Stella rossa sull’Afghanistan 13.08.2010
Il Partito comunista (maoista) afgano clandestino ha annunciato che presto inizierà a combattere contro “gli occupanti imperialisti”, ma anche contro “i reazionari teocrati islamisti”
A combattere contro le truppe d’occupazione della Nato in Afghanistan, presto potrebbero esserci non più solamente talebani e jihadisti, ma anche guerriglieri comunisti.
Questo, almeno, è quanto si deduce da un recente comunicato del Partito comunista (maoista) afgano, formazione clandestina nata nel 2004.
”Il Partito sta per dare inizio alla guerra popolare in Afghanistan, il cui specifico carattere, nell’attuale congiuntura, è la guerra popolare rivoluzionaria nazionale di resistenza contro gli occupanti imperialisti e il loro regime fantoccio”.
Così si conclude un comunicato del Pc(m)a pubblicato lo scorso 15 luglio sul sito di Shola Jawid (Fiamma eterna), organo del partito, per commemorare il compagno Azad, storico portavoce dei guerriglieri maoisti ‘Naxaliti’ indiani, ucciso in combattimento lo scorso primo luglio.
Il Partito comunista (maoista) afgano – la cui dirigenza è finora rimasta clandestina – è il frutto di un lento processo di riunificazione e rivitalizzazione di quel che rimaneva dei grandi movimenti maoisti afgani degli anni ’60 e ’70, poi sterminati dai comunisti filo-sovietici e dagli integralisti filo-americani. Un processo iniziato subito dopo l’invasione alleata del 2001 allo scopo di condurre una guerra di liberazione nazionale ‘autonoma’ rispetto a quella dei gruppi armati islamici nel nome di una ‘terza via’ alternativa sia dall’occupazione straniera che dalla teocrazia islamica.
”Se le masse afgane continueranno a pensare che l’unica alternativa sia tra la resa all’occupante straniero o il sostegno a talebani e Al-Qaeda, la miseria del nostro popolo non avrà fine”, si legge in un documento del marzo 2002. ”Il nostro partito ha deciso di mobilitarsi autonomamente per resistere all’invasione imperialista, come tappa necessaria verso una rivoluzione neo-democratica in Afghanistan. Dobbiamo infatti considerare nostri nemici non solo gli imperialisti americani e i loro alleati, ma anche i reazionari teocrati islamisti, talebani o jihadisti che siano, che oggi controllano il paese”.
Il Pc(m)a si propone come moderno erede degli Sholay (Fiamme): i militanti maoisti dell’Organizzazione dei giovani progressisti (Sazman-e Jawanan-e Mutarraqi) fondata nel 1965 da Akram Yari, maestro hazara originario di Jaghori (Ghazni).
Gli Sholai – dal nome della loro popolare rivista studentesca, Shola Jawid – nacquero come un movimento giovanile di protesta contro la monarchia di Zahir Shah, i fondamentalisti islamici di Gulbuddin Hekmatyar e il comunismo filo-sovietico del Partito democratico del popolo afgano (Pdpa), diventando rapidamente uno dei maggiori movimenti di massa del paese.
Sopravvissuti alle sanguinose persecuzioni e repressioni della polizia monarchica e dei gruppi islamici integralisti, i maoisti Sholay vennero messi fuori legge dopo il golpe comunista del 1978: in migliaia vennero arrestati, torturati e uccisi. Tra loro anche Akram Yari, che però fece in tempo a lasciare un’importante eredità politica attraverso il suo discepolo Faiz Ahmad, che nel frattempo aveva fondato l’Organizzazione per la liberazione dell’Afghanistan (Ola): gruppo armato maoista che per tutti gli anni ’80 combatté gli occupanti sovietici (entrando formalmente nel Fronte dei mujaheddin combattenti per la libertà), ma che ben presto entrò in conflitto con gli integralisti islamici di Hekmatyar.
Furono proprio i mujaheddin di Hekmatyar, nel 1986, ad assassinare Faiz Ahmad, provocando di fatto lo smembramento dell’Ola. Dalle sue ceneri nacquero, alla fine degli anni ’80, diversi movimenti maoisti rivoluzionari e, nel 1991, il Partito comunista d’Afghanistan (Pca), che recuperò la tradizione ‘terzista’ degli Sholay di Akram Yari: contro “il fascismo” e “l’oscurantismo” degli integralisti e contro l’imperialismo di qualsiasi stampo.
Coerentemente con questa posizione, dopo l’invasione americana del 2001, il Pca si è fatto promotore della rinascita di una resistenza armata maoista sia contro le truppe Nato che contro talebani e signori della guerra, avviando il processo politico che ha portato alla creazione del Pc(m)a nel 2004.
La rinascita del maoismo in Afghanistan si inserisce nella più generale fenomeno del risveglio dei movimenti armati comunisti in molti paesi poveri del continente asiatico. Dall’India rurale, al Nepal, alle Filippine, il maoismo si è mostrato capace di interpretare le lotte contadine e indigene contro le razzie delle multinazionali e le ingiustizie del liberismo globale. In Afghanistan esso si propone invece come strumento di liberazione nazionale e come alternativa alla teocrazia feudale: una sfida non così velleitaria, tenuto conto dell’arretratezza della società afgana e dell’esito fallimentare dell’esperimento di democrazia occidentale.
http://it.peacereporter.net/articolo/23586/Stella+rossa+sull%27Afghanistan
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Tessuti biosintetici per cornea, la speranza in una ricerca 27.08.2010
Testata per due anni su 10 pazienti. I risultati spingono all’ottimismo i ricercatori, che vogliono ridonare la vista a coloro che l’hanno persa a causa della cornea danneggiata
Roma – Un cornea sintetica è stata sperimentata per due anni su dieci pazienti in cui la lacerazione o l’infiammazione dell’organo aveva causato perdita di vista: i risultati ottenuti sono molto promettenti, tanto che sembrano aprire la strada ai tessuti biosintetici in questo tipo di operazione.
Il danneggiamento della cornea, attualmente, coinvolge circa 10 milioni di persone ed è la seconda causa di cecità nel mondo: la cura più diffusa al momento è quello della sua sostituzione con una cornea recuperata da un donatore. Ma questo è possibile solo in determinati casi: 42mila l’anno i trapianti di cornea da cadaveri solo negli Stati Uniti, con molte delle richieste destinate a rimanere inascoltate.
Se a questi numeri si sottrae quelli che hanno problemi di rigetto (o con i farmaci antirigetto) e i rischi di infezione, e si considera che l’unica alternativa alla cornea di un donatore è l’utilizzo di una in plastica che non può ristabilire la vista ottimale, è evidente come sia una questione di grande importanza.
Quest’ultima ricerca, invece, ha generato entusiasmo: il dottor Francis W. Prince Jr, presidente della Fondazione per la Ricerca sulla Cornea, ha dichiarato che “è un grande passo in avanti, e anche se ci sono ancora studi da completare promette molto bene”.
La ricerca, pubblicata sulla rivista Science Translational Medicine, è da considerare multinazionale: la cornea sviluppata è costituita da un collagene, prodotto dall’azienda FibroGen Inc di San Francisco nel lievito che come un’impalcatura permette alle cellule del recipiente di crescere nell’innesto così da riprodurre il tessuto originale; a trasformarlo nella cornea artificiale e testarlo sugli animali è stato un team di ricercatori guidati dal dottor May Griffith dell’Istituto di ricerca ospedaliera di Ottawa (Canada); ad avviare la sperimentazione su 10 pazienti il dottor Per Fagerholm dell’Università svedese di Linkoping.
Dopo due anni i pazienti non hanno registrato problemi e lo studio ha mostrato come la cornea biosintetica permetta di ripristinare la vista altrettanto efficacemente delle cornee di cadaveri, senza i problemi di rigetto e permettendo inoltre una lacrimazione normale. Solo in quattro dei casi i pazienti sono dovuti ricorrere alle lenti a contatto (strumento che si usa anche con le cornee di donatori) per riavere una buona vista.
La ricerca dovrebbe ora proseguire con altri test su 20-25 pazienti.
Claudio Tamburrino
http://punto-informatico.it/2974915/PI/News/tessuti-biosintetici-cornea-speranza-una-ricerca.aspx
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Alla caccia di materia oscura 27.08.2010
Un nuovo, potente rivelatore di particelle è in viaggio verso gli Stati Uniti, prima del lancio verso la ISS. Si chiama AMS, è il suo scopo è tentare di svelare la reale natura dell’universo
Roma – Si chiama Alpha Magnetic Spectrometer (AMS) ed è la nuova meraviglia tecnologica che dovrebbe rispondere ad alcune delle domande fondamentali scaturite dai recenti sviluppi dell’astrofisica: che cos’è la materia oscura? Da cosa è composta e con che cosa interagisce la sfuggente sostanza che compone (o almeno dovrebbe) il 95 per cento dell’universo conosciuto?
AMS è un rivelatore di particelle con un potente cuore magnetico, dal peso di 8,5 tonnellate, già caricato su un cargo della Air Force statunitense in quel di Ginevra. Risultato di 20 anni di ricerche e 2 miliardi di dollari di investimenti da parte di 16 diverse nazioni (Europa, Usa e Cina incluse), AMS verrà trasportato negli Stati Uniti in attesa di approdare sulla Stazione Spaziale Internazionale entro il febbraio del 2011.
La messa in orbita di AMS è appunto uno dei motivi principali che hanno convinto l’amministrazione Obama e l’agenzia spaziale NASA a rimandare il pensionamento del programma Shuttle almeno di qualche mese, dando alla comunità scientifica la possibilità di poter contare sulla disponibilità di un sofisticato strumento di indagine sul cosmo nel miglior punto di osservazione possibile: vale a dire nel cosmo stesso, al di fuori dell’atmosfera terrestre.
“Il cosmo è il nostro laboratorio più importante”, commenta il premio Nobel, professore del MIT e principale responsabile del progetto AMS Samuel Ting. Gli scienziati che gestiscono AMS sperano di individuare nuove prove dell’esistenza della materia oscura e di raccogliere ulteriori dati sui raggi cosmici. Roberto Battiston, fisico italiano presente nel team di AMS, dice che il lavoro del rilevatore “potrebbe riservare molte sorprese”.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2975495/PI/News/alla-caccia-materia-oscura.aspx
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appelli e petizioni: Non lasciamo che vinca la barbarie sulla cultura
Purtroppo i nostri timori si stanno avverando: la tutela dei monasteri ortodossi, patrimonio dell’Umanità, sta finendo in mano ai reduci dell’UCK. Sottoscrivi il nostro appello!
Siamo stati facili profeti noi dell’associazione Un ponte per… quando, nel dicembre dello scorso anno, abbiamo lanciato un drammatico appello per la protezione delle minoranze serbe e dei monasteri ortodossi nel Kosovo e Metohija.
La decisione di affidare la loro tutela, a partire dal monastero di Gracanica, che dal 13 luglio 2006 è inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO, alla polizia kosovara attuale, formata da reduci del disciolto Uck, formazione terrorista che dalla metà degli anni ’90 ha imperversato nel Kosovo organizzando la malavita oggi al potere e ammazzando o facendo sparire serbi ma anche albanesi non collusi con l’idea di indipendenza, in genere jugoslavisti, uno per tutti: Ibraj Musa, partigiano jugoslavo (http://www.resistenze.org/sito/as/sosyu/assy9l13-005673.htm) sta divenendo realtà.
C’è da scommettere che arriveranno presto altri monasteri da far “proteggere” agli ex miliziani, magari quello di Decani, Patrimonio dell’UNESCO dal 2004, anno in cui di monasteri questi ex miliziani ne distrussero o ne lasciarono distruggere, con la complciità di una distratta Kfor, circa 150… o magari lo stesso patriarcato di Pec dove in autunno, forse, riuscirà a insediarsi il nuovo patriarca della chiesa ortodossa serba, Irinej. Potrebbe quindi insediarsi, patriarca Irinej, sotto la “protezione” dei terroristi che fermarono e quasi sequestrarono, durante una visita a un monastero, il defunto patriarca Pavle nel 1998!
Se a questo aggiungiamo che i monasteri sono spesso il punto di riferimento unico e vitale, necessario e irrinunciabile per le poche comunità serbe rimaste a resistere nel Kosovo ripulito etnicamente, possiamo capire, anche in questa distratta, sonnecchiosa e ambigua estate, quanto si farà sempre più difficile la situazione nell’area.
Per questo invitiamo a sottoscrivere l’Appello per la protezione delle minoranze serbe e dei monasteri.
Per sottoscrivere l’appello clicca qui.
Non lasciamo sole quelle persone e quelle meraviglie di architettura!
Non lasciamo che vinca la barbarie sulla cultura (anche fuori dal nostro paese…).
di Alessandro Di Meo – Responsabile Gruppo Serbia Un ponte per…
http://www.unponteper.it/informati/article.php?sid=1866
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Il castello di carte dei giganti d’argilla 30.08.2010
di G. Scorza – La mossa di Paul Allen, che fa causa a mezza Silicon Valley, mette in luce la fragilità del mondo ICT. Un castello di carte, a volte bollate, pronto a crollare. Che necessita di un profondo riassetto, anche legislativo
Roma – Paul Allen, il co-fondatore di Microsoft, il 37esimo uomo più ricco del mondo secondo Forbes con i suoi 13,5 miliardi di dollari, uno dei padri della Silicon Valley, ha citato in giudizio il gotha dell’industria High Tech mondiale (Google, Facebook, E-bay, Apple, YouTube, Yahoo, AOL, Netflix, Office Depot, Office Max, Staples) contestando la violazione di alcuni suoi brevetti su software e web technology.
15 pagine, tante ne sono bastate ai legali di Allen per scatenare un terremoto tra i titani dell’industria IT con pochi precedenti nella storia. Certo le battaglie giudiziarie su brevetti e copyright non sono una novità nella Silicon Valley e sono, anzi, ormai, all’ordine del giorno: ma, in questo caso, a rendere speciale la vicenda ed a giustificare qualche riflessione in più è, innanzitutto, la caratura dei protagonisti e, soprattutto, la circostanza che Allen – che certo non né uno sprovveduto, né un avventuriero che abbia bisogno di tentare la fortuna nelle Corti americane per sbarcare il lunario o attirare su di se i riflettori dei media – abbia deciso di dichiarare guerra ad un nugolo di amici, ex-amici e colleghi che, in un modo o nell’altro, costituiscono la micro-comunità dalla quale esso stesso proviene ed alla quale appartiene.
Difficile, muovendo da questi presupposti, pensare che quella di Allen sia una delle tante battaglie legali temerarie lanciate dai più piccoli contro i più grandi per racimolare qualche milione di dollari o, piuttosto, dai più grandi contro i più piccoli per tarpare le ali a possibili concorrenti fastidiosi. Impossibile – almeno allo stato – dire se le pretese di Allen riassunte nelle ermetiche 15 pagine della citazione siano o meno infondate ma, ad un tempo, difficile liquidarle come una boutade di fine estate o come una puntata alla roulette.
Il punto è che, allo stato, probabilmente, nessuna delle parti è in grado di fare previsioni attendibili circa l’esito della battaglia legale e circa – semmai si dovesse arrivare sino in fondo – la decisione dei giudici. Ed è proprio questa diffusa ed ineliminabile incertezza circa l’esito di un giudizio che minaccia – se si prova, solo per un istante, a pensare che le pretese di Allen possano risultare fondate – di far sgretolare un impero e di determinare un autentico terremoto di natura finanziaria e tecnologia a livello globale che impone una riflessione sulla gracilità dei giganti del web e, inesorabilmente, sul web stesso così come su un sistema normativo – quello della proprietà intellettuale applicata alle nuove tecnologie ed al software in particolare – che rappresenta, ad un tempo, la struttura portante di questo impero e la sua ragione di maggior fragilità.
La tesi è questa: l’impero è, oggi, di carta ed i giganti che lo governano hanno, sfortunatamente, le gambe di argilla.
La ragione non sta tanto nella giovane età e, quindi, nell’inesperienza – a dispetto della statura – dei giganti quanto, piuttosto, delle molecole e proteine giuridico-economiche della loro costituzione. Molecole e proteine che li fanno crescere in fretta ma che, altrettanto rapidamente, talvolta, li fanno accartocciare, ripiegarsi su stessi ricurvi come uomini ormai giunti al crepuscolo.
A sfogliare le descrizioni brevettuali in forza delle quali Mr. Allen ha dichiarato guerra all’impero vacilla ogni certezza e vien da chiedersi a chi appartengano, davvero, le mura che recintano i giardini pubblici e privati del web che, ormai quotidianamente, oltre un miliardo di utenti frequenta. La genericità di quelle descrizioni sulle quali, pure, sono stati, negli anni, concessi brevetti che valgono milioni e milioni di dollari è tale da indurre a guardare in ogni riga del software che si è scritto o della tecnologia che si è sviluppata ed ad interrogarsi se, domani, non possa toccare anche a noi di finire nell’elenco dei soggetti ai quali quello che oggi in Silicon Valley chiamano l’Orco cattivo, chiede conto dell’utilizzo.
Brevetti su software e web technology, brevetti su invenzioni derivate da software per non parlare di quelli su metodi di business attuati attraverso web technology e – anche se in misura inferiore – copyright sul software e sulle interfacce, costituiscono un framework giuridico articolato e complesso ma soprattutto nato con riferimento a trovati ed oggetti di tutela ben diversi da quelli con i quali, ormai da lustri, si trova a confrontarsi ed ad offrire ospitalità e tutela.
La disciplina sul diritto d’autore fa fatica – nonostante gli sforzi ormai da anni compiuti in tutti gli Ordinamenti – ad adattarsi ed accogliere le cosiddette opere utili oltre che belle quali ad esempio il software, e mostra evidenti segni di cedimento quando anziché i diritti morali e patrimoniali di un artista è chiamata a proteggere e tutelare il valore delle azioni di borsa di una multinazionale del web o del software.
Già all’indomani della decisione dell’Unione Europea di proteggere il software attraverso il diritto d’autore si parlò – ed a ragione – di trionfo e snaturamento della disciplina autorale: trionfo perché la si riteneva capace di garantire tutela anche ad un trovato tanto nuovo come il software ma, ad un tempo, snaturamento perché risultava a tutti evidente che il software poco o nulla avesse a che vedere con quelle “opere del bello” che, sino a quel momento, avevano rappresentato l’universo di riferimento di norme e principi sul diritto d’autore.
Si scelse – non solo in Europa ed anzi prima negli Stati Uniti – di intraprendere quella strada con valutazioni forse superficiali o, piuttosto, di chi – si era sul finire degli anni ’70 – non poteva immaginare quale sarebbe stato il ruolo del software nella società del futuro. Storia analoga quella dei brevetti sul software, sulle web technology, sui metodi di business implementati attraverso software e su quelle che l’Unione Europea definisce invenzione attuate mediante programmi per elaboratore. In una parola, potrebbe dirsi, su tutti quei trovati brevettuali, in relazione ai quali l’attuazione dell’invenzione non è meno immateriale dell’invenzione medesima.
Anche in questo caso, lo sforzo compiuto – per superficialità o per sottovalutazione del problema – di estendere semplicemente al nuovo regole brevettuali e procedure di esame pensate per il vecchio, si è rivelato un approccio sbagliato (e l’ultima iniziativa di Paul Allen ne costituisce una delle più recenti ed eclatanti conferme ma non la prima né l’ultima), inidoneo perché incapace di garantire adeguata certezza del diritto e, peraltro, di un diritto – come quello sulle privative industriali su software e web technology – che, in molti casi (quasi tutti quelli dei titani dell’industria IT che Allen intende trascinare davanti ai giudici) costituisce lo scheletro stesso del gigante con la conseguenza che il suo sgretolamento rischia, sempre, di produrre l’uscita di scena del gigante stesso.
Un impero di carta comandato da giganti di argilla credo sia un lusso che la società dell’informazione non può permettersi oltre. Troppi gli interessi e le implicazioni – ad ogni livello – connessi alla vita ed all’esistenza di quell’impero e dei suoi – che ci piacciano o no – comandanti. Occorre rifondare – su base naturalmente globale – le regole della proprietà intellettuale applicata alle nuove tecnologie, innalzare la soglia di brevettabilità di un trovato concernente software o web technology, semplificare – ed abbattere i costi delle – le procedure di verifica delle anteriorità, introdurre brevi e rigorosi termini di decadenza tanto per l’uso di un’invenzione che per eventuali contestazioni contro l’altrui uso, ripensare l’applicazione delle regole del copyright al software.
Difficile dire se la soluzione sia rappresentata dall’abolizione dei brevetti sul software come da più parti, spesso, si è chiesto; dall’adozione, in via esclusiva, del modello open source per la circolazione dei diritti d’autore; da un misto di queste due radicali soluzioni o, piuttosto, da una terza via, che passi per un ripensamento serio ed attento – sulla base dell’esperienza di cui oggi disponiamo e che ieri non potevamo neppure ipotizzare – della disciplina della proprietà industriale ed intellettuale applicata al software ed alle web technology.
Quel che è certo è che l’impero di carta dei giganti di argilla ha bisogno di una nuova infrastruttura normativa in grado di sorreggerlo, un’infrastruttura in grado di resistere nel tempo e, soprattutto, di garantire a tutti i cittadini dell’impero – piccoli e grandi – regole certe di serena convivenza.
Si tratta di un problema non procrastinabile perché, ogni giorno, ciascuno di noi, affida a questo impero – quello dei servizi via web, delle web technology e del software – un frammento in più della propria esistenza personale, professionale e/o imprenditoriale.
La gracilità dei giganti diviene, per questo, un problema di tutti.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it
http://punto-informatico.it/2977192/PI/Commenti/castello-carte-dei-giganti-argilla.aspx
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Scompenso cardiaco, da Italia molecola salvavita 30.09.2010
Italia protagonista nella lotta contro lo scompenso cardiaco, patologia invalidante diffusa tra il 2-3% della popolazione mondiale e che incide pesantemente sulla qualita’ della vita.
Un rivoluzionario studio (Shift – Sistolic Heart Failure Treatment with If inhibitor Ivabradine Trial) e’ stato presentato a Stoccolma in sessione plenaria al Congresso Europeo di Cardiologia (Esc), e in contemporanea su ‘Lancet‘. L”arma’ che cambiera’ radicalmente la storia di questa malattia e’ la molecola ivabradina che agisce in maniera specifica per ridurre i battiti del cuore. E le stime sul suo uso sono davvero rivoluzionarie: un quarto dei morti in meno ogni anno tra gli oltre un milione 200mila pazienti italiani e una riduzione del 26% dei ricoveri ospedalieri.
La molecola, gia’ disponibile per altre indicazioni, e’ l’unica con un’azione mirata sulla frequenza cardiaca, importante fattore di rischio.
“I dati sono davvero eccezionali – commenta Roberto Ferrari, presidente dell’Esc, Societa’ europea di cardiologia – soprattutto perche’ chi era incluso nello studio gia’ riceveva cure ottimali, come previsto dalle linee guida. Si tratta inoltre di una molecola antischemica immediatamente disponibile, utilizzata in pazienti con angina e per prevenire eventi coronarici. Agisce riducendo la frequenza cardiaca, un fattore di rischio poco conosciuto ma importante al pari di ipertensione, colesterolo alto, fumo e sovrappeso“.
Inoltre, aggiunge l’esperto, “permette una migliore ossigenazione del cuore quando e’ sottoposto a uno sforzo. A partire da questo Congresso, l’ivabradina diventera’ una risorsa imprescindibile anche per lo scompenso“.
Dopo venti anni dall’avvento degli ACE-inibitori e dieci dai beta-bloccanti, arriva dalla ricerca italiana un nuovo farmaco salvavita. “Lo scompenso cardiaco – sottolinea il professor Michel Komajda, coordinatore dello Shift – e’ una patologia estremamente diffusa. Impedisce al muscolo cardiaco di lavorare correttamente e quindi la circolazione del sangue e’ insufficiente“. Tra le principali cause, l’infarto ma anche un’ipertensione trascurata.
Sempre piu’ frequenti i malati in eta’ lavorativa, la patologia nel 30% dei casi colpisce ultra 65enni.
In Italia il costo totale per lo scompenso assorbe l’1,4% della spesa sanitaria nazionale. Dal 2003 rappresenta la prima causa di ospedalizzazione (dopo il parto naturale) con 200.000 ricoveri all’anno, in costante aumento (per il 2010 ne sono stimati oltre 230.000).
“Ma purtroppo l’8% muore durante la prima degenza, il 15% a un semestre dalla dimissione e il 16% dopo 12 mesi, spiega Ferrari che sottolinea: “Con ivabradina possiamo invece salvare centinaia di migliaia di pazienti, farli vivere meglio e ottenere un significativo risparmio per il Servizio sanitario nazionale. Ecco perche’ questa ricerca ha un’importanza determinante, riconosciuta dall’intera comunita’ scientifica“.
Lo studio Shift, pubblicato oggi sulla rivista Lancet, e’ il piu’ ampio studio al mondo mai condotto sullo scompenso. Ha coinvolto, tra ottobre 2006 e maggio 2010, 6.500 persone di 37 Paesi, Italia compresa. Tutte soffrivano di questa patologia in grado moderato o severo e presentavano una frequenza cardiaca superiore ai 70 battiti al minuto, considerata il valore soglia. Obiettivo dello studio era verificare se l’ivabradina, che agisce sull’attivita’ di pacemaker delle cellule del nodo seno-atriale del cuore, aggiunta alla terapia standard nei pazienti con scompenso cardiaco e disfunzione sistolica, era in grado di migliorare gli esiti cardiovascolari, i sintomi e la qualita’ della vita, rappresentando cosi’ un nuovo approccio terapeutico per il trattamento dello scompenso cardiaco.
L’Esc, per la prima volta presieduta da un italiano e’ la piu’ grande societa’ scientifica al mondo, rappresenta 56 nazioni e collabora direttamente con le istituzioni europee per diminuire l’incidenza e il prezzo delle malattie cardiovascolari nel continente. Le cifre sono impressionanti: nel 2006 circa 192 miliardi di euro, dovuti per il 57% (circa 110) ai costi sanitari, per il 21% alla produttivita’ persa e per il 22% all’assistenza (82 miliardi). Le spese dirette ammontano a circa 223 euro all’anno pro capite: sono le patologie che hanno oneri economici, oltre che umani, piu’ elevati d’Europa.
E l’Italia non fa eccezione: per il solo scompenso il costo di ricovero medio e’ di 3.236 euro, e un paziente puo’ richiedere fino a tre ospedalizzazioni l’anno, per una media di 9 giorni per volta.
Per approfondire:
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Messico, la verità sulla strage di Tamaulipas: ventimila migranti sequestrati ogni anno 31.08.2010
America latina, Disinformazione, Messico, Migranti e integrazione, Neoliberismo, Politica internazionale, Primo piano, Problemi globali, Razzismo, Sottosviluppo
Riguardo il massacro di 72 migranti nel Tamaulipas, per il quale subito dopo sono stati assassinati sia il magistrato incaricato dell’indagine che il sindaco della città di Hidalgo, il complesso disinformativo mondiale ha voluto far credere che le vittime della strage fossero state reclutate dal narco o si volessero meglio vendere ai cartelli o si fossero (nella migliore delle ipotesi) rifiutate di farsi reclutare come sicari.
E’ un’interpretazione infondata, calunniosa e razzista che vuole nascondere la verità dello sfruttamento fino all’ultimo centesimo delle vite dei 600.000 migranti che dal centro e sud del Continente ogni anno affrontano l’attraversamento di tutto il Messico. La verità è che tali migranti sono costantemente vittime di estorsioni, vessazioni, stupri, minacce ancor prima di affrontare la traversata del deserto, il muro voluto da George Bush, le ronde dei Minutemen, le leggi razziali di stati come l’Arizona e quant’altro alla ricerca di un lavoro negli Stati Uniti. Per il sacerdote cattolico Alejandro Solalinde i cachucos (“sporchi centroamericani” in gergo) dal momento nel quale lasciano il loro paese “smettono di essere persone e si trasformano in mercanzie, una miniera d’oro sia per le mafie che per le autorità”.
Per la grande stampa i migranti devono essere presentati come manodopera criminale a basso costo disponibile per il narco, scarti della società, indesiderabili, collusi se non organici alle mafie e pertanto senza diritti né dignità umana. Contro di loro saranno ora diretti i droni, gli aerei senza pilota che non fermeranno neanche un grammo di cocaina ma contribuiranno a mettere nelle mani della criminalità i migranti che invece vivono una vera emergenza umanitaria alla quale i governi Obama e Calderón dovrebbero far fronte.
I migranti sono un affare da tre miliardi di dollari l’anno che si spartiscono i cartelli criminali e le polizie corrotte sia negli Stati Uniti che in Messico. Per passare pagano quote comprese tra i 4.000 e i 15.000 dollari. Spesso è solo l’inizio del martirio che dovrebbe condurre al sogno americano già raggiunto (oltre che da una dozzina di milioni di messicani) da un milione di honduregni, due milioni di salvadoregni e tre milioni di guatemaltechi che rimandano indietro alle famiglie una decina di miliardi di dollari l’anno in rimesse.
Per Monsignor Felipe Arizmendi Esquivel, vescovo di San Cristóbal de las Casas, in Chiapas, almeno i due terzi dei migranti una volta entrati in Messico subiscono rapine o estorsioni e uno su dieci viene stuprato nel corso del viaggio. Circa un quinto viene arrestato e rimandato indietro. E’ un numero in discesa perché a chi intercetta i migranti conviene ben di più spremerli che rimandarli indietro. La situazione è costantemente peggiorata nell’ultimo decennio con la violentissima campagna anti-immigrati che ha portato George Bush alla costruzione del muro alla frontiera tra Stati Uniti e Messico che presto sarà affiancato da un muro gemello alla frontiera tra Messico e Guatemala. Le misure per fermare l’emigrazione, come in altre frontiere tra Sud e Nord del mondo, lungi dal bloccare il traffico di esseri umani, non fanno altro che alzare il prezzo, rendere più lucroso l’affare e ancora più a rischio la vita dei migranti.
Ogni anno, secondo statistiche ufficiali, almeno 20.000 migranti finiscono per essere sequestrati dai cartelli criminali e obbligati, oltre alle normali quote per passare il confine, a pagare riscatti tra i 1.000 e i 5.000 dollari a testa, a ritrovarsi scambiati come pacchi tra i cartelli e all’essere in più casi assassinati come ostaggi per indurre altri a pagare.
Per Jorge Bustamante, relatore speciale della Commissione per i Diritti Umani, il Messico è senza dubbio il paese dove maggiori violazioni dei diritti umani vengono commesse nel Continente nonostante l’infame silenzio dei grandi media sempre pronti a scrivere paginate per processare i governi integrazionisti ma sempre silenti per l’inferno messicano.
Nel 2009 la stessa CNDH ha pubblicato un volume intitolato “Benvenuti nell’inferno dei sequestri” dove si denunciano i maltrattamenti subiti dai migranti centroamericani e si raccolgono innumerevoli testimonianze sul coinvolgimento delle autorità messicane nei sequestri stessi. Vi sono descritte le caratteristiche degli stessi. L’immigrato spesso viene arrestato da poliziotti e venduto ad organizzazioni criminali e tradotto in luoghi isolati proprio come la finca San Fernando dove è avvenuto il massacro di Tamaulipas. Lì iniziano le botte, le vessazioni, gli stupri e le torture vere e proprie. L’obbiettivo è ottenere numeri telefonici di parenti dai quali ottenere riscatti esorbitanti per migranti in genere poverissimi. Chi non può pagare in genere viene assassinato.
E’ nell’atroce contesto dei 20.000 sequestri l’anno che va inserito il massacro di Tamaulipas, 72 migranti, probabilmente impossibilitati a pagare, fucilati come nelle stragi naziste. Ne abbiamo saputo solo perché Freddy Lala, un ragazzo ecuadoriano di 18 anni, è riuscito a sopravvivere camminando per più di 20 km con una pallottola nel collo fino a riuscire a dare l’allarme. O, come al tempo del piano Condor o del genocidio in Guatemala, è stato fatto sopravvivere perché raccontasse e incutesse più terrore. Vittime i migranti, non complici.
Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it
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Le grandi imprese/7 di Pitagora
La Fininvest sta peggio del capo 01.09.2010
Viaggio nei bilanci di Fininvest e delle controllate: Mediaset, Mondadori, Mediolanum e Milan. Dai debiti degli anni ’90 alla ristrutturazione finanziaria, con ricca distribuzione degli utili alla famiglia padrona. Adesso i numeri volgono al peggio: siamo agli anni del declino. In quest’articolo si spiega perché
E’ opinione diffusa che la situazione economica e finanziaria del gruppo Fininvest fosse critica nei primi anni ’90 mentre sia florida quella attuale. L’esame delle informazioni di bilancio, delle operazioni realizzate sui mercati finanziari, dei punti di forza nei confronti dei concorrenti e dei rischi che gravano sulle società del gruppo mostra una realtà differente.
All’inizio degli anni ’90 il gruppo Fininvest era fortemente indebitato: nel bilancio consolidato del 1993, i debiti finanziari assommavano a circa 4.500 miliardi di lire e quelli commerciali superavano i 2.200 miliardi, ma le società operative si trovavano in una situazione favorevole nei mercati di riferimento. I rischi che gravavano sul gruppo riguardavano comportamenti degli amministratori censurabili sul piano penale, ma con improbabili ricadute sulle società operative. L’assetto proprietario, benché opaco e improprio, consentiva un’elevata flessibilità della gestione.
Le tre principali società del gruppo (Mediaset, Mondadori, Mediolanum) esprimevano elevate potenzialità di reddito perché operavano in mercati in espansione in una posizione di vantaggio rispetto ai concorrenti; in particolare:
Mediaset si trovava in una situazione di duopolio con la Rai, ma aveva una struttura organizzativa più agile, una gestione più flessibile ed era sottoposta a minori vincoli amministrativi;
La quota di Mondadori nel mercato dei libri e dei periodici era maggioritaria e la carta stampata non subiva la concorrenza di altri media;
Il modello commerciale di Mediolanum, incentrato sulla rete di promotori finanziari invece che di sportelli fissi rappresentava uno schema più aggressivo e flessibile ma meno costoso rispetto a quello dei concorrenti; inoltre il mercato della previdenza privata e del risparmio gestito si trovava in una fase di espansione.
I punti di forza delle società operative consentirono la ristrutturazione finanziaria del gruppo attraverso l’apertura dell’assetto proprietario al mercato.
La ristrutturazione finanziaria del triennio 1994-1996
Nel triennio 1994-1996 il gruppo realizzò una serie di operazioni straordinarie sui mercati dei capitali per ridurre l’esposizione con il sistema bancario; complessivamente fu raccolta una somma pari all’intero indebitamento finanziario:
Nel giugno del 1994 fu collocato in borsa oltre la metà del capitale della Mondadori con un incasso netto di 800 miliardi (quello lordo fu di 990 miliardi); il prezzo delle azioni collocate in borsa fu di 15.000 lire (circa 7,8 euro).
A luglio del 1995 fu eseguito un aumento di capitale di Mediaset riservato ad alcuni investitori privati (Kirsh, Rupert, Al Waaled): a fronte del conferimento di 1.200 miliardi di lire, i nuovi soci acquisirono il 15% del capitale (6.800 miliardi il valore attribuito alla società, prima della ricapitalizzazione). Nei mesi successivi le principali banche creditrici di Fininvest convertirono parte dell’esposizione creditoria in azioni Mediaset detenute dalla capogruppo (5,2%).
A maggio del 1996 fu collocato in borsa il 23,4% di Mediolanum, società controllata congiuntamente dalla Fininvest e dal gruppo Doris; l’introito complessivo fu di 384 miliardi ripartito tra la società (100 miliardi come aumento di capitale) e i soci (l’incasso di Fininvest fu di circa 100 miliardi perché Doris vendette una quota superiore di azioni). Il prezzo di collocamento fu di 12.000 lire (circa 6,2 euro.)
A giugno del 1996, avvenne il collocamento in borsa di circa 270 milioni di azioni Mediaset al prezzo di 7.000 lire (circa 3,6 euro) con un introito di circa 1.900 miliardi di lire.
Fuori dai mercati regolamentati, la catena “Euromercato” fu ceduta a un gruppo francese della grande distribuzione.
Alla fine del 1996 il gruppo Fininvest aveva azzerato l’indebitamento finanziario, iscritto in bilancio enormi plusvalenze e manteneva il controllo di:
Mediaset, con circa il 50% del capitale.
Mondadori, con quasi il 50% del capitale.
Mediolanum, con un patto di sindacato sottoscritto con Ennio Doris (insieme mantenevano il 76% del capitale).
Milan, con la totalità delle azioni.
La gestione ordinaria del periodo 1997 – 2005
Non più gravate da livelli di debito eccessivi, negli anni seguenti le società operative produssero risultati soddisfacenti che sono stati massicciamente distribuiti agli azionisti. A sua volta la capogruppo Fininvest ha costantemente distribuito alle numerose società azioniste (quelle con lo stesso prefisso Italiana holding e suffisso un numero compreso tra 1 e 24) gran parte degli utili.
Le quotazioni delle azioni crebbero vistosamente, anche in relazione all’andamento generale della borsa: nel 2000 l’azione Mediaset arrivò alla quotazione di 52.000 lire (circa 27 euro).
Anche per effetto delle ingenti distribuzioni di utili, alla fine del 2004, la capogruppo presentava un indebitamento finanziario netto di 864 milioni euro. Nell’aprile del 2005, la Fininvest ha proceduto al collocamento presso investitori privati del 16,68% del capitale Mediaset a un prezzo per azione di 10,55 euro con un introito superiore a 2 miliardi di euro. Alla fine dell’anno la capogruppo aveva disponibilità finanziarie per circa 760 milioni. Una parte delle azioni cedute è stata in seguito riacquistata e in questo periodo la quota di controllo è pari al 39%.
Il declino del quinquennio 2005 -2010
Negli anni più recenti l’andamento di borsa delle società del gruppo Fininvest non è stato favorevole:
Nell’ultimo quadriennio, il valore delle azioni Mediaset si è più che dimezzato; a marzo del 2009, la quotazione ha toccato il minimo di 3,1 euro per azione, un prezzo inferiore del 20% a quello del collocamento del 1996.
Le azioni Mondadori hanno perso oltre il 70% del loro valore nell’ultimo triennio.
Il calo dei titoli Mediolanum è stato superiore al 60% in quattro anni; a marzo del 2009 l’azione ha toccato un prezzo minimo di 2,2 euro.
Agli attuali corsi di borsa, i titoli complessivamente immessi sul mercato dalla Fininvest esprimono un valore ampiamente inferiore a quello di collocamento. Tra il 1994 e il 2010 la capitalizzazione della Mondadori è scesa di oltre il 40%; con riferimento all’ultimo collocamento di titoli Mediaset, la diminuzione di valore è stata di 1,1 mld di euro.
Secondo i dati consolidati pubblicati sul sito della Fininvest, la performance economica finanziaria del gruppo nel biennio 2007-2009 è stata non particolarmente favorevole; in particolare:
Il fatturato è sceso da 6,2 a 5,4 miliardi di euro.
L’utile è calato da 366 a 174 milioni (nel secondo semestre del 2008 il gruppo ha chiuso i conti con una perdita di oltre 30 milioni).
L’indebitamento finanziario netto, escluso quello del Milan i cui conti non sono consolidati con il metodo integrale, è raddoppiato, passando da 597 a 1.175 milioni.
Il patrimonio netto è sceso di 365 milioni.
Gli investimenti sono calati del 28,5% a 1,4 miliardi.
Il downsizing del gruppo ha riguardato anche la compagine del personale ridottasi di 3.300 unità e del 15,5%; una parte considerevole degli oneri di ristrutturazione è gravata sui conti pubblici.
I dati consolidati non danno peraltro conto delle politiche di bilancio, dei rischi e dei punti di debolezza delle società che compongono il gruppo. Nel prossimo articolo approfondiremo le novità che emergono dall’esame dei bilanci di Mediaset, Mondadori, Mediolanun e Milan.
(1- continua)
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-Fininvest-sta-peggio-del-capo-6100
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Wikileaks, un aiuto dagli amici pirati 01.09.2010
Accordo tra il sito delle spifferate e il Partito Pirata svedese. Che punta a un seggio in Parlamento per garantirgli l’immunità. Mentre una Wiki-caverna a prova di bomba ospiterà i server – UPDATE
UPDATE: Stando a quanto riportato da Bloomberg, le autorità svedesi hanno deciso di riconsiderare l’accusa di violenza sessuale a carico del founder di Wikileaks Julian Assange. L’inchiesta, precedentemente caduta per insufficienza di prove, verrà ora riaperta. Ci sarebbero infatti le basi per una nuova analisi del caso. Assange ha espresso tutto il suo disappunto, stupito che tutto ciò possa accadere in uno stato di diritto come la Svezia.
Roma – Una visione comune, un percorso politico segnato dagli stessi valori e obiettivi. Questa, in estrema sintesi, la visione recentemente illustrata dal leader del Partito Pirata svedese Rick Falkvinge, che ha così commentato i termini di un accordo che sembra soprattutto un amichevole sbarco tra gli agitati marosi di Wikileaks.
“Il contributo che Wikileaks fornisce al mondo è di straordinaria importanza – ha spiegato Falkvinge – Noi vogliamo contribuire a qualsiasi sforzo che miri ad aumentare il livello di trasparenza e soprattutto che tenga sotto controllo i potenti”. E il Piratpartiet mirerà innanzitutto ad ottenere un seggio alle prossime elezioni per il Parlamento nazionale.
Una missione difficile – il 7,1 per cento dello scorso anno sembra ormai quasi un ricordo epico – ma non di certo impossibile. E il noto sito delle spifferate si ritroverà a fare il tifo per Falkvinge e soci, dato l’impegno del Partito Pirata di Svezia a garantirgli una sostanziale immunità, una copertura totale da parte delle istituzioni democratiche del paese scandinavo.
Non solo. Secondo i termini dell’accordo, il gruppo di Falkvinge provvederà a rifornire Wikileaks di apparecchiature hardware e banda larga, di fatto funzionando da host per il sito. I server di Wikileaks avranno inoltre a disposizione un un bunker nucleare scavato nella montagna, il Pionen White presso Stoccolma. Un centro a prova di bomba, che pare realizzato direttamente dal designer della celebre Bat-Caverna.
Nel frattempo, il founder Julian Assange è stato sottoposto a circa un’ora di interrogatorio da parte degli agenti della polizia svedese. Ad annunciarlo è stato il suo legale, che ha quindi sottolineato come Assange si sia dichiarato non colpevole, sperando che l’accusa faccia cadere presto il caso. Scagionato dall’accusa di stupro, il founder continuerà ad essere interrogato per quella di molestie contro una ragazza in Svezia.
In terra statunitense invece Wikileaks continua a non godere di grande reputazione, in particolare tra i senatori Charles Schumer e Dianne Feinstein. I due hanno infatti avanzato una particolare proposta: che il sito di Assange non venga considerata come una vera e propria fonte giornalistica, dunque non tutelabile nell’area giuridica di uno scudo garantito dall’annunciato Free Flow of Information Act.
E Wikileaks non potrebbe usufruire di questo scudo nemmeno per proteggere l’anonimato delle sue fonti. Che gli rimanga solo la Wiki-caverna per proteggere l’umanità dall’oscurità dei segreti governativi?
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2978945/PI/News/wikileaks-un-aiuto-dagli-amici-pirati.aspx
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Quando Wittgenstein sfidò Popper a colpi di attizzatoio
Contro la chiusura del dipartimento di filosofia alla Middlesex University sono state organizzate occupazioni e barricate. Intellettuali come Noam Chomsky e Tariq Ali hanno protestato vivacemente. Il Times ha riportato un articolo che ricorda l’inebriante emozione intellettuale dei tempi quando si scontrarono Wittgenstein e Popper.
Se tutto ciò dovesse accadere in Italia assisteremmo alla disgustosa scena di docenti che si sfidano a chi sputa più lontano.
Philosophy hasn’t been this newsworthy since Wittgenstein threatened Popper
http://entertainment.timesonline.co.uk/tol/arts_and_entertainment/article7132170.ece
More information about the Philosophy suspensions
http://savemdxphil.com/2010/05/25/more-information-about-the-philosophy-suspensions/
La lite di Cambridge. Quando (e perché) Ludwig Wittgenstein minacciò Karl Popper con un attizzatoio (mentre Bertrand Russell faceva da arbitro)2005, Garzanti editore
Da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org il 31.08.2010
Quando Wittgenstein sfidò Popper a colpi di attizzatoio
Cronaca di una contesa non solo teorica, nelle aule di Cambridge, tra i due pensatori rivali, entrambi convinti di essere il punto terminale della storia della filosofia
Provate ad immaginarvi questa scena: il 25 ottobre 1946, nell´aula 3 della scala H del King´s College di Cambridge, davanti ad un nutrito uditorio di specialisti e curiosi, su invito del Moral Sciences Club, il filosofo austriaco Karl Raimund Popper tiene una conferenza sulla reale entità dei problemi filosofici; ad un certo punto, il presidente del club che lo ospitava, Ludwig Wittgenstein, convinto che non esistessero effettivi problemi filosofici ma soltanto banali rompicapo linguistici, brandisce l´attizzatoio del camino con fare minaccioso nei confronti di Popper ed esce sbattendo fragorosamente la porta.
Questa scena deve aver dapprima attratto, poi ossessionato, due giornalisti della Bbc, David Edmonds e John Eidinow, che hanno scrupolosamente ricostruita La lite di Cambridge, seguendo differenti piste e testimonianze, conducendo una specie di indagine poliziesca che avrebbe dovuto approdare a qualche risultato certo. La premessa è che i nostri intraprendenti autori diffidano dell´unica versione ufficiale di quell´episodio, quella fornita dallo stesso Popper nell´autobiografia dal titolo La ricerca non ha fine; il filosofo austriaco, docente alla London School of Economics, che aveva da poco pubblicato la celebre opera La società aperta e i suoi nemici, racconta che all´invito per la conferenza era sottesa una provocazione dello stesso Wittgenstein, il quale peraltro, forse mentendo, affermava di non conoscere minimamente il signor Popper. L´ospite decide di accettare la sfida, convinto che l´identità del filosofo è tale soltanto qualora creda davvero all´esistenza di problemi filosofici e che, di conseguenza, chi nega tale presupposto – come faceva Wittgenstein – costituisce una minaccia per la filosofia; così pone le seguenti domande: conosciamo il mondo esterno attraverso i sensi? conseguiamo certezze mediante l´induzione? esistono norme morali universalmente valide?, esempi cioè di questioni ricorrenti nella tradizione filosofica da Aristotele a Kant. A quel punto, Wittgenstein perde le staffe, armeggia con l´attizzatoio rovente, inveisce contro l´ospite, lo sfida ripetutamente e, piuttosto che argomentare razionalmente a favore delle proprie tesi, lascia la stanza sbattendo la porta. Popper trae la conclusione esplicita che Wittgenstein non fosse capace di accettare uno scherzo o una polemica, nonché quella implicita che, sottraendosi ad un civile confronto, venisse meno ai più elementari principi di deontologia professionale; poi, colto da un attacco di narcisismo sfrenato (la patologia più diffusa tra i filosofi), ribadisce la convinzione che esistano davvero problemi filosofici e “perfino che alcuni io li abbia risolti”, alludendo con ogni probabilità al problema dell´induzione risolto mediante il criterio di falsificazione (quello che mise in crisi il verificazionismo del Circolo di Vienna, che allora parteggiava per il Wittgenstein del Tractatus); inoltre sostiene che lo spirito della filosofia del linguaggio ordinario (quella propiziata dal secondo Wittgenstein) è inevitabilmente conservatore, perché fa perno su quel senso comune rivalutato qualche decennio prima da G. E. Moore (il quale oggi, tra l´altro, appare il filosofo più influente), il cui uso quotidiano non ne decreta la validità, anzi limita lo sviluppo del senso critico.
Infine, il fautore del razionalismo critico sale sul treno che lo riporterà a Londra e scopre, nello stesso scompartimento, che due ragazzi stanno parlando proprio di lui, del suo ultimo libro che condannava ogni totalitarismo; bottino pieno dunque: la fama era arrivata, dopo aver nel 1934 demolito il primo Wittgenstein (quello dell´atomismo logico) e nel 1946 il secondo Wittgenstein (quello dei giochi linguistici). Ciò che Popper combatteva – sostengono i giornalisti inglesi – era l´enfasi sul linguaggio posta da Wittgenstein e dai suoi zelanti seguaci; nel 1970 confessava di aver trovato le Ricerche filosofiche “mortalmente noiose” perché precludono la possibilità di dissentire, mentre dal canto suo Bertrand Russell – forse il regista occulto e malizioso di quella serata – considerava le dottrine wittgensteiniane, alcune banali, altre infondate. L´indagine svolta in questo libro non contiene ipotesi interpretative degne di nota, si limita a riportare idee filosofiche di seconda mano e si dilunga inutilmente in una serie di aneddoti e ricostruzioni del background storico-culturale che difficilmente si traducono in congetture sulla portata teorica del rovente episodio cantabrigiano. Più godibili risultano le pagine da cui emerge il profilo psicologico-caratteriale dei due eminenti filosofi: Wittgenstein tormentato e ansioso, irascibile e arrogante, egoista e insensibile, dogmatico e intollerante; Popper aggressivo e veemente, rude e prepotente, sprezzante e vendicativo. Entrambi, come Hegel, pensavano di costituire il punto terminale della storia della filosofia, l´un credendo di aver risolto i problemi cruciali posti dai predecessori, l´altro forte della convinzione di aver dissolto la ragion d´essere di quegli stessi problemi. Il lettore che riuscirà ad appassionarsi a questa storia dell´attizzatoio potrà legittimamente persuadersi dell´opportunità di occuparsi delle teorie filosofiche ma si guarderà bene dal frequentare i loro ideatori. http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/021130a.htm
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Il bombardamento poetico di Berlino 03.09.2010
Lo scorso sabato 28 agosto, durante la Lange Nacht der Museen (Long Night of the Museums), Berlino è stata bombardata pacificamente con 100.000 poesie. L’azione, rivendicata dal collettivo cileno Los Casagrande, ha ricoperto dal cielo la Lustgarten con un mare di versi, per celebrare la poesia e condannare ogni atto di guerra.
I Casagrande portano avanti il progetto ‘Rain Poetry’ dal 2001, con l’obiettivo di rendere la poesia più accessibile al grande pubblico. Il gruppo ha già colpito Santiago del Cile (2001), Dubrovnik (2002), Guernica (2004) e Varsavia (2009) – tutte città che hanno subito attacchi aerei in passato.
L’idea alla base dell’operazione mi sembra molto bella: “dal momento che i bombardamenti durante la guerra erano destinati a rompere l’equilibrio psichico degli abitanti di una città, il bombardamento poetico costruisce una città nuova, dando nuovo significato agli eventi di un passato tragico con altre energie”. Ottanta poeti tedeschi e cileni hanno contribuito alla manifestazione di Berlino.
Dopo il salto su continua, il video ufficiale dell’operazione di bombardamento poetico, che ha raccolto l’entusiasmo dei berlinesi.
Al link, appunto, anche il video
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Stanislav Petrov, l’uomo che ci salvo’ dalla terza guerra nucleare 04.09.2010
Favola breve per bambini cresciuti
Il 26 settembre 1983, in piena guerra fredda, il colonnello dell’Armata rossa Stanislav Yevgrafovich Petrov era ufficiale di servizio al bunker Serpukhov 15, poco lontano da Mosca.
Aveva la responsabilita’ di controllare il satellite che monitorava lo spazio aereo a caccia di eventuali missili nucleari diretti verso l’Unione Sovietica.
Gli ordini, in caso di attacco, erano di rispondere con un massiccio lancio di missili verso gli Stati Uniti.
Alle 00.14 si accese una spia nel suo pannello di controllo: il computer segnalava un missile partito dal Montana e diretto verso Mosca.
A voler fare un po’ di retorica esclameremmo che il destino dell’intera umanita’ era in mano a Petrov … Ci limitiamo a dire che da quel momento le successive decisioni di Petrov ci salvarono dalla terza guerra mondiale.
Il suo primo pensiero fu quello di non rispondere all’attacco poiche’ era certo che gli Stati Uniti non avrebbero mai scatenato una guerra nucleare lanciando un solo missile.
Passo’ qualche secondo e gli allarmi, che indicavano il lancio di relativi missili dai territori statunitensi, passarono a 2, divennero 3, poi 4, infine 5.
Era sufficiente premere un bottone. Avrebbe dovuto farlo e non lo fece.
Per la seconda volta si fido’ del proprio istinto: “Non scatenerebbero la Terza guerra mondiale attaccandoci con soli cinque missili”
Ebbe ragione.
I segnali si rivelarono tutti falsi allarmi.
E tuttavia aveva disatteso gli ordini: l’Esercito russo dapprima lo redargui’ e poi lo congedo’ perche’ troppo emotivamente provato dalla vicenda.
Oggi l’ex colonnello Stanislav Petrov e’ un eroe dimenticato, anzi la sua storia e’ stata tenuta nascosta fino agli anni ’90. Vive a Fryazino, un villaggio russo non lontano da Mosca e la sua ultima apparizione in pubblico risale al 2004, quando l’Associazione Cittadini del Mondo gli ha conferito una medaglia e mille dollari americani.
E a proposito di americani: si narra comunque di casi molto simili accaduti anche da parte statunitense, tant’e’ che uno di questi, risalente al 1979, ispiro’ addirittura il film Wargames del 1983.
(La foto, scattata dal Washington Post, e’ del 2002)
http://www.jacopofo.com/stanislav-petrov-russo-uomo-che-ci-salvo-terza-guerra-nucleare
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In Gran Bretagna i diplomatici hanno i loro schiavi 05.09.2010
Un’inchiesta giornalistica di Channel 4 ha rivelato che in Gran Bretagna agenti diplomatici stranieri sfruttano la loro immunità per ridurre in schiavitù i loro domestici. I domestici, africani e asiatici, vengono segregati all’interno delle proprie abitazioni. Ci sono delle testimonianze che questi “schiavi del 2000” sono stati anche incatenati e sono state vittime di aggressioni, violenze sessuali e digiuni forzati, pagati 61 euro alla settimana per venti ore di lavoro al giorno.
Ne riferisce Antonio Marafioti, in un articolo pubblicato da “Peacereporter”:
“Il sistema. Non è nuovo alle cronache. Gli immigrati vengono fatti arrivare dall’Africa e dall’Asia in Gran Bretagna dove vengono sfruttati per venti ore al giorno per una paga equivalente a 61 euro a settimana.
La ribellione non è contemplata. Fin da subito i datori di lavoro, i carcerieri, annichiliscono ogni possibile conato di orgoglio a suon di calci, violenze sessuali, digiuni forzati e catene con le quali, secondo quanto rivelato dal network britannico, questi ‘schiavi del 2000’ vengono bloccati all’interno delle quattro mura domestiche. Per fugare ogni dubbio sul fatto che la sorte scelta per loro è un obbligo da espiare a vita, i padroni di casa requisiscono i passaporti e, con essi, ogni possibilità di fuga dei loro dipendenti.
Ma il filone investigativo sui diplomatici è solo parte di un cerchio più ampio che coinvolge ricche famiglie inglesi e perfino alcuni rami della nobiltà legati alla Corona.
Le stime delle organizzazioni umanitarie operanti nel settore rivelano che ogni anno circa 15.000 lavoratori vengono fatti entrare nel Paese dalle famiglie straniere e centinaia di essi scappano dopo aver subito abusi.
Le autorità di Polizia affermano di conoscere il fenomeno ma di non poter avviare regolari indagini a causa della legge che vieta di investigare su agenti diplomatici stranieri.
Richard Martin, inquirente capo, ha riposto alle domande del cronista sostenendo: ‘Alcune esperienze vissute dalle vittime raccontano che esse sono state letteralmente incatenate in cucina per lavorare 20 ore al giorno, sette giorni alla settimana, per retribuzioni basse o direttamente senza stipendio. Abbiamo appreso – continua il Martin – di persone alle quali è stato permesso di mangiare solo i resti che rimanevano a tavola dopo che i bambini avevano finito, quindi non si alimentavano sufficientemente. Oltre ciò abbiamo saputo di donne che sono state violentate’.
Tra i soggetti a cui nobili e diplomatici riservano quotidianamente questo brutale trattamento ci sarebbero anche donne e bambini. Uno di loro, Josh giunto dall’Africa all’età di 11 anni, ha raccontato: ‘Quando sono arrivato in questo paese ho realizzato cosa sia la definizione di dolore. Per anni mi sono alzato al mattino presto, ho fatto lavori duri pur essendo bloccato. Per loro (i padroni ndr) è una forma di liberazione dallo stress scaricare tutta la loro rabbia su di te’.
Dalla parte degli ‘schiavi’ c’è Kalayann, una organizzazione umanitaria di Londra, che ha aiutato 350 lavoratori emigrati che sono stati ridotti in schiavitù nella terra di Sua Maestà britannica. Uno dei portavoce del gruppo ha sostenuto: ‘Abbiamo avuto casi di persone che venivano bruciate con un ferro rovente dai datori di lavoro, che erano trattenuti con catene e a cui veniva gettata addosso acqua bollente. Tutto ciò mentre venivano additati con appellativi come cane, scimmia e idiota’.
Un’ex ‘schiava’ dell’Africa occidentale, Patience, ha sostenuto di essere stata prigioniera per tre anni, 120 ore a settimana, di un avvocato inglese, membro della Law Society (antica associazione legale britannica ndr) e consulente di organizzazioni di beneficenza a Londra.
‘Non mi era permesso di uscire. – ha raccontato Patience – Non mi era permesso di fare amicizia. Non mi era permesso di fare le cose senza permesso. Non avevo nessuno con cui parlare’. ‘Lei mi molestava, mi schiaffeggiava e mi buttava dalle scale da un piano all’altro. Era troppo per me da sopportare’. Dopo tre anni di prigionia la donna è riuscita a scappare dalle grinfie della sua carceriera grazie all’aiuto di un vicino di casa, a denunciare la ‘padrona’ al tribunale del lavoro e ad ottenerne anche una condanna per aggressione.”
Certo stupisce molto che nella civilissima Gran Bretagna, nel 2000, non nel Medioevo, ci sono ancora degli schiavi (non riesco ad utilizzare altri termini per definirli…). Desta ancora maggiore stupore il fatto che tale situazione sia nota, almeno in Gran Bretagna – i nostri mass media non ne sono a conoscenza ma sono troppo occupati in faccende molto ma molto più importanti e sono pertanto giustificati… -, ma che non venga drasticamente affrontata. Nessun privilegio dei diplomatici può venire prima del rispetto della dignità umana.
http://paoloborrello.ilcannocchiale.it/2010/09/05/in_gran_bretagna_i_diplomatici.html
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Da gmagius@gmail.com per neurogreen@liste.comodino.org il 05.09.2010
L’Iran introduce il reddito di cittadinanza
L’Iran è sul punto di diventare il primo Paese al mondo ad introdurreun reddito di base da versare a tutti i cittadini. Tagliando sussidistatali inefficienti, come per esempio quello sui carburanti,ridistribuirà tale ricchezza direttamente ai cittadini versandogliquasi un quinto dell’attuale reddito pro capite.
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An Iranian Basic Income?
This article by Karl Widerquist, editor of the US Basic IncomeGuarantee (USBIG) e-newsletter – http://www.usbig.net/.
Iran: On the verge of introducing the world’s first national basic income
Iran is on the verge of becoming the first country to introduce a basic income. This dramatic development is happening with little international attention and for reasons that have little to do with the international discussion of basic income.
Iran is trying to get rid of a horribly inefficient system of implicit fuel subsidies. As one of the world’s largest oil producers, the Iranian government makes about $70 billion per year from the oil exports, but it loses an estimated $100 billion dollars per year (30%of its GDP) by directing its state-owned enterprises to sell various products, mostly gasoline, far below their international price. Thus, Iran’s system of subsidizing the consumption of fuel at home actually costs more than Iran makes exporting fuel abroad.
This system of subsidies is one of the main benefits Iranians receive from their government, and many Iranians have grown dependent on cheap fuel and other commodities. The government cannot get rid of the
subsidies without providing something else for the people to cushion the blow. After several years of debate, basic income has emerged as the only realistic form of compensation for the withdrawal of
subsidies.
Thus, basic income has arrived in Iran through the backdoor, sidestepping most of the issues usually discussed in the international debate. The money will come from eliminating obviously inefficient
subsidies. The money should go to everyone, because everyone will suffer from the loss of the subsidies, and everyone has equal claim to own the state enterprises. The money can’t be targeted because the
government doesn’t have the ability to collect the necessary information to ensure that targeting is accurate.
According to the new law, the government will use half of the increased revenue for other government services, and it will distribute the other half of the money directly to the people as a grant to all who apply. When fully phased in, that amount has the potential to provide a basic income of $60 per person per month ($720 per year) or more. This figure is still well below the poverty line,
but it is a very significant amount. Iran has a per capita income of only $3,500 per year, less than one-tenth of Alaska’s per capita GDP of $42,000. Nearly 70 million people will be eligible for the Iranian
basic Income, more than 100 times the number who receive the Alaska dividend. Considering also the enormous difference in the cost of living in the two places, it is clear than a $720 basic income in Iran
will be more significant than the existing $1000 to $2000 dividend in Alaska.
There are drawbacks to the current plan. Although every citizen of Iran is entitled to the grant, the money will be paid to “heads of households,” who are overwhelmingly male. Thus, some men may have the power to keep their wives, children, and other dependents from benefiting from the grant. Also, foreigners living in Iran (mostly Iraqi and Afghan refugees) will not receive the grant even though they will suffer as much as other residents from the loss of the subsidy.
The phase-in is scheduled to begin sometime between September 2010 and March 2011. There is no clear word on how long the phase-in will take. The law has been passed; more than 90% of Iranians have already applied for their grants, but the Iranian political system is chaotic, and there could yet be substantial changes. We can’t be sure exactly what will happen until it happens. We can only wait and see.
The source for this article is “The ‘Basic Income’ Road to Reforming Iran’s Subsidy System,” by Hamid Tabatabai, paper presented at the 13th International Congress of the Basic Income Earth Network (BIEN),
June 30 – July 2, 2010. There is much more to this issue than I have had room to discuss here. For more information, or for a copy of that paper, please contact Hamid Tabatabai at hamtab@gmail.com.
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Una magnifica opportunità… 04.09.2010
Alcune riflessioni su migrazione, capitalismo e rivolte sociali
(traduzione dalla versione inglese a cura della redazione di Infoaut Bologna)
I. INTRODUZIONE
Questo testo nasce da alcune domande pratiche collegate al ruolo di un incontro ECOFIN (Consiglio di Economia e Finanza, che si riunirà dal 30 settembre al 1 ottobre) e di una manifestazione convocata da un sindacato europeo che avrà luogo il 29 settembre, durante il No Border Camp di Bruxelles (dal 25 settembre al 3 ottobre). Nel corso di vari dibattiti abbiamo discusso la nostra posizione rispetto a questo vertice. Le nostre riflessioni si sono rapidamente mosse verso “LA” crisi attuale e i suoi effetti sociali e politici, allo stesso tempo verso l’aumento delle politiche e dei comportamenti razzisti, verso le rivolte sociali e i movimenti di massa. Le riflessioni su questi effetti costituiscono la ragione principale di questo testo, sullo sfondo della settimana a Bruxelles a fine settembre. Da un punto di vista radicale contro le frontiere e per la libertà di movimento proponiamo qui alcune idee sul “movimento No Border”, sulle relazioni tra le politiche economiche e anti-immigrazione europee e sull’attuale propagarsi delle rivolte sociali. Spunti che sperano di portare a riflessioni, discussioni… e azioni.
II. A PROPOSITO DEI NOSTRI LIMITI
Per cominciare abbiamo riflettuto su come gli “attivisti No Border”, nel senso più vasto, mettono solitamente in relazione le politiche migratorie con quelle economiche. In questi discorsi possiamo distinguere due poli principali, tra i quali si stanno facendo spazio una varietà di posizioni e dibattiti contro le frontiere.
Due correnti
Da un lato si trova la corrente radicale, che si definisce sulla base di un discorso per la totale libertà di movimento e per la presa di posizione contro le frontiere, contro lo stato e il capitalismo. Questo discorso, spesso collegato ad azioni dirette, vuole contestualizzare la lotta contro le politiche anti-immigrazione in una critica al sistema capitalistico. Ciononostante la forma in cui questo discorso viene espresso è ridotta a un totale rifiuto di tutte le strutture capitalistiche, il che raggiunge solamente le persone già schierate. Dall’altro lato si trova la corrente moderata, che pone l’enfasi sul processo di regolarizzazione dei migranti e sull’opposizione ai centri di detenzione. Questo discorso solitamente arriva a un binario morto di fronte alla questione di tracciare un collegamento fra le strutture economiche e politiche in cui le politiche anti-immigrazione sono inserite.
Paradosso
Sappiamo che questi discorsi differenti condividono il concentrarsi principalmente sulla repressione contro i migranti. L’insistenza su questo tema è comprensibile – si tratta dell’aspetto più vergognoso della situazione dei migranti, ciò che loro stessi considerano come prioritario: uscire dal circolo della repressione e vivere una vita “normale”. Nonostante questo pensiamo che esista una debolezza in qualche modo “scelta”, un aspetto unidimensionale dei discorsi no border. La gestione capitalista del lavoro dei migranti e i suoi effetti sulle questioni economiche e sui diritti sociali non è quasi mai stata utilizzata come argomento centrale nella lotta alle frontiere e per la libertà di movimento. Inoltre possiamo affermare che, se si esclude la Frontex, gli organismi del cosiddetto “potere europeo” sono stati complessivamente risparmiati dalle critiche e dalle azioni del movimento No Border, nonostante la determinante importanza organizzativa degli stessi rispetto alla gestione dei movimenti migratori.
Sottovalutare questi aspetti costituisce dal nostro punto di vista un paradosso: siamo in molti a pensare che la gestione delle migrazioni rivela la vera faccia del capitalismo, e ci permette di guardare attraverso le future tendenze nell’evoluzione delle nostre società (militarizzazione delle frontiere e della società in generale, sviluppo delle tecnologie di controllo, precarizzazione del lavoro, diritti sociali e distruzione della libertà d’espressione…). Nonostante questo accade di rado che, partendo dalla questione della migrazione, siamo in grado di sviluppare discorsi o azioni che riguardino altri aspetti della società.
III. MIGRAZIONI NELLO SVILUPPO DELL’EUROPA ECONOMICA E SECURITARIA
La migrazione esiste ovunque, a livello internazionale o locale; collegata a guerre, lavoro o studi; come risultato dei cambiamenti climatici o di incontri. Molti di noi non parlano la lingua dei propri nonni, non vivono dove vivevano i nostri genitori, e i nostri movimenti non si arresteranno. “Migranti” o “nativi”, le uniche identità impresse su di noi, sono stampate dallo stato sulla carta o dalla pubblicità e dalla tv nelle nostre menti; si tratta di identità che ci sono estranee. La classificazione tra “migranti” e “nativi” non ha più senso. Comunque, coloro che vengono comunemente chiamati “sans papiers” sono migranti particolari – i loro diritti non esistono, sono costretti alla clandestinità e rappresentano la figura dello “straniero” definitivo. Il sistema capitalista li rende marginali e applica su di loro politiche specifiche. Queste politiche e il loro collegamento con “il resto della società” è ciò che ci interessa analizzare.
Lo sviluppo delle politiche migratorie europee dovrebbe essere analizzato nel contesto dello sviluppo dell’Unione Europea, nella misura in cui si tratta del processo di un sistema economico che sta aprendo il proprio mercato del lavoro. Osservando la storia dell’UE e il processo di ingrandimento che ha avuto luogo nel corso dei suoi 60 anni di vita possiamo notare che la gestione capitalista dei movimenti migratori è direttamente collegata alla situazione economica. Periodi di crisi o di crescita economica possono trasformare radicalmente le politiche migratorie, cosa che a sua volta può avere effetti enormi sulle politiche economiche e securitarie.
Le onde della migrazione
Nel secolo scorso, dopo la seconda guerra mondiale, la migrazione legata al lavoro ha cominciato ad intensificarsi. La prima ondata migratoria importante, negli anni ‘50 e ’60, era costituita da migrazione “industriale”, in particolare dall’Europa meridionale e da altri paesi mediterranei verso i paesi del nord. Trenta anni più tardi la caduta della “cortina di ferro” provocò una nuova ondata migratoria proveniente dall’Est, attirata dall’immagine della “vecchia Europa sicura”. Contemporaneamente a questo processo il numero dei non-europei che tentavano di raggiungere l’Europa aumentava di anno in anno.
Possiamo evidenziare una differenza fondamentale fra le politiche migratorie degli anni ’50 e quelle dagli anni ’80 in poi. In principio le industrie e le miniere richiedevano manodopera consistente e a basso costo, il che implicava una migrazione relativamente “aperta”. Successivamente la de-industrializzazione, la fine della piena occupazione e l’aumento della disoccupazione di massa ha determinato una drastica restrizione delle condizioni migratorie. Questa differenza nella gestione dei movimenti migratori mostra gli interessi economici come il criterio principale utilizzato dal sistema capitalista per determinare le proprie politiche migratorie.
Dall’architettura securitaria…
Oggi, nel contesto dell’Europa allargata, l’architettura del sistema istituzionale europeo ha raggiunto una nuova dimensione ed un livello più elevato in termini di cooperazione tra stati (Dublino II) e procedure di sicurezza. Dal collasso dell’Unione Sovietica le frontiere del “progetto Europa” si sono espanse, e l’Unione (Europea, ndt) si è messa all’opera per realizzare un’imponente architettura securitaria, basata sullo sviluppo di nuove tecnologie e su enormi possibilità finanziarie. Durante il primo passaggio questo ha significato la costruzione di centri di detenzione e l’aumento di controllo sociale a livello nazionale. In secondo luogo paesi come Italia, Spagna e Grecia hanno cominciato a costruire sempre più meccanismi di difesa contro l’immigrazione, con l’aiuto dell’agenzia europea di migrazione Frontex. Questi paesi costituiscono la barriera interna fondamentale contro la famigerata “invasione dell’Europa”. Infine si assiste ad una esternalizzazione dei confini ai paesi mediterranei come Libia, Tunisia e Marocco in cui fondi europei vengono utilizzati per costruire centri di detenzione e per incrementare il controllo delle frontiere. Le morti ai confini nel Mar Mediterraneo e le condizioni dei centri di detenzione come quello di Pagani a Lesbo non sono prodotte dagli interessi di una singola nazione, ma sono parte delle strategie economiche e migratorie europee.
…all’architettura del mercato del lavoro
Parallelamente all’aumento di repressione e militarizzazione dei confini assistiamo alla ricostruzione del mercato del lavoro. La parte difficile per i governi è mantenere l’equilibrio che permetta un controllo effettivo di questo mercato. Dal punto di vista economico i governi utilizzano l’immigrazione in due modi differenti: da un lato tentano di controllare l’immigrazione per rispondere a bisogni economici; si tratta di un’immigrazione limitata e specializzata. Dall’altro lato usano l’immigrazione per fomentare la competizione fra i lavoratori, e di conseguenza limitare le istanze sociali e precarizzare il mercato del lavoro.
Selezione di permessi per il lavoro (in funzione ai bisogni di mercato), flessibilità (lavoro nero, lavoro part-time), riduzioni agli stipendi, attacchi ai diritti sociali, disintegrazione delle pensioni, costante aumento degli affitti. Tutte queste dinamiche possono solo essere osservate come la parificazione delle condizioni di lavoro dei lavoratori locali alla situazione che i migranti conoscono già da molto tempo, con la clandestinità come bonus speciale. E’ questo l’obiettivo dei governi e delle istituzioni europee. In principio le condizioni lavorative e le pratiche sociali vengono applicate ai migranti, legittimando questo particolare status con il fatto che si tratta di stranieri privi di diritti. In un secondo momento le tecniche di gestione dell’immigrazione verranno applicate a tutta la popolazione. Naturalmente alla base di queste dinamiche sta l’argomento diffuso che vuole gli stranieri “improduttivi e approfittatori di benefici”, tacciati come responsabili di tutti i disastri economici e sociali delle nostre società.
UE: la scalata
Queste strategie di controllo della migrazione e della popolazione mostrano dove sta andando l’Europa: verso una politica migratoria stabile, misure sociali rigide (o meno, a seconda della situazione dell’economia interna) ed un nuovo euronazionalismo promosso per conquistare la propria posizione di attore globale nel mercato globale, con Germania e Francia in testa. L’obiettivo a lungo termine è liberalizzare il mercato e smantellare lo “stato sociale”, e sopravvivere alla competizione con i “signori dello sfruttamento” USA e Cina. Questa nuova ideologia di euronazionalismo si basa sullo sviluppo di una coscienza storica europea successiva alla seconda guerra mondiale. La storia è stata riletta per ridefinire una nuova Europa, che ha imparato dalle due guerre mondiali e che si muove verso la cooperazione “pacifica” tra stati sul piano economico e politico. Questa teoria si dimentica della guerra sociale in atto, dello sfruttamento di lavoratori e migranti, e delle guerre “umanitarie” in atto così come di altre operazioni di “peacekeeping”, perpetrate tramite la NATO o meno, da parte di vari paesi europei in Serbia, Afghanistan, Iraq o Somalia.
Gli anni passati hanno mostrato come questo ambizioso progetto sia assai difficile da realizzare. A livello politico il rifiuto della Costituzione Europea da parte di alcuni stati membri ha danneggiato il “sogno europeo”. A livello economico la crisi finanziaria, cominciata al principio del nuovo secolo, ha arrestato la crescita economica mostrando ancora una volta gli effetti della competizione mondiale, della sovrapproduzione e della speculazione. In questo periodo di crisi e (per il momento) di fallimento nel perseguire tali obiettivi, una delle principali domande è: come proveranno i governi-stato a riparare la gestione della “minaccia finanziaria”?
IV. PAURA E PATRIOTTISMO AI TEMPI DELLA CRISI
Sono passati due anni da quando le banche e i mercati azionari hanno cominciato a collassare. Miliardi di euro sono stati sperperati; le banche prescelte sono state rimesse in piedi con incredibili profitti; altre rimangono instabili; il crollo dei mercati azionari e dell’euro continua. Presto la crisi del sistema finanziario è divenuta crisi degli stati. Dopo aver tentato di tutto per salvare il sistema finanziario i governi cominciano a “far pagare la crisi” alle persone: Grecia, Romania, Spagna, Gran Bretagna… Questa ennesima crisi del capitalismo è, al solito, un’opportunità meravigliosa per i governi e per le istituzioni internazionali: i piani di austerità, per i quali si è votato o si voterà, sono veri e propri piani di distruzione sociale.
Piani di austerità come sviluppo logico
La prima occasione per realizzare un atto reale verso la “gestione della crisi europea”, dopo l’intervento del FMI in Romania, è stata la crisi dovuta al debito di stato in Grecia. Il capitale internazionale, nella forma di UE, FMI e stato greco tenta di trasformare il paese nel campo per un esperimento sociale con cui provare una nuova dottrina-shock. Molti diritti sociali, difesi dai lavoratori da tre decadi a questa parte, vengono aboliti nel giro di due anni. Il primo pacchetto di provvedimenti varati dal Parlamento greco il 6 maggio ci mostrano in che modo: tagli ai salari fino al 30%, congelamento di stipendi e pensioni nel settore pubblico. A tali provvedimenti su stipendi e pensioni seguono un aumento dell’imposta sul valore aggiunto e tasse speciali su tabacco, alcol e scommesse. Alcuni cambiamenti si verificheranno anche nel sistema sociale: tagli alle pensioni e ai sussidi di disoccupazione, smantellamento della sicurezza sociale. La successiva ondata di provvedimenti è stata preparata per l’anno prossimo, sotto stretta sorveglianza della “commissione di controllo”. Gli effetti delle politiche di austerità stanno cominciando a produrre i loro effetti: tagli massivi all’occupazione, sempre più posti di lavoro part-time e creazione di impiego temporaneo di massa.
Infine i piani di austerità imposti nello scenario de “LA” crisi sono sicuramente un nuovo passo nel processo di precarizzazione del lavoro, nell’applicazione delle tecniche di gestione dell’immigrazione come mezzo di gestione della popolazione. Ben lontane dall’essere politiche straordinarie, queste riforme anti-sociali sono la logica continuazione di dinamiche che cominciarono con la creazione e lo sviluppo del “progetto” europeo. La specificità di tali provvedimenti va ricercata nella loro particolare violenza sociale; nella contestualizzazione di questi all’interno di un quadro politico sempre più razzista basato sulla sicurezza; e all’interno di un sistema politico fondato sulla gestione della paura.
Politiche della paura e patriottismo
Se consideriamo i discorsi promossi dai governi possiamo affermare che questi giustificano la gestione della crisi con argomentazioni dettate dalla paura; paura di cui lo straniero è la principale causa. La gestione della paura come meccanismo atto alla trasformazione sociale opera in maniere diverse. Una è la creazione di paura fisica, basata sulla figura di giovani migranti delinquenti, volta a legittimare lo sviluppo delle tecniche di controllo (presenza poliziesca, telecamere, archiviazione di dati…) e delle strutture di repressione (costruzione di carceri e centri di detenzione, leggi sulla “libertà”, giustizia elastica…). Questa paura sussume varie forme simboliche, basate specificamente su “differenze inconciliabili” tra Islam e “stili di vita occidentali”. Ecco dunque che le controversie su presunte abitudini riguardo la maniera di vestire (velo), la sessualità (poligamia), il cibo (carne hallal e agnelli sacrificali), non sono altro che manipolazioni simboliche create per dare l’impressione di una minaccia che incombe sulle tradizioni occidentali, e della superiorità di queste sugli arcaici costumi musulmani. Inoltre è in corso un processo di creazione di paura economica, basata sulla scarsezza di lavoro e sulla figura del migrante lavoratore, volta all’accettazione finale della precarizzazione del lavoro.
Queste politiche della paura si articolano naturalmente attorno al concetto di crisi. Che servano ad investire miliardi nelle banche o per imporre riforme anti-sociali, i discorsi dei governi rimangono gli stessi: “Nel contesto della crisi sono necessari alcuni sacrifici per salvare il nostro sistema”. Questo appello al patriottismo economico è anche appello al patriottismo culturale, in un’ottica basata sull’identità nazionale, per una società minacciata dal pericolo dell’immigrazione. In questo modo i governi si presentano come difensori degli elettori, e capitalizzano la rabbia popolare dovuta alle ingiustizie capitalistiche contro la figura del migrante, nemico definitivo sul piano economico, fisico o culturale, sia dentro che fuori. Questo processo vuole nascondere che le conseguenze della crisi sono le stesse per i “nativi” e per i “migranti”: un peggioramento delle condizioni di vita ed il controllo intensificato su tutti gli individui improduttivi (lavoratori licenziati, disoccupati privati dei sussidi, migranti reclusi ed espulsi).
Dalla xenofobia al cosmopolitismo?
Da un punto di vista sociale possiamo prevedere che le attuali riforme produrranno effetti che vadano verso due principali direzioni: da un lato una messa in discussione delle istituzioni e forse addirittura del sistema capitalistico; dall’altro un crollo identitario ed un’affermazione di sentimenti e discorsi xenofobi. Queste due direzioni potranno sembrare in contraddizione, ma in realtà sono spesso complementari. In forma organizzata sono espresse dall’avanzamento dei partiti di destra e delle questioni razziste in seno al lavoro di alcuni sindacati. In forma individuale la mescolanza di sentimenti anti-istituzionali e anti-immigrazione si sta sviluppando in maniera allarmante. Qui sta la sfida centrale per il movimento No Border, ma anche il principale pericolo: nel rischio del rafforzamento e dell’affermazione di sentimenti xenofobi durevoli, nel rischio del ritorno a un’Europa nazionale e nazionalista, sempre più chiusa e razzista.
Tale mescolanza di sentimenti riflette una realtà che il movimento No Border non può non affrontare: nelle nostre società l’immigrazione e la maniera in cui essa viene gestita rappresenta spesso un punto di rottura, la cristallizzazione del dibattito che vorrebbe finalmente decostruire il rifiuto dell’altro. Questo avviene a livello urbanistico (creazione di banlieues e ghetti), a livello culturale (interdizione del velo), e a livello economico (accettazione della competizione sul lavoro su base nazionale, ma senza i migranti). E’ ancora valido affermare che migrazioni e contaminazioni fra i popoli si sono sempre verificate; oggi questi fenomeni raggiungono un tale livello che non possono essere lasciati da parte in una presa di posizione politica dignitosa.
Il numero di esseri umani sulla terra; le disuguaglianze sociali e internazionali create dal sistema capitalista; la crescita di enormi megalopoli; lo sviluppo dei mezzi di trasporto; il fascino della presunta società dei comfort e le tecnologie di propaganda; tutto questo contribuisce a fomentare le migrazioni e a riaffermare le disuguaglianze, che di ritorno stanno generando tensioni. Partendo da questo contesto, o piuttosto al di fuori di esso, in che modo è possibile sviluppare città cosmopolite e ottenere la coabitazione pacifica e fluida di più culture e stili di vita differenti? La domanda rimane aperta…
V. MOVIMENTI SOCIALI E PROSPETTIVE
Qualcuno possiede risposte a questa domanda. Dove noi promuoviamo il cosmopolitismo, i governi giocano con le tensioni tra le varie comunità e fanno leva sulla paura verso l’altro. Nonostante questo cominciamo ad assistere allo sviluppo di movimenti sociali che si oppongono alle politiche economiche dei governi, ad esempio in Romania e Grecia. In Grecia un movimento eterogeneo con vari obiettivi politici ha protestato contro i piani di austerità di governo, FMI e UE. Il maggiore successo di tale mobilitazione, principalmente controllata dagli organismi socialdemocratici, è avvenuto il 5 maggio quando centinaia di migliaia di persone da tutta la Grecia hanno preso parte alle manifestazioni più partecipate dalla fine della dittatura greca nel 1974. Impiegati pubblici, lavoratori privati, anarchici, studenti e anche migranti hanno partecipato all’assalto del parlamento. Nel corso degli attacchi al parlamento un messaggio scioccante ha fatto il giro dei media generalisti: tre persone hanno perso la vita in un attacco a fuoco alla Marfin Bank. Questo evento ha paralizzato il movimento, e il giorno seguente il parlamento ha potuto votare tranquillamente il primo pacchetto di provvedimenti. In tutta la Grecia hanno avuto luogo discussioni, nei circoli anarchici e fuori di essi, a proposito delle pratiche di militanza e sull’eterogeneità del movimento. La giornata del 5 maggio ha mostrato che cosa è possibile per un movimento sociale, ma anche come un movimento può risultare paralizzato in un periodo in cui realizzare cambiamenti sociali radicali è possibile… Fare predizioni al momento è difficile, ma una cosa è certa: il governo greco continuerà a promuovere le misure di austerità, e probabilmente dovrà affrontare nuove proteste. In una prospettiva globale potremmo affermare che negli ultimi anni i movimenti sociali europei hanno spesso dimostrato la tendenza a rimanere chiusi in una logica nazionale di difesa dei diritti già esistenti, il che rende difficile per questi movimenti espandere la propria critica oltre l’opposizione a una particolare riforma; verso la considerazione più ampia di altre soluzioni, diverse da quelle legate al contesto storico dello stato-nazione. Si tratta realmente di una delle maggiori sfide per il movimento greco: l’abbandono delle prospettive nazionalmente orientate, verso la speranza di una riforma democratica del sistema.
Trovare l’aspetto comune per distruggere le identità nazionali
Per far sì che le lotte sociali abbandonino le proprie identità nazionali è importante abbattere l’isolamento del movimento No Border, per tessere rapporti con i protagonisti delle lotte in corso. Ottenere questo risultato implica evidenziare la gestione delle migrazioni nei luoghi dove gli effetti della crisi vengono percepiti e discussi: negli ambiti di discussione delle lotte (assemblee, pubblicazioni, siti, occupazioni e sindacati) e nei posti di lavoro e spazi abitativi (periferie, scuole, università, aziende). Da questo punto di vista esistono alcune verità che vale sempre la pena ricordare: per prima cosa, che le migrazioni sono sempre esistite e sempre esisteranno. Il progetto che intende fermarle produrrà solo pratiche “barbare e inumane”, incapace di contenere i movimenti migratori. Inoltre è ovvio che neppure deportando tutti i sans-papiers si ricreerà l’occupazione né si alzeranno gli stipendi. La disoccupazione, così come i tagli agli stipendi, non sono mai l’effetto della presenza di migranti; essi sono parte integrante del sistema capitalista. In altre parole i movimenti di opposizione alle riforme anti-sociali europee non guadagneranno nulla dall’opposizione contro i migranti. Al contrario, trovare punti comuni fra “nativi” e “migranti”, riuscire a intessere relazioni fra tutti i lavoratori e i disoccupati, con o senza documenti, nell’ambito dello stesso processo, permetterà la creazione di discorsi ed azioni comuni.
Durante il movimento francese “anti-CPE” (contratto di primo impiego, ndt) che ha lavorato in varie città, sono state create connessioni fra studenti, lavoratori, migranti e abitanti delle banlieues. Queste connessioni sono state abilmente rappresentate nelle posizioni espresse dalle assemblee degli studenti contro la legge CESEDA sull’immigrazione, ma anche nelle strade, con azioni dirette e scontri con la polizia. Naturalmente le direzioni sindacali, i media e i politici si sono concentrati solo sulle critiche al CPE e sui raid dei giovani delle periferie sui manifestanti a Parigi. Costoro sanno che cosa hanno da perdere dalla connessione tra i giovani delle banlieues e i movimenti di resistenza: gli eventi del dicembre 2008 in Grecia e il vertice NATO a Strasburgo lo hanno dimostrato. D’altra parte, noi sappiamo che cosa abbiamo da guadagnare: un ampliamento della critica sociale e teorica, e un incremento di potere. Rispetto a ciò, una delle maggiori sfide è far sì che i movimenti sociali prendano posizione e agiscano rispetto al tema dell’immigrazione.
Far sì che le lotte tengano conto della situazione dei migranti implica che i temi dell’immigrazione e dell’antirazzismo siano parte integrante delle lotte. Da questo punto di vista è necessario che i protagonisti delle battaglie assumano la propria identità mentre si impegnano nei movimenti contro i piani di austerità; è necessario creare reti di solidarietà reale durante la lotta. E’ nel quadro di un’opposizione attiva e radicale al sistema capitalista che possono stringersi legami tra coloro che lottano e che mettono in discussione tale sistema. Se tali legami possono nascere nell’ambito dei movimenti più ampi possono anche svilupparsi in maniera autonoma con azioni che puntano a obiettivi legati al capitalismo e alla crisi, che partano da posizioni antirazziste. Obiettivi come le lobby finanziarie o del lavoro, le istituzioni economiche e governative, le banche o il vertice europeo dei ministri della finanza… Si tratta assolutamente di mettere in pratica l’idea per la quale una profonda trasformazione delle politiche migratorie può avvenire solamente tramite la messa in discussione del sistema capitalista in cui tali politiche vengono applicate.
Nella volontà di ampliare le prospettive del movimento No Border e dei movimenti contro i piani di austerità, nell’ottica di incrementare il nostro potere ci incontreremo a Bruxelles durante il No Border Camp. Bruxelles infatti dà appuntamento allo stesso tempo alle principali istituzioni europee, a centinaia di lobby, gruppi finanziari e consigli direttivi di multinazionali, ai palazzi di governo e a importanti quartieri di migranti, che sono vividi esempi di gentrification e di tanto in tanto di rivolte. Questa concentrazione di istituzioni economiche, finanziarie, politiche ed anti-immigrazione rappresenta per noi una buona opportunità per mostrare la nostra forza e la nostra presenza, per portare i nostri temi sul piano pubblico e per prendere parte alla contestazione del mondo capitalista utilizzando una varietà di forme di azione.
Enjoy Bruxelles!
Collettivo autonomo Terza Sinfonia di Schumann
Visita il sito: enjoybrussels.noblogs.org
http://www.infoaut.org/articolo/una-magnifica-opportunita
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Pollica, ucciso il sindaco ambientalista
Frida Roy, 06.09.2010
E’ stato ucciso in un agguato avvenuto in nottata nella frazione Acciaroli, nel Cilento, il sindaco del Comune di Pollica, Angelo Vassallo. Il corpo, crivellato da numerosi proiettili è stato trovato nella sua auto. Aveva 57 anni. “Era preoccupato” ha affermato il sostituto procuratore di vallo della Lucania che coordina le indagini: “Era un uomo che si batteva contro l’illegalità ed era sempre in prima linea”
Sono stati nove colpi calibro 9×21 ad uccidere Angelo Vassallo, il sindaco 57enne di Pollica, comune del Cilento. Sposato e con due figli, era stato rieletto primo cittadino del comune salernitano diviso in due frazioni nel marzo di questo anno. Candidatosi con una lista civica di orientamento di centro sinistra “Insieme per Pollica”, Vassallo, che già per Dl era stato consigliere nella Provincia di Salerno, governava Pollica-Acciaroli dal 2005. Era detto il “sindaco pescatore”, dato la sua attività imprenditoriale nel settore ittico gestita insieme al fratello, e le sue battaglie per la legalità e il rispetto dell’ambiente, su cui aveva investito come amministratore pubblico, avevano fruttato alla località costiera cilentana riconoscimenti quali le bandiere blu e un rilancio turistico.
Secondo quanto si apprende continuano ad essere tutte le piste battute dagli investigatori per risalire al movente e agli autori del brutale assassinio. Le modalità fanno pensare ad un agguato di stampo camorristico, ma non si esclude alcun movente. Per il momento i carabinieri e i magistrati stanno ascoltando i parenti, i conoscenti e i collaboratori del sindaco che, secondo quanto si è ribadito da più fonti, era una persona benvoluta da tutti.
Intanto il Comune di Pollica ed anche le frazioni di Acciaroli e Pioppi sono sconvolte. In segno di lutto i negozianti hanno abbassato le saracinesche dei propri esercizi commerciali. Chiusi anche bar e ristoranti nonostante la famosa località balneare in provincia di Salerno sia ancora frequentata da turisti e villeggianti.
Il pm Angelo Greco di Vallo della Lucania, che gestisce le indagini sull’omicidio, ai microfoni del Tg1 Ha ricordato come fosse “un simbolo di legalità. Era un uomo che si batteva contro l’illegalità ed era sempre in prima linea”.
Vassallo collaborava da anni con Legambiente ed era impegnato nell’associazione Slow Food e ricopriva la carica di vicepresidente di Cittàslow, la rete dei Comuni che si impegnano nel migliorare la qualità della vita degli abitanti e dei visitatori, una scelta lucida di una via alternativa alla cementificazione e alla speculazione edilizia.
Iscritto al Pd, aveva firmato, nei suoi mandati da sindaco, varie ordinanze singolari, quali quella nel 2009 che istituiva multe da 500 a 1000 euro per chi gettasse in strada mozziconi di sigarette, q quella con cui nello stesso anno aveva stabilito la revoca di eventuali concessioni comunali per chi non fosse in regola con tasse e tributi. Circa due settimane fa, poi, aveva proposto di riservare una spiaggia ai cani, con servizio navetta. Il sindaco non si sottraeva a nessuna battaglia. Nel novembre 2009, infatti, quando la capitaneria di porto di Salerno interdì al traffico marino il porto di Acciaroli dopo una mareggiata, Vassallo scrisse al ministro dei Trasporti. “L’area portuale e’ in perfetta sicurezza – disse alla stampa locale – ci sono solo tre cassette della luce danneggiate che ripristineremo immediatamente. Bastava che la Capitaneria avvisasse il Comune e i tecnici avrebbero provveduto”. Proprio sui lavori nel porto, a suo giudizio “fatti male” da una ditta napoletana, l’amministrazione di Vassallo aveva aperto un contenzioso.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15685
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La strana storia del Sindaco virtuoso di Camigliano rimosso perché abbassa la TARSU 06.09.2010
La storia che vado a raccontarvi ha dell’incredibile. Accade a Camigliano, provincia di Caserta. Protagonista è Vincenzo Cenname, il giovane sindaco, 40 anni, ingegnere. Ebbene, ha intrapreso una politica mirata alla corretta gestione dei rifiuti, arrivando al 65% di raccolta differenziata. Camigliano è uno dei Comuni virtuosi. Ma tanto basta al Ministro Maroni per richiedere con decreto presidenziale la rimozione del Sindaco. L’Atto viene firmato dal presidente Napolitano il 3 agosto scorso (qui la foto del decreto).
La Legge 26/2010 prevede che tutti i comuni devono inviare i ruoli della Tarsu. Il limite era lo scorso marzo. Il Sindaco con un atto di disobbedienza civile si è rifiutato di comunicare i dati alla Provincia, nonostante i solleciti del Prefetto. Il Sindaco Cenname fa presente che la cittadinanza è d’accordo: non ha senso pagare una tassa sui rifiuti, peraltro, elevata, se questa non serve a gestirli ma a finanziare inutili carrozzoni voluti dalla politica. La TARSU è sovradimensionata rispetto all’impegno profuso dai 1800 cittadini di Camigliano che preferiscono usare i loro soldi nel potenziamento della differenziata, ad esempio finanziando l’acquisto dei pannolini lavabili. Cenname ha istituito l’ecoeuro, il sistema scec, dove a fronte di una raccolta e consegna di rifiuti si ricevono in cambio buoni acquisto.
Spiega Cenname:
In Campania c’è un disegno ben preciso per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Non a caso chi raccoglie rifiuti li gestisce anche.
Per il prossimo 22 settembre è prevista una manifestazione davanti la Reggia di Caserta per protestare contro l’ingiustificato aumento della TARSU. Dopo il salto due video con interviste a Cenname.
Al link, naturalmente i video
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Il fotovoltaico che lava via la polvere 07.09.2010
Un nuovo design promette risposte alla più sporca delle domande: come si elimina la polvere sedimentata a strati sugli specchi? Il sistema è pensato per le future missioni spaziali, e non solo
Roma – La polvere, il peggior nemico della salubrità dell’ambiente domestico ma soprattutto dell’efficienza di conversione energetica dei pannelli fotovoltaici. Un problema spinoso e urgente quello dei sedimenti stratificati sui pannelli solari, soprattutto in vista di un’adozione sempre più massiccia e diffusa di questo genere di tecnologie energetiche, sulla Terra come sugli altri pianeti del Sistema Solare nel corso delle prossime missioni di esplorazione spaziale.
“Uno strato di polvere di un 4 grammi per meno di un metro quadrato diminuisce la conversione dell’energia solare del 40 per cento”, dice Malay K Mazumder della Boston University. “In Arizona” continua Mazumder, “ogni mese la polvere che si deposita è quattro volte questa quantità. Il tasso di deposito è persino maggiore in Medio Oriente, in Australia e in India”.
Una riduzione così drastica dell’efficienza nella conversione energetica è una iattura che riduce la funzionalità dei pannelli fotovoltaici in applicazioni “terrestri” ma anche e soprattutto spaziali, e non a caso la soluzione realizzata da Mazumder e il suo team nasce proprio da una partnership con NASA in funzione delle future missioni su Luna e Marte.
Lo studio di Mazumder e colleghi descrive un pannello fotovoltaico “autopulente”, ricoperto di un materiale trasparente elettricamente sensibile integrato nella pellicola di vetro o plastica che ricopre il pannello stesso. Sensori si occupano di monitorare il livello di polvere sedimentato sulla superficie, e quando tale livello viene superato i predetti sensori rilasciano una scarica energetica che funziona da “onda repellente” capace di far scivolare via le particelle di polvere sino a oltre gli orli del pannello.
Il sistema consuma solo una piccola percentuale dell’elettricità generata da un pannello solare, dicono i ricercatori, ma in compenso è in grado di eliminare circa il 90 per cento della polvere stratificata in un processo repellente che dura un paio di minuti. Mazumder sostiene che il suo design di pannello auto-pulente possa essere di grande beneficio nelle zone della Terra particolarmente polverose, e non ci sono limiti di implementazione nei sistemi fotovoltaici “su piccola così come su larga scala”.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2977560/PI/News/fotovoltaico-che-lava-via-polvere.aspx
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Spettri di guerra 07.09.2010
di Antonello Catacchio
Il 26 aprile di quest’anno Army Times, periodico dell’Esercito americano, ha fornito questi dati: tra i soldati in cura nelle strutture del ministero per i veterani ci sono 950 tentativi di suicidio ogni mese e nel 2009 il numero dei militari suicidi ha superato quello dei soldati morti in guerra.
La struttura che dovrebbe farsi carico dei problemi psicologici dei soldati che tornano dalla guerra in Afghanistan o in Iraq è il Ward54, il braccio psichiatrico del Walter Reed, l’ospedale che si fa carico dei veterani a Washington. Negli altri reparti i feriti, i mutilati, qui invece quasi un braccio fantasma, perché lì non si entra. L’esercito non ama far vedere che molti, troppi, non hanno retto psicologicamente. Anche perché dovrebbe risarcirli. Ecco allora che il Ptsd, il termine che definisce un «Disturbo post-traumatico da stress» viene praticamente bandito. Utilizzando cavilli burocratici, anche se hanno terminato la ferma, alcuni vengono rimandati nelle zone operative, chi ha tentato il suicidio viene cacciato dall’esercito con disonore (e senza soldi). E dietro questi suicidi, tentati o riusciti, ci sono storie di persone che Monica Maggioni, giornalista del Tg1, ha voluto raccontare nel documentario Ward54, presentato a Venezia nell’ambito del Controcampo italiano, seppure in modo semiclandestino (una sola proiezione pubblica in una saletta da 150 posti).
La storia segue le vicende di alcuni veterani che hanno tentato il suicidio. In particolare quella di Kristofer Goldsmith. Kris è andato in Iraq, il suo compito era quello di fotografare e classificare i cadaveri iracheni. Un giorno però l’orrore di una fossa comune fa scattare qualcosa da cui non riesce a liberarsi. Ritorna in patria e la prima cosa che fa è entrare in un negozio di liquori e prendersi litri di whisky. Per un paio di mesi beve a dismisura «prima di allora avevo bevuto cinque o sei volte», afferma. È chiaramente malato, ma l’esercito non ci sta, lo vuole rimandare in Iraq. Lui allora il Memorial Day tenta di suicidarsi. E l’esercito lo congeda. Con disonore.
Kris è a Venezia per accompagnare il film, a sua volta accompagnato dalla sua ragazza «non mi sentirei a mio agio senza di lei, questa è la prima volta che vengo in Italia, gli unici miei contatti con l’Europa sinora erano stati un aeroporto in Germania e uno a Dublino». Ma questa è l’unica nota leggera in un contesto durissimo dove appaiono immagini crude. Alcune, quelle delle fosse comuni, sono state riprese proprio da Kris, altre dalla troupe di Monica Maggioni che ha inquadrato prigionieri iracheni devastati dopo tre giorni abbandonati nel deserto, oppure nel Mash, l’ospedale da campo dove si vede un intervento a cuore aperto, o sulla tristissima processione di militari feriti che salgono sul 130 che li riporta in patria. Immagini che Bush non voleva far vedere ai suoi cittadini.
I soldati da inviare nella guerra bugiarda erano pescati tra le fasce più deboli della popolazione. «I giovani erano reclutati tra coloro che non avevano alternative – racconta Maggioni – ragazzini che arruolandosi speravano di raggranellare il denaro necessario per andare all’università, immigrati di seconda generazione che arruolandosi ottenevano la cittadinanza, addirittura persone condannate per reati minori che così avevano qualche sconto di pena». Poi però dovevano confrontarsi con una guerra odiosa. Così viene spontaneo chiedere a Kris perché lui, di Long Island, quindi vicino a New York, si sia arruolato, soprattutto in un periodo di guerra. «Fin da bambino sognavo di entrare nell’esercito. Mi piacevano le mimetiche, collezionavo mostrine militari, ero affascinato dalle divise. Sognavo di fare la carriera militare sino in fondo, diventando alla fine ufficiale. Mentre ero al liceo ci fu l’11 settembre. A quel punto al sogno di una vita si abbinava un nemico concreto. Alla fine del 2003 mi sono arruolato. All’epoca la guerra era quella in Afghanistan. L’Iraq doveva essere una guerra lampo. Poi l’Afghanistan è stato dimenticato e l’Iraq è stato quel che è stato».
E allora viene da chiedergli quale sia oggi la sua percezione del nemico che aveva visto concretamente. «Questo argomento di chi sia il nemico è un pensiero costante per me. Più imparo, conosco, cerco di comprendere e analizzare, più cambia il mio punto di vista. Da ragazzo, il primo anno in cui mi sono arruolato, mi avevano insegnato che iracheni e afghani erano tutti jihadisti, erano nostri nemici perché avevano come unico obiettivo uccidere americani . Avevamo allora un presidente che ci diceva queste cose, affermando che loro odiavano la nostra libertà. Ora mi sembra sciocco. La guerra fu fatta col pretesto di cercare armi di distruzione di massa che avrebbero potuto distruggere le città americane, anche se la scusa era Libertà in Iraq. Poi vidi Bush che scherzava su queste cose, fingendo di cercare le armi di distruzione di massa sotto la sedia, nello studio ovale. Lì ho cominciato a aprire gli occhi. Mentre tanti al fronte soffrivano, cominciavo a trovare spaventoso quel che diceva».
Kris ha dovuto abbandonare il suo sogno infantile di diventare ufficiale, poi anche quello più modesto di andare all’università con i soldi dell’esercito che non gli riconosce alcuna malattia. Lui non rinnega la sua storia militare, anzi vuole che gli venga riconosciuta. «In prima istanza, ho ricevuto un rifiuto alla mia richiesta; voglio riaprire il caso, l’esercito non può ignorare queste cose, alcuni miei amici sono finiti in galera per avere tentato il suicidio».
La Ptsd è una sorta di insormontabile senso di colpa per quel che si è visto e fatto in guerra e uno dei momenti emotivamente più forti del documentario è la visita di Kris ai genitori di Jeffrey Lucey. Giovanissimo, Jeffrey aveva firmato per arruolarsi contro il parere di mamma. Poi era stato addestrato per partire prima ancora dell’invasione. L’impatto con l’Iraq, a Nassiriya è devastante. Quando si trova di fronte due giovani della sua stessa età, disarmati, Jeffrey esita. Qualcuno invece lo spinge a tirare il grilletto. Spara. Davanti a lui due cadaveri. Jeffrey prende le loro piastrine e non le mollerà più. Quando rientra a casa è devastato, la sua idea fissa è il suicidio, addirittura gli capita di chiedere al padre di tenerlo sulle ginocchia. Una sera il babbo vede la luce accesa in veranda, apre la porta, lungo le scale vede delle fotografie, disposte con attenzione, scende gli scalini, cammina ancora, vede suo figlio, sembra in piedi, invece ha qualcosa intorno al collo. Si è impiccato. Il padre lo solleva e lo tiene in braccio. Per l’ultima volta.
Il prezzo pagato dagli iracheni per la guerra criminale voluta da Bush e co. è spaventoso, ma c’è anche un conto da saldare nei confronti di chi, per ingenuità o ignoranza, ha creduto in buona fede di combattere per la libertà e la giustizia e si è ritrovato privato proprio di libertà e giustizia.
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/09/articolo/3346/
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Le grandi imprese/7 di Pitagora
Mediaset & co., conti a pezzi 08.09.2010
Se Fini fa paura, Fininvest fa tremare. Mediaset perde colpi, Mondadori avrebbe bisogno di un robusto aumento di capitale per riportare le voci dell’attivo di bilancio a valori reali, il Milan deve reintegrare le perdite degli ultimi anni. Su tutto pesa il maxi-risarcimento Cir. Ma è sul piano strategico che emergono le maggiori difficoltà
Nel precedente articolo abbiamo analizzato l’andamento del gruppo Fininvest basandoci sui dati consolidati. Qui approfondiamo le novità che emergono dall’esame dei bilanci di Mediaset, Mondadori, Mediolanun e Milan.
La capogruppo
Con sentenza penale passata in giudicato, è stato accertato che nel 1991 il contenzioso con il gruppo De Benedetti per l’acquisizione della Mondadori fu risolto con la corruzione dei giudici chiamati a dirimere la controversia. In sede civile, il giudice di primo grado ha stabilito con sentenza immediatamente esecutiva in 750 milioni di euro l’ammontare da rifondere alla Cir a sollievo del danno subito; un accordo tra le parti omologato dal tribunale ha consentito alla Fininvest di congelare il pagamento fino alla conclusione dell’appello in cambio di una fidejussione bancaria per l’intero importo.
Nel procedimento in corso, il collegio giudicante ha affidato a una terna di professori universitari di economia (Guatri, Martellini e Pellicelli) il compito di redigere una perizia tecnica per stabilire se l’entità del risarcimento sia corretta.
Sebbene sia più che probabile, salvo imprevisti, che la Fininvest debba versare alla Cir una qualche somma a ristoro del danno subito, gli amministratori non hanno scritto in bilancio alcun accantonamento, basandosi unicamente su pareri di parte. Si tratta di una scelta non certo prudente che rende meno trasparente il bilancio consolidato e quello individuale della capogruppo.
Mediaset
Il gruppo Mediaset è la principale fonte di reddito e liquidità della Fininvest: nel periodo 2004-2209 ha versato ai soci circa 2,5 miliardi di dividendi (circa il 90% dell’utile), di cui quasi uno alla controllante. Nello stesso periodo la situazione patrimoniale e finanziaria si sono però deteriorate: l’indebitamento finanziario è salito di oltre 1,6 miliardi e il patrimonio netto di competenza del gruppo è sceso di oltre 530 milioni di euro; a tale calo vi ha contribuito il riacquisto di azioni proprie per 417 milioni di euro a un valore superiore a quello più recente di borsa di circa 200 milioni, senza che la minusvalenza sia transitata da conto economico.
Anche i rapporti di bilancio che misurano l’efficacia della gestione sono peggiorati: nel 2004 il gruppo aveva investito meno di ottantanove centesimi per ogni euro di fatturato, nel 2009 il capitale investito ha superato i ricavi di oltre il 5%. Il bilancio, tradizionalmente criptico nella descrizione del capitale investito, non fornisce elementi utili a spiegare la ragione dell’incremento degli investimenti in rapporto al giro d’affari; in particolare gli investimenti in diritti televisivi e cinematografici hanno raggiunto i 2,6 miliardi, una cifra che richiederebbe un livello di dettaglio superiore. Nella voce avviamento, oltre all’investimento in Telecinco (363 milioni) è compreso quello concernente l’acquisto della società a responsabilità limitata TaoDUE per 116 milioni.
Nel corso del corrente anno la controllata Telecinco ha realizzato un’operazione di rilevanza strategica: la società si è fusa con l’emittente televisiva spagnola Cuatro del gruppo Prisa ed ha acquistato una quota del 22,5% della TV a pagamento iberica per una cifra prossima a 500 milioni di euro. Si tratta di operazione che rafforza la posizione competitiva di Mediaset sul mercato iberico ma indebolisce ulteriormente la struttura finanziaria del gruppo.
Le precedenti operazioni di portata strategica non hanno finora portato risultati al gruppo:
L’acquisto del 33% della casa di produzione di format televisivi Endemol è costato oltre 220 milioni soltanto nell’ultimo biennio; nel 2009 il bilancio di tale società si è chiuso con una perdita di 338 milioni (malgrado utili straordinari per oltre 81 milioni realizzati in occasione della ristrutturazione del debito) e con il fatturato in calo di quasi il 9% rispetto all’anno precedente; secondo il sito Daily Beast la società si troverebbe in una grave crisi di liquidità e gli altri soci starebbero lavorando a una massiccia ristrutturazione finanziaria.
Nonostante i progressi commerciali, l’attività concernente il digitale terrestre rimane in perdita. La Corte di Giustizia europea ha condannato Mediaset a rifondere allo stato italiano circa 220 milioni di aiuti ricevuti impropriamente per favorire la diffusione tra il pubblico dei decoder. Il frequente mancato rimborso delle tessere prepagate scadute costituisce un rischio economico e di reputazione.
La maggiore debolezza del gruppo Mediaset riguarda la posizione competitiva sul mercato per almeno tre fattori:
La crescente concorrenza della TV a pagamento che offre programmi di migliore qualità, anche in campo giornalistico.
La diffusione d’internet come media alternativo anche per il godimento di spettacoli.
L’apertura del mercato ad altre emittenti private consentita dal passaggio alla tecnologia digitale nella trasmissione del segnale televisivo.
Le improprie condotte d’indebolimento del principale concorrente, la Rai, favoriscono il mantenimento di una soddisfacente redditività operativa nel breve periodo ma si tratta di una prospettiva con un potenziale d’azione limitato.
Mondadori
Da alcuni anni il gruppo Mondadori persegue politiche di downsizing dell’attività attingendo massicciamente ai contributi pubblici per ridurre la compagine del personale. Il drastico contenimento dei costi operativi ha consentito di mantenere la redditività aziendale su livelli appena positivi, alla presenza di un trend decrescente dei ricavi.
La situazione appare assai più negativa per quanto riguarda il profilo patrimoniale (cfr per maggiori dettagli l’articolo su questo sito pubblicato a giugno). A fronte di un patrimonio netto consolidato di circa 550 milioni di euro, sono iscritte attività immateriali per quasi un miliardo di euro, relative a poste che hanno progressivamente perso il loro valore. Il patrimonio netto tangibile del gruppo è negativo per oltre 400 milioni di euro. La Consob che dovrebbe vigilare sui bilanci delle società quotate non ha finora comunicato al mercato alcuna informazione.
Un altro punto di attenzione per l’organo di vigilanza riguarda la partecipazione di minoranza (quasi il 40%) detenuta nella società europea di edizioni che pubblica “Il giornale”, il cui socio di maggioranza è Paolo Berlusconi. Da molti anni la società chiude costantemente i bilanci con una perdita d’esercizio considerevole (64 milioni di euro nell’ultimo triennio), costantemente ripianata per la quota di competenza dal socio di minoranza. Il cronico disavanzo costituisce un forte indizio che la pubblicazione della testata non sia un’iniziativa imprenditoriale avente scopo di lucro e costituisca per i soci di minoranza soltanto una voce di costo. Poiché la Consob dovrebbe tutelare gli interessi economici dei soci di minoranza delle società quotate, sarebbe interessante conoscere se è stata informata delle valutazioni date dagli amministratori della Mondadori ai business plan in base ai quali essi hanno ripetutamente deciso di ripianare le perdite di un’iniziativa dimostratasi fallimentare.
Per quanto riguarda i rischi, va poi ricordato che nel primo semestre dell’anno la società ha chiuso un contenzioso con l’amministrazione finanziaria dello Stato che reclamava imposte non versate per 173 milioni di euro oltre sanzioni e interessi versando all’erario soltanto il 5% di tale importo (8,6 mln). Tale operazione si è realizzata a seguito dell’approvazione di una norma ad hoc da parte del parlamento; il pagamento è stato imputato a bilancio come credito per imposte anticipate e non ha impattato sul conto economico. La Corte di Cassazione ha però fatto ricorso alla Corte di Giustizia europea sostenendo che la legge sarebbe contraria ai trattati internazionali; in caso di accoglimento del ricorso, la Mondadori potrà essere chiamata a versare l’intero ammontare dell’imposta (oltre 350 milioni di euro), oltre agli interessi e alle sanzioni. In ogni caso ne ha risentito la reputazione della casa editrice.
Mediolanum
Mediolanum è un “conglomerato finanziario a prevalente settore assicurativo”, le cui attività si estendono dalla previdenza individuale privata, l’assicurazione vita, il risparmio gestito e l’attività bancaria.
I ritmi di crescita sono stati veloci e con essi è salito il leverage: le attività iscritte nel bilancio consolidato del 2009 sono pari a 28,9 miliardi di euro mentre il patrimonio netto si attesta a 990 milioni, il 3,4% degli investimenti.
La qualità del patrimonio risente di oltre 170 miliardi di attività immateriali per lo più riferibili agli avviamenti iscritti in occasione dell’acquisto di alcune piccole società finanziarie estere (in prevalenza spagnole); Mediolanum detiene poi il 3,45% del capitale di Mediobanca acquistato a un prezzo superiore di circa 100 milioni agli attuali corsi di borsa.
Sebbene l’attività prevalente sia quella assicurativa, i rischi sono per lo più sopportati dagli assicurati: il rischio di circa il 70% dei titoli in portafoglio è a carico della clientela. Le commissioni attive sono elevate (oltre 515 milioni di euro nel 2009, includendo i proventi sul risparmio gestito) e una parte significativa si riferisce a commissioni di performance (oltre 150 milioni di euro).
Alla società rimangono in carico i rischi operativi tipici della gestione di una rete di promotori finanziari e i rischi di credito riguardante le operazioni sottoscritte tramite finanziamenti concessi dal ramo bancario del conglomerato; essi tendono a emergere nelle fasi di crisi dei mercati finanziari, come l’attuale.
Il modello di business di Mediolanum si caratterizza dunque per la scarsa assunzione di rischi finanziari insieme alla fissazione di elevate commissioni di gestione e alla compartecipazione degli utili in caso di andamento favorevole dei corsi dei titoli. Nel medio periodo non sarà facile mantenere un buon livello di reputazione in caso di andamenti sfavorevoli dei mercati.
Milan
Dal 1987 e fino alla prima metà di questo decennio la maggior parte delle stagioni sportive del Milan sono state entusiasmanti; non è stato un caso: per quasi vent’anni la società ha acquistato i giocatori più forti presenti sul mercato (i primi: Gullit e Van Basten) non badando alle spese di acquisto dei cartellini e d’ingaggio; le vittorie sul campo accrescevano i ricavi e riducevano il fabbisogno finanziario.
Dal punto di vista economico e finanziario, il Milan ha cambiato il modo di gestire le società di calcio europee, mettendo in secondo piano l’equilibrio dei conti rispetto ai risultati sportivi e alla pubblicità per la proprietà. La diffusione in Europa di siffatto modello gestionale ha determinato l’esplosione dei costi delle società di calcio, molte delle quali si trovano in situazioni di forte precarietà finanziaria.
La parabola del Milan si è ora conclusa. Da alcuni anni, in campo, nelle competizioni più importanti, le vittorie sono un ricordo. Sul piano finanziario la situazione è disastrosa.
Secondo i bilanci consolidati del gruppo Milan riguardanti il triennio 2006-2008, gli ultimi pubblicati sul sito della società sportiva, emergono i seguenti principali dati:
Mentre i ricavi sono calati da 305 a 238 milioni di euro, i costi sono saliti da 257 a 311 milioni; il risultato d’esercizio è passato da un utile di 12 milioni di euro a una perdita di 67 milioni.
Mentre il patrimonio netto, costantemente negativo, è passato da -41 milioni a -65 milioni di euro, l’indebitamento è salito da 284 a 364 milioni di euro. La proprietà ha potuto non reintegrare il deficit patrimoniale perché nel 2005 sono state scorporate in una società interamente controllata attività immateriali relative al temporaneo sfruttamento commerciale del marchio, valutate in sede di perizia 184 milioni di euro.
Sebbene, a dicembre del 2008, la rosa dei giocatori fosse prevalentemente costituita da atleti alla fine della carriera (ad eccezione di Kakà, Pato e Borriello) il valore netto dei cartellini era pari a 88 milioni di euro; del pari erano elevati gli impegni per il pagamento degli ingaggi.
Dalle agenzie di stampa si è saputo che il bilancio del 2009 si è chiuso con una perdita di circa 10 milioni, grazie all’eccezionale plusvalenza realizzata con la cessione di Kakà al Real Madrid. Le prospettive per il corrente anno appaiono sfavorevoli, atteso che il mercato si va concludendo senza cessioni clamorose (ad esempio quelle di Pato o Ronaldhino). L’anomala conduzione della trattativa e gli inverosimili termini di acquisto di Ibrahimovich (prezzo irrisorio e forte dilazione di pagamento) testimoniano la precaria situazione economica e finanziaria del Milan e l’impossibilità ad attingere a fonti di finanziamento esterne.
Le prospettive
A diciassette anni dalla prima crisi finanziaria, il gruppo Fininvest rischia di trovarsi nel volgere di qualche mese con un giro d’affari uguale o minore di allora, un indebitamento finanziario superiore e una redditività operativa inferiore.
La Mondadori ha bisogno di un robusto aumento di capitale quantomeno per riportare le voci dell’attivo di bilancio a valori reali, il Milan deve reintegrare le perdite degli ultimi anni e ripristinare il patrimonio, la capogruppo sarà chiamata a risarcire la Cir e potrebbe cadere in una crisi di liquidità.
Ma è soprattutto sul piano strategico che emergono le maggiori difficoltà: agli inizi degli anni 90, le società operative esprimevano solidi vantaggi competitivi in mercati in espansione, ora si trovano a fronteggiare una concorrenza viepiù agguerrita da un’intrinseca posizione di debolezza. Il non lineare assetto proprietario, semplificato solo in parte nell’ultimo ventennio, potrebbe rappresentare un altro motivo di vulnerabilità.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Mediaset-co.-conti-a-pezzi-6232
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L’Italia in presa diretta – intervista a Riccardo Icona
Dalla newsletter del 09.09.2010
In Italia i giornalisti sono una specie in via di estinzione. Rari come porcini fuori stagione. Qualcuno però c’è ancora e scrive e parla e quando lo ascoltiamo sappiamo che dice la verità perché spiega quello che già intuiamo, ma rifiutiamo di accettare. Ignorare la realtà può aiutare a vivere, o meglio a sopravvivere, e molti italiani lo fanno. Iacona ci spiega cosa è veramente successo nel Canale di Sicilia, i suoi morti e i respingimenti verso l’inferno della Libia, la fine dello Stato di diritto, la distruzione del sistema scolastico. La testimonianza di Iacona provoca due reazioni, la prima è la bandiera bianca, il seppellirsi nella propria vita privata, rinunciare a ogni tipo di partecipazione sociale, la seconda, quella che preferisco, è una solenne incazzatura verso i predoni del nostro Paese trasformato in un saccheggio permanente e verso il furto più grave, imperdonabile, quello delle coscienze degli italiani.
Intervista a Riccardo Iacona.
“Faccio un mestiere che è un bel privilegio perché mi porta fuori, tanto fuori, e ho passato gli ultimi due, tre anni della mia vita a sentire le storie degli italiani, a seguire le vicende più importanti di questo Paese, quelle che noi riteniamo più importanti, ecco perché ho scritto il libro… perché sentivo il bisogno di fermarmi un attimo dal flusso della comunicazione, giri, monti, mandi in onda… per cercare di vedere le vicende che avevamo trattato con l’occhio rivolto verso il futuro. Ho scoperto tante cose facendo i reportage di PRESADIRETTA, per esempio che questa democrazia si sta restringendo, che questo è un Paese meno libero, già lo è adesso, non è un pericolo per il futuro, già adesso è meno libero e ne ho le prove. Ho le prove. Per esempio troverete dei capitoli dedicati alla politica sull’immigrazione, al contrasto alla cosiddetta clandestinità, chiaramente lì si è esercitata una censura, tutta la stagione dei respingimenti, i milioni di telespettatori, di italiani che si informano solo guardando uno o due canali generalisti della televisione italiana che sia Mediaset o RAI, non hanno avuto gli strumenti per capire cosa stava succedendo nel Canale di Sicilia e questa è una cosa grave, è grave perché falsa la democrazia. Se vi ricordate, era il 2009 quando ci sono stati i primi respingimenti nello spazio di un mese si è andati anche a votare, ci sono state votazioni importanti dove la Lega ha avuto un grosso successo, vi ricordate lo sfondamento oltre il Po? Se ne è parlato moltissimo, il 15% conquistato a Reggio Emilia dove la Lega è diventato il secondo partito della città, il quasi 14% in tutta la Provincia, dove la Lega è diventato il terzo partito della Provincia di Reggio Emilia, stiamo parlando a casa di Bersani, di Prodi, la Lega fa più che Sinistra e Libertà e dell’Italia dei Valori.
>La Lega ha utilizzato la politica del respingimento in campagna elettorale e su quello ha costruito il consenso e l’ha potuto fare perché le bugie che troverete tutte elencate in maniera maniacale, virgolettate, del governo, nessuno le ha potute smantellate perché le trasmissioni non se se nono occupate, perché questo è un Paese dove l’informazione nella sua parte più importante va dietro all’agenda dei temi che decide la politica.
Un altro aspetto mi ha convinto a scrivere il libro, sui temi importanti, quelli dalla cui risoluzione si decide dove va l’Italia, immigrazione, perché sull’immigrazione si gioca il terreno della futura integrazione, non dobbiamo pensare ad adesso, dobbiamo pensare ai nostri figli, ai figli dei nostri figli, quindi dobbiamo costruire un percorso nel quale, con delle regole rispettate, sia possibile l’integrazione in Italia, sui temi della formazione, come quelli della scuola, sui temi della grande criminalità organizzata, sui temi della casa che significa riprogettare le città… sono tutti temi di media, lunga distanza, che richiedono, se li vuoi affrontare, delle politiche alte, che non possono giocarsi sulla propaganda, sul prodotto che ti vuoi vendere alla prossima elezione, la politica non le affronta. Ho trovato un Paese abbandonato dalla politica, si parla sempre male della politica, ma la politica come la immaginiamo noi, come la immagino io, quella con la “P” maiuscola, che si pone il problema di indirizzare il paese da qualche parte, verso il futuro, che non lavora solo sul contingente, sul controllo dell’informazione, sulla bugia, sulla paura, questa politica in Italia manca e se ne sente l’assenza proprio quando attraversi i territori affrontando queste questioni, ecco perché ho scritto “L’Italia in presa diretta“, perché l’abbiamo chiamato “Viaggio del paese abbandonato dalla politica”. un terzo elemento mi ha spinto a essere così iperattivo quest’anno ed è che penso che siamo di fronte a un punto di passaggio importante per la vita politica del nostro Paese, l’Italia può veramente cambiare e cambiare malissimo e sento che tutti devono fare qualcosa, ognuno nel proprio ambito. Ognuno, cercando di fare onestamente il proprio lavoro, può spostare la trincea della libertà di solo un centimetro avanti. Non è il momento di tirarsi indietro e stare a coltivarsi il proprio orticello professionale. Grazie.” Riccardo Iacona
http://www.beppegrillo.it//2010/09/litalia_in_pres/index.html?s=n2010-09-09
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Celle fotovoltaiche auto-assemblanti 07.09.2010
di Anna Lisa Bonfranceschi
Il futuro del fotovoltaico potrebbe essere questo: celle solari grandi qualche miliardesimo di metro, più efficienti e più durature di quelle attualmente utilizzate nei pannelli e auto-assemblanti. I componenti di questi nanoscopici dispositivi possono infatti continuamente dissociarsi e ri-assemblarsi con l’aiuto di un solvente. L’invenzione, illustrata sulle pagine di Nature Chemistry, è dei ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston (Usa) guidati da Michael Strano.
Una delle maggiori sfide nel campo del fotovoltaico è imprigionare l’energia solare in dispositivi sempre più efficienti, grazie a materiali capaci di resistere al deterioramento causato dal sole stesso. Come in molti altri casi, la natura indica una possibile soluzione. Nelle piante infatti, all’interno dei cloroplasti, le molecole sensibili alla luce si proteggono dagli effetti nocivi dei raggi rinnovandosi continuamente, prima demolendosi e poi ri-assemblandosi.
I ricercatori del Mit hanno quindi creato un prototipo di un dispositivo, cercando di mimare questo processo. Per farlo hanno mescolato in soluzione sette diversi componenti, tra cui lipidi, nanotubi di carbonio e proteine. Questi, in presenza di un solvente, rimangono separati; togliendo il solvente, i lipidi, le proteine e i nanotubi si organizzano in strutture ordinate, capaci di funzionare come celle fotovoltaiche. Nello specifico, i lipidi si dispongono in dischi e forniscono supporto per le proteine, organizzate come centri di reazione in grado di catturare la luce e trasformarla in energia. I dischi di lipidi, inoltre, in soluzione si legano spontaneamente ai nanotubi di carbonio. Questo il processo: quando le proteine sono colpite dai fotoni, si liberano elettroni che, passando attraverso i dischi, vengono indirizzati verso i nanotubi di carbonio (capaci di trasportare corrente elettrica con grande efficienza).
L’efficienza di questo dispositivo nel convertire l’energia solare in energia elettrica è circa del 40 per cento, circa il doppio delle celle fotovoltaiche attualmente impiegate nei pannelli. Ma potrebbe crescere ancora, riportano i ricercatori.
Riferimenti: doi:10.1038/nchem.822
http://www.galileonet.it/articles/4c85f31072b7ab1d48000008
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Antibiotici dal cervello delle cavallette 09.09.2010
di Martina Saporiti
Nell’immaginario collettivo, le locuste sono insetti voraci e devastatori, biblicamente famose per essere l’ottava piaga d’Egitto. Le blatte, d’altra parte, sono disprezzate perché vivono in ambienti sporchi e malsani. Eppure, proprio da questi insetti potrebbero arrivare nuovi antibiotici per la cura di alcuni tipi di infezioni batteriche. Lo ha annunciato Simon Lee, ricercatore all’Università di Nottingham, Gran Bretagna, nel corso del meeting autunnale della Society for General Microbiology.
Insieme al suo gruppo di ricerca, Lee ha isolato dal tessuto nervoso di blatte e locuste nove molecole capaci di uccidere il 90 per cento di batteri appartenenti alle specie Escherichia coli e MRSA, un ceppo di Staphylococcus aureus resistente all’antibiotico meticillina. Nell’essere umano, l’E. coli può essere causa di infezioni del tratto urinario, meningite, peritonite o polmonite. Lo stafilococco, invece, colpisce l’organismo con infezioni purulente.
Le molecole isolate dai ricercatori sono sintetizzate esclusivamente nelle cellule del cervello e del sistema nervoso degli insetti. Si tratta di proteine ad azione antimicrobica capaci di attaccare i batteri senza danneggiare le cellule umane. Per spiegare l’esistenza di tali antibiotici naturali nel corpo degli insetti, i ricercatori chiamano in causa l’adattamento a particolari nicchie ecologiche: “Gli insetti spesso vivono in ambienti sporchi e insalubri dove possono incontrare molti tipi di batteri, ed è quindi normale che abbiano evoluto strategie per proteggersi da questi microrganismi patogeni”.
Attualmente, i ricercatori stanno sperimentando le proteine individuate contro gli Acinetobacter, batteri che vivono in acqua o nel suolo causando polmonite o infezioni del sangue. Anche se saranno necessari anni prima che i test provino l’efficacia e la sicurezza di questi composti, la speranza è di sconfiggere batteri antibiotico-resistenti o sostituire quelle terapie che presentano gravi effetti collaterali.
Riferimenti: Society for General Microbiology
http://www.galileonet.it/articles/4c8881bc72b7ab1d4800002f
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Settanta centimetri
Al nero, giorno a giorno, per venti euro e nessun diritto. Operai. Come tanti. Ma sono palestinesi: e costruiscono insediamenti. Le strade che sarà proibito percorrere, le case che sarà proibito abitare, il Muro che sarà proibito attraversare – mattone a mattone, il proprio apartheid
9 settembre 2010 – Francesca Borri
Fonte: da PeaceReporter – 09 settembre 2010
Si spara a vista lungo il Muro, alle quattro del mattino, presunzione di terrorismo contro qualsiasi ombra in movimento. Ma lì dove si dilegua l’ultima luce del checkpoint, una notte indistinta di luna avara e aghi di freddo torna a dilagare sull’altalena delle colline, e tutto si spiana di ogni retorica e maiuscola – e il Muro si asciuga a muro, cemento come ogni altro, tratti di inferriate tratti di filo spinato: e tratti di niente. Misura settanta centimetri, qui, la pace, la coesistenza, e non ha la forma solenne di un trattato, ma quella furtiva di un buco.
Il tempo ha cadenza ebraica, nelle campagne intorno a Hebron, la settimana ricomincia la domenica mattina. Palestinesi da un lato, e un furgoncino a recuperarli dall’altro. Perché è come Alice attraverso la siepe – si entra nemici, minaccia demografica cancro di Israele, si esce disinfettati in tuta blu. Operai. Operai, al nero, giorno a giorno, per venti euro e nessun diritto a costruire insediamenti – le strade che sarà proibito percorrere, le città che sarà proibito abitare, il Muro che sarà proibito oltrepassare: mattone a mattone, il proprio apartheid. Lavorano in Israele in sette su dieci, clandestini per oltre la metà. Perché lì dove non sono ancora arrivate le confische e le ruspe, a livellare via campi e case, le leggi, a sviare lontano ogni goccia d’acqua, il coprifuoco e i checkpoint, a convertire la vita in carcere, lì dove non sono arrivati i missili e le granate – lì è arrivato l’assedio della disoccupazione: della povertà e della fame. Il Muro si è trascinato via i nove decimi della terra coltivata, da queste parti, mozziconi di tronchi puntellano adesso le colline, sono lapidi di ulivo. Alle quattro di ogni domenica mattina, il futuro è largo settanta centimetri.
Sono in cinque, il sesto è Yousef, ma un flessibile gli ha segato via quattro dita. Con la mano che rimane, tenta richieste di autorizzazione per curarsi in Israele – più esattamente, a Gerusalemme Est, la metà in teoria palestinese. E a proprie spese, naturalmente, “mai avuto alcuna assicurazione. E non importa che hai costruito il loro ospedale, e che ti sei ferito per costruirlo. Hai bisogno di una diversa autorizzazione. Perché se anche sei regolare, con il tuo tesserino non entri in Israele. Entri solo in una fabbrica specifica, o in uno specifico insediamento”. Sono anni qui ormai che le Convenzioni di Ginevra rimbalzano contro la Corte Suprema. I territori palestinesi, sostiene, non sono occupati: sono semplicemente ‘amministrati’, perché questo era un deserto, solo una anonima res nullius, e come è possibile occupare qualcosa che non appartiene a nessuno? – l’eccezione è la legislazione sul lavoro. Perché se fossero territori amministrati, sarebbero anche qui in vigore le Leggi Fondamentali di Israele: incluso il principio della parità di trattamento per tutti i lavoratori, senza discriminazioni. Nei territori occupati, invece, il diritto internazionale vieta di modificare la legislazione esistente. E dunque Israele, che nei territori amministrati modifica ogni norma che le conviene modificare, ignora ogni convenzione che le conviene ignorare, in questi stessi territori, e però per l’occasione occupati, applica disciplinata la legislazione sul lavoro giordana, a Gaza quella egiziana, entrambi impolverati residui degli anni Sessanta – è larga settanta centimetri, certe volte, l’unica democrazia del Medio Oriente.
“E se anche l’avessi, l’assicurazione: ma chi ti rilascerebbe l’autorizzazione per entrare in Israele a fare causa?”. Parla in bilico su un ottavo piano, Yasser, una laurea in biologia e né impalcatura né imbragatura. Sono duecento shekel, circa quaranta euro in un ufficio di Ramallah, per avere un tesserino magnetico, validità un anno. Infiniti moduli da compilare e infinite impronte da timbrare, ma non è ancora un permesso di lavoro: è solo il permesso di chiedere il permesso – è una schedatura generalizzata, in realtà, e infatti è competenza della polizia, contiene informazioni, spiegano vaghi, sulla ‘sicurezza’. Attesta cioè che non si è pericolosi – “bisogna dimostrare la propria innocenza qui, si è terroristi fino a prova contraria. Prima di Oslo, era molto più semplice. Si poteva entrare liberamente in Israele: ed era la metà del reddito dei Territori. Oggi un’autorizzazione è una rarità. E al nero è come ovunque: ti pagano solo se e quando lavori, e certe volte non ti pagano affatto. E non hai la minima garanzia: ferie, infortunio – pensione: niente. Neppure la garanzia di lavorare anche domani. Alla fine rimani comunque sotto la soglia di povertà. Ma non è questione di Israele. Perché sono stato tre anni a Dubai, e esattamente nelle stesse condizioni. Solo che il capo era arabo, e mi chiamava fratello. E non è vero che a Dubai, se non altro, non ero un traditore. I primi a libro paga, qui, sono i notabili dell’Autorità Palestinese. Abu Mazen ha cominciato a frenare sul Rapporto Goldstone quando gli è stato ricordato che la nuova società di telecomunicazioni a cui partecipano due suoi figli è ancora in attesa della concessione di frequenze. Concessione di competenza di Israele. E anche nei Territori: per un impiego statale, e cioè il solo possibile in un’economia ormai inesistente, è necessaria adesso una imprecisata ‘approvazione di sicurezza’. Identica a quella necessaria per Israele. Perché la pubblica amministrazione non è che uno strumento clientelare per cementare lealtà e consenso. Fayyad ha licenziato oltre 40mila funzionari vicini a Hamas: a Gaza Haniyeh, in rappresaglia, ha sostituito tutti i funzionari legati a Fatah. Chi può dire, qui, di non essere un traditore? Anche perché, come sempre, i criteri in base a cui un’autorizzazione, e poi un permesso, sono rilasciati o negati, o anche improvvisamente ritirati, non sono noti. Nessuno ha diritto a una motivazione: solo una luce rossa che lampeggia al checkpoint, un giorno come un altro, e si è in stato di fermo. E comunque, un permesso è valido tre mesi: dopo tre mesi si ricomincia. Oppure si telefona a Mordechai – non di sabato, naturalmente. Mille shekel per un tesserino magnetico, cinquecento al mese per un permesso di lavoro. Ma chi può dire, qui, che l’altro è solo un nemico?”.
Le donne cuciono intanto, in casa: kippah – si chiama globalizzazione, la Cina che sbarca in Medio Oriente. Uno shekel l’una, sessanta in vetrina a Gerusalemme. “Con il pretesto della modernizzazione, la nostra economia è stata integrata in quella di Israele. Ma più che integrata, incastrata: strutturalmente subordinata, per impedire un futuro stato autonomo e sovrano. Le tasse palestinesi sono riscosse da Israele, e spesso reinvestite in Israele, invece che nei Territori e nelle loro infrastrutture: insieme alla chiusura delle banche arabe, questo ha congelato lo sviluppo industriale. Mentre un sistema di licenze ha consentito a Israele di indirizzare l’agricoltura in funzione delle sue esigenze: di decidere cosa è possibile coltivare e commercializzare – con i suoi prodotti che dilagano, inevitabilmente più convenienti: perché Israele controlla ogni goccia d’acqua, e il suo prezzo. Così come controlla le frontiere. Tutto quello che compri è fabbricato in Israele, qui, o importato attraverso Israele. Ogni nuova impresa non rafforza la nostra economia, ma la nostra dipendenza. Sono quarant’anni che negoziano: e ancora non si sono accorti che questa non è un’occupazione: è un’annessione. Collabora quanto me, chi vive nei Territori”. Perché è la risacca della storia, ancora, ad abbattersi su infinite vite uguale a sempre – dominanti e dominati, indipendentemente da ogni nazionalità e frontiera. Perché è israeliano il mediatore, per le kippah, come è israeliano quel furgoncino, dall’altra parte del Muro. Ma è palestinese questo esercito di cemento che avanza e devasta, questa nuova fanteria di case a presidio di ogni collina – e non solo la manodopera: è palestinese il cemento del Muro. Arriva da un’azienda legata a Fatah – è larga settanta centimetri, certe volte, la Resistenza davanti al denaro.
“Har Homa non è un insediamento, in realtà: è una saracinesca. Recide definitivamente Gerusalemme dalla West Bank. Non è progettata per vivere, ma per vincere. Non ha un centro né una piazza, solo questa strada che si infila dentro e si avvolge fino su. Poi non rimane che tornare giù. Sono solo case, e case e case e case, e tutte identiche e tutte perfette e tutte prive di qualsiasi sbavatura di vita. Finestre chiuse: e non un’auto, un negozio. Ma perché come ogni insediamento: in realtà non è che periferia. Incroci questi sguardi impolverati, la sera, di ritorno da giornate difficili: e immagini queste esistenze scartavetrate dai milioni di dollari destinati alle armi, invece che – invece che alla vita: queste esistenze tristi: e così simili alla tua. La maggioranza dei coloni è solo gente povera. Gente che accetta di finire in colline sperdute, prima ancora che rischiose, semplicemente perché costa meno. Gente che non ha alternative: gente come me. Ma sono come i soldati: perché non è vero che i giovani israeliani sono tutti pronti all’esercito. I refusenik, i politicamente motivati, sono una minoranza: ma la maggioranza è comunque una maggioranza che si nasconde dietro un certificato medico. Israele è un paese fondamentalmente di indifferenti. Di indifferenti e di smarriti. In tre anni qui, l’unico con cui ho parlato è uno che si era perso. Si è avvicinato con paura: perché era immigrato da poco: dalla Tunisia. E con il suo ebraico stentato, temeva di essere scambiato per arabo e essere aggredito. Sarebbe infinitamente più semplice, qui, se davvero avessimo un Muro: se davvero sapessimo chi sta da una parte e chi dall’altra. Cosa aspettarci, da una parte e dall’altra. Poi Israele, certo, ha la sua minoranza di attivisti. I suoi trentasei giusti. Questa collina, per esempio: era un bosco. Gli ambientalisti si sono opposti fino all’ultimo. Come gli archeologi: i soli che davvero hanno contestato il Muro – in difesa dei marmi e delle tombe, non certo di noi vivi. Per il resto, la massima ambizione, per la comunità internazionale, è il congelamento degli insediamenti. Che però non esclude l’espansione necessaria alla cosiddetta crescita naturale: e il tasso di crescita, negli insediamenti, è quattro volte quello medio. Anche a Washington, in questi giorni: l’obiettivo, dicono, è prolungare il congelamento. Non so: io sono qui. E lavoro come sempre”. D’altra parte: anche per Har Homa, l’ordine di confisca è arrivato dopo Oslo. E l’Assemblea Generale ha impilato nei suoi archivi le due ennesime risoluzioni di condanna. 134 contro 3 la prima, poi si è dileguata anche la Micronesia, ed è finita 130 contro 2: i due, ovviamente, erano Stati Uniti e Israele – ma le Nazioni Unite, si giustificò Clinton, non sono il luogo adatto per discutere un processo di pace. E se poi proprio i palestinesi avevano qualcosa da contestare, aggiunse – Oslo impone il dialogo diretto con Israele: rivolgersi alle Nazioni Unite mina quella fiducia reciproca indispensabile alla pace.
Si stacca alle sei, alla preghiera del tramonto. In ginocchio verso la Mecca, decine di operai ascoltano un immaginario muezzin, le stuoie a mosaico tra i cavi, e i tubi e i mattoni. Dormono qui, negli interrati degli edifici in costruzione, il viaggio costa la paga di un giorno. Abitano in vecchie coperte su tavole di legno, cenano a pane e poco altro, nascosti fino all’alba successiva – è un anno di carcere, l’ingresso illegale in Israele. Materiale di scarto, pile di piastrelle ancora da montare la trincea davanti al freddo, una vecchia lamiera la cerniera dal mondo – è largo settanta centimetri stasera, il cielo stellato sopra Israele. La legge morale dentro Israele.
http://www.peacelink.it/palestina/a/32335.html
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www.resistenze.org – osservatorio – mondo – politica e società – 11-04-04
George Soros: Mago imperiale e agente doppio
di Heather Cottin
Covert Action Quarterly 9 dicembre 2003
e-mail: info@covertactionquarterly.org
“Sì ho una politica estera: il mio obiettivo è divenire la coscienza del Mondo.”(1)
Non si tratta per nulla di un caso di narcisismo acuto della personalità; ecco infatti, come George Soros applica oggi il potere dell’egemonia degli USA nel mondo.
Le istituzioni di Soros e le sue macchinazioni finanziarie sono in parte responsabili della distruzione del socialismo in Europa dell’Est e nell’ex URSS. Ha gettato la sua attenzione anche sulla Cina. Ha preso anche parte a tutte le operazioni che sono sboccate nello smantellamento della Jugoslavia. Mentre si da arie da filantropo, il ruolo del miliardario George Soros consiste nel rinserrare la presa ideologica della globalizzazione e del Nuovo ordine mondiale assicurando la promozione del proprio profitto finanziario. Le operazioni commerciali e “filantropiche” di Soros sono clandestine, contraddittorie e coattive. E, per ciò che riguarda la sue attività economiche, egli stesso ammette che non ha coscienza, in quanto capitalista è assolutamente amorale.
Maestro della nuova arte della corruzione che inganna sistematicamente il mondo, con accesso agli uomini di stato che lo ascoltano. È stato vicino a Henry Kissinger, Vaclav Havel e al generale polacco Wojciech Jaruzelski.(2) Sostiene il dalai lama, il cui istituto si trova a Presidio, San Francisco, che ospita, tra l’altro, la fondazione diretta dall’amico di Soros, l’ex dirigente sovietico Mikhail Gorbachev.(3)
Soros é una figura di punta del Consiglio delle Relazioni estere, del Forum economico mondiale e di Human Rights Watch (HRW). Nel 1994, dopo un incontro con il suo guru filosofico, Sir Karl Popper, Soros ordinava alle sue società di mettersi a investire nelle comunicazioni in Europa centrale e dell’Est.
L’amministrazione federale della radiotelevisione della Repubblica ceca ha accettato la sua offerta di riprendere e finanziare gli archivi di Radio Free Europe. Soros ha trasferito i suoi archivi a Praga e ha speso più di 15 milioni di dollari per i loro spettacoli.(4) Congiuntamente con gli USA, una fondazione Soros dirige oggi Radio Free Europe/Radio Liberty, che ha esteso le sue ramificazioni al Caucaso e in Asia.(5)
Soros è il fondatore e il finanziatore dell’Open Society Institute. Ha creato e sostenuto il Gruppo internazionale di Crisi (GIC) che, tra l’altro è attivo nei Balcani dopo lo smantellamento della Jugoslavia. Soros lavora apertamente con l’Istituto Americano per la Pace – un organo ufficialmente riconosciuto dalla CIA.
Quando le forze ostili alla globalizzazione protestavano sulle strade attorno il Waldorf-Astoria, a New York, nel febbraio 2002, George Soros era all’interno e teneva un discorso davanti il Forum economico mondiale. Quando la polizia premeva i manifestanti nelle gabbie metalliche a Park Avenue, Soros vantava le virtù d’una “società aperta”, unendosi così a Zbigniew Brzezinski, Samuel Huntington, Francis Fukuyama e altri.
Chi è questo tipo?
George Soros è nato in Ungheria nel 1930 da genitori ebrei così lontani dalle loro radici che passarono, una volta, le vacanze nella Germania nazista.(6) Soros visse sotto il regime nazista ma, al momento del trionfo dei comunisti, andò in Inghilterra nel 1947. Lì, alla London School of Economics, subì l’influenza del filosofo Karl Popper, un ideologo anticomunista adulato il cui insegnamento costituì la base delle tendenze politiche di Soros. È difficile trovare un discorso, un opera o un articolo di Soros che non obbedisca all’influenza di Popper.
Nel 1965, Popper inventò lo slogan della “Società aperta”, che si ritroverà più avanti nella Open Society Fund and Institute di Soros. I discepoli di Popper ripetono le sue parole come dei veri credenti. La filosofia di Popper incarna perfettamente l’individualismo occidentale. Soros lasciò l’Inghilterra nel 1956 e trovò lavoro a Wall Street dove, negli anni ’60, inventò i “fondi di copertura”: “I fondi di copertura soddisfacevano gli individui assai ricchi (…) I fondi in gran parte segreti, servivano abitualmente a fare degli affari in luoghi lontani (…) producevano dei profitti astronomicamente superiori. L’ammontare degli ‘impegni’ mutavano spesso in profezie che si autorealizzavano: ‘le voci circolavano a proposito d’una situazione di acquisto che, grazie agli enormi fondi di copertura, incitavano altri investitori a sbrigarsi a fare lo stesso, cosa che a sua volta aumentava le azioni degli operatori di copertura.”(7)
Soros creò il Quantum Fund nel 1969 e iniziò a manipolare le monete. Negli anni ’70, le sue attività finanziarie scivolavano verso “l’alternanza tra le situazioni a lungo e a corto termine (…) Soros iniziò a guadagnare sulla crescita dei trusts d’investimento nell’immobiliare e sui loro successivi fallimenti. Durante i suoi venti anni di gestione, la Quantum offrì dei profitti clamorosi del 34,5% in media all’anno. Soros è particolarmente noto (e temuto) per le sue speculazioni sulle monete. (…) Nel 1997, si vide assegnare una distinzione rara facendosi chiamare scellerato da un capo di stato, Mahathir Mohamad, della Malaysia, per avere partecipato a un raid particolarmente vantaggioso contro la moneta del paese.”(8)
È attraverso tali “giochetti” finanziari clandestini che Soros divenne multimiliardario. Le sue società controllano l’immobiliare in Argentina, Brasile e in Messico, la banca in Venezuela e appaiono in molte delle più vantaggiose transazioni monetarie, facendo nascere la credenza generale che i suoi amici più potenti l’abbiano aiutato nelle sue avventure finanziarie, e ciò per delle ragioni tanto politiche che economiche.(9)
George Soros è stato accusato di aver fatto naufragare l’economia tailandese nel 1997.(10) Un attivista tailandese dichiarò: “consideriamo George Soros come une sorta di Dracula. Succhia il sangue del popolo.”(11) I cinesi lo chiamano “il coccodrillo” per i suoi sforzi economici e ideologici in Cina, che non erano mai sufficienti, e perché le sue speculazioni finanziarie hanno generato milioni di dollari di profitto quando mise le zampe sulle economie tailandese e Malese.(12)
In un giorno Soros guadagnò un miliardo di dollari speculando (una parola che detesta) sulla sterlina inglese. Accusato di prendere “denaro dai contribuenti ogni volta che speculava contro la sterlina”, aveva risposto: “Quando voi speculate sul mercato finanziario, non badate alle preoccupazioni morali cui si deve confrontare un uomo d’affari ordinario. (…) Non mi preoccupo di questioni morali nel mercato finanziario.”(13)
Soros é schizzofrenicamente instabile quando si tratta di arricchirsi personalmente in modo illimitato e prova un perpetuo desiderio d’essere ben considerato dagli altri: “I commercianti di monete seduti nei loro uffici comprano e vendono divise dei paesi del terzo mondo in grande quantità. L’effetto delle fluttuazioni dei corsi sulle persone che vivono in questi paesi non favorisce il loro spirito. Non si dovrebbe farlo più: hanno un lavoro da fare. Se ci fermiamo a riflettere, noi dobbiamo porci la questione di sapere se i commercianti di divise (…) debbano controllare la vita di milioni di persone.”(14)
È George Soros che ha salvato la pelle di George W. Bush quando la gestione della sua società di prospezioni petrolifere era sul punto di risolversi in un fallimento. Soros era il proprietario della Harken Energy Corporation e lui aveva comprato lo stock delle azioni in ribasso poco prima della fine della società. Il futuro presidente liquidò quasi un milione di dollari. Soros dichiarò che aveva agito i quel modo per avere “influenza politica”.(15) Soros é ugualmente un partner della tristemente celebre Carlyle Group. Ufficialmente fondata nel 1987, la “più importante società privata per azioni del mondo”, che gestisce più di 12 miliardi di dollari, é diretta da “un vero pugno mondano di ex dirigenti repubblicani”, dall’ex membro della CIA, Frank Carlucci, fino al capo della CIA ed ex presidente George Bush padre. Il Carlyle Group trae la maggior parte delle sue entrate dalle esportazioni di armi.
La spia filantropa
Nel 1980, Soros comincia a utilizzare i suoi milioni per combattere il socialismo in Europa dell’Est. Finanzia degli individui suscettibili di cooperare con lui. Il suo primo successo, l’ottiene in Ungheria. Attacca il sistema educativo e culturale ungherese, smantellando il sistema statale socialista di tutto il paese. Si apre un canale direttamente all’interno del governo ungherese. In seguito, Soros si volse alla Polonia, contribuendo all’operazione Solidarnosc, finanziata dalla CIA, e, lo stesso anno, estende le sue attività in Cina. L’URSS venne dopo.
Non era un caso se la CIA ha condotto delle operazioni in tutti da questi paesi. Il suo obiettivo era ugualmente la stessa di quella dell’Open Society Fund: smantellare il socialismo. In Africa del Sud, la CIA addestrava dei dissidenti anticomunisti. In Ungheria, in Polonia e in URSS, tramite un intervento non dissimulato condotto a partire dalla Fondazione nazionale per la Democrazia, l’AFL-CIO, l’USAID e altri istituti, la CIA sosteneva e organizzava gli anticomunisti, gli stessi tipi d’individui reclutati dalla Open Society Fund di Soros. La CIA li chiamava i suoi “assi nella manica”. Come dice Soros: “in ogni paese ho identificato un gruppo di persone – certe sono delle personalità di primo piano, altri sono meno noti- che sostengono la mia fede…”(16)
L’Open Society di Soros organizzava delle conferenze con degli anticomunisti cechi, serbi, romeni, ungheresi, croati, bosniaci, kossovari.(17) la sua influenza crescente fece sospettare che operasse in quanto parte del sistema spionistico USA. Nel 1989, il Washington Post riportava le accuse fatte già nel 1987 da ufficiali del governo cinese e pretendenti che il Fondo di Soros per la Riforma e l’Apertura della Cina aveva delle connessioni con la CIA.(18)
Il turno della Russia
Dopo il 1990, i fondi di Soros mirano al sistema educativo russo e fornivano dei manuali in tutta la nazione.(19) In effetti, Soros si serve della propaganda dell’OSI per indottrinare la gioventù russa. Le fondazioni di Soros sono state accusate d’avere orchestrato una strategia mirante a assicurarsi il controllo del sistema finanziario russo, dei piani di privatizzazione e del processo degli investimenti esteri nel paese. I Russi reagirono con rabbia alle ingerenze di Soros nelle legislazioni. Le critiche di Soros e altre fondazioni USA hanno affermato che l’obiettivo di queste manovre era di “impedire che la Russia divenisse uno stato con un potenziale che rivaleggiasse con la sola superpotenza mondiale”.(20) I Russi sospettarono che Soros e la CIA siano interconnessi. Il magnate Boris Berezovsky, disse: “Ho appena volto lo sguardo appena ho appreso, che da qualche anno, George Soros è un agente della CIA. “(21) L’opinione di Berezovsky era che Soros, come anche l’Occidente, “temessero che il capitalismo russo divenisse troppo potente”.
Se l’establishment economico e politico degli USA teme la concorrenza economica della Russia, quale migliore maniera di controllarla che dominare i media, l’educazione, i centri di ricerca e i settori scientifici della Russia? Dopo aver speso 250 milioni di dollari per “la trasformazione dell’educazione delle scienze umane e dell’economia a livello delle scuole superiori e delle università”, Soros inietta 100 milioni di dollari, dopo un anno, per la creazione della Fondazione scientifica internazionale.(22) I Servizi federali russi di controspionaggio (FSK) accusano le fondazioni di Soros in Russia di “spionaggio”. Segnalano che Soros non opera da solo; fa parte di un rullo compressore che ricorre, tra l’altro, a dei finanziamenti da Ford e dalla Heritage Foundations, dalle università di Harvard, Duke e Columbia, e all’assistenza del Pentagono e dei suoi servizi di informazione USA.(23) Il FSK s’indigna del fatto che Soros abbia messo le mani su circa 50.000 scienziati russi e presume che Soros abbia coltivato soprattutto i suoi interessi, assicurandosi il controllo di migliaia di scoperte scientifiche e nuove tecnologie russe e appropriandosi cosi dei segreti di stato e dei segreti commerciali.(24)
Nel 1995, i Russi erano assai arrabbiati in seguito all’ingerenza dell’agente del Dipartimento di stato Fred Cuny, nel conflitto ceceno. Cuny si serviva dell’aiuto ai rifugiati come copertura, ma la storia delle sue attività nelle zone di conflitti internazionali interessanti gli USA, cui venivano a aggiungersi le operazione d’investigazione dell’FBI e della CIA, rendevano manifeste le sue connessioni con il governo USA. All’epoca della sua scomparsa, Cuny lavorava sotto contratto con una fondazione di Soros.(25) non si sa abbastanza negli USA, che la violenza in Cecenia, una provincia situata al centro della Russia, é generalmente vista come il risultato di una campagna di destabilizzazione politica che Washington vede di buon occhio e, che orchestra probabilmente. Questo modo di presentare la situazione é sufficientemente chiara agli occhi dello scrittore Tom Clancy, al punto che si è sentito libero di fare una affermazione di fatto nel suo best-seller: La somma di tutte le paure. I Russi hanno accusato Cuny di essere un agente della CIA e d’essere uno dei responsabili di una operazione di spionaggio destinata a sostenere l’insurrezione cecena.(26) L’Open Society Institute di Soros é sempre attiva in Cecenia, come lo sono ugualmente altre organizzazioni sponsorizzate dallo stesso Soros.
La Russia é stata il teatro di almeno un tentativo comune di fare avanzare il bilancio di Soros, tentativo orchestrato con l’aiuto diplomatico dell’amministrazione Clinton. Nel 1999, il segretario di stato Madeleine Albright aveva bloccato una garanzia di prestito di 500 milioni di dollari per l’Export-Import Bank USA alla società russa, Tyumen Oil, pretendendo che ciò si opponesse agli interessi nazionali USA. La Tyumen voleva comprare delle attrezzature petrolifere di fabbricazione statunitense, così come dei servizi, presso la società Halliburton di Dick Cheney e dell’ABB Lummus Global di Bloomfield, New Jersey.(27) George Soros era investitore in una società che la Tyumen aveva tentato di comprare. Tanto Soros che BP Amoco avevano esercitato delle pressioni alfine d’impedire tale transazione, e Albright gli rese questo servizio.(28)
Il discorso di un antisocialista di sinistra
L’Open Society Institute di Soros infila le dita in ogni ambito. Il suo consiglio di amministrazione è un vero ” Who’s Who ” della guerra fredda e dei pontefici del nuovo ordine mondiale. Paul Goble é direttore delle comunicazioni: “è stato il principale commentatore politico di Radio Free Europe”. Herbert Okun ha servito nel dipartimento di stato di Nixon come consigliere dell’intelligence con Henry Kissinger. Kati Marton è la consorte di Richard Holbrooke, l’ex ambasciatore all’ONU e inviato in Jugoslavia dell’amministrazione Clinton. Marton ha esercitato pressioni in favore della stazione radio B-92, finanziata da Soros, e ha ugualmente assai operato in favore di un progetto della Fondazione nazionale per la democrazia (un’altra antenna ufficiale della CIA) che ha collaborato al rovesciamento del governo jugoslavo.
Quando Soros fondò l’Open Society Fund, cercò il grande bonzo liberale Aryeh Neier per dirigerla. All’epoca, Neier dirigeva Helsinki Watch, una pretesa organizzazione dei diritti dell’uomo di tendenza nettamente anticomunista. Nel 1993, l’Open Society Fund divenne l’Open Society Institute.
Helsinki Watch divenne Human Rights Watch nel 1975. All’epoca, Soros faceva parte della sua Commissione consultiva, sia per il comitato delle Americhe che per quelle dell’Europa dell’Est e dell’Asia centrale, e la sua nebulosa Open Society Fund/Soros/OSI è indicata come raccoglitrice di fondi.(29) Soros ha delle relazioni strette con Human Rights Watch (HRW) e Neier scrive articoli per la rivista The Nation senza menzionare in alcun modo che figura sui libri paga di Soros.(30)
Soros é dunque strettamente legato a HRW, benché faccia del suo meglio per nasconderlo.(31) Dichiara che si accontenta di raccogliere fondi, di mettere i programmi a punto e di lasciare le cose andare da sole. Ma le azioni di HRW non si discostano in alcun modo dalla filosofia del suo raccoglitore di fondi. HRW e OSI sono assai vicini. Le loro visioni non divergono. Naturalmente, altre fondazioni finanziano ugualmente queste due istituzioni, ma non impedisce che l’influenza di Soros domini la loro ideologia.
Le attività di George Soros s’inscrivono nello schema di costruzione sviluppato nel 1983 e così come è annunciato da Allen Weinstein, fondatore della Fondazione nazionale per la democrazia. Wainstein dichiara: “Una grande parte di ciò che noi facciamo oggi era realizzato in segreto dalla CIA 25 anni fa. “(32) Soros opera esattamente nei limiti del complesso spionistico. Differisce poco dai trafficanti di droga della CIA nel Laos, negli anni ’60, o dei mujahidin che trafficavano nell’oppio conducendo delle operazioni per conto della CIA contro l’Afghanistan socialista degli anni ’80. Canalizza semplicemente (e raccoglie) molto più denaro di queste marionette e una parte ben più importante dei suoi affari si fanno nei gironi migliori. La sua libertà d’azione, nella misura in cui possa goderne, risiede in un controllo fattivo dei profitti, che gli servono a legittimare le strategie della politica estera USA.
La maggioranza degli statunitensi che, oggi, si considerano politicamente di centrosinistra, sono senza alcun dubbio pessimisti a proposito della speranza di assistere un giorno a una trasformazione socialista della società. Di conseguenza, il modello di “decentralizzazione” alla Soros, o l’approccio “frammentato” di “utilitarismo negativo, il tentativo di ridurre al minimo la quantità di miseria”, che costituiva la filosofia di Popper, tutto ciò gli va bene, più o meno.(33) Soros ha finanziato uno studio di HRW che è stata usata per sostenere l’addomesticamento della legislazione in materia di droga nello stato della California e dell’Arizona.(34) Soros é favorevole a una legislazione sulle droghe – una maniera di ridurre provvisoriamente la coscienza della propria miseria. Soros é un corruttore che sostiene il concetto dell’uguaglianza delle opportunità. A una scala più elevata sul piano socio-economico, si trovano i social-democratici che accettano d’essere finanziati da Soros e che credono alle libertà civiche nel contesto stesso del capitalismo.(35) Per queste persone, le conseguenze nefaste delle attività commerciali di Soros (che impoveriscono le persone nel mondo) sono edulcorate dalle sue attività filantropiche. Allo stesso modo, gli intellettuali liberali di sinistra, tanto all’estero che negli USA, sono stati sedotti dalla filosofia dell'”Open Society”, senza parlare dell’attrattiva che rappresentano le sue donazioni.
La Nuova Sinistra USA era un movimento social-democratico. Era risolutamente antisovietica e, quando l’Europa dell’Est e l’Unione Sovietica si sono dissolte, pochi nella Nuova Sinistra si sono opposti alla distruzione dei sistemi socialisti. La Nuova Sinistra non ha né detto nulla né protestato quando centinaia di milioni di abitanti dell’Europa dell’Est e dell’Europa centrale hanno perso il loro diritto al lavoro, all’alloggio, e alla protezione della legge, all’educazione gratuita nelle scuole superiore, alla gratuità delle cure e dell’acculturazione. La maggioranza ha minimizzato gli avvertimenti che indicavano che la CIA e certe ONG – come la Fondazione nazionale per la Democrazia o l’Open Society Fund – avevano attivamente partecipato alla distruzione del socialismo. Queste persone avevano l’impressione che la determinazione occidentale a voler distruggere l’URSS dal 1917 era una cosa assai lontana dalla caduta dell’URSS. Per queste persone, il socialismo è scomparso di sua volontà, per le sue lacune e sconfitte.
Quanto alle rivoluzioni, come quella del Mozambico, dell’Angola, del Nicaragua o del Salvador, annichilite dalle forze operanti per procura o ritardate dalle “elezioni” assai dimostrative, i pragmatisti della Nuova sinistra non hanno fatto altro che volgere lo sguardo da un’altra parte. Talvolta, la stessa Nuova Sinistra sembrava ignorare deliberatamente le macchinazioni post-sovietiche della politica estera USA.
Bogdan Denitch, che nutriva delle aspirazioni politiche in Croazia, è stato attivo presso l’Open Society Institute e ha ricevuto dei fondi dalla stessa OSI.(36) Denitch era favorevole all’epurazione etnica dei Serbi in Croazia, ai bombardamenti della Nato della Bosnia e della Jugoslavia e anche a una invasione terrestre della Jugoslavia.(37) Denitch è stato uno dei fondatori e il presidente dei Socialisti democratici degli USA, un gruppo preponderante della sinistra liberale negli Stati Uniti. È stato anche presidente, per molto tempo, della prestigiosa Conferenza degli Universitari socialisti, grazie alla quale poteva facilmente manipolare le simpatie di molti e farli propendere al sostegno dell’espansione della Nato.(38) Altri obiettivi in sostegno di Soros comprendono Refuse and Resist, the American Civil Liberties Union e tutta una panoplia di altre cause liberali.(39) Soros acquisiva un altro trofeo inverosimilmente impegnandosi nella Nuova Scuola di Ricerche Sociali di New York, che era stata per molto tempo l’accademia principale degli intellettuali di sinistra. Oggi, sponsorizzano il Programma per l’Europa dell’est e l’Europa centrale.(40)
Molte persone di sinistra ispirate dalla rivoluzione nicaraguense hanno accettato con tristezza l’elezione di Violetta Chamorro e la sconfitta dei sandinisti nel 1990. La quasi totalità della rete di sostegno in Nicaragua ha cessato la sue attività in seguito. Forse la Nuova Sinistra avrebbe potuto trarre qualche insegnamento dalla stella ascendente di Michel Kozak. L’uomo era un veterano delle campagne di Washington mirante a installare dei dirigenti simpatici in Nicaragua, in Panama e ad Haiti, e di minare Cuba – dove dirigeva la sezione di interessi USA all’Habana.
Dopo aver organizzato la vittoria di Chamorro in Nicaragua, Kozak proseguì il suo cammino per divenire ambasciatore degli USA in Bielorussia, collaborando all’Internet Access and Training Program (IATP), sponsorizzato da Soros e che operava nella “fabbricazione di futuri dirigenti” in Bielorussia.(41) Nello stesso tempo, tale programma era imposto in Armenia, Azerbaidjan, Georgia, Kazakhstan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan. L’IATP opera assieme al sostegno del dipartimento di stato USA. A credito della Bielorussia, bisogna aggiungere che espulse Kozak e la sua cricca dell’Open Society di Soros e del dipartimento di stato USA. Il governo di Aleksandr Lukachenko scoprì che, quattro anni prima di installarsi a Minsk, Kozak organizzava forniture di decine di milioni di dollari destinati a alimentare l’opposizione bielorussa. Kozak lavorava all’unificazione della coalizione dell’opposizione, creava dei siti web, dei giornali e dei poli di opinione, e supervisionava un movimento di resistenza studentesca simile all’Otpor in Jugoslavia. Kozak fece anche venire dei dirigenti dell’Otpor per formare dei dissidenti in Bielorussia.(42) Proprio alla vigilia dell’11 settembre 2001, gli USA rilanciavano una campagna di demonizzazione contro il presidente Aleksandr Lukachenko. Tale campagna è stata messa da parte, per concentrarsi sulla “guerra contro il terrorismo”.
Con l’intromissione dell’OSI e dell’HRW, Soros era uno dei principali sponsors della stazione radio B-92 di Belgrado. Fondò l’Otpor, l’organizzazione che riceveva le “valigie di denaro” alfine di sostenere il golpe del 5 ottobre 2000 che rovesciava il governo jugoslavo.(43) Poco dopo, Human Rights Watch aiutava a legittimare il rapimento e la mediatizzazione del processo di Slobodan Milosevic all’Aja senza preoccuparsi dei suoi diritti.(44) Louise Arbour, che ha operato come giudice nel tribunale illegale, siede attualmente nel consiglio del Gruppo internazionale di crisi di Soros.(45) La gang dell’Open Society e di Human Rights Watch ha lavorato in Macedonia, dicendo che ciò faceva parte della sua “missione civilizzatrice”.(46) Bisogna dunque attendere, un giorno, la “salvezza” per questa repubblica, affinché si ottenga così la disintegrazione dell’ex Jugoslavia.
I Mandati del potere
Infatti, Soros ha dichiarato che considerava la sua filantropia come morale e i suoi affari di gestione del denaro come amorale.(47) Pertanto, i responsabili delle ONG finanziate da Soros hanno una agenda chiara e permanente. Una delle istituzioni più influenti di Soros è il Gruppo Internazionale di Crisi, fondato nel 1986. Il GIC é diretto da individui provenienti dal centro stesso del potere politico e dal mondo delle imprese. Il suo consiglio d’amministrazione conta, tra l’altro, nei suoi ranghi Zbigniew Brzezinski, Morton Abramowitz, ex segretario di stato aggiunto degli USA; Wesley Clark, ex capo supremo degli alleati della Nato per l’Europa; Richard Allen, ex consigliere nazionale alla sicurezza degli USA. Vale la pena di citare Allen: l’uomo ha abbandonato il Consiglio nazionale della Sicurezza sotto Nixon perché era disgustato dalle tendenze liberali di Henry Kissinger; è sempre lui che ha reclutato Oliver North per il Consiglio nazionale della sicurezza sotto Reagan, e che negoziò lo scambio missili-ostaggi nello scandalo del contras-irangate. Per questi individui, “contenere i conflitti” equivale a assicurare il controllo statunitense sui popoli e le risorse del mondo intero.
Negli anni ’80 e ’90, sotto l’egida della dottrina reaganiana, le operazioni segrete o aperte degli USA si compivano in Africa, in America latina, Caraibi e in Asia. Soros era apertamente attivo nella maggior parte di questi luoghi, corrompendo eventuali rivoluzionari in potenza, e sponsorizzando uomini politici, intellettuali e ogni altra persona suscettibile di arrivare al potere quando l’agitazione rivoluzionaria sarebbe decaduta. Secondo James Petras: “Alla fine degli anni ’80, i settori più perspicaci delle classi neo-liberali al potere comprendono che i loro obiettivi politici polarizzano la società e suscitano un ampio scontento sociale. I politici neo-liberali si sono messi a finanziare e a promuovere una strategia parallela ‘a partire dalla base’, la promozione di organizzazioni in qualche modo ‘tirate dalla base’, dall’ideologia ‘anti-statalista’ e mirate a intervenire tra le classi potenzialmente conflittuali, alfine di creare un ‘tampone sociale’. Tali organizzazioni dipendevano finanziariamente dalle risorse neo-liberali e erano direttamente impegnate nella concorrenza con dei movimenti socio-politici per la fedeltà dei dirigenti locali e delle comunità militanti. Negli anni ’90, queste organizzazioni, descritte come ‘non governative’, si contano a migliaia e ricevono circa 4 miliardi di dollari in tutto il mondo.”(48)
In Underwriting Democracy (Garantire la democrazia), Soros si vanta “dell’americanizzazione dell’Europa dell’Est”. Secondo i suoi propri desideri, grazie ai suoi programmi d’educazione, ha cominciato a mettere su un inquadramento dei giovani dirigenti “sorosiani”. Questi giovani addestrati dalla Fondazione Soros sono preparati a riempire delle funzioni di ciò che si chiamano, comunemente, “agenti d’influenza”. Grazie alla loro conoscenza pratica delle lingue e al loro inserimento nelle burocrazie nascenti dei paesi sotto tiro, tali reclute sono individuate per facilitare, sul piano filosofico, l’accesso alle società multinazionali occidentali.
Il diplomatico di carriera Herbert Okun, che siede in compagnia di George Soros nel Comitato europeo di Human Rights Watch, intrattiene strette relazioni con tutta una serie d’istituti legati al dipartimento di stato, che va dall’USAID alla Commissione trilaterale finanziata da Rockefeller. Dal 1990 al 1997, Okun è stato direttore esecutivo di una organizzazione chiamata Corpo dei benevolenti dei Servizi finanziari, che faceva parte dell’USAID, “alfine di aiutare a stabilire dei sistemi finanziari dei mercati liberi nei paesi ex-comunisti”.(49) George Soros é in completo accordo con i capitalisti occupati a prendere il controllo dell’economia mondiale.
La redditività del Non-Profit
Soros pretende che non fa filantropia nei paesi dove pratica il commercio di valute.(50) Ma Soros ha spesso ottenuto vantaggi dalle sue relazioni per realizzare degli investimenti chiave. Armati di uno studio dell’ICC e beneficiante del sostegno di Bernard Kouchner, capo dell’UNMIK (Amministrazione temporanea delle Nazioni Unite in Kosovo), Soros ha tentato di appropriarsi del complesso minerario più vantaggioso dei Balcani.
Nel settembre 2000, nella sua fretta di impadronirsi delle miniere di Trepca prima delle elezioni in Jugoslavia, Kouchner dichiarava che l’inquinamento provocato dal complesso minerario, faceva innalzare i tassi di piombo nell’ambiente.(51) E’ incredibile, sentire una cosa simile, quando si sa che l’uomo applaudì, quando i bombardamenti della Nato, nel 1999, hanno riversato l’uranio impoverito sul paese e hanno liberato più di 100.000 tonnellate di prodotti cancerogeni in aria, nell’acqua e nella terra.(52) Ma Kouchner ha finito con l’essere guadagnato alla causa e le miniere sono state chiuse per “ragioni di salute”. Soros ha investito 150 milioni di dollari in uno sforzo per ottenere il controllo dell’oro, l’argento, il piombo, lo zinco e il cadmio di Trepca, che conferiscono a questa proprietà un valore di 5 miliardi di dollari.(53)
Al momento in cui la Bulgaria cadeva nel caos del “libero mercato”, Soros si accaniva a recuperare ciò che poteva dalle macerie, come la Reuters ha riportato all’inizio del 2001:
“La Banca europea di Ricostruzione e lo Sviluppo (BERD) ha investito 3 milioni di dollari presso RILA [una società bulgara specializzato nelle tecnologie di punta], la prima società a beneficiare di un nuovo credito di 30 milioni di dollari fissati con la BERD per sostenere le aziende di high-tech in Europa centrale e dell’Est. (…) Tre altri milioni di dollari venivano dai fondi statunitensi d’investimenti privati Argus Capital Partners, sponsorizzato dalla Prudential Insurance Company of America e operante in Europa centrale e dell’Est. (…) Soros, che aveva investito qualche 3 milioni di dollari presso RILA e un altro milione nel 2001 (…) rimaneva il detentore maggioritario.”(54)
Risolvere i Problemi
Le sue pretese alla filantropia conferiscono a Soros il potere di modellare l’opinione pubblica internazionale, quando un conflitto sociale solleva la questione di sapere chi sono le vittime e chi sono i colpevoli. In altre ONG, Human Rights Watch, i porta voce di Soros riguardo i diritti dell’uomo, evitano o ignorano la maggior parte delle lotte di classe operaie organizzate e indipendenti.
In Colombia, i dirigenti operai sono assai frequentemente assassinati dai paramilitari operanti di concerto con il governo sponsorizzato dagli USA. Causa il fatto che questi sindacati s’oppongono all’economia neo-liberale, HRW conserva a proposito di questi assassini un relativo silenzio. In aprile, José Vivanco, di HRW, ha testimoniato in favore del Plan Colombia davanti al Senato USA(55): “I Colombiani restano privi dei diritti dell’uomo e della democrazia. Hanno bisogno d’aiuto. Human Rights Watch non vede l’inconveniente che nel fornire tale aiuto siano gli USA.”(56)
HRW mette le azioni dei combattenti della guerriglia colombiana, che lottano per liberarsi dall’oppressione del terrore di stato, della povertà e dello sfruttamento, sullo stesso piano della repressione delle forze armate finanziate dagli USA e quelle degli squadroni paramilitari della morte, gli AUC (Forze colombiane unite d’autodifesa). HRW ha riconosciuto il governo di Pastrana e i suoi militari, il cui ruolo era di proteggere i diritti della proprietà e di mantenere lo statu quo economico e politico. Secondo HRW, il 50% dei morti civili sono opera degli squadroni della morte tollerati dal governo.(57). La percentuale esatta, in effetti, è dell’80%.(58)
HRW ha convalidato le elezioni nel loro insieme e l’avvneto al potere del governo Uribe, nel 2002. Uribe è un perfetto erede dei dittatori latino-americani che gli USA hanno sostenuto in passato, benché sia stato “eletto”. HRW non ha commentato il fatto che la maggioranza degli abitanti ha boicottato le elezioni.(59)
Nei Caraibi, Cuba è un altro oppositore al neo-liberalismo a essere demonizzato da Human Rights Watch. Nel vicino stato di Haiti, le attività finanziate da Soros hanno operato in modo di andare contro le aspirazioni popolari, che hanno fatto seguito alla fine della dittatura dei Duvalier, e hanno destabilizzato il primo dirigente haitiano, democraticamente eletto, Jean-Bertrand Aristide. Ken Roth, di HRW, ha utilmente abbandonato Aristide alle accuse USA di essere “antidemocratico”. Per propagandare le sue idee sulla “democrazia”, le fondazioni di Soros hanno tentato a Haiti delle operazioni complementari, assieme a quelle “inconvenienti” per gli USA, come la promozione dell’USAID di persone associate al FRAPH, i famosi squadroni della morte sponsorizzati dalla CIA e che hanno terrorizzato il paese dopo la caduta di “Baby Doc” Duvalier.(60)
Sul sito di HRW, il direttore Roth ha criticato gli USA per non essersi opposti alla Cina con più veemenza. Le attività di Roth comprendono la creazione del Tibetan Freedom Concert, un progetto itinerante di propaganda che ha effettuato una tournée negli USA con musicisti famosi del rock, spingendo i giovani a sostenere il Tibet contro la Cina.(61) Il Tibet è un progetto prediletto della CIA da molti anni.(62)
Recentemente, Roth ha reclamato con insistenza l’opposizione al controllo della Cina sulla sua provincia ricca, in petrolio, del Xinjiang. Con l’approccio colonialista del “dividere per conquistare”, Roth tentò di convincere certi membri della minoranza religiosa degli uiguri, nello Xinjiang, che l’intervento degli USA e della Nato in Kosovo costituiva una premessa in quanto modello per loro stessi. Già nell’agosto 2002, il governo USA aveva sostenuto altri simili tentativi.
Le intenzioni USA, a proposito di queste regioni, sono apparse chiaramente quando un articolo del New York Times sulla provincia di Xinjiang, in Cina occidentale, descriveva gli uiguri come una ” maggioranza musulmana vivente nervosamente sotto il dominio cinese”. “Sono ben al corrente dei bombardamenti sulla Jugoslavia della Nato, l’anno scorso, e certi li appoggiano per avere liberato i musulmani del Kosovo; immaginano di potersi liberare nello stesso modo qui”.(63) Il New York Times Magazine, da parte sua, notava che “recenti scoperte di petrolio hanno reso il Xinjiang particolarmente attraente agli occhi del commercio internazionale” e, allo stesso tempo, comparava le condizioni della popolazione indigena a quella del Tibet.(64)
Gli errori di calcolo
Quando le organizzazioni sorosiane fanno i conti, sembrano perdere ogni nozione di verità. Human Rights Watch affermava che 500 persone, e non 2.000, erano state uccise dai bombardieri della Nato durante la guerra in Jugoslavia, nel 1999.(65) Pretendono che 350 persone solamente, e non 4.000, erano morte negli attacchi USA in Afghanistan.(66) Quando gli USA bombardarono Panama nel 1989, HRW affermò nel suo rapporto che “l’arresto di Manuel Noriega (…) e l’installazione del governo democraticamente eletto del presidente Guillermo Endara portava grandi speranze in Panama(…)”. Il rapporto ometteva di menzionare il numero delle vittime.
Human Rights Watch ha preparato il terreno per l’attacco della Nato contro la Bosnia, nel 1993, con false accuse di “genocidio” e stupri di massa.>>(67) Tale tattica consisteva nel suscitare una isteria politica, necessaria affinché gli USA potessero condurre una loro politica nei Balcani. È stata riusata nel 1999 quando HRW operò come truppa d’assalto nell’indottrinamento per l’attacco Nato alla Jugoslavia. Tutto il bla-bla di Soros a proposito del regno della legge è stata dimenticata in un colpo. Gli USA e la Nato hanno imposto le proprie leggi e le istituzioni di Soros le hanno sostenute.
Il fatto di trafficare nelle cifre, alfine di generare una reazione, è stata una componente importante della campagna del Consiglio delle relazioni estere (CFR) dopo l’11 settembre 2001. Questa volta si trattava di 2.801 persone uccise nel World Trade Center. Il CFR si riunì il 6 novembre 2001 alfine di pianificare una “grande campagna diplomatica pubblica”. Il CFR creò una “Cellula di crisi indipendente sulla risposta degli USA al terrorismo”. Soros si univa a Richard C. Holbrooke, Newton L. Gingrich, John M. Shalikashvili (ex presidente dei capi di stato maggiore riuniti) e altri individui influenti, in una campagna mirante a fare delle WTC strumenti della politica estera USA. Il rapporto del CFR si mette in opera per facilitare una guerra contro il terrorismo. Si possono ritrovare le impronte di George Soros dappertutto, in questa campagna: “bisogna che gli alti funzionari USA spingano amichevolmente gli Arabi amici e altri governi musulmani, non solo a condannare pubblicamente gli attentati dell’11 settembre, ma ugualmente di sostenere le ragioni e gli obiettivi della campagna antiterrorista USA.
Noi dobbiamo convincere i popoli del Medio oriente e dell’Asia del Sud, della legittimità della nostra causa, se i loro governi restano silenziosi. Dobbiamo aiutarli a evitare i ritorni di fiamma che possono emanare tali dichiarazioni, ma dobbiamo convincerli d’esprimersi con voce viva. (…) Incoraggiate i musulmani bosniaci, albanesi e turchi a rivolgersi verso un pubblico estero per far rilevare il ruolo degli USA nel salvataggio dei musulmani di Bosnia e del Kosovo nel 1995-1999, affinché i nostri legami con i musulmani nel mondo intero siano più stretti e di lunga durata. Impegnate gli intellettuali e i giornalisti del paese a prendere la parola e a puntualizzare il proprio punto di vista. Informate regolarmente la stampa regionale in tempo reale per incoraggiare delle risposte rapide. (…) Insistete sulla necessità di fare riferimento alle vittime (e citate queste ultime per nome alfine di meglio personalizzarle) ogni volta che discutiamo dei nostri motivi e dei nostri obiettivi.”(68)
In Breve, le deficienze sorosiane nei calcoli servono a vantare e a difendere la politica estera USA.
Soros è assai infastidito per il declino del sistema capitalista mondiale e vuole fare qualche cosa a tale proposito, e ora. Recentemente, ha dichiarato: “posso già discernere i preparativi della crisi finale. (…) Dei movimenti politici indigeni sono suscettibili di ritenersi capaci di espropriare le società multinazionali e di riprendere possesso delle ricchezze ‘nazionali’.”(69)
Soros suggerisce seriamente al mondo un piano per sostenere l’ONU. Propone che le “democrazie del mondo dovrebbero prendere le redini e costituire una rete mondiale di alleanze che potrebbero lavorare con o senza l’ONU”.
Se l’uomo era psicotico, si potrebbe pensare che fosse in crisi, in quel momento preciso. Ma il fatto è che l’affermazione di Soros: “L’ONU è costituzionalmente incapace di compiere le promesse contenute nel preambolo della loro Carta” riflette il pensiero delle istituzioni reazionarie del tipo American Enterprise Institute.(70) Benché le menti conservatrici facciano riferimento alla rete di Soros come se fosse di sinistra, sulla questione dell’affiliazione degli USA all’ONU, Soros é esattamente sulla stessa lunghezza d’onda di gente come John R. Bolton, sottosegretario di stato per il Controllo delle Armi e gli Affari per la Sicurezza internazionale, così come, “molti repubblicani del Congresso, credevano che non si dovesse accordare alcun credito al sistema dell’ONU0”.(71) La destra condusse una campagna decennale contro l’ONU. Oggi, é Soros che l’orchestra. Su diversi siti web di Soros, si possono leggere delle critiche all’ONU che affermano che sia troppo ricca, che non desidera condividere la sua informazione, o che è così indebolita che non può fa girare il mondo nel modo appropriato, appropriato almeno secondo George Soros.
Gli stessi articolisti di The Nation, con la reputazione di saperla assai lunga, sono stati influenzati dalle idee di Soros. William Greider, per esempio, ha recentemente scoperto alcune pertinenze nella critica di Soros sull’ONU, affermando che non dovrebbe “accogliere dittatori da paccottiglia e totalitari ne trattarli da eguali”.(72) Questo tipo di razzismo eurocentrico costituisce il nucleo dell’orgoglio smisurato di Soros. Quando afferma che gli USA possono e dovranno dirigere il mondo, è un sostenitore del fascismo mondiale. Da troppo tempo, i ” progressisti” occidentali hanno dato carta bianca a Soros. È probabile che Greider e gli altri trovino che l’allusione al fascismo sia eccessivo, ingiustificato e anche insultante.
Ma ascoltate, piuttosto, con orecchio attento, ciò che lo stesso Soros dice: “Nell’antica Roma, solo i Romani votavano. Sotto il capitalismo mondiale moderno, solo gli statunitensi votano. I Brasiliani, no. “(73)
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73. ” The Dictatorship of Financial Capital “, Federation of Social and Educational Assistance (FASE), Brazil, 2002, <http://www.fase.org.br/>
L’AUTRICE
Heather Cottin è scrittrice, militante politica per tutta la sua vita, è professoressa di storia in una scuola superiore, ora in pensione. Vive a Freeport, NY e, per molti anni, è stata la compagna dello studioso e militante Sean Gervasi, oggi deceduto.
Tradotto dall’inglese (al francese) a Jean-Marie FLEMAL
Traduzione di Alessandro Lattanzio
Email: alexlattanzio@yahoo.it
URL: http://www.aurora03.da.ru
http://www.resistenze.org/sito/os/mp/osmp4d11.htm
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Trivellazioni petrolifere, la Cgil siciliana: “La Sicilia non è il Texas” 11.09.2010
Anche la Cgil regionale siciliana contro la nuova ondata di trivellazioni, a terra come a mare, nel territorio siciliano. In una nota stampa, infatti, il responsabile del Dipartimento Energia e Ambiente del sindacato, Alfio La Rosa, puntualizza che la Cgil ha cambiato rotta e indirizzo rispetto al passato: al ricatto “più petrolio o meno occupazione”, in pratica, i sindacalisti non ci credono più:
Il Sindacato non può e non potrà accettare il ricatto tra la tutela dell’ambiente ed il mantenimento dell’occupazione, soprattutto, se proviene da aziende che hanno e continuano a sfruttare ampiamente le risorse del territorio, senza procedere al completamento delle bonifiche del terreno e delle acque inquinate.
Il riferimento, per chi non l’avesse capito, è all’Eni che, nonostante i piani aziendali e i soldi stanziati dal Ministero dell’Ambiente ancora non fa le bonifiche a Gela e in altri siti industriali siciliani di sua competenza. Posizione, tuttavia, poco ideologica e molto pratica perchè subito stemperata da un ritorno alla realtà dei fatti:
Naturalmente, con la produzione e lo sfruttamento di idrocarburi dovremo convivere ancora per parecchio tempo, ma dobbiamo agire con l’obiettivo di ribaltare la produzione siciliana ancor oggi troppo legata al petrolio ed al gas, pertanto non va criminalizzata ogni tipo di trivellazione, sia per quelle già operanti o per altre che possono essere attivate, purché non creino danni e garantiscano la tutela dei beni culturali ed ambientali del territorio
Non manca un accenno alle posizioni ballerine del governatore siciliano Raffaele Lombardo, che recentemente ha lamentato la scarsa resa economica per i siciliani delle trivellazioni petrolifere:
Chiediamo al governo siciliano di essere coerente con le posizioni assunte in questi giorni e pertanto di procedere alla riscrittura del Piano Energetico ed Ambientale Regionale talmente contraddittorio che – nella stessa Deliberazione di approvazione del Piano (n.1 del 3 febbraio 2009) – da una parte promuove le fonti rinnovabili e dall’altra in una delle linee guida stabilisce di “assicurare lo sfruttamento degli idrocarburi”
Tutto ciò, continua la Cgil, partendo dai dati: di petrolio in Sicilia ce n’è poco ed è assai sporco (in pratica estrarre petrolio nell’isola serve solo a giustificare economicamente il mantenimento di raffinerie come quelle di Gela):
I pozzi di petrolio e di gas scoperti in Sicilia erano e sono relativamente modesti, molto frammentari spesso situati a grandi profondità oppure offshore, misera cosa rispetto ai giganteschi giacimenti asiatici o anche rispetto alla minima quantità di produzione nazionale: nel 2009 la produzione di idrocarburi in Sicilia sul totale nazionale (dati aggiornati al 30/09/2009) era pari al 12,5% di olio greggio e 4,1% di gas naturale. A fronte di uno sfruttamento che dura da 60 anni, i siciliani ricevono a tutt’oggi pochissimo rispetto ai guasti pagati in termini ambientali. Impensabile e fuorviante è per la CGIL, con questi dati, pensare di riproporre ancora una volta un vecchio slogan da usare per lanciare una nuova corsa all’oro nero, “la Sicilia come il Texas”.
E poi una bella stoccatina nei confronti di Vittorio Sgarbi, che qualche giorno fa aveva detto di preferire il petrolio all’eolico e al fotovoltaico:
Al Sindaco di Salemi che si dichiara a favore delle trivellazioni profetizzando un futuro di ricchezza per la Val di Mazara, consigliamo di rileggere gli ultimi sessant’anni di storia siciliana, quando nell’area iblea nacque il sogno industriale economico, incentrato sui combustibili fossili e che oggi evidenzia sempre più evidenti guasti all’ambiente e alla salute delle popolazioni residenti
Via | Comunicato stampa
Foto | Flickr
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12/09/2010 – LUTTO NEL MONDO DEL CINEMA
Addio al regista Claude Chabrol
Il protagonista della Nouvelle Vague si è spento a 80 anni
PARIGI
Appena 10 anni fa sedeva nella giuria di quella Mostra di Venezia che non ha fatto in tempo a dedicargli l’ultimo hurrah durante la serata conclusiva di ieri. Se n’è andato in silenzio, l’ottantenne Claude Chabrol e la notizia, divulgata dal Comune di Parigi, colpisce oggi a sorpresa la comunità del cinema che fatica a credere che non ci sia più quel vitalissimo, ironico, istrionico gentiluomo capace di battute al vetriolo («non esistono novelle vagues, le onde si succedono le une alle altre ed esiste solo il mare»), raffinate bevute («il vino è come le donne della mia vita, tutti e due migliorano invecchiando»), film memorabili, divertenti e feroci. Era nato a Parigi il 24 giugno del 1930, figlio di un farmacista, tipico esponente di una piccola borghesia dai valori calvinisti e dal gusto dei piccoli piaceri. Aveva il cinema nel sangue visto e cominciò a fare il proiezionista in una cantina a 12 anni. Poco più che ventenne cominciava a scrivere dei suoi film preferiti e a frequentare la Cineteca Nazionale di Henri Langlois, animando tra i primi la nuova rivista sulla cresta dell’onda, i «Cahiers du Cinèma» e cementando un’amicizia di ferro con il professor Jean Marie Maurice Scherer (in arte Erc Rohmer). Insieme i due sbarcarono a Cannes una primavera del 1956 per incontrare il loro idolo, Alfred Hitchcock con il sogno di intervistarlo. Il risultato fu la biografia commentata che nel 1957 mise a rumore l’editoria parigina e segnò lo stile dei «giovani turchi» della Nouvelle Vague. A questo movimento Chabrol si era iscritto con entusiasmo non nascondendo il desiderio di passare a sua volta dietro la macchina da presa. Cosa che faceva, l’anno dopo, fondando una casa di produzione insieme a Jacques Rivette grazie ai soldi della prima moglie, la benestante Agnès.
Il primo risultato porta la data del 1958 ed è il folgorante «Le beau Serge» premiato con il Pardo d’Argento a Locarno. Celebrato fin da subito come «figlio prodigio» di un nuovo cinema francese attento agli umori e alle inquietudini della nuova generazione, Chabrol si conferma cineasta di statura internazionale vincendo nel 1957 l’Orso d’oro di Berlino con «Les cousins», ma incappa subito dopo in una sequela di disastri commerciali. È il caso di «A doppia mandata» e «Landru» realizzati all’inizio degli anni ’60. A un passo dalla rovina, usa tutto il suo fascino per convincere moglie e finanziatori a sostenerlo in un repentino cambio di traiettoria: mette mano alla sua passione di giallista e scrive insieme all’attrice Stephane Audran (che diverrà poi sua moglie e musa fedele di una vita) il copione di «La Tigre ama la carne fresca». È una sorta di parodia dei film spionistici alla James Bond e conquista un fulmineo successo commerciale nel 1964, l’anno di un’altra pellicola molto amata, «Marie Chantal contro il dottor Kha», interpretata da Marie Laforet che esce nel ’65.
Lo stile e i precetti della Nouvelle Vague sono ormai dietro le spalle ma per tutta la vita Claude Chabrol non smentirà la sua appartenenza al movimento, pur senza risparmiarsi puntute ironie per i compagni di strada, Godard in testa. Contribuisce ai fermenti ribellisti del ’68 con «Les Biches» (scandaloso ritratto della libertà sessuale) e con lo spietato «Stèphane, una moglie infedele» in cui avvia la sua crudele radiografia dei vizi privati della borghesia. È proprio questa la costante espressiva di tutto il suo cinema che spesso ammanta il racconto di giallo e di noir per dare interesse a un’analisi sociologica senza speranza. Sono molti, negli anni ’70, i titoli di qualità: da «10 incredibili giorni» a «Rosso nel buio» ma è con «Violette Nozière» (1978) che ritrova insieme i favori di critica e pubblico lanciando Isabelle Huppert che conquista la giuria del festival di Cannes. Il film apre la grande stagione della maturità di Chabrol che ritroverà la sua nuova stella in moltissimi film, fino a «La commedia del potere» del 2006, passando per una memorabile «Madame Bovary» del 1991. Sul piano del giallo e del noir coglie intanto grande successo con il sodalizio con Michel Serrault («I fantasmi del cappellaio» da Simenon) e Jean Poiret («L’ispettore Lavardin») poi portato anche in tv sul finire degli anni ’80.
La sua critica sociale, intinta nelle atmosfere rarefatte del giallo quasi alla Agatha Christie, si conferma in pellicole come «Il buio nella mente» (1995) e «Grazie per il cioccolato» (2000) che aprono il decennio più recente e accompagnano Chabrol fino alle sue ultime prove, a quell’elegante saggio di recitazione che è il recente «Bellamy» interpretato dal complice di mangiate e bevute Gèrard Depardieu nel 2009 (Festival di Berlino). Premiato meno di quanto meritasse, onorato da un Premio EFA del cinema europeo solo nel 2003, Claude Chabrol era nella vita privata un uomo mite, dallo sguardo dolce dietro gli spessi occhiali da miope e dotato di un fascino irresistibile, alimentato dall’intelligenza vivida e dalla battuta pronta. «Sono sempre stato comunista – ha detto una volta – ma non per questo passo tutto il mio tempo a descrivere la povera gente che muore di fame». Dal suo maestro Hitchcock aveva preso il gusto di apparire nei suoi film, cosa che fece puntualmente dal 1958 al 2003. Lascia la terza moglie, Aurore, sposata dopo il divorzio da Stèphane Audran che restava però la sua amica più cara. Era Presidente del Festival del Cinema Poliziesco di Beaune, gemellato con il Courmayeur Noir in Festival che gli aveva reso un omaggio nel 1991.
http://www3.lastampa.it/spettacoli/sezioni/articolo/lstp/322552/
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Basilea 3/ La riforma che corazza le banche 12.09.2010
Una montagna di risorse con cui rafforzare la solidità delle banche, e renderle capaci di attraversare in maniera sicura le fasi di tensione dei mercati e crisi, ma anche molto tempo per reperire questi fondi. Sono gli aspetti chiave su cui per settimane si sono focalizzate le serrate trattative tra autorità di vigilanza sul settore creditizio dei paesi del G20, alla ricerca di un accordo su nuovi parametri regolamentari mondiali, battezzato Basilea III e che oggi vede tutti riuniti proprio nella città elvetica, presso la Banca dei regolamenti internazionali
Bisognava decidere come ricalibrare i requisiti chiave imposti alle banche nella loro attività, che soprattutto vengono misurati dal rapporto tra patrimonio di vigilanza, ovvero i fondi su cui una banca può maggiormente contare in una fase di necessità, rispetto al totale delle sue attività, ponderate per tener conto delle effettive caratteristiche di rischio. Indirettamente questa riforma, che nella sua rigorosità sui requisiti impiegherà comunque molto tempo per entrare pienamente a regime, metterà tutte le maggiori banche mondiali sullo stesso piano, e in questo modo potrebbe risultare vantaggiosa per le istituzioni italiane.
Le banche ne usciranno magari meno redditizie, ma anche molto più solide e sicure. Diversi osservatori hanno definito questa come la riforma più rilevante seguita alla crisi mondiale.
COME SI MISURA LA SOLIDITA’ DI UNA BANCA
L’aspetto primario che è stato toccato è innanzitutto la definizione e la consistenza del patrimonio di vigilanza, misurato in rapporto alle attività della banca. Si rileva in base a quello che nel gergo tecnico viene indicato come “ratio Tier 1”. Misura la consistenza del patrimonio di base, ritenuto di qualità più elevata, ossia il capitale proprio, le riserve accantonate dagli utili e alcuni limitati strumenti ibridi. Vi è poi il patrimonio supplementare, “ratio Tier 2”, che include anche strumenti di qualità ritenuta meno buona. Come denominatore si usano le attività della banca ponderate in base ai loro aspetti di rischio, come i crediti erogati eccetera.
Finora il patrimonio totale di una banca doveva risultare pari ad almeno l’8 per cento delle attività, ma almeno per la metà doveva essere composto da quello di migliore qualità, il Tier 1. Ne risultava che il requisito minimo sul ratio Tier 1 era del 4 per cento. Inoltre, era anche previsto che all’interno di questo Tier 1 le attività ibride autorizzate non superassero la metà, e da questo risultava che capitale e riserve, la ‘core equity’ dovesse essere pari ad almeno il 2 per cento delle attività della banca.
COSA CAMBIA
Basilea 3 punta a rafforzamenti significativi di questi parametri di base tramite tre principali modifiche. La prima riguarda tecniche di misurazione del rischio più rigorose, quindi si agisce sulla mole del denominatore, e in parte su questo fronte gli accordi erano stati già raggiunti nei mesi scorsi. Poi c’è il cruciale aumento della qualità nel patrimonio di vigilanza. A riforma saranno ammissibili solo gli strumenti ritenuti migliori, verso un ‘common equity’ e le deduzioni previste sono più stringenti. In pratica, ciò che finora valeva 100 euro ai fini regolamentari con la riforma varrà meno, progressivamente. Questi aspetti erano già stati chiariti, ma restava da decidere la parte più controversa, quella sulla ricalibratura degli stessi rapporti, a cominciare da Tier 1.
In questo versante la riforma opera su due canali. Il primo è la ricomposizione del patrimonio di vigilanza volta ad aumentare la quota di strumenti ritenuti migliori, capitale e riserve, quella che finora risultava prevista come minimo al 2 per cento delle attività. L’altro canale, altrettanto problematico è nell’introduzione di ulteriori cuscini (o ‘buffer’) supplementari fissi, che finora esistevano solo in linea di principio ma senza una specifica quantità. Ora invece i buffer saranno specifici e rigidi. Posto che una banca deve ovviamente rispettare i requisiti di patrimonializzazione minimi, le autorità vogliono evitare che vi si avvicini pericolosamente e così impongono questi altri livelli supplementari. Per disincentivare le banche a finire in prossimità della zona allarme, a chi si riduca sotto i buffer supplementari vengono inibite le possibilità di erogare dividendi, cosa che infastidisce gli azionisti, e di erogare i bonus, quindi gli stessi manager sono incentivati a non operare in queste condizioni.
(Apcom)
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15734
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La scure Rai su “Buongiorno Europa” 12.09.2010
Dal 13 settembre 2010 il nuovo palinsesto della Rai prevede la chiusura della storica trasmissione dedicata interamente all’informazione europea
Apprendiamo con sorpresa che dal 13 settembre 2010 il nuovo palinsesto della Rai prevede la chiusura di “Buongiorno Europa”, storica trasmissione dedicata interamente all’informazione europea.
Riteniamo tale decisione estremamente grave. Se confermata, essa ridurrà ulteriormente i diritti all’informazione in Italia, una situazione negativa attestata dall’organizzazione indipendente Freedom House che pone il nostro paese al 72° posto nella graduatoria del 2010 al pari di Benin, Hong Kong e India giudicati paesi solo “parzialmente liberi”.
Rileviamo che, nonostante il fatto che l’Unione Europea giochi un ruolo sempre più importante nella vita dei cittadini europei e dunque italiani, le notizie sull’Europa trovano invece pochissimo spazio nei media e sulla stampa in Italia. A tal riguardo l’Osservatorio di Pavia in un monitoraggio condotto su un campione di ventuno emittenti radiotelevisive ha rilevato che il tempo dedicato alle notizie relative all’Ue è solo il 3 per cento del totale monitorato e che Rai3 è stato il canale più impegnato nel diffondere informazioni sull’Europa.
E’ probabilmente superfluo ricordare che l’Italia è un paese membro fondatore dell’Ue e che è essenziale che i suoi cittadini siano correttamente ed adeguatamente informati sul ruolo dell’Europa in Italia e sul ruolo dell’Italia in Europa.
Il Presidente Napolitano ha recentemente ribadito che “è giunto per tutti il momento di riconoscere che nessuno Stato europeo, nemmeno i più forti e i più ricchi di tradizioni storiche, persino imperiali, nemmeno i più ricchi ed economicamente avanzati, nessuno potrà con le sue sole forze contare come nel passato se non contribuendo a costruire un’Europa più unita, efficiente e dinamica;” e che “ci vuole però una nuova generazione di leader che abbia visione e coraggio per portare avanti l’integrazione di cui abbiamo assoluto bisogno. Questa generazione di leader non può nascere per miracolo ma solo grazie ad una vasta mobilitazione della società civile e politica”.
Tenuto conto che la società civile e quella politica non possono formarsi in un contesto in cui l’informazione sia ridotta, parziale e non plurale, chiediamo che la trasmissione “Buongiorno Europa” venga mantenuta nel palinsesto della Rai.
Primi firmatari:
Paolo Acunzo, vicesegretario Movimento Federalista Europeo (MFE)
Vittorio Agnoletto, ex parlamentare europeo
Giovanni Allegretti, Università di Coimbra
Giorgio Anselmi, Segretario MFE
Tobia Bassanelli, Webgiornale – Notiziario della comunità italiana in Germania
Paolo Beni, Presidente ARCI
Brando Benifei, Vicepresidente ECOSY
Gian Franco Benzi, Direttivo Tavola della Pace
Raffaella Bolini, Vicepresidente Forum Civico Europeo
Giuseppe Bronzini, Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa
Alessandro Cavalli, Eustory
Raffaella Chiodo Karpinsky, Coordinatrice Sdebitarsi
Chiara Cipolletta, Presidente Gioventu’ Federalista Europea
Lisa Clark, Beati i Costruttori di Pace
Eliana Capretti, Francesca Lacaita, Cristina Ronzitti, MFE
Pier Virgilio Dastoli, Consigliere per gli affari europei del Presidente della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome
Alex Foti, Euromayday
Monica Frassoni, Presidente Verdi Europei
Maurizio Gubbiotti, Responsabile Dipartimento Internazionale Legambiente
Carlo Gubitosa, PeaceLink
Lucio Levi, Presidente MFE
Lorenzo Marsili, European Alternatives
Francesco Martone, Comitato scientifico SEL
Guido Montani, Vicepresidente Union of European Federalists
Domenico Moro, Direttore Istituto di Studi Federalisti Altiero Spinelli
Roberto Musacchio, SEL
Liana Novelli Glaab, Presidente Coordinamento Donne Italiane di Francoforte
Roberto Palea, Presidente Centro Einstein Studi Internazionali
Carla Ronga, Direttrice Paneacqua
Raffaele Salinari, Presidente Terre des Hommes International
Alessandra Tarquini, Onu – Campagna del Millennio
Nicola Vallinoto, World Federalist Movement
Simone Vannuccini, Segretario Gioventu’ Federalista Europea
Per informazioni sull’appello e adesioni: cell. +39.347.0359693, email: ufficiostampa@mfe.it
Il Movimento Federalista Europeo (www.mfe.it)
Il Movimento Federalista Europeo è stato fondato a Milano il 27-28 agosto 1943 da un gruppo di antifascisti raccolti intorno ad Altiero Spinelli. I principi sulla base dei quali esso è nato sono contenuti nel Manifesto di Ventotene, elaborato nel 1941 dallo stesso Spinelli, con la collaborazione di Ernesto Rossi e Eugenio Colorni. L’analisi e le proposte politiche contenute nel Manifesto si basano sulla presa di coscienza della crisi dello stato nazionale – ritenuto la causa principale delle guerre mondiali e dell’affermazione del nazifascismo – e sulla convinzione che solo il superamento della sovranità assoluta degli Stati attraverso la creazione di una Federazione europea avrebbe assicurato la pace in Europa. L’MFE si differenzia radicalmente dai modelli normali di organizzazione politica, i partiti e i gruppi di pressione. Diversamente dai gruppi di pressione, che cercano solo vantaggi particolari per gruppi particolari senza modificare necessariamente l’assetto dei poteri costituiti e a differenza dei partiti, che hanno come quadro privilegiato di azione il quadro nazionale, l’MFE esercita un’iniziativa politica autonoma rivolta alla fondazione di uno Stato nuovo, la Federazione europea.
Il 21 maggio 2006 in occasione della sua prima visita ufficiale a Ventotene il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano dichiarò che “per rilanciare l’idea di Europa c’è bisogno dell’impulso dei giovani, il cui sentire europeo si è fatto naturale e profondo, e nell’avanguardia della Gioventù Federalista Europea ( la sezione giovanile del Movimento Federalista Europeo) la molla più forte”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15728
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Scoperte varianti genetiche miopia, occhiali addio 13.09.2010
Addio fastidiose lenti o occhiali da vista. Tra meno di 10 anni potrebbe essere disponibile un nuovo collirio o farmaco in grado di prevenire e curare la miopia, bloccando la crescita distorta del bulbo oculare.
Un gruppo internazionale di ricercatori ha scoperto le varianti genetiche responsabili della condizione. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista ‘Nature Genetics‘.
La miopia è un fenomeno relativamente nuovo ma in forte crescita. L’aumento del processo di urbanizzazione e la crescita dei livelli di istruzione sta provocando una vera e propria ‘epidemia‘ in alcune parti del mondo. Circa un terzo delle persone in Gran Bretagna è miope, e in Estremo Oriente è un problema ancora più grande. In Giappone due terzi degli adolescenti sono già miopi e a Singapore, l’80% dei 18enni maschi reclute dell’esercito sono miopi, contro il 25% di 30 anni fa.
Ora questo nuovo studio, che ha coinvolto migliaia di persone in tutto il mondo, ha cercato di individuare i geni associati con la miopia.
Ebbene, i ricercatori hanno trovato una serie di variazioni del gene ‘RasGRF1‘, che è associato con la crescita degli occhi, che sembrano fortemente legati alla miopia, sia nel prevenirla sia nella cura.
I ricercatori ora sperano di poter identificare esattamente come influenzano la crescita dell’occhio e quindi sviluppare una terapia efficace. In questo modo gli scienziati dovrebbero essere in grado di prevenire la distorsione del bulbo oculare e di curare il disturbo.
“Non è abbastanza per la fine degli occhiali, ma chiaramente la speranza è che (un giorno) saremo in grado di bloccare i percorsi di genetica che causano la miopia“, ha detto Christopher Hammond del King’s College di Londra, uno degli autori dello studio. “Sarà una sfida – ha concluso – e prima di almeno 10 anni prima non ci sarà nessun trattamento“.
Per approfondire:
La salute degli occhi: gli italiani e la vista
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Il nucleare ucciderà il progetto Desertec? Primi problemi in Algeria e Germania 14.09.2010
Brutte notizie per il progetto Desertec, il grande (forse troppo) sogno di fornire il 15-20% dell’energia elettrica consumata dall’Europa tramite una immensa distesa di pannelli solari (in gran parte termodinamico collegato a centrali a ciclo combinato a gas o a carbone) installati in Nord Africa.
Due paesi cardine del progetto, l’Algeria e la Germania, potrebbero uscirne a breve. Ma con motivazioni diverse. La Germania non avrebbe un grande entusiasmo nel portare avanti il Desertec per questioni probabilmente economiche e non lo ha inserito nelle linee guida del proprio piano energetico nazionale, recentemente anticipate alla stampa e a agli addetti al settore energia. E, va detto, la Germania avrebbe dovuto essere uno dei maggiori contribuenti dal punto di vista economico.
L’Algeria, invece, farebbe resistenza sia dal punto di vista economico che politico perchè non si vuole trovare con una enorme distesa di pannelli solari di proprietà di investitori esteri sul proprio territorio, temendo di perderne in sovranità territoriale. Per quanto riguarda i costi, invece, a quanto pare preferisce spendere nel nucleare civile, tecnologia per la quale ha già stretto accordi di collaborazione con Francia, Stati Uniti, Cina e Argentina.
La defezione di due dei paesi più importanti del progetto Desertec, a questo punto, potrebbe letteralmente ammazzarlo nella culla. Forse, però, si tratta (o si trattava) di un progetto troppo grande e troppo complesso da gestire sia dal punto di vista economico che, soprattutto, politico.
Via | La Nuova Ecologia, Ecquo
Foto | Desertec Foundation
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Costruita con la luce la ‘molecola elettronica’ 15.09.2010
Due elettroni intrappolati nello spazio di pochi nanometri all’interno di un nanocristallo semiconduttore. A eseguire per la prima volta la misura della loro configurazione, definita di ‘molecola elettronica’, del tutto analoga a quella di una molecola biatomica, un team di ricerca internazionale che ha coinvolto Vittorio Pellegrini del Laboratorio Nest-Cnr e della Scuola Normale Superiore di Pisa e Massimo Rontani del Centro S3-Cnr di Modena (due strutture di ricerca confluite assieme al Centro Nnl di Lecce nel nuovo Istituto di nanoscienze del Cnr), in collaborazione con colleghi della Columbia University e dei Bell Laboratories.
Il risultato è stato ottenuto grazie a una nuova tecnica per controllare il numero di elettroni all’interno dei punti quantici (nanocristalli semiconduttori: illuminando questa ‘nanotrappola’ con un fascio di luce laser, i ricercatori hanno potuto rimuovere o aggiungere gli elettroni, uno alla volta. Con questa tecnica ultraprecisa ne sono stati isolati due soli misurando le loro energie: calcoli teorici eseguiti dai ricercatori di Modena hanno poi chiarito che all’interno della nanotrappola questi elettroni si muovono con moto vibratorio del tutto analogo a quello che si osserva per gli atomi di una molecola biatomica.
Gli elettroni confinati in un nanocristallo sono di grande interesse per la computazione quantistica, per questo la sfida è manipolarli con precisione. “Precisione che solitamente si ottiene con metodi elettrici”, spiega Vittorio Pellegrini, che ha curato la parte sperimentale, “con l’inconveniente però che un cristallo di pochi nanometri raggiunto da contatti elettrici viene inevitabilmente ricoperto da strati di metallo. Il nostro metodo ha la stessa capacità di rimuovere un singolo elettrone ma non è invasivo: la manipolazione con la luce lascia intatti i nanocristalli e questo rende più facile studiare le proprietà degli elettroni confinati all’interno”.
La ‘molecola elettronica’ è uno stato predetto dalla teoria ma finora mai misurato direttamente. “Il moto degli elettroni confinati è dettato dalla combinazione di due effetti che tende a farli stare lontani, dovuta alle cariche negative che si respingono, e il confinamento nella nanostruttura che al contrario il costringe vicini”, commenta Massimo Rontani del Centro S3 di Modena che ha curato invece la parte teorico-computazionale della ricerca. “Il risultato è che gli elettroni oscillano con uno moto vibrazionale classico, come se fossero collegati da una molla. Il nostro studio è la prima misura di queste energie vibrazionali fondamentali di una molecola elettronica”.
Fonte: Maddalena Scandola , Istituto Nanoscienze del Cnr – Responsabile Comunicazione, tel. 059/2055329, email maddalena.scandola@unimore.it
Per saperne di più: – www.nano.cnr.it
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Le grandi imprese/8 di Vincenzo Comito
Il segreto della Nutella 14.09.2010
Michele Ferrero ha superato persino Berlusconi nella top ten di Forbes sui più ricchi d’Italia. Viaggio nei conti della sua società, multinazionale di famiglia con sede in Lussemburgo, distributrice di ricchissimi dividendi. Una storia per molti aspetti misteriosa e piena di paradisi fiscali
La Ferrero è una società che tende ad essere gestita in modo molto appartato e riservato; ciononostante è salita in tempi relativamente recenti, sicuramente contro la volontà dei suoi responsabili, all’onore delle cronache finanziarie per almeno tre volte: intanto le ultime classifiche della rivista Forbes sugli uomini più ricchi del mondo hanno individuato in Michele Ferrero, l’attuale capo della dinastia imprenditoriale, l’uomo più ricco d’Italia, con un patrimonio personale stimato in 13 miliardi di euro, sopravanzando tra l’altro per ricchezze lo stesso Silvio Berlusconi; inoltre, la società è stata valutata dal Reputation Institute, sulla base di una indagine a livello mondiale, come l’impresa con il marchio più affidabile e con la migliore reputazione al mondo, secondo almeno i consumatori dei vari paesi, superando nella gara nomi molto reputati, come Ikea e Jonhson & Johnson; infine, i media internazionali hanno posto i riflettori sul gruppo in occasione della cessione sul mercato della britannica Cadbury, operante nello stesso settore dell’impresa piemontese, occasione nel quale la Ferrero, che peraltro è sempre cresciuta sino ad oggi soltanto per linee di sviluppo interne, è sembrata essere per un momento interessata ad entrare nell’affare. L’impresa è stata poi acquisita dall’americana Kraft Foods.
Quella sede in Lussemburgo
Si contano forse soltanto sulle dita di due mani le grandi società internazionali che hanno la sede principale in un paradiso fiscale. Accanto agli indubbi vantaggi societari di una tale possibile collocazione, sta però il fatto che, in generale, le grandi imprese hanno bisogno degli stati di appartenenza per molti ed ovvi motivi e quindi non ricorrono in genere a tale espediente. Evidentemente la famiglia Ferrero ha giudicato altrimenti. Oggi il gruppo Ferrero fa capo alla holding Ferrero International, che è domiciliata nel Lussemburgo ed è nata nel 1997 come Ferrero Luxembourg. Come ha affermato qualcuno già diversi anni fa, chi ha delle società nel Lussemburgo ha in genere qualcosa da nascondere. E’, tra l’altro, sembrato, nel pieno della crisi in atto, che le grandi potenze del mondo volessero finalmente e seriamente combattere i paradisi fiscali del pianeta ma, dopo qualche mossa che è apparsa andare in quella direzione, tutto ora tace e il Lussemburgo tira un sospiro di sollievo.
Di recente è stata costituita, sempre nel granducato e sempre all’interno del gruppo, anche un’altra società, controllata dalla prima, che dovrebbe svolgere la funzione di banca interna, raccogliendo tra l’altro denaro dalle società in surplus e prestandolo invece a quelle in deficit finanziario, nonché effettuando, quando necessario, un ruolo di provvista anche all’esterno, per le imprese del sistema, come del resto avviene nella gran parte dei grandi gruppi.
Invece il patriarca, Michele Ferrero, cui fa capo sostanzialmente l’intero pacchetto azionario di controllo e che ormai supera gli 85 anni di età, vive a Monaco, da dove dirige gli affari del gruppo, concentrandosi in particolare, con una attenzione persino maniacale, come riportano le cronache, sulla messa a punto dei nuovi prodotti, di frequente irripetibili e molto difficili da copiare da parte della concorrenza; così tale attività appare una chiave di volta strategica del successo della società. A Monaco è anche collocata la Fedesa, una misteriosa cassaforte di famiglia. Altri siti sociali sono domiciliati in altri paesi paradisi fiscali, ma è difficile distinguere quanto essi vi svolgano delle funzioni per così dire fiscal-societarie e quanto invece delle normali attività operative legate alla distribuzione dei prodotti.
Dei due figli che assistono Michele Ferrero nelle attività del gruppo, l’uno, Pietro, cura la produzione e l’amministrazione da Alba, in provincia di Cuneo, l’altro, Giovanni, segue invece la gestione commerciale sempre dal Lussemburgo, da dove coordina anche l’attività delle diverse unità sparse per il mondo.
Quando richiesti di spiegare perché la sede centrale del gruppo sia collocata proprio nel Lussemburgo, i membri della famiglia di solito rispondono che nell’area del Centro-Europa, dove è collocato il paese, si riscontra la maggiore intensità di consumo di cioccolato e di prodotti “fuori pasto dolce”, mentre nella stessa zona si collocano i distributori principali del settore, che applicano le più moderne tecnologie di marketing e di distribuzione. Così la Ferrero può disporre, sempre a detta dei membri della famiglia, di una prospettiva privilegiata sul mondo dei consumi dolciari, anziché lavorare in un’ottica soltanto italiana.
Ma questa appare soltanto la versione ufficiale della storia; accanto a tale motivazione bisogna ovviamente aggiungere i vantaggi fiscali e societari di una tale collocazione, nonché un certo distacco che la famiglia, e in particolare Michele Ferrero, vuole mantenere rispetto agli ambienti politici ed affaristici del nostro paese; risale ormai a molti anni fa, al 1985, lo sgradevole episodio della partecipazione della società alla cordata messa in piedi a suo tempo da Berlusconi per contrastare la conquista della Sme da parte di De Benedetti. Da allora la presenza della società nel nostro paese si è fatta sentire molto poco. L’unico contatto “istituzionale” rilevante con l’Italia sembra essere oggi costituito dal possesso dello 0,68% del capitale di Mediobanca; per altro verso, Pietro Ferrero, che era presente nel consiglio di amministrazione dell’Istituto, ne è uscito nell’ottobre del 2009 per motivi ufficialmente relativi agli impegni di lavoro nella sua azienda.
Naturalmente il gruppo non ha mai voluto quotarsi in borsa; non si vede peraltro quale avrebbe potuto essere un qualche possibile vantaggio di una tale decisione.
Cioccolato d’oro
La società è stata fondata ad Alba nel 1942; essa opera da allora nel settore dei prodotti dolciari ed affini ed ha presto conosciuto uno sviluppo molto importante. Il primo stabilimento estero è stato aperto già nel 1956 in Germania, mentre il primo insediamento francese è del1968. Attualmente il gruppo Ferrero, dopo il recente assorbimento della Cadbury da parte della Kraft Foods, è il quarto complesso dolciario a livello mondiale come dimensioni, dopo la svizzera Nestle, nonché la stessa Kraft foods e la Mars, entrambe statunitensi.
Il gruppo, che ha raggiunto un fatturato di circa 6,5 miliardi di euro nell’esercizio 2008-2009, con una crescita del 2,1% rispetto all’anno precedente, occupa oggi circa 22.000 dipendenti nel mondo, con una ventina di stabilimenti sparsi nei vati continenti. Due di essi sono collocati nel Meridione.
La società ha registrato, sempre nell’esercizio 2008-2009, un profitto di 508 milioni di euro- con un incremento di circa il 40% rispetto all’esercizio precedente, dopo averne pagati circa 200 di tasse, con un rapporto pari al 40% rispetto agli utili netti. Da rilevare come, ad esempio, una società come l’Eni, che pur avrà adottato plausibilmente adottato qualche accorgimento per ridurre al massimo il suo carico fiscale, ha avuto invece negli ultimi anni un rapporto tra imposte e utile netto che si aggira intorno al 100%. Il Lussemburgo servirà dunque a qualcosa.
Al di là di questo ultimo aspetto, bisogna in generale considerare che la società presenta un andamento complessivo molto positivo da parecchio tempo; essa ha superato in maniera sostanzialmente indenne tutte le crisi, mostra una redditività elevata e flussi di cassa rilevanti, rappresentando certamente una delle più importanti storie di successo imprenditoriale del nostro paese.
Così le cose per la famiglia Ferrero non vanno proprio male.
Ad esempio, dal 2000 al 2003 essa ha incassato dal gruppo dividendi per 1.426 milioni di euro e interessi attivi per 150; alla fine del 2001, tra l’altro, la Ferrero International ha deliberato, ma non eseguito, la distribuzione di un dividendo di 1.833 milioni; con questa mossa la holding si è trovata con un debito di pari importo verso l’azionista, cui ha dovuto quindi riconoscere degli interessi pari ogni anno a circa 100 milioni di euro. In totale quindi possiamo registrare nel periodo considerato una somma deliberata a favore degli azionisti pari a circa 3,4 miliardi di euro (Mucchetti, 2004).
Tra il 2003 e il 2006 vengono distribuiti dividendi per 375 milioni di euro (Sanderson, 2009).
Sempre nel 2006 viene ripetuto il gioco del 2001; gli azionisti hanno deliberato la distribuzione di un dividendo di 1,520 miliardi. Di questi, 170 milioni sono stati pagati mentre il resto è stato convertito di nuovo in un debito subordinato (Radiocor, 2009) che frutta di nuovo interessi attivi per la famiglia.
Si ignora del tutto cosa i Ferrero facciano di tale enorme montagna di denaro. Non si conoscono spese ostentatorie, né investimenti finanziari o aziendali di qualche rilevanza. In ogni caso, nonostante tutte queste importanti distribuzioni di dividendi, la casse della Ferrero International deterrebbero più di 2 miliardi di euro di liquidità (Radiocor, 2009), mentre i debiti verso le banche ammonterebbero a ben poca cosa.
Strategie e promesse
Per quanto riguarda la distribuzione delle vendite della società a livello globale, nel 2009 il 72,2% di esse si concentrava nell’Europa occidentale, il 12,8% in quella dell’est, l’8,6% nel nord e sud America, il 6,4% nel resto del mondo. Così la società è una realtà forte soprattutto nell’Europa occidentale, in particolare in Italia, Francia, Germania, paesi questi dove essa è leader di mercato e dove realizza il 60% delle vendite totali. La sua presenza è invece molto debole in Gran Bretagna, dove controlla una quota di mercato intorno al 3%, così come negli Stati Uniti, il paese più importante del mondo per i prodotti del settore. La società sta facendo ora molti progressi nell’Europa dell’est ed anche in Asia, area quest’ultima dove però le sue quote attuali di mercato sono ancora molto ridotte.
Si pone quindi per il gruppo dirigente il problema se restare una società solo regionale o se puntare invece a diventare un operatore di livello mondiale. La società appare ormai chiaramente orientata in questa seconda direzione, direzione indicata da tutte le analisi come sostanzialmente obbligata.
A tale riguardo essa sta certo aprendo diversi nuovi stabilimenti in nuove aree del mondo, dalla Russia, al Sudafrica, all’India e sta anche diversificando geograficamente l’attività di reperimento delle materie prime alimentari necessarie alle sue produzioni. Ma la crescita interna non basta per poter diventare un protagonista globale del settore in un tempo ragionevolmente breve e così la società potrebbe intraprendere presto un programma di acquisizioni esterne, per le quali le risorse proprie e i fidi bancari non mancherebbero certo.
Il gruppo ama presentarsi in generale come molto sensibile al tema della sostenibilità ambientale delle sue attività e così un piano varato di recente prevede che entro il 2013 le sue emissioni di ossido di carbonio si riducano del 17% rispetto ai livelli del 2007, mentre i suoi consumi di energia dovrebbero diminuire del 19-20%, sempre rispetto al 2007. Si tratta di obiettivi certamente di un certo interesse, anche se comunque non entusiasmanti. Contemporaneamente, peraltro, i gruppi ambientalisti accusano la società di utilizzare, per la produzione della Nutella e di altri suoi prodotti importanti, l’olio di palma, in provenienza in particolare dalla Malesia e dall’Indonesia, dove viene prodotto disboscando selvaggiamente la foresta pluviale.
Testi citati nell’articolo
– Mucchetti M., Ferrero, re del cioccolato e mister 3,4 miliardi, Corriere della sera, 3 dicembre 2004
– Radiocor, Ferrero: in manovra in Lussemburgo, costituita una nuova società, Il Sole 24 ore, 4 dicembre 2009
– Sanderson R., Reclusive Ferrero has the financial wherewithal, www.ft.com, 21 novembre 2009
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Il-segreto-della-Nutella-6325
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Banda larga: ragazzi, mi si è ristretto il tesoro 16.09.2010
Le promesse di connettività italiana sono a secco, i fondi evaporano: degli 800 milioni annunciati ne restano solo 100. A malapena buoni per i distretti industriali e da suddividere su base regionale
Roma – Il Ministero dello Sviluppo economico, ormai vacante da mesi e guidato ad interim dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e, di fatto, dal Viceministro della comunicazioni Paolo Romani, ha reso noto che gli attesi 800 milioni di euro, che sarebbero dovuti servire per dare il via alla riforma infrastrutturale per estendere la diffusione della banda larga in Italia, si sono ridotti a 100.
Bloccati, apparentemente, dal CIPE (Il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica), forse sospesi in attesa di una ripresa economica, per alcuni mai realmente esistiti (ma solo calcolati virtualmente), questi 800 milioni sembravano fin dall’inizio destinati alla decimazione come i 600 cavalieri britannici della battaglia di Balaclava: colpiti a destra e a manca, cannoneggiati dai nemici e chiusi in una strettoia (questa volta digitale) ne sono sopravvissuti pochissimi.
La nuova cifra accompagna la considerazione che la banda larga non rappresenti più una priorità per il governo, e lascia tutti gli osservatori insoddisfatti: sono ritenuti del tutto insufficienti per risolvere il problema del digital divide. Potrebbe addirittura acuirlo potendo agire solo su alcune zone, nello specifico alcuni distretti industriali individuati da Confindustria e dal Ministero e da attribuire su base regionale.
Questi 100 milioni, tra l’altro, sembrerebbero già comprendere i cofinanziamenti delle regioni, cui il ministero vacante ha fatto ideale appello per colmare le mancanze e cui spetterebbero la richiesta e la gestione dei programmi per sviluppare le risorse infrastrutturali nazionali.
A rendere più grave la situazione, il fatto che sembrerebbe non esserci l’asta sulle frequenze lasciate libere a seguito del passaggio al digitale terrestre, che sono state invece in parte destinate dal Ministero dello Sviluppo Economico proprio al gruppo Mediaset per sperimentare nuove soluzioni in HD per la TV tradizionale.
Il tutto confermerebbe le accuse che ad agosto il Presidente dell’Agcom ha lanciato: un grave rischio per l’Italia, che sembra non voler salire sul treno della connessione.
Claudio Tamburino
http://punto-informatico.it/2991670/PI/News/banda-larga-ragazzi-mi-si-ristretto-tesoro.aspx
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Il fotovoltaico che si spruzza 09.2010
Una spruzzata di nano particelle metalliche e l’edificio si trasforma in un generatore di energia. Si tratta di un’ipotesi tutt’altro che avveniristica, se la compagnia norvegese Ensol dichiara che già nel 2016 potrà essere disponibile sul mercato un piccolo dispositivo in grado di stendere una pellicola fotovoltaica sottile e completamente trasparente che potrà catturare i raggi del sole e trasformarli in energia, riuscendo a produrre anche 100 watt per metro quadrato.
La rivoluzionaria pellicola fotovoltaica utilizza nanoparticelle metalliche con un diametro di circa dieci nanometri (molto più sottili di un capello umano) e sarà facilmente applicabile alle superfici piatte senza particolari costi d’installazione e senza essere un elemento estetico di disturbo. Inoltre, essendo assolutamente trasparente, sarà possibile applicarla anche sulle vetrate. Il dispositivo che genera e stende la pellicola è stato messo a punto grazie ad una ricerca realizzata dall’Università britannica di Leicester in collaborazione con la società norvegese. Collaborazione nata in maniera naturale, poiché “la nostra Università – ha spiegato Chris Binns, professore di nanotecnologie all’Università di Leicester – è per ora l’unica al mondo a disporre delle apparecchiature adatte per la realizzazione del materiale progettato dalla EnSol”.
Il professor Binns sostiene anche che, grazie a questo nuovo brevetto, in un futuro prossimo non solo gli edifici tutti interi, ma anche le carrozzerie delle auto saranno in grado di generare energia elettrica dal sole, e che la pellicola potrebbe perfettamente adattarsi agli aerei a “motore solare” attualmente in sviluppo, consentendo loro di poter volare con un’ampia autonomia e, soprattutto, con un impatto ambientale pari a zero.
Dal canto suo, EnSol As afferma che il funzionamento base della pellicola è già stato dimostrato e che gli sviluppatori del progetto stanno ora lavorando sul versante dell’efficienza, con l’obiettivo di renderla pari al 20%.
EnSol As sta ora sviluppando il progetto con l’obiettivo di applicare il processo produttivo su scala industriale e giungere alla commercializzazione entro la fine del 2016. La linea produttiva sarà utilizzata per testare celle fotovoltaiche con un’area attiva fino a 16 centimetri quadrati su substrati di vetro su cui i nanocristalli saranno depositati tramite un processo simile allo spray.
Fonti:
Università di Leicester
EnSol
http://www.scienzaegoverno.org/n/087/087_01.htm
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Con Venturbine l’eolico c’è ma non si vede 09.2010
Dovrebbe arrivare sul mercato nel 2011 Venturbine, la prima soluzione Biwt (building-integrated wind turbine) concepita per preservare l’integrità architettonica degli edifici in città, minimizzando l’impatto estetico e garantendo la necessaria copertura energetica anche con venti bassi. Si tratta di una turbina micro eolica orizzontale, più simile alla ruota di un battello che a una mini turbina eolica tradizionale, che non ha bisogno di pali ma ruota lungo un asse longitudinale, con una dimensione modulare pari alla facciata esposta del palazzo.
Il design della turbina – tre o cinque pale posizionate su tre razze che girano intorno a un asse orizzontale, realizzate interamente in alluminio – puntano non solo a una maggiore integrazione con il tetto, ma anche a sfruttare in modo più efficace il vento, anche quando soffia a basse velocità. La turbina è basata infatti su un principio fisico denominato “effetto parete”, che si verifica quando il flusso d’aria che impatta contro un ostacolo (in questo caso la parete) e subisce una compressione (diminuzione di velocità), torna a espandersi mentre raggiunge la cima dell’ostacolo stesso, aumentando la propria velocità.
L’ideatore di Venturbine, Giovanni Teglia, dopo averne depositato il brevetto ha costituito (assieme a Gianluca Cecchetti e Gabriele Martellucci) Enatek, azienda con sede a Piombino (Livorno), che è al lavoro dal marzo 2009 per la messa a punto della versione finale della turbina, oramai pronta per la produzione e il lancio sul mercato.
È proprio Teglia a spiegare d’essere partito dalla “constatazione che il micro-eolico (impianti di potenza fino a 5 kW, ndr) fosse poco presente in ambito urbano e relegato nelle zone rurali a causa delle caratteristiche estetiche dettate da scelte tecnologiche convenzionali” e di essere giunto ”a ripensare il paradigma tradizionale della tecnologia eolica”. Secondo i suoi calcoli, Venturbine riesce a produrre 1 MWh all’anno e, con vento a una velocità di 10 m/s sottoposto ad accelerazione per effetto parete, la turbina arriva a 1,6 kW di picco”, vale a dire come circa 12 pannelli fotovoltaici.
Rivoluzionarie anche le dimensioni (300 x 150 x 150 cm) che ne permettono il montaggio su qualsiasi tetto, e il peso (circa 180 kg per ogni unità), che minimizza le vibrazioni e le torsioni della struttura di supporto.
“Le nuove normative – spiega il direttore di Enatek Gianluca Cecchetti – richiedono, sin dalla progettazione, che un palazzo o un capannone godano di autonomia energetica. Il fotovoltaico è una tecnologia ormai matura mentre l’eolico non è stato ancora utilizzato sui tetti perché di grandi dimensioni: per avere un minimo di efficienza il palo deve essere alto almeno 5 metri più altri 3 di turbina”. Un totale di 8 metri, su un tetto, per un impatto davvero invasivo. “È bastato ruotare di 90 gradi la turbina – sottolinea – e installarla su due punti d’appoggio anziché uno, riducendo sia l’impatto visivo che le difficoltà tecniche d’installazione e sicurezza”.
“La messa a punto del prodotto – spiega ancora Cecchetti – è in corso da diversi mesi. Grazie alla collaborazione che Enatek ha attivato con due dipartimenti dell’Università di Firenze e con PIN s.c.r.l. di Prato e a un finanziamento ottenuto dalla Regione Toscana, è stato possibile organizzare un progetto di ricerca e sviluppo che ha coinvolto, oltre agli organismi di ricerca, anche altre aziende della nostra regione per la progettazione e sviluppo dei componenti della Venturbine”.
Ora Enatek cerca investitori per dare concretezza al proprio innovativo progetto. E, attraverso Cecchetti avvisa: “Considerato che oggi per simili impianti è prevista una tariffa onnicomprensiva pari a circa 0,30 euro per ogni kWh prodotto, calcoliamo un rientro dell’investimento in circa sette anni”.
Fonte: Enatek
http://www.scienzaegoverno.org/n/087/087_02.htm
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Recepimento della direttiva europea 2008/50/CE relativa alla qualità dell’aria. Colpo basso del Governo che introduce “abusivamente” una norma a tutela degli inquinatori
Il governo “asfissia” milioni di italiani con un decreto legislativo per “un’aria più pulita”
Uno dei più potenti cancerogeni, il benzo(a)pirene, ora può superare il valore massimo di legge (1 ng/m3) senza che scattino provvedimenti obbligatori. Milioni di persone sono oggi esposte a questo cancerogeno che lo IARC (Agenzia Internazionale Ricerca sul Cancro) pone al vertice, in categoria 1, per pericolosità. Il PD dà voto favorevole al decreto del governo tramite Roberto Della Seta, già presidente di Legambiente.
18 settembre 2010 – Alessandro Marescotti
Cosa stavate facendo lo scorso 13 agosto?
Ricordate, non ricordate?
Bene, mentre stavate facendo quelle cose lì, il governo era riunito per approvare un decreto legislativo per recepire la direttiva europea 2008/50/CE relativa alla “qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa”.
Veramente lodevole, direte. Noi al mare o in montagna e loro a faticare per farci respirare un’aria più pulita!
La verità è invece un’altra.
In quella seduta del 13 agosto 2010 Berlusconi, la Prestigiacomo e gli altri ministri emanavano un decreto che sospendeva una importante misura di protezione della popolazione urbana che è quotidianamente minacciata da un cancerogeno molto diffuso ma poco conosciuto: il benzo(a)pirene.
Avete capito bene: invece di riunirsi per darci “un’aria più pulita” (questo è scritto nel titolo della direttiva che dovevano recepire), il governo si riuniva per garantire chi inquina.
Nel decreto infatti ci hanno infilato una norma che, anziché proteggere la salute, sposta al 2013 il divieto di superamento di 1 nanogrammo a metro cubo per il benzo(a)pirene.
Il rischio chimico del benzo(a)pirene è ufficialmente contraddistinto da questo simbolo ufficiale (al link l’immagine del teschio)
Stiamo parlando di un cancerogeno classificato dallo IARC (l’agenzia internazionale di ricerca sul cancro) nella categoria 1, quella di massima pericolosità. E quello che vedete qui accanto – il teschio con sfondo arancione – è il simbolo di rischio chimico che nella letteratura scientifica è associato al benzo(a)pirene.
Ciò significa che il governo ha sospeso fino al 2013 le norme che ci difendevano da una sostanza che gli specialisti hanno classificato come altamente cancerogena.
Come mai ce ne accorgiamo solo ora? Perché è appena il decreto legislativo è stato appena pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale: 15 settembre 2010.
Ma vediamo più da vicino la gravità dell’operazione compiuta dal governo.
Dal 1° gennaio 1999 nei centri urbani con oltre 150 mila abitanti esisteva una normativa che imponeva il non superamento del valore di 1 nanogrammo a metro cubo per il benzo(a)pirene.
Ora non c’è più questo divieto. Scatterà solo a partire dal 2013. E nel frattempo? Possiamo inalare benzo(a)pirene oltre quel valore di legge. Dopo il 31 dicembre 2013 il benzo(a)pirene non dovrebbe superare quel limite, ma se te tecnologie per ridurlo fossero troppo costose, allora possiamo continuare a respirarlo.
Ma perché il governo ha avuto tanta fretta nell’approvare questo decreto?
Perché in un quartiere di Taranto arrivavano i fumi dell’acciaieria Ilva. E lì il benzo(a)pirene superava il valore di legge di 1 nanogrammo a metro cubo.
E così alcune menti raffinate, con ottime cognizioni scientifiche, hanno inserito nel decreto del governo degli articoli che “salvano” l’Ilva di Taranto.
Quel decreto ha così evitato all’Ilva l’adozione di misure di contenimento delle emissioni cancerogene degli idrocarburi policiclici aromatici, una famiglia di componenti fra cui ci sono dei cancerogeni; fra questi il killer di maggior pericolosità è il benzo(a)pirene.
La normativa in vigore dal 1° gennaio 1999 stabiliva che, se l’inquinamento non fosse sceso sotto 1 nanogrammo a metro cubo, era obbligatorio prendere tutti i provvedimenti del caso, dall’adozione delle migliori tecnologie fino alla fermata dell’impianto più cancerogeno: la cokeria.
E così il governo quel 13 agosto 2010 ha “salvato” l’Ilva.
Ma non i suoi operai che respirano benzo(a)pirene in quantitativi che potrebbero superare in cokeria i dieci pacchetti al giorno. Mentre i bambini del quartiere vicino respirano benzo(a)pirene per un’equivalente di mille sigarette all’anno.
Ma quel 13 agosto il governo non ha fatto solo un regalo all’Ilva: ha messo a rischio milioni di persone che prima avevano una norma che le difendeva e ora non ce l’hanno più.
Infatti la precedente normativa (che proteggeva le città con più di 150 mila abitanti) ora è stata sospesa e rimandata al 2013, salvo poi applicarla nel 2013 “solo se possibile” e solo se i costi economici non sono “eccessivi” (mentre ora vigeva il principio dell’obiettivo di qualità da raggiungere “costi quel che costi”).
Ma quello che stupisce di questa operazione è il tempismo del Governo.
Continua qui: http://www.peacelink.it/editoriale/a/32406.html
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e se fosse l’anno della ricerca?
Alessandro Sarti
Franco Berardi
E se questo fosse, finalmente, l’anno della ricerca? L’anno della ricerca di una via d’uscita dal paradigma economicista che sta devastando il pianeta – ma anche, più semplicemente, l’anno in cui i lavoratori della ricerca si ribellano, e organizzano autonomamente il loro sapere. Le due cose probabilmente non sono così diverse. Chi se non i ricercatori può cercare una via che ci conduca fuori dall’inferno?
Riuniti a Roma in assemblea il 17 settembre 2010 i ricercatori italiani hanno deciso il blocco delle attività didattiche. Nelle prossime settimane si deve puntare al blocco generalizzato della scuola e dell’università coinvolgendo gli studenti e il corpo docente. Facciamo per un anno dell’università e della scuola intera un laboratorio di immaginazione del possibile. La società europea ne ha bisogno.
L’anno accademico 2010-2011 va trasformato in un anno di riflessione sulla catastrofe presente e sulle vie d’uscita dalle politiche deflazioniste ed oscurantiste. Un movimento capace di coinvolgere tutte le componenti del mondo universitario sarebbe un’occasione per restituire vitalità alla società italiana ma anche un elemento strategico di ricomposizione dell’intelligenza sociale contro le politiche neoliberiste.
Poco tempo dopo il collasso finanziario della primavera 2000, dopo la crisi delle dotcom e il crollo di giganti tecno-finanziari come Enron e World.com, Christian Marazzi scrisse un articolo sul pericolo della rottamazione del general intellect. Attenzione, diceva Marazzi, il nuovo gruppo dirigente americano bushista rappresenta il ritorno della old economy petrolifera e guerriera al comando del sistema globale. Le cose sono andate proprio così. L’alleanza tra lavoro cognitivo e capitale finanziario, che negli anni ‘90 aveva realizzato la rivoluzione della rete, era rotta. Cominciava l’attacco contro il lavoro cognitivo: impoverimento, precarizzazione, devastazione psichica e sociale. La Carta di Bologna del 1999 sanciva la sottomissione del sapere al profitto, ne faceva principio ispiratore di una nuova organizzazione del sistema universitario.
Quella tendenza oggi appare in pieno dispiegamento: riduzione del finanziamento della ricerca, manipolazione e militarizzazione della ricerca finanziata dallo stato ma sempre più sfruttata dalle imprese private, e parallelo impoverimento e precarizzazione del lavoro cognitivo.
Obiettivo prioritario della classe dirigente europea è la stratificazione e l’asservimento del lavoro cognitivo attraverso l’uso del precariato. In tutta Europa la riproduzione dell’apparato universitario si fonda su una massa enorme di lavoro precario sottopagato o non pagato affatto. Adesso è il momento di fermare questa macchina, è il momento di fare dell’università quello che essa è costitutivamente: un luogo di conoscenza impregiudicata, un luogo di condivisione pubblica dei saperi.
Nei vari paesi europei l’attacco contro il ciclo della ricerca e del lavoro cognitivo segue linee differenti ma convergenti. In Italia si verifica un puro e semplice disinvestimento, un taglio drastico delle risorse per la scuola pubblica e per la ricerca. In altri paesi, ad esempio in Francia il finanziamento alla ricerca viene invece discriminato, per favorire quei progetti di ricerca che si traducono in profitto economico, mentre vengono disincentivati i settori della ricerca che non dipendono in maniera diretta dagli interessi della crescita. Una situazione esemplare è quella che si è sviluppata negli ultimi mesi all’Ecole Polytechnique di Parigi. L’anno scorso Sarkozy ufficializzò lo stanziamento di tredici miliardi di euro per la ricerca (mentre la Gelmini in Italia riduce di otto miliardi il finanziamento per il comparto scuola). I tredici miliardi sono destinati a una generale trasformazione del sistema della ricerca francese. Prima aveva pensato di eliminare il CNRS, che per decenni ha garantito il carattere pubblico della ricerca e la possibilità di accesso ai finanziamenti senza discriminazioni di contenuto. Poi ha invece preferito elargire il finanziamento alla condizione che le disponibilità finanziarie venissero subordinate a un criterio di tipo economico. Solo se la ricerca è utile alla crescita economica può attingere ai fondi del Ministero.
L’idea che “il futuro è la ricerca industriale” non è meno pericolosa di quella puramente e semplicemente devastatrice del governo Berlusconi. Il governo italiano distrugge il sistema della ricerca, e le conseguenze si vedranno ben presto: barbarie e crollo della produzione di saperi.
Il governo francese invece introduce un principio di discriminazione fra i ricercatori sulla base della loro disponibilità a subordinare la loro attività a un obiettivo extra-scientifico, quello del profitto economico. Si instaura così un processo ricorsivo: con delle strategie di governance della ricerca i finanziamenti vengono erogati a quei soggetti che praticano la ricerca della governance.
L’effetto sarà meno deflagrante e rapido di quello italiano, ma nella sostanza l’attacco sarkozysta è più violento e profondo, perché cancella in linea di principio la libertà della ricerca e introduce un criterio di valutazione extra-scientifico (quello della redditività immediata).
Non si tratta di sottigliezze, ma di una questione centrale: la ricerca non può essere sottoposta a nessun criterio discriminante, meno che mai quello della redditività, perché la sua funzione è proprio quella di esplorare vie non esplorate e di rendere possibili alternative concettuali scientifiche e tecnologiche.
La ricerca ha il compito di aprire porte a soluzioni paradigmatiche che permettano di uscire dai vicoli ciechi. I vicoli ciechi si stanno moltiplicando nel pianeta dopo trent’anni di devastazione neoliberista. Solo la ricerca può forse trovare soluzioni tecniche e concettuali che sono inimmaginabili entro il quadro presente. Si pensi alla crisi ambientale provocata dall’ossessione economicista del petrolio e dell’automobile. Il riscaldamento globale, la degradazione degli ecosistemi, il collasso delle metropoli – tutti questi problemi non hanno soluzione entro il campo delle possibilità esistenti e visibili.
La ricerca può trovare soluzioni che entro questo quadro non sono immaginabili, a patto di non dipendere strettamente dagli interessi economici dominanti, e quindi dai paradigmi che essi incarnano.
Si apre qui una questione che ha carattere epistemologico ancor prima che politico. L’autonomia della ricerca non è un principio meramente politico, giuridico, formale. E’ la condizione della sua produttività conoscitiva.
Il pensiero dominante, vuole ridurre la ricerca a elemento di governance della complessità. L’ideologia della governance si fonda sulla naturalizzazione del criterio economico. L’economia pretende di farsi linguaggio universale, mentre essa non è che un sapere fra gli altri. Il ruolo normativo che l’economia ha assunto negli ultimi decenni è del tutto abusivo sul piano epistemico, oltre che devastante sul piano sociale. La ricerca deve esplorare concatenazioni conoscitive tecniche e sociali del tutto irriducibili al principio economico, altrimenti non è più ricerca, ma soltanto gestione tecnica.
La crisi che investe l’Europa prepara un grande sconquasso. Le destre alimentano tendenze populiste, razziste, aggressive. Un movimento della ricerca potrebbe aprire una prospettiva nuova, spostare l’attenzione dalle ossessioni ripetitive verso la scoperta del possibile.
Per questo abbiamo bisogno di tempo e di spazio. Il tempo sia l’anno accademico che sta cominciando. Lo spazio siano le università europee, trasformate in laboratorio di una ricerca senza dogmi.
Pubblicato su Facebook il 19.09.2010
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Svezia, pirati affondati in parlamento 20.09.2010
Poco meno dell’1,4 per cento dei voti. Questo l’esito ormai definitivo delle ultime elezioni parlamentari in terra svedese. Lontana la soglia necessaria del 4 per cento. Ma Falkvinge non mollerà i remi della battaglia
Roma – Solo un miracolo avrebbe potuto accordargli una vittoria, dopo mesi e mesi di sondaggi a tinte fosche. Il Partito Pirata svedese non sarebbe mai riuscito a bissare il clamoroso successo elettorale di appena un anno fa. E infatti nessun miracolo si è palesato agli occhi del leader Rick Falkvinge, che ha così usato le parole più sommesse per commentare un vero e proprio flop.
Poco meno dell’1,4 per cento dei voti. Questo il risultato non ancora definitivo – lo spoglio è attualmente al 95 per cento – che il piratpartiet dovrà digerire, ormai del tutto fuori dai giochi nella corsa al Riksdag, il Parlamento di Svezia. Un risultato ben lontano dalla soglia necessaria del 4 per cento.
Ma soprattutto un esito elettorale distante anni luce da quello che aveva visto trionfare il partito di Falkvinge alle elezioni per il Parlamento d’Europa nel 2009. Allora erano stati conquistati ben due seggi con una percentuale inattesa: 7,1 per cento dei voti. Un risultato certamente maturato a partire dalle attenzioni verso le vicissitudini legali della Baia.
Falkvinge ha infatti sottolineato come una delle cause principali della disfatta sia da imputare alla scarsa attenzione mostrata dall’opinione pubblica verso tutte quelle tematiche tanto care al suo partito. Il leader del piratpartiet ha quindi parlato di un vento mutato, non più a favore della grande nave dei pirati.
Sfuma così uno degli obiettivi in precedenza dichiarati da Falkvinge. Ovvero quell’immunità parlamentare da offrire a Wikileaks e The Pirate Bay una volta preso posto nel Riksdag. “Ogni generazione deve riconquistarsi la propria democrazia – ha sottolineato Falkvinge – Nessuno ha mai detto che sarebbe stato un compito semplice”.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2993846/PI/News/svezia-pirati-affondati-parlamento.aspx
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Nel mirino dei Cds . L’ombra degli speculatori sull’Italia
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** 20.09.2010
Fa un certo effetto vedere «Italy» in cima alla lista dei paesi oggetto di interesse da parte di chi opera e specula in Credit Default Swaps (Cds), i derivati finanziari che dovrebbero fungere da assicurazione contro i fallimenti
Erano diventati noti nel mezzo della crisi greca, quando si temeva il default dei debiti sovrani ellenici. Allora, per garantirsi da questo rischio, un contratto quinquennale Cds sui bond di Atene per un valore di 10 milioni di euro costava a giugno 970 punti, cioè 970.000 euro all’anno. A marzo erano 300 punti. Oggi, dopo il salvataggio europeo della Grecia e la creazione di un fondo speciale d’intervento Eu per 750 miliardi di dollari, un simile Cds sui bond greci si paga ancora quasi 850.000 euro. È come un termometro che si può manomettere alterando la temperatura.
L’ultimo rapporto ufficiale della International swaps and derivatives association (ISDA) indica che sull’Italia vi sono Cds per un valore nozionale di 242, 6 miliardi di dollari. E i punti base del costo sono intorno ai 240. Mentre a marzo 2009 erano 158, saliti già a 220 nel turbolento marzo scorso.
Il secondo paese europeo sulla lista, dopo l’Italia, è la Spagna, con Cds per un valore nozionale di 113 miliardi di dollari. Dai bollettini si può notare che i costi per i Cds sono in costante crescita sia per l’Italia che per la media europea. Dai dati risulta anche che i maggiori operatori ribassisti sul debito italiano sono 4 grandi hedge fund americani, tra cui spicca quello di Soros.
Ricordiamo che nel 1992 il finanziere speculatore George Soros, per sua stessa ammissione, scommise enormi somme sul collasso dell’allora sistema monetario europeo e di alcune monete, tra cui la lira, provocando sia la fine dell’accordo monetario che una gigantesca svalutazione della nostra moneta.
Dai resoconti dell’Isda si evince anche che banche e corporation americane e città e stati degli Usa sono menzionati nella lista per valori paragonabili a quelli di grandi paesi. Contro il pericolo di default della JP Morgan Bank, per esempio, ci sono Cds per 84 miliardi di dollari. Vi sono poi decine di miliardi di Cds sul rischio insolvenza dei residential mortgage-backed securities (Mbs), i famigerati titoli tossici legati ai mutui subprime. Si scopre che i costi dei Cds per la California sono superiori a quelli del Portogallo. Per assicurasi contro l’eventuale collasso dello stato dell’Illinois bisogna pagare più che per l’Irlanda. Assicurare il debito di New York costa più che per l’Italia.
Ciò deve indurre a riflessioni più attente. Siamo certamente in una grave crisi globale che attanaglia tutti, Europa compresa. Non possiamo nascondere il grave problema del debito pubblico europeo, ne tanto meno quello dell’Italia che si avvicina al 120% del Pil. Nondimeno, a differenza dal debito americano, quello europeo e italiano è stato fino ad oggi in gran parte coperto dai risparmi dei cittadini, che comprano Bot o Cct. Il crescente debito pubblico e privato americano, invece, dipende da investitori internazionali, come la Cina, oppure dagli acquisti fatti dalle banche americane con i prestiti concessi dalla stessa Federal Reserve a tasso zero.
Infatti, a livello mondiale oltre il 40% di tutti i titoli in scadenza sono americani. Per immaginare le dimensioni globali si consideri che soltanto il sistema bancario europeo, secondo uno studio della Deutsche Bank, ha titoli di debito in circolazione per circa 5.000 miliardi di euro, di cui più di 1.500 miliardi in scadenza entro il 2012. Ecco perché gli hedge fund americani, legati alle grandi banche, hanno buon gioco a speculare contro l’Europa! Di conseguenza, alzare il rischio Europa inevitabilmente comporta lo spostamento degli investitori verso altri lidi. Quando la coperta è corta, bisogna fare attenzione se qualcuno, di nascosto, la tira dalla sua parte.
Occorre inoltre ricordare che, poiché le operazioni in derivati «nudi» e short (al ribasso) sono a tutt’oggi permesse, gli speculatori possono comprare contratti Cds su titoli che non possiedono, scommettendo sul loro deterioramento finanziario. Facendo salire progressivamente i costi dell’assicurazione contro il fallimento, possono lucrare sulla differenza.
Ecco perché i governi, in primis quelli europei, sulla questione dei titoli di debito, dei Cds e degli hedge fund speculativi non possono essere molli, lenti o peggio accondiscendenti. Ne va della sopravivenza degli stessi stati e del benessere della collettività.
Urge l’immediata entrata in funzione delle nuove recenti autorità europee di vigilanza. Così come impellenti sono le regole su derivati Otc, short selling, hedge fund, e altri rilevanti questioni finanziarie su cui la Commissione Ue è chiamata prossimamente a decidere. Auspichiamo che anche il governo italiano sia più deciso in merito. L’Italia ha il dovere di impegnarsi in sede europea con maggiore convinzione. Procrastinare l’intervento per lasciare le cose come stanno, cioè senza regole, sarebbe un segno di debolezza e un invito agli speculatori ad affondare la lama nel cuore dell’Europa.
*Sottosegretario all’economia nel governo Prodi
** Economista
Articolo pubblicato su ItaliaOggi
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15783
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‘Modernikon’, la scena contemporanea russa in mostra a Torino 20.09.2010
Sono Francesco Bonami e Irene Calderoni i curatori di Modernikon. Arte contemporanea dalla Russia, una mostra che la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo dedica a quanto di più innovativo e interessante avviene nell’ex Unione Sovietica a livello di arte contemporanea. La mostra, in collaborazione con la Fondazione Victoria – The Art of Being Contemporary di Mosca, inaugura una stagione di stretta collaborazione a livello culturale tra Italia e Russia.
Si comincia giovedì 23 settembre con una serie di performances, Andrey Kuzkin, autore dei giganti realizzati con pane e sale, si sospenderà su un’amaca a 6 metri d’altezza in mezzo alle sue sculture. Iced Architects, collettivo di architetti, propone una piattaforma posizionata sulla facciata esterna dell’edificio, per offrire riparo ai senzatetto. Da giovedì fino a sabato gli Iced Architects rimarranno 24/24 nella loro casa. Infine Elena Kovylina, che lavora sul ruolo della donna nella società russa, si trasformerà in una raffinata signora borghese e inviterà il pubblico ad una “merenda incendiata”.
La mostra, che proseguirà fino al al 27 febbraio 2011, partendo dal concetto dell’icona, arriva a delineare un percorso di sospensione e riflessione in cui differenti artisti e modalità espressive vengono a tangere. Per saperne di più, visitate il sito della Fondazione.
http://www.artsblog.it/galleria/modernikon-arte-contemporanea-dalla-russia/
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ONU: che il lavoro debba essere precario e mal pagato è falso! 21.09.2010
Un rapporto dell’ONU contribuisce a far cadere i paradigmi neoliberali, le leggende sulle mano invisibili e il bla bla sulla competitività come bene assoluto.
Vale la pena dare un’occhiata a questo rapporto, fresco di stampa, della UNCTAD, l’agenzia dell’ONU per il commercio e lo sviluppo e che nel titolo delle conclusioni recita: “il bisogno di un riorientamento della macroeconomia globale per la crescita e la creazione di posti di lavoro”. La conclusione è contundente: “è indimostrabile che la disoccupazione dipenda dalla rigidità dei contratti di lavoro e dagli alti stipendi”.
Al contrario, l’ONU consiglia, soprattutto per i paesi sviluppati, una profonda rivalutazione del mercato interno e smettere di sopravvalutare l’importanza dell’export e della riduzione del costo del lavoro.
Cadono tutte le leggende se l’economista Alfredo Calcagno, relatore dell’UNCTAD, parla come José Bové o Vittorio Agnoletto: “il lavoro non è una merce. E’ falso che a riduzione del costo aumenti la domanda”. Non basta: “è venuto il tempo nel quale l’aumento di produttività debba essere destinato non più ad abbassare i costi dell’export ma ad aumentare i salari e la domanda interna. I paesi che nel prossimo futuro andranno meglio saranno quelli che sapranno redistribuire”.
Intanto, nel breve tempo della conferenza nella quale gli uomini più potenti della terra si costerneranno, si ingegneranno, si indigneranno per raggiungere i cosiddetti “obbiettivi del millennio” (quale millennio?) Save the Children ha calcolato che 70.000 bambini moriranno di inedia e malattie curabili.
http://www.gennarocarotenuto.it/13898-onu-che-il-lavoro-debba-essere-precario-e-mal-pagato-falso/
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Dalla newsletter di http://www.caffeeuropa.it/ del 21.09.2010
Le aperture
IL Corriere della Sera: “Scontro finale, Profumo verso l’uscita. Il banchiere sotto assedio per le quote dei libci. ‘Vogliono mandarmi via, dopo 15 anni mi trattano così’. Pressing per le dimissioni: oggi consiglio straordinario di Unicredit”. A centro pagina: “Richiamo di Napolitano su Roma: ‘Unica capitale, basta ombre. Il segnale del Colle alla Lega nell’anniversario di Porta Pia”. L’editoriale del quotidiano milanese è firmato da Maurizio Ferrera, ed è una analisi della situazione in Svezia, dove avanza il partito di estrema destra anti-immigrati: “La sindrome di Stoccolma”, il titolo. In evidenza in prima pagina anche il vertice Onu sugli obiettivi del Millennio (abbattimento della povertà, innanzitutto): “Sarkozy vuole tassare le transazioni finanziarie”. “Ma l’Onu è sempre più irrilevante”, è il titolo del commento di Massimo Gaggi.
Il Foglio: “Al summit sulla povertà Sarkozy canta più forte degli U2, contro le banche. ‘Tassare la finanza’. L’obiettivo di dimezzare l’indigenza entro il 2015 è (quasi) realistico, ma il presidente francese non s’accontenta”. Di spalla il quotidiano di Ferrara si occupa della maggioranza: “L’autosufficienza non basta. Così il Cav inaugura la strategia dei sostituti contro Fini, Udc e Mpa. Pronta la scissione centrista, ma Casini minaccia sul conflitto di interessi e medita ritorsioni sulla giustizia. Il voto segreto su Cosentino”. In prima anche le notizie su Unicredit: “Le ultime sfide di Profumo nel tumulto degli azionisti. Oggi il Cda straordinario. Le ire di Rampl e il ruolo di Cariverona”.
Il Sole 24 Ore: “Profumo, è il giorno più lungo. Oggi un cda straordinario sui rapporti tra il board e i vertici dell’istituto: in caso di dimissioni voci di deleghe a Rampl. Consiglio Unicredit diviso, il forcing dei soci, il ceo chiede la fiducia”. Il titolo dell’editoriale, firmato da Orazio Carabini, è: “Il richiamo della foresta clientelare”.
La Repubblica: “Guerra a Unicredit: ‘Via Profumo’. Oggi il Cda straordinario della banca, il top manager verso l’addio. Dopo la polemica sui libici resa dei conti. Fondazioni e tedeschi guidano l’assalto. Tremonti cerca una soluzione unitaria”. In prima anche la foto di Giorgio Napolitano insieme al cardinale Bertone: “Napolitano: Roma unica capitale. I 140 anni di Porta Pia”. Da segnalare in prima pagina anche un articolo di Giuseppe D’Avanzo dedicato a Berlusconi. “Cavaliere, ci dice se la legge è uguale per tutti”.
La Stampa: “Napolitano: solo Roma è capitale. Il voto sulle intercetteazioni per Cosentino mette alla prova la tregua Pdl-finiani. La Camera taglia gli uffici ai deputati. Il Capo dello Stato a Porta Pia: nessuna ombra sull’unità nazionale”. A centro pagina una grande foto di Sarkozy con Carla Bruni ed Angela Merkel: “Sarkozy: Una tassa mondiale sulle transazioni. Vertice sulla povertà: il presidente francese fa pace con la Merkel dopo lo scontro sui rom”. In prima anche la vicenda Unicredit: “Profumo a un passo dall’addio, resa dei conti in Cda. Azionisti in rivolta per il caso Libia”.
Il Riformista: “Ribaltone alla siciliana”. “Oggi presentata la nuova giunta”. Il quotidiano titola ricordando che oggi pomeriggio nasce il Lombardo quater. Lo appoggia una maggioranza inedita, che va dall’MPA guidato dallo stesso Lombardo agli uomini dell’Udc fedeli a Casini, i finiani, i rutelliani, il Pd. All’opposizione gli uomini di Mannino e Cuffaro, quelli legati a Gianfranco Micciché, i berlusconiani vicini ad Alfano e Schifani. A centro pagina titoli per Unicredit: “Profumo, la resa dei conti”, con un editoriale in cui si sottolinea come i libici siano alleati sui mari ma nemici sui capitali.
Libero: “Tira aria di inciucio. Silvio al bivio. Senza i finiani, al OPdl manca la maggioranza nelle commissioni parlamentari chiave. Se il voto di fiducia non sapzzerà il Fli, si cercherà un accordo”.
Il Giornale: “Liberateci dai medici pugili. A Messina un altro neonato in coma per colpa di dottori che litigano su come deve venire al mondo. In Sicilia è successo tre volte in pochi giorni. E’ troppo chiedere che, oltre a spartirsi la poltrona, i dirigenti caccino i boxeur?”. A centro pagina: “Gheddafi ‘licenzia’ Profumo. Salto nel buoi per la prima banca italiana. Il capo di Unicredit oggi si dimette dopo lo scontro con i soci sui libici”.
Unicredit
La Stampa offre uno specchietto illustrativo sui soci Unicredit group: Libyan investment authority (2,59), Central Bank of Lybia (4,98) Fondo Abaar (4,99) Blackrock (4,02), Alliance (2,04). Per le fondazioni: Cariverona (4,63), Cassa di Risparmio di Torino (3,31) Carimonte (3,04) Cassamarca (0,8). I privati: famiglia Pesenti (0,5), famiglia Maramotti (1,1). Per La Stampa Profumo aveva innanzi a sé un fronte politico a tre teste: il primo, quello con la Lega, si è aperto il giorno dopo la vittoria del centrodestra con l’ideologia della banca del territorio. Il secondo, quello con Tremonti che, malgrado un recente riavvicinamento, sarebbe intenzionato a imporre la successione di un “italiano con ottimi rapporti con gli Usa”; il terzo, più che Berlusconi, i berluscones, quella corte revanscista che a Profumo non avrebbe mai perdonato l’essersi messo in fila, a suo tempo, per votare alle primarie del Pd. Ma secondo un altro retroscena dello stesso quotidiano, in nome della stabilità del sistema bancario, a non spingere per una uscita di Profumo sarebbero lo stesso Tremonti e Geronzi.
Anche secondo il Corriere della Sera “Tremonti tenta la difesa” dell’Ad. Anche il Corriere descrive “l’amarezza” del banchiere, che lamenta l’incomprensione delle Fondazioni, timorose di venire scalzate dai fondi del governo libico.
La Stampa parla anche Pdel rapporto da tempo logorato tra l’Amministratore delegato di Unicredit Profumo e quelli che erano i suoi azionisti di riferimento, ovvero il mondo delle Fondazioni del Nord: da Verona a Torino, passando per gli emiliani di Carimonte e i trevigiani di Cassamarca. Le ragioni vengono descritte così: finché fai quello che vuoi, e paghi robusti dividendi, va bene. Ma se continui a fare quello che vuoi e i dividendi non li paghi più, ma chiedi i soldi agli azionisti sotto forma di aumenti di capitale, allora quelli si arrabbiano.
Il Sole 24 Ore scrive che gli azionisti tedeschi hanno criticato la mancanza di comunicazione sul caso Libia, temono una riduzione del proprio peso nel gruppo e anche l’eccessiva internazionalizzazione dell’istituto. Con il sospetto che gli investitori libici siano un’arma di Profumo contro gli altri azionisti. Secondo la ricostruzione della stampa tedesca, il presidente Dieter Rampl non avrebbe gradito apprendere dai giornali l’arrivo nel capitale della banca dei soci libici, ormai al 7,6 per cento. Da Tripoli invece sottolineano che il presidente Rampl sapeva perché informato dal governatore della Banca centrale libica, Bengdara, che in Unicredit ricopre la carica di vicepresidente.
Massimo Giannini su La Repubblica descrive il percorso di Profumo: “Da Geronzi ai re delle Fondazioni, i nemici dell’ultimo dei Mohicani”. Per Giannini è “l’ultimo banchiere che, nell’italietta dei conflitti di interesse e del capitalismo di relazione, ha almeno provato a gestire la sua azienda con le logiche di mercato, compiendo svolte non ortodosse che l’hanno proiettato fuori dai confini asfittici dell’orticello domestico”. La Libia “è solo un’alibi”, perché la trama è completamente diversa: a colpire Profumo sono le fondazioni delle Casse del nord, il presidente e i soci tedeschi e italiani che, dentro il Cda, seguono il presidente stesso. I congiurati sono il numero 1 della Fondazione Caritorino Palenzona, il numero 1 della Fondazione Cariverona Biasi, il presidente di Unicredit Rampl, i rappresentanti dell’Alliance e – probabilmente – quelli di Mediobanca. E alcuni di questi hanno un mandante, che è politico: “Palenzona è pedina strategica nella filiera Luigi Bisignani-Cesare Geronzi-Gianni Letta, che da mesi si muove per blindare il sistema dei poteri economici e finanziari intorno al presidente del Consiglio. Biasi è il nuovo pivot creditizio della Lega.
Sulla prima del Sole 24 Ore Orazio Carabini firma un editoriale dal titolo “Il richiamo della foresta clientelare”: “Profumo sta combattendo una guerra di indipendenza. Se perde, questo conflitto potrebbe avere un esito preoccupante, con lapolitica a tentare subito di riconquistare zone franche di potere nel sistema bancario italiano”.
Anche l’editoriale del Corriere della Sera, di Massimo Mucchetti, giunge alla stessa conclusione: “La rumorosa ripresa della politica nelle Fondazioni autorizza più di un timore e non appare agli occhi dei mercati internazionali, così diffidenti nei nostri confronti, una delle pagine migliori della più recente storia bancaria”:
Pd etc
Su Il Riformista, rubricato sotto il titolo “grafomania”, si parla di Walter Veltroni, ricordando come abbia scritto anche a La Repubblica per smentire l’intenzione di candidarsi alla premiership. Il titolo: “Veltroni vuole bruciare Bersani alle primarie”. Secondo Il Riformista, “travolto dalle critiche”, Veltroni “fa un passo indietro e studia una nuova tattica: se si vota in tempi rapidi, la nuova corrente sosterrà Pierluigi, nella speranza che sia il voto anticipato a toglierlo di mezzo”.
La Stampa scrive che “i dalemiani premono per far pagare subito il conto a Veltroni”. Secondo il quotidiano Bersani avrebbe di fronte un dilemma: far votare la sua relazione dalla direzione del partito giovedì oppure no. Nel primo caso i duecento membri della direzione darebbero la fotografia di una maggioranza schiacciante a favore del segretario. E sarebbe questa la linea dei dalemiani, “per fare chiarezza”. Il voto in direzione sancirebbe così la rottura con il movimento.
La Repubblica sottolinea come gli ex PPI del Pd siano spaccati.
Nel dibattito sul Pd e sulla rissa interna oggi interviene Nadia Urbinati su La Repubblica: “Quel coraggio che manca al Pd”.
Svezia
Torna sulle elezioni svedesi, sulla prima pagina del Corriere della Sera, Maurizio Ferrera. La consultazione oltrepassa i confini nazionali, “non si tratta solo di un piccolo terremoto politico, ma della crisi di un intero ‘modello sociale’, per molti aspetti unico al mondo, un modello capace di combinare in modo virtuoso crescita economica e welfare, difesa delle tradizioni nazionali e apertura verso l’esterno”. Il principale artefice del modello è stato il partito socialdemocratico. La crisi non è di natura economica, poiché “la Svezia resta la prima della classe in Europa”. A scardinare il modello è stata soprattutto l’immigrazione, poiché “a torto o a ragione, nell’ultimo decennio si è diffusa la paura di un assalto alla casa e al tesoro comuni da parte di persone ‘diverse’ in termini di cultura, costumi, etica civica. Oggi un terzo della popolazione svedese è costituito da immigrati di prima o seconda generazione”. Per Ferrera i governi politici europei, soprattutto quelli di ispirazione socialdemocratica, farebbero bene a riflettere seriamente sui fattori che hanno prodotto una “sindrome di Stoccolma”: “Flussi immigratori troppo intensi e senza filtri, la mancata integrazione degli stranieri (in particolare quelli di seconda generazione), la formazione di enormi ghetti islamici alla periferia della metropoli, i problemi della sicurezza pubblica”.
E poi
La Stampa intervista David Petraeus, a capo delle forze Nato e Usa in Afghanistan, che parla a lungo anche del contributo italiano e che riconosce come i nostri addestratori siano tra i migliori della missione. Sulle elezioni afghane della Camera bassa di sabato scorso dà per scontato che ci saranno denunce e ricorsi per irregolarità, ma sottolinea che la Commissione elettorale ha fatto un lavoro migliore rispetto allo scorso anno.
Il Sole 24 Ore si occupa ampiamente del tentativo di riconciliazione avviato da Karzai con i talebani. Il quotidiano intervista un consigliere del Presidente, che dice: “L’Isi (i servizi segreti pakistani) è ancora oggi la più grande fonte di supporto dei talebani. Se la coalizione Nato sigillasse il confine con il Pakistan, arriveremmo a un accordo di pace con i talebani afghani in sei mesi. L’opera però non è facile, i russi ci provarono con 50 mila soldati. Quali le condizioni poste dai talebani? Spiega il consigliere: “Chiedono posti di lavoro, infrastrutture, e l’accesso dei loro uomini nell’esercito e nella polizia. Infine, la liberazione dei prigionieri, anche di quelli detenuti nelle carceri americane. In linea di principio siamo favorevoli, ma c’è un altro problema: il governo afghano è diviso, quasi tutti i membri provenienti dall’Alleanza del nord, tagiki, uzbeki e hazara, sono contrari al dialogo”. Estenuante e quasi impossibile appare invece, nell’analisi di Alberto Negri sullo stesso quotidiano, l’impresa afghana. Anche perché la guerra, sia pur a bassa intensità, deve continuare: “il bottino sono i soldi che arrivano dalla macchina bellica occidentale e dagli aiuti alla ricostruzione”. Il ritiro delle forze Usa nel 2014, in questo quadro, appare prematuro.
Sergio Rizzo sul Corriere della Sera sottolinea che con le nuove regole del federalismo quattro governatori sarebbero ineleggibili, poiché i presidenti di regione che non presenteranno sei mesi prima della scadenza i conti della sanità “certificati” non possono ricandidarsi.
Paolo Mieli, alle pagine della cultura, parla del Piano Solo, il tentativo di colpo di Stato del generale De Lorenzo del 1964. Fu “una manovra sopravvalutata”, a cui gli Usa erano contrari. Mieli ne parla in occasione della prossima uscita di un libro di Mimmo Franzinelli dedicato alla vicenda.
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È morta Sandra Mondani 21.09.2010
MILANO – Sandra Mondaini è morta questa mattina, poco prima delle 13, all’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverata da circa 10 giorni. Aveva 79 anni: era nata l’1 settembre del 1931. Era malata da tempo e il suo stato di salute aveva subito un grave colpo dopo la perdita del marito, Raimondo Vianello 1, morto lo scorso 15 aprile.
L’attrice da anni soffriva di una serie di patologie, compresa una malattia che le provocava forti dolori e la costringeva a muoversi su una sedia a rotelle. Nonostante tutto, però, Sandra aveva assistito il marito fino all’ultimo momento. Le sue condizioni di salute erano apparse in tutta la loro drammaticità al funerale di Raimondo, era stravolta, con una vistosa benda bianca su un occhio e la voce rotta dalla disperazione. Al punto che alcuni giorni dopo era stata ricoverata nella Casa di cura San Rossore a Pisa. Ma dopo era voluta tornare a casa, alle cure dei domestici filippini, che con Raimondo aveva adottato e che con i loro figli Gianmarco e Raymond sono la sua famiglia.
http://www.repubblica.it/persone/2010/09/21/news/sandra_mondaini-7282813/
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Interesting…