiore del sovranismo.
Ma la malattia cronica dell’Ue della quale tutte le altre si nutrono, è l’interiorità del progetto europeo alla politica Nato. Gli Usa non hanno mai voluto un’Europa unita. Almeno dalla metà degli anni cinquanta hanno sempre detto: non s’ha da fare! Ne hanno accettato il progetto iniziale solo per stringere il destino europeo nelle strategie della guerra fredda. Ma dopo la caduta del Muro non c’era più ragione di Ue. Per gli Usa questo rifiuto è strategico. L’Ue è per gli Usa un’inaccettabile sfida geopolitica (l’unico paragone adeguato, mi è sempre sembrata la sfida del “bancor” che a Bretton-Woods Keynes lanciò al dollaro). Tanto più è inaccettabile in un mondo pluralizzato dalla crisi della loro egemonia globale. L’Europa è infatti la sola potenza che dal punto di vista economico, culturale e politico, può rappresentare un polo alternativo agli Usa nel contesto plurale della mondializzazione.
A questo scopo, l’Ue dovrebbe, nella situazione attuale, rendere più profondo lo spazio atlantico; di contro, aprire verso l’Est; riequilibrare il suo rapporto con le potenze mediorientali; aprire i suoi mercati ai flussi Sud-Sud. Chiunque abbia una qualche esperienza all’interno della diplomazia internazionale sa che di queste cose un europeo non può nemmeno fare cenno. Perché? Perché gli Usa non vogliano, la Gran Bretagna spia per loro conto, i tecnocrati europei tremano ad ogni fruscio di foglia: ed i capitalisti europei incapaci di sganciarsi da mercati finanziari corrotti (che gli Usa gli offrono) toglierebbero loro la fiducia; e le classi politiche europee sono da troppo tempo selezionate per essere cieche a questo proposito. Ma è sufficiente andare in Brasile o in Cile, in India o in Sud Africa per sentire l’imperiosa sollecitazione che viene agli europei perché rinnovino la loro iniziativa. Nella sensibilità mondiale, il postcoloniale è nei confronti dell’europeo meno ostile di quanto il postimperiale lo sia nei confronti degli yankee.
Se l’Europa non prende consapevolezza di questo – e quindi accentua, ad un tempo, l’iniziativa costituzionale per stringere istituzionalmente i rapporti interni, l’iniziativa politica per garantire ed incrementare la funzione dell’Euro e quindi un’iniziativa unitaria autonoma nella politica estera per mostrarsi come polo essenziale di pace e di regolazione delle relazioni internazionali – essa è destinata a diventare, nell’ambito geopolitico mondiale, qualcosa che rassomiglia alla Svizzera, nel quadro delle relazioni europee dei secoli scorsi. Quanto agli Stati-nazione, se l’iniziativa internazionale non viene riavviata sotto la spinta dell’Ue, sono destinati a divenire delle piccole nuove potenze feudali – che garantiranno un asfittico dominio (sulle rendite e non sui profitti industriali) ai ceti capitalisti, una progressiva degradazione degli stipendi e degli salari dei ceti medi (nonché una recessione dei desideri e dell’immaginazione) e la più squallida povertà per le classi subordinate.
Per finire, un po’ d’ironia. Le forze che più di altre dovrebbero in Europa essere attente a questi problemi, quelle di sinistra, sono in realtà le più insensibili. Sembra infatti che per le forze di sinistra in Europa, il Muro non sia mai crollato. Così, le prove di lealtà agli Usa non sono mai terminate. Per fare un solo esempio, ricordiamo un’ultima tragica farsa, quando D’Alema – il capo dell’antico partito comunista italiano – e Fischer – il capo dei nuovi Verdi germanici – fecero bombardare l’ex-Jugoslavia per nessun’altra ragione che non fosse servilismo atlantico. Non è così che si serve il progetto europeo né che si serve la sinistra. E se gli Usa avranno sempre bisogno di “guardie svizzere”, la sinistra europea, quella vera, non ha mai avuto bisogno del Vaticano. Noi sappiamo che solo una sinistra radicalmente rinnovata potrà costruire l’Europa.
http://uninomade.org/fine-dellunione-europea/
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Auri Sacra Fames
Rosario Patalano, 12.11.2010
Dopo il crollo del sistema di Bretton Woods, nel 1971, economisti e politici liberisti hanno costantemente auspicato il ritorno a forme di regolazione delle relazioni monetarie internazionali fondate sull’oro. È con questo spirito che il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, nel momento più acuto della guerra delle monete che sconvolge i mercati valutari, ha proposto ai paesi riuniti al G20 di Seoul una vera e propria agenda per istituire un nuovo ordine monetario internazionale fondato sulla centralità dell’oro. E poiché la Banca Mondiale è – con il Fondo Monetario Internazionale – il pilastro su cui si costruisce l’attuale assetto delle relazioni monetarie internazionali, la proposta di Zoellick ha riscosso grande attenzione e riavviato il dibattito tra economisti e politici sulla possibilità di una restaurazione, anche in forme innovative, del sistema aureo.
Vediamo allora in dettaglio cosa ha proposto Zoellick – già nel suo articolo del 7 novembre apparso sul Financial Times – per superare l’attuale regime di cambi flessibili più o meno controllati. Il nuovo sistema, scrive Zoellick, “dovrà coinvolgere il dollaro, l’euro, lo yen, la sterlina e un renminbi che si muova verso l’internazionalizzazione” e “dovrebbe anche prendere in considerazione di impiegare l’oro come punto di riferimento internazionale su inflazione, deflazione e futuri valori monetari”. In sintesi, le principali monete dovrebbero essere in qualche modo ancorate di nuovo all’oro, in modo da limitare il potere discrezionale delle banche centrali (che la Federal Reserve sta esercitando pienamente) e assicurare la stabilità dei prezzi mondiali. Il ritorno all’oro – a parere di Zoellick – è stato già implicitamente realizzato dall’ordine spontaneo del mercato, visto che il metallo giallo è sempre di più utilizzato “come asset valutario alternativo”.
Per il momento la proposta di Zoellick sembra, fortunatamente, non essere stata presa in grande considerazione al vertice di Seul. Le conclusioni di compromesso del summit mostrano che il tempo di una riforma del sistema monetario internazionale è ancora lontano.
E tuttavia, anche se apparentemente isolata, la posizione di Zoellick è molto indicativa delle preoccupazioni circa quanto sta avvenendo sul mercato monetario. La Fed, anche per rispondere alla politica di sottovalutazione dello yuan condotta dalla Cina, sta pompando liquidità nel sistema. Per il secondo trimestre del 2011, la Fed inietterà nel sistema finanziario altri 600 miliardi di dollari, mediante l’acquisto di titoli di Stato. Di fronte a questa massa di liquidità si moltiplicano le preoccupazioni per la stabilità monetaria e per i “pericolosi” effetti distributivi, favoriti dall’inflazione, a danno delle rendite finanziarie. E perciò Zoellick propone “l’ancora solida” rappresentata dall’oro.
A ben vedere, Zoellick è l’ennesimo adoratore del “vitello d’oro”, l’ultimo ad essere rapito dal mito del gold standard, il regime monetario che dagli anni Venti è stato presentato come una sorta di terra dell’Eden da riconquistare. Negli ultimi venti anni una copiosa letteratura, analizzando le ragioni del successo del gold standard nel periodo della Belle Epoque, ha provato a fornire nuovi argomenti teorici su cui fondare i progetti di restaurazione del monometallismo aureo; sostenendo che il sistema aureo sarebbe l’unico regime monetario in grado di definire regole automatiche, limitare le scelte discrezionali dei governi, garantire un quadro macroeconomico stabile fondato su relazioni internazionali simmetriche.
Eppure, nonostante gli sforzi dei sostenitori del ritorno al gold standard, il ripristino del monometallismo aureo non appare oggi come una strada precorribile e auspicabile.
Per cominciare, ci sono molti dubbi sulla effettiva capacità del gold standard di funzionare come sistema automatico, eliminando l’intervento discrezionale dei governi. Secondo i sostenitori del ritorno al gold standard, se le autorità monetarie si impegnassero a convertire la moneta in oro ad un prezzo fisso, la circolazione monetaria sarebbe interamente regolata dall’ammontare delle riserve auree disponibili. In questo regime, le aspettative inflazionistiche sarebbero estremamente ridotte, o addirittura nulle, e questo assicurerebbe prezzi stabili e saggi di interesse bassi. L’obbligo della convertibilità viene visto come una sorta di efficace disciplina alla discrezionalità del governo. Tuttavia, ad un esame più approfondito della vicenda storica del gold standard, il nesso stabilito tra il regime aureo e l’assenza di discrezionalità delle autorità monetarie non risulta confermato. Infatti, le banche centrali manovravano il tasso di sconto per correggere, con l’afflusso di capitali, crisi di liquidità nel breve periodo e impedire la fuoriuscita di riserve auree. In definitiva, sul piano concreto, il sistema monetario delle Belle Epoque non ha mai funzionato secondo la descrizione della teoria classica del gold standard. E funzionerebbe negli stessi termini se dovesse essere mai ripristinato; con forti squilibri nella distribuzione dell’oro e una insufficiente offerta di liquidità internazionale che condurrebbe all’uso di monete-chiave internazionali, come il dollaro, per sopperire alla mancanza di liquidità internazionale. Nella sostanza, l’evoluzione prevedibile sarebbe come quella che ha condotto al dollar standard degli anni Sessanta, anche se il nostro “dollaro” potrebbe essere questa volta composto da un paniere di monete più importanti (come lo stesso Zoellick propone).
A rendere impossibile qualsiasi sviluppo simmetrico sarebbe inoltre la stessa distribuzione internazionale delle riserve auree, che dalla fine della Prima Guerra Mondiale è fortemente concentrata. Attualmente, infatti, circa il 79% delle riserve è in possesso delle banche centrali di 11 paesi (su 109), e la sola Federal Reserve custodisce ben il 26,63% delle riserve auree mondiali[1].
Una riforma del sistema monetario che tentasse di ristabilire il principio della convertibilità aurea sarebbe quindi fortemente condizionata dall’attuale assetto proprietario delle riserve.
Ma anche se sul ripristino del gold standard si formasse un ampio consenso politico internazionale resterebbe il rilevante problema tecnico del livello a cui fissare il prezzo ufficiale dell’oro sul quale andrebbe definita la futura convertibilità (il cosiddetto re-entry problem).Il problema della determinazione del prezzo ufficiale dell’oro è strettamente connesso alla possibilità di stabilizzare il suo valore sul mercato. Dall’inizio degli anni Sessanta, lo sviluppo di un mercato privato dell’oro parallelo a quello ufficiale delle banche centrali ha reso estremamente difficile un efficace controllo del prezzo del metallo giallo. Il controllo del prezzo ufficiale dell’oro può essere efficace solo a condizione che la domanda e l’offerta che regolano il mercato privato siano in qualche modo stabili o almeno prevedibili. Sul mercato privato, l’oro è richiesto come materia prima per fini produttivi e come attività finanziaria. La componente per fini produttivi costituisce la parte più rilevante della domanda di oro (circa l’80%) ed è anche quella più stabile e prevedibile, essendo interamente determinata dal reddito mondiale e dall’andamento del prezzo dell’oro, e per questo essa conserva una capacità stabilizzatrice. Diversamente, la domanda a fini di investimento, pur essendo limitata nella sua consistenza, per l’eterogeneità delle sue determinanti, si presenta intrinsecamente instabile ed è all’origine di ampie fluttuazioni del prezzo dell’oro. A fronte, quindi di una offerta sostanzialmente rigida e di una domanda per fini produttivi prevedibile, il prezzo dell’oro fluttua per effetto della mutevole domanda per fini di investimento[2], che è caratterizzata, oggi più che mai, da una forte componente speculativa. Questa particolare evoluzione della domanda si è sviluppata dagli anni Settanta per effetto di fattori quali l’inflazione, l’instabilità dei cambi, le tensioni politiche internazionali che tendono a rafforzare il ruolo dell’oro come bene rifugio.
Nell’ultimo decennio il ruolo dell’oro come bene rifugio si è enormemente accresciuto determinando il continuo incremento del suo prezzo. Dal 2002, in seguito allo sgonfiarsi della bolla speculativa della new economy, il prezzo di mercato (in dollari) dell’oro si è rivalutato del 257%. I capitali in fuga dalla new economy si sono diretti prima verso i mercati immobiliari e poi, dopo lo scoppio della bolla dei suprime, verso i mercati delle materie prime (il petrolio in primo luogo) e dei generi alimentari, per confluire infine, dopo il crollo dei prezzi su questi mercati nel novembre 2008, sul mercato dell’oro, dove il prezzo del metallo giallo continua a crescere, è ha superato la soglia “psicologica” dei mille dollari per oncia[3]. In questi stessi anni, per effetto della recessione mondiale e dello stesso aumento del prezzo dell’oro, se ne è ridotta sensibilmente la domanda per usi industriali (-20 % tra il 2007 e il 2009) e ancor di più è diminuita la domanda per la produzione di gioielli (-27 %). Di contro è drasticamente aumentata la domanda di oro per investimenti (del 95%).
Una riforma monetaria in direzione della convertibilità aurea delle moneta dovrebbe preliminarmente stabilizzare il mercato aureo riducendo fortemente la sua componente speculativa. Operazione estremamente difficile, che richiederebbe di fatto la chiusura del libero mercato privato dell’oro. Ma in questo caso le presunte virtù stabilizzatrici automatiche della merce-moneta cesserebbero di funzionare e vi sarebbe una regolazione politica del prezzo dell’oro. E poco cambierebbe rispetto all’attuale sistema di moneta fiduciaria regolata politicamente.
Resterebbe poi l’enorme ostacolo della sproporzione tra la quantità di dollari in circolazione nel mondo, che alimenta la liquidità internazionale, e la consistenza delle riserve auree. Il problema di ristabilire l’equilibrio tra moneta segno (il dollaro) e le riserve auree, potrebbe essere risolto ovviamente solo attuando drastiche e drammatiche deflazioni. Evento che negli anni Venti fu parzialmente scongiurato con il ricorso al gold exchange standard, cioè ridando legittimità all’uso di moneta fiduciaria, anche se indirettamente legato all’oro.
Insomma, nonostante la sua immediata semplicità, in definitiva, il progetto di restaurazione di sistemi diretti o indiretti a convertibilità aurea è allo stato attuale solo una pericolosa minaccia per fondare politiche di stabilizzazione conservatrici sul piano interno e, a livello internazionale, per imporre una sorta di disciplina ai paesi emergenti (poveri d’oro). Il pensiero conservatore vorrebbe ritrovare il suo mito perduto: Auri sacra fames!
[1] Secondo stime del World Gold Council, le banche centrali posseggono il 18% dello stock mondiale aureo.
[2] L’investimento in oro cartaceo (paper gold) negli ultimi anni è divenuta una quota sempre più importante della domanda.
[3] Soglia toccata l’8 settembre del 2009 al prezzo di 1000,75 dollari per oncia.
http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/auri-sacra-fames/
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Partita chiusa
Andrea Sironi, 12.11.2010
Fine dei giochi, il “Collegato Lavoro” è diventato legge dello Stato, legge n.183/2010 del quattro novembre per la precisione. Le norme aberranti contenute nel testo sono state quindi promulgate e fra quindici giorni saranno legittimamente praticabili in tutto il territorio nazionale
Plauso della Confindustria, ovviamente, che si sente ora più libera nei rapporti di lavoro fra azienda e lavoratore, ma plauso anche da parte di alcuni sindacati che ammiccano al potere. Cisl, Uil e Ugl per intenderci.
E’ da tempo che l’economia oltre che ostacolare la vita, ostacola persino la sopravvivenza delle persone. Sia il lavoratore precario che quello cosiddetto a “tempo indeterminato” diventeranno presto vittime di un sistema economico che ha piano piano smembrato l’intero sistema di produzione, impoverendolo di tutti i suoi, anche più elementari, regolamenti.
Il tutto silenziosamente, un attacco al lavoro strisciante, coperto dai “bunga bunga”, dai Fede, dai Lele Mora, dalle Ruby e da tutto lo spettacolo propinato dai media, dove il vero, come scrisse Guy Debord, è un momento del falso.
Il piano di discussione sta velocemente cambiando, fino a poco tempo fa i precari erano le prede più facili ed indifese da colpire, ora anche chi ha un posto di lavoro “fisso” è attaccabile in qualsiasi momento della propria vita lavorativa.
Anzichè avere una estensione dei diritti, con il “Collegato” si ha, da un lato un inasprimento dei “non-diritti” dei precari e dall’altro l’introduzione di norme che vanno a destabilizzare i diritti di chi prima li aveva.
I rapporti non sono più alla pari, non lo sono mai stati del resto, ma non fino a questi livelli, dove il lavoratore viene messo nelle condizioni di non progettare nulla che non abbia una brevissima scadenza, dove delle discordanze fra azienda e dipendente non potranno più essere risolte tramite un giudice bensì tramite un “arbitro” che valuterà l’equità, in base a non ben precisati parametri.
Ed ancora una modifica dei termini per l’impugnazione dei licenziamenti dei lavoratori interinali e a progetto, e poi ancora la permissibilità di contratti individuali, esonerati dalla regolamentazione del contratto nazionale.
Il “Collegato Lavoro” dunque ha una visione strategica, di lunga gittata, che apre un varco per i prossimi attacchi. Gli obiettivi sono il contratto nazionale, che per certi aspetti limita la libertà che le aziende vorrebbero e lo “Statuto dei Lavoratori”, ovvero quella serie di norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro.
Due obiettivi importanti, due obiettivi che custodiscono la storia del lavoro in Italia, con le sue estenuanti lotte per dare dignità al lavoratore attraverso una giusta ed equa regolazione delle parti.
Concetti detti e ridetti fino all’esasperazione, purtroppo però, senza una valida sponda politica, rimangono solamente delle semplici esternazioni, senza soluzioni pratiche che diano voce, a chi voce non ce l’ha.
L’autunno è proprio arrivato.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=16221
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Un miliardo per il riarmo. E il deficit del bilancio pubblico? 15.11.2010
di Paolo Borrello
Nei giorni scorsi, nonostante le difficoltà del bilancio pubblico, le Commissioni Difesa di Camera e Senato, con il silenzio-assenso del Pd, hanno approvato un programma di riarmo che prevede spese di circa un miliardo di euro, gran parte dei quali andranno a finire alle aziende belliche del gruppo Finmeccanica, gruppo che per vari motivi è oggetto di notevoli critiche. Di quanto avvenuto in Parlamento ne riferisce Maurizio Turco, deputato radicale eletto nelle liste del Pd, in un’intervista rilasciata a http://www.peacereporter.net:
Perché avete presentato un’interrogazione parlamentare?
Abbiamo presentato un’interrogazione parlamentare perché mancavano i documenti accompagnatori, mancava una relazione, non c’era nulla, ma ciò che è più grave è il silenzio generalizzato sulle politiche di armamento e riarmamento. Spero che all’interno dello sbando in cui si trova il Pd in questo momento ci sia la possibilità di interlocuzione per spezzare questo regime. Non c’era nessuno, tra coloro che sono passati dal Parlamento, che hanno fatto un lavoro di denuncia come il nostro, contro le politiche non dico di questo governo, ma di questo Paese, che da sempre snobba il Parlamento. Abbiamo decine di interrogazioni depositate al ministero della Difesa che non hanno avuto risposta. Abbiamo perciò deciso d’ora in poi di depositarle al tribunale militare. Sulle politiche di riarmo, si può dire che siano politiche stupide: ci stiamo armando come se dovessimo fare chissà che cosa, e invece sono pezzi di ferro destinate ad arrugginirsi, quando siamo in Afghanistan con strumenti inadatti. Siamo lì coi mezzi Lince, stiamo aspettando i Freccia e nel frattempo ci sono i morti, che loro chiamano di pace. Io non voglio dire di guerra, ma di incapacità di governo sì. Dietro tutto questo ci sono interessi ancora più profondi di quelli che si conoscono. La prima cosa da fare è avere trasparenza. Altro che cricca, altro che omertà mafiosa, è un sistema di gestione per me incomprensibile. Fossi al governo lavorerei unicamente per avere un esercito europeo, che costituisca la rete minima di sicurezza. Qui con la scusa dell’esercito assistiamo a una militarizzazione sconsiderata. Cinque anni fa hanno portato i carabinieri dal ministero dell’Interno al ministero della Difesa. Oggi sono una forza armata che risponde a regole inopportune, agendo come corpo militare. La legge militare deve avere un senso anche nelle missioni all’estero, oltre che per la sicurezza interna. Quando si parla di armi, militari, armamenti siamo nelle sabbie mobili, nelle quali non solo è difficile muoversi, ma a volte anche entrarci.
Tra i vari stanziamenti, spiccano anche 60 milioni di euro per la creazione di un hub militare all’aeroporto di Pisa, che potrebbe diventare una delle più grandi basi aeree della Nato in Europa. Oltre che all’acquisto di armi si assiste a una vera e propria militarizzazione del territorio.
C’è anche un altro fatto, se possibile ancora più grave. Stiamo lavorando su una pista, che non è una pista segreta: la Nato vuole allocare gli armamenti nucleari sparsi un po’ in Europa in Polonia, Italia e Turchia. Qui dovremmo sapere qualcosa di più, ma anche su questo… silenzio totale. Mi auguro che tra i vertici militari ci siano degli uomini democratici, non dico pacifisti o antimilitaristi, ma democratici.
Se in uno Stato dittatoriale , o in una giunta militare la politica dovrebbe essere il contrappeso democratico, paradossalmente nel nostro Paese sembra una classe politica aggressiva e bellicista a mettere il cappello ai militari.
Non sono d’accordo. Il nostro ministro della Difesa fa la faccia feroce ma non può dire niente. Firma, e in cambio gli fanno fare la faccia feroce. Un ministro come lui fa comodo. Contrariamente a quello che si crede, tutto quello che ha a che fare con l’apparato industrial-militare è nelle mani dei generali, o degli ex generali. Una volta che hanno finito il servizio, dove vanno a lavorare?
Vanno a fare i consulenti delle aziende belliche.
Appunto. Fanno i lobbyisti nei confronti di coloro che hanno preso il loro posto e che hanno potuto prendere quel posto facendo carriera sotto di loro. E’ un sistema viziato, chiuso, inaccessibile anche alla politica.
Quanto sostiene Turco nell’intervista è particolarmente preoccupante. E’ sufficiente citare una sola affermazione, quella secondo la quale la politica del riarmo di fatto la decidono i generali, spesso legati alle aziende belliche. Aggiungo che invece di ridurre le spese militari, in un momento in cui il bilancio dello Stato è in condizioni molto difficili, se possibile, esse vengono aumentate e, contemporaneamente, vengono diminuite le spese sociali e quelle per la cultura. Una politica veramente miope e profondamente sbagliata.
http://www.gliitaliani.it/2010/11/un-miliardo-per-il-riarmo-e-il-deficit-del-bilancio-pubblico/
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Cina, latte alla melammina: due anni e mezzo di carcere al padre che denunciò lo scandalo 15.11.2010
Due anni fa scoppiò lo scandalo del latte alla melammina in Cina. Da allora sono state intossicate circa 300 mila persone e ci sono state proteste enormi in mezzo mondo. Adesso è arrivata la notizia che Zhao Lianhai, padre di uno dei bambini intossicati dalla melammina, è stato condannato a due anni e mezzo di carcere.
L’uomo, arrestato nel novembre del 2009, al processo è stato ritenuto colpevole di aver organizzato un incontro con i genitori delle vittime, di aver protestato davanti a un tribunale e a una fattoria e di aver rilasciato interviste in cui accusava le autorità di essere complici delle aziende.
La melammina, per chi non lo ricordasse, è un pericoloso additivo chimico che è stato aggiunto nel latte per falsare i risultati di laboratorio sul tenore proteico. In pratica è quasi una resina che con il latte non ha nulla a che fare. I primi casi di frodi alimentari alla melammina si registrarono nel 2005 negli Stati Uniti ma fu nel 2008 che il mondo scoprì questa sostanza in seguito ad una falsificazione gigantesca messa in atto da aziende cinesi.
La melammina fu trovata anche nella carne, nello yogurt e nelle uova. Anche in Italia arrivarono partite di cibo alla melammina, creando allarme sociale e timori soprattutto per la salute dei bambini.
Via | Mondo Cina
Foto | Flickr
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Tat, la via italiana contro l’Hiv 12.11.2010
Ripristinare l’equilibrio del sistema immunitario in pazienti colpiti da Hiv. È una ricerca italiana a raggiungere questo obiettivo grazie al “vaccino Tat”. Si tratta di un vaccino terapeutico e non preventivo che va a colpire una proteina del virus, chiamata Tat. La fase II della sperimentazione è cominciata nel 2008 e i primi risultati, appena pubblicati su PloS One, mostrano che questo trattamento sembra essere efficace nel migliorare il quadro immunologico dei pazienti. A coordinare il il gruppo che sta sperimentando il farmaco è Barbara Ensoli del Centro Nazionale AIDS dell’Istituto superiore di sanità.
Oggi, la terapia antiretrovirale (Haart) riduce e tiene sotto controllo la carica virale nel sangue rallentando l’evoluzione della malattia, ovvero il passaggio da una condizione di sieropositività a una di Aids conclamato. Tuttavia, il sistema immunitario dei pazienti trattati resta sempre in allerta e questo causa una condizione chiamata di “immunoattivazione”. “Si tratta di una sorta di ‘allarme continuo’ del sistema immunitario”, hanno spiegato i ricercatori, “ed aumenta il rischio di sviluppare una serie di gravi patologie epatiche, cardiovascolari e renali”.
Il nuovo trattamento è stato sperimentato finora su 114 pazienti, 27 nella fase I e 87 nella fase II, di età compresa tra i 18 ei 58 anni, tutti in terapia antiretrovirale, dislocati in 11 centri clinici della penisola. Ogni paziente riceve un ciclo di 3-5 somministrazioni nell’arco di un mese. Secondo i primi risultati, ottenuti dopo 48 settimane, la vaccinazione terapeutica è ben tollerata dai pazienti e continua ad avere effetti: una riduzione dell’immunoattivazione e un aumento delle cellule T CD4+ e dei linfociti B (responsabili della difesa dell’organismo). In questo modo contribuisce a ristabilire l’equilibrio del sistema immunitario completando l’azione della Haart.
I ricercatori vorrebbero ampliare il numero dei pazienti coinvolti in questa fase della sperimentazione arrivando fino a 160. Per far questo sono necessari, però, 21 milioni di euro: più meno la cifra spesa fino a questo punto e messa a disposizione dall’ISS e dal ministero della Salute.
Riferimenti: PLoS One doi:10.1371/journal.pone.0013540
http://www.galileonet.it/articles/4cdd0c1d72b7ab13b600003c
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Saremo i nodi di reti sempre più mobili 08.11.2010
di Giulia Belardelli
Connettere due o più persone tramite l’uso di dispositivi come gli smartphone di nuova generazione, dotati di appositi sensori. Si chiamano reti “corpo a corpo” (body-to-body networks, BBNs) e sono il progetto di un gruppo di ricercatori dell’Institute of Electronics, Communications and Information Technologies della Queen’s University di Belfast (Irlanda del Nord), che sta lavorando per sviluppare dei network la cui spina dorsale siano gli stessi utenti. L’idea, infatti, è generare delle reti mobili che non si appoggino sulle stazioni di trasmissione tradizionali, ma su appositi sensori portatili. Grazie al proprio smartphone, in sostanza, ognuno diventerebbe un nodo della Rete.
Secondo i ricercatori, le caratteristiche di queste Reti – in particolare la loro mobilità e la loro larghezza di banda – potrebbero rivoluzionare il mondo delle comunicazioni Internet via cellulare. “Innanzitutto, sarebbe possibile ridurre il numero di stazioni base necessarie per la comunicazione mobile, soprattutto in aree densamente popolate”, ha spiegato Simon Cotton, uno dei ricercatori della Queen University. La creazione di queste reti portatili consentirebbe, come spiegano gli stessi studiosi, di ridurre la densità delle stazioni cellulari anche grazie alla costruzione di infrastrutture più rispettose dell’ambiente perché in grado di operare a livelli di energia inferiori.
Il primo passo è lo sviluppo di piccoli sensori in grado di trasmettere i dati da un dispositivo all’altro, senza ricorrere a strutture esterne. Si tratta di un’area della ricerca nota come “comunicazioni corpo-centriche” (“body-centric communications”), un settore in forte sviluppo le cui potenziali applicazioni spaziano dal monitoraggio delle malattie croniche alla valutazione delle prestazioni sportive. Secondo i ricercatori, entro il 2014, la produzione di sensori wireless indossabili potrebbe raggiungere la quota di 400 milioni di dispositivi all’anno. “Una delle sfide più grandi per le comunicazioni wireless del futuro è usare gli esseri umani come una rete su cui far circolare delle informazioni”, ha concluso Cotton.
Riferimenti: Wireless Communications Research Group
http://www.galileonet.it/articles/4cd7d52a72b7ab0960000007
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MACELLERIA CARCERARIA
Amami quando lo merito di meno, perché sarà quando ne ho più bisogno (Catullo). Dall’inizio dell’anno i suicidi in carcere sono 55 … e nessuno ne parla. Molte persone aldilà del muro di cinta si domandano perché molti detenuti si tolgano la vita. Invece molti detenuti al di qua del muro si domandano quale motivo hanno per non togliersi la vita. La verità è che la morte in carcere è l’unica cosa che può portare un po’ di speranza, amore sociale e felicità, perché quando ti togli la vita hai il vantaggio di smettere di soffrire. Una volta il carcere era solo una discarica sociale, ora è diventato anche un cimitero sociale. E da un po’ di anni a queste parte la cosa più difficile in carcere non è più morire, ma vivere. I detenuti in carcere vengono controllati, osservati, contati, ogni momento del giorno e della notte, eppure riescono facilmente a togliersi la vita. Diciamo la verità: i detenuti non sono amati e non importa a nessuno se si tolgono la vita. Ormai le persone perbene si voltano dall’altra parte, mentre altri fanno finta di non vedere quello che vedono. Diciamoci la verità: questo accade perché la grandissima maggioranza della popolazione detenuta è costituita da individui disperati, poveri cristi, immigrati, tossicodipendenti, disoccupati e analfabeti. Persone di cui non importa a nessuno. Eppure di questa “gentaglia”, di questa “spazzatura umana” non andrebbe buttato via nulla, perché con lo slogan “Tutti dentro” e “Certezza della pena” i partiti più forcaioli vinceranno le prossime elezioni. Nella stragrande maggioranza dei casi la morte in carcere è la conseguenza di un comportamento passivo e omissivo dello Stato, che scaraventa una persona in una cella, la chiude a chiave e se ne va. Eppure l’eutanasia in Italia è proibita. Lo Stato non fa nulla per evitare la morte in carcere, non per niente l’Italia è il Paese più condannato della Corte Europea dei Diritti Umani. Carmelo Musumeci Carcere Spoleto, ottobre 2010
http://www.luigidemagistris.it/index.php?t=s1572
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Germania: proteste in 4 citta’ contro i tagli della Merkel 13.11.2010
Quasi centomila persone hanno manifestato in quattro grandi città tedesche contro le politiche sociali ed economiche del governo cristiano-liberale della cancelliera Angela Merkel che domani affronta un congresso del proprio partito in crisi di popolarità.
Le manifestazioni si sono svolte a Stoccarda, Dortmund, Norimberga ed Erfurt e sono state organizzate dalla Confederazione sindacale unitaria Dgb che accusa la Merkel di aver scaricato sui ceti più deboli i costi della crisi. I cortei, conclusisi senza incidenti e inscenati con lo slogan “La giustizia è un’altra cosa – c’é bisogno di un cambio di direzione”, fanno seguito alle manifestazioni in cui decine di migliaia di persone la settimana scorsa avevano protestato contro il prolungamento della vita delle 17 centrali nucleari tedesche e, sempre a Stoccarda, contro il progetto di una mega-stazione ferroviaria.
“Non vogliamo una repubblica in cui potenti lobby determinano le linee guida della politica attraverso il loro denaro, il loro potere e la loro influenza”, ha detto a Stoccarda il capo del sindacato dei metalmeccanici (Ig Metall), Berthold Huber, chiedendo salari più alti e l’introduzione di un reddito minimo garantito per redistribuire in parte gli effetti della ripresa economica che in Germania è più forte rispetto ad altri paesi d’Europa. “Le condizioni di lavoro e di vita della gente peggiorano”, hanno inneggiato i manifestanti riferendosi fra l’altro al graduale aumento di due anni dell’età pensionabile attualmente di 65 anni e ai tagli alla Sanità.
Le proteste giungono alla vigilia del congresso dell’Unione cristiano-democratica (Cdu) della Merkel in programma da domani a martedì a Karlsruhe e al centro dell’attenzione per valutare l’entità del nervosismo che serpeggia all’interno del partito: la coalizione di governo formata con i liberali della Fdp è lacerata da divisioni ed è in calo nei sondaggi a causa del mancato di rispetto di diverse promesse elettorali.
Una rielezione della Merkel alla guida della Cdu è scontata ma verrà valutato il grado del consenso che riuscirà a raccogliere nel voto. Il ministro del lavoro, la signora Ursula von der Leyen considerata una candidata alla successione della Merkel, ha appena auspicato lo svolgimento di primarie per scegliere che guiderà il partito alle prossime elezioni politiche del 2013: una richiesta che suona come una sfida alla cancelliera.
ATS
http://www.ticinonews.ch/articolo.aspx?id=208597&rubrica=15
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E Berlino si scusò con gli speculatori…
Maurizio Blondet 13.11.2010
Cinque capi di governo europei si sono precipitati a rassicurare la speculazione finanziaria. Il ministro degli Esteri tedesco Westerwelle – si noti, non quello delle Finanze, che era di ritorno da Seul – ha dovuto fare praticamente le sue scuse ai mercati: i detentori privati dei debiti pubblici europei non correranno alcun rischio, non pagheranno pegno. Quando la cancelliera Merkel ha detto che «anche loro saranno chiamati a contribuire» al prossimo default stile greco, scherzava… Continuate pure a speculare a rischio zero.
Ciò per il buon motivo che dopo la frase della Merkel pronunciata qualche giorno fa, i mercati hanno chiesto l’8,92% d’interesse per accettar di comprare il buono decennale irlandese, che ad agosto si negoziava a 4,89%; con ciò praticamente condannando l’Irlanda alla bancarotta, e il conseguente contagio, con bancarotte a catena di Portogallo e Spagna (e Italia, dopo). Il collasso puro e semplice della zona-euro. Che non è affatto scongiurato nonostante le scuse dei politici agli speculatori; dopo le frasi rassicuranti di Westerwelle, il decennale irlandese è sceso da 8,92% a 8,78%, comunque impagabile per l’Irlanda.
Come siamo arrivati qui? Ricapitoliamo fin dal principio, tutto il succo del disastro finanziario, citando ampiamente Paul Jorion.
Da vent’anni i redditi (mancanti) sono stati sostituiti da crediti. Il cartello di carta dei crediti è crollato dall’estate 2007, aggravandosi mese dopo mese con la rivelazione di scandali e frodi e sporchi trucchi sempre più inverosimili, a cominciare dai subprime. Invece di prendere atto che era una crisi di insolvenza degli speculatori e delle grandi banche d’affari, si è deciso di diagnosticare il male come crisi di liquidità. Ossia: no, non è cancro, è semplice disidratazione; occorre qualche fleboclisi. Diagnosi sbagliata, ma tranquillizzante. Era il Washington Consensus, e gli Stati europei hanno obbedito.
Gli Stati hanno infatti trasfuso liquidità in gran fretta ed enormi volumi alle banche, a tasso praticamente zero. Adesso le banche, quei fondi creati a spese dei contribuenti futuri, li distribuiranno alle imprese e alle famiglie in nuovi crediti, mutui, fidi; guadagnandoci, e intanto rimettendo in moto l’economia a credito. Ma non ha funzionato: causa recessione, le banche e la finanza ha capito che famiglie e le imprese non erano in grado di rimborsare; e nemmeno chiedevano più di fare altri debiti. Perciò hanno messo quei fiumi di denaro in pensione presso le Banche Centrali, o acquistato titoli di Stato: non corrono rischi gli audaci speculatori.
Ma siccome gli Stati si sono indebitati fino ai capelli per dare liquidità alle banche, e s’erano portati garanti della loro solvibilità, mentre le entrate tributarie degli Stati calavano causa recessione, i tassi richiesti dai «mercati» sui debiti pubblici salivano e salivano, mentre il valore dei prestiti della banche agli Stati calava; ciò specialmente per gli Stati deboli e mediterranei, ma anche baltici e Irlanda. Disdetta, il portafoglio delle banche si svalorizzava, costringendole a ricapitalizzarsi.
La diagnosi (deliberatamente) sbagliata produceva così la prima spirale viziosa verso l’inferno: le banche s’indebolivano perchè avevano le casse piene di titoli di debiti di Stato che perdevano valore, in quanto gli Stati s’erano indeboliti per salvare le banche.
Lo Stato più debole nella zona euro, la Grecia, ha chiesto aiuto all’Europa. Malmostosa, anzi ostile risposta di Berlino: tocca a noi virtuosi pagare per le cicale! Ma alla fine, bene o male, è stato messo insieme un fondo di garanzia europeo (Financial Stability Facility) per sostenere i Paesi incapaci di pagare il loro debito pubblico: 750 miliardi di euro. Una cifra più teorica che reale, ma ha calmato un poco i mercati, che sono tornati a comprare i Buoni del Tesoro dei Paesi in crisi.
E chi non lo farebbe? Perchè comprare Buoni tedeschi all’1%, poniamo, quando uno speculatore può comprare Buoni greci, portoghesi, spagnoli lucrando tassi doppi e tripli? L’Europa, le sue classi cosiddette dirigenti, di fatto ha invitato gli speculatori a comprare BOT di Stati fallimentari assicurando: paghiamo noi, il rischio per voi mercati è nullo.
Per mesi la speculazione internazionale ha lucrato benefici astronomici su questi suoi investimenti nel debito di Stati-subprime, ma garantiti da stati prime. Gli interessi gravanti sulla Grecia sono un poco calati. Poi, ad ottobre, la Merkel e il suo banchiere centrale Axel Weber saltano fuori a dichiarare: «Alla prossima crisi di tipo greco, i detentori dei Buoni del Tesoro devono essere parte della soluzione anzichè del problema». E i tedeschi, affiancati da Sarkozy, cominciano a parlare, in caso di crisi di Portogallo, Irlanda o Spagna, di procedure di fallimento ordinato, di riscaglionamento del debito, di ristrutturazione, di scrematura dei detentori privati dei titoli di quel debito.
Il che significa: voi speculatori avete titoli pubblici portoghesi o irlandesi e vi aspettate che l’Europa vi ripaghi a scadenza il 100%, dopo 10 anni in cui lucrate gli interessi? No, ci sarà una procedura fallimentare, e voi sarete chiamati a pagare la vostra parte come creditori di un fallito: del BOT portoghese a valore facciale 100 vi sarà restituito 70. Oppure 60, o 30. O il decennale diventerà trentennale. O il pagamento del capitale sarà sospeso, e riceverete solo gli interessi.
Intendiamoci, l’idea è giusta e sana. Banche e fondi speculativi hanno goduto di uno scandaloso stato di privilegio, dando loro il permesso di comprare BOT greci e portoghesi con l’assicurazione che non correvano rischi, perchè a pagare il conto degli insolventi sarebbero stati i contribuenti tedeschi ed europei in genere. Del resto, quel meccanismo di garanzìa, che invita la speculazione a comprare BOT di Paesi in crisi, aggrava la situazione di detti Paesi. Per la Grecia, le banche e i fondi speculativi hanno potuto accollare circa 150 miliardi di euro ai governi europei, mentre la Grecia sta affondando nella spirale degli interessi composti a tal punto che, se all’inizio della sua crisi il debito pubblico era del 115% del PIL, alla fine del presunto salvataggio sarà del 150% cento.
Impagabile. Sì, i mercati speculativi meritano di essere puniti. Mentre le economie occidentali precipitano, sono i soli a continuare a guadagnare – e guadagnano sulla crisi e rovina degli Stati e delle società. E’ quel che si chiama azzardo morale, questo speculare su alti tassi (con la scusa che si presta a Paesi a rischio) quando il rischio è zero, perchè garantito dal fondo europeo di stabilità.
La Merkel e il suo banchiere hanno dunque detto la cosa giusta. Ma al momento e nella situazione sbagliata. Gli Stati sovrani (si fa per dire) dell’eurozona devono emettere l’anno prossimo 915 miliardi di nuovi debiti o rinnovarli, per coprire i loro immensi debiti (fatti per salvare banche e speculazione); finchè ci sono i mercati finanziari, devono chiedere i prestiti ai mercati. I quali hanno subito risposto alla (vuota) minaccia della Merkel chiedendo immediatamente all’Irlanda tassi del 9% anzichè il 4,5%.
Il settore privato (come chiamano se stessi gli speculatori inglesi) non vuol accollarsi la sua parte di perdite, ed ha la forza per rifiutarsi al taglio di capelli minacciato da Merkel e Sarko. Il governo tedesco ha dovuto chiedere umilmente scusa per aver pensato per un attimo che anche i mercati e le banche devono soffrire un pochino per i danni che essi stessi hanno provocato; le nuove norme non saranno in vigore prima del 2013, ha belato (complimenti per la rapidità, nel mondo del trading al millesimo di secondo). O, come la mettono gli speculatori della City, «i governanti non capiscono il risultato di un’alta esposizione del loro debito pubblico in mano a non-residenti».
E’ questo il punto: ci siamo inutilmente indebitati con l’estero, che i governi non controllano, anzichè coi nostri cittadini (come fa ancora il Giappone). E i nodi vengono al pettine.
Adesso il crollo dell’Irlanda è scritto (anche se a metà 2011) e il contagio si sta espandendo al Portogallo, e si vede nella forbice richiesta dai mercati per comprare BOT spagnoli e italiani. E’ a rischio l’intera eurozona, e nel modo più confuso e disordinato.
E la nuova crisi, estremanente pericolosa, è stata fabbricata dai nostri politici, le nostre cosiddette classi dirigenti.
Il meccanismo di default di Stati sovrani minacciato dalla Merkel è giusto. Se fosse stato introdotto al tempo del Trattato di Maastricht, l’eurozona sarebbe adesso molto più forte, e i mercati, avvertiti, sarebbero andati più cauti. Adesso l’implosione della zona-euro è più vicina, con esiti che si ha paura a immaginare.
Era sbagliata – a bella posta la diagnosi iniziale – e così la cura. Se allo scoppio della crisi dei subprime, Washington avesse versato una parte dell’enorme cifra del TARP (700 miliardi di dollari) anzichè alle banche, direttamente agli americani che non riuscivano a pagare il mutuo onde continuassero ad onorarlo, avrebbe salvato costoro e le loro famiglie, il settore edilizio, e le banche stesse creditrici. Ma s’è mai visto la Banca Centrale dare soldi ai cittadini, invece di toglierglieli?
No, impossibile: e i cittadini stessi (quelli che non avevano accesso un mutuo) avrebbero protestato per il privilegio regalato ai loro pari, cicale insolventi; dando invece quei fiumi di denaro alle banche, non hanno protestato.
Siamo fatti così: l’invidia del vicino ci travolge, e non ci resta più invidia per il ricco sfondato che ci sta saccheggiando senza rischiare nulla . La finanza speculativa domina, anche per i nostri vizi capitali.
Mario Draghi è tornato dall’inutile G20 di Seul tutto sereno e ottimista. C’è andato in veste di presidente del Financial Stability Board, quell’organo che non ha dato – come si vede – alcuna stabilità finanziaria, ma piace ai poteri forti e anche alle nostre classi cosiddette dirigenti.
«Abbiamo fatto grandi progressi nella riforma del sistema finanziario», ha detto: «Siamo a metà strada…».
Campa cavallo. Lui, certo, non perderà il lavoro e l’astronomico stipendio.
A rischiare il posto sono i politici della nostra democrazia, e forse se lo meritano. La Merkel, che ha probabilmente fatto la sua uscita per vincere le elezioni, probabilmente perderà quelle del Baden-Wuerttemberg (roccaforte CDU) a fine Marzo 2011 – con questo rischio, non ha alcun interesse a sostenere ulteriori piani di salvataggio dell’euro-zona, del tutto impopolari in Germania. Quanto a Sarkozy, ha subìto un attacco di un alleato, quasi come il Salame ha subito da Fini: Dominque de Villepin, ex primo ministro, e gollista come Sarko, ha dichiarato che il capo dello Stato è «il problema della Francia», non la sua soluzione. Una delegittimazione in piena regola, e dall’interno della maggioranza (la replica attribuita a Sarkozy è di livello berlusconiano: «Ho un posto super, una moglie super, per questo mi invidiano…»).
Se lo meritano, di essere travolti. Il fatto è che, tolti di mezzo loro, restano i Draghi, i Padoa Schioppa, i Goldman Sachs.
La produzione industriale italiana – quella in parte sott’acqua nel Nord – è aumentata ad ottobre del 4,1 % rispetto allo stesso mese dell’anno prima, ed è un miracolo; ma sta calando rispetto al mese precedente, -2,1%. Segno che il miracolo si affloscia, con l’euro ultra-forte e la depressione che si aggrava su scala mondiale. Come società abbiamo più risparmio degli altri europei, ma abbiamo un governo che sta per volatilizzarsi, con in vista un ritorno al proporzionale, che significa più spesa pubblica. Del resto, sulle spoglie del Salame, già nasce il grande partito della spesa pubblica: «No ai tagli alla cultura!, No ai tagli alla scuola!, No ai tagli alle regioni, ai comuni, alle provincie!. E No ai tagli alle banche troppo grandi per fallire!», Draghi veglia. Gli Stati non sono troppo grandi per fallire, e falliscano.
Non c’è più niente da fare? Una cosa ci sarebbe: nazionalizzare integralmente l’intero settore bancario europeo, come si fece durante il Male Assoluto. Se le istanze finanziarie della zona euro non stanno parlando di questo nei loro conciliabili ad alto livello, dice Paul Jorion, stanno solo perdendo un tempo prezioso.
Tranquilli: non stanno parlando di questo. Draghi è stato messo lì per vegliare.
http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_jcs&view=jcs&layout=form&Itemid=141&aid=31441
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NORTH DAKOTA, IL MIRACOLO FATTO IN CASA
DI MARCELLO FOA
ilgiornale.it
Qual è lo Stato che può vantare una disoccupazione al 4,4%? E aumenti del Pil a due cifre con incrementi dei redditi delle persone fisiche pari al 23% tra il 2006 e il 2009? Uno pensa: non può essere che la Cina. Sbagliato. Anche nell’ansimante America c’è chi va alla grande. L’autore di questo miracolo è il North Dakota, ovvero uno dei piccoli e in apparenza marginali tra i 50 che compongono la federazione statunitense.
La sua fortuna? Aver dato retta, tra il 1915 e il 1920, alla Nonpartisan League, un movimento locale che l’establishment tentò di fermare bollandolo come populista, ma che in realtà era lungimirante. Quel movimento indipendente propose agli elettori del North Dakota di non aderire al Federal Reserve System ovvero al circuito finanziario imperniato sulla Fed, la Banca centrale americana. Pensavano, i contadini dello Stato, che non ci si potesse fidare dei banchieri di Wall Street e che fosse più saggio avvalersi di un Istituto indipendente. Il tempo ha dato loro ragione.
Il successo del North Dakota è tutto qui: pur usando il dollaro come valuta di scambio, oggi è l’unico Stato americano che non dipende dalla Federal Reserve. A garantire le sue riserve sono i cittadini, i quali, in caso di dissesti finanziari non potrebbero avvalersi dell’assicurazione federale sui depositi. Lo Stato corre un rischio, ma ipotetico: in oltre 90 anni di vita l’istituto non è mai stato in difficoltà ed è passato indenne attraverso ogni crisi.
Per legge lo Stato e tutti gli enti pubblici devono versare i fondi nelle casse della Banca centrale del North Dakota, che li usa non per ottenere utili mirabolanti, né per oliare indebitamente le banche private, ma per aiutare la crescita dello Stato. Di fatto agisce come un’agenzia di sviluppo economico e dunque sostiene progetti d’investimento, concede finanziamenti a tassi molto bassi, nonché un numero impressionante di prestiti agli studenti a condizioni eque.
Sarà per la mentalità contadina di quella gente o per le virtù civiche sia degli amministratori della banca che dei cittadini, ma il tasso di spreco e di inefficienza è bassissimo. Per dirla in altri termini: quegli investimenti non sono sprecati in progetti insensati o improduttivi, dunque non producono carrozzoni parapubblici con interessi e prospettive clientelari, ma producono ricchezza nel territorio e dunque nuovo gettito fiscale, nuovi fondi per la banca; insomma, generano un ciclo virtuoso.
Sembra l’uovo di Colombo, ma altro non è che il trionfo del buon senso. In ultima analisi lo scopo della banca centrale di un Paese dovrebbe essere quello di agevolare uno sviluppo economico armonioso e senza squilibri finanziari o inflazionistici. La Bank of North Dakota ci riesce a tal punto da chiudere ogni anno in utile (nel 2009 per 58 milioni di dollari), denaro che torna ai legittimi proprietari ovvero ai contribuenti. Il sistema funziona così bene che diversi Stati americani vogliono imitarlo. E mica solo staterelli, anche colossi come California, Ohio, Florida, stufi di un meccanismo che negli ultimi trent’anni ha creato una ricchezza illusoria.
La Federal Reserve, infatti, non appartiene ai cittadini americani, ma alle banche, che pertanto sono i suoi azionisti di riferimento, così come, peraltro, avviene per la Banca d’Italia. Il liberista Ron Paul da anni sostiene, inascoltato, che una Banca centrale non è nemmeno contemplata dalla Costituzione americana e che di fatto tradisce lo spirito dei fondatori degli Stati Uniti d’America. Furono gli ambienti di Wall Street, nel 1914, a indurre il presidente Wilson a creare la Fed, la quale, però, nel corso dei decenni ha assunto compiti e generato dinamiche devianti, sottraendo al popolo la sovranità finanziaria.
Contrariamente alla Fed, la North Dakota Bank non ha bisogno di considerare interventi straordinari a sostegno di un’economia asfittica, né di comprare i Buoni del Tesoro invenduti, per la semplice ragione che lo Stato non ha debiti ed è addirittura in surplus. La North Dakota Bank non ha seguito la moda dei subprime, né della cartolarizzazione dei debiti, né delle altre diavolerie finanziarie escogitate negli ultimi anni dai dissennati e avidissimi manager delle grandi banche d’affari. Ha continuato ad essere una banca centrale al servizio della comunità, capace di mettere a disposizione dei privati le risorse necessarie per avviare imprese che poi non vivono di sussidi, ma secondo le regole di mercato. È la rivincita di un’America semplice e vincente, ma di cui nessuno parla mai.
Marcello Foa
Fonte: http://www.ilgiornale.it
Link: http://www.ilgiornale.it/esteri/north_dakota_miracolo_fatto_casa/09-11-2010/articolo-id=485586-page=0-comments=1
12.10.2010
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=7647
COME GLI STATI ASSETATI DI SOLDI POSSONO CREARE IL PROPRIO CREDITO
DI ELLEN BROWN
webofdebt.com
“Chi non applica nuovi rimedi dev’essere pronto a nuovi mali, perché il tempo è il più grande degli innovatori.”
– Francis Bacon
Il 19 febbraio 2009 la California si è salvata per un pelo dal fallimento quando il Governatore Arnold Schwarzenegger ha indossato il suo vestito da Terminator e ha messo in isolamento il Senato dello stato finché non si è arrivati alla firma di un bilancio molto controverso [1]. Se il voto non fosse andato a buon fine, lo stato si sarebbe ridotto a pagare i propri dipendenti con delle cambiali. La California, per il momento, ha evitato la bancarotta ma 46 dei 50 stati americani sono insolventi e nei prossimi due anni potrebbero richiedere l’avvio della procedura prevista dal Capitolo 9 sui fallimenti [2].
Uno dei quattro stati che non sono insolventi è un improbabile candidato per questo tipo di riconoscimento – il North Dakota. Come faceva osservare il mese scorso Charles Fleetham, un consulente di organizzazione aziendale del Michigan, in un articolo distribuito ai suoi mezzi d’informazione locali:
“Il North Dakota è uno stato scarsamente popolato con meno di 700.000 abitanti, conosciuto per il suo clima freddo, i suoi agricoltori isolati e un film di successo – Fargo. Eppure, per qualche ragione, resiste al cliché del mercato immobiliare secondo il quale il valore dell’abitazione aumenta in base alla zona in cui si trova. Dal 2000, il PIL dello stato è aumentato del 56%, i redditi personali sono cresciuti del 43% e i salari del 34%. Quest’anno lo stato ha un avanzo di bilancio di 1,2 miliardi di dollari!”
Che cos’ha lo stato del North Dakota che gli altri stati non hanno? Lo risposta sembra essere: una banca propria. In effetti, il North Dakota possiede l’unica banca del paese di proprietà statale. La legislatura dello stato ha costituito la Banca del North Dakota nel 1919. Fleetham scrive che la banca fu creata per liberare gli agricoltori e i piccoli imprenditori dalle grinfie dei banchieri degli altri stati e dai magnati delle ferrovie. Per legge, lo stato deve depositare tutti i propri fondi presso la banca e ne garantisce i depositi. Tre funzionari eletti vigilano sulla banca: il governatore, il procuratore generale e il commissario all’agricoltura. La missione della banca è quella di fornire dei servizi finanziari solidi che favoriscano l’agricoltura, il commercio e l’industria nel North Dakota. La banca opera come una banca dei banchieri, associandosi alle banche private per prestare denaro agli agricoltori, agli operatori del mercato immobiliare, alle scuole e alle piccole imprese. Eroga prestiti agli studenti (più di 184.000 prestiti in circolazione) ed acquista le obbligazioni degli enti locali dalle istituzioni pubbliche.
Eppure, potreste chiedere, come risolve tutto questo il problema della solvibilità? Lo stato non è limitato a spendere solamente il denaro che possiede? La risposta è no. Ai banchieri certificati con la targhetta è permesso fare una cosa che nessun altro può fare: possono creare “credito” tramite voci contabili nei loro registri.
Una licenza per creare denaro
Nel sistema di prestito a “riserva frazionaria” alle banche è consentito estendere credito (creare denaro sotto forma di prestiti) per una somma equivalente a numerose volte la loro base di depositi. In uno scritto del 1973 il parlamentare Jerry Voorhis descriveva così questo processo:
“Per ogni dollaro che la gente – o il governo – deposita in una banca, il sistema bancario può creare dal nulla e con un tratto di penna qualcosa come dieci dollari di credito o di conti correnti. Il sistema bancario può prestare ad interesse tutti quei dieci dollari finché può mantenere nelle riserve un dollaro, o poco più, come garanzia.” [3] Il fatto che le banche in realtà creino denaro attraverso voci contabili è stato confermato in un significativo opuscolo pubblicato dalla Federal Reserve di Chicago dal titolo “Modern Money Mechanics.”[4] L’opuscolo venne periodicamente riveduto fino al 1992, quando raggiunse la lunghezza di 50 pagine. A pagina 49 dell’edizione del 1992, si può leggere:
“Con un requisito costante del 10 per cento della riserva, un incremento di un dollaro nelle riserve sovvenzionerebbe 10 dollari di ulteriori conti correnti [prestiti creati sotto forma di depositi nei conti dei depositanti].” [4]
Il requisito del 10 per cento della riserva ora è ampiamente sorpassato, in parte perché le banche hanno capito come aggirarlo con strumenti come gli “overnight sweeps”. Quello che oggi limita maggiormente l’erogazione del prestito bancario è il requisito dell’8 per cento del capitale imposto dalla Banca per i Regolamenti Internazionali, la mente del sistema bancario centrale globale privato con sede a Basilea, in Svizzera. Con un requisito dell’8 per cento del capitale, uno stato che possiede una propria banca potrebbe aumentare le proprie entrate fino a 12,5 volte il loro valore nominale in prestiti (100 ÷ 8 = 12,5). E poiché lo stato è veramente il proprietario della banca, non dovrà preoccuparsi degli azionisti o degli utili. Potrebbe erogare prestiti ai mutuatari affidabili a bassissimo interesse, magari solamente con alcune spese di servizio per coprire i costi. E potrebbe erogare prestiti a sè stesso o agli enti locali ad un interesse dello zero per cento. Se questi prestiti fossero rinnovati all’infinito, l’effetto sarebbe equivalente alla creazione di nuovo denaro, esente da debito.
Pericolosamete inflazionario? Non se il denaro viene utilizzato per creare nuovi beni e servizi. Ne deriverebbe un’inflazione sui prezzi solamente quando la “domanda” (il denaro) supera l’”offerta” (beni e servizi). Quando aumentano insieme, i prezzi rimangono stabili.
Oggi ci troviamo in una pericolosa spirale deflazionistica, perché i prestiti si sono esauriti e il valore dei beni è colato a picco. Il monopolio della creazione del denaro e del credito da parte di una confraternita di banche private ha avuto come risultato il cattivo funzionamento del sistema creditizio e un crollo monetario. I mercati del credito sono stati congelati dalle sconsiderate scommesse speculative sui derivati di alcune grosse banche di Wall Street, scommesse che non solo hanno distrutto i bilanci di quegli stessi istituti ma che stanno infettando l’intero sistema bancario con dei detriti tossici. Per uscire da questa trappola del debito deflazionistico è necessaria un’iniezione nell’economia di nuovo denaro, esente da debito, una cosa che può essere compiuta al meglio attraverso un sistema di banche pubbliche dedite all’interesse pubblico, amministrando il credito come un servizio pubblico.
Alcuni esperti insistono sul fatto che dobbiamo stringere la cinghia e ricominciare di nuovo a risparmiare, per ricostruire il “capitale” necessario per far funzionare i mercati. Ma i nostri mercati, per la verità, stavano funzionando piuttosto bene fintanto che il sistema del credito era in attività. Abbiamo gli stessi beni reali (materie prime, petrolio, conoscenze tecniche, capacità produttiva, forza lavoro e via dicendo) che avevamo prima dell’inizio della crisi. I nostri operai e le nostre fabbriche sono inattivi perché il sistema del credito privato è crollato. Un sistema di credito pubblico potrebbe rimetterli di nuovo al lavoro. Il concetto che il “denaro” è un qualcosa che deve essere “risparmiato” prima di essere “preso a prestito” stravolge la natura del denaro e del credito. Il credito è solamente un contratto, un “monetizzazione” degli incassi futuri, una promessa di pagare in un secondo momento in base al risultato del proprio anticipo. Le banche hanno creato credito sui loro registri contabili per secoli, e questo sistema avrebbe funzionato piuttosto bene se non fosse stato per l’enorme tributo dirottato nei forzieri privati sotto forma di interessi. Un sistema bancario pubblico potrebbe risolvere quel problema e riportare gli interessi nelle casse pubbliche. Questo è il genere di sistema bancario che fu introdotto nella colonia della Pennsylvania, dove funzionò a meraviglia.
Ristabilire la solvibilità nel Michigan
Tra gli altri vantaggi per uno stato che possiede una propria banca ci sono le ragguardevoli somme di denaro che potrebbe risparmiare in interessi. Come fa notare Fleetham in merito al suo sofferente Michigan: “Secondo gli ultimi rapporti finanziari (disponibili online), la città di Detroit, il dipartimento degli acquedotti e degli impianti fognari di Detroit, l’aeroporto della contea di Wayne, le scuole pubbliche di Detroit, l’Università del Michigan e la Michigan State University pagano più di 800 milioni di dollari all’anno di interessi su un debito a lungo termine. Se aggiungete anche l’interesse pagato dalle altre cittadine del Michigan, dai distretti scolastici e dalle aziende di servizio pubblico, il costo per i contribuenti supera di gran lunga il miliardo di dollari all’anno. Che cosa fa Wall Street con il nostro miliardo di dollari? Decorano i loro uffici come fossero dei sovrani.”
La cosa interessante è che il disavanzo statale previsto per il 2009 è anch’esso di un miliardo di dollari. Se il Michigan non dovessere restituire un miliardo di dollari di interessi a Wall Street, il bilancio potrebbe essere in pareggio e lo stato potrebbe ritornare solvibile. Un banca di proprietà dello stato non solo fornirebbe credito esente da interesse ma potrebbe, in realtà, generare degli introiti. Fleetham fa notare che nel 2007 la Banca del North Dakota ha avuto un utile netto per 51 milioni di dollari su un volume di prestiti di 2 miliardi di dollari:
“Lo scorso anno, i cittadini del Michigan hanno pagato più di 5 miliardi di dollari di imposte sui redditi. Con una banca statale come nel North Dakota, potremmo ridurre questo peso fiscale, finanziare nuove imprese e risistemare i nostri acquedotti e le nostre fogne. E non dobbiamo sentirci dispiaciuti per Wall Street che ci perderà come clienti. Loro non hanno affatto ‘guadagnato’ il denaro che ci hanno prestato perché lo hanno creato con i computer e per giunta ci hanno addebitato gli interessi. Seguiamo l’esempio del North Dakota e liberiamoci da questa trappola di Wall Street.”
Portare l’iniziativa in California
Anche la California potrebbe fare questo. Robert Ellis è un conduttore di un talk show a Tucson che una volta lavorava per Wall Street e che è stato coinvolto nella costituzione di diverse banche e istituti finanziari. Nel gennaio di quest’anno, in una lettera indirizzata al governatore Schwarzenegger, ha suggerito che la California potrebbe risolvere le sue sventure finanziarie istituendo un banca sul modello della Banca del North Dakota. Ellis ha così scritto al governatore:
“Ammiro la sua tenacia nell’affrontare i problemi finanziari della California. La sua idea di utilizzare delle cambiali è stata ingegnosa ma esiste un modo migliore. Lo Stato della California può creare per statuto una banca propria ed emettere assegni propri per tutti i dipendenti dello stato… Inoltre, con la banca può pagare tutti i suoi venditori, gli appalti e gli appaltatori. E come se non bastasse, una volta che la banca sarà operativa, potrete finanzare i progetti statali e determinare il tasso di interesse pagato invece di essere alla mercé delle banche con cui oggi avete a che fare oppure il tasso di interesse che le banche di investimento vi fanno pagare per emettere obbligazioni. Nel fare questo, metterete lo stato al controllo del proprio destino e lo renderete il benefattore del proprio denaro.”
“Quello che sto proponendo non è nuovo. E’ stato fatto da un altro stato del paese [il North Dakota]. Perché dovreste continuare a pagare le banche per dei servizi e per gli interessi sui prestiti quando potete ottenere quegli interessi a vantaggio dello stato della California? Non sarebbe meglio se poteste finanziare dei vostri progetti infrastrutturali senza dover ottenere l’approvazione delle banche indipendenti o delle banche d’investimento? Inoltre, potrete stabilire il tasso di interesse sui vostri progetti. E potrete addirittuta fissarlo a zero se ritenete che il progetto valga abbastanza.”
Ellis si è offerto di dare una mano per la costituzione della banca, che pensava potesse essere creata per statuto in pochi mesi. Il Governatore non ha risposto, ma un po’ di pressione da parte degli elettori potrebbe far giungere una risposta.
Se questo non dovesse avvenire, sono stati introdotti in California l’iniziativa popolare e il processo di referendum. Questi due strumenti permettono la proposta di leggi dello stato direttamente da parte dell’opinione pubblica, e la riforma della Costituzione dello stato sia da parte di petizioni pubbliche (“l’iniziativa popolare”) che dalla legislatura che sottopone una proposta di riforma costituzionale all’elettorato (il “referendum”). L’iniziativa popolare viene realizzata elaborando una proposta di riforma costituzionale oppure uno statuto sotto forma di petizione, che viene presentata al Procuratore Generale della California insieme ad piccolo contributo, che nel 2004 era la modesta cifra di 200 dollari. La petizione deve esser firmata dagli elettori regolarmente iscritti che ammontano all’8% (per una riforma costituzionale) o al 5% (per uno statuto) del numero di persone che si erano recate alle urne alle ultime elezioni per il Governatore. [5]
Come diceva Gandhi “Quando il popolo farà strada, i leader si accoderanno”. Noi popolo possiamo battere i banchieri di Wall Street nel loro gioco, spingendo i nostri legislatori ad istituire banche di proprietà pubblica che possano creare credito utilizzando i medesimi princìpi che sono normalmente e usualmente accettati nelle attività dei banchieri stessi.
Ellen Brown ha sviluppato le proprie abilità di ricerca come avvocato seguendo cause legali a Los Angeles. In “Web of Debt”, il suo ultimo libro, traduce queste abilità in un’analisi sulla Federal Reserve e sulla “fiducia monetaria”, mostrando come questo cartello privato abbia usurpato il potere di creare moneta, e spiegando come il popolo se lo possa riprendere. Tra gli undici libri della Brown possiamo annoverare il bestseller “Nature’s Pharmacy”, scritto in collaborazione con la dottoressa Lynne Walker, e “Forbidden Medicine”. I suoi siti web sono http://www.webofdebt.com e www.ellenbrown.com
Fonte: http://www.webofdebt.com
Link: http://www.webofdebt.com/articles/state_bank_option.php
3.03.2009
Scelto e Tradotto da JJULES per www.comedonchisciotte.org
NOTE
1. Anne Davies, “Lockdown Vote Saves California from Bankruptcy,” theage.com.au (21 febbraio, 2009).
2. John Mitchell, “46 of 50 States Could File Bankruptcy in 2009-2010,” Freedom Arizona (30 gennaio, 2009).
3. Jerry Voorhis, The Strange Case of Richard Milhous Nixon (1973), tratto da http://www.sonic.net/~doretk/ArchiveARCHIVE/ECONOMICSPOLITICS/FEDERAL%20RESERVE/Jerry%20VoorhisFedReserve.html.
4. Modern Money Mechanics: A Workbook on Bank Reserves and Deposit Expansion (Federal Reserve Bank of Chicago, Public Information Service, 1992, disponibile su http://www.rayservers.com/images/ModernMoneyMechanics.pdf).
5. “California Ballot Proposition,” Wikipedia.
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5663
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(MoviSol)
Come si sa, spesso gli incidenti diplomatici coinvolgenti la Gran Bretagna non sono involontari. 12.11.2010
In visita nella Cina, mercoledì scorso, il primo ministro britannico David Cameron e altri componenti della sua cerchia governativa hanno ostentato dei papaveri di carta sul bavero delle loro giacche.
Formalmente l’occasione sarebbe stata quella della commemorazione dei caduti in guerra, il giorno del 92° anniversario della firma dell’armistizio concludente la prima guerra mondiale. Nonostante ciò, i funzionari cinesi hanno pregato la delegazione britannica di rimuovere ciò che ricorda loro le guerre dell’oppio dell’Ottocento, quando le navi militari britanniche distrussero a suon di cannonate le città costiere della Cina, per costringerla ad accettare il loro “diritto a praticare il libero mercato” dell’oppio proveniente dalla regione indiana del Raj. Difatti, qualche giorno prima, il 3 novembre, si è avuto il 161° anniversario della prima guerra dell’oppio.
“I Cinesi ci hanno informati”, ha affermato all’agenzia AFP un funzionario al seguito di Cameron che preferisce rimanere anonimo, “che sarebbe stato inappropriato indossare i papaveri, a causa delle guerre dell’oppio”.
“Abbiamo loro risposto”, ha continuato, “che per noi [i papaveri] hanno un grande significato e che li avremmo indossati comunque”. Con pari sincerità, avrebbe potuto aggiungere, col fare impassabile proprio dei britannici, che servono per ricordar loro di restare al loro posto.
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Estratto da http://www.caffeeuropa.it/ del 16.11.2010
“Primarie Pd
Filippo Facci, su Libero, commenta: “Evviva Pisapia, l’anti Travaglio rosso”. “Il risultato ottenuto è spettacolare per almeno due ragioni: la prima è che ha vinto, a sinistra, un garantista di quelli veri. Poco organico al Pd, tanto che da competente, ex deputato indipendente di Rifondazione, era il candidato prescelto da Prodi per il ministero della giustizia, ma risultò estraneo a quel gioco di pesi e contrappesi che avrebbe reso i ministri del governo Prodi perfettamente intercambiabili tra loro”. E così fu Mastella a soffiargli il posto. Pisapia non era gradito alla nomenklatura giudiziaria che nel Pd aveva ed ha un certo peso. Ma le sue posizioni sulla giustizia l’hanno sempre reso insopportabile anche alla sinistra forcaiola, “quella che in parte sovrintende, paradossalmente, lo stesso popolo che l’ha votato” a Milano. Quando fu indicato informalmente a Guardasigilli, Travaglio intervenne su Micromega, sconsigliandone la nomina.
“Meno manette” è anche il titolo di uno degli editoriali de Il Foglio, che vede nella vittoria di Pisapia i segnali di una nuova sinistra non giustizialista. “Il garantismo, d’altra parte, è un elemento rilevante della sinistra non comunista in tutto il mondo”. I dirigenti del Pd “non hanno voluto o saputo valorizzare questo elemento di Pisapia”, e si sono dimessi affermando che la loro impostazione riformista non è stata compresa. A Milano, invece, “la prova del riformismo sta nell’abbandono della sindrome dei manettari, che comincia a dare qualche segno di stanchezza persino in Procura”.
La Stampa intervista lo stesso Pisapia, che sottolinea come sia necessario allargare la coalizione e sfruttare la scesa in campo di un terzo Polo, cercando di non perdere voti a sinistra, ma di prendere i delusi della Moratti, recuperando una tradizione di “riformismo municipale”. Come pensa di conquistare Milano partendo così da sinistra? “Senza smarcarmi dalla mia storia, trovando convergenze con gli elettori moderati delusi. Su elezioni locali si può fare”, lasciando fuori dall’agenda comunale “le posizioni eticamente sensibili” e concentrandosi sui temi del welfare cittadino, su cui è possibile dialogare. Richiesto di un commento sulle dimissioni dei vertici Pd, dice: “Non entro nel dibattito interno al Pd”, “quanto alla valenza nazionale delle primarie, ho preso un impegno: mi occuperò solo e soltanto della nostra città”. Ricorda l’esempio di città come Berlino e Parigi, “governate da sindaci di sinistra, che raccolgono il consenso di vasti ceti moderati”. Sulla possibile candidatura di Albertini da parte di un Terzo Polo, dice che sarebbe utile perché “contribuirebbe a dividere ancora di più il centrodestra, senza toglierci nulla”.
L’Unità ricorda che prossimamente le primarie si terranno a Bologna e Napoli (23 gennaio) e a Torino (febbraio). Anche il quotidiano del Pd intervista Pisapia, che preannuncia di voler incontrare al più presto le forze politiche locali e gli altri candidati alle primarie: tutti, dall’Idv all’Udc, il mondo dell’associazionismo laico e cattolico. Dice di aver ricevuto incoraggiamenti proprio dalle associazioni e rappresentanti del centro, cattolici e non, per spiegare perché intende allargare la coalizione “il più possibile”: “Quello che viene definito il centro è di sicuro più vicino alle mie posizioni che a quelle della Moratti e della destra”.
Analizza il risultato delle primarie milanesi l’ex sindaco Gabriele Albertini che, in una intervista al Riformista, dice: “Se fossi Bersani farei una scelta prudente, appoggiando la candidatura di Pisapia, per arrivare così a una sconfitta dignitosa contro la Moratti”. Vuol dire che Pisapia non ha chances? Per Albertini il Pd raccoglierà voti in un’area che si pone interrogativi persino sul nucleare, che comperiamo senza volerlo produrre, e segue una linea antistorica abbandonata persino dalla Cina. “Aspetta risposte dal Pd per una sua candidatura?”. “Per avere il quadro di riferimento devo aspettare alcune cose”. Poi parla del berlusconismo: “i pretoriani e le cortigiane hanno sequestrato l’imperatore”, “il caso Fini è il tipico caso in cui la corte ha scelto l’autodifesa e ha espulso il presidente della Camera come possibile antagonista, non tanto di Berlusconi quanto del ceto di nomina”. Possibile il passaggio a Futuro e libertà. “Non sono un uomo di partito, non faccio passaggi dai finiani ai berlusconiani, anche se resta evidente che l’esperienza del Predellino è ormai superata.
Secondo Il Corriere della Sera Albertini incontrerebe oggi i “terzopolisti” ed ha preso il via un pressing di Casini e Rutelli. Albertini, secondo il Corriere, spera nella “desistenza” di Bersani.
La Repubblica intervista Nichi Vendola, che dice: “Un segnale per il centrosinistra, non si vince aprendo a Fli”.
Andrea Romano, sul Sole 24 Ore, sottolinea che la candidatura di Pisapia può ambire a riportare al voto esclusivamente gli astenuti di sinistra, rispetto alla “insipienza di una leadership massimalista che nel 2008 è riuscita nell’impresa di essere espulsa dal Parlamento”. Non attrarrà invece quelli che vengono definiti gli “astenuti consapevoli”: non qualunquisti, ma attenti alla discussione pubblica, tanto nel centrosinistra che dal centrodestra.
Lo stesso quotidiano, che offre una utile analisi quartiere per quartiere (unico in cui c’è stato un testa a testa Pisapia Boeri è quello di Niguarda, storica roccaforte Pd. Nelle zone ricche della città Boeri ha preso meno della media cittadina, superato dal candidato Onida) scrive che soltanto un terzo del popolo del Pd ha votato per il canditato Stefano Boeri, e che gli elettori che hanno partecipato alle primarie sono circa 67 mila, molti meno rispetto ai 100 mila attesi.
Esteri
Il Corriere della Sera racconta il via dato al progetto di rilevazione del benessere dei cittadini inglesi: è un vecchio pallino del premier Cameron, enunciato già dal 2006. E’ infatti convinto che la solidità di un Paese, anche ora che l’economia è a pezzi, non possa essere misurata soltanto da quel numero e da quelle percentuali che esprimono la ricchezza in beni e servizi, ovvero il Pil, poiché esso non è sufficiente a fotografare una Nazione. Scrive Il Sole 24 Ore che il “benessere fisico e psicologico, pulizia dell’ambiente, andamento dei trasporti” sarebbero tra le variabili di cui tener conto, secondo il quotidiano, per calcolare la felicità di un popolo e il grado dello sviluppo su scala mondiale. Il 25 novembre l’istituto di statistica britannico riceverà il mandato formale per mettere a punto le domande con il kit completo. E il formulario andrà riaggiornato ogni tre mesi….”
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“Vieni via con me”. E se un’altra televisione fosse possibile anche in Italia? 16.11.2010
I due monologhi di Roberto Saviano nella seconda puntata di “Vieni via con me”, il programma di Rai3 lungamente osteggiato dal governo e i suoi bravi, sono stati belli. Così belli da lasciare interdetti se fossero inadeguati al mezzo televisivo, troppo alti, troppo complessi, o se più semplicemente non si sia più abituati a che la televisione si esprima su temi elevati.
Ad appena una settimana da toni un po’ troppo predicatori, qualche ingenuità sull’antimafia e sfortunate incursioni in territori che non gli sono propri, Roberto deve avere lavorato intensamente ed è cresciuto in maniera convincente mettendo a tacere quella rancorosa (e invidiosa) ondata antisaviano con troppi adepti, soprattutto tra i comunicatori che si dicono di sinistra.
Il monologo sulla ‘ndrangheta al Nord e, in maniera più toccante, il racconto della storia d’amore tra Mina e Piergiorgio Welby sono stati due spezzoni di Italia civile che aiutano a pensare e sperare. Con Mina Welby, Beppino Englaro ha continuato nell’ostinata battaglia, che in troppi vorrebbero tuttora zittire, del mostrare quanto complessa sia la nostra modernità e come sia una camicia di forza il volerla riassumere in un dogma.
L’intervista a Don Andrea Gallo ha restituito al grande pubblico un’altra complessità negata dai media: quella all’interno della chiesa cattolica che si ostinano a disegnare come monolitica. Quel prete genovese ha da dire esattamente le mille cose che il potere, politico, mediatico, ecclesiastico, non vuole sentir dire. Quel “se aiuti i poveri sei un santo, se ti domandi perché sono poveri ti crocifiggono” di Gallo, Ciotti, e di migliaia di preti e cristiani di base amputati dai media alla vista della società. I mille Don Gallo, o li conosci di persona o pensi che il wojtylismo li abbia estinti con bolla papale o, più semplicemente, non sai che esistono.
Per un paio d’ore solo la volgarità di Antonio Albanese e l’inutilità dei due monologhi di Pierluigi Bersani e Gianfranco Fini ci hanno ricordato di essere in Italia e con la melma fino al collo. Bersani e Fini hanno svolto i loro compitini, elencato altre camicie di forza, quelle dei programmi dei loro partiti, che solo vagamente riecheggiano la destra e la sinistra. Erano testi ben scritti ma nulla di più e i pochi primi piani con i quali la regia ha accompagnato i loro interventi testimoniavano la distanza tra la politica e la società. Poi i due politici si sono eclissati e tra breve in pochi ricorderanno la loro presenza, resuscitata solo dalle polemiche dei giornali dove, per il Tempo di Roma, tutta la puntata era costruita per tirare la volata a Fini, sic.
Tuttavia, proprio la presenza di Fini e Bersani, ha rappresentato la grande emergenza che vive un paese dove suona paradossale e quasi rivoluzionario che un politico affermi che chi nasce in Italia, chi vive e lavora in Italia “è” italiano. Se una cosa ovvia diventa eversiva dell’ordine padano esistente allora anche “Vieni via con me”, lungi dall’essere un programma memorabile (ma cosa è memorabile oggigiorno?), sta dimostrando che esistono modelli alternativi all’immaginario televisivo berlusconiano che, contro Rai3, schierava il simbolico pezzo da 90 del “Grande fratello”.
Per il padre di Ruby, la giovane (presunta) prostituta coinvolta nel penultimo scandalo a sfondo sessuale berlusconiano, la figlia era “malata di televisione”. Sono parole che devono farci riflettere. Malata di una televisione commerciale nata per corrispondere esattamente con l’immaginario del “vecchio porco” che doveva farsi collettivo, dagli spogliarelli nelle prime tivù private all’indugiare della telecamera sul corpo della sedicenne Ambra Angiolini, antesignana proprio di Noemi e Ruby. Tale immaginario è stato imposto quotidianamente per trent’anni nelle case di un intero paese e presentato sistematicamente come il migliore dei mondi possibili. Tale immaginario ha prostituito la mente e i cuori ben più dei corpi di centinaia di migliaia se non milioni di Ruby. Milioni di Ruby per i quali Don Gallo non è mai esistito, Rosi Bindi non ha diritto di parola perché non ha vent’anni e non può permettersi la minigonna e Mina Welby o Giorgio Englaro parlano in una lingua incomprensibile di temi che li trovano indifferenti.
In Italia, più che altrove, trent’anni di monoscopio berlusconiano hanno impedito finanche di pensare che “un’altra televisione è possibile”. E allora il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano, che ha la caratteristica di non essere un ridotto del giornalismo d’inchiesta come quelli di Riccardo Iacona o di Milena Gabanelli, e di non essere interno al piccolo mondo sinistrese delle Dandini e dei Guzzanti (Benigni per capirci è un patrimonio mondiale dell’umanità rispetto ad Albanese) denuda una ben più importante evidenza negata dal modello.
Il fatto che ieri sera, in milioni di case, la battaglia del telecomando fosse proprio tra complessità e semplificazione/svilimento dell’esistente rappresentata dal “Grande Fratello” denuda l’evidenza perduta che, per andare in televisione, bisogna aver qualcosa da dire o bisogna aver fatto qualcosa e non che l’andare in tivù sia propedeutico al dire e fare qualcosa nella vita che è l’unica scorciatoia che riescono a vedere oramai più generazioni come Ruby “malate di televisione”. Dimostra che si può intrattenere e riflettere allo stesso tempo e che sia indecoroso, criminale, sostenere che intrattenere debba voler dire innanzitutto puntare a staccar la spina del cervello degli spettatori. Dimostra che, in un contesto mediatico nel quale il monopolio berlusconiano venga messo in crisi, la battaglia non è perduta.
Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it
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Gli italiani scommettono sullo zafferano contro il papavero in Afghanistan
Articolo di Politica estera, pubblicato lunedì 25 ottobre 2010 in Francia.
[Le Figaro]
Promuovere la cultura dello zafferano per sostituire il papavero : questa è la sfida che vogliono lanciare i soldati italiani in Afghanistan. Nella regione di Herat, controllata dagli italiani, sono state già distribuite alle popolazioni locali sessanta tonnellate di bulbi di zafferano. In tutta la regione, sono stati piantati duemila ettari di terreno mentre i campi di papavero sono passati in cinque anni da 2000 a meno di 500 ettari. Nei pressi di Ghurian, circa 480 donne riunite all’interno di una cooperativa, si preparano a raccogliere i preziosi pistilli del fiore viola. Lo zafferano assicura loro un reddito di 9000 dollari all’anno per ettaro, tre volte più del papavero.
Bisogna dire che i talebani e i trafficanti di droga non vedono di buon occhio la sua diffusione. In una valle isolata, sono stati incendiati due camion che trasportavano bulbi e i conducenti assassinati. In alcune zone l’esercito italiano assicura le consegne in elicottero. “Lo zafferano rappresenta il futuro dell’Afghanistan”, dichiara l’alto rappresentante dell’ONU Staffan de Mistura. Al salone delle Biodiversità che si svolge a Torino, alcuni soldati del primo reggimento di artiglieria da montagna, da poco rientrati da Herat, per spiegare la loro iniziativa hanno aperto uno stand molto visitato. “Questo progetto è fondamentale per lo sviluppo di questo paese”, afferma il tenente Silvia Guberti, coordinatrice del progetto per le donne afghane.
[Articolo originale “Les Italiens jouent le safran contre le pavot en Afghanistan” di Richard Heuzé]
http://italiadallestero.info/archives/10397
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‘Fotografata’ la struttura di una proteina malformata 15.11.2010
Fotografata per la prima volta la struttura di una proteina malformata.
Lo studio è pubblicato su Nature SMB a firma di Stefano Gianni e Maurizio Brunori (Sapienza Università di Roma e CNR) e Michele Vendruscolo (Università di Cambridge) ed èopera di un team internazionale.
La ricerca, che presenta per la prima volta la struttura tridimensionale a livello atomico di una proteina ‘malformata’ confrontandola con una sana, apre nuove prospettive nella terapie di alcune malattie degenerative ed è nata dalla collaborazione di ricercatori della Sapienza, del CNR e dell’Università di Cambridge.
Tutte le trasformazioni che avvengono nelle cellule dell’organismo sono dovute a proteine che, per esercitare la loro funzione, cambiano forma, cioè acquisiscono una specifica struttura tridimensionale caratteristica (morfogenesi molecolare).
Questo processo è codificato dalla sequenza degli aminoacidi che guida il ripiegamento della catena lineare (in inglese folding) ed è condizionato dall’ambiente cellulare.
Piccoli errori di ripiegamento possono produrre proteine ‘malformate’ con struttura anomala, con conseguenze a volte devastanti per la cellula. Si è dimostrato negli ultimi 10 anni che molte patologie gravi dell’uomo (quali l’Alzheimer, il Parkinson, altre malattie neurodegenerative e alcuni tipi di cancro) sono innescate da errori nel processo di morfogenesi di una o più proteine specifiche.
Poichè le proteine ‘malformate’ tendono a precipitare e aggregare velocemente, le osservazioni sono difficili e le conoscenze sui fattori che determinano gli errori di morfogenesi/ripiegamento sono attualmente limitatissime ma molto importanti: infatti volendo comprendere la base molecolare di alcune malattie, è necessario conoscere le alterazioni strutturali della proteina ‘malata’.
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Da claudio.tullii@alice.it per ListaSinistra@yahoogroups.com il 15.11.2010
Scarti di college. Quel bene comune da vendere – Tiziana Terranova
Le immagini degli studenti che irrompono nella sede del partito conservatore hanno fatto il giro del mondo. E come spesso accade la discussione si è concentrata sulla presenza di provocatori o sulla
legittimità o meno di azioni dirette talvolta violente. Poco o nulla è stato detto che le proposte di riforma del sistema di finanziamento pubblico alle università inglese rischia di cancellare corsi di laurea e di impoverire l’offerta formativa. In Inghilterra, come in Italia, la cultura e la formazione devono essere funzionali allo sviluppo economico, altrimenti sono da cancellare perché superflue. E oltre la Manica come in Italia, la strada scelta dai governi dei due paesi è la stessa: una progressiva privatizzazione della formazione. La strada imboccata risolutamente dal governo conservatore e liberale inglese ha avuto però come apripista le politiche di Tony Blair e dei laburisti. Se negli anni Novanta, la retorica sull’industria creativa ha sempre messo l’accento sul fatto che la cultura doveva diventare una risorsa economica, innovando profondamente i modelli di organizzazione del lavoro e proiettare l’Inghilterra nel futuro, dal 2008 in poi i laburisti hanno definito le linee di una riforma dei finanziamenti pubblici all’università che prevedeva aumenti delle tasse universitarie e una loro forte riduzione. È attorno a questi temi che si è sviluppata l’intervista a Jussi Parikka, docente di origine finlandese e attento ricercatore sulle tendenze della «cultura digitale» e dei nuovi «socialmedia». L’incontro è avvenuto a Londra, proprio quando la mobilitazione degli studenti stava organizzando la manifestazione che ha portato all’assalto della sede del partito conservatore. Da alcuni anni, in Italia assistiamo a forti tagli dei finanziamenti statali alla scuola e
all’università pubblica. Il risultato è una deliberata svalutazione ed impoverimento della formazione e della ricerca pubblica – con licenziamenti, blocco delle assunzioni, taglio dei corsi, classi sempre
più affollate, meno ore di didattica e così via. Anche il settore della cultura più in generale (teatri, musei, musica, editoria) ha subito drastici tagli dei finanziamenti pubblici. Un fenomeno tuttavia non solo italiano, ma elemento costitutivo della ristrutturazione economico-politica che ha seguito la crisi finanziaria del 2008. Nel Regno Unito, la «politica del rigore fiscale» ha determinato una riduzione drastica, talvolta del 100 per cento, alla didattica dei corsi di laurea nelle arti, nelle scienze umane e sociali. Come ti spieghi questa riduzione massiccia dei finanziamenti pubblici alla cultura e alla formazione sociologica, artistica e umanistica, specialmente dopo anni in cui la cosiddetta «economia creativa» è stata celebrata come il motore dello sviluppo economico? È stato uno shock, nel senso identificato da Naomi Klein come parte della dottrina del «capitalismo dei disastri». I recenti eventi che riguardano l’università inglesi, ma anche altre settori del servizio pubblico, sono così terrificanti che la reazione ha smontato l’effetto sorpresa dell’annuncio da parte del governo. Va in primo luogo ricordato che la crisi del 2008 non ha aperto la strada a un’era keynesiana di investimenti pubblici, ma ad una
ulteriore privatizzazione di beni pubblici fondamentali. Per quello che riguarda le università inglesi, i tagli erano già previsti dal precedente governo laburista. Prima ancora che le elezioni portassero al
governo i Conservatori e i Liberali, la commissione Browne, il cui mandato è stato quello di formulare le linee politiche della riforma dei finanziamenti all’università nel Regno Unito, era stata promossa dai laburisti. Ed erano stati i laburisti, già con Peter Mandelsson, che
avevano trasferito le università al «Department of Business, Innovation and Skills» e che avevano ipotizzato l’aumento delle tasse universitarie. Il nuovo governo non ha fatto altro che riprendere l’ordine del discorso laburista, annunciando prima una riduzione dei finanziamenti del 20 per cento e poi del 40 per cento. Allo stesso tempo ha stabilito che solo alcune discipline del sapere erano degne del finanziamento pubblico: quelle scientifiche, tecnologiche, l’ingegneria e la matematica, lasciando fuori più o meno tutti i corsi di laurea in discipline umanistiche, sociali e artistiche. Nell’arco di alcuni mesi, l’«economia culturale» e le industrie creative non hanno avuto più nessun ruolo nella cosiddetta «cool britannia», creativa e postfordista.
Era un modo di concepire lo sviluppo economico che ha avuto, negli anni Novanta, il suo massimo ispiratore in Tony Blair. Per alcuni, questa idea aveva protetto gli studi culturali e le arti giustificando in qualche modo la loro esistenza. I significati, le rappresentazioni, le pratiche artistiche potevano essere integrati in questo nuovo e benevolo «capitalismo creativo» inglese, nel quale la cultura – gli stili di vita, le abitudini, le arti, le creazioni digitali dalla musica all’editoria – avrebbero dovuto esserne il cuore pulsante. Invece, durante gli ultimi due anni, tutto il discorso sulle industrie creative è stato sostituito pian piano con quello dell’«economia digitale».
Sembrerebbe un cambiamento apparentemente minimo dalle industrie creative a una versione più orientata verso l’informatica. Il «Digital Economy Bill» e tutte le iniziative governative successive così come la discussione pubblica si sono invece concentrati su progetti come l’infrastruttura digitale, che dovrebbero garantire la banda larga ad alta velocità. Si è cioè privilegiata la tecnologia: tecnologia nel senso di infrastruttura e di soluzioni scientifiche in grado di fornire flussi di reddito più affidabili rispetto al modello vago di creatività dell’industria dei servizi. E così, nonostante le statistiche che testimoniano l’enorme contributo delle arti e delle scienze umane alla creazione di ricchezza, la cultura è diventata l’ancella superflua e ridondante dell’economia digitale. Il passaggio dall’economia creativa a quella digitale ha significato che solo la scienza e l’ingegneria possano essere meritevoli del sostegno pubblico in quanto produttrici di valore economico.
Da ricercatore nel campo dei nuovi media, come vedi questo cambiamento? E che ne pensi della posizione di Jaron Lanier, secondo il quale i nuovi media quali Internet e in particolare il web 2.0 sarebbero responsabili della svalutazione del lavoro cognitivo? Parto dal presupposto che le «industrie creative» producono anch’esse ricchezza. Uno sguardo veloce alle statistiche economiche del «National Archive» testimonia il fatto che questo settore è cresciuto approssimativamente del 5% tra il 1997 e il 2007, molto più di quanto non sia cresciuta l’insieme dell’economia. Allo stesso tempo settori quali il software, i videogiochi e l’editoria elettronica sono cresciuti persino del 9%! Per continuare con le statistiche, un recente rapporto sulle università del Regno Unito fornisce dati simili: le industrie creative e quelle del software, dei videogiochi e dell’editoria elettronica producono enormi quantità di valore economico, con ricavi di 17 miliardi di sterline solo nel 2003/2004: ricavi maggiori di tutto il settore farmaceutico in questo paese. C’è inoltre da dire che per ogni milione di sterline prodotte dalle università, quello stesso rapporto dice che ci sono altri 1.52 milioni di sterline in settori collegati, e in termini di occupazione abbiamo una storia molto simile con 100 lavoratori a tempo pieno nelle università che sostengono l’esistenza di altri 100 lavoratori. Quindi è chiaro che si tratta di qualcos’altro rispetto ad una pura razionalità economica e si è veramente tentati dal leggere tutto ciò in termini di un cambiamento importante della percezione e riorganizzazione del lavoro. Questa si chiamava ideologia, o perlomeno parte di un incanalamento meticoloso e molto sottile di desideri, la relazione con il tempo, con la produzione, la creatività e la partecipazione. La flessibilità è stata imposta come lo stato di
normalità per il «lavoratore creativo», inclusi i docenti, ed è su questo modello che formiamo i nostri studenti dal primo giorno; sopporta i cambiamenti, vivi flessibilmente, e non pretendere quell’orizzonte stabile che chiamavamo futuro. I modelli di lavoro che sostenevano tanta
economia creativa e Internet erano in verità basati sull’investimento psichico. Entusiasmo, volontariato, dare una mano – per molto tempo questa è stata la base del lavoro universitario. Eppure ciò che fino a ieri, negli anni Novanta, era celebrato come l’«etica hacker del lavoro»
si è dimostrata un completo fallimento nel contrastare l’appropriazione privato di valore del lavoro cosiddetto creativo e della cooperazione sociale a cui accennavo. I modelli di lavoro della cultura digitale non sono così facilmente riconducibile a una logica puramente economica.
Quello che i pessimisti culturali vedono come uno sviluppo pericoloso causato da culture partecipative è parte di una più ampia ascesa di reti cooperative, di una nuova era di produttori e consumatori attivi.
Caratteristiche che non possiamo liquidare come cattive, dopo che per anni abbiamo assistito a una grande concentrazione capitalista dei media. Per anni, forti delle riflessioni di Theodore W. Adorno
sull’industria culturale, abbiamo criticato la manipolazione delle coscienze da parte dei media. E tuttavia rispetto al «grande caos» delle reti telematiche e della cultura digitale non possiamo certo tornare a forme elitarie di produzione e di accesso alla cultura. Per alcuni studiosi, come forse per Jaron Lanier, criticano l’ascesa di una banale cultura di dilettanti. Ma sono propenso a credere che la critica elitaria alla cultura digitale cerchi di tornare al centro della scena pubblica forte di una cornice politica e economica neoliberale. In Gran Bretagna, ad esempio, le vecchie università d’elite si stanno trasformando in corporation globali della formazione, facendo leva sui vecchi legami coloniali dell’Inghilterra, proponendo forme neo-coloniale di offerta formativa. Le industrie creative sono riconosciute simbolicamente importanti, ma devono essere autosufficienti, cioè devono basarsi sull’investimento (incluso l’investimento psichico di energia ed entusiasmo) piuttosto che essere sostenute da finanziamenti pubblici. La retorica pubblica dice che i corsi di laurea in scienza ed ingegneria si meritano questo sostegno, perché sono molto costosi in termini di attrezzature da laboratorio, macchinari. Allo stesso tempo, è dominante la visione in base alla quelle il sostentamento dei docenti, dei ricercatori impegnati nelle facoltà umanistiche si arrangino, mentre quelli che lavorano nelle industrie creative si autorganizzino. In fondo, gli uomini e le donne costano molto alle corporation e se lostato riesce a trovare un modello dove fanno lo stesso lavoro per metàdel prezzo, ha risolto un grande problema per quelle stesse corporation.
Un ricercatore che spazia dai virus ai nuovi media
Jussi Parikka, finlandese, docente di «Media Theory and History» presso la Anglia Ruskin University di Cambridge è Direttore dell’istituto CoDE (The Cultures of the Digital Economy) e co- direttore dell’AngliaResearch Centre in Digital Culture (ArcDigital) presso il medesimo ateneo. Parikka è considerato uno dei più influenti teorici dei nuovi media, ma è ugualmente apprezzato per la sua ricostruzione della politica e della storia della comunicazione. Il suo lavoro offre un approccio critico al fenomeno dei virus informatici comunemente interpretati come escrescenze del mondo della rete oppure come pericolo per la sicurezza dei sistemi. Per Parikka, invece, i virus sono espressioni storiche e culturali presenti – anche se in maniera non lineare – i media informatici e quelli più tradizionali, nella produzione del software e nella net-art. Parikka è autore di Digital Contagions: A Media Archaeology of Computer Viruses (Peter Lang Publishing 2007); e curatore, con Tony D. Sampson di «The Spam Book: On Viruses, Porn, and Other Anomalies from the Dark Side of DigitalCulture», Hampton Press, 2009).
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Roberto Ciccarelli
UNIVERSITÀ
Dalla Gran Bretagna all’Italia, la retorica dominante sulla formazione
«Questo è solo l’inizio della resistenza» hanno detto gli studenti inglesi occupando la sede del partito conservatore. Come sempre in questi casi, il dibattito è stato inflazionato in poche ore da chi preferisce le argomentazioni razionali alle azioni dirette contro la privatizzazione della formazione, l’aumento delle tasse (in media da 3 a 9 mila sterline) e i spaventosi tagli voluti dal governo Cameron. Ridurre tuttavia l’atto di resistenza che è andato in scena a Londra all’alternativa tra pacifismo e violenza significa sottovalutare, o forse liquidare del tutto, il conflitto che sta attraversando il sistema dell’istruzione pubblica in Europa. È infatti questo il terreno scelto dai promotori della democrazia oligarchica (la cosiddetta «meritocrazia») per costruire un nuovo modello di cittadinanza sociale per l’Europa che affronterà almeno un decennio di depressione economica e politica.
Ciò che è davvero in gioco, in Inghilterra come nel resto di un continente assediato dalla crisi, è l’idea che quello meritocratico sarà il principio di selezione delle élite e di esclusione delle masse da ogni possibilità di controllo reale sulle procedure di partecipazione alla vita politica. Di solito ogni obiezione viene liquidata ricorrendo ad senso comune costruito ad arte: un sistema educativo non può non essere meritocratico, si dice. Non sarebbe altrimenti possibile selezionare un «capitale umano» qualificato sulla base di un sapere o di una competenza «di eccellenza». Questa impostazione anima le convinzioni dei «riformatori» europei per i quali il sistema pubblico dell’istruzione non è la condizione essenziale per una democrazia inclusiva ed ugualitaria. E così hanno deciso di rompere il rapporto conflittuale tra democrazia e meritocrazia (che Aristotele chiamava timocrazia) imponendo dall’alto una gerarchia tra i saperi e i poteri che non farà altro che rafforzare i meccanismi oligarchici (le «caste») sin dai primi gradi della formazione scolastica. Una volta realizzato, questo progetto escluderà ogni possibilità per la collettività, come per i singoli, di un autogoverno democratico. Gli studenti europei hanno compreso la pericolosità di questo disegno. La loro azione dev’essere oggi considerata come il primo atto di resistenza contro la violenza della svalorizzazione dei saperi e della loro vita. Per l’Europa, questo è l’inizio di un mondo nuovo.
singolarità qualunque
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Lavori verdi, secondo le Nazioni Unite sono in arrivo 4 milioni di posti 16.11.2010
Eco avvocati, manager energetici, chimici, agronomi, designer eolici e assicuratori ambientali. Queste figure professionali sono solo alcune dei quattro milioni di nuovi posti di lavoro che, nel mondo industrializzato (perché nei Paesi in via di sviluppo potrebbero essere di più), costituiranno presto l’offerta occupazionale dei ‘green job’, cioè i lavori verdi legati allo sviluppo sostenibile. Posti che si aggiungeranno agli 11 milioni già esistenti.
A rivelarlo è il rapporto Green Job: Towards Decent Work in a Sustainable, Low-carbon World, realizzato da due agenzie delle Nazioni Unite, l’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) e l’Oil (Organizzazione internazionale del Lavoro), che sarà presentato oggi a Milano durante il convegno internazionale del progetto Gjusti “Progettare, lavorare, pensare il futuro della Terra”, a cui parteciperà anche l’ecologista indiana Vandana Shiva.
Un rapporto che propone una ricetta semplice per uscire dalla crisi: coniugare l’aumento dell’occupazione con la tutela dell’ambiente. Puntando non solo su nuovi tipi di mestieri ma anche sul riadattamento delle competenze professionali. I settori più gettonati? L’agricoltura, l’industria, i servizi, la pubblica amministrazione, l’approvvigionamento energetico, l’edilizia e i mezzi di trasporto.
Grandi, secondo il rapporto, le stime di crescita, ma a patto che gli investimenti continuino a seguire il trend positivo attuale, situazione che li porterebbe a raddoppiare entro il 2020. Il mercato globale di prodotti e servizio per l’ambiente dovrebbe passare, infatti, dagli attuali 1.370 miliardi di dollari l’anno a 2.740 miliardi.
Un esempio positivo arriva dalla Germania, dove l’investimento in tecnologie ambientali è quadruplicato e toccherà, nel 2030, il 16 per cento del totale della produzione industriale, con una occupazione che sorpasserà quella delle grandi industrie di macchine utensili e dell’auto. Espansione che va forte anche negli altri continenti: negli Stati Uniti le tecnologie pulite sono il terzo maggiore settore mentre in Cina gli investimenti sono raddoppiati, diventando il 19 per cento del totale.
E voi, sareste disposti ad aggiornare le vostre competenze e abitudini professionali per lavorare in ambito “verde”?
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Europa, milioni per il cloud computing avanzato 16.11.2010
La UE finanzia lo sviluppo di nuove tecnologie per il cloud computing. Gli obiettivi includono la sicurezza, l’interoperabilità e la gestione intelligente dei dati
Roma – Un nuovo progetto di ricerca in materia di cloud computing si è guadagnato il finanziamento pubblico dell’Unione Europea, con l’obiettivo specifico di far evolvere le moderne tecnologie di gestione delle informazioni “tra le nuvole” e migliorare l’integrazione, la sicurezza e le operazioni di calcolo possibili sui dati immagazzinati online.
Il progetto Vision Cloud (Virtualized Storage Services Foundation for the Future Internet) vede la partecipazione di Siemens, SAP, l’Università Nazionale della Tecnica di Atene, l’Istituto Svedese di Informatica e il team di ricerca di IBM presente ad Haifa, in Israele, a guidare l’iniziativa. Il contributo della UE è quantificato in 15,7 milioni di dollari.
Stando a quanto spiegano i ricercatori IBM, Vision Cloud proverà a superare alcune delle sfide principali poste dalle infrastrutture “cloud” attualmente esistenti: uno dei concetti affrontati dal progetto è lo “storage computazionale”, un paradigma per cui un programma dovrebbe essere in grado di analizzare contenuti audiovisivi, identificare i suddetti contenuti attraverso il riconoscimento vocale ed estrarre uno script capace di descrivere le parole pronunciate nel video.
Un’altra importante sfida di Vision Cloud sarà la messa in sicurezza dell’accesso alle informazioni, con ad esempio la possibilità di limitare la fruizione solo ai membri di una medesima organizzazione contemporaneamente alla garanzia dell’accesso da più dispositivi – computer, tablet, smartphone o quant’altro.
Ultimo ma non ultimo Vision Cloud si pone l’obiettivo di mettere in cantiere nuovi livelli di mobilità e “federazione” dei dati, con una solida interoperabilità grazie alla quale le aziende potranno trasferire i propri asset digitali da un provider all’altro senza sforzi e continuando a usufruirne regolarmente durante il passaggio. Lo stesso livello di integrazione e interoperabilità è tra gli obiettivi della Open Data Center Alliance, l’associazione per il cloud computing del futuro recentemente disvelata da Intel.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3036698/PI/News/europa-milioni-cloud-computing-avanzato.aspx
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Picco del petrolio imminente. Finisce su internet un’analisi segreta dell’esercito tedesco
Picco del petrolio imminente. Finisce su internet un’analisi segreta dell’esercito tedesco.
I militari hanno un debole per l’imminente picco del petrolio. Dopo l’esercito americano, si cimenta nello studio anche l’esercito tedesco. Partorisce un’analisi che doveva rimanere riservata e che invece è finita su internet.
Tratteggia uno scenario non esattamente roseo: addirittura rischi per la democrazia, affacciarsi di alternative estremiste in politica eccetera.
Trovo ovvio che i militari si interessino al picco più ancora di quanti si occupano di energia e ambiente. Il picco è il momento in cui finirà il petrolio abbondante e a buon mercato da cui dipende l’assetto del mondo così come ora lo conosciamo. Volete sapere cosa dicono i tedeschi e come si arriva al documento originale? Ora ve lo dico.
Al centro di tutto c’è il settimanale tedesco Der Spiegel. La sua edizione internazionale on line scrive che il rapporto sul picco del petrolio è opera del Future Analysis Department del Bundeswehr Transformation Center, detto anche ZTransfBw, il centro di trasformazione delle forze armate.
Il rapporto non era nato per la pubblicazione, dice Der Spiegel: forse questo spiega, aggiungo io, i tratti più pessimistici che lo differenziano da tanti documenti ufficiali. Ancora Spiegel scrive che qualcuno ha inserito il rapporto su internet e anonime fonti governative ne hanno confermato l’autenticità al giornale. In fondo trovate il link allo studio completo.
i militari tedeschi ritengono che il picco del petrolio (se già non è avvenuto da poco) avvenga in questo 2010. Il picco è il momento dopo il quale il greggio non sarà più abbondante e a buon mercato, dato che la Terra non ne possiede una quantità illimitata. Un filino prima rispetto ad altre analisi: ma anno più, anno meno ormai ci siamo.
Le conseguenze, aggiungono, si sentiranno 15-30 anni dopo. Secondo me è uno spunto importante: finora ci si è focalizzati più sul “picco” teoricamente inteso, e meno sul momento in cui i suoi effetti diventeranno evidenti. Fino a quel momento – altro spunto fondamentale – c’è uno spazio di tempo cruciale nel quale ci si gioca il futuro.
Attorno a quel che resta del petrolio, scrivono i militari, si disegneranno i rapporti di forza fra Paesi esportatori ed importatori, e più in generale l’intero panorama mondiale.
Conseguenza: il commercio internazionale sarà più costoso e difficoltoso.
I militari tedeschi hanno il merito di averlo scritto. Però se ci pensate un attimo è un’ovvietà. Le merci, grazie alla benzina, vanno continuamente avanti e indietro per il globo. Soprattutto, sul loro andirivieni è basato il nostro stile di vita, dagli oggetti a poco prezzo Made in China alle fragole in tavola (volendo) anche per Natale. Cosa accadrà quando questo non sarà più possibile? Devastante rispetto alla quotidianità, se solo fate mente locale.
Le conseguenze tratteggiate dai tedeschi: difficoltà nell’approvvigionamento delle merci che dipendono dal petrolio, e che rappresentano il 95% del totale. Aumento dei prezzi, compresi quelli del cibo. Aumento dell’azione pianificatrice dei governi in economia – razionamenti compresi – a discapito del libero mercato.
Reazioni a catena date dal fatto che non tutti i Paesi riusciranno a prepararsi in tempo al futuro post-picco, dicono ancora i tedeschi: con conseguenti possibili tracolli economici. E possibile tracollo della democrazia, con apertura di spazi ad alternative ideologiche ed estremistiche rispetto all’assetto attuale, dal momento che il picco del petrolio potrà essere percepito come una crisi di sistema, una crisi del mondo in cui siamo sempre vissuti.
Il sistema nel quale siamo finora vissuti non è il migliore dei mondi possibili, e questa è una considerazione tutta e solo mia. Non credo che il ZTransfBw la condivida.
Quello che mi importa sottolineare è la finestra di opportunità, i prossimi 15-30 anni nei quali – secondo i militari tedeschi – ci giochiamo il futuro. Potrà essere migliore o peggiore. E’ una questione che si comincia a decidere qui ed ora.
Sull’edizione internazionale dello Spiegel on line l’esercito tedesco avverte degli effetti potenzialmente drastici legati all’imminente picco del petrolio: http://www.spiegel.de/international/germany/0,1518,715138,00.html
L’analisi segreta dell’esercito tedesco sul picco del petrolio (http://peak-oil.com/download/Peak%20Oil.%20Sicherheitspolitische%20Implikationen%20knapper%20Ressourcen%2011082010.pdf) è scaricabile attraverso l’edizione tedesca dello Spegel (http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/0,1518,714878,00.html). Ho raggiunto la pagina via Digital Journal. Disclaimer: non leggo il tedesco
Preso da: Blogeko
Prelevato il 17.11.2010
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IL MAXIEMENDAMENTO ELETTORALE
di Tito Boeri 16.11.2010
Nel maxiemendamento alla Legge di stabilità la spesa aumenta mentre i finanziamenti sono rappresentati per lo più da entrate una tantum o aleatorie come i proventi dell’asta per il digitale, nettamente sovrastimati, e quelli dalla lotta al’evasione. Si potenzia ulteriormente il tesoretto (ormai di quasi tre miliardi di euro) gestito direttamente da Palazzo Chigi. Ci sono inoltre diverse poste che trasferiscono oneri sugli esercizi futuri. Insomma, è un maxiemendamento pre-elettorale. Che, senza sviluppo, toglie ulteriormente al rigore facendo aumentare l’indebitamento netto strutturale.
Rigore sì, sviluppo no. Questo, in sintesi, il giudizio sin qui prevalso tra molti commentatori sulla politica economica del Governo. Ma siamo davvero sicuri che si possa parlare di rigore? Il dubbio affiora guardando al maxiemendamento alla legge di stabilità e ai dati sulle entrate tributarie.
Il maxiemendamento prevede maggiori spese e minore entrate per circa 6,15 miliardi, non poche di natura strutturale, finanziate in gran parte con entrate una tantum. Preludono a un peggioramento dell’indebitamento netto strutturale.
LE SPESE IN PIÙ
Partiamo dalle spese aggiuntive. I capitoli più importanti sono un allentamento al patto di stabilità dei Comuni che vale circa 500 milioni, trasferimenti alle Regioni per sanità, trasporti locali e politiche sociali per quasi un miliardo, un altro miliardo per l’università (800 milioni di finanziamento del FFO e un altro miliardo nel 2012 e 2013 volto, in parte, a finanziare un piano straordinario per la chiamata di professori associati), 750 milioni per il rifinanziamento per sei mesi delle missioni internazionali, un miliardo e mezzo per gli ammortizzatori in deroga. Ci sono poi 800 milioni che verranno gestiti direttamente dalla Presidenza del Consiglio, portando a quasi tre miliardi di euro il tesoretto a disposizione di Palazzo Chigi per gestire prebende di vario tipo, dai contributi al Policlinico di Pavia a quelli agli esuli della Dalmazia e dell’Istria. Le poste più importanti di questo Fondo Letta sono comunque riservate ai finanziamenti alle scuole private (245 milioni), e a quelli per la stabilizzazione dei lavori socialmente utili (370 milioni). Infine il maxiemendamento dispone contributi all’editoria (60 milioni) e alle emittenti locali (45). Per alcuni di questi interventi sono previsti stanziamenti fino a giugno. Più elettorali di così! In non pochi casi si tratta di incrementi di spesa destinati a rimanere nel tempo. Pensiamo agli ammortizzatori sociali in deroga: sono soldi dati per finanziare riduzioni di orario in imprese che non pagano contributi a fronte delle prestazioni di cassa integrazione. È un rubinetto destinato a non chiudersi, dato che permette consistenti riduzioni del costo del lavoro per le imprese beneficiarie. Del resto le ore di cassa in deroga continuano ad aumentare nonostante si sia superata la fase più critica della crisi. Oppure le missioni internazionali: c’è un piano che ci fa ritenere che queste spese si interromperanno a giugno 2011? E ancora, come si fa a ritenere una tantum i fino a 500 milioni dati per i concorsi di associato nelle università? Utile notare che di sviluppo ci sono solo i 100 milioni di credito di imposta per le imprese che finanziano la ricerca.
MA COME VERRANNO FINANZIATE?
I finanziamenti sono invece rappresentati per lo più da entrate una tantum o aleatorie. Il piatto forte è rappresentato dai 2,4 miliardi che dovrebbero provenire dall’asta per le frequenze delle Tv digitali, chiaramente una fonte di entrate temporanea oltre che nettamente sovrastimata nel suo importo per le modalità d’asta prescelte Altre entrate dovrebbero venire dall’intensificazione delle misure contro l’evasione. Non si capisce come si potrebbero addirittura aumentare le entrate dalla lotta all’evasione quando mancano all’appello, come riconosciuto dalla stessa Decisione di finanza pubblica a pagina 29 e dalla stessa relazione del ministero sulle entrate tributarie, circa 3 miliardi di entrate preventivate. Mentre il Centro studi Confindustria, a pagina 37 del rapporto allegato denuncia un forte incremento del lavoro sommerso, aumentato di più del 20 per cento in un anno.
GLI ONERI LASCIATI AI POSTERI
Ci sono poi poste che trasferiscono oneri sugli esercizi futuri, come l’allentamento dei vincoli al prepensionamento di lavoratori che esauriscono la cassa integrazione. Si continua anche a chiudere un occhio sulla pratica di trasformare i tagli alle amministrazioni pubbliche in maggiore spesa pensionistica. Ad esempio, alcuni atenei mandano i docenti in pensione e offrono loro contratti temporanei. I docenti interessati, che sono ancora nel sistema retributivo, ci guadagnano: tra pensione e contratto hanno redditi più alti di prima. Gli atenei così riducono il costo del lavoro, dato che pagano solo il contratto e non più lo stipendio pieno. Chi paga è il contribuente che si ritrova alla fine a sborsare, tra contratto e pensione, più di prima. Basterebbe una norma per cancellare questa pratica. Insomma si tratta di un maxiemendamento pre-elettorale. Che, senza sviluppo, toglie ulteriormente al rigore. E rischiamo di vederne di peggio con il “milleproroghe” di fine anno, nonostante i dati deludenti sulla crescita nel terzo trimestre ci dicano che le previsioni del Governo sulle entrate sono troppo ottimistiche: se il Pil quest’anno crescesse solo dello 0,9 per cento come acquisito sin qui, avremmo un altro miliardo e mezzo di entrate in meno. Se il Ministro dell’Economia è ancora in carica, bene che batta un colpo e ponga fine a questo assalto alla diligenza. Non era proprio quello che voleva evitare abbandonando la vecchia legge finanziaria per la “nuova” legge di stabilità?
Rapporto Confindustria (838kb – PDF)
Disegno di legge di stabilità per il 2011 – Emendamento del Governo (538kb – PDF)
» MA QUANTO INCASSEREMO DAL DIGITALE TERRESTRE? , Tommaso Valletti 16.11.2010
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002009.html
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Estratto da http://www.caffeeuropa.it/ del 18.11.2010
“Su La Stampa e sul Corriere da segnalare articolo sui Repubblicani Usa, che al Senato fanno sapere a Obama che non sarà possibile esaminare il trattato Start 2 con la Russia. “Arsenali nucleari, ‘agguato’ a Obama. I repubblicano bloccano il trattato Start 2. Pressing di Hillary sui senatori”, titola il quotidiano milanese, spiegando che “i conservatori alzano il prezzo e la Casa Bianca si infuria: ‘Mettono a rischio la sicurezza del Paese”.
Sul Corriere si parla anche di Germania, con il ministro degli esteri Westewelle e le sue proposte sul disarmo nucleare al prossimo vertice Nato di Lisbona. Berlino si presenta “sempre più con un profilo autonomo”. “La Nato punti al disarmo”. “Ma l’uscita irrita francesi e americani”.
Sullo scudo antimissile da segnalare un intervento del ministro degli esteri russo Lavrov, pubblicato dal Sole 24 Ore. “La Russia pronta a discutere lo scudo antimissile comune”, il titolo del contributo, in cui Lavrov spiega che però la proposta del segretario generale Nato Rasmussen di creare uno scudo congiunto con l’Europa e la partecipazione della Rusia deve essere “paritaria”, e occorre “uscire dall’ambivalenza”.
Il Corriere della Sera (ma ne parlano tutti i quotidiani) scrive anche dell’annuncio del presidente iracheno Talabani, che si oppone alla condanna a morte per Tarek Aziz: “Non firmerò mai l’esecuzione di Aziz. Spiraglio per il braccio destro di Saddam”. Malato, stanco di lottare, condannato alla pena capitale circa un mese fa, Aziz oggi accoglie le dichiarazioni di Talabani, rilasciate in una intervista a France 24: “Non posso firmare un ordine di questo tipo perché sono socialista. E provo compassione per Aziz perché è un cristiano iracheno e perché è anziano”. Secondo Libero “gli iracheni si fanno la guerra sulla testa di Tarek”, nel senso che se il “curdo” presidente non firma, “gli sciiti filo-Iran invocano il boia”.”
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Superfici nanotech per il nuovo fotovoltaico 11.2010
Milioni di spigoli riflettenti e idrorepellenti per ottimizzare celle fotovoltaiche che promettono anche tempi di produzione ridotti.
Questo condensato di innovazioni per lo sfruttamento dell’energia solare è stato messo a punto da un gruppo di ricerca specializzato in nanomateriali dell’Università Aalto di Helsinki, che ha sviluppato un metodo veloce e conveniente per produrre superfici polimeriche o di silicio antiriflesso.
Le prime particolarmente interessanti per il settore farmaceutico nelle analisi chimiche e nell’ingegneria ottica per la costruzione di sensori più efficienti, mentre le seconde profilano nuovi orizzonti per la produzione di celle fotovoltaiche.
In uno studio recentemente pubblicato su Advanced Materials, il team di ricerca descrive la nuova tecnica di produzione di superfici riflettenti che presentano una struttura nanometrica di sporgenze piramidali che permette di assorbire quasi per intero la radiazione solare, consentendo così un considerevole aumento dell’efficienza di conversione della cella rispetto a quanto ottenibile dalle superfici di silicio lisce come specchi che riflettono oltre il 50 per cento della luce solare che le colpisce.
Su questa superficie rugosa i ricercatori hanno poi applicato un sottilissimo strato di un materiale polimerico che facilita lo scivolamento di gocce d’acqua anche microscopiche (dovute ad esempio a un minimo di umidità), che trascinano con sé le particelle di polvere depositate sulla cella che in questo modo si “autopulisce” senza necessità di intervento esterno.
I ricercatori evidenziano anche la rapidità con cui si potranno costruire le celle fotovoltaiche: la struttura di silicio si può usare come “stampo” per costruirne altre, di aree sempre maggiori, rendendo la loro nuova tecnica particolarmente promettente per la realizzazione su scala industriale, dal momento che permette la produzione dei nanomateriali in modo semplice e poco costoso.
Gli scienziati finlandesi devono risolvere un solo problema: i liquidi a bassa tensione superficiale possono ancora contaminare la superficie nonostante lo speciale film in tecnopolimero idrorepellente. Sono ora al lavoro per sviluppare nuove superfici che respingono anche liquidi oleosi.
Fonte: Advanced Materials
http://www.scienzaegoverno.org/n/091/091_01.htm
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“Israele si sta preparando a una guerra con il Libano”, stampa Beirut
Osservatorio Iraq, 10 novembre 2010
Israele si starebbe preparando a una guerra con il Libano.
A riferirlo è il quotidiano libanese as-Safir, che cita un funzionario francese appena tornato da una visita ufficiale nella regione.
Secondo la fonte citata dalla testata vicina al movimento sciita Hezbollah, negli ultimi mesi gli israeliani avrebbero portato a termine le esercitazioni militari e civili necessarie per uno scontro armato col vicino arabo.
In particolar modo, Tel Aviv avrebbe predisposto le infrastrutture necessarie e i rifugi in grado di proteggere le colonie poste nel nord della Cisgiordania, quelle più vicine al confine libanese e più esposte a un eventuale offensiva nemica.
Al tempo stesso, i Northern Corps dell’esercito israeliano avrebbero compiuto una serie di esercitazioni militari (l’ultima a febbraio) per prepararsi a un eventuale attacco e, soprattutto, per rispondere al possibile lancio dei missili a lunga gittata di cui si sarebbe nel frattempo dotato Hezbollah.
L’ultimo confronto armato su larga scala tra Israele e il Libano risale all’estate 2006. In quell’occasione, nel corso di poco più di un mese di conflitto, morirono circa 1200 libanesi (per lo più civili) e un centinaio di israeliani
Le tensioni lungo il confine israelo-libanese si sono riaccese nel corso dell’ultima estate, facendo temere lo scoppio di una nuova guerra con conseguenze ancora più devastanti della precedente.
[c.m.m.]
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=9922
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Dio, rischio della società globalizzata 19.11.2010
ULRICH BECK
Con tutto il suo umanesimo la religione porta in sé una tentazione totalitaria. Dall’universalismo della religione nasce una fraternità che trascende classe sociale e nazionalità, ma anche la demonizzazione degli altri pensieri religiosi, una tendenza che attraversa tutta la storia – e che risale a circa duemila anni fa, alle origini delle religioni monoteiste, Cristianesimo, Ebraismo, Islam. Dio può in uguale misura rendere civili e imbarbarire gli esseri umani. Se vogliamo comprendere la religione nel mondo moderno dobbiamo capire il paradosso della globalizzazione della religione.
La religione non è solo incidentalmente globale nella sua espansione, un sottoprodotto della globalizzazione di strutture più potenti come i mass media, il capitalismo e lo Stato moderno.
Piuttosto la formazione e la diffusione globale della religione in generale, e delle religioni monoteiste in particolare, è una caratteristica essenziale che definisce quelle religioni fin dai loro inizi. In effetti, alcune religioni sono «attori globali» da più di duemila anni. Pertanto, al fine di comprendere il gioco del meta-potere che ridefinisce il potere nell’era globale, dobbiamo prendere in considerazione, oltre al capitale globale, ai movimenti della società civile, ai protagonisti statali e alle organizzazioni internazionali, il ruolo delle religioni come forze modernizzanti o anti-modernizzanti nella società mondiale post-secolare.
Per la religione un postulato è assoluto: la Fede – a suo confronto tutte le altre differenze sociali e contrapposizioni non sono importanti. Il Nuovo Testamento dice: «Tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio». Questa uguaglianza, questo annullamento dei confini che separano le persone, i gruppi, le società, le culture è il fondamento sociale delle religioni (cristiane). Un’ulteriore conseguenza, tuttavia, è questa: una nuova fondamentale distinzione gerarchica è stabilita nel mondo con lo stesso valore assoluto delle distinzioni politiche e sociali che sono state annullate: la distinzione tra credenti e non credenti. Ai non credenti (sempre secondo la logica di questa dualità) vengono negate l’uguaglianza e la dignità di esseri umani. Le religioni possono costruire ponti tra le persone dove esistono gerarchie e frontiere; allo stesso tempo aprire nuove voragini determinate dalla fede là dove prima non ve n’erano.
Fu Paolo, un Ebreo ellenizzato che, più di ogni altra figura nel movimento nato attorno a Gesù, trasformò il cristianesimo da setta ebraica a forza religiosa globale con una visione universalistica. Fu lui ad abbattere i muri: «Non c’è né Ebreo né Greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina».
L’universalismo umanitario dei credenti si basa sulla identificazione con Dio – e su una demonizzazione degli avversari di Dio che, come erano soliti dire Paolo e Lutero, sono «servi di Satana».
Questa ambivalenza tra tolleranza e violenza può essere suddivisa in tre elementi: le religioni del mondo A) rovesciano le gerarchie prestabilite e di conseguenza i confini tra nazioni e gruppi etnici; sono in grado di farlo, nella misura in cui B) creano un universalismo religioso di fronte a cui tutte le barriere nazionali e sociali diventano meno importanti; simultaneamente, si manifesta il pericolo che C) alle barriere etniche, nazionali e di classe si sostituiscano quelle tra i credenti nella vera fede da un lato e i credenti nella fede sbagliata e i non credenti dall’altra. Questo è il timore che sta diffondendo: che il rovescio della medaglia del fallimento della secolarizzazione sia la minaccia di un nuovo secolo buio. La religione uccide.
Si sta dibattendo con inquietudine il «problema» dell’Islam nell’Europa laica: alcuni addirittura denunciano la «fine del multiculturalismo» – in un’Europa dalle troppe identità dissonanti. Ignorando così lo stratagemma della cooperazione: è possibile distinguere tra ortodossia e interazione. Questo procedimento si vede in atto in alcuni luoghi, diciamo a Londra e a Milano, ma soprattutto negli Stati Uniti e in particolare nelle grandi città di tutto il mondo (tantissimo in Giappone). Questo buon senso interreligioso funziona nei progetti educativi come nel soccorso dei poveri, nella tutela delle minoranze o dei migranti (illegali) e, non ultimo, nella pubblica opposizione alle politiche statali di esclusione.
I gruppi possono essere intolleranti per quanto riguarda la teologia altrui, ma al tempo stesso lavorare insieme in modo creativo per affrontare preoccupazioni pubbliche condivise. Questa separazione tra il dogma e la pratica è possibile, non solo a livello locale, ma anche sulla scena mondiale? Le religioni del mondo possono effettivamente interagire e collaborare per dare risposte pragmatiche alle sfide poste dai rischi della società mondiale – il pericolo di una guerra nucleare, i cambiamenti climatici, la migrazione, la povertà globale? Oggi chiedersi in che misura la verità possa essere sostituita dalla pace è una domanda cruciale per la sopravvivenza dell’umanità. Ma la speranza per una religiosità inter-cristiana o cristiano-musulmana senza la demonizzazione dell’altro non è la cosa più improbabile, ingenua, sciocca, assurda in cui si possa sperare?
(Traduzione di Carla Reschia)
*Ulrich Beck è professore di Sociologia presso l’Università di Monaco di Baviera e la London School of Economics
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Un bilancio in rosso per Obama
Autore: Chomsky, Noam
Il giudizio severo del grande intellettuale statunitense sulla politica del presidente USA: troppo debole con i poteri forti. Il manifesto , 18 novembre 2010
Una Casa Bianca ostaggio dei supporter del neoliberismo. Anticipiamo brani da «America, no we can’t», il saggio che il noto linguista ha dedicato alla politica statunitense, all’interno del quale analizza i primi due anni della presidenza democratica
L’azione più importante di Barack Obama prima di assumere la carica è la scelta dello staff dirigente e dei consiglieri. La prima scelta è stata per la vice-presidenza: Joe Biden, uno dei sostenitori più tenaci dell’invasione in Iraq tra i senatori democratici, da lungo tempo addentro al mondo di Washington, che vota coerentemente come i compagni democratici – sebbene non sempre, come quando ha portato allegria negli istituti finanziari appoggiando un provvedimento per rendere più difficile agli individui cancellare i debiti dichiarando la propria condizione di insolvenza.
Il primo incarico post-elettorale è stata la nomina cruciale del capo di gabinetto: Rahm Emanuel, anch’egli uno dei più strenui sostenitori dell’invasione in Iraq tra i deputati democratici e, come Biden, buon conoscitore di Washington. Emanuel è anche uno dei maggiori beneficiari dei contributi di Wall Street alla campagna elettorale. Il Center for responsive politics riferisce che «è stato il massimo beneficiario, tra i rappresentanti, dei contributi per la campagna del 2008 provenienti da fondi a rischio, società private con capitale di rischio e le maggiori società finanziarie e di assicurazione». Da quando è stato eletto al Congresso nel 2002, «ha ricevuto più soldi da singoli e da comitati di sostegno elettorale nel mondo degli investimenti e delle assicurazioni che da altri settori dell’industria»; che sono anche quelli che hanno dato i contributi più consistenti ad Obama. Il suo compito era quello di controllare il modo in cui Obama affrontava la peggiore crisi finanziaria mai verificatasi dagli anni ’30, per la quale i suoi finanziatori e quelli di Obama condividono ampie responsabilità.
La sinistra ai margini
In un’intervista di un editorialista del Wall Street Journal ad Emanuel fu chiesto che cosa avrebbe fatto la nuova amministrazione Obama riguardo alla «leadership democratica al Congresso, piena di baroni di sinistra con il loro proprio programma»; che contempla il taglio delle spese per la difesa e le «manovre per applicare esorbitanti tasse sull’energia per combattere il riscaldamento globale»; per non parlare dei pazzi totali che in Congresso si trastullano con i risarcimenti per la schiavitù e simpatizzano anche con gli europei che vogliono mettere sotto processo l’amministrazione Bush per crimini di guerra. «Barack Obama si opporrà», ha assicurato Emanuel al giornalista. L’amministrazione sarà «pragmatica», schiverà i colpi degli estremisti di sinistra.
L’esperto di diritto del lavoro e giornalista Steve Early ha scritto che «durante la campagna elettorale, Obama ha detto che appoggiava fermamente l’ Employee free choice act, una riforma legislativa sul lavoro, a lungo attesa, che dovrebbe essere parte integrante del piano che ha promesso per stimolare l’economia». Tuttavia, quando Obama presentò i suoi massimi consiglieri economici al momento dell’insediamento «e parlò dei passi da fare per dare una “scossa” all’economia (…) la legge di riforma non faceva parte del pacchetto».
Continuando a passare in rassegna le nomine di Obama, il suo Transition board, l’équipe che si occupa di introdurre i nuovi incaricati nel governo, fu guidato da John Podesta, capo di gabinetto di Clinton. Le figure di punta della sua équipe erano Robert Rubin e Lawrence Summers, entrambi entusiasti della deregolamentazione, il principale fattore scatenante della crisi finanziaria attuale. Come segretario del tesoro Rubin ha lavorato duramente per abolire la legge Glass-Steagall, che aveva separato le banche commerciali dagli istituti finanziari esposti ad alto rischio.
Conflitto di interessi nello staff
La stampa economica esaminò i documenti del Transition economic advisory board di Obama, che si riunì il 7 novembre 2008 per definire le linee di intervento sulla crisi finanziaria. L’editorialista di Bloomberg News, Jonathan Weil concluse che «molti di loro dovrebbero ricevere immediatamente una convocazione in tribunale come persone informate sui fatti, non un posto nel circolo ristretto di Obama». Circa metà «ha avuto incarichi fiduciari in società che, in qualche misura, o hanno bruciato i loro bilanci o hanno contribuito a portare il mondo al collasso economico, o entrambe le cose». È plausibile pensare che «non scambieranno i bisogni della nazione per gli interessi dei loro consoci?» Weil ha anche precisato che il Capo di gabinetto Emanuel «era amministratore alla Freddie mac nel 2000 e 2001, mentre la finanziaria commetteva frodi in bilancio».
La preoccupazione primaria dell’amministrazione è stato il tentativo di arrestare la crisi finanziaria e la parallela recessione nell’economia reale. Ma c’è anche un mostro nell’armadio: un sistema sanitario privatizzato notoriamente inefficiente e scarsamente regolato, che minaccia di mettere in difficoltà il bilancio federale se la crisi persiste. La maggioranza della gente è da lungo tempo a favore di un servizio sanitario nazionale, che dovrebbe essere molto meno costoso e più efficace, come prove comparative (e molti studi) dimostrano.
Appena nel 2004, qualunque intervento del governo nel sistema sanitario era descritto sulla stampa come «politicamente impossibile» e «privo di sostegno politico» – che vuol dire: contrastato dalle compagnie di assicurazione, dalle grandi aziende farmaceutiche e da altri che contano, qualunque cosa ne pensi la popolazione, del tutto irrilevante. Nel 2008, tuttavia, prima John Edwards, poi Obama e Hillary Clinton, hanno avanzato proposte che si avvicinavano a quello che la gente ha a lungo desiderato. Queste idee ora hanno un «sostegno politico». Che cosa è cambiato? Non l’opinione pubblica, che resta come era prima. Ma nel 2008 i settori di potere più potenti, in prima fila l’industria, era arrivata a riconoscere che subivano gravi danni dal sistema sanitario privatizzato. Di conseguenza, la volontà popolare comincia ad avere «sostegno politico». Lo spostamento ci dice qualcosa sulle disfunzioni della democrazia e sulle lotte che si prospettano.
Quello che è accaduto dopo dice ancora di più.
Obama ha abbandonato subito l’opzione popolare e sensata dell’assistenza medica da parte di un unico ente, che aveva detto di voler appoggiare. Ha anche raggiunto un accordo segreto con le aziende farmaceutiche secondo il quale il governo non avrebbe «negoziato il prezzo dei medicinali e non avrebbe richiesto rimborsi addizionali» a seguito delle pressioni delle lobby e contro l’opinione di un netto 85 per cento della popolazione. Una «opzione pubblica» – nella sostanza l’opzione di «medicare per tutti» – rimase, ma fu sottoposta ad un intenso attacco in base alla motivazione, interessante, che gli assicuratori privati non sarebbero stati in grado di competere con un piano governativo efficiente (pretesti più sofisticati non erano meno bizzarri). Nel giugno 2009 il 70 per cento della popolazione era a favore del piano, nonostante l’instancabile e spesso isterica opposizione di gran parte del settore assicurativo.
Due mesi dopo, l’articolo di fondo di Business Week era titolato: «Le assicurazioni sulla salute hanno già vinto: come United health e Rival carriers, manovrando dietro le quinte a Washington, hanno modellato la riforma sanitaria a loro beneficio». Il settore assicurativo «è riuscito a ridefinire i termini della discussione sulla riforma in misura tale che non contano i dettagli del voluminoso progetto di legge che il Congresso manderà al presidente Obama l’autunno prossimo, il settore riemergerà ancora più redditizio (…) i manager delle assicurazioni dovrebbero sorridere di piacere».
A metà settembre, quando i progetti di legge stavano arrivando sul tavolo del Congresso, il mondo degli affari manifestò il suo appoggio alla versione della Commissione finanze del senatore Max Baucus, che aveva lavorato «in stretto contatto con i gruppi imprenditoriali», più che con altri, si dice con approvazione. Le proposte della Camera furono respinte perché non sufficientemente a favore dei gruppi affaristici. Il presidente della Business Roundtable definì la proposta della Commissione finanze del Senato «molto in linea» con i suoi principi, specialmente per il fatto che «non richiede la creazione di un piano pubblico».
Una riforma dimezzata
Naturalmente nessuna vittoria basta di per sé. Perciò, mentre la lotta per la riforma del sistema sanitario paralizzò virtualmente il Congresso alla fine del 2009, le lobby affaristiche iniziarono una grande campagna per ottenere ancora di più, e ci riuscirono. L’opzione pubblica fu alla fine «fatta naufragare» insieme con un connesso «medicare buy-in» che avrebbe permesso alle persone di 55 o più anni di avere il servizio sanitario nazionale. A quel punto la gente era a favore dell’opzione pubblica dal 56 al 38 per cento e il Medicare buy-in in percentuale anche maggiore, tra il 64 e 30 per cento. Il sondaggio che mostrava questi risultati fu reso pubblico, ma i fatti furono omessi: il titolo diceva «Sondaggi: la maggioranza non approva le leggi per il servizio sanitario». L’articolo lascia l’impressione che la popolazione si unisca all’attacco della destra contro il coinvolgimento del governo nell’assistenza sanitaria, assalto condotto dagli interessi affaristici, contrari a quello che proprio il sondaggio rivela e che altri sondaggi mostrano da decenni.
E che hanno continuato a mostrare nel 2010. Un sondaggio della Cbs reso pubblico l’11 gennaio ha rilevato che il 60 per cento degli americani non approvava il modo in cui il Congresso stava affrontando il problema del sistema sanitario. Le cifre dettagliate mostrano che, tra quelli che sono contro il modo in cui la proposta regola il rapporto con le compagnie di assicurazione, la grande maggioranza pensa che non si spinga abbastanza avanti (il 43 per cento di «non abbastanza», contro il 27 per cento di «troppo»). L’assistenza sanitaria è stata una questione cruciale nelle elezioni al senato nel Massachusetts nel gennaio 2010, in cui ha vinto il repubblicano Scott Brown. Tra i Democratici che si sono astenuti o hanno votato per Brown, il 60 per cento pensava che il programma sanitario non si spingeva abbastanza avanti (l’85 per cento di quelli che si astennero). Tra gli astenuti e i democratici che hanno votato per Brown, circa l’85 per cento era a favore dell’opzione pubblica.
In breve, l’evidenza mostra che in realtà cresceva la rabbia popolare contro il progetto di legge sulla sanità di Obama, prima di tutto perché era troppo limitato.
Mentre il settore finanziario aveva tutte le ragioni per sentirsi soddisfatto dei risultati ottenuti dopo gli sforzi per far eleggere il suo uomo, Obama, la storia d’amore ha cominciato a volgere alla fine nel gennaio 2010, quando Obama ha deciso di reagire al montare della rabbia popolare contro gli «stipendi d’oro» per i finanzieri, mentre altri erano impantanati in una «triste strada tutta in salita per i lavoratori». Ha dunque adottato una «retorica populista», criticando le enormi gratifiche per chi era stato salvato dall’intervento pubblico, e proponendo anche delle misure per limitare gli eccessi delle grandi banche (inclusa la «regola Volcker», che avrebbe in parte ristabilito la legge Glass-Steagall, impedendo alle banche commerciali con garanzia governativa di usare i depositi per investimenti a rischio). La punizione per la sua deviazione è stata rapida.
In nome del libero mercato
Le grandi banche hanno annunciato con rilievo che avrebbero spostato i finanziamenti verso i repubblicani, se Obama avesse insistito con i discorsi sulla regolazione e la retorica contro i finanzieri.
Obama ha capito il messaggio. In pochi giorni ha informato la stampa economica che i banchieri sono bei «tipi», scegliendo Dimon e il presidente Lloyd Blankfein della Goldman Sachs come persone degne di lode e, per rassicurare il mondo degli affari, ha spiegato: «Io, come la maggior parte del popolo americano, non provo invidia per chi ha successo e ricchezza», nella forma delle enormi gratifiche e profitti che fanno infuriare la gente. «Fanno parte del sistema di libero mercato», ha continuato Obama; e non sbagliava, considerato il modo in cui il «libero mercato» è interpretato nella dottrina del capitalismo di stato.
Osservazioni come queste suggeriscono un interessante esperimento mentale. Che cosa sarebbe il contenuto del «marchio Obama» se la popolazione dovesse diventare «partecipe» piuttosto che semplice «spettatrice dell’azione»? È un esperimento degno di essere tentato, non solo in questo caso, e c’è qualche ragione per supporre che il risultati potrebbero indicare la via per un mondo più sensato e decente.
http://eddyburg.it/index.php/article/articleview/16214/0/373/
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CERN, antimateria in bottiglia 18.11.2010
Importante risultato sperimentale in quel di Ginevra. Dove i ricercatori sono riusciti a produrre e mantenere in vita alcuni atomi di anti-idrogeno per una frazione di secondo
Roma – Dopo aver creato mini-Big Bang all’interno del Large Hadron Collider, i ricercatori del CERN hanno ora raggiunto l’ennesimo risultato da primato nel campo della fisica dei quanti: questa volta a Ginevra sono riusciti a creare 38 atomi di antimateria e a “intrappolarli” mantenendoli stabilmente in vita per una frazione di secondo.
Stando al “modello standard” della fisica dei quanti, a ogni particella di materia elementare corrisponde il suo equivalente di antimateria con carica e spin speculari. Posseggono la loro antiparticella l’elettrone (positrone), il protone, il neutrone e tutte le altre componenti del variopinto “bestiario” del modello standard.
La creazione di antimateria in laboratorio o il suo utilizzo nella quotidianità (come nella tomografia a emissione di positroni) non è più una novità da molti anni, mentre resta ancora problematico lo studio delle sue caratteristiche specifiche vista la tendenza all’annichilamento che ha l’antimateria ogni volta che si scontra con la materia comune.
Sfruttando un particolare design di campi elettromagnetici noto come “bottiglia magnetica”, invece, i ricercatori del CERN sono riusciti a mantenere stabili 38 atomi di anti-idrogeno per due decimi di secondo ciascuno, su un totale di 10 milioni di antiprotoni e 700 milioni di positroni usati nell’esperimento.
Per quanto al momento di breve durata, la possibilità di produrre e “trattenere” gli atomi di antimateria fornisce agli scienziati la prospettiva di studiare più da vicino le loro caratteristiche. In tal modo i ricercatori potrebbero finalmente spiegare la discrepanza tra l’attuale, preponderante presenza della materia comune nell’universo e il fatto che dal Big Bang sarebbero teoricamente scaturite identiche quantità di materia e antimateria: quella frazione di materia standard sopravvissuta ha dato origine al tutto e infine alla vita sul pianeta Terra.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3039741/PI/News/cern-antimateria-bottiglia.aspx
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Onde radio sui reni abbassano la pressione 18.11.2010
La pressione alta può essere controllata colpendo i reni con delle onde radio. Lo hanno dimostrato i ricercatori del Baker IDI Heart and Diabetes Institute di Melbourne, Australia, che hanno guidato un test su 100 pazienti di tutto il mondo che non rispondevano ai trattamenti farmacologici.
La tecnica sviluppata consiste nell’arrivare al rene con un catetere, raggiungendo dei nervi che hanno una grande importanza nella regolazione della pressione.
Una volta individuato l”obiettivo’, una piccola scarica di radiofrequenze ‘brucia’ i piccoli nervi senza intaccare i tessuti circostanti.
La procedura, scrivono i ricercatori sulla rivista The Lancet, abbassa la pressione di almeno 10 millimetri di mercurio, una quantità sufficiente a limitare il rischio di attacchi cardiaci e ictus.
Sei mesi dopo l’intervento il miglioramento è rimasto nell’84 per cento dei pazienti. “Il prossimo passo – hanno spiegato – è capire se gli effetti durano per periodi anche più lunghi, e se questa procedura invasiva può essere accettata dai pazienti“.
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Riso Scotti: 7 arresti per truffa sulla bioenergia 18.11.2010
Tutti conoscono il marchio Riso Scotti e i suoi prodotti. Quasi nessuno, però, è a conoscenza del fatto che la stessa azienda gestisce anche una centrale a biomasse, tramite la controllata Riso Scotti Energia. La centrale elettrica in questione si trova a Pavia e altro non è che un piccolo inceneritore nato per bruciare gli scarti del riso.
Negli anni è stato trasformato in centrale elettrica con il permesso di bruciare anche legna. Proprio l’inceneritore è al centro dell’inchiesta che ha visto sette persone finire agli arresti per truffa e traffico illecito di rifiuti. L’ipotesi degli investigatori, il Corpo Forestale, è che dentro quel forno non ci finissero solo legna e riso ma un po’ di tutto.
Una specie di termovalorizzatore campano in miniatura, che avrebbe bruciato negli anni 40 mila tonnellate di rifiuti tra plastica, imballaggi vari, fanghi essiccati di depurazione di acque reflue urbane e industriali. Di tutto un po’, quindi, con la connivenza di un laboratorio analisi compiacente che avrebbe falsificato i certificati per mettere le carte a posto e poter dire che, in quell’inceneritore, si produceva solo energia pulita.
Via | La Provincia Pavese
Foto | Flickr
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Solare: nasce il pannello “ibrido” che riscalda l’acqua e produce elettricità 17.11.2010
Di Marco Mancini
Il pannello solare per riscaldare l’acqua va bene. I pannelli fotovoltaici per produrre elettricità vanno anche bene. Ma allora perché scegliere solo uno dei due? L’azienda americana Cogenra ha deciso di combinare le due tecnologie solari nei suoi nuovi pannelli solari ibridi, aumentando la quantità totale di energia che può essere catturata dal sole. In questo modo si riduce anche il ricorso ad altre fonti di energia che non sono così pulite. E’ un sistema molto intelligente e, se dovesse funzionare bene, potrebbe essere la tecnologia solare per le case del futuro. Il funzionamento lo spiega l’azienda stessa:
Il tradizionale fotovoltaico converte circa il 16% dell’energia del sole in energia elettrica utilizzabile, sprecando l’energia residua per lo più sotto forma di calore. La cogenerazione solare cattura questo calore residuo e lo trasforma in reale valore: acqua calda. Questa soluzione cogenerativa ha il vantaggio di raffreddare i componenti del pannello fotovoltaico, che amplifica la generazione elettrica del sistema.
In pratica, tradotto in parole comprensibili, la cogenerazione solare (generazione di energia termica ed elettrica) riduce drasticamente gli sprechi, producendo maggiore elettricità e di conseguenza portando ad ulteriori risparmi.
La tecnologia inventata da Cogenra Solar cattura fino all’80% di energia proveniente dal sole e produce cinque volte in più energia rispetto ai tradizionali sistemi fotovoltaici. Per ottenere questi evidenti guadagni di efficienza l’azienda integra avanzate celle fotovoltaiche di silicio con un innovativo sistema di trasferimento termico a basso costo.
Vinod Khosla, uno dei magnati del settore, proprietario della Khosla Ventures, ha investito 10,5 milioni dollari (circa 7,7 milioni di euro) nel progetto perché ritiene che la tecnologia sia molto conveniente, che è esattamente ciò di cui c’è bisogno per competere nel mercato dell’energia, non solo contro altri fornitori di energia solare, ma anche contro altre fonti classiche come il carbone che è economico, ma emette gas serra. Finora Cogenra ha installato soltanto un impianto solare ibrido in California, ma visti i buoni risultati non è escluso che il progetto possa essere ampliato. Attualmente esso è in grado di produrre 50 kilowatt di energia elettrica e l’equivalente di 222 kilowatt di energia termica, non male per essere ancora sperimentale.
[Fonte: Treehugger]
http://www.ecologiae.com/pannello-solare-ibrido/27285/
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Il fotovoltaico galleggiante finalista al Clean Tech Open IDEAS Competition 22.11.2010
La rivoluzionaria idea di poggiare i pannelli solari sull’acqua è venuta alla Solaris Synergy, un’azienda israeliana che conta di iniziare quanto prima i test per intanto si ”accontenta” di essere arrivata tra i finalisti del Clean Tech Open IDEAS Competition. La vittoria è andata a un progetto danese che ha inventato un materiale da costruzione super leggero.
I pannelli fotovoltaici potrebbero essere posizionati anche in piccoli serbatoi per sopperire al fabbisogno energetico di una famiglia.
L’idea potrebbe essere perfezionata entro l’anno, i test in Israele si effettueranno in un grande serbatoio.
Veramente molto interessante questo fotovoltaico ”acquatico” che permette, non dimentichiamolo, di non occupare prezioso terreno destinabile a piantagioni e utilizzi agrivoli ma di sfruttare la più vasta risorsa del pianeta: l’acqua.
Via | Clean Tech
Foto | GreenProphet
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